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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 58 del 2020, proposto da Em. Am., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Seconda n. 667/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Sergio Zeuli Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante per l'annullamento dell'ordinanza n. 19 del 18 settembre 2014 con cui il comune di (omissis) ha disposto la sospensione dell'autorizzazione rilasciatale di noleggio vettura con conducente - NCC. La parte deduce i seguenti motivi di appello avverso la decisione: I)Errore in iudicando. Errata applicazione e interpretazione della legge 21/1992, in particolare 3 e 11, motivazione apparente, errata e/o contraddittoria, mancata e/o errata valutazione dei fatti di causa. II) Mancato pronuncia sul primo motivo di ricorso proposto in primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di ncc del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), genericità delle contestazioni, difetto di istruttoria, errata valutazione dei presupposti, mancata valutazione delle giustificazione, difetto di motivazione, motivazione apparente, violazione del principio di corrispondenza fra contestazione e sanzione, contraddittorietà, violazione degli autovincoli (art. 29 del regolamento comunale servizi ncc) eccesso di potere, illegittimità degli atti impugnati." III) Mancata pronuncia sul II motivo di ricorso di primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale dei servizi di NCC del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), illegittimità degli atti impugnati." IV) Richiesta di risarcimento danni. 2. Si è costituito in giudizio il comune di (omissis), contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. Come detto in premessa, la parte appellante era in possesso di autorizzazione per lo svolgimento del servizio di noleggio auto, rilasciatagli dal comune di (omissis) che aveva ritenuto di ricorrere a questi provvedimenti per sopperire alla carenza del servizio di trasporto nel suo territorio e, più in generale, nella zona della (omissis). La sospensione della parte appellante è stata disposta proprio adducendo quale ragione che, nonostante la sua autorizzazione fosse stata rilasciata al fine di migliorare il servizio di trasporto nell'area, risultava che il licenziatario non aveva svolto alcun servizio di trasporto e/o di noleggio auto con conducente, in detto comune, che non aveva mai condotto passeggeri in partenza da, o in arrivo in quel territorio; che, in sostanza, aveva svolto le sue prestazioni professionali in a servizio di utenti e di aree che non avevano alcun collegamento con il comune che le aveva rilasciato la licenza. Di conseguenza, stante la mancanza di qualsivoglia collegamento territoriale tra la sua attività ed il suddetto territorio, è stata contestata alla parte la violazione di quanto previsto dagli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso ritenendo che fossero fondate le ragioni poste a fondamento del provvedimento di sospensione. 4. Il motivo di appello deduce l'erroneità della decisione che avrebbe sottovalutato l'efficacia territoriale extra-comunale che era implicita nel provvedimento di autorizzazione di cui si parla. 4.1. Il motivo è infondato. Gli articoli 3 e 11 della L. 21 del 1992 - che regolano la disciplina de qua - contengono, in modo inconfutabile, il principio cd. di afferenza territoriale del servizio di noleggio con autista di un veicolo. Ed infatti entrambe sottolineano la necessità che vi sia un perdurante collegamento tra la prestazione resa e l'area territoriale di riferimento il cui ente esponenziale ha rilasciato l'autorizzazione. In particolare, la prima delle due disposizioni citate prevede che il servizio di noleggio sia rivolto all'utenza specifica esistente presso la sede del vettore, che, nel nostro caso, è evidentemente il comune appellato. La seconda, al comma 2, ancor più inequivocabilmente, stabilisce espressamente che prelevamento dell'utente o inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza. Nel caso di specie, il detto collegamento era anche materialmente rappresentato dall'esistenza di uno stazionamento, messo a disposizione dei licenziatari da parte dell'ente locale, che aveva destinato a costoro un'apposita area all'interno del territorio comunale e che non risulta essere stata mai utilizzata da nessuno dei licenziatari, tra essi compresa l'attuale parte appellante. Stando così le cose in diritto, la rivendicata efficacia extra-comunale dell'autorizzazione è del tutto irrilevante. E' infatti ovvio che un servizio di trasporto passeggeri, dipendendo dalla richiesta del cliente/trasportato, non possa e non debba avere aprioristici limiti di efficacia, ma ciò non toglie la necessità del ridetto collegamento territoriale che deve sussistere o in partenza, o in arrivo, pena la totale pretermissione dell'interesse pubblico che rappresenta il fondamento attributivo del potere autorizzatorio. Se così non fosse, a parte il frontale contrasto con le disposizioni appena ricordate, non sarebbe spiegabile perché detta autorizzazione possa essere rilasciata dal comune, ossia da un ente espressione di autonomia locale. Infatti la relativa competenza sarebbe stata piuttosto attribuita ad un organo periferico dell'amministrazione statale, meno connesso, da tutti i punti di vista, al territorio in cui opera. D'altro canto poiché è incontestato che - come accertato dalle verifiche disposte tramite i carabinieri e la polizia municipale - la parte appellante non abbia rispettato la predetta prescrizione, si devono ritenere legittimi i provvedimenti impugnati, che, anche in applicazione di quanto previsto dall'articolo 25 del regolamento comunale, hanno disposto la sospensione dell'autorizzazione. 5. Il secondo e terzo motivo d'appello - che possono essere congiuntamente trattati - denuncia, sotto diverse prospettive, l'esistenza di illegittimità procedimentali e sostanziali nei provvedimenti impugnati. La parte appellante contesta altresì il difetto di proporzionalità tra la sanzione irrogata ed il fatto contestato, oltre che la violazione dell'art. 23 del regolamento comunale in materia. 5.1. Entrambi i motivi sono infondati. Il provvedimento di sospensione è stato infatti preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento all'interessato che ha dunque potuto partecipare al procedimento ed è congruamente motivato, indicando le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione. Infine la sanzione impugnata è proporzionata al fatto e funzionale ad una corretta cura dell'interesse pubblico causa attributiva del potere, che consiste, come detto, nel miglioramento del trasporto pubblico in ambito comunale. Si tratta invero di una sospensione, per lo più disposta per soli quindici giorni, che ha valore di monito. 5.2. Quanto alla violazione dell'art. 23 del regolamento comunale - che avrebbe permesso, nel caso di siffatta tipologia di violazioni, la sola diffida e non la sospensione dell'autorizzazione - si osserva che, come si evince dallo stesso provvedimento impugnato, la parte aveva già ricevuto una prima diffida, alla quale non aveva ottemperato, dunque si giustifica il ricorso ad una misura più severa che si fonda sull'articolo 25 di detto regolamento, puntualmente richiamato dall'atto impugnato. 5.3. Quanto alla consistenza degli addebiti, a fronte delle generiche proteste della parte appellante, fanno fede quelli emergenti dalle ricordate verifiche di polizia e carabinieri, che palesano l'inadempimento degli obblighi connessi al collegamento territoriale. 6. Stante l'accertata legittimità del provvedimento impugnato, va ritenuta parimenti infondata la domanda di risarcimento formulata dalla parte. 7. Conclusivamente l'appello va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, che si liquidano in complessivi euro 3000,00 (eurotremila,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio celebrata da remoto del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 59 del 2020, proposto da Um. Do., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Seconda n. 666/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Sergio Zeuli Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante per l'annullamento dell'ordinanza n. 42 del 24 settembre del 2014 con cui il comune di (omissis) ha disposto la sospensione dell'autorizzazione rilasciatale di noleggio vettura con conducente - NCC - n. 10/2008 per quindici giorni. La parte deduce i seguenti motivi di appello avverso la decisione: I)Errore in iudicando. Errata applicazione e interpretazione della legge 21/1992, in particolare 3 e 11, motivazione apparente, errata e/o contraddittoria, mancata e/o errata valutazione dei fatti di causa. II) Mancato pronuncia sul primo motivo di ricorso proposto in primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di ncc del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), genericità delle contestazioni, difetto di istruttoria, errata valutazione dei presupposti, mancata valutazione delle giustificazione, difetto di motivazione, motivazione apparente, violazione del principio di corrispondenza fra contestazione e sanzione, contraddittorietà, violazione degli autovincoli (art. 29 del regolamento comunale servizi ncc) eccesso di potere, illegittimità degli atti impugnati." III) Mancata pronuncia sul II motivo di ricorso di primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di NCC del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), illegittimità degli atti impugnati." IV) Richiesta di risarcimento danni. 2. Si è costituito in giudizio il comune di (omissis), contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. Come detto in premessa, la parte appellante era in possesso di autorizzazione per lo svolgimento del servizio di noleggio auto, rilasciatagli dal comune di (omissis) che aveva ritenuto di ricorrere a questi provvedimenti, rilasciati anche ad altri richiedenti, per sopperire alla carenza del servizio di trasporto nel suo territorio e, più in generale, nella zona della (omissis). La sospensione della parte appellante è stata disposta proprio adducendo quale ragione che, nonostante la sua autorizzazione fosse stata rilasciata al fine di migliorare il servizio di trasporto nell'area, risultava che il licenziatario non aveva svolto alcun servizio di trasporto e/o di noleggio auto con conducente, in detto comune, che non aveva mai condotto passeggeri in partenza da, o in arrivo in quel territorio; che, in sostanza, aveva svolto le sue prestazioni professionali in a servizio di utenti e di aree che non avevano alcun collegamento con il comune che le aveva rilasciato la licenza. Di conseguenza, stante la mancanza di qualsivoglia collegamento territoriale tra la sua attività ed il suddetto territorio, è stata contestata alla parte la violazione di quanto previsto dagli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso ritenendo che fossero fondate le ragioni poste a fondamento del provvedimento di sospensione. 4. Il motivo di appello deduce l'erroneità della decisione che avrebbe sottovalutato l'efficacia territoriale extra-comunale che era implicita nel provvedimento di autorizzazione di cui si parla. 4.1. Il motivo è infondato. Gli articoli 3 e 11 della L. 21 del 1992 - che regolano la disciplina de qua - contengono, in modo inconfutabile, il principio cd. di afferenza territoriale del servizio di noleggio con autista di un veicolo. Ed infatti entrambe sottolineano la necessità che vi sia un perdurante collegamento tra la prestazione resa e l'area territoriale di riferimento il cui ente esponenziale ha rilasciato l'autorizzazione. In particolare, la prima delle due disposizioni citate prevede che il servizio di noleggio sia rivolto all'utenza specifica esistente presso la sede del vettore, che, nel nostro caso, è evidentemente il comune appellato. La seconda, al comma 2, ancor più inequivocabilmente, stabilisce espressamente che prelevamento dell'utente o inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza. Nel caso di specie, il detto collegamento era anche materialmente rappresentato dall'esistenza di uno stazionamento, messo a disposizione dei licenziatari da parte dell'ente locale, che aveva destinato a costoro un'apposita area all'interno del territorio comunale e che non risulta essere stata mai utilizzata da nessuno dei licenziatari, tra essi compresa l'attuale parte appellante. Stando così le cose in diritto, la rivendicata efficacia extra-comunale dell'autorizzazione è del tutto irrilevante. E' infatti ovvio che un servizio di trasporto passeggeri, dipendendo dalla richiesta del cliente/trasportato, non possa e non debba avere aprioristici limiti di efficacia, ma ciò non toglie la necessità del ridetto collegamento territoriale che deve sussistere o in partenza, o in arrivo, del servizio di trasporto, pena la totale pretermissione dell'interesse pubblico che rappresenta il fondamento attributivo del potere autorizzatorio. Se così non fosse, a parte il frontale contrasto con le disposizioni appena ricordate, non sarebbe spiegabile perché detta autorizzazione possa essere rilasciata dal comune, ossia da un ente espressione di autonomia locale. Infatti la relativa competenza sarebbe stata piuttosto attribuita ad un organo periferico dell'amministrazione statale, meno connesso, da tutti i punti di vista, al territorio in cui opera. D'altro canto poiché è incontestato che - come accertato dalle verifiche disposte tramite i carabinieri e la polizia municipale - la parte appellante non abbia rispettato la predetta prescrizione, si devono ritenere legittimi i provvedimenti impugnati, che, anche in applicazione di quanto previsto dall'articolo 25 del regolamento comunale, hanno disposto la sospensione dell'autorizzazione. 5. Il secondo e terzo motivo d'appello - che possono essere congiuntamente trattati - denuncia, sotto diverse prospettive, l'esistenza di illegittimità procedimentali e sostanziali nei provedimenti impugnati. La parte appellante contesta altresì il difetto di proporzionalità tra la sanzione irrogata ed il fatto contestato, oltre che la violazione dell'art. 23 del regolamento comunale in materia. 5.1. Entrambi i motivi sono infondati. Il provvedimento di sospensione è stato infatti preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento all'interessato che ha dunque potuto partecipare al procedimento ed è congruamente motivato, indicando le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione. Infine la sanzione impugnata è proporzionata al fatto e funzionale ad una corretta cura dell'interesse pubblico causa attributiva del potere, che consiste, come detto, nel miglioramento del trasporto pubblico in ambito comunale. Si tratta invero di una sospensione, per lo più disposta per soli quindici giorni, che ha valore di monito. 5.2. Quanto alla violazione dell'art. 23 del regolamento comunale - che avrebbe permesso, nel caso di siffatta tipologia di violazioni, la sola diffida e non la sospensione dell'autorizzazione - si osserva che, come si evince dallo stesso provvedimento impugnato, la parte aveva già ricevuto una prima diffida, alla quale non aveva ottemperato, dunque si giustifica il ricorso ad una misura più severa che si fonda sull'articolo 25 di detto regolamento, puntualmente richiamato dall'atto impugnato. 5.3. Quanto alla consistenza degli addebiti, a fronte delle generiche proteste della parte appellante, fanno fede quelli emergenti dalle ricordate verifiche di polizia e carabinieri, che palesano l'inadempimento degli obblighi connessi al collegamento territoriale. 6. Stante l'accertata legittimità del provvedimento impugnato, va ritenuta parimenti infondata la domanda di risarcimento formulata dalla parte. 7. Conclusivamente l'appello va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, che si liquidano in complessivi euro 3000,00 (eurotremila,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio celebrata da remoto del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere Dott. DI GIURO Gaetano - Consigliere-Rel. Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: El.Mu. (CUI Omissis) nato il (Omissis); Da.Se. (CUI Omissis) nato il (Omissis) avverso la sentenza del 24 gennaio 2023 della Corte Appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Di Giuro Gaetano; il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Cocomello Assunta, con requisitoria scritta, ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; i difensori, avv. Ca.Fr. per Da.Se. e avv. Vi.Ac. per El.Mu. hanno chiesto, con memorie di replica, l'annullamento della sentenza. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza in data 4 marzo 2022 del Tribunale di Trieste, con cui è stata dichiarata la responsabilità, per quanto di interesse in questa sede, di El.Mu. e Da.Se. in ordine ad un delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in concorso, aggravato dal numero di migranti favoriti (otto, provenienti dal B), dall'esposizione a pericolo della vita o quantomeno dell'incolumità degli stessi nel corso della fuga (invero, il furgone che li trasportava finiva contro un albero), dall'avere commesso il reato in almeno tre persone e dall'avere agito al fine di profitto, e, concesse le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva e tenuto conto della diminuente per il rito, entrambi sono stati condannati ad anni 4 di reclusione ed Euro 100.000 di multa ciascuno. La sentenza di appello evidenzia che dagli atti contenuti nel fascicolo del P.m., tutti utilizzabili avendo gli imputati optato per il rito abbreviato, emerge che: - Da.Se. e Re.Ar. (coimputato non ricorrente) il 28 febbraio 2021 giungevano a T provenendo da G con la Volkswagen Passat di proprietà del fratello del primo, che aveva rilasciato al secondo l'autorizzazione a condurla anche all'estero, e, poco dopo essere arrivati, si recavano a Lubiana dove prendevano a noleggio un furgone Fiat Ducato, riportando il 2 marzo 2021 entrambi i veicoli in I e precisamente a T; - su segnalazione della polizia slovena (che evidenziava che il suddetto furgone era stato noleggiato a Lubiana da un pregiudicato che abitualmente noleggiava veicoli a gruppi criminali dediti al trasporto di clandestini) le forze dell'ordine italiane iniziavano a monitorare gli spostamenti dei veicoli, installando altresì sugli stessi sistemi di localizzazione satellitare; - il 3 marzo successivo Da.Se. e Re.Ar., a bordo della Passat, si incontravano a Piazza (Omissis) di T con El.Mu., a bordo di una Focus, e questi ripartiva a bordo della Passat mentre gli altri due salivano sulla Focus e, dopo una sosta da un affittacamere, si dirigevano presso il centro Lanza ove era parcheggiato il furgone noleggiato; - dopo un breve colloquio i veicoli ripartivano e la Passat condotta da El.Mu. si dirigeva oltreconfine verso il centro di S, per, poi, rientrare in territorio italiano, accompagnato da un soggetto sconosciuto, recandosi di nuovo presso il centro Lanza; - quindi, sempre il 3 marzo, dopo le ore 11.00, il furgone Fiat Ducato, guidato dallo sconosciuto che El.Mu. aveva portato con sé dalla S, si recava in S giungendo quasi al confine con la C, nei pressi della località D, dove sostava per una decina di minuti in una zona boschiva; - successivamente, lo stesso giorno, la Passat guidata da El.Mu. si recava, anch'essa in S, partendo dal centro L, e giungeva nel primo pomeriggio in località L, dove veniva raggiunta dal furgone Fiat Ducato; - da L i due veicoli facevano rientro in I, dove entravano verso le 16.00; - nel viaggio di ritorno la Passat, sempre guidata da El.Mu., procedeva con funzioni di staffetta da L fino a F in I, dove giungeva alle 16.05, seguendola da vicino il suddetto furgone; - i veicoli, poi, si separavano, venendo fermata successivamente la Passat a P con alla guida El.Mu.; - il furgone veniva inseguito dalla polizia fino a quando giunto a R andava a sbattere contro una palma sita in un giardino; - l'ignoto conducente del furgone, non appena il veicolo impattava contro la pianta, si dava alla fuga, lasciando a bordo dello stesso otto clandestini del B; - poco dopo veniva rintracciata e fermata l'auto Focus a bordo della quale erano rinvenuti Da.Se. e Re.Ar.; - nello smartphone di quest'ultimo era rinvenuto un messaggio vocale del seguente tenore "fratello, cosa succede con il furgone quel tipo continua a chiamarmi?". 2. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, Da.Se. 2.1. Con il primo motivo di impugnazione deduce violazione dell'art. 110 cod. pen. e vizio di motivazione sul concorso di persone. Osserva il difensore che la condotta di Da.Se. è neutra e non fornisce alcun contributo, in quanto lo stess non partecipa come staffetta nel trasporto dei migranti e non è destinatario dei bonifici sulla W. Rileva che non è sufficiente a fondare un giudizio di colpevolezza il mero noleggio del furgone Fiat Ducato utilizzato nell'illecito trasporto. Né è decisivo lo scambio di vetture con El.Mu. Secondo la difesa si tratterebbe al più di connivenza non punibile in mancanza di qualsiasi contributo causale, essendosi trovato l'imputato, al momento dell'ingresso dei clandestini in I, su una terza autovettura in un luogo, sicuramente non distante, ma certamente non contiguo. Quantomeno mancherebbe l'elemento soggettivo del concorso e in particolare la consapevolezza e volontà di contribuire alla comune realizzazione della condotta delittuosa. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso la difesa denuncia violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento dell'attenuante dell'art. 114 cod. pen. Si rileva, quanto a quest'ultimo profilo, che, pure a volere ritenere il concorso, il contributo dell'imputato sarebbe stato di impatto marginale. Si invoca, infine, un ulteriore contenimento della pena nella prospettiva finalistica di reinserimento e recupero alla legalità del prevenuto. Il difensore insiste per l'annullamento, alla luce dei suddetti motivi, della sentenza impugnata. 3. Propone, altresì, ricorso per cassazione El.Mu., a mezzo del proprio difensore di fiducia. 3.1. Con il primo motivo di impugnazione vengono denunciati violazione degli artt. 110 e 12 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Osserva il difensore che si era evidenziato con l'appello che non corrispondeva al vero che il veicolo attribuito alla conduzione di El.Mu. (Volkswagen Passat) e il furgone in cui avrebbero viaggiato i clandestini (Fiat Ducato) si fossero mossi assieme e che non vi era prova che El.Mu. fosse a conoscenza che il furgone trasportava clandestini. Lamenta il ricorrente che la sentenza non dimostra che davvero la Passat abbia fatto da staffetta, avendo le due autovetture, dopo l'ingresso in Italia, seguito percorsi differenti; e che non si comprende quale sia stato il contributo concorsuale di El.Mu. alla condotta delittuosa, non specificando la sentenza impugnata se il concorso avesse riguardato l'intera vicenda o solo una porzione della medesima. 3.2. Col secondo motivo di ricorso viene lamentata mancata motivazione sulla richiesta di esclusione dell'aggravante di cui all'art. 12, comma 3, lett. b) 25 luglio 1998, n. 286. Rileva la difesa che non si comprende come l'esposizione al pericolo per la vita o comunque per l'incolumità dei clandestini, con specifico riferimento all'incidente occorso al furgone ove i medesimi erano trasportati, possa essere riferito ad El.Mu., estraneo a quell'evento estemporaneo conseguito all'inseguimento della P.g. Lamenta, comunque, l'assoluto silenzio sul punto della sentenza impugnata. 3.3. Con il terzo motivo di impugnazione si rilevano violazione dell'art. 12, comma 3-ter, lett. b) del suddetto decreto legislativo e vizio di motivazione sul fine di profitto. Lamenta la difesa che non può dedursi detto fine dalla circostanza che i clandestini avevano pagato somme in favore di cittadini pakistani o greci in assenza di elementi di prova di somme percepite da El.Mu. Rileva, poi, che trattandosi di aggravante soggettiva, la stessa poteva essere applicata solo se percepita e perseguita dal singolo concorrente (senza estensioni tra i correi) e solo in base al principio della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. 3.4. Con il quarto motivo di ricorso vengono eccepiti violazione dell'art. 114 cod. pen. e vizio di motivazione. Osserva la difesa che El.Mu. era rimasto estraneo al prelevamento dei clandestini e al loro trasporto in I e che, quindi, il suo contributo, limitatosi al presunto ruolo di staffetta per un tratto breve (solo in S) del percorso intrapreso dal furgone Ducato, doveva essere considerato marginale. Il difensore insiste per l'annullamento della sentenza impugnata. 4. Disposta la trattazione scritta del procedimento ai sensi dell'art. 23 del D.L. n. 137 del 2020, il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte, dott.ssa Cocomello Assunta, conclude, con requisitoria scritta, per il rigetto dei ricorsi; l'avv. Ca.Fr. per Da.Se. e l'avv. Vi.Gi. per El.Mu. insistono, con memorie di replica a detta requisitoria, per l'annullamento della sentenza in accoglimento dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati e vanno, pertanto, rigettati. 2. Nel complesso infondato è il ricorso proposto nell'interesse di Da.Se. 2.1. Infondato è il primo motivo di impugnazione. Nella ricostruzione effettuata dai Giudici di merito Da.Se. risulta essere stato individuato come il soggetto che si recava (con Re.Ar.) con la Volkswagen Passat, di proprietà del fratello, a L dove prendeva a noleggio il Fiat Ducato peraltro da persona avvezza a noleggiare veicoli per i trasporti di clandestini, riportava (sempre con il suddetto complice) il 2 marzo 2021 entrambi i veicoli in I e metteva, il successivo 3 marzo, la propria autovettura più potente a disposizione di El.Mu., che avrebbe svolto da staffetta nel trasporto di clandestini quello stesso giorno. Lo stesso Da.Se. era, sempre secondo detta ricostruzione, con Re.Ar. al momento in cui quest'ultimo riceveva il messaggio di cui sopra, in cui l'interlocutore si informava di cosa fosse successo al furgone. E' di tutta evidenza che, diversamente da quanto denunciato con detto motivo di ricorso, la sentenza impugnata con riguardo al concorso nel reato per cui si procede di Da.Se. non incorre in alcuna violazione di legge ovvero in alcun vizio motivazionale. Valorizza, invero, sia il noleggio del furgone che la messa a disposizione dell'auto in funzione dello svolgimento dell'attività di staffetta quali passaggi essenziali dell'attività criminosa posta in essere, non mere circostanze neutre, ma anzi significative di un pieno coinvolgimento dell'imputato nella vicenda sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, ben lungi dalla mera connivenza non punibile. 2.2. Inammissibile è, invece, il secondo motivo di ricorso. A parte che nel caso in esame non sembra applicabile l'invocata attenuante (si veda Sez. 4, n. 3177 del 27/11/1992, dep. 1993, Santus e altri, Rv. 198437, secondo cui, poiché, ai sensi dell'art. 114, comma secondo, cod. pen., l'attenuante della minima partecipazione al fatto non si applica ove il numero dei concorrenti nel reato sia di cinque o più, il divieto della concessione opera anche nell'ipotesi in cui il numero dei partecipanti sia considerato come aggravante speciale di un determinato reato da una norma diversa dall'art. 112 cod. pen.; come appunto nel nostro caso, in cui ricorre l'aggravante di cui all'art. 13, comma 3, lett. d) del fatto commesso da tre o più persone), comunque scevre da vizi logici e giuridici, e come tali insindacabili in questa sede, sono le argomentazioni della sentenza impugnata sull'impossibilità di riconoscere a Da.Se. la circostanza di cui all'art. 114 cod. pen. Evidenzia, a tale riguardo, la Corte territoriale che la sua condotta non può essere eliminata mentalmente senza che si modifichi la fattispecie criminosa, essendo il suddetto il soggetto che garantiva la presenza dei veicoli impiegati e concorrenti per il trasporto di clandestini nel territorio nazionale, colui che predisponeva la logistica del trasporto e garantiva sostegno non solo morale ma anche materiale agli altri. Egualmente non manifestamente illogiche, oltre che giuridicamente corrette, sono le argomentazioni della sentenza in esame che, a fronte del rilievo difensivo sul contenimento della pena base nel minimo edittale, riproposto in questa sede, evidenzia come in questi termini abbia operato il primo Giudice, tenendo conto delle circostanze aggravanti contestate. 3. Nel complesso infondato è anche il ricorso di El.Mu. 3.1. Infondato è il primo motivo di ricorso. La Corte di appello di Trieste si confronta col rilievo difensivo, riproposto in questa sede, sulla mancanza, in capo ad El.Mu., del dolo della fattispecie per cui si procede. A tale riguardo osserva che la semplice disamina della condotta tenuta dal medesimo nei giorni 2 e 3 marzo 2021 evidenzia come lo stesso avesse piena consapevolezza della attività che si stava organizzando per condurre in territorio italiano i cittadini bengalesi; e che solo in questo modo si spiega il concorso di El.Mu. nel trasporto in territorio nazionale degli otto cittadini bengalesi, privi di valido titolo d'ingresso. Rileva che significativo del dolo è anche il fatto che l'imputato non si limitava a raggiungere in territorio sloveno lo sconosciuto incaricato del trasporto dei clandestini, ma scortava il furgone condotto da quest'ultimo con all'interno i clandestini, operando a titolo di staffetta (da L fino a F e, quindi, con riguardo al tratto più importante, di ingresso nel nostro territorio); e che ciò emerge sia dalla fase preparatoria che dalle modalità di ingresso in territorio italiano della Volkswagen Passat e del Fiat Ducato, ingresso che avveniva in tempi molto ravvicinati tra i due veicoli e nello stesso punto di valico, a riscontro della natura organizzata dell'attività di favoreggiamento in oggetto. Sottolinea che le modalità di condotta precedenti all'attività di favoreggiamento evidenziano come vi fosse un concorso programmatico tra tutti gli imputati (anche Re.Ar., non ricorrente), circostanza che induce a ritenere che El.Mu. ben sapesse del contributo degli altri. Il motivo di ricorso, che insiste sul fatto che non vi è prova che i due veicoli si fossero mossi assieme e che la Passat avesse funto da staffetta, nonché che El.Mu. fosse a conoscenza che il furgone trasportava clandestini, lamentando che la sentenza impugnata non individua il contributo concorsuale del suddetto, si rivela infondato, ai limiti dell'inammissibilità, laddove dimostra di non confrontarsi con le suddette argomentazioni. 3.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Quanto all'aggravante dell'esposizione al pericolo per la vita o comunque per l'incolumità dei clandestini, la sentenza di appello risulta essere, invero, integrata da quella di primo grado che, con riferimento a detta circostanza, valorizza, oltre al dato oggettivo della presenza di ben otto clandestini nel furgone, la condotta assolutamente imprudente dell'autista - senza dubbio prevedibile da chi aveva svolto fino a pochi minuti prima il ruolo di staffetta e comunque nell'ambito di un'attività illecita concordata come quella in esame - che, per fuggire dalla P.g., impattava col furgone contro un albero, mettendo in serio pericolo la vita dei suddetti. 3.3. Altrettanto infondato è il terzo motivo di impugnazione. La Corte a qua, con riguardo alla circostanza aggravante relativa alla finalità di lucro dell'operazione, rileva che: - i clandestini dichiaravano di essere stati favoriti da soggetti stranieri dietro versamento di somme di denaro; - seppure i trasportati erano cittadini bengalesi che nulla avevano a che fare con El.Mu. e gli altri complici, il compimento da parte del suddetto di tutte le attività descritte induce a ritenere che l'imputato abbia aderito all'attività criminosa con finalità di lucro, non essendovi altra ragione per favorire l'ingresso clandestino di cittadini di origine bengalese, privi di legami amicali con il suddetto. A tale motivazione non manifestamente illogica, si aggiunge la valorizzazione da parte del Tribunale di Trieste del rinvenimento nell'autovettura condotta da El.Mu. di una distinta di pagamento W di Euro 177 a suo favore da parte di tale Za.Ja., corrispondente a quella riprodotta da un fotogramma rinvenuto sul telefono cellulare trovato nella disponibilità dei clandestini (dai medesimi usato per ricevere indicazioni sui luoghi ove recarsi in attesa dei trafficanti), a riprova di piena adesione alla finalità di lucro, perseguita anche da parte del prevenuto, diversamente da quanto prospettato dalla sua difesa. 3.4. Inammissibile, in quanto manifestamente infondato, non consentito, reiterativo e aspecifico, è, invece, il quarto motivo di ricorso. Invero, a parte la dubbia applicabilità - di cui si è sopra detto con riguardo alla posizione di El.Mu. - della circostanza della partecipazione di minima importanza ex art. 114 cod. pen. nel caso di favoreggiamento aggravato dal numero delle persone agenti, la Corte territoriale sottolinea come l'imputato abbia svolto l'attività più pericolosa del favoreggiamento per il quale si procede, recandosi in S per incontrarsi con il conducente del Fiat Ducato, al cui interno erano stati posizionati i migranti, ed ivi giunto avendo operato a titolo di staffetta nell'interesse del conducente del furgone, abbandonando il contatto con quest'ultimo veicolo solo una volta che entrambi erano entrati in territorio nazionale; e da ciò fa conseguire l'impossibilità di applicare detta circostanza, presupponendo la medesima che l'agente abbia posto in essere un'attività del tutto marginale nel complesso dell'operazione criminosa, tale da poter essere sostituita agevolmente senza che per questo venga meno la fattispecie criminale con le modalità che in concreto ha assunto. A fronte di tali argomentazioni, scevre da vizi logici e giuridici, il motivo di ricorso, insistendo sul ruolo di staffetta di El.Mu. per un breve tratto, dimostra di non confrontarsi con le stesse, reiterando censure già svolte e nel contempo sollecitando una rivisitazione fattuale non consentita. 4. Al rigetto consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente Dott. PAZIENZA Vittorio - Relatore Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRÌ Ubalda - Consigliere Dott. MAGRO Maria Beatrice - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: To.Ro., nato a C il Omissis avverso la sentenza emessa il 31/05/2023 dalla Corte d'Appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione del Consigliere Vittorio Pazienza; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Stefano Tocci, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore del ricorrente, avv. An.Ca., che ha concluso insistendo per l'accoglimento dei motivi di ricorso RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 31/05/2023, la Corte d'Appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data 06/12/2021 dal Tribunale di Marsala, con la quale To.Ro. era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al delitto di illecita detenzione di cocaina, a lui ascritto in concorso con Gu.Sa. (nei cui confronti si è proceduto separatamente). 2. Ricorre per cassazione il To.Ro., a mezzo del proprio difensore, deducendo: 2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza di una responsabilità del To.Ro. in concorso con il Gu.Sa. (pienamente confesso). Si deduce che nessun elemento consentiva di ritenere che il ricorrente fosse consapevole della presenza della cocaina nel vano portaoggetti dell'auto a noleggio che il To.Ro. aveva utilizzato per dare un passaggio al Gu.Sa., privo di patente; la stessa mancata reazione del ricorrente, al momento del controllo, doveva ritenersi un dato neutro. Si lamenta altresì la mancata valorizzazione delle dichiarazioni del Gu.Sa., che aveva scagionato il To.Ro. assumendosi tutta la responsabilità. 2.2. Violazione dell'art. 533 cod. proc. pen., non potendosi ritenere sufficiente la mera presenza del ricorrente sull'auto. Si deduce che "se davvero il To.Ro. fosse stato a conoscenza della sostanza l'avrebbe sicuramente occultata in altri spazi". 2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione dell'ipotesi lieve di cui al comma 5 dell'art. 73. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Per ciò che riguarda i primi due ordini di censure, che possono essere in questa sede trattati congiuntamente, è opportuno prendere le mosse dal consolidato indirizzo interpretativo di questa Suprema Corte, secondo cui "in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento" (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747 - 01). In tale prospettiva ermeneutica, che si condivide e qui si intende ribadire, le doglianze difensive non superano lo scrutinio di ammissibilità, risolvendosi nella censura del merito delle valutazioni operate dalla Corte d'Appello (in piena sintonia con il primo giudice), e nella reiterata prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, il cui apprezzamento in questa sede è evidentemente precluso. D'altra parte, la Corte d'Appello ha diffusamente esposto le ragioni poste a base della conferma della condanna del To.Ro., escludendo la plausibilità della prospettazione difensiva secondo cui questi si era limitato a dare un passaggio al Gu.Sa. (pienamente confesso), senza accorgersi che egli aveva collocato lo stupefacente nel vano portaoggetti dell'autovettura. A sostegno di tali conclusioni, la Corte territoriale ha valorizzato: l'intrinseca inverosimiglianza dell'ipotesi secondo cui il Gu.Sa. sarebbe riuscito ad occultare la droga all'insaputa del To.Ro., dato che l'involucro era di apprezzabili dimensioni (contenendo 180 grammi lordi di cocaina) e il vano cadeva sotto il diretto controllo del ricorrente; la necessità per il Gu.Sa. di camminare con le stampelle, circostanza che rendeva ancor meno plausibile l'ipotesi per cui egli avrebbe detenuto il pacco, fino ad occultarlo, "senza farsi notare, se non anche aiutare dal To.Ro."; l'atteggiamento guardingo di entrambi dopo essere scesi dalla vettura, che aveva insospettito gli operanti; l'assenza di qualsiasi alterazione o manifestazione di stupore da parte del To.Ro., dopo il ritrovamento della droga all'esito della perquisizione (circostanza singolare, dato che il ricorrente - secondo la difesa sarebbe stato coinvolto in un trasporto illecito di cocaina senza saperne alcunché); l'assenza di spiegazioni alternative da parte dell'imputato, anche quanto alla provenienza dell'autovettura utilizzata insieme al Gu.Sa. (cfr. pagg. 4-5 della sentenza impugnata). Si tratta di un percorso argomentativo del tutto immune da criticità qui deducibili, che la difesa ricorrente ha inammissibilmente cercato di confutare prospettando diverse valutazioni di merito (il carattere "neutro" della mancata reazione del To.Ro., il carattere liberatorio delle dichiarazioni confessorie del Gu.Sa., ecc.). 3. Per ciò che riguarda la residua censura, proposta in presenza di cocaina per complessive 663 dosi medie singole, assume rilievo assorbente la mancata deduzione della corrispondente doglianza in appello. 4. Le considerazioni fin qui svolte impongono una declaratoria di inammissibilità del ricorso, e la condanna del To.Ro. al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI PALERMO, Te.Sa., nato a P il (omissis), Sc.Lu., nato a P il (omissis), Ma.Vi., nato a P il (omissis), Di.Pi., nato a P il (omissis), Ur.En., nato a P il (omissis), Lu.Pi., nato a P il (omissis), Mi.Al., nato a P il (omissis), Mi.Pa., nato a P il (omissis), Mi.Lo., nato a P il (omissis), Te.Ca., nato a P il (omissis); avverso la sentenza del 11/04/2022 della Corte d'appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FULVIO BALDI, il quale ha concluso chiedendo che: a) in accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, la sentenza impugnata venga annullata con rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio nei confronti di Mi.Al.; b) la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio nei confronti di Mi.Lo. limitatamente alle statuizioni civili in favore delle associazioni che non si erano costituite e che il ricorso dello stesso Mi.Lo. sia dichiarato inammissibile nel resto; c) la sentenza impugnata sia annullata con rinvio nei confronti di Te.Sa. e di Sc.Lu. limitatamente al trattamento sanzionatorio e che i ricorsi degli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. siano dichiarati inammissibili nel resto; d) i ricorsi di Di.Pi., Lu.Pi., Ma.Vi., Mi.Al., Mi.Pa., Te.Ca. e Ur.En. siano dichiarati inammissibili; udito l'Avv. FE.DA., in sostituzione dell'Avv. AL.GA., in difesa della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti gli altri ricorsi e la conferma delle statuizioni civili e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'Avv. ET.BA., il quale si è associato alle conclusioni del Pubblico Ministero e ha depositato conclusioni scritte e nota spese per tutte le parti civili che rappresenta, in proprio o in sostituzione; udito l'Avv. AN.BA., in difesa di Te.Sa., il quale, dopo la discussione, ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., sempre in difesa di Te.Sa., il quale si è riportato integralmente ai motivi di ricorso e si è associato alle conclusioni del codifensore; udito l'Avv. DI.BE., in difesa di Sc.Lu., il quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., in difesa di Sc.Lu., Lu.Pi. e Te.Ca., il quale ha insistito nei motivi dei ricorsi, dei quali ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in sostituzione dell'Avv. EL.GA., in difesa di Mi.Lo., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Ur.En., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Mi.Al., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi di ricorso, del quale ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Di.Pi. e di Mi.Pa., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi dei ricorsi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 11/04/2022, la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 28/09/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, emessa in esito a giudizio abbreviato: 1) confermava la condanna di Te.Sa. alla pena di 16 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di: a) promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; 2) confermava la condanna di Sc.Lu. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; e) violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno di cui al capo 27 dell'imputazione (aggravata ex art. 416-bis 1 cod. pen.). La Corte d'appello di Palermo, inoltre, unificati dal vincolo della continuazione i reati sub iudice con quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, e ritenuto più grave quello di cui al capo 1) dell'imputazione, aumentava la pena inflitta allo Sc.Lu. per i fatti già giudicati di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione e, per l'effetto, dichiarava che la pena complessiva diveniva pari a 22 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; 3) confermava la condanna di Ma.Vi. per il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424, secondo comma, cod. pen.) in concorso di cui al capo 21) dell'imputazione, riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per tale reato, "tenendo conto della riqualificazione della recidiva allo stesso contestata in reiterata"; 4) confermava la condanna di Di.Pi. alla pena di 12 anni di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; c) traffico illecito di sostanze stupefacenti (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione; 5) assolveva Ur.En. dal reato di usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e confermava la condanna dello stesso imputato per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione (art. 418, secondo comma, cod. pen.), riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'Ur.En. (pena sospesa), tenuto conto della predetta assoluzione e della considerazione come non contestata, con riferimento al reato di assistenza agli associati, la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen.; 6) confermava la condanna di Lu.Pi. alla pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso, aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen., di cui al capo 12) dell'imputazione; 7) assolveva Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto e confermava la condanna dello stesso 7Mi.Al. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. Riduceva a 11 anni e 8 mesi di reclusione la pena irrogata all'imputato; 8) confermava la condanna di Mi.Pa. alla pena di 11 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; 9) riqualificata la condotta di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso contestata a Mi.Lo. al capo 2) dell'imputazione in concorso esterno in tale associazione, ed escluse, nei confronti dello stesso Mi.Lo., le circostanze aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., rideterminava in 8 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per il predetto reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione; 10) confermava la condanna di Te.Ca. alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione per il reato di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 2. Avverso l'indicata sentenza della Corte d'appello di Palermo, hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo e, per il tramite dei propri rispettivi difensori, Te.Sa., Sc.Lu., Ma.Vi., Di.Pi., Ur.En., Lu.Pi., Mi.Al., Mi.Pa., Mi.Lo. e Te.Ca. 3. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo, che è relativo alla posizione del solo Mi.Al., è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente deduce la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato, nel dispositivo, di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione (art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ora art. 512-ò/s cod. pen.) e nella parte in cui ha rideterminato la pena applicata allo stesso Mi.Al.in 11 anni e 8 mesi di reclusione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe: a) in primo luogo, da un lato, nel dispositivo, dichiarato di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione e non di non applicare alcun aumento di pena per tale reato e, dall'altro lato, nella motivazione, motivato in realtà nel senso che l'appello del Mi.Al. era fondato solo "limitatamente alla dosimetria della pena" (pag. 165 della sentenza impugnata) e della conferma della responsabilità dello stesso Mi.Al. anche per il predetto reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pagg. 170 e 171 della sentenza impugnata); b) in secondo luogo, da un lato, affermato, come si è detto, che l'appello del Mi.Al. era fondato in ordine alla "dosimetria della pena" e, dall'altro lato, in realtà confermato la pena di 11 anni e 8 mesi di reclusione che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per i reati di cui ai capi 2) e 15) dell'imputazione, al netto dell'aumento di pena per il reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pag. 476 della sentenza impugnata). 4. I ricorsi di Te.Sa. Te.Sa. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. An.Ba.. 4.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a undici motivi. 4.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis , primo, secondo, terzo, quarto e quinto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di promozione, organizzazione e direzione di un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 4.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce che, dalle risultanze processuali, non sarebbero emersi fatti concreti e specifici dimostrativi né dell'esteriorizzazione, da parte dei sodali, della forza di intimidazione del vincolo associativo, né della condizione di assoggettamento e di omertà in capo ai terzi, né di una ripartizione di ruoli e di rispettati vincoli gerarchici tra gli associati. Il Te.Sa. rappresenta che tali elementi dell'associazione di tipo mafioso non potrebbero essere logicamente ritenuti esistenti, contrariamente a quanto mostrerebbe di ritenere la Cotte d'appello di Palermo, sulla base né dei precedenti penali propri e di alcuni dei coimputati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., né delle asseritamente "datate" "indeterminate" e "generiche" propalazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. - atteso anche che esse "nulla aggiungono su fatti concreti ed attuali" -, né di "alcuni incontri effettuati tra i vari coimputati e dai loro reciproci contatti", né dei tre modesti contestati episodi estorsivi di cui ai capi 5), 9) e 11) dell'imputazione, con riguardo a due dei quali era peraltro intervenuta l'assoluzione dell'unico imputato, mentre del terzo non era il Te.Sa. a risponderne. 4.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe stato invece necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione del Te.Sa. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità dei predetti collaboratori e dell'attendibilità delle loro dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse dichiarazioni -, tenuto anche conto del fatto che il Ga.Vi. e il Fl.Se. aveva appreso quanto da loro riferito da terzi (da Sa.Ni. per quanto riguarda il Ga.Vi. e da Di.Gi. e da La.To. per quanto riguarda il Fl.Se.), con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa, le quali, invece, non erano mai state sentite. Il ricorrente rappresenta poi specificamente: a) quanto alle dichiarazioni del Ga.Vi., che esse non avrebbero "offerto alcuno spunto investigativo, né hanno fatto riferimento a fatti specifici con riguardo al comportamento contestato al Sig. Te.Sa. nel capo di imputazione 1) e nell'arco temporale delineato da questa contestazione", sicché esse costituirebbero "un mero dato neutro", "atteso che l'asserita vicinanza in passato del Sig. Te.Sa. ai Sig.ri Ta. non è comprovante dell'attuale e concreta sua intraneità nel presunto sodalizio mafioso nell'arco temporale delineato nel capo di incolpazione 1)"; b) quanto alle dichiarazioni del Fl.Se., che questi si sarebbe "limitato a riferire notizie risalenti nel tempo - già coperti da giudicato - limitatamente al fatto che terze persone nominavano qualche volta in maniera vaga e astratta il nome del Sig. Te.Sa., senza pertanto descrivere fatti specifici" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare che il Fl.Se. aveva affermato di conoscere il Te.Sa. solo di nome, che aveva appreso dai menzionati Di.Gi. e La.To. La sentenza impugnata sarebbe poi affetta da contraddittorietà e da illogicità "nella parte in cui il propalante Sig. Fl.Se. collocava il Sig. Te.Sa. in una famiglia mafiosa diversa (Br.) da quella in cui si presume faccia parte (Co.)". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni dei due menzionati collaboratori di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, il Te.Sa. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con Sc.Lu., il Vi. e Mu.Gi., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità di esso a costituire prova della propria partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) il significato delle conversazioni del 4/12/2015, del 11/12/2015 e del 12/12/2015 presso Largo (omissis) - inteso dalla Corte d'appello di Palermo nel senso che l'imputato aveva il "ruolo di coordinatore delle attività estorsive ai danni dei commercianti della zona" (così il ricorso) - sarebbe stato frainteso, atteso, in particolare, che dalle stesse conversazioni non emergerebbe la consegna di denaro provento dell'attività estorsiva da parte del Di.Gi. e da parte del Gi.Sa. al Te.Sa., che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato la "massima di esperienza secondo cui è incompatibile con l'assunzione del ruolo di dirigente di una consorteria criminosa che un soggetto subordinato e dedito alla riscossione del c.d. "pizzo" possa pretendere autonomamente e contravvenendo alle direttive il raddoppio di una presunta pretesa estorsiva" e che il Te.Sa. "assiste ai racconti dei suoi interlocutori in modo passivo e inerme, tali da dimostrare che non dava direttive o ordini sul da farsi ai propri sottoposti; così derivando un travisamento della prova"; b) con riguardo alla conversazione dell'11/11/2017, la Corte d'appello di Palermo "non riscontrava la circostanza che la persona imputata si fosse limitato semplicemente a dire, senza particolare interesse, al Sig. Ca. che i Sig.ri Ca. e Mi. avrebbero fatto meglio a curarsi ognuno il proprio orticello senza calpestarsi i piedi, piuttosto che usare il suo nome indebitamente senza escogitare, a differenza di quanto prospettato dal Decidente, eventuali ritorsioni, ma soprattutto senza impartire alcuna direttiva e senza esercitare alcun controllo del territorio" e che la stessa Corte d'appello non avrebbe considerato che al Te.Sa. non era stato contestato il reato di cui all'art. 291-quater del D.P.R. 23 gennaio 1972, n. 43, in ordine al quale gli altri imputati erano stati assolti; c) con riguardo alle conversazioni del 8/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Sc.Lu., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); d) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione ai danni di commercianti, che lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e che, dall'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "il Sig. Te.Sa. richiedeva al Sig. De.Gi. la restituzione dei propri soldi personali perché non era soddisfatto della gestione di quest'ultimo a causa delle ingenti perdite e dei presunti ammanchi di cassa"; e) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il Sig. Te.Sa. chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara all'odierno imputato", cioè "una situazione prettamente e squisitamente personale" del Te.Sa., "il quale aveva l'esclusivo interesse a chiedere spiegazioni sul motivo che ha portato i rapinatori a percuotere l'impiegata dell'esercizio commerciale in cui si è perpetrata al rapina". In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 4.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , primo e secondo comma, cod. pen., nonché agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione come partecipazione a tale associazione anziché come direzione e organizzazione della stessa. Dopo avere citato diverse sentenze della Corte di cassazione sul tema, il Te.Sa. deduce che dalle prove che sono state valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo non emergerebbero elementi tali da fare ritenere che egli avesse assunto un ruolo apicale, "attivo e dinamico", all'interno della famiglia mafiosa di Co. e lamenta il carattere anapodittico e manifestamente illogico della motivazione della sentenza impugnata là dove essa argomenta in ordine all'assunzione di detto ruolo. A proposito delle singole prove valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta: a) la non decisività e la non persuasività delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., atteso che essi "non hanno rivelato fatti specifici e concreti comprovanti la contestazione"; b) che l'attribuito ruolo apicale non potrebbe trovare fondamento logico neppure nel contenuto delle intercettazioni telefoniche e tra presenti "in ordine ai presunti incontri avvenuti tra il Sig. Te.Sa. e altri sospettati sodali", né nell'impiego di denaro in presunte attività nel settore del gioco e delle scommesse; c) che, in particolare, con riguardo alla conversazione del 04/12/2015 (riportata alle pagg. 95-96 della sentenza impugnata), in essa il Gi.Sa. e il Di.Gi. "riferivano all'odierno impugnante delle pretese estorsive di soggetti non meglio identificati e di avere agli stessi consegnato delle somme di denaro di presunta provenienza illecita, cosicché la dimostrazione dell'asserito ruolo apicale assunto dal Sig. Te.Sa. è smentita", atteso che "se il Sig. Te.Sa. avesse assunto una posizione apicale in seno alla consorteria mafiosa, non avrebbe avuto senso che i Sig.ri Di.Gi. e Gi.Sa. consegnassero il denaro proveniente da attività predatorie ad altri soggetti, né che questi ultimi avessero avuto l'autorità di pretendere somme più ingenti"; d) che il ruolo apicale dell'imputato non potrebbe essere desunto neppure dall'incontro con i rapinatori della sala bingo "Taj Mahal", atteso che "in quell'occasione il Sig. Te.Sa. aveva soltanto l'interesse a rimproverare i rapinatori per il loro comportamento aggressivo e violento posto in essere nei confronti di una giovane impiegata di detta impresa, che era molto amica" sua e che dalle emergenze processuali non risulterebbe "dimostrato che altri soggetti presunti appartenenti alla famiglia di Vi. si siano recati dallo stesso al fine di chiedere spiegazioni in ordine all'esecuzione di detta rapina, atteso che, ammesso e non concesso, la stessa comunque non è stata commissionata dalla presunta famiglia mafiosa di Co., né tanto meno può imputarsi alla figura dell'odierno impugnante, il quale è allo scuro di tutto". Il ricorrente lamenta ancora che: a) la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che la figura del Te.Sa. non era emersa nell'ambito del procedimento penale cosiddetto "Cupola 2.0", nel quale risultavano diversi incontri tra esponenti della consorteria mafiosa, tra i quali Se.Mi., indicato come il nuovo capo della ricostituita commissione provinciale di "Cosa Nostra", il che contrasterebbe che l'assunto secondo cui il Te.Sa. sarebbe stato "a capo della famiglia de qua") b) i collaboratori di giustizia Co., Bi. e Ma., così come "gli altri citati in sentenza", "nulla riferiscono di posizioni apicali in ordine all'odierno appellante". 4.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente lamenta il carattere astratto, generico, apparente, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata, la quale si rivelerebbe inconsistente e carente nella valutazione dei fatti processuali e avrebbe travisato il significato delle conversazioni intercettate. A proposito degli elementi di prova valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta, con riguardo al delitto presupposto e alla provenienza dallo stesso del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro.", che: a) la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con la deduzione difensiva secondo cui i reati di estorsione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti, indicati nel capo 13) d'imputazione, non avevano trovato riscontro, atteso che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva assolto Sc.Lu. dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti e che tale reato, così come quello di estorsione, non era stato contestato al Te.Sa. (così come allo Sc.Lu. non era stata addebitata alcuna condotta estorsiva); b) la stessa Corte d'appello non avrebbe "consideralo il fattore temporale secondo cui tali fatti-reato siano oltretutto successivi al tempus commissi delicti della presunta condotta di autoriciclaggio"; c) la sentenza impugnata non avrebbe neppure considerato "l'irrisorietà del valore economico dei presunti profitti illeciti riconducibili ai reati presupposti contestati ai capi 5), 9) e 11) (ad imputati diversi dal Sig. TE.Sa. e dal Sig. Sc.Lu.)", con la conseguente irrisorietà dei profitti illeciti che la presunta organizzazione criminale avrebbe potuto ricavare dalla commissione di tali reati; d) non potrebbe "imputarsi come delitto presupposto la fattispecie prevista dall'art. 416-bis c.p. se non si prova in concreto se effettivamente dalla perpetrazione del reato associativo si siano ricavati profitti illeciti"; e) diversamente da quanto anapoditticamente ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, come sarebbe risultato dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dalla conversazione del 21/11/2017, "in realtà il mercato dei giochi e delle scommesse nel territorio in cui presumibilmente operava il sodalizio criminoso era dominato da diverse imprese operanti nel settore delle scommesse, su tutte la ditta "Am.Fi. Giochi di Am.Fi." e, viceversa, che la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"; f) non sarebbe "dirimente" neppure il fatto che l'imputato fosse disoccupato e privo di un patrimonio in conseguenza dell'applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, atteso che le argomentazioni dei giudici di merito non avevano "dimostrato (...) che la presunta somma di denaro oggetto di contestazione fosse di sicura provenienza illecita e non invece, secondo una lettura alternativa, frutto di un prestito di un parente o amico dell'imputato, ovvero di una somma di denaro che non era stata precedentemente sequestrata nell'ambito del procedimento di prevenzione"; g) la Corte d'appello di Palermo, con l'interpretare la frase intercettata "i piccioli della gente" nel senso che nell'impresa "Ca.Ro." erano stati investiti i soldi di provenienza illecita prelevati dalla cassa dell'associazione mafiosa, avrebbe travisato il significato di detta frase, la quale andrebbe invece "intesa nel senso che gli interlocutori (Sig.ri Te.Sa. e Sc.Lu.), non soddisfatti della gestione da parte del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". Con riguardo "all'aspetto soggettivo" del reato, il ricorrente deduce che non sarebbe stato dimostrato che l'imputato "abbia presumibilmente trasferito una somma di denaro nella ditta "Ca.Ro.", con consapevolezza e volontà, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della sua provenienza". Il ricorrente conclude affermando l'insufficienza delle risultanze delle effettuate intercettazioni a giustificare una sua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. 4.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato - e, poi, anche sulla distinzione tra sospetti e indizi e sulla valutazione della prova indiziaria - il ricorrente lamenta il carattere carente, anapodittico, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata. Anzitutto, con riguardo all'elemento materiale dei reati, il ricorrente deduce: a) quanto a quello di cui al capo 14) dell'imputazione: a.1) il già evidenziato (nell'ambito dell'esposizione del terzo motivo) travisamento, per le ragioni che si sono pure dette, della frase "i piccioli della gente"; a.2) che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con il dato dal quale sarebbe risultato che l'imputato (come anche lo Sc.Lu.) aveva prestato una somma di denaro a De.Gi., il quale gestiva l'impresa "Ca.Ro." che operava nell'ambito del noleggio di slot machines e, quindi, del gioco e delle scommesse, così travisando i fatti e la prova allorquando imputava la riconducibilità di detta impresa allo stesso imputato, il quale, "allorquando si accorgeva della mala gestio del Sig. De.Gi. gli richiedeva indietro il proprio denaro personale che gli aveva in precedenza dato a credito, stante lo stato di insolvenza che da lì a poco stava travolgendo il Sig. De.Gi.", con la conseguenza che, date tali circostanze, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "bypassato di accertare" se l'imputato fosse il gestore occulto dell'impresa de qua; b) quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, che la Corte d'appello di Palermo "non delinea alcun contributo causale e/o morale" dell'imputato "nella costituzione della società (...) Srl" - in particolare, non avrebbe "spiegato sulla base di quali elementi e circostanze desumeva che il contratto di locazione (dell'immobile di corso (omissis), n. (omissis)) fosse stato stipulato nell'interesse e per conto dell'odierno ricorrente" - e non avrebbe considerato che (...) Srl "non è stata mai avviata", in quanto "non aveva mai ricevuto l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di noleggio di slot machines, né (...) aveva nel suo patrimonio aziendale dette macchinette e tutta l'attrezzatura necessaria per l'assistenza tecnica". Il ricorrente deduce poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che il trasferimento fraudolento di valori è un reato a concorso necessario e a dolo specifico, con la conseguenza che, "non sussistendo la responsabilità penale nei confronti degli altri concorrenti necessari (atteso che il Ca.Ro. non era stato imputato e il La.Pa. e il Na.Gi. erano stati assolti per carenza del dolo specifico), ne deriva il venire meno della stessa anche nei confronti dell'odierno ricorrente dal momento che il delitto de quo non può ritenersi integrato con il venir meno del concorso necessario e del dolo specifico in capo agli altri concorrenti nel reato". Secondo il ricorrente, sarebbe carente, anche in capo a sé, l'elemento psicologico dei reati, atteso che "dal compendio probatorio non è possibile desumere elementi idonei a fornire la prova logica di commettere il fraudolento trasferimento dei beni allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione". 4.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto il concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione. Il ricorrente rappresenta in proposito che, come aveva dedotto nel non esaminato quinto motivo del proprio atto di appello, ai fatti contestati in detti capi d'imputazione - dovendosi ritenere che, come era stato dedotto nel non esaminato motivo del proprio atto di appello, la ridefinizione del fatto di cui al capo 13) da parte del giudice di primo grado violasse l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. - sarebbe applicabile la sola fattispecie di autoriciclaggio, di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., attesi, da un lato, la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" contenuta nell'art. 512-bis cod. pen. e, dall'altro lato, che la fittizia intestazione dell'impresa "Ca.Ro." aveva costituito "un segmento della più articolata condotta di autoriciclaggio", che sarebbe nella specie un reato a formazione progressiva, con la conseguenza che il più grave reato di autoriciclaggio dovrebbe assorbire il reato di trasferimento fraudolento di valori. 4.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il Te.Sa. rappresenta in proposito che tra i due reati si configurerebbe invece un concorso apparente di norme, in quanto quello di associazione di tipo mafioso, che costituirebbe, nella specie, un'ipotesi di reato complesso, punirebbe già la condotta di impiego, sostituzione e trasferimento in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali del denaro o delle altre utilità provenienti dallo stesso reato, al fine di ostacolarne l'identificazione della loro provenienza delittuosa, come sarebbe confermato, oltre che dalla stessa definizione di associazione di tipo mafioso fornita dal terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. e dalla comune ratio dei due reati, dalle previsioni di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. -comma nel quale "sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi" e che integrerebbe "una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base" - e al settimo comma dello stesso articolo, con la conseguenza che l'associato non potrebbe rispondere del reato di autoriciclaggio del denaro proveniente dalla commissione del delitto di associazione di tipo mafioso, pena la violazione dei principi del ne bis in idem sostanziale e del favor rei, oltre che dei principi di legalità costituzionale e convenzionale. Secondo il ricorrente, inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, il concorso apparente di norme non potrebbe essere negato per il solo fatto che, nella specie, non è prevista una clausola di riserva. Il Te.Sa. rappresenta ancora che il concorso tra i due reati in considerazione sarebbe stato escluso anche dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259587-01). Il ricorrente chiede che, qualora l'adita Corte di cassazione dovesse ravvisare un contrasto giurisprudenziale sul punto, la questione venga rimessa alle Sezioni unite. 4.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di tale circostanza aggravante, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione contraddittoria, generica e carente, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale, non avendo adeguatamente considerato che, dal compendio probatorio, non era risultato che egli avesse mai fatto uso di armi o che gliene fossero state sequestrate in occasione delle perquisizioni personale e domiciliare che erano state eseguite in occasione della sua sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, né che altri coimputati o la famiglia di Co. avessero fatto uso o disponessero di armi nel periodo di tempo di cui all'imputazione, ciò che non era emerso neppure dall'esito delle attività di intercettazione. Il ò1Te.Sa. rappresenta che non potrebbero deporre in senso contrario né il riferimento, fatto dalla Corte d'appello di Palermo, a "vicende passate, da collocare addirittura a molti anni prima e riguardanti anche le vicende di altre compagini associative" - in particolare, il rinvenimento, molti anni addietro, di munizioni all'interno di un autoarticolato di uno dei coimputati -, trattandosi di episodi che non lo riguardavano specificamente e ormai "coperti" da sentenza definitive, né la circostanza che il coimputato Ro. avesse fatto riferimento, in una conversazione con il padre, ad alcune armi (peraltro mai ritrovate), atteso che la disponibilità delle stesse non poteva essere attribuita alla famiglia di Co., dato che il Ro. non ne era partecipe. La Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato neppure da quali elementi si potesse desumere che egli era a conoscenza dell'esistenza di armi a disposizione della famiglia o per quali ragioni tale esistenza si dovesse ritenere da lui ignorata per colpa. 4.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema di tale circostanza aggravante, il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di essa, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione carente, contraddittoria e illogica, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente deduce che, dall'acquisito compendio probatorio, non sarebbero emersi - né la Corte d'appello di Palermo avrebbe dato adeguatamente conto di tale emersione - né l'investimento, da parte propria, nell'economia lecita, dei proventi dell'attività illecita del sodalizio criminoso, né che tale investimento "avesse assunto una misura e/o una quantità tale da controllare o tentare di controllare precisi settori merceologici nel territorio di riferimento", in modo da alterare le regole che governano l'economia, la concorrenza e la correttezza dei rapporti commerciali, dovendosi ritenere ricorrere, al più, una mera infiltrazione nel tessuto economico. Il ricorrente deduce in particolare in proposito che: a) come risulterebbe dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dall'intercettata conversazione del 21/11/2017, nel territorio di riferimento il mercato dei giochi e delle scommesse era in realtà dominato da diverse imprese, su tutte la "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.", mentre l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite; b) dal quadro probatorio non sarebbe emerso che l'associazione mafiosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti e dal settore del gioco e delle scommesse, mentre la Corte d'appello di Palermo avrebbe al riguardo omesso di considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione perpetrato dalla consorteria mafiosa ai danni di commercianti e che il coimputato Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990; c) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al ritenuto investimento, da parte dell'organizzazione mafiosa, di proventi illeciti nelle imprese che operavano nel settore del gioco e delle scommesse, tenuto conto che dalle emergenze processuali non sarebbe emerso che le imprese "Ca.Ro." e (...) Srl "siano finanziate dai proventi illeciti della presunta compagine associativa e, conseguentemente, che abbiano assunto una posizione predominante - che come abbiamo visto è del tutto smentita avendo il Giudicante travisato la prova - nel mercato del gioco e delle scommesse nel territorio di pertinenza della famiglia di Co."; d) la Corte d'appello di Palermo avrebbe travisato il significato dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, nella quale il Te.Sa., alla presenza dello Sc.Lu., aveva in realtà chiesto al De.Gi. di restituirgli i propri soldi personali in quanto non era soddisfatto della gestione dello stesso De.Gi. a causa delle ingenti perdite e degli ammanchi di cassa, come sarebbe confermato anche da un'ulteriore conversazione intercettata tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., anch'essa travisata, "in cui il ricorrente voleva restituito il suo denaro", nonché dalla frase "io ci ho messo un sacco di soldi", mentre la frase "i piccioli della gente" sarebbe stata male interpretata dalla Corte d'appello di Palermo, dovendosi essa intendere non nel senso che nell'impresa erano stati investiti i soldi di provenienza illecita tratti dalle casse dell'associazione criminosa ma nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu., "non soddisfatti della gestione del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". 4.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. 4.1.9.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente, dopo avere evidenziato che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416 bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", "ponendosi così in continuazione con la precedente condotta associativa", anche sulla premessa che il predetto reato è un reato permanente e, quindi, unico, costituendo "un segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo - costituito da fasi di detenzione o da condanne -", deduce l'incompatibilità tra la "presenza di un unicum delittuoso" o, comunque, la continuazione, e la recidiva. 4.1.9.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l'inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte d'appello di Palermo si sarebbe basata genericamente sulla semplice circostanza che la condotta tenuta dall'imputato sarebbe indicativa di una maggiore colpevolezza e propensione all'illecito, senza tenere conto del "comportamento" dello stesso imputato e del contesto sociale ed economico in cui i reati erano stati commessi. A tale proposito, il ricorrente deduce che il quartiere palermitano di Co. "versa in un precario degrado economico e sociale, nel quale mancano i servizi essenziali e in cui vive un'ampia fascia di popolazione in stato di semi-povertà" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare "in ordine alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, oltre all'eventuale occasionalità della ricaduta, al fine di stabilire propensione a delinquere da parte dell'impugnante". 4.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, senza motivare, abbia implicitamente ritenuto la sussistenza delle aggravanti dell'agevolazione mafiosa e del metodo mafioso, nonostante non fosse "dato rilevare alcun elemento tale da dimostrare (...) che il Te.Sa. abbia agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra", né che lo stesso abbia assunto un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso". Il ricorrente rappresenta al riguardo che: a) nell'intercettata conversazione del 01/07/2016, il Te.Sa. chiedeva al De.Gi. la restituzione di propri soldi personali, come sarebbe risultato anche da un'altra conversazione tra lo stesso Te.Sa. e lo Sc.Lu.; b) non sarebbe significativa, al fine di ritenere l'aggravante dell'agevolazione mafiosa, la frase "tutti i soldi in comune sono", atteso che essa "può interpretarsi nel senso che i soldi che il Sig. Te.Sa. ed altri presunti soci avevano conferito nell'impresa venivano gestiti in comune in quanto facenti parte del capitale sociale"; c) la frase "io ci ho messo un socco di soldi" significava che il Te.Sa. aveva "consegnato una propria somma di denaro rilevante e non di una moltitudine di persone, né di una presunta associazione delittuosa"; d) la frase "i piccioli della gente" andava intesa nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu. facevano presente al De.Gi. che egli "si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa", con la conseguenza che "il presunto interesse per il settore delle scommesse non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso"; e) l'asserito rapporto di conoscenza tra Te.Sa., Sc.Lu. e De.Gi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa". 4.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente motivato la determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di associazione di tipo mafioso sia degli aumenti per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, pervenendo a irrogare, per tutti tali reati, delle pene eccessive e inadeguate, in relazione all'effettiva gravità dei fatti e ala "scarsa pericolosità del soggetto agente", "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". 4.2. Il ricorso a firma dell'avv. An.Ba. è affidato a cinque motivi. 4.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., e la mancanza della motivazione con riguardo alla mancata applicazione di quest'ultima disposizione in tema di concorso tra più circostanze aggravanti a effetto speciale. Il ricorrente rappresenta che il proprio motivo di appello sul trattamento sanzionatorio era stato "implementato e illustrato con motivi nuovi espressamente incentrati sulla applicabilità al ricorrente dell'art. 63 comma 4 c.p." e lamenta che, in ordine a tale aspetto, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso qualsiasi motivazione. Il Te.Sa. deduce che per ciascuna delle aggravanti a lui attribuite, cioè quelle di cui ai commi quarto e sesto dell'art. 416-bis cod. pen. e la recidiva reiterata specifica, da ritenere tutte a effetto speciale, il giudice di primo grado aveva applicato il relativo aumento di pena, così non osservando il disposto del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 4.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e sesto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente rappresenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe preso posizione sul fatto che tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla sentenza del 01/12/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo sui partecipanti alla ricostituita "commissione". Ciò rappresentato, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata e, premessa l'inammissibilità del riferimento al fatto notorio che sarebbe stato operato dalla Corte d'appello di Palermo, deduce l'inadeguatezza della predetta motivazione in ordine all'effettivo reimpiego di profitti illeciti e l'improprietà del richiamo "alle sale "Bingo" ed alla raccolta di scommesse" (così il ricorso), in quanto esse costituirebbero "singole iniziative", non rappresenterebbero ""strutture produttive" capaci di generare "beni o servizi" del genere tutelato dall'aggravante" e sarebbero gestite in modo solo apparentemente legale ma, in realtà, illecito. Il ricorrente contesta altresì l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "è con riferimento a "Cosa Nostra", e non alle singole unità operative, che deve essere valutata (...) anche l'esistenza delle contestate circostanze aggravanti". 4.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e quarto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata al riguardo, lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe affermato la sussistenza della menzionata circostanza aggravante "su un piano meramente presuntivo anziché essere derivata da circostanze accertate in giudizio", facendo inammissibilmente leva sul fatto notorio e, comunque, argomentando in modo inadeguato in ordine sia alla materiale disponibilità di armi da parte dei partecipanti alla specifica struttura associativa in cui si sarebbe concretamente realizzata la condotta partecipativa sia in ordine alla consapevolezza di detta disponibilità, nonché trascurando il fatto che nessuno dei contestati reati-fine era stato commesso con l'uso di armi. 4.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 648-ter 1 cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la già ricordata sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo non avrebbe escluso il concorso tra il delitto di autoriciclaggio e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di autoriciclaggio abbia a oggetto denaro beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Il Te.Sa. lamenta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, ai fini della prova della provenienza del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro." da un delitto non colposo, del fatto che l'imputato "non disponeva di propri capitali" (così il ricorso), atteso che tale argomentazione, "oltre a sottendere un inammissibile ribaltamento dell'onere probatorio", trascurerebbe il fatto che "la gran parte delle disponibilità finanziarie facenti capo alle organizzazioni mafiose proviene dall'esercizio di lecite attività imprenditoriali e che nulla esclude l'eventualità - per i singoli affiliati - di conseguire proventi da attività sommerse o da illeciti di natura contravvenzionale". Il ricorrente rappresenta in proposito come la Corte d'appello di Palermo abbia trascurato il fatto che, come era stato riferito dal collaboratore di giustizia Ga.Vi., egli era titolare di un'officina ("lavorava, aveva tipo una cosa di meccanico di macchine lattoniere, una cosa del genere"), ancorché tale attività fosse esercitata in forma "sommersa". 4.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 99 cod. pen., inosservanza della legge penale e vizio della motivazione con riguardo all'applicazione della recidiva reiterata specifica "a due segmenti di un'unica condotta anziché a due distinti reati". Dopo avere rammentato che il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416-bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non abbia motivato in ordine alla doglianza, che era stata sollevata con il proprio atto di appello, secondo cui lo stesso contestato reato non costituiva un reato autonomo ma "il successivo segmento della condotta giudicata nel 2001" - con sentenza di condanna che aveva determinato T'interruzione" ma non la "cessazione" della permanenza - con la conseguenza che la commissione del reato in contestazione non poteva costituire il presupposto per l'applicazione della recidiva. 5. I ricorsi di Sc.Lu. Sc.Lu. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. Di.Be.. 5.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a tredici motivi. 5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis, primo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 5.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte, in ordine a tale aspetto, da Te.Sa., nel ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.1.1. 5.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe invece stato necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione dello Sc.Lu. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità del predetto collaboratore e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse -, tenuto anche conto del fatto che il So.Sa. avrebbe appreso quanto da lui riferito da terzi, con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa. Il ricorrente rappresenta poi specificamente che: a) il So.Sa. si sarebbe limitato a riferire che aveva dedotto che lo Sc.Lu. era intraneo alla consorteria mafiosa perché era "compare di Pi.", che egli identificava come il capo mandamento di V, sostenendo che era stato lo Sc.Lu. a fare incontrare il Pi. con il Ta.Pi., senza, tuttavia, specificare "il motivo, il giorno e il luogo", così rendendo una dichiarazione astratta e generica; b) lo stesso So.Sa. aveva altresì riferito di avere appreso che lo Sc.Lu. aveva collocato delle slot machines nel Comune di V, coinvolgendolo anche in una presunta condotta estorsiva "mai accertata e riscontrata processualmente". Poiché, con tali dichiarazioni, il So.Sa. non avrebbe in realtà fatto riferimento ad alcun fatto specifico in ordine alle condotte contestate all'imputato nel capo 1) dell'imputazione e nell'arco temporale in esso indicato e poiché le circostanze riferite dal collaboratore di giustizia non avevano trovato riscontro nel processo, né il Pi. e il Ta.Pi. erano stati sentiti, ne discenderebbe che le stesse dichiarazioni si dovrebbero ritenere costituire "un mero dato neutro" e che anche la valutazione di attendibilità delle medesime si dovrebbe ritenere "superficiale". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni del menzionato collaboratore di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con il Te.Sa., il Su., il Bi., il Cl., il Ta., il Na. e il Sa., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità dello stesso a costituire prova della propria partecipazione all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) con riguardo alle conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Te., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); b) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che lo Sc.Lu. non era stato ritenuto responsabile di alcun reato di estorsione ai danni di commercianti ed era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, e che, da II'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "gli interlocutori richiedevano, ognuno per la propria parte, i propri soldi al Sig. De.Gi."; c) l'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi, rispettivamente, 13), 14) e 15) dell'imputazione, non poteva costituire una conferma della partecipazione alla consorteria mafiosa, "in quanto si trattava di condotte delittuose di matrice esclusivamente personale e singola e non relative a un programma associativo"; d) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il coimputato chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara e amica del coimputato", e lo Sc.Lu. aveva mantenuto una mera "presenza (...) passiva", non intervenendo nella conversazione intrattenuta dagli altri soggetti presenti; e) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato "l'episodio dell'incendio delle autovetture della ditta di onoranze funebri del ricorrente", il quale episodio, come era stato evidenziato nel proprio atto di appello, "deponeva in senso contrario ad una presunta intraneità (...) nel sodalizio criminoso", dovendosi ritenere del tutto singolare che un sodale ritenuto vicino al capo mandamento di Br. potesse subire un atto incendiario di tal genere davanti alla propria abitazione, in quello che era reputato essere il territorio di riferimento dell'associazione mafiosa cui sarebbe appartenuto. In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel terzo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.3. Con l'aggiunta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato il fatto che la famiglia dello Sc.Lu. era titolare di un'agenzia di onoranze funebri, della quale l'imputato era un impiegato e, quindi, che questi disponeva di entrate lecite, finendo così con l'attribuire allo Sc.Lu. delle entrate di denaro di provenienza illecita alle quali, in realtà, egli non aveva mai fatto riferimento nelle conversazioni intercettate. 5.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quarto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.4. Con l'aggiunta che l'acquisito compendo probatorio deporrebbe "per un proscioglimento" dello Sc.Lu. dal reato di cui al capo 15) dell'imputazione in quanto: a) egli non avrebbe intrattenuto alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa., asseriti fittizi intestatari di (...) Srl; b) non sarebbe mai stato contattato per problematiche attinenti all'attività imprenditoriale; c) non avrebbe intrattenuto rapporti con gli esercenti presso i quali avrebbero dovuto essere installate le slot machines; d) non era menzionato nelle intercettate conversazioni riguardanti (...) Srl 5.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), e), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quinto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.5. Con la precisazione che il ricorrente deduce che la Corte di cassazione, a seguito della presentazione di un motivo nuovo non dedotto in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ancorché soltanto nei limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dal giudice di merito. 5.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni identiche a quelle dedotte da Te.Sa. nel sesto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.6. 5.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 75, comma 2, del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e agli artt. 43, 47 e 81, secondo comma, cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato dì violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione. Nel citare diversa giurisprudenza della Corte EDU, della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Corte di cassazione sul tema di detto reato, il ricorrente rappresenta che: a) "in assenza del contenuto dei dialoghi intrattenuti tra i coimputati nel corso di incontri conviviali", difetterebbe "la prova della "pericolosità" di tali episodici incontri", i quali, anche per il fatto di essere "saltuari" e "caratterizzati dalla spontaneità, senza una pregressa programmazione", non sarebbero stati "finalizzati a violare alcuna prescrizione imposta dal Giudice della prevenzione"; b) dal compendio probatorio era emerso che egli si era recato più volte nella propria casa di villeggiatura nel Comune di A, unitamente al proprio nucleo familiare, "senza per tale motivo mettere in concreto pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice de qua". Il ricorrente lamenta quindi che la Corte d'appello di Palermo non abbia escluso la sussistenza del reato in applicazione del principio di necessaria offensività, cioè senza verificare se il proprio comportamento avesse messo in pericolo o leso il bene giuridico tutelato "così da essere connotato da un'eloquente volontà di ribellione all'obbligo imposto in modo da vanificare lo scopo della misura", in assenza di "indicazioni univoche e chiare in ordine alla condotta posta in essere (...) da cui possa evincersi che la violazione sia avvenuta in concreto con l'intenzione di sottrarsi ai controlli ed al fine di tenere condotte illecite". 5.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel settimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.7. 5.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nell'ottavo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.8. Il ricorrente evidenzia altresì: a) che egli non era stato riconosciuto responsabile di alcun reato di estorsione perpetrato dalla presunta associazione mafiosa ai danni di commercianti ed era stato assolto, oltre che dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione; b) la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale andrebbe anch'essa intesa nel senso che sia lo Sc.Lu. sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro, "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". 5.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. Il ricorrente - nell'evidenziare che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al due luglio 2019 (precedente condanna (...) di Sc.Lu. in data 24.05.2006)" e che la Corte d'appello di Palermo ha riconosciuto la continuazione tra i reati sub iudice e quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007 - deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel nono motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.9. 5.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel decimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.10. Con riguardo ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente evidenzia anche la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale confermerebbe anch'essa che sia lui sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". Con riguardo al reato di cui al capo 27) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anche la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione della Corte d'appello di Palermo, la quale avrebbe del tutto omesso di confrontarsi con la doglianza difensiva secondo cui le violazioni delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno sarebbero state poste in essere "nel proprio esclusivo interesse e non con il proprio fine di agevolare l'associazione criminale "cosa nostra" (paradigmatici, in tal senso, i riferimenti alla frequentazione della propria abitazione di villeggiatura sita ad A o, ancora, di ristoranti e agriturismi, in alcun modo riconducibili alla consorteria)". 5.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. "in ordine all'illegittima individuazione del reato più grave, alla quantificazione della pena e del calcolo stabilito per il reato continuato e le circostanze aggravanti". Il ricorrente deduce anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite", e lamenta che la stessa Corte d'appello "non ha specificamente motivato circa la determinazione della pena, omettendo di indicare, nel dettaglio, non solo i singoli aumenti per ciascuno dei reati posti in continuazione previo "scorporo", allo scopo di verificare la proporzionalità dei singoli aumenti, di ciascuno di essi ma, altresì, le ragioni giustificative degli aumenti operati", avendo "optato per un aumento non contenuto né proporzionato rispetto alla pena base". In secondo luogo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe errato nell'individuare quale reato più grave quello sub iudice di cui al capo 1) dell'imputazione "in ragione dell'inasprimento della pena edittale, nonché della contestata recidiva ex art. 99 comma IV c.p.", atteso che, al fine di detta individuazione, "avrebbe dovuto comparare la gravità in concreto delle singole condotte e non limitarsi a fare una rilevazione relativa alla pena vigente nel singolo momento in cui i reati posti in continuazione sono stati commessi"; comparazione sulla base della quale il reato più grave avrebbe dovuto essere ritenuto quello associativo già giudicato, "perché la condotta posta in essere dall'odierno imputato aveva un disvalore maggiore, per la caratura dei soggetti coinvolti, per i fatti e le dinamiche emersi nell'ambito del pregresso processo, per l'intensità del dolo e la durata della condotta delittuosa, per la commissione del reato-fine di estorsione, per il ruolo ricoperto in seno alla famiglia di Co.". 5.1.12. Con il dodicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 63, quarto comma, 81, secondo comma, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione con la quale la Corte d'appello di Palermo, in ragione dell'"assenza di elementi positivamente valutabili" e "della elevata offensività della condotta ascritta all'imputato", ha confermato il diniego allo stesso delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente rappresenta al riguardo come la gravità del reato non si possa ritenere di ostacolo alla concessione del detto beneficio e come la Corte d'appello di Palermo, nel negarlo, avrebbe omesso di valutare gli elementi positivi, che erano stati evidenziati dalla propria difesa, della sua età anziana, delle sue gravi condizioni di salute (che avevano portato alla sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e che ne comprovavano la "scarsa pericolosità"), della sua "situazione familiare", del suo contesto socio-ambientale di vita e del "percorso rieducativo intrapreso (...) nell'espiazione della pena". Sotto un secondo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare in ordine al percorso logico-giuridico che aveva seguito nel determinare la misura della pena irrogata, la quale sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti e non idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo". Sotto un terzo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe erroneamente applicato il quarto comma dell'art. 63 cod. pen. Lo Sc.Lu. rammenta che la misura della pena è stata così determinata: a) pena base 12 anni di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del quarto comma dello stesso articolo; b) aumento di un terzo (quindi, di 4 anni di reclusione, arrivando così a 16 anni di reclusione) per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; c) ulteriore aumento di 2 anni di reclusione, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata specifica (arrivando così a 18 anni di reclusione). Ciò rammentato, il ricorrente afferma l'erronea applicazione del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. in quanto la Corte d'appello di Palermo, a norma di tale comma, "avrebbe potuto operare solo un aumento facoltativo di un terzo". Sotto un quarto profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo: a) avrebbe omesso di argomentare in ordine agli aumenti di pena, ai sensi del secondo comma dell'art. 81 cod. pen., "in modo distinto per i reati meno gravi"; b) nel riconoscere la continuazione con i reati già giudicati con la menzionata sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, non avrebbe "operato una riduzione degli aumenti per i reati-satellite posti in continuazione, così apparendo irragionevole e sproporzionato un simile trattamento sanzionatorio dal momento che veniva, in sede di appello, ritenuto responsabile di una condotta sanzionata in maniera più mite e, per l'effetto, dovevano essere rivisti gli aumenti per le altre condotte poste in continuazione"; c) ribadisce che, come già dedotto con l'undicesimo motivo, la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite". 5.1.13. Con il tredicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 132, 133, 202, 203, 228, 230 e 233 cod. pen. e all'art. 27 Cost., per avere la Corte d'appello di Palermo confermato l'applicazione, nei propri confronti, delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, con l'affermare al riguardo che "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma uno n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore a dieci anni di reclusione e quindi in misura non inferiore ad anni tre", si sarebbe sottratta all'obbligo - che sarebbe previsto anche per l'applicazione di misura di sicurezza nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., ai sensi dell'art. 417 dello stesso codice - di motivare in ordine al positivo accertamento della pericolosità sociale del condannato. Inoltre, la citata motivazione della Corte d'appello di Palermo non potrebbe valere per la misura di sicurezza del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo, atteso che "l'applicazione di quest'ultima misura è discrezionale, cosicché il Giudice di merito avrebbe dovuto motivare sul punto le ragioni di una siffatta condanna"; motivazione che, invece, difetterebbe anche in ordine alla pericolosità sociale del condannato Sc.Lu. 5.2. Il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. è affidato a undici motivi. 5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. Il ricorrente sostiene anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo la partecipazione all'associazione mafiosa", atteso che tale partecipazione deve essere, invece, "dimostrata, senza avvalersi di automatismi e presunzioni, nella sua concretezza e con riferimento al periodo della imputazione". A proposito di tale necessaria dimostrazione, il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe indicato, in concreto, in che modo gli elementi da essa valorizzati potessero dimostrare la sua partecipazione all'associazione, nei necessari termini di un ""apporto quotidiano"" e di un "inserimento stabile ed organico", e contesta, in particolare, che tale dimostrazione potesse risultare sulla scorta del contenuto delle dichiarazioni che erano state rese dal collaboratore di giustizia So.Sa. durante il suo interrogatorio del 19/06/2016 e dei propri incontri con altri presunti sodali, atteso anche che tali incontri, il più delle volte, erano rimasti ""muti"", in quanto non accompagnati da intercettazioni. Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, in termini accusatori, del contenuto dell'intercettata conversazione del 30/01/2015 tra egli stesso e Da.Cl. - nel corso della quale quest'ultimo diceva allo Sc.Lu.: "se tu hai bisogno di me, nel mio piccolo" - e deduce in proposito che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato quale valenza si potesse attribuire, al fine di provare la propria reintroduzione nel sodalizio, al "mero riconoscimento di disponibilità da parte di un conoscente dello Sc.Lu., una volta che quest'ultimo aveva scontato il proprio periodo di detenzione" (disponibilità che "peraltro (...) avrebbe potuto essere stata legata a convinzioni dell'interlocutore dello Sc.Lu. ingenerate dalla sue condotte pregresse, oggetto del precedente giudizio)". Lo Sc.Lu. sostiene poi, con riguardo alla valorizzazione dei propri incontri con altri soggetti che avrebbero asseritamente fatto parte del sodalizio, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, la mancata conoscenza delle conversazioni che ebbero luogo durante tali incontri, per non essere state le stesse intercettate, renderebbe "gli stessi logicamente inutilizzabili, potendo questi ultimi avere avuto - come è effettivamente accaduto - un tenore di tutt'altro tipo, totalmente estraneo alle logiche ed alle dinamiche dell'associazione mafiosa". Né, sempre contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, si comprenderebbe "come il distanziamento tra gli interlocutori o il fatto che alcuni incontri siano avvenuti in appartamenti o in luoghi privati possa essere sintomatico di una afferenza delle conversazioni effettuate alle questioni tipiche del sodalizio". Quindi, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "adottato un ragionamento prettamente presuntivo, conferendo valore probatorio a dati del tutto privi di tale significato". Il ricorrente sostiene ancora che, come aveva rappresentato nel proprio atto di appello, i cui rilievi sarebbero stati ignorati dalla Corte d'appello di Palermo, nelle rare occasioni in cui furono effettuate delle intercettazioni delle conversazioni che ebbero luogo nel corso dei menzionati incontri, "queste si rivelano in concreto poco comprensibili o comunque neutre". Dopo avere rammentato che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto come egli fosse rimasto estraneo alle fattispecie estorsive che erano state contestate ad altri coimputati e fosse stato assolto dal reato dì traffico illecito di sostanze stupefacenti, oltre che dai reati di trasferimento illecito di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, lo Sc.Lu. contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui tale rilievo non coglierebbe nel segno "avendo l'imputato riportato condanna per i delitti di cui agli artt. 648-ter e 512-bis c.p. contestati ai capi 13), 14) e 15)", atteso che queste ultime fattispecie di reato si dovevano ritenere avere "matrice esclusivamente personale, in alcun modo elevabili a elementi di conferma di una partecipazione dell'odierno ricorrente al sodalizio mafioso", e che la risposta della Corte d'appello di Palermo allo stesso rilievo sarebbe comunque "approssimativa e dunque solo apparente". Il ricorrente deduce infine che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe riconosciuto adeguato rilievo all'episodio dell'incendio delle autovetture intestate all'impresa di onoranze funebri a lui riconducibile, episodio che si porrebbe "in palese contrasto con l'impostazione della Corte, secondo la quale l'imputato sarebbe un soggetto molto vicino al capo mandamento di Br.". Lo Sc.Lu. contesta la motivazione resa al riguardo dalla Corte d'appello di Palermo ("potendo invece l'episodio inserirsi agevolmente nel gioco dei rapporti di forza all'interno della famiglia mafiosa"), in quanto fondata "sulla base di una ipotesi (...) non supportata - e non sorretta dal punto di vista motivazionale - da elemento alcuno". 5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta anzitutto che sarebbero inconferenti, alla luce della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, i riferimenti, operati dalla Corte d'appello di Palermo, "alla "notorietà" della stabile dotazione di armi da parte del sodalizio "cosa nostra" per giustificare, in ossequio ad inaccettabili automatismi, l'applicazione dell'aggravante al singolo appartenente". Il ricorrente deduce poi che gli elementi addotti dalla stessa Corte d'appello di Palermo al fine di "corroborare il c.d. fatto notorio della disponiblità di armi da parte di "cosa nostra"" sarebbero "incongrui", tanto da configurare una motivazione meramente apparente, in quanto basata su "di un ragionamento meramente presuntivo". Il ricorrente rappresenta al riguardo, anzitutto, che sarebbero "privi di concreto valore probatorio" gli elementi costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Va.Pa. e dal contenuto di alcune intercettate conversazioni tra soggetti asseritamente facenti parte del sodalizio (tra Va.Pa., Ro. e Li.Ma.; tra Di.Sa. e la cognata Pi.Ma.; tra Di.Sa. e il cognato Co.Sa.), atteso che si trattava di "affermazioni rese da soggetti terzi, in alcun modo riconducibili allo Sc.Lu. ed alle quali non ha fatto peraltro seguito alcun riscontro concreto" -avendo la stessa sentenza impugnata dato atto che la perquisizione che era stata effettuata nell'abitazione dei Ro. aveva avuto esito negativo - e, quindi, di elementi inidonei a dimostrare che lo Sc.Lu. avesse avuto contezza diretta della dotazione di armi o l'avesse colpevolmente ignorata. Parimenti, sarebbero inidonei a giustificare l'applicazione della circostanza aggravante de qua il contenuto dell'intercettata conversazione tra Ro.Pa. e suo padre Ro.Pi. e il fatto che, a seguito dell'arresto del Ta.Pi., lo Sc.Lu. e Te.Sa. avrebbero sostituito lo stesso Ta.Pi. nella gestione degli affari inerenti alla famiglia di Co.. Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) la Corte d'appello di Palermo ha confermato la sua assoluzione dal delitto di direzione e promozione dell'associazione mafiosa, ruolo che, comunque, non potrebbe, da sé solo, costituire prova della disponibilità di armi da parte del sodalizio e della consapevolezza di ciò da parte dell'imputato; b) quanto alla menzionata intercettata conversazione tra Ro.Pa. e Ro.Pi., in cui egli viene menzionato, si tratterebbe "di una intercettazione dal contenuto decisamente lacunoso e vago, in alcun modo idonea a provare l'asserita disponibilità di armi da parte dell'odierno ricorrente o comunque la mera consapevolezza, da parte di quest'ultimo, in ordine al relativo possesso da parte degli altri associati", e che sarebbe assolutamente illogico considerare quale elemento a proprio carico una captazione nel corso della quale gli stessi interlocutori definiscono "minchiate" i racconti su armi nella disponibilità dello Sc.Lu. o, comunque, del sodalizio. 5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, disattendo anche la citata giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della menzionata circostanza aggravante: a) avrebbe omesso "di fornire l'indicazione di una prova puntuale e concreta dell'immissione, da parte dell'odierno ricorrente, di capitale di provenienza delittuosa nelle attività economiche" del settore delle slot machines, ritenendo dimostrata tale immissione sulla base di captate affermazioni proprie ("I picciuli della gente... G.") e di Te.Sa. ("tutti i soldi in comune sono") "generiche e decontestualizzate"; b) avrebbe affermato in modo del tutto sommario e anapodittico, in assenza di richiami a prove concrete, che l'attività a sé riconducibile avrebbe alterato la concorrenza e il mercato delle cosiddette "macchinette", finendo per prevalere sulle altre presenti nello stesso territorio. Posto che la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato anche quanto da essa considerato in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente richiama anche le doglianze, "da intendersi qui riportate", svolte nei successivi motivi relativi a tali affermazioni di responsabilità. 5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere argomentato che, con riguardo a tale affermazione di responsabilità, non ricorrerebbe una cosiddetta "doppia conforme" e avere in particolare precisato che la Corte d'appello di Palermo ha individuato, quale delitto presupposto dell'autoriciclaggio, esclusivamente quello di associazione mafiosa, il ricorrente contesta anzitutto l'errata applicazione dell'art. 648-ter 1 cod. pen. con riguardo all'affermazione della stessa Corte d'appello secondo cui "appare sufficiente che agli stessi imputati sia stato contestato (...) il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.", atteso che, così ritenendo, si verrebbe a "creare una sorta di automatismo tra la contestazione del reato associativo e l'investimento in attività economiche - con modalità tali da integrare il delitto di autoriciclaggio - dei proventi del delitto associativo (che avrebbero dovuto essere, quantomeno, previamente individuati)". In secondo luogo, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe motivato in modo solo apparente in ordine all'elemento del reato di autoriciclaggio costituito, in particolare, dall'immissione di utili di provenienza illecita derivanti dalla partecipazione al sodalizio mafioso nell'attività economica relativa alla gestione delle slot machines. In terzo luogo, il ricorrente deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di tenere conto di due doglianze, che erano state prospettate nel proprio atto di appello e che avrebbero dovuto indurre a escludere la propria responsabilità, costituite dalla rappresentazione dei fatti che: a) non gli era imputato l'investimento di una somma di denaro determinata (come era per il coimputato Te.Sa.) ma di "una somma non meglio specificata" (così il capo d'imputazione); b) la propria famiglia era titolare di una nota agenzia di pompe funebri, presso la quale egli era impiegato, fonte di redditi acclarati, consistenti e, evidentemente, leciti. 5.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15 dell'imputazione. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, in contrasto con l'orientamento della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, avrebbe ritenuto la propria responsabilità per i predetti due reati sulla base del solo preteso esercizio, da parte propria, di un potere gestorio dei beni - il quale sarebbe stato peraltro comunque affermato sulla base di una motivazione meramente apparente - in difetto, non solo di accertamenti di natura patrimoniale, ma anche di elementi specifici, non indicati nella motivazione della sentenza impugnata, idonei a dimostrare la provenienza delle risorse asseritamente investite e la riconducibilità di esse all'imputato. Con specifico riguardo al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, il ricorrente afferma l'inidoneità degli elementi valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo ai fini della conferma della sua affermazione di responsabilità. In particolare, con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, lo Sc.Lu. deduce che queste sarebbero "poco chiare, inserendosi spesso in contesti connotati da tratti incerti ed espressioni incomprensibili, per tali ragioni, in alcun modo idonee a sorreggere l'accusa" e, specificamente, che, come era stato osservato nel proprio atto di appello, restato, sul punto , senza risposta: a) la frase di Te.Sa. "tutti i soldi in comune sono", "si inserisce in tutta evidenza in un quadro poco chiaro, tra espressioni prive di significato e riferimenti a un "ragazzo" che non c'è più e ad altri terzi soggetti"; b) le frasi del Te.Sa. "Cioè come... ci ho messo un sacco di soldi" e dello Sc.Lu. "Io non ce ne metto più" costituirebbero "una evidente riproposizione indiretta di quanto detto dal De.Gi., il quale sosteneva per l'appunto di avere immesso denaro nella società e di non volerne mettere più, tant'è che Te.Sa. concludeva asserendo "Non ce ne mettono più? Ma stiamo impazzendo?""; c) la frase "i picciuli della gente" sarebbe "poco chiara", sicché da essa non sarebbe "possibile dedurre - se non con un inaccettabile salto logico (...) - la prova di una qualsivoglia immissione di capitale nell'impresa da parte degli imputati". Il ricorrente contesta ancora la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, del fatto che, dopo un incontro nel magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", egli e il Di.Pi. venivano trovati dalla Polizia in possesso, rispettivamente, di Euro 950,00 e di Euro 2.050,00, atteso che si tratterebbe "di somme con tutta evidenza non particolarmente ingenti, delle quali i due soggetti potevano ovviamente disporre per altre ragioni (...) certamente non collegate all'incontro precedentemente intercorso". Con riguardo al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe desunto la propria responsabilità dal fatto che egli "abbia messo in contatto Mi.Al. con Nu.Gi., titolare del magazzino di Corso (omissis) n. (omissis), così agevolando la ricerca di un locale ove esercitare l'attività di impresa e favorendo la stipulazione del contratto di locazione tra le parti" (così il ricorso), il che, tuttavia, evidenzierebbe un proprio ruolo "notevolmente limitato e marginale", del tutto inidoneo a dimostrare che egli avesse un interesse in (...) Srl, che vi avesse investito risorse proprie e ne fosse l'effettivo titolare. Il ricorrente contesta poi l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui dalle risultanze istruttorie si desumerebbe che i capitali per la costituzione della menzionata società furono forniti dallo Sc.Lu. e da Te.Sa. ed evidenzia al riguardo che: a) le risultanze istruttorie non lo riguardavano, salvo che per la già contestata "questione dell'affitto dei locali"; b) il valorizzato dialogo "in cui si parlava di tale F.", avrebbe un "contenuto assai vago e poco comprensibile" e la Corte d'appello di Palermo non chiarirebbe "da dove dovrebbe risultare che gli interlocutori si riferiscano alla (...), all'epoca (1.7.2016) neppure costituita". La Corte d'appello avrebbe poi del tutto trascurato quanto era stato rilevato nel proprio atto di appello riguardo ai fatti che egli: a) "non intratteneva alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa."; b) "non veniva mai contattato per problematiche riguardanti l'attività"; c) "non aveva mai avuto rapporti con i titolari delle attività commerciali presso le quali erano state collocate le macchinette"; d) "non veniva mai menzionato, neppure nei dialoghi concernenti la società valorizzati in chiave accusatoria". 5.2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione della recidiva, nonostante il riconoscimento della continuazione con i reati per i quali era stata pronunciata sentenza passata in giudicato (resa nell'ambito del procedimento cosiddetto "Ghiaccio"). Il ricorrente deduce - citando anche, in tale senso, Sez. 5, n. 5761 del 11/03/2010, dep. 2011, Melfitano, Rv. 249255-01 - l'incompatibilità tra recidiva e continuazione, come risulterebbe dal fatto che la continuazione è istituto "volto a considerare, agli effetti penali ed in un'ottica di minor disvalore, quale un unico reato plurime condotte poste in essere dall'agente, anche in tempi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso", e contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la compatibilità tra i due istituti sarebbe confermata dal quarto comma dell'art. 81 cod. pen., atteso che tale disposizione "non riguarda in alcun modo l'applicazione della recidiva per il secondo reato in continuazione e non attiene affatto, dunque, alla questione della compatibilità tra recidiva e continuazione". Lo Sc.Lu. evidenza poi che, nel caso di specie, "si è in presenza - come riconosciuto nella stessa statuizione impugnata - di un'unica condotta permanente di fatto protrattasi nel tempo, proseguendo "senza soluzione di continuità" (così a pag. 483 della sentenza) anche dopo la prima condanna, rispetto alla quale la contestazione di due diversi reati è legata esclusivamente ad una fictio iurìs", sicché, "specie in considerazione di ciò, l'applicazione della recidiva avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica motivazione, mentre la Corte vi dedica solo poche righe, con considerazioni di solo stile, che rendono la motivazione meramente apparente". 5.2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione di tutte le aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. e della recidiva, in violazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo nella parte in cui questo aveva applicato gli aumenti di pena prima per la circostanza aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., poi per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dello stesso articolo e, infine, per la recidiva, laddove, invece, ai sensi del quarto comma dell'art. 63 cod. pen., "solo uno dei tre aumenti (...) sarebbe stato, in astratto, legittimo, mentre per l'ulteriore aumento, meramente facoltativo per espressa previsione di legge, la scelta di applicarlo avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata", "specie in considerazione del fatto che la difesa aveva lamentato l'immotivata valutazione compiuta sul punto dal primo giudice". 5.2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche con riferimento all'art. 125 dello stesso codice, l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. con riguardo ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine al proprio motivo di appello (il quarto) con il quale aveva dedotto l'insussistenza, con riferimento ai due menzionati reati di trasferimento fraudolento di valori, della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. (che, nel capo d'imputazione, gli era stata contestata sia come metodo mafioso sia come agevolazione mafiosa). 5.2.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel confermare tale diniego, avrebbe motivato in modo solo apparente, non avendo considerato quanto la propria difesa "aveva posto all'attenzione della (stessa) Corte", cioè che "i precedenti penali non possono essere utilizzati quale presupposto sulla base del quale negare la concessione delle attenuanti" e che la propria "posizione (...) fosse già stata ampiamente ridimensionata". Lo Sc.Lu. lamenta altresì la violazione del divieto di bis in idem sostanziale per avere la Corte d'appello di Palermo valutato due volte la propria ricaduta nel reato, sia per applicare "la relativa circostanza" (id est: la recidiva) sia per escludere le circostanze attenuanti generiche. 5.2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo all'applicazione di una pena asseritamente eccessivamente elevata, in violazione degli artt. 81 e 133 cod. pen. Il ricorrente lamenta che la "conferma della pena inflitta" sarebbe "viziata" in quanto gli sarebbe stato "riconosciuto un ruolo non significativo all'interno del sodalizio criminale "cosa nostra"" e che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato in ordine alla congruità della pena irrogata e sugli aumenti per la continuazione se non ricorrendo a mere clausole di stile, quale si dovrebbe ritenere l'argomentazione "tenuto conto dei criteri soggettivi e oggettivi di cui all'art. 133 c.p." (pag. 484 della sentenza impugnata). 5.2.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma dell'applicazione delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma 1 n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore ad anni dieci di reclusione e dunque non inferiore ad anni tre" e deduce in proposito che tale motivazione sarebbe, anzitutto, incompleta, in quanto afferisce alla sola misura di sicurezza della libertà vigilata, e, in secondo luogo, errata, in quanto non terrebbe conto dei principi, affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui, dopo la novella di cui all'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nell'applicazione delle misure di sicurezza, esclusi qualsiasi automatismo e presunzione, è sempre necessario accertare in concreto la pericolosità del condannato. Il denunciato vizio di motivazione sarebbe "ancor più grave" con riguardo all'applicazione del divieto di soggiorno di cui all'art. 233 cod. pen., atteso che tale misura di sicurezza è, per espressa previsione normativa, facoltativa. 5.2.12. In conclusione del proprio ricorso, lo Sc.Lu. chiede che, nel caso di annullamento della sentenza impugnata cui consegua una rideterminazione della pena per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., venga annullata anche la statuizione della stessa sentenza che ha individuato tale reato come il più grave tra quelli posti in cntinuazione. 6. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., I'"insufficienza della motivazione". Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe "esplicitato chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove (che sorreggevano la sua decisione) consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente (...) senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito" e senza considerare le specifiche doglianze che erano state avanzate dall'imputato. Il ricorrente, "(i)n via subordinata", "chiede la riforma dell'impugnata sentenza escludendo l'aumento per la contestata recidiva". 7. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a quattro motivi. 7.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen. e all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione e traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 7.1.1. Quanto al primo reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni che erano state rese dai collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi. Quanto, in particolare, a quelle di quest'ultimo, la Corte d'appello di Palermo, col ritenere che egli avrebbe indicato l'imputato come alter ego del suocero Sc.Lu. (pag. 155 della sentenza impugnata), non avrebbe considerato che le dichiarazioni del Bi. "sono state di altro tenore". Ciò in quanto il Bi.: "dichiara di conoscerlo fotograficamente, quando, in realtà, lo scambia per un altro"; solo "dopo averne sentito il nome", afferma che il Di.Pi. "è contiguo al suocero" (così il ricorso), concetto, quello di contiguità, che "non equivale ad intraneità", la quale richiede "il fattivo contributo per l'intera organizzazione"; afferma che "non gli risulta (che egli sia) uomo d'onore" (così il ricorso); riferisce che il Di.Pi., quando lo Sc.Lu. "parlava con determinati soggetti o in di lui presenza", si allontanava, senza che, peraltro, dal contenuto delle effettuate intercettazioni tra presenti, fosse emerso che egli fosse a conoscenza del contenuto dei dialoghi, neanche per essergli stato riferito dal suocero. Secondo il ricorrente, pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che non lo avrebbero indicato come uomo d'onore, ma soltanto come vicino al suocero Sc.Lu., sarebbero state "più che riscontrate, (...) interpretate". Il Di.Pi. sottolinea ancora come la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di valorizzare il dato che il collaboratore di giustizia Co. aveva affermato di non conoscerlo. In secondo luogo, il Di.Pi. contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento che egli avrebbe accompagnato il suocero Sc.Lu. nei luoghi di presunti incontri con altri sodali. Il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, egli non si era mai trattenuto all'esterno dei predetti luoghi, garantendo la sicurezza degli incontri, atteso che, come sarebbe emerso dai foto-filmati, egli lasciava il suocero nei luoghi degli incontri, andava via e tornava poi a riprenderlo, con la conseguenza che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "attribuito un dato probatorio diverso da quello reale". Il ricorrente rappresenta che nessuna delle conversazioni tra presenti intercettate avrebbe "valenza investigativa" e, in particolare, che "non si ha una sola intercettazione in cui il di lui suocero si sfoghi o renda partecipe il Di.Pi. del contenuto di tali fantomatiche riunioni mafiose". Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 7.1.2. Quanto al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalia persona offesa dal reato An.Ni. il 22/11/, "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato", atteso che, da quanto era emerso dal compendio probatorio, egli "si è convinto di potere accettare l'offerta risarcitoria propostagli dalla persona offesa, ritenendo di avere subito un ingiusta (s/c) per il furto subito". 7.1.3. Quanto al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il ricorrente deduce la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione là dove la Corte d'appello di Palermo afferma: "e che l'acquisto effettuato dal Di.Pi. avvenisse nell'interesse della famiglia di Co. è dimostrato da alcune conversazioni intercettate e segnatamente quella del 15.11.2017 h. 11,18 prog. 96, (...) tra Te.Sa. e Sc.Lu. in cui i due fanno riferimento a un debito di un soggetto nei confronti di Sc.Lu. per il rifornimento di un panetto" (pag. 159). I menzionati vizi della motivazione discenderebbero, secondo il ricorrente, dai fatti che: a) lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti; b) "viene valorizzata l'ipotesi di un debito per un panetto, quando al Di.Pi. viene contestato il primo comma dell'art. 73 D.P.R. 309/90, ovvero droga pesante". 7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 7.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 7.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sul tema - i quali, a suo avviso, farebbero emergere l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale -, sull'assunto che "non è possibile caratterizzare ipso iure un'associazione come armata se ciò non sia provato da ingenti quantità di armi di disponibilità comune. Quindi dovrà essere provata l'esistenza della conservazione delle armi unitamente all'esatta individuazione del luogo interessato e si aggiunge anche del reale utilizzo delle armi da parte dell'imputato", lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante relativamente alla propria posizione, in quanto la Corte d'appello di Palermo avrebbe, "in maniera palesemente generica, (...) enunciato cosa si intende e quando ricorre tale aggravante senza tuttavia, soffermarsi e fornire, quindi una motivazione riguardo al ricorrente". 7.3.2. Quanto alla seconda delle menzionate circostanze aggravanti, il ricorrente deduce che la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 12644/2016 N.R. cosiddetto "Mare Dolce 1" e la sentenza della Corte d'appello di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 2390/2020 cosiddetto "Mare Dolce 2" avrebbero escluso la sussistenza della predetta aggravante, sicché, poiché tali procedimenti sarebbero "strettamente connessi" a quello sub iudice, non si comprenderebbe "la differenza di trattamento motivazionale tra le tre sentenze, pur facendo parte dello stesso troncone di indagine". Dopo avere argomentato che "non è possibile imputare oggettivamente il reinvestimento di somme di denaro ai singoli consociati in mancanza di una verifica circa la disponibilità economica concreta", il ricorrente lamenta poi che "(n)on si ha in atti alcuna motivazione riguardo le doglianze difensive, riguardanti proprio la figura" dello stesso ricorrente. 7.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'"omessa motivazione in relazione all'art. 378 c.p.". Il Di.Pi. deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "omesso di motivare l'ipotesi delittuosa alternativa prospettata dalla difesa, in punto di diritto, ovvero quella di favoreggiamento che rispecchiava pienamente, l'eventuale condotta illecita posta in essere dal ricorrente in difformità dalla prospettazione accusatoria della di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente espone anzitutto i tratti differenziali tra i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso e di favoreggiamento personale, anche con riferimento all'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 378 cod. pen., precisando che quest'ultimo reato sarebbe caratterizzato dalla coscienza e volontà di aiutare taluno degli associati ad eludere le investigazioni dell'autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa, senza che l'agente, con il suo comportamento, contribuisca all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione criminosa nel suo complesso, di questa non facendo, perciò, patte. Il ricorrente sostiene poi che, "anche a voler seguire l'impostazione accusatoria, alla luce delle risultanze d'indagine, non v'è chi non veda l'assoluta insussistenza dell'aggravante a effetto speciale di cui all'art. 7 L. 203/91" (recte: del d.l. 13 maggio 1991, n. 152), atteso che "gli elementi a carico dell'odierno imputato non costituiscono espressione dell'aiuto arrecato all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", bensì ad un singolo soggetto anche se negativamente qualificato"; il che "non può di per sé solo comportare un vantaggio per l'organizzazione e costituire prova della volontà di agire a tale fine". Il Di.Pi. sostiene quindi che sarebbe "di palmare evidenza che l'amicizia, i rapporti, le frequentazioni tra Sc.Lu. e l'odierno ricorrente sono maturati e si sono consolidati fuori da Cosa Nostra, esclusivamente per ragioni di natura familiare" e che a nulla rileverebbero "le eventuali dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, considerato che si tratta o di testimonianza indiretta o comunque, afferisce sempre a fatti singoli non ricollegabili all'associazione mafiosa". 8. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a due motivi. 8.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418, secondo comma, cod. pen., e all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis 1 cod. pen.), la mancanza o, comunque, la manifesta illogicità della motivazione relativamente alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione. Dopo avere rammentato di essere stato assolto dall'imputazione dì usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e che, con riferimento al menzionato reato di assistenza agli associati, la Corte d'appello di Palermo aveva ritenuto non contestata l'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. - il che renderebbe ancor più illogiche le conclusioni della sentenza impugnata di conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato (non aggravato) di assistenza agli associati - il ricorrente, a proposito di tale affermazione di responsabilità, lamenta che la Corte d'appello si sarebbe limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa, non avendo mai (...) preso parte a nessuno di questi incontri" (cioè quelli che si svolgevano presso la sua abitazione di Palermo in via Fratelli Campo, n. 33). Il ricorrente deduce altresì che nella sentenza impugnata non sarebbe emersa "la coincidenza temporale dell'attività di assistenza" da lui prestata "con l'operatività dell'associazione", come richiesto da Sez. 6, n. 17704 del 03/03/2004, Barillà, Rv. 228501-01. 8.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce "(violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 62-bis c.p.". 8.2.1. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare con riguardo alla mancata concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche e trascurato di operare "qualsivoglia riferimento al tratteggiato positivo contegno assunto dal ricorrente, al certificato del casellario giudiziale (che ne ha permesso la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), che certamente avrebbe meritato disamina critica e adeguata valorizzazione". 8.2.2. L'Ur.En., inoltre, "lamenta l'eccessività della pena inflitta, la quale, invero, avrebbe dovuto esser mantenuta entro i minimi edittali e, comunque, contenuta in limiti più ristretti", e rappresenta che "la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta al ricorrente, il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso; i rilievi afferenti la personalità, nonché il di lui il ruolo, e, in ultimo, la scelta di richiedere la definizione del procedimento ex artt. 438 e ss. c.p.p. (...) inducono a ritenere relativamente contenuti i profili di meritevolezza della pena". 9. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a tre motivi. 9.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110 e 416-bis 1 cod. pen., all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune pronunce della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente asserisce che la motivazione della sentenza impugnata riguardo alla sua affermazione di responsabilità sarebbe carente, insufficiente, anapodittica, contraddittoria, astratta e generica e farebbe ricorso "a vere e proprie congetture". Il Lu.Pi. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato il fatto, che era stato evidenziato nel proprio atto di appello, che egli, il 05/10/2017, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, con la conseguenza che egli "non aveva per questo preso parte né alla compravendita di droga né alla successiva e solo presunta vendita di stupefacente "in data antecedente e prossima all'ottobre 2017"" (tale essendo il tempus commissi delicti indicato nel capo d'imputazione). Ciò posto, il ricorrente deduce che l'affermazione della propria responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio, non potrebbe essere fondata sulla base "di due sporadici viaggi in Calabria, peraltro in epoca lontana da quella indicata nel capo d'imputazione", e rappresenta specificamente al riguardo: a) quanto agli incontri dei 03/02/2017 e del 05/02/2017, il quale ultimo "secondo la tesi accusatoria era finalizzato per ritirare e trasportare la sostanza stupefacente acquistata", che ciò sarebbe smentito "dal quadro probatorio", segnatamente, dal fatto che la perquisizione personale alla quale egli fu sottoposto, insieme con la sua compagna di viaggio, durante il suo ritorno dalla Calabria, aveva dato esito negativo; b) che non avrebbe valore dirimente il fatto che egli, il 08/02/2017, "si fosse incontrato con i calabresi", "dal momento che dalla piattaforma probatoria non si è appurato alcuno scambio di sostanze di stupefacenti, atteso che non è stato mai identificato il soggetto con cui si presume avesse un appuntamento l'impugnante, ma soprattutto sulla scorta del fatto che il servizio di pedinamento ad un certo punto veniva interrotto dagli agenti di P.G.". La motivazione della Corte d'appello di Palermo sarebbe poi anapodittica e illogica là dove valorizza il contenuto dell'intercettata conversazione del 08/04/2017 tra il Lu.Pi. e Di.Pi., la quale sarebbe stata travisata, atteso che "dal tenore della stessa non si evincono né l'oggetto della compravendita, né l'identità dei venditori e/o acquirenti, ma solo un proposito di carattere generale di cui non si ha alcuna evidenza in ordine alla sua concreta attuazione". Il travisamento della prova da parte della Corte d'appello di Palermo si evincerebbe dalla successiva captata conversazione del 30/11/2017 tra il Mi.Al. e Di.Pi., "in cui quest'ultimo riferiva al suo interlocutore di non essere a conoscenza di precedenti accordi tra tali Ba. e altri soggetti" (così il ricorso) e dalla quale sarebbe stato agevole ricavare che era proprio il coimputato (Di.Pi.) ad affermare che sia lui sia il Lu.Pi. non avevano partecipato ad alcun traffico di sostanze stupefacenti e che il Lu.Pi. "fosse estraneo atteso il suo stato detentivo". Dopo avere rammentato alcuni principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di cosiddetta "droga parlata" e di valutazione della prova indiziaria, il ricorrente riassume le proprie doglianze lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe respinto le deduzioni difensive che evidenziavano la mancanza di ogni concreta possibilità di ritenere la conclusione di un accordo tra palermitani e calabresi sulla base di argomentazioni anapodittiche, senza attribuire valore al fatto che egli era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, fondando la propria decisione su "lacunose" intercettazioni, di un periodo (febbraio e aprile del 2017) non prossimo all'ottobre 2017, e trascurando il contenuto della menzionata intercettata conversazione tra il Di.Pi. e il Mi.Al. nella quale il primo disconosceva la conclusione di precedenti accordi con i Ba. Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 9.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., con riguardo alla conferma della sussistenza, nel reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, della circostanza aggravante di cui al suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nel richiamare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo - omettendo di confrontarsi con la doglianza, avanzata nel proprio atto di appello, secondo cui sarebbe emerso che egli e i suoi complici avevano agito esclusivamente per il proprio interesse economico e che i loro interlocutori calabresi, per riscuotere le somme a essi dovute, non si erano mai rivolti ad altri soggetti afferenti a "Cosa nostra" - avrebbe reso una motivazione apparente e anapodittica, non avendo individuato un "quid pluris" che consentisse di ritenere che la propria condotta fosse diretta, oggettivamente e soggettivamente, ad agevolare il sodalizio mafioso e non a perseguire l'interesse dei singoli coimputati. Il Lu.Pi. sostiene che non sarebbe "dirimente", in senso contrario, l'intercettata conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu. in quanto, contrariamente a quanto avrebbe ritenuto la Corte d'appello di Palermo, da detta conversazione "non si evince nessun tipo di connessione con il delitto imputato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse per il traffico di sostanze stupefacenti non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso". Inoltre, l'asserito pregresso semplice rapporto di conoscenza tra il Ba. e Di.Pi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa e in alcun modo può costituire prova della volontà di agire a tal scopo". 9.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e della pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 9.3.1. Quanto alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Lu.Pi. nell'espiazione della pena". 9.3.2. Quanto alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, il ricorrente deduce che la determinazione della misura di essa sarebbe "sfornita di qualsiasi motivazione che dia contezza del percorso logico-giuridico seguito dal Giudice ex art. 133 c.p., con la conseguenza che lo stesso si è sottratto del tutto all'obbligo di motivare", e che la stessa pena sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravita dei fatti" e inidonea ad assicurare la rieducazione e il reinserimento sociale del reo, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", elementi che avrebbero dovuto indurre a irrogare una pena "in misura notevolmente ridotta". 10. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'Avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 10.1 Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 512-bis cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui, a capo 2) dell'imputazione e per il reato di trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. 10.1.1 Quanto all'affermazione di responsabilità per il primo di tali reati, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamene motivato in ordine al suo inserimento nel sodalizio e al contributo casuale che egli avrebbe dato allo stesso. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione da parte della corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratoti di giustizia "nel Va.Pa., Bi.Fi. e Ga.Vi., e deduce che nessuno di tali collaboratori lo avrebbe "additato (...) quale uomo d'onore" e, ,n particolare , quanto a„e dichiarazioni rese da Va.Pa. nell'interrogatorio del 21/04/2015, che questi affermò soltanto che il Mi.Al. "si occupava di aggiustare le macchinette" (cioè le slot machines) e che "non era a conoscenza che e stesse venissero imposte a, vari esercenti" (così il ricorso), sicché dalle stesse dichiarazioni sarebbe risultata soltanto la "competenza tecnica dell'imputato", che nulla ha a che fare con l'essere associato mafioso"; b) quanto alle dichiarazioni rese da Bi.Fi. - Il quale aveva riferito notizie che aveva appreso da Te.Sa. - che il collaboratore non lo aveva neppure riconosciuto in fotografia, che sarebbe "anomalo che il Te.Sa. abbia parlato del Mi.Al., indicandolo, addirittura, con nome e cognome, senza, tuttavia farglielo conoscere", che il Bi.Fi., "non indica in che contesto è emerso tale nome" del Mi.Al., che lo stesso collaboratore non sarebbe "neppure sicuro" avendo dichiarato "credo sia la persona incaricata per conto di Cosa Nostra di Corso dai Mille nell'ambito del gioco"; c) quanto alle dichiarazioni rese da Ga.Vi., che questi, nell'interrogatorio del 29/03/2018, dichiarò di avere conosciuto l'imputato nel 2001-2002 "in una mangiata" e che, ai tempi, lo stesso era "vicino", in particolare, a Sc.Fa., senza tuttavia specificare che cosa intendesse per vicinanza, e che la Corte d'appello dl Palermo non avrebbe considerato che 2001 sino alla data dell'arresto vi sono state varie operazioni di P.G., anche lo stesso 1Te.Sa. e Sc.Lu. sono stati arrestati negli anni indicati per reati di criminalità organizzata, senza che la figura del Mi.Al. sia mai emersa". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, della partecipazione ad alcuni incontri con sodali (in particolare, con Te.Sa. e con Sc.Lu.), e deduce che, in nessuna delle intercettate conversazioni alle quali aveva partecipato, "si ha un abbassamento di voce, o mezze parole", e che dalle stesse conversazioni sarebbero emerse delle "mere consulenze tecniche dettate dalla conoscenze (...) nel settore" delle slot machines. Il Mi.Al. lamenta poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era un dipendente dell'impresa "Ca.Ro." e, prima, dell'impresa "Stellar Games" di Lo.Ro., come era stato documentato dalla propria difesa, anche mediante la produzione di buste paga. Il Mi.Al. contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo abbia tratto conferma della sua appartenenza al sodalizio criminoso "dalla contestazione dei reati fine che esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". 10.1.2. Quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel ritenere che Ca.Ro. sarebbe stato "un prestanome per conto del ricorrente" (così il ricorso), di Te.Sa. e di Sc.Lu., non avrebbe considerato che Ca.Ro. "non era mai stato sentito a Sit, né alcun procedimento era stato aperto nei suoi confronti". Il ricorrente deduce che Ca.Ro. "era il reale intestatario della ditta" e che, ancorché il mi.Al. avesse "trattato la locazione di un immobile" destinato a sede della società intestata al Ca.Ro., tuttavia lo stesso imputato aveva "sempre operato per costui e mai in proprio", come si ricaverebbe dal contenuto delle intercettate conversazioni del 06/06/2016 tra il Mi.Al. e il De.Gi., in cui il primo comunicava al secondo che doveva informare il proprio titolare o che il Ca.Ro. si sarebbe incontrato di persona con il De.Gi., e del 31/01/2017, in cui "sarà il di lui datore di lavoro (cioè il Ca.Ro.) che incaricherà direttamente il Mi.Al. per capire cosa era successo e non diversamente". Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo, da un lato, lo ha condannato per il reato di trasferimento fraudolento di valori, dall'altro lato, avrebbe contraddittoriamente assolto "coloro che (...) aveva ritenuto essere intestatari fittizi per l'odierno appellante". 10.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 62-bis cod. pen., la mancanza della motivazione "o comunque la genericità della stessa" con riguardo alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che, a tale riguardo, la Corte d'appello di Palermo si sarebbe "limitata ad un implicito giudizio di gravità del fatto reato ascritto", senza fare comprendere le ragioni della propria decisione, la quale non avrebbe tenuto adeguatamente conto dei parametri indicati nell'art. 133 cod. pen. e, in concreto, del fatto che "le condizioni di vita familiari e sociali, la scarsa entità di dolo, le modalità dell'azione", "la marginalità del ruolo contestato" e la "personalità dell'imputato" avrebbero dovuto indurre a concedere il beneficio richiesto. 10.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 10.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 10.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 11. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 11.1. Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 11.1.1. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Dopo avere rappresentato che nessuno dei collaboratori di giustizia avrebbe dichiarato di conoscerlo, salvo il solo Bi.Fi., il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni di tale collaboratore di giustizia, atteso che questi, in sede di riconoscimento fotografico, lo avrebbe scambiato "per il genero di Sc.Lu." e, comunque, non avrebbe "parlato di intraneità, ma di contiguità dello stesso, non a Cosa Nostra, ma a Sc.Lu., indicandolo come suo dipendente presso le onoranze funebri", e non avrebbe mai raccontato l'episodio del "bigliettino che il Mi.Pa. avrebbe destinato proprio al collaboratore di giustizia Bi.Fi.". Il ricorrente sostiene che, se fosse stato "analizzato dettagliatamente tale dato", la Corte d'appello di Palermo non avrebbe potuto avvalorare la tesi accusatoria del ruolo di intermediario che egli avrebbe svolto, atteso che tale presunto ruolo sarebbe desumibile solo dai video-filmati, "senza che vi sia stato alcun riscontro effettivo". Il ricorrente rappresenta altresì che, dalle dichiarazioni del Bi.Fi., sarebbe emerso che "Di.Pi. (sic), quando lo Sc.Lu. parlava con determinati soggetti o in di lui presenza, si allontanava, né emerge dal contenuto delle intercettazioni ambientali, anche successivi agli accompagnamenti monitorati, riscontrare l'ipotesi investigativa, ovvero che il Di.Pi. (sic) era conoscitore del contenuto di tali dialoghi per racconto, anche de relato da parte dei di lui suocero o da chissà chi". Quanto alla valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, degli "accompagnamenti del suocero (sic) nei luoghi di presunti incontri", il ricorrente deduce che "il Tribunale ha riprodotto tutti i fotofilmati in cui il Mi.Pa. accompagnava, Sc.Lu. in diversi luoghi, senza, tuttavia, mai soffermarsi o allontanarsi di poco, per mantenersi nei paraggi", che, in quasi tre anni di attività di indagine, "gli accompagnamenti monitorati sono pochissimi, senza che si rilevi un'attiva partecipazione (dell'imputato) in Cosa Nostra" e che lo stesso imputato "non era l'unico soggetto ad accompagnare Sc.Lu. in diversi luoghi, tutti monitorabili". Secondo il ricorrente, quest'ultimo dato avrebbe dovuto essere valorizzato dalla Corte d'appello di Palermo, al fine di stabilire "se il contributo apportato dal Mi.Pa., con la sua condotta, all'organizzazione mafiosa, era di tale indispensabilità tale per cui senza il di lui supporto non era possibile raggiungere gli scopi della stessa". Il ricorrente afferma quindi che la sentenza impugnata sarebbe affetta da "un enorme vuoto motivazionale" in ordine all'analisi del proprio ruolo e del proprio contributo all'associazione criminosa tali da potere ritenere l'intraneità alla stessa associazione. Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 11.1.2. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa dal reato An.Ni., "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato" e che sarebbe illogica la valorizzazione, che sarebbe stata operata dalla Corte d'appello di Palermo a pag. 181 della sentenza impugnata, del "coinvolgimento del ricorrente nell'acquisto di stupefacente presso una famiglia calabrese che non ha mai costituito oggetto di contestazione". 11.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 11.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 11.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 11.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (sempre il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 12. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA., è affidato a cinque motivi. 12.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo all'affermazione della sua responsabilità per il reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. Il ricorrente asserisce che la motivazione di tale affermazione di responsabilità sarebbe illogica, lacunosa, apparente e basata su mere supposizioni. Il Mi.Lo. lamenta anzitutto che la Cotte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era il portiere dello stabile di via (omissis) n. (omissis), in P, sicché "la sua presenza non era dovuta ad organizzare incontri ma a svolgere il lavoro di portiere" sicché il fatto che, dai filmati delle telecamere di videosorveglianza, si vedesse che alcuni soggetti, entrando nel condominio, gli si avvicinavano, "era assolutamente normale". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento del "recapito del "pizzino" del Bi.Fi. in data 17.2.2016" (pag. 197 della sentenza impugnata). Il Mi.Lo. contesta in particolare le argomentazioni della Corte d'appello di Palermo secondo cui l'affermazione del Bi.Fi. di non conoscerlo si spiegherebbe con i fatti che tale collaboratore di giustizia "lo ha incontrato fugacemente solo una volta e non emerge che dovesse essere a conoscenza del nome dell'imputato" (pag. 198 della sentenza impugnata) e che "il Mi.Lo. non è un partecipe al sodalizio" (pag. 199 della sentenza impugnata), atteso che tali argomentazioni costituirebbero delle mere supposizioni. Inoltre, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che al Bi.Fi., nel corso del suo interrogatorio del 28/03/2019, non solo fu indicato il nome del Mi.Lo., che il collaboratore di giustizia affermò di non conoscere ("neanche il nome mi dice niente"), ma fu anche sottoposta la fotografia dello stesso Mi.Lo., che il Bi. non riconobbe. Tali affermazioni del Bi.Fi. "escluderebbero con assoluta certezza la responsabilità del Mi.Lo.". Sempre a proposito del menzionato "pizzino", il ricorrente chiede, retoricamente: "se il Mi.Lo. fosse stato consapevole di qualsiasi cosa perché il Bi.Fi. avrebbe dovuto consegnare un ipotetico biglietto al Mi.Lo. e non riferirgli a voce quanto ipoteticamente vi sarebbe stato scritto? Se fosse stato il Mi.Lo. un soggetto consapevole perché il Bi.Fi. non gli comunicava oralmente ciò che voleva riferire?". Sue ""frequentazioni" o "relazioni qualificate"" con esponenti dell'ipotizzata organizzazione criminale si sarebbero dovute escludere tenuto conto, oltre che delle ricordate dichiarazioni del Bi.Fi., del fatto che dal compendio probatorio esse non erano in alcun modo emerse. Secondo il ricorrente, l'esclusione dell'elemento soggettivo del reato a lui attribuito si ricaverebbe poi dal proprio interrogatorio, in cui egli aveva chiarito il tipo e le ragioni dei rapporti di conoscenza con Sc.Lu. (perché era il titolare dell'agenzia di pompe funebri che si trovava vicino al condominio dove il Mi.Lo. lavorava), con Pi.Fi. (in quanto era il proprietario dell'appartamento al sesto piano dello stesso condominio) e con Gi.An. ("è venuto qualche volta fuori in portineria... siccome io gli ho detto perché non mi dai il nome e cognome che io lo chiamo?"). Ancora, non vi sarebbe "alcuna prova" "in ordine all'effettivo svolgimento di incontri connotati da tematiche inerenti ad interessi mafiosi", come risulterebbe anche dall'interrogatorio di Pi.Fi. del 10/07/2019, atteso che le riunioni che avevano luogo nell'appartamento del sesto piano di via (omissis), nella disponibilità del Pi.Fi., "avevano ad oggetto la divisione della proprietà dei fratelli Cl." e il Bi.Fi. e il Pi.Fi. vi intervenivano "in qualità di tecnico". Inoltre, in mancanza di intercettazioni delle conversazioni, "non può non credersi a quanto affermato dall'imputato". Non sarebbe poi "basato su prove certe" quanto sarebbe stato affermato dalla Corte d'appello di Palermo - in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. del Tribunale di Palermo nell'ordinanza di applicazione, nei confronti del Mi.Lo., della misura degli arresti domiciliari - in ordine al fatto che l'imputato "avrebbe effettuato un incontro anche in data 4/5/2018 nei pressi del Condominio", con, poi, una conversazione telefonica, alle ore 17:18, tra il Mi.Lo. e Sc.Lu. dalla quale, secondo la Corte d'appello, si ricaverebbe che lo Sc.Lu. sarebbe stato "consapevole del motivo della chiamata, senza nemmeno far parlare il suo interlocutore, riferisce di stare arrivando". Secondo il ricorrente, "tutto questo si basa su presunzioni ma non vi sono prove certe che poi lo stesso fosse arrivato o quanto altro". Pertanto, "nel Mi.Lo. non risulta provata alcuna consapevolezza della previsione incriminatrice, né alcun contributo causale che la condotta possa portare alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione". 12.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della sussistenza, nella specie, non del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, ma del reato di assistenza agli associati di cui al suddetto art. 418 cod. pen. Il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe escluso la sussistenza di quest'ultimo reato sulla base di "un ragionamento altamente contraddittorio" e "basandosi solo su supposizioni non corroborate da prove certe" e rappresenta, in proposito, che "non solo non vi è prova che il Mi.Lo. facesse parte di una famiglia mafiosa, tanto che il collaboratore di giustizia Bi.Fi. dichiara di non conoscerlo", ma che le "sporadiche conversazioni intercettate (...) al massimo integrano aiuto episodico ad un associato da parte di un soggetto esterno all'associazione". 12.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 62-bis e 69 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la "manifesta illegittimità della motivazione" con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe dato risposta al relativo motivo del proprio atto di appello e avrebbe negato la concessione del suddetto beneficio senza considerare gli elementi - che, invece, avrebbero dovuto essere positivamente valutati - costituiti dal suo essere incensurato e privo di carichi pendenti, dalla "dinamica dei fatti" e dalla "concretezza della vicenda" e dal suo corretto comportamento processuale, avendo egli "spiegato, sin da subito, durante interrogatorio di garanzia, la propria condotta con dichiarazioni genuine e veritiere", e tenuto anche conto che la mancanza di resipiscenza non potrebbe costituire motivo di diniego del beneficio. 12.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., l'inosservanza "di norme giuridiche" e la mancanza della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, limitandosi ad affermare che "la pena nei confronti del Mi.Lo. va ridotta, tendo conto dell'intervenuta riqualificazione della condotta allo stesso ascritta ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p., nella misura finale di anni otto di reclusione, così determinata: pena base anni dodici di reclusone, ridotta per il rito": a) da un lato, avrebbe del tutto omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta alla determinazione dell'indicata misura della pena; b) dall'altro lato, pur avendo riqualificato la condotta come concorso esterno e pur avendo escluso la sussistenza delle circostanze aggravanti di cui al quarto comma e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., avrebbe illegittimamente irrogato una pena base di 12 anni di reclusione, cioè - appunto, illegittimamente - la stessa pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato dalla circostanza, ormai esclusa dalla Corte d'appello di Palermo, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 12.5. Con il quinto motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la statuizione di condanna, nei propri confronti, "al risarcimento del danno" (recte: delle spese processuali; si veda la pag. 478 della sentenza impugnata) sostenute dalle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", atteso che, come risulterebbe dai relativi atti di costituzione di parte civile, tali enti non si erano costituti parte civile nei suoi confronti. 13. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a quattro motivi. 13.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo all'affermazione della propria responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. Il ricorrente sostiene che tale affermazione di responsabilità sarebbe sorretta da una motivazione carente, contraddittoria, astratta, generica e anapodittica con riguardo sia all'elemento oggettivo sia all'elemento soggettivo del reato di estorsione. Il Te.Ca. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, omettendo di confrontarsi con la relativa doglianza che era stata avanzata nel proprio atto di appello, non avrebbe considerato come, dall'intercettata conversazione del 26/05/2017 (alle ore 15:59) - nell'ambito della quale sarebbe particolarmente significativa la frase, pronunciata dall'imputato: "alla fine chi minchia se l'è portato questo motore?"" - sarebbe risultato che "l'imputato non sapeva chi avesse rubato il ciclomotore del Sig. @Sc.Fa., né inizialmente che fosse quest'ultimo la vittima del furto, con ciò emergendo dalla piattaforma probatoria che lo stesso pomeriggio del 26 maggio 2017 si trovava con il coimputato, Sig. Di.Pi., suo datore di lavoro presso l'agenzia di onoranze funebri, presso l'agenzia disbrigo pratiche per formalizzare il passaggio di proprietà del nuovo motoveicolo". Secondo il ricorrente, dal quadro probatorio, e proprio dal percorso logico-giuridico seguito dalia Corte d'appello di Palermo, emergerebbe che egli era stato soltanto presente, per avere accompagnato il suo datore di lavoro, nel momento in cui veniva formalizzato il passaggio di proprietà del ciclomotore presso l'agenzia di pratiche auto, con la conseguenza che egli non avrebbe posto in essere alcun contributo concorsuale, giuridicamente rilevante ex art. 110 cod. pen., alla presunta attività estorsiva. Il Te.Ca. rappresenta in proposito che detta sua presenza: a) da un lato, non aveva fornito all'autore del fatto né stimolo all'azione né un maggior senso di sicurezza; b) dall'altro lato, si era manifestata quando tutti gli attori della vicenda si trovavano all'interno dell'agenzia di pratiche auto nell'atto di formalizzare il passaggio di proprietà del ciclomotore, "sicché già in quel momento la presunta condotta estorsiva era stata probabilmente posta in essere nei confronti della persona offesa, la cui volontà era già stata coartata". Il ricorrente rappresenta che, dalle risultanze processuali, emergerebbe che egli, al di là della menzionata mera presenza nel momento del passaggio di proprietà del ciclomotore, era stato del tutto estraneo a quanto era accaduto nei giorni antecedenti a quello del suddetto passaggio di proprietà. Neppure sarebbe "dirimente", sempre ad avviso del ricorrente, che egli abbia condotto il ciclomotore presso l'agenzia di onoranze funebri dello Sc.Lu., dal momento che egli "era impiegato in detta attività commerciale, atteso che in quel momento la presunta condotta criminosa si era già esaurita". Il ricorrente evidenzia poi il rilievo del fatto che, sempre nell'intercettata conversazione del 26/05/2017, egli aveva utilizzato il condizionale ("E se mi intromettevo io per il motore"). Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione degli artt. 110 e 629 cod. pen., in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 13.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 110 e 393 cod. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto di cui al capo 11) dell'imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 cod. pen.). Nell'esporre gli elementi differenziali tra il reato di estorsione e il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e le condizioni per la configurabilità del concorso del terzo in quest'ultimo reato, richiamando anche la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione al riguardo (Sez. U., n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02 e Rv. 280023-03), il ricorrente deduce che, dall'acquisito materiale probatorio, sarebbe emerso che egli: a) si era limitato ad accompagnare, il 26/05/2017, il Di.Pi., suo datore di lavoro, all'agenzia di pratiche auto, dove il Di.Pi. concludeva con la persona offesa il passaggio di proprietà del ciclomotore, "senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità indebita"; b) con riguardo all'elemento soggettivo, aveva "concorso tutt'al più con coscienza nell'arbitrario esercizio del diritto del Sig. Di.Pi. di recuperare, sebbene in forma per equivalente, il ciclomotore che gli era stato indebitamente sottratto, da cui non emergono ulteriori finalità". Ad avviso del ricorrente, inoltre, non sarebbe condivisibile la tesi della Corte d'appello di Palermo secondo cui la presenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa comporterebbe sempre la sussumibilità della fattispecie concreta nella sfera di tipicità dell'art. 629 cod. pen., in quanto "il Giudice deve sempre accertare in concreto se la finalizzazione della condotta sia preordinata alla soddisfazione di un interesse ulteriore rispetto a quello di mera soddisfazione del diritto arbitrariamente fatto valere". Il ricorrente evidenzia poi che, con riguardo al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, l'azione penale non doveva essere iniziata o, quantomeno, non deve essere proseguita, difettando la condizione di procedibilità della querela. 13.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., in ordine alla conferma della sussistenza, in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, delle circostanze aggravanti previste dal suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nell'esporre gli elementi necessari per ritenere la sussistenza delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente afferma che: a) dal compendio probatorio non risulterebbero elementi idonei a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che egli avesse agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra" né che avesse assunto "un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso"; b) "dal tenore della conversazione captata de qua non si evince nessun tipo di connessione con il delitto addebitato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse al recupero del ciclomotore rubato e, nello specifico, la semplice presenza del Sig. Te.Ca. all'atto del passaggio di proprietà presso l'agenzia di disbrigo pratiche non erano finalizzati ad agevolare l'associazione mafiosa, né ad imporlo con il c.d. metodo mafioso"; c) il rapporto di lavoro con il Di.Pi. e lo Sc.Lu. non potrebbero in alcun modo comprovare che egli avesse realizzato la condotta incriminata per agevolare la consorteria mafiosa e con le modalità tipiche della sopraffazione mafiosa; d) la propria mera isolata presenza presso l'agenzia di pratiche auto non potrebbe assumere i caratteri dell'intimidazione mafiosa "in primo luogo per la ragione che lo stesso presunto minacciato non aveva avuto a sua volta alcun contatto prima di quel momento con il ricorrente, né in quell'occasione i due avevano avuto modo di interloquire o scambiarsi qualche semplice battuta sul punto, così da derivare la sudditanza della presunta vittima nei confronti dell'odierno impugnante". 13.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 123 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 13.4.1. Quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", dello stato di incensuratezza, del "contegno processuale", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Te.Ca. nell'espiazione della pena". 13.4.2. Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non l'avrebbe adeguatamente motivata, tenendo conto dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen., pervenendo a irrogare, per il reato a lui attribuito, una pena eccessiva e sproporzionata all'effettiva gravità dei fatti e, comunque, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di Te.Sa. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. An.Ba.). 1.1. Il primo e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. non sono consentiti. 1.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 4.1.1.1. della parte in fatto), la censura risulta generica e aspecifica. Il ricorrente, infatti, in primo luogo ha omesso di confrontarsi adeguatamente con il contenuto del punto 1.4 della sentenza impugnata (pagg. 38-39), nel quale la Corte d'appello di Palermo ha argomentato in ordine all'esistenza e alle attività criminose della famiglia mafiosa di Co., facente parte del mandamento di Br., della quale il Te.Sa. era accusato di avere assunto la "reggenza" dopo l'arresto, nel settembre del 2015 (il 29/09/2015), di Ta.Pi., già capo del suddetto mandamento di Br. In secondo luogo, lo stesso ricorrente ha omesso di confrontarsi adeguatamente anche con la motivazione che è stata resa dalla Corte d'appello di Palermo nel replicare alla corrispondente censura difensiva che era stata avanzata dal Te.Sa. in sede di appello, là dove, in particolare, la Corte d'appello ha evidenziato come l'avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo, connotazione dell'associazione di tipo mafioso, fosse emblematicamente comprovata dagli elementi, che erano emersi dalle risultanze investigative: dell'attività di imposizione del "pizzo", documentata dal contenuto delle conversazioni intercettate; del controllo capillare delle attività illecite che venivano svolte nel territorio, come comprovato dal caso della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"; della gestione di altre attività illecite, come l'acquisto di sostanze stupefacenti e il commercio di tabacchi lavorati esteri (pagg. 87-88 della sentenza impugnata). Si tratta di indici che, sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità, sono senz'altro sintomatici dell'operatività di una cosca di tipo mafioso, senza che, a fronte di essi, il ricorrente si possa ritenere avere spiegato per quale ragione si dovrebbe ritenere contraddittoria o illogica la conclusione, che dagli stessi indici è stata tratta dalla Corte d'appello di Palermo, dell'esistenza di una siffatta cosca. 1.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di direzione e organizzazione dell'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 4.1.1.2 e 4.1.2 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella suddetta famiglia mafiosa di Co.. Dopo avere premesso che l'imputato era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'ascesa del Te.Sa. a rivestire un ruolo direttivo e organizzativo, sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni de relato dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., i quali avevano affermato di avere saputo: il primo, da Sa.Ni., come il Te.Sa. fosse un "uomo d'onore" e persona di fiducia di Ta.Pi. ("lui con Ta.Pi. erano fratelli"); il secondo, da Di.Gi. e da La.To., come il Te.Ca. fosse un influente "uomo d'onore" della famiglia di Br. (indicazione, quest'ultima, che non illogicamente veniva ritenuta dalla Corte d'appello non inficiare l'attendibilità della chiamata per la ragione che la famiglia di Co. faceva parte del mandamento di Br.). Tali due autonome (e riscontrantesi) chiamate in correità avevano trovato riscontro anche nell'accettata (mediante servizi di osservazione a opera della polizia giudiziaria) frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con diversi altri sodali (pagine da 90 a 94 della sentenza impugnata). La Corte d'appello di Palermo ha poi valorizzato il contenuto di numerose conversazioni intercettate, il quale appare avere lo spessore non del mero riscontro alle ricordate chiamate in correità ma della prova "autosufficiente" del ruolo di effettiva direzione e organizzazione che era stato assunto dal Te.Sa. nell'ambito della famiglia mafiosa di Co. e del riconoscimento di tale ruolo da parte degli altri sodali, oltre che di soggetti estranei all'organizzazione criminosa. Da tali conversazioni era infatti emerso: a) il ruolo di direzione e organizzazione che veniva svolto dal Te.Sa. nell'attività di imposizione del "pizzo" (tra le altre: conversazione del 11/12/2015 tra il Te.Sa., Di.Gi. e Gi.Sa., nel corso della quale il Gi.Sa. consegnava al Te.Sa. il denaro provento dell'attività estorsiva, mentre il Di.Gi. chiedeva al Te.Sa. di contarlo rivolgendoglisi dandogli del "lei"; conversazione del 12/12/2015 tra il @Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale l'imputato chiedeva al Gi.Sa. il rendiconto del denaro raccolto dai vari commercianti, facendo anche riferimento alla "raccolta" di denaro per i detenuti; conversazione del 21/12/2015 tra il Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale venivano elencate tutte le richieste estorsive ai danni dei commercianti della zona e in cui il Te.Sa., tramite il Gi.Sa., ordinava a un altro sodale di recarsi presso un altro esercizio commerciale per richiedere del denaro); b) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa. rispetto all'attività di commercio dei tabacchi lavorati esteri, il quale era attestato dalla risoluzione, da patte dello stesso @Te.Sa., di un contrasto che era insorto in ordine a tale commercio tra un certo Ca. e Mi.St. e Mi.Gi., bloccando anche Sc.Lu. che aveva proposto una ritorsione nei confronti dei suddetti Mi. e stabilendo di riservare a ciascuno una fetta del relativo mercato (conversazione del 11/11/2017 tra il Te.Sa., lo Sc.Lu. e Ca.); c) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa.con riguardo al noleggio di slot machines e agli esercizi commerciali ai quali imporre la collocazione delle stesse "macchinette" (conversazioni del 08/11/2017 tra il Te.Sa.e lo Sc.Lu.), comprovato anche dalle contestazioni mosse al gestore di un'impresa del settore (De.Gi.), dall'esautoramento dello stesso da tale gestione e dall'affidamento di essa a Mi.Ga.; d) l'intervento del Te.Sa. a seguito della rapina che era stata commessa ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), con la convocazione del rapinatore - alla presenza anche di Sc.Lu., Di.Gi. e Vi. (che era stato incaricato di individuare gli autori della suddetta rapina), ancorché l'unico a interloquire fosse il Te.Sa. - e il rimprovero dello stesso rapinatore per essersi impossessato del denaro del sodalizio, a riprova anche del potere che veniva esercitato dall'imputato sul territorio della famiglia mafiosa di Co. e dell'esercizio, da parte della sua, del potere del sodalizio mafioso di autorizzare o contrastare le attività illecite nello stesso territorio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 1.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.7 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.3 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata -sono manifestamente infondati. La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva; b) va riferita all'intera associazione di cui si fa parte (pertanto, nella specie, a "Cosa Nostra" e non alla famiglia di Co.); c) è addebitabile al singolo associato che sia consapevole della disponibilità di armi da parte dell'associazione o ignori per colpa tale disponibilità. Con specifico riguardo a Cosa Nostra, è stato in particolare affermato che: a) in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi dell'organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" si può ritenere che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile (Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, Farinella, Rv. 201650-01); b) in senso analogo, in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa (Sez. 1, n. 13008 del 28/09/1998, Bruno, Rv. 211901-01, relativa a una fattispecie concernente l'associazione per delinquere di stampo mafioso denominata "Cosa Nostra", in riferimento alla quale la Corte ha affermato che, data la sua stabile dotazione di armi, questa costituisca fatto notorio non ignorabile); c) in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritiene sussistente l'aggravante della disponibilità delle armi di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., quando il delitto associativo è contestato agli appartenenti di una famiglia mafiosa aderente all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", anche nel caso in cui la disponibilità delle armi è provata a carico di un solo appartenente (Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, Corso, Rv. 260919-01); d) in tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, "Cosa Nostra"), per la configurabilità dell'aggravante della disponibilità di armi, non è richiesta l'esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l'accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori (Sez. 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, Seminara, Rv. 284761-01). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, al cui vertice si trovava il Te.Sa., disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi in capo a Sc.Fa.; dall'accettata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accettata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da patte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve ritenere che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte del Te.Sa., atteso anche il ruolo apicale che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 1.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.8 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.2 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. La più recente giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva e deve essere riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe; b) richiede un apporto di capitale nelle attività economiche che corrisponde al reinvestimento delle utilità che sono state procurate dalle azioni criminose della consorteria; c) richiede altresì che tale reinvestimento si concreti nell'intervento in strutture produttive destinate a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono beni o servizi analoghi. La Corte di cassazione ha in particolare affermato che: a) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell'attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, pure, necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. La suddetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ritenendo anapoditticamente certo che i proventi delle estorsioni cui il sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite da due degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l'altro, di verifiche in ordine alla titolarità, alle dimensioni e tipologia dell'attività nonché alla data di costituzione dell'impresa e alle forme di finanziamento di essa; b) la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ricorre quando l'attività economica finanziata con il provento dei delitti esecutivi del programma del sodalizio non sia limitata a singole operazioni commerciali o alla gestione di singoli esercizi, ma si concreti nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrano beni o servizi analoghi (Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Corcione, Rv. 277653-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l'aggravante nei confronti di un soggetto, depositario dei proventi del traffico di stupefacenti gestito dal sodalizio, senza tuttavia investirli in attività economiche); c) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe - occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Stucci, Rv. 278796-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l'aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); d) la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. - che si configura ove le attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cosiddette storiche come mafia, camorra e 'ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che - appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma criminoso - un'ignoranza al riguardo in capo a un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463-02). È necessario segnalare anche quell'orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata ai sensi dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto a imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall'impresa mafiosa, che si giova dell'imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall'acquisizione dell'attività commerciale altrui, e il reimpiego si attua attraverso l'investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Buglisi, Rv. 275586-02). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, con trariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. Occorre in proposito precisare come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dal Te.Sa.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 1.4. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.3 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.4 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Anzitutto, è manifestamente infondata la tesi, sostenuta nel ricorso dell'avv. Ba., dell'esclusione del concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso e il reato di autoriciclaggio. La Corte di cassazione ha infatti ormai chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il reato di autoriciclaggio di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., ove commesso dall'appartenente a un'associazione per delinquere di tipo mafioso, concorre con quello di partecipazione a tale associazione aggravato dal finanziamento di attività illecite, di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., attesa l'obiettiva diversità dei rispettivi elementi costitutivi, in quanto solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Quanto all'attribuzione al Te.Sa. (in concorso con Sc.Lu. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) il Te.Sa. avesse impiegato ingenti somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines-, b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come il te.Sa. fosse disoccupato e privo di beni, per essergli stati gli stessi in precedenza confiscati). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, Rv. 244477-01; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407-02). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 1.5. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.4 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità del Te.Sa. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come il Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), come lo stesso Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Te.Sa. (e Sc.Lu.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che il Te.Sa. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo al Te.Sa., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alle censure in diritto, la manifesta infondatezza delle stesse discende dal fatto che: a) il reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. non è un reato plurisoggettivo improprio e colui che si renda fittiziamente titolare dei beni a lui attribuiti può rispondere a titolo di concorso eventuale, ex art. 110 cod. pen. (tra le tante: Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Como, Rv. 277075-01; b) secondo la più recente giurisprudenza della Corte dì cassazione - alla quale il Collegio, condividendola, intende dare seguito -, in tema di trasferimento fraudolento di valori, risponde a titolo di concorso anche colui che non è animato dal dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., a condizione che almeno uno dei concorrenti agisca con tale intenzione e che della medesima il primo sia consapevole (Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Carnovale, Rv. 284796-01). 1.6. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.5 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di trasferimento fraudolento di valori concorra con il delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078-01). Ciò in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio a un terzo dei cespiti provenienti dal reato presupposto. Questo costituisce un elemento ulteriore, che l'ordinamento ha inteso punire a norma dell'art. 512-bis cod. pen. Un elemento che, proprio in quanto coinvolge un terzo soggetto "prestanome", non si può neppure ricomprendere tra quelle "operazioni", idonee a ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, che sono indicate nell'art. 648-ter 1 cod. pen., le quali sono riferibili soltanto al soggetto agente o a chi si muova per lui senza avere ricevuto un'autonoma investitura formale. Inoltre, le due violazioni della legge penale si pongono anche in due momenti cronologicamente distinti, a ulteriore dimostrazione della loro diversità, la quale non consente assorbimenti: l'autore del reato presupposto prima compie l'operazione di interposizione fittizia che, poi, darà luogo a quella di autoriciclaggio, senza la quale la condotta sarebbe punibile solo come reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. 1.7. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di autoriciclaggio, commesso dall'appartenente all'associazione di tipo mafioso, concorra con il delitto di partecipazione a tale associazione, aggravato, a norma del sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dal finanziamento delle attività economiche con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Tali due pronunce hanno anzitutto precisato che il principio che è stato affermato dalla sentenza Iavarazzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, cit.), secondo cui non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia a oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni (la Corte ha peraltro precisato che si può configurare il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale), non è estensibile all'autoriciclaggio, atteso che, in questo, non è contemplata la clausola di riserva che, invece, inerisce alle altre due fattispecie di reato. Le stesse pronunce, alla cui motivazione - che è idonea a superare tutte le obiezioni del ricorrente -, condividendola, si fa integralmente rinvio, hanno poi essenzialmente evidenziato l'obiettiva diversità degli elementi costitutivi delle due fattispecie, atteso che solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del sesto comma dello stesso articolo, richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego. Il che esclude che venga in rilievo un concorso apparente di norme o un reato complesso, e, con ciò, che il ritenuto concorso tra i due reati - in assenza, in quello di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., della menzionata clausola di riserva - integri una violazione del divieto di bis in idem sostanziale, posto a fondamento degli artt. 15, 68 e 84 cod. pen. 1.8. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.10 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione - non è fondato. È vero che, con riguardo a tali circostanze aggravanti, la sentenza impugnata non contiene una motivazione espressa. La motivazione della sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) -risulta tuttavia implicitamente, ma in modo assolutamente inequivoco, dal complesso della motivazione della sentenza impugnata e, in particolare, dal fatto che: a) come si è visto al punto 1.4, il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione è stato ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, avere a oggetto denaro proveniente dalle casse della famiglia mafiosa; b) come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, ha ritenuto come dagli acquisiti elementi di prova fosse risultato come il sodalizio mafioso avesse investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio, denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto. Tali argomentazioni, relative all'affermazione della responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e della sussistenza della circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., valgono altresì, in tutta evidenza, a sostenere anche la sussistenza della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa relativamente al reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, atteso che: a) il reato di autoriciclaggio ha avuto a oggetto del denaro appartenente al sodalizio mafioso; b) i reati di trasferimento fraudolento di valori riguardavano l'intestazione fittizia di due imprese che operavano nel settore delle slot machines, nel quale, come si è detto, lo stesso sodalizio criminoso investiva il proprio denaro per gestire, attraverso dei prestanome, le attività nello stesso settore. 1.9. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.9. della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.5 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Occorre anzitutto rilevare come la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione affermi ormai costantemente che non sussiste incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione, con la conseguente possibile applicazione, in presenza dei relativi presupposti normativi, di entrambi tali istituti, in quanto il secondo non comporta l'ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondato su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, Pettenon, Rv. 275296-01). Quanto all'ulteriore censura, sollevata in entrambi i ricorsi, di insussistenza dei presupposti per l'applicazione della recidiva, premesso che, perché sia configurabile la recidiva, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile, si deve ritenere che la stessa recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a tale irrevocabilità, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva -come può accadere, per quanto qui rileva, nei reati associativi - ponendo così in essere un ulteriore diverso fatto di reato, rispetto al quale la precedente condanna può senz'altro operare come presupposto per ritenere la recidiva. Si deve infine rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dell'imputato, evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 488 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte dì cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464-01). 1.10. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.1. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come è stato più volte affermato dalla Corte di cassazione, "nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dall'art. 416-bis c.p., commi 4 e 6, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall'art. 63 c.p., comma 4, bensì l'autonoma disciplina derogatoria di cui all'art. 416-bis c.p., comma 6, che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata" (Sez. 2, n. 7155 del 11/11/2020, dep. 2021, Liccardi, Rv. 280662 - 01; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Spadaro Tracuzzi, Rv. 261333 - 01; Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, La Franca, Rv. 252069 - 01; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460 - 01). Da questa specifica disciplina sanzionatoria, come è stato chiaramente messo in luce dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 38158 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, Rv. 264674 - 01), si ricava che il regime degli aumenti stabiliti per le aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis ù cod. pen. non interrompe "il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori". In definitiva, ove siano attribuite entrambe le circostanze aggravanti ricordate, il legislatore ha fissato un criterio autonomo di determinazione degli aumenti di pena, che riveste carattere di specialità rispetto alla disciplina generale dettata dall'art. 63 cod. pen. (al pari delle ipotesi considerate per l'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, aggravata dal carattere armato dell'associazione ai sensi dell'art. 74, comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per l'aggravante dell'ingente quantitativo di stupefacenti, riferita all'ipotesi del delitto di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, aggravato dall'essere le sostanze con accentuata potenzialità lesiva, come previsto dall'art. 80, comma 2, dello stesso D.P.R., nelle parti in cui fissano in modo autonomo la pena per le ipotesi che concernono fattispecie già aggravate; o, ancora, per l'ipotesi del concorso di più circostanze aggravanti previste dall'art. 628, terzo comma, cod. pen., la cui misura è stabilita dal quarto comma dello stesso art. 628 cod. pen.). Da tale caratteristica del trattamento sanzionatorio, previsto espressamente dalla legge, discende che il concorso con l'ulteriore aggravante della recidiva reiterata richiede l'applicazione del disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., considerando quali circostanze aggravanti a effetto speciale da comparare - al fine di individuare la più grave - quelle unitariamente considerate a fini sanzionatori dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., e quella della recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; operando, quindi, sulla pena per la più grave tra le dette circostanze, l'eventuale ulteriore aumento ex art. 63, quarto comma, ultimo periodo, cod. pen. I giudici di merito hanno dunque correttamente operato il calcolo della pena da irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 20 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 22 anni di reclusione. 1.11. L'undicesimo motivo a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.11. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Quanto alla determinazione della misura della pena per il reato di promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, si deve osservare che la pena è stata in realtà determinata nella misura del minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 15 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di promozione, direzione o organizzazione di un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 20 anni di reclusione -per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. Quanto alla determinazione della misura degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, Rv. 270799 - 01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193 - 01). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 36-38 dell'atto di appello a firma dell'avv. Gi.), il ricorrente si era limitato, del tutto genericamente, da un lato, a dedurre "la scarsa pericolosità del soggetto agente" e, dall'altro lato, a invocare la necessità di tenere "conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", senza, tuttavia, specificare in alcun modo le ragioni della suddetta asserita scarsa pericolosità dell'agente né quale sarebbero state le caratteristiche del "modus operandi", del "contesto familiare" e dei "fatti" che avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio, né perché. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. 2. I ricorsi di Sc.Lu. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. Di.Be.). 2.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.1 della parte in fatto) e il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.1. della parte in fatto) non sono consentiti. 2.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione, avanzata nel ricorso a firma dell'avv. Gi., relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 5.1.1.1 della parte in fatto), trattandosi di censure identiche a quelle che sono state prospettate con il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. (punto 4.1.1.1 della parte in fatto), è sufficiente rinviare a quanto è stato argomentato, in ordine alla genericità e aspecificità delle medesime censure, al punto 1.1.1. 2.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 5.1.1.2 e 5.2.1 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione dello Sc.Lu. alla suddetta famiglia mafiosa, nella quale l'imputato si era reinserito dopo la sua scarcerazione il 13/01/2014. Dopo avere premesso che lo Sc.Lu. era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'accrescimento dell'apporto fornito al sodalizio, mercé anche il rafforzamento del legame con Te.Sa., sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa., il quale, nel corso dell'interrogatorio che aveva reso il 19/06/2015 (il cui contenuto è testualmente riportato alle pagine da 128 a 138 della sentenza impugnata), aveva espressamente indicato, per averne avuto diretta conoscenza, lo Sc.Lu. come uomo di Ta.Pi. (successivamente arrestato il 28/09/2015) che si occupava, per conto del sodalizio mafioso, di imporre la collocazione di slot machines negli esercizi pubblici. Tale chiamata in correità, rispetto alla quale la Corte d'appello di Palermo ha logicamente argomentato la ritenuta credibilità del dichiarante (pagine 68-69 della sentenza impugnata), aveva trovato riscontro, oltre che nell'accertata assidua frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con Te.Sa. e con diversi altri membri del sodalizio, anche aventi ruoli apicali (come Su., vertice del mandamento di S, il quale, il 07/04/2016, si era personalmente recato presso l'agenzia di pompe funebri dello Sc.Lu.), anche nel contenuto di numerose conversazioni intercettate; il quale, anche in questo caso, appare avere lo spessore non del mero riscontro alla ricordata chiamata in correità, ma della prova "autosufficiente" della partecipazione dello Sc.Lu. alla famiglia mafiosa di Co.. Con riguardo a tali intercettate conversazioni, la Corte d'appello di Palermo ha in particolare evidenziato come da esse fossero emersi: a) l'immediata ripresa, da parte dell'imputato, dopo la sua scarcerazione, dei contatti con il sodalizio criminale (conversazione del 30/01/2015 con Da.Cl., uomo di fiducia di Ta.Pi., il quale Da.Cl. aveva espressamente manifestato la propria piena disponibilità ad aiutare lo Sc.Lu.); b) i numerosi discorsi con Te.Sa. aventi a oggetto gli affari illeciti del sodalizio, quali l'imposizione del "pizzo", il traffico degli stupefacenti e il commercio dei tabacchi lavorati esteri (tra le altre: conversazione del 15/11/2017, nella quale si faceva riferimento al denaro per i carcerati; conversazione del 21/11/2017, avente a oggetto l'estorsione ai danni dell'impresa di specchi "Mi.Ig."); c) il contributo che era stato dato dallo Sc.Lu. all'individuazione degli autori della già menzionata rapina ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), riconducibile alla famiglia mafiosa di Vi. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'attribuzione anche allo Sc.Lu. dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, in quanto dimostrativa del contributo che era stato dato dall'imputato alla famiglia mafiosa di Co. nell'attività di riciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori, a tutela del denaro proveniente dai delitti commessi dal sodalizio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta rinnovata partecipazione dello Sc.Lu., dopo la sua scarcerazione, alla famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, al fine di ottenere una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 2.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.7 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.2. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata - sono manifestamente infondati. Come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui lo Sc.Lu. era un "autorevole" esponente, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi proprio in capo a Sc.Fa.; dall'accertata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accertata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da parte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte dello Sc.Lu., atteso anche il ruolo significativo, ancorché non apicale, che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 2.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.8 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.3. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. Come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, contrariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, cit.; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, cit.; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, cit.) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. In proposito, si è già precisato come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dallo Sc.Lu.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 2.4. Il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.2 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.4. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Quanto all'attribuzione allo Sc.Lu. (in concorso con Te.Sa. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra lo Sc.Lu. e il Te.Sa. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) lo Sc.Lu. avesse impiegato delle somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines; b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come lo Sc.Lu. non disponesse di somme rapportabili a quelle da lui impiegate nella suddetta impresa "Ca.Ro."; affermazione, questa, che si deve ritenere contestata dal ricorrente solo in modo generico). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, cit.; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, cit.). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 2.5. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.3 della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.5. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità dello Sc.Lu. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal v), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come lo Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal Te.Sa.), come lo stesso Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Sc.Lu. (e Te.Sa.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che lo Sc.Lu. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come lo Sc.Lu. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo allo Sc.Lu., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alla manifesta infondatezza delle censure in diritto sollevate nel ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi., si rinvia a quanto si è argomentato alla fine del punto 1.5. 2.6. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.4. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi sostanzialmente sovrapponibili, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto quinto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.6. 2.7. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.5. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione -non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il sesto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi identiche, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto sesto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.7. 2.8. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha confermato tale affermazione di responsabilità sulla base degli elementi probatori costituiti dalle risultanze del localizzatore GPS che era apposto all'automobile in uso allo Sc.Lu., dai servizi di osservazione, pedinamento e controllo che erano stati svolti dalla polizia giudiziaria e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate, elementi dai quali risultava come l'imputato si fosse ripetutamente allontanato dal Comune di P, nel quale gli era stato imposto l'obbligo di soggiornare, e aveva preso parte a numerosi summit cui avevano partecipato dei noti esponenti mafiosi. Tale motivazione della ritenuta pienamente consapevole violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno appare, oltre che conforme alle norme di legge, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché si sottrae alle censure del ricorrente, dovendosi ritenere, altresì, manifesta, la concreta offensività, rispetto agli scopi della misura di prevenzione, delle condotte di ripetuto allontanamento del Comune di P al fine di incontrare (insieme al Te.Sa.) sodali della famiglia mafiosa di Br. 2.9. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.10 della parte in fatto) e l'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.8 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Gi.) e in relazione ai reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Di.Be.) - non sono fondati. Quanto alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) - in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del decimo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. che è stata fatta al punto 1.8, atteso che tali ragioni appaiono pienamente idonee ad argomentare anche l'infondatezza dei motivi in esame. Quanto alla ritenuta sussistenza della stessa circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa in relazione al reato di cui al capo 27) dell'imputazione - tale dovendosi ritenere, anche in questo caso, quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi le pagg. 472-473 della sentenza impugnata) - la motivazione della Corte d'appello di Palermo, secondo cui i comprovati allontanamenti dal Comune di P per incontrare, come era stato pure provato, sodali della famiglia mafiosa di Br., erano stati posti in essere, attesa quest'ultima circostanza, al fine di agevolare l'attività della stessa famiglia mafiosa, appare del tutto conforme al disposto dell'art. 416-bis 1 cod. pen. e, altresì, del tutto priva di contraddizioni e illogicità, tanto meno manifeste, sicché la stessa motivazione si sottrae senz'altro alle censure che sono state avanzate nel ricorso a firma dell'avv. Gi. 2.10. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.9 della parte in fatto) e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.6 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Quanto all'insussistenza di incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione e alla possibilità che la recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a una precedente condanna per un reato associativo divenuta irrevocabile, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva - questioni che sono state poste in entrambi ì ricorsi -, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza delle analoghe censure che sono state sollevate al riguardo con il nono motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. e con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Ba. che è stata fatta al punto 1.9. Si deve poi rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dello Sc.Lu., evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 480 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, cit.; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, cit.). 2.11. Il primo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.9 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 - 01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell'imputato). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244 - 01). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 - 01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163 - 01). Nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato e del fatto che questi, terminato il periodo di detenzione, non aveva esitato a offrire e a dare nuovamente il proprio contributo alla famiglia mafiosa di Co., così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano dedotti dall'imputato (e che sono richiamati nei ricorsi). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità. Né sussiste la violazione del divieto di bis in idem sostanziale che è stata lamentata con il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. La Corte di cassazione ha infatti ripetutamente chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell'imputato, in quanto il principio del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative a istituti giuridici diversi (Sez. 6, n. 57565 del 15/11/2018, Giallombardo, Rv. 274783 - 01; Sez. 6, n. 47537 del 14/11/2013, Quagliara, Rv. 257281 - 01). 2.12. Il terzo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.7 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. Come si è già diffusamente detto al punto 1.10 nell'esaminare il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. An.Ba., la Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso, nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti a effetto speciale previste dall'art. 416-bis, quarto e sesto comma, cod. pen., la pena è determinata secondo la disciplina speciale di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata, con la conseguenza che, quando concorre anche l'aggravante a effetto speciale della recidiva reiterata, ai fini dell'individuazione della più grave tra le dette circostanze, sulla quale operare l'eventuale ulteriore aumento di pena, previsto dalla regola generale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., rileva quella unitariamente considerata, a fini sanzionatori, dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. I giudici di merito hanno perciò correttamente operato il calcolo della pena di irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento di pena quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 16 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 18 anni di reclusione. Nella confermata sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo, la rilevanza di quest'ultima meno grave circostanza della recidiva e la quantificazione del relativo aumento di pena di 2 anni di reclusione erano stati altresì sufficientemente motivati in considerazione, rispettivamente: del fatto che la recidiva si doveva ritenere effettivamente dimostrativa di una maggiore pericolosità e di un maggior grado di colpevolezza; della congruità ed equità dell'irrogato aumento di pena di 2 anni di reclusione, entro il limite massimo "fino a un terzo" che è previsto dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 2.13. Le restanti doglianze in punto di trattamento sanzionatorio che sono state avanzate con l'undicesimo motivo e con il secondo e il quarto profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punti 5.1.11 e 5.1.12 della parte in fatto), nonché con il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.10 della parte in fatto), sono fondate limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, mentre non sono fondate o sono manifestamente infondate nel resto. 2.13.1. Anzitutto, non è fondata la doglianza che è stata avanzata con l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. con riguardo all'individuazione del reato di cui al capo 1) dell'imputazione come violazione più grave rispetto al reato di associazione di tipo mafioso già giudicato con la suddetta sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo. La Corte di cassazione ha chiarito che, nel caso di reati in parte decisi con sentenza definitiva e in parte sub iudice - come era nel caso di specie - la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni deve essere compiuta confrontando tra loro la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee (Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Velia, Rv. 265733 - 01; Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582 - 01. In senso analogo: Sez. 6, n. 29404 del 06/06/2018, Assinnata, Rv. 273447 - 01). La Corte d'appello di Palermo ha rispettato tale principio, avendo adeguatamente argomentato come, tenuto conto dell'inasprimento delle pene edittali per la fattispecie di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso che era stato operato con la legge 27 maggio 2015, n. 69 (art. 5, comma 1, lett. b), nonché del fatto che il reato sub iudice era aggravato dalla recidiva reiterata, la pena irroganda per tale reato sarebbe stata maggiore rispetto a quella che era stata inflitta per il reato già giudicato con la sentenza irrevocabile, con la logica conseguenza che, in applicazione dello stesso suddetto principio, il reato sub iudice si doveva considerare violazione più grave rispetto al reato associativo già giudicato. Ferma la correttezza di tale motivazione, si deve peraltro altresì osservare che: a) il ricorrente ha del tutto omesso di indicare quale sarebbe il suo interesse a che fosse invece ritenuta violazione più grave quest'ultimo reato già giudicato; b) le considerazioni svolte dallo stesso ricorrente a sostegno di tale diversa soluzione appaiano del tutto generiche. 2.13.2. In secondo luogo, è manifestamente infondata la doglianza che attiene alla determinazione della misura della pena per il più grave reato di cui al capo 1) dell'imputazione, atteso che, per tale reato, la pena è stata in realtà determinata nel minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 12 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di partecipazione a un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 16 anni di reclusione - per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 2.13.3. In terzo luogo, quanto alla determinazione degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, cit.; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., cit.). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 29-30 dell'atto di appello a firma dell'avv. Di.Be. e dell'avv. DE.SP.), il ricorrente si era limitato, genericamente, ad affermare che gli irrogati aumenti di pena di un anno di reclusione per ciascuno dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione e di 6 mesi di reclusione per il reato di cui al capo 27) dell'imputazione sarebbero stati "non in linea con i principi discrezionali di cui all'art. 133 c.p.", tenuto conto del suo "ruolo non significativo (...) all'interno della famiglia mafiosa" e del fatto che egli sarebbe stato "anche destinatario di danneggiamenti e intimidazioni", senza specificare in alcun modo per quali ragioni il suo ruolo nella famiglia mafiosa si sarebbe dovuto ritenere "non significativo" e per quali ragioni il suo essere stato "destinatario di danneggiamenti e intimidazioni" avrebbe dovuto incidere sulla determinazione della misura della pena per i suddetti reati in continuazione. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. Aumenti, peraltro, contenuti, e di cui la Corte d'appello di Palermo ha comunque ritenuto la congruità (pag. 481 della sentenza impugnata). 2.13.4. Le doglianze sono, invece, fondate, come si è anticipato, limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007. Con riferimento a tali reati, la Corte d'appello di Palermo ha infatti irrogato un aumento cumulativo di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione, senza in nessun modo motivare - come è invece necessario fare, anche alla luce dei principi che sono stati affermati dalla sentenza Pizzone delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) - in ordine alle ragioni che, alla luce dei parametri che sono stabiliti nell'art. 133 cod. pen., l'hanno indotta a determinare l'aumento di pena nella suddetta misura e senza distinguere gli aumenti relativi ai diversi reati satellite. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con riguardo all'aumento di pena inflitta per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio su tale punto. 2.14. Il tredicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.13. della parte in fatto) e l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.11 della parte in fatto) sono fondati. Il Collegio aderisce infatti a un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dettata dall'art. 417 cod. pen., secondo cui, dopo la modifica introdotta dall'art. 31, comma 2, della legge n. 633 del 1986, l'applicazione delle misure di sicurezza, ivi compresa quella prevista dall'art. 417 cod. pen., può essere disposta, anche da parte del giudice della cognizione, soltanto dopo l'espresso positivo scrutinio dell'effettiva pericolosità sociale del condannato, da accertarsi in concreto sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., globalmente valutati, senza possibilità di fare ricorso ad alcuna forma di presunzione giuridica, ancorché qualificata come semplice (tra le più recenti: Sez. 5, n. 24873 del 21/04/2023, La Rosa, Rv. 244817 - 01; Sez. 1, n/7188 del 10/12/2020, dep. 2021, Pavone, Rv. 280804 - 01; Sez. 1, n. 35996 del 08/05/2019, Natale, Rv. 276813 - 01). Infatti, l'espressione utilizzata nell'art. 417 cod. pen., che abbina "sempre" alla condanna per uno dei delitti previsti dai due articoli precedenti (e, quindi, sicuramente per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.) la disposizione di una misura di sicurezza da parte del giudice, deve essere coordinata con l'evoluzione normativa e, in particolare, con il fatto che, a partire dall'entrata in vigore della cosiddetta legge "Gozzini" (legge n. 633 del 1986), il quadro di riferimento è stato radicalmente modificato, attraverso l'abrogazione dell'art. 204 cod. pen. e la conseguente eliminazione, dal nostro ordinamento penale, delle presunzioni di pericolosità sociale in materia di misure di sicurezza, in conformità alle ripetute pronunce della Corte costituzionale declaratorie dell'illegittimità costituzionale delle disposizioni concernenti l'applicazione obbligatoria di tali misure nei confronti dell'infermo di mente (sentenze n. 139 del 1982 e n. 249 del 1983) e del minore di età (sentenza n. 1 del 1971). Si deve pertanto ritenere che, attualmente, qualunque misura di sicurezza potrebbe essere disposta dal giudice della cognizione e dal magistrato di sorveglianza soltanto se vi sia stato un previo accertamento della pericolosità sociale dell'agente, senza alcuna possibilità di ricorrere a presunzioni, ancorché semplici. Il Collegio ovviamente non ignora l'esistenza di differenti orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione - secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso: l'applicazione di una misura di sicurezza sarebbe obbligatoria tour court (da ultimo: Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980 - 02); opererebbe una presunzione semplice di pericolosità del soggetto (da ultimo: Sez. 1, n. 24950 del 22/02/2023, Abbruzzo, Rv. 284829 - 02; Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallone, Rv. 281999 - 01) -, opzioni interpretative che, però, per le ragioni che si sono dette, non ritiene di condividere. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riguardo alla conferma dell'applicazione allo Sc.Lu. delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di P, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio anche su tale punto. 3. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è inammissibile perché il suo unico motivo non è consentito in quanto è del tutto aspecifico. Tale unico motivo (di cui al punto 6 della parte in fatto), consiste infatti: a) in una generica censura della sentenza impugnata in punto di affermazione di responsabilità ("la Corte d'appello pur dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non esplicita chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente con riferimento ai fatti allo stesso contestati senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito"), senza che venga operato alcun effettivo confronto con il percorso motivazionale della stessa sentenza e senza che vengano a essa rivolte delle specifiche censure; b) nell'immotivata richiesta di esclusione dell'attribuita recidiva, anche in questo caso senza operare alcun confronto con le ragioni di tale attribuzione. 4. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP.. 4.1. Il primo motivo (punto 7.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa (capo 2 dell'imputazione; punto 7.1.1. della parte in fatto), estorsione (capo 11 dell'imputazione; punto 7.1.2. della parte in fatto) e traffico illecito di sostanze stupefacenti (capo 12 dell'imputazione; punto 7.1.3. della parte in fatto) è fondato limitatamente al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo ai reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 4.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso "Cosa Nostra", si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi.Sa. i quali avevano riferito: il primo, che il Di.Pi. era a completa disposizione del suocero Sc.Lu., che accompagnava agli incontri con altri membri del sodalizio mafioso, essendo ben consapevole della natura di tali incontri del suocero; il secondo (il quale aveva un ruolo apicale nel mandamento di M), che il Di.Pi. era l'alter ego del suocero Sc.Lu. Tali due chiamate in correità - le quali non si potevano ritenere logicamente smentite per il solo fatto che altri collaboratori di giustizia non avevano fatto riferimento al Di.Pi. - erano state suffragate dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, elementi dai quali era risultato come il Di.Pi. collaborasse fattivamente e consapevolmente all'attività "mafiosa" del suocero, svolgendo il ruolo di filtro per gli incontri dello Sc.Lu. con vari altri sodali, alcuni anche in posizione di vertice, contribuendo all'organizzazione di riunioni dello Sc.Lu. con gli stessi sodali, accompagnando il suocero a tali riunioni delle quali, rimanendo all'esterno dei luoghi in cui esse si svolgevano, si doveva ritenere garantire la sicurezza. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'elemento del rinvenimento dell'imputato, il 01/06/2016, nel possesso della somma di Euro 2.500,00, la quale, essendo ciò avvenuto immediatamente dopo lo svolgimento di una riunione (tra Te.Sa., Sc.Lu., Mi.Al. e De.Gi.) presso il magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", veniva logicamente ritenuta essere ricollegabile all'attività di gioco che veniva svolta dalla stessa impresa. Infine, la Corte d'appello di Palermo valorizzava la commissione di reati scopo dell'associazione, tra cui, in particolare, quello di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il quale, alla luce del contenuto di alcune conversazioni intercettate (conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu.; conversazione del 30/11/2017 tra l'imputato e Ba., membro della famiglia 'ndranghetista da cui il Di.Pi. e lo Sc.Lu. si rifornivano di sostanza stupefacente), era risultato essere svolto nell'interesse della famiglia mafiosa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una diversa valutazione del significato probatorio degli elementi di priva, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Nella specie, la sussistenza del reato di estorsione richiederebbe o che l'autore del furto dello scooter fosse stato costretto, mediante minaccia, a consegnare un mezzo di valore superiore a quello che aveva rubato (del che, tuttavia, non vi è traccia nella motivazione della sentenza impugnata), o che la minaccia fosse stata esercitata nei confronti del padre dell'autore del furto (la persona offesa An.Ni.), in quanto soggetto estraneo rispetto alla pretesa azionata. Ciò posto, il Collegio ritiene che, nella motivazione della sentenza impugnata, non siano chiare le modalità dell'intervento dell'An.Ni. nella vicenda, se, cioè, questi sia stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. o se, invece - come lo stesso An.Ni. aveva riferito alla polizia giudiziaria (pag. 243 della sentenza impugnata) - egli fosse spontaneamente intervenuto nella vicenda rendendosi disponibile a restituire, per conto del figlio autore del furto, un bene equivalente a quello che lo stesso figlio aveva rubato. La motivazione della sentenza impugnata non appare chiarire adeguatamente tale decisivo aspetto della vicenda. In particolare, la Corte d'appello di Palermo non ha chiarito da quale specifica frase dell'intercettata conversazione del Di.Pi. del 26/05/2017 che è riportata a pag. 244 della sentenza impugnata abbia tratto il convincimento che l'An.Ni. fosse stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. né perché la stessa frase si dovesse intendere come comprovante una tale minaccia, non potendosi ritenere sufficiente, allo scopo, la mera sottolineatura della "veemenza delle espressioni utilizzate dal Di.Pi.". La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 4.1.3. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, la Corte d'appello di Palermo l'ha fondata sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Di.Pi., anche con il Lu.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra il coimputato Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Di.Pi. e il Lu.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Di.Pi., insieme con il Lu.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. Traffico che, tenuto conto dei riferimenti che Ba. aveva fatto ad autorizzazioni che il Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere, dei riferimenti dello stesso Ba. a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda e, perciò, assolto dall'imputazione dal G.u.p. del Tribunale di Palermo) e della riconosciuta appartenenza del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Br., si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione, così logicamente argomentata, anche della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, con la conseguenza che il motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.2. Il secondo motivo (punto 7.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello del Di.Pi. sul punto (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha infatti del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riferimento alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 4.3. Il terzo motivo (punto 7.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 7.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 7.3.2 della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. 4.3.1. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata, come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui il Di.Pi. faceva parte, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava dagli elementi di prova che si sono indicati sempre al punto 1.2. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e degli effettuati non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, anche da parte del Di.Pi.), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine (o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi). 4.3.2. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati, come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata), rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nel suo ricorso, non potendo evidentemente assumere contrario rilievo il fatto che la circostanza aggravante in questione possa essere stata asseritamente esclusa nell'ambito di altri diversi procedimenti penali. 4.4. Il quarto motivo (punto 7.4 della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come si è visto al punto 4.1.1, la Corte d'appello di Palermo ha compiutamente esposto gli elementi probatori dimostrativi delle attività funzionali agli scopi della famiglia mafiosa di Co. e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento di tale sodalizio criminoso che erano state poste in essere dal Di.Pi., traendone la conclusione, corretta in diritto e priva di vizi logici, della partecipazione dello stesso Di.Pi. alla suddetta famiglia mafiosa di Co.. A fronte di ciò, cioè una volta che la Corte d'appello di Palermo aveva compiutamente motivato, nei termini che si sono detti, la partecipazione del Di.Pi. all'associazione mafiosa, risultava evidentemente logicamente assorbita ogni questione relativa alla configurabilità di altre alternative ipotesi di reato, tra cui anche quella, prospettata in questa sede, del favoreggiamento personale. Quanto alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa ritenuta con riferimento al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, si è già detto al punto 4.1.3 della congruità e logicità della motivazione della sentenza impugnata al riguardo. La questione della sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso con riguardo al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione (pag. 247 della sentenza impugnata) è invece assorbita dall'accoglimento del motivo di ricorso relativo all'affermazione di responsabilità per tale reato. 5. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP. 5.1. Il primo motivo (punto 8.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione, è in parte non consentito e in parte manifestamente infondato. Esso non è consentito là dove, con esso, si lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe asseritamente limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa". Tale doglianza - la quale attiene all'elemento psicologico del reato, non essendo in contestazione la sussistenza dell'elemento materiale dello stesso, integrato dalla messa a disposizione dell'appartamento dell'imputato per le riunioni "mafiose" dei membri del mandamento di Br. - omette infatti del tutto di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla consapevolezza, da parte dell'imputato, di fornire assistenza, con la propria condotta, a dei soggetti di spicco della consorteria mafiosa (in particolare, tra gli altri, a Te.Sa. e a Sc.Lu.). Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, la Corte d'appello di Palermo non ha affatto dato "per certa e per scontata" tale consapevolezza, ma l'ha, al contrario, motivata, traendola (riassuntivamente) dalle notevoli cautele che l'imputato adoperava nel mettere il proprio appartamento a disposizione dei sodali. Il motivo è quindi, sul punto, del tutto aspecifico e, perciò, non consentito. Lo stesso motivo è, per il resto - in particolare là dove, con esso, si deduce l'insussistenza della "coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata (...) con l'operatività dell'associazione" - manifestamente infondato, atteso che, nel 2017, quando l'Ur.En. pose in essere la condotta di assistenza agli associati a lui attribuita, l'associazione criminale mafiosa era, in tutta evidenza, operativa, come è risultato accertato nella stessa sentenza impugnata, la quale ha attribuito agli imputati il reato associazione di tipo mafioso che era stato loro contestato "fino al 2 luglio 2019". 5.2. Il secondo motivo (punto 8.2 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 8.2.1 della parte in fatto) e l'eccessività della pena inflitta (punto 8.2.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 5.2.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello dell'Ur.En. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 5.2.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze del ricorrente in ordine all'asserita "eccessività della pena inflitta" (che è stata determinata dalla Corte d'appello di Palermo in 3 anni di reclusione, ridotti a 2 anni di reclusione per la scelta del rito abbreviato). A sostegno dell'"eccessività" di tale inflitta pena e della necessità di determinare invece la stessa pena nella misura del minimo edittale, il ricorrente ha invocato ""la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta", "il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso", "i rilievi afferenti la personalità", "il di lui ruolo", senza tuttavia minimamente specificare quali sarebbero i suddetti invocati "elementi caratterizzanti" la condotta, "contesto situazionale" in cui essa si inseriva, "rilievi afferenti la personalità" e suo "ruolo" e perché gli stessi avrebbero giustificato l'irrogazione di una pena nella misura del minimo edittale, con la conseguente assoluta genericità del motivo. Quanto, poi, alla scelta del rito abbreviato, essa comporta ex lege la diminuzione di un terzo della pena "base" determinata dal giudice ma non costituisce, evidentemente, un elemento suscettibile di incidere sulla determinazione di tale pena "base". 6. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi.. 6.1. Il primo motivo (punto 9.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è consentito. Come si è visto al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato la conferma dell'affermazione di responsabilità del Lu.Pi. per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Lu.Pi., anche con il Di.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Lu.Pi. e il Di.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Lu.Pi., insieme con il Di.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. La stessa Corte d'appello ha altresì evidenziato come l'arresto del Lu.Pi. (il 5 ottobre 2017) si doveva ritenere avvenuto quando le consegne della sostanza stupefacente erano già state effettuate, come si evinceva, logicamente, dal fatto che i Ba. ne avevano rivendicato il pagamento. A fronte di tale motivazione, anche il motivo di ricorso del Lu.Pi. si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, o travisamenti di decisivi elementi probatori, con la conseguenza che lo stesso motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 6.2. Il secondo motivo (punto 9.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è fondato. Come si è visto sempre al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato l'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa - non risultando, dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 271-273 della stessa sentenza), l'attribuzione anche della circostanza aggravante del metodo mafioso - sugli elementi, i quali erano emersi dalle conversazioni intercettate, che: Ba.Pa. aveva fatto continui riferimenti ad autorizzazioni che il concorrente Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere; lo stesso Ba.Pa. aveva fatto altresì riferimento a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda); il concorrente Di.Pi. era stato riconosciuto appartenere alla famiglia mafiosa di Br.. Da tali elementi la Corte d'appello di Palermo aveva tratto il convincimento che il traffico illecito di stupefacenti si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione - che appare così logicamente argomentata - della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. Tale motivazione della conferma dell'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa appare priva di contraddizioni e di manifeste illogicità, sicché sottrae alle censure del ricorrente. 6.3. Il terzo motivo (punto 9.3 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 9.3.1 della parte in fatto) e la conferma della pena che era stata inflitta dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (punto 9.3.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 6.3.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello del Lu.Pi. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato; pagg. 15-17), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 6.3.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze che erano state avanzate dal ricorrente nel proprio atto di appello in ordine alla determinazione della misura della pena (che era stata determinata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, ed è stata confermata dalla Corte d'appello di Palermo, in 4 anni e 4 mesi di reclusione, così già ridotti per la scelta del rito abbreviato). A tale proposito, si deve premettere che, per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti cosiddette "pesanti", il comma 1 dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 prevede una pena detentiva da 6 a 20 anni di reclusione, con la conseguenza che la pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione che è stata irrogata nella specie, così ridotta per la scelta del rito abbreviato, per il suddetto reato aggravato dall'agevolazione mafiosa risulta assai prossima al minimo edittale (la stessa pena, prima della riduzione per il rito abbreviato, era infatti di 6 anni e 6 mesi di reclusione). A fronte di ciò, nel proprio atto di appello (terzo motivo, di cui alle pagg. 15-17, con il quale l'imputato aveva lamentato anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche), il Lu.Pi., con riguardo alla pena e, in particolare, alla sua asserita "eccessività", si era limitato a rappresentare genericamente l'"assenza di una reale gravità del fatto contestato, sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.", senza indicare alcuna specifica caratteristica di tale fatto che, in quanto tale da escluderne la "reale gravità", avrebbe dovuto indurre a una riduzione della pena irrogata e alla sua determinazione nella misura del minimo edittale. A fronte dì tale mancanza di specificità del motivo di appello e, perciò, dell'inammissibilità di esso (ancorché non rilevata dalla Corte d'appello di Palermo), si deve escludere la sussistenza di un obbligo della stessa Corte d'appello di motivare in ordine al medesimo motivo, mentre le doglianze che sono state avanzate dal ricorrente in questa sede appaiono anch'esse, oltre che ormai inammissibili, attesa l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, del tutto generiche. 7. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'avv. DE.SP. 7.1. Il primo motivo (punto 10.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 10.1.1. della parte in fatto) e trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione (punto 10.1.2. della parte in fatto), non è consentito. 7.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co., si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla suddetta famiglia mafiosa. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle tre autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Va.Pa., Ga.Vi. e Bi.Fi., i quali avevano riferito: il primo (Va.Pa.), che il Mi.Al. era soggetto specializzato nelle slot machines e in rapporto con Na.Br., reggente della famiglia mafiosa di Br., con cui, nell'ambito del procedimento cosiddetto "Zefiro", erano stati documentati degli incontri nel corso dei quali Mi.Al. aveva consegnato del denaro al Na.Br., circostanza che, ad avviso della Corte d'appello di Palermo, costituiva un significativo riscontro alle concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano indicato come il ruolo del Mi.Al. consistesse nel contributo da lui fornito nel settore, di interesse di "Cosa Nostra", delle slot machines; il secondo (Ga.Vi.), che Mi.Al. era uomo a disposizione della famiglia mafiosa di Co. ("era a disposizione, uomo di loro, di quel clan"), dichiarazione che, nonostante il collaboratore facesse riferimento a un periodo più risalente di quello in contestazione, era stata comunque logicamente ritenuta dalla Corte d'appello di Palermo come confermativa del ruolo che Mi.Al. aveva sempre avuto nell'ambito dell'associazione criminosa; il terzo (Bi.Fi.), di avere appreso da Te.Sa. che Mi.Al. era il soggetto che, per conto di "Cosa Nostra" di Co., si occupava del gioco. Tali tre chiamate in correità erano ritenute suffragate sia dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, le quali avevano attestato la partecipazione del Mi.Al. a diverse riunioni con altri sodali mafiosi, sia dall'accertato (sulla scorta del contenuto di alcune intercettate conversazioni relative alla vicenda) contributo che era stato dato dall'imputato alla costituzione di (...) Srl e alla fittizia intestazione di tale società a dei prestanome (di Te.Sa. e di Sc.Lu., oltre che dello stesso Mi.Al.), con ciò fornendo, il Mi.Al., un importante apporto alla realizzazione degli scopi della famiglia di Co., nelle persone dei suoi due menzionati esponenti di rilievo Te.Sa. e Sc.Lu. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire ai menzionati elementi di prova, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 7.1.2. La Corte d'appello di Palermo ha fondato l'affermazione di responsabilità di Mi.Al. per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra Te.Sa. e Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dagli stessi te.Sa. e Sc.Lu., come costoro fossero i reale titolari di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al., il quale aveva seguito la costituzione della società sin dalla fase dell'affitto dell'immobile destinato a sede della stessa e teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che Te.Sa., Sc.Lu. e Mi.Al. avevano, in concorso tra loro, fittiziamente attribuito a Na.Gi. e La.Pa. la titolarità di (...) Srl, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al. La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. e lo Sc.Lu. avessero fatto ricorso a tale fittizia intestazione a persone insospettabili (Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo dei pregiudicati mafiosi, avevano il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che avevano, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche del dolo specifico del reato, del quale il Mi.Al., alla luce dei menzionati caratteri del suo contributo concorsuale, si doveva ritenere essere consapevole. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso - nel quale, peraltro, si discetta per lo più di fatti relativi al capo 14) dell'imputazione, per il quale il ricorrente è stato assolto dalla Corte d'appello di Palermo - si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in questa sede di legittimità. 7.2. Il secondo motivo (punto 10.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso. Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 7.3. Il terzo motivo (punto 10.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 10.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 10.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 8. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo (punto 3 della parte in fatto; ricorso che viene esaminato ora, in quanto attiene alla posizione dell'imputato Mi.Al., il cui ricorso è stato appena scrutinato), non è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. Quanto al primo profilo (di cui alla lett. a del punto 3 della parte in fatto), si deve osservare che, ancorché la Corte d'appello di Palermo, nell'esaminare il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, abbia affermato che l'appello di Mi.Al. era "fondato limitatamente alla dosimetria della pena" e abbia fatto riferimento anche a responsabilità dello stesso Mi.Al. per i fatti di cui al capo 14) dell'imputazione, la stessa Corte d'appello, nell'esaminare specificamente proprio quest'ultimo reato, ha diffusamente motivato in ordine al fatto che Mi.Al. non lo aveva commesso e doveva, perciò, essere assolto (pagg. 326-327 della sentenza impugnata), sicché, diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo (che ha trascurato di considerare le suddette pagg. 326-327 della sentenza impugnata), del tutto conseguentemente, nel dispositivo, la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato l'assoluzione di Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto. Quanto al secondo profilo del motivo (di cui alla lett. b del punto 3 della parte in fatto), esso si deve ritenere generico, atteso che, dal passo della motivazione della sentenza impugnata (tratto dalla pag. 476 di essa) che è stato citato alla pag. 4 del ricorso, si ricava soltanto che la Corte d'appello di Palermo ha legittimamente e insindacabilmente provveduto a ridurre la pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in conseguenza dell'assoluzione del Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione della quale si è detto sopra. 9. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP. 9.1. Il primo motivo (punto 11.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 11.1.1. della parte in fatto) e dì estorsione di cui al capo 11 dell'imputazione (punto 11.1.2. della parte in fatto), è fondato limitatamente a quest'ultimo reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo al reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. 9.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bi.Fi., il quale aveva parlato di Mi.Pa. come dell'uomo ombra di Sc.Lu., che accompagnava agli appuntamenti con altri appartenenti al sodalizio criminoso. Tale chiamata in correità era ritenuta suffragata dalle risultanze di servizi di osservazione, dalle riprese delle telecamere di videosorveglianza e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate; elementi dai quali era risultato come Mi.Pa. fosse l'uomo di fiducia di Sc.Lu., del cui ruolo all'interno della famiglia mafiosa di Co. era pienamente consapevole e per il quale si adoperava non solo accompagnandolo agli incontri con altri sodali ma anche concordando gli stessi incontri (anche con la collaborazione di Mi.Lo., portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis)). La suddetta consapevolezza veniva in particolare ritenuta comprovata alla luce: del linguaggio criptico che veniva utilizzato dal Mi.Pa. nelle conversazioni con lo Sc.Lu. e il Mi.Lo.; della consegna, da parte dell'imputato allo Sc.Lu., di un "pizzino" proveniente da Bi.Fi. (come era risultato dalle immagini del sistema di video-sorveglianza che era stato attivato nei pressi del menzionato stabile di via (omissis), n. (omissis) - le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte del Bi.Sa. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. al Mi.Pa. - e dalla successiva telefonata del Mi.Pa. allo Sc.Lu.); della consegna, prima di un incontro tra sodali, da parte dello Sc.Lu. al Mi.Pa., del cellulare del primo, con l'evidente fine di evitare captazioni delle conversazioni che avrebbero avuto luogo nel corso dello stesso incontro. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì logicamente (a ciò non ostando il fatto che il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti non fosse stato contestato al ricorrente) l'elemento della partecipazione di Mi.Pa. a uno dei viaggi in Calabria (quello del 01/12/2016) che vennero compiuti da Di.Pi. per acquistare sostanza stupefacente dalla famiglia 'ndranghetista dei Ba., nella piena consapevolezza, da parte del Mi.Pa., della finalità dello stesso viaggio, come risultava dal contenuto di un'intercettata conversazione del 30/11/2017 tra il Di.Pi. e Ba.Pa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 9.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento dell'analogo profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi., ragioni alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 9.2. Il secondo motivo (punto 11.2. della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello di Mi.Pa. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato), e considerato l'annullamento della sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, si deve ritenere necessario un nuovo giudizio della Corte d'appello di Palermo anche sul punto della concessione (o no) delle circostanze attenuanti generiche, il quale giudizio possa tenere conto, nel valutare il grado di offensività della condotta dell'imputato (pag. 477 della sentenza impugnata), anche degli esiti del nuovo giudizio in ordine al reato di cui al capo 11) dell'imputazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 9.3. Il terzo motivo (punto 11.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 11.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 11.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 10. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA. 10.1. Il primo motivo (punto 12.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di concorso esterno in un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 2) dell'imputazione, non è consentito. A tale proposito, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. nella famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provato tale concorso sulla base delle risultanze di servizi di osservazione, delle riprese delle telecamere di videosorveglianza e del contenuto di alcune conversazioni intercettate. Da tali elementi di prova era risultato come il Mi.Lo., che era il portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis), non si era limitato a svolgere tali mansioni, come era stato sostenuto dalla difesa dell'imputato, ma si era consapevolmente e sistematicamente (dal novembre 2015 al maggio 2018) adoperato per consentire il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa senza l'attivazione di contatti telefonici diretti tra i sodali, assicurando così la natura riservata dei loro incontri (che si svolgevano nel suddetto stabile di via (omissis), n. (omissis)) - in particolare, di numerosi incontri tra Te.Sa. e Sc.Lu. e tra quest'ultimo e Gi.An., Vi. e Bi.Fi. -, prestandosi anche, in un caso (come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza che era stato attivato nei pressi dello stabile di via (omissis), n. (omissis), le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte di Bi.Fi. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. a Mi.Pa.), a fungere da tramite per la consegna di un "pizzino" logicamente ritenuto indirizzato dal Bi.Sa. allo Sc.Lu. Dai sopra menzionati elementi di prova era emerso, come è stato debitamente evidenziato dalla Corte d'appello di Palermo, che il compito di consentire il mantenimento dei canali informativi tra gli indicati membri della famiglia mafiosa - così recando un contributo al mantenimento e al rafforzamento della stessa famiglia nel suo insieme - era svolto dal Mi.Lo. facendo ricorso all'utilizzo, nelle proprie conversazioni, dì un concordato convenzionale linguaggio criptico, che faceva riferimento alla necessità di inviare ambulanze, a inesistenti malesseri o, addirittura, alla mai avvenuta morte della condomina sig.ra Fa., al pagamento di conti, a servizi cimiteriali. Il ricorso, da parte dell'imputato, a tali stratagemmi al fine di ottenere la presenza, presso lo stabile di via (omissis), n. (omissis), in particolare, di Sc.Lu., erano ritenuti dalla Corte d'appello di Palermo logicamente dimostrativi della piena consapevolezza, da parte del Mi.Lo., della caratura criminale dello stesso Sc.Lu., di Te.Sa. e degli altri partecipanti agli incontri, e del contributo che egli, con la propria condotta, stava dando alla realizzazione, sia pure parziale, del programma criminoso del sodalizio mafioso. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. alla famiglia mafiosa di Co. - attesa l'attività funzionale agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabile come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi (pur senza essere il Mi.Lo. inserito stabilmente nella struttura organizzativa della famiglia mafiosa e pur essendo egli privo della cosiddetta affectio societatis) -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 10.2. Il secondo motivo (punto 12.2. della parte in fatto), il quale attiene alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo 2) dell'imputazione come reato di assistenza agli associati di cui all'art. 418 cod. pen., non è fondato. La Corte d'appello di Palermo, con un accertamento in fatto che, in quanto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste (come si è detto al punto 10.1.) non è censurabile in questa sede, ha riscontrato come l'imputato, con la propria condotta, avesse assicurato il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa in modo stabile e sistematico (dal novembre 2015 al maggio 2018), così non tanto prestando assistenza a taluno degli associati ma fornendo un concreto e consapevole contributo al sodalizio mafioso nel suo insieme. Alla luce di ciò, la qualificazione del fatto come concorso nel reato di associazione di tipo mafioso e non come mera assistenza agli associati si deve ritenere del tutto corretta. 10.3. Il terzo motivo (punto 12.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso, avendo, altresì, la stessa Corte d'appello correttamente escluso che si potessero ritenere elementi positivamente valutabili il mero stato di incensurato del Mi.Lo. e il fatto che egli si fosse sottoposto all'interrogatorio di garanzia (negando l'addebito). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 1.4. Il quarto motivo (punto 12.4. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della determinazione della misura della pena, è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. La Corte d'appello di Palermo, infatti: a) da un lato, ha completamente omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta a determinare la pena irrogata al Mi.Lo. nella misura di dodici anni di reclusione; b) dall'altro lato, ha stabilito tale pena nella stessa misura che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato ai sensi del quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., senza considerare che, poiché tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla stessa Corte d'appello (insieme con la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; pagg. 201-202 della sentenza impugnata), ciò imponeva la riduzione della pena che era stata inflitta in primo grado per il reato aggravato. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 1.5. Il quinto motivo (punto 12.5. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione delle statuizioni nei confronti delle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", è fondato. Dagli atti di costituzione di tali parti civili, non risulta infatti che le stesse si siano costituite nei confronti del Mi.Lo. Si deve rilevare che nessuna contestazione è stata sollevata dal ricorrente con riguardo alle statuizioni nei confronti della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An." La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti di "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.". 11. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi. 11.1. Il primo motivo (punto 13.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, deve essere accolto. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento del profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi. in ordine alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il suddetto reato di estorsione, ragioni le quali, essendo esse relative alla sussistenza stessa del reato, prima ancora che all'individuazione dei soggetti che lo avrebbero commesso, risultano assorbenti rispetto alle doglianze che sono state avanzate dal Te.Sa. e alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 11.2. L'esame del secondo motivo (punto 13.2. della parte in fatto), del terzo motivo (punto 13.3. della parte in fatto) e del quarto motivo (punto 13.4. della parte in fatto) resta assorbito dall'accoglimento del primo motivo. 12. Dal rigetto dei ricorsi di Te.Sa. e di Mi.Al. consegue la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di Ma.Vi. consegue la condanna di tale ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", che si liquidano in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. Te.Sa. e Mi.Al. devono essere condannati altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS" e "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", che si liquidano, per ciascuna delle suddette parti civili, in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. La Corte d'appello di Palermo provvederà alle statuizioni relative alla liquidazione delle spese nei confronti delle parti civili da parte degli imputati rispetto ai quali non si è provveduto in questa sede. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ur.En. e Lu.Pi. limitatamente alle circostanze generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sul punto; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Te.Ca. con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Di.Pi. e Mi.Pa. limitatamente al reato di cui al capo 11) e alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sui predetti punti; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mi.Lo. limitatamente al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti dell'Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante; rigetta nel resto il ricorso; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sc.Lu. limitatamente all'aumento di pena inflitta per la continuazione e alla misura di sicurezza, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio su detti punti; rigetta nel resto il ricorso; rigetta i ricorsi di Te.Sa., Mi.Al. e del Procuratore Generale e condanna i soli Te.Sa. e Mi.Al. al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile il ricorso di Ma.Vi. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante, che liquida in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge; condanna Te.Sa. e Mi.Al. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Solidaria s.c.s. Onlus, S.O.S. Impresa Rete per la Legalità Sicilia, Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo, Sicindustria in persona del presidente p.t. e l. r. p.t., Centro Studi e Iniziative Culturali La.Pi. Onlus in p. l. r. p.t., FAI - Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida per ciascuna delle suddette parti civili in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge Così deciso in Roma, il 15 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SIANI Vincenzo - Presidente Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio Augusto - Consigliere Dott. LIUNI Teresa - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Relatore Dott. RUSSO Carmine - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ar.Pa. nato a S il (Omissis) Au.Sa. nato a N il (Omissis) Im.Ge. nato a N il (Omissis) Lu.Um. nato a S il (Omissis) Mu.Gi. nato a N il (Omissis) Sa.Gi. nato a N il (Omissis) Te.Ci. nato a M il (Omissis) avverso la sentenza del 17/03/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MICAELA SERENA CURAMI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore VALENTINA MANUALI l'udienza viene sospesa alle ore 12:57 L'udienza riprende alle ore 13:09 Il P.G. conclude chiedendo l'inammissibilità dei ricorsi dei ricorrenti Ar.Pa., Au.Sa., Im.Ge., Lu.Um., Mu.Gi. e Sa.Gi.; l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Te.Ci. limitatamente alla continuazione e l'inammissibilità nel resto del ricorso. uditi i difensori L'avv. SE.Sa. conclude riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento. L'avv. VA.Da. si riporta ai motivi di ricorso e chiede la estensione dei motivi di ricorso redatti dalla difesa dì tutti i coimputati ex art. 587 c.p.p., in particolare quelli redatti dalla difesa di Lu., Im. E Te. relativamente alla illegittima applicazione degli artt. 56 - 575 c.p. ai danni di Mi.Pa. L'avv. CO.Fr. conclude riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento, con effetto estensivo con riferimento al motivo sulla continuazione. L'avv. SA.Ro. si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento, con effetto estensivo con riferimento al motivo sulla continuazione L'avv. ES.Ra. conclude riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento. L'avv. BU.Fr. conclude riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento. L'udienza viene sospesa alle ore 15:08 L'udienza riprende alle ore 16:03 L'avv. PI.Al. si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento, con effetto estensivo con riferimento al motivo sulla continuazione. L'avv. SP.Va. conclude chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, con effetto estensivo con riferimento al motivo sulla continuazione. L'avv. PE.Le. conclude riportandosi ani motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento. L'avv. VI.AC. insiste per l'accoglimento del ricorso. L'avv. MO.Se. si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento, con effetto estensivo con riferimento al motivo sulla continuazione. RITENUTO IN FATTO 1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'assise d'appello di Napoli, giudicando sulle impugnazioni proposte avverso la sentenza pronunciata, a seguito di giudizio abbreviato, in data 8 settembre 2020 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, per quanto di interesse ai presenti fini, - ha assolto Ar.Pa., Sa.Au., Im.Ge., Lu.Um., Mu.Gi., Sa.Gi. e Ci.Te. dal reato di tentato omicidio di Lu.Mi. junior contestato al capo 1) perché il fatto non sussiste; - ha assolto Ar.Pa., Sa.Au., Im.Ge., Lu.Um. e Sa.Gi. dal reato di incendio del motociclo Honda SH 300, targato (...), contestato al capo 3) per non avere commesso il fatto; - ha confermato, nel resto, la sentenza di condanna all'ergastolo, pronunciata dal primo Giudice nei confronti dei predetti imputati, in relazione ai delitti c i omicidio ai danni di Lu.Mi. e del tentato omicidio ai danni di Mi.Pa., aggravati dalla premeditazione, e dell'essersi avvalsi delle condizioni di cui all'art. 416 bis cod. pen. (capo 1); di porto e detenzione di arma da fuoco aggravato ex art. 416 bis. 1 cod. pen. (capo 2); di ricettazione aggravata ex art. 416 bis. 1 cod. pen. (capo 4); ha confermato la condanna di Mu.Gi. anche in relazione al delitto di incendio aggravato di cui al capo 3). Dalla concorde ricostruzione effettuata dai Giudici di merito, il fatto può essere così brevemente ricostruito. Il 9 aprile 2019, poco prima delle ore 8:45 del mattino, in via (Omissis), ang. Via (Omissis) a Napoli, Lu.Mi., il figlio Pa. ed il nipote (di 4 anni) Lu., scendevano dall'abitazione, sita nei pressi in strada e si dirigevano verso l'autovettura Renault Clio ivi posteggiata sul margine destro della carreggiata, lungo il bordo del marciapiede di via (Omissis); Lu.Mi. faceva accomodare il nipote nel posto anteriore lato passeggero, allorquando, mentre si trovava ancora in prossimità della portiera e mentre Mi.Pa. stava facendo il giro posteriore dell'auto per mettersi alla guida, sopraggiungevano (provenienti da tergo, da via (Omissis)) due persone a bordo di uno scooter Honda SH (Omissis), che, all'improvviso, esplodevano una serie di colpi di pistola ad altezza d'uomo investendo l'auto, lo stesso Mi.Pa., e attingendo al petto Lu.Mi. senior, il quale cercava di darsi alla fuga allontanandosi dall'auto, ma veniva ulteriormente colpito a morte. L'esame autoptico consentiva di accertare che Lu.Mi. era stato attinto da 7 colpi d'arma da fuoco. Mi.Pa. veniva ferito e, trasportato al Pronto Soccorso, gli venivano refertate "ferite escoriate della regione posteriore coscia sinistra e base posteriore dell'emitorace dx conseguenti ad arma da fuoco"; veniva dimesso in giornata con prognosi di giorni 7. Il nipote Lu.Mi. rimaneva invece del tutto illeso. Si legge nelle sentenze di merito che l'esatta ricostruzione della dinamica, e l'individuazione dei ruoli rivestiti dagli imputati, secondo la descrizione riportata nel capo 1) di imputazione, è stata possibile grazie alla convergenza di plurimi fonti di prova, precisamente: le dichiarazioni di Mi.Pa., le immagini tratte dai filmati di ben 4 sistemi di videosorveglianza privati, che inquadravano il luogo dell'agguato e zone immediatamente limitrofe da diverse angolazioni; le intercettazioni ambientali relative alle conversazioni dei famigliari della vittima, nonché quelle realizzate, nell'ambito di diverso procedimento, a seguito dell'inoculazione di un virus informatico nel telefono di Um.Da. e, da ultimo, le dichiarazioni auto ed etero accusatorie che quest'ultimo, dopo l'arresto nel luglio 2019 a seguito di ordinanza di custodia cautelare in carcere, rendeva. Da., in particolare, confermava, circostanziandola, la matrice camorristica dell'azione omicidiaria, che, già sin dai primi accertamenti, e precisamente dalla captazione delle conversazioni tra i parenti della vittima, era stata individuata nella faida di durata ventennale tra il clan @11.Ri.@ (cui apparteneva la vittima Lu.Mi., cognato del capo clan Ci.Ri. "Ma.") ed il clan Ma., ed alla costola di quest'ultimo rappresentata dalla famiglia Da.. Ed infatti Da., a seguito della scelta collaborativa effettuata, nel confermare che il movente dell'omicidio era da ascriversi alla faida in corso con il clan @11.Ri.@, riferiva che Lu.Mi. era stato scelto come bersaglio in quanto l'informatore del clan Da. lo aveva indicato come "facile preda" avendone studiato le abitudini. Il Da. forniva altresì indicazioni circa i ruoli specifici ricoperti dagli imputati nell'azione omicidiaria, in gran parte corrispondenti, secondo la valutazione dei Giudici di merito, alle convergenti evidenze probatorie, e precisamente: Lu.Um. aveva procurato l'arma del delitto; Sa.Gi. aveva ricevuto da Ar. e Te. e portato sulla scena del crimine lo scooter rubato utilizzato per l'omicidio, aveva prelevato la pistola, insieme al Da., la mattina del delitto nello stabile ove era custodita in via (Omissis) e l'aveva consegnata all'esecutore materiale dell'omicidio, Te.; dallo stesso immobile di via (Omissis) aveva poi fatto da vedetta verificando l'uscita della vittima dalla sua abitazione; Ar.Pa. era il conducente dello scooter rubato impiegato per commettere il delitto e, dopo l'azione, si era occupato di nascondere il killer Te. e, unitamente al Mu., di incendiare lo scooter; Sa.Au. era, unitamente a Lu., a bordo di un'autovettura che fungeva da staffetta ai killer; Im.Ge., presente dalla mattina sul luogo del delitto, era incaricato di mettere in sicurezza il killer e lo scooter dopo il delitto, ma si era improvvisamente tirato indietro; Mu.Gi. si era occupato delle mansioni che non aveva svolto Im.. 2. Avverso l'indicata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con separati atti, gli imputati Ar.Pa., Sa.Au., Im.Ge., Lu.Um., Mu.Gi., Sa.Gi. e Ci.Te., avanzando i motivi di ricorso che vengono di seguito riassunti entro i limiti necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.. 3. L'imputato Ar.Pa., a mezzo dell'avvocato Da.Va., ricorre per cassazione, attraverso due distinti atti. 3.1. Con il primo atto, la Difesa di Ar.Pa. deduce un unico, articolato, motivo con cui lamenta la violazione degli artt. 110, 575 cod. pen. e 192, 533, 546 cod. proc. pen. e corrispondente vizio della motivazione, anche per travisamento della prova per omissione. Il ricorrente censura in particolare la carenza motivazionale dell'impugnata sentenza in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico in capo al ricorrente rispetto ai reati per i quali è intervenuta condanna. La condanna dell'Ar. è avvenuta sulla base di una sola condotta materiale posta in essere il giorno prima del delitto, consistita nell'aver condotto nel luogo in cui il giorno dopo si sarebbe eseguito l'omicidio, uno scooter rubato; scooter non procurato dal ricorrente ma da soggetto diverso. La Corte distrettuale ha omesso di individuare le circostanze di fatto da cui poter ricavare la consapevolezza del ricorrente di concorrere nell'omicidio. Secondo l'impugnata sentenza, la prova dell'elemento psicologico sarebbe rappresentata dalle dichiarazioni rese dal solo collaboratore di giustizia Um.Da., che troverebbero riscontro individualizzante nelle immagini degli impianti di videosorveglianza e del cattura - targhe del giorno antecedente l'omicidio nonché nella conversazione di cui al progressivo 57 del 08/04/2019. Non ha adeguatamente valutato la Corte territoriale come alcune propalazioni del collaboratore di giustizia siano state smentite (in particolare l'affermazione che il ricorrente aveva bruciato lo scooter utilizzato per compiere l'omicidio insieme a Mu.; nonché l'affermazione che Te. sarebbe giunto, la mattina dell'omicidio, a casa di Da. con lo scooter, essendo emerso che Te. era ivi giunto a bordo di una Panda) ovvero siano rimaste del tutto sfornite di riscontro (l'affermazione di avere portato Te. a casa della nonna). Rispetto alla contestata condotta integrante il concorso del ricorrente nel delitto, la difesa evidenzia la circolarità del riscontro: Da. riscontra sé stesso difettando, rispetto alla posizione di Ar., la convergenza delle dichiarazioni rese dal collaboratore con validi e adeguati elementi di prova esterni, dal momento che chi individua il conducente dello scooter rubato collocandolo sul luogo dell'omicidio è sempre e solo il medesimo Da.. Ancora il difensore contesta l'illogicità e la carenza motivazionale dell'impugnata sentenza in relazione alla certa individuazione dell'Ar. come il soggetto che ha guidato i due scooter tra le 11 e le 12:30 l'8 aprile 2019; si evidenzia come la polizia giudiziaria non abbia riconosciuto l'Ar.. Denuncia poi il ricorrente i travisamenti per omissione in cui è incorsa la Corte territoriale nel non avere analizzato le prove segnalate in atto d'appello, la cui valutazione avrebbe portato ad un esito diverso: in particolare l'assenza del ricorrente alle riunioni svolte tra i ritenuti concorrenti nell'omicidio, la mancata citazione del ricorrente nei vari plurimi momenti in cui i conversanti di turno narravano e ripercorrevano l'esecuzione dell'omicidio. A fronte di dette prove contrarie, la Corte napoletana si è limitata a definire irrilevante l'assenza di dati investigativi nei confronti del ricorrente, e poco significativa l'assenza di Ar. alle riunioni del gruppo. 3.2. Venendo al secondo atto di ricorso della Difesa Ar., con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge, in particolare dell'art. 577 n. 3 cod. pen., per avere la Corte d'appello erroneamente ritenuto sussistente in capo al ricorrente l'aggravante della premeditazione, atteso il fatto che Ar. fu individuato solo successivamente alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Da., e che non risulta aver mai partecipato ad alcuna delle riunioni preparatorie del delitto; considerato altresì che, essendo l'unica condotta materiale ascrittagli quella della collocazione dello scooter rubato il giorno prima del delitto, non è individuabile alcun apprezzabile lasso temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso né sussiste alcuna motivazione circa la conoscenza in capo al ricorrente sia della preparazione del delitto sia della premeditazione altrui. 3.3. Con il secondo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis. 1 cod. pen.. Richiamato il dictum delle Sezioni Unite Chioccini, che impone all'A.G. di verificare in capo a tutti i concorrenti la sussistenza dell'elemento psicologico in relazione alla citata aggravante, osserva la Difesa come l'Ar. sia intervenuto in una frazione limitatissima del delitto, e non sia ritenuto intraneo al clan da nessuno dei numerosi pentiti le cui dichiarazioni sono state analizzate nella prima sentenza. 3.4. Con un terzo motivo contesta violazione di legge, in particolare degli artt. 99 e 62 - bis cod. pen., e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della contestata recidiva ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Quanto alla recidiva, la motivazione offerta si è limitata ad elencare i precedenti penali sènza valutare l'intervallo temporale tra i delitti, e senza indicare perché essi sono stati ritenuti di particolare gravità e senza effettuare alcuna valutazione circa l'eventuale manifestazione di maggior pericolosità del ricorrente. Le attenuanti generiche poi sono state disattese con censurabile motivazione cumulativa senza pesare i diversi ruoli assunti dai vari concorrenti, e senza considerare il ruolo assolutamente secondario rivestito dall'imputato. 3.5. Con il quarto motivo denuncia violazione di legge, in particolare degli artt. 132 e 133 cod. pen., e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla quantificazione delle pene in aumento, operata in modo standard per tutti gli imputati, senza nessuna analiticità e senza distinguerne i ruoli, attestandosi su entità lontana dal minimo edittale. Con riferimento al delitto di detenzione e porto in luogo pubblico di arma da fuoco e per il delitto di ricettazione gli aumenti sono esorbitanti, tanto da fare pensare che sia stato addirittura applicato un cumulo materiale. Del pari eccessivo l'aumento per la continuazione per il tentato omicidio di Mi.Pa., peraltro immotivato, tanto più in relazione alla posizione del presente ricorrente che non ha partecipato all'esecuzione né alla deliberazione, e che secondo la stessa impostazione del giudice d'appello, ha posto in essere una sola azione materiale di limitato spessore. 4. L'imputato Sa.Au., a mezzo dei difensori avv. Fr.Co. e avv. Ro.Sa., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. 4.1. Con il primo motivo denuncia vizio di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità relativamente al reato di tentato omicidio di Mi.Pa. (capo 1). La Corte territoriale, dopo un'analitica disamina della dinamica dei fatti, è pervenuta, attraverso un procedimento inferenziale censurabile, alla conclusione secondo cui gli imputati avrebbero agito con volontà omicidiaria anche rispetto al tentato omicidio in danno di Mi.Pa., ritenendo che la morte di uno dei soggetti coinvolti come evento dell'azione di fuoco che si colpiva non poteva che essere una conseguenza prevista e voluta dagli agenti come equipollente ed indifferente della propria condotta lesiva. Tale percorso argomentativo non si confronta con alcune circostanze probatorie che ne minano in radice la tenuta logica. Dal compendio probatorio risulta inequivocabilmente che l'unico e il solo obiettivo del commando di fuoco era Lu.Mi. senior; l'evento ulteriore, ovvero il tentato omicidio di Mi.Pa., è stato erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale come voluto, ma tale conclusione è in stridente contrasto logico con le fonti probatorie da cui deriva, in ragione delle quali, invece, tale ulteriore evento si è presentato in capo agli imputati come eventualmente possibile, e nonostante ciò gli stessi hanno agito accettando il rischio del suo verificarsi. Il dolo ravvisabile in capo agli imputati, e quindi anche al ricorrente Au., è da qualificarsi come dolo eventuale incompatibile con il tentativo. 4.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione dell'articolo 606 lett. c) ed e) in relazione all'art. 522 c. 1 cod. proc. pen. per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente nei confronti dell'imputato la circostanza aggravante della premeditazione in difetto di specifica contestazione della stessa. La difesa in atto d'appello aveva evidenziato come nel capo di imputazione la premeditazione fosse riferita genericamente a tutti gli imputati che avevano deliberato, programmato, organizzato ed eseguito l'omicidio di Mi. Lu.; mentre nella parte relativa alla condotta attribuita all'Au. si specificava che questi svolgeva il ruolo di partecipe alle sole fasi esecutive, senza alcun contributo causale rispetto alla fase deliberativa ed organizzativa. La Corte territoriale ha del tutto omesso di confrontarsi con la specifica deduzione difensiva relativa alla mancata contestazione formale dell'aggravante dilungandosi esclusivamente sulle ragioni della sua sussistenza. 4.3. Con il terzo motivo la difesa denuncia violazione dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 577 comma 1 n. 3 cod. pen., per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto sussistente l'aggravante della premeditazione in relazione al capo 1) della rubrica. La Difesa aveva rappresentato in atto di gravame come dal compendio probatorio fosse emerso che Au., senza avere consapevolezza di quanto si doveva compiere, fu convocato la mattina stessa del 9 aprile 2019 per partecipare all'agguato, in sostituzione del riluttante Im.Ge., che si era improvvisamente rifiutato di mettere a disposizione la sua vettura per le operazioni di recupero dei killer; mai prima di allora era stato documentato un suo accesso presso l'abitazione del Da., né dai colloqui intercettati era mai emerso alcun riferimento alla presenza dell'imputato o al suo coinvolgimento con qualsiasi ruolo deliberativo o esecutivo. Conseguentemente il tempo intercorso tra il momento in cui l'imputato è venuto a conoscenza dell'altrui proposito delittuoso e quello in cui è avvenuto il delitto, quantificabile in 1 ora e 26 minuti, era del tutto insufficiente a far desistere l'imputato dal proposito delittuosa. A fronte di tale doglianza, la risposta della Corte territoriale merita censura in quanto apodittica, tautologica, non coerente né esaustiva: la Corte si è limitata a ritenere ed a concludere che il ricorrente, pur intervenuto nelle primissime ore del mattino del 9 aprile 2019, ed avendo avuto contezza solo in tale momento dell'atto omicidiario da compiersi, avrebbe acquisito consapevolezza delle modalità dettagliatamente organizzate con cui l'azione delittuosa doveva compiersi: tale conclusione tuttavia è frutto di una congettura perché presuppone il fatto, non provato, che il ricorrente, nel breve lasso temporale in cui si è intrattenuto all'interno dell'abitazione del Da., abbia acquisito l'effettiva e piena conoscenza dell'altrui premeditazione. Le intercettazioni ambientali da cui emerge il ruolo di fedele affiliato del ricorrente provano al più l'intraneità dell'Au. al sodalizio e spiegano il motivo per cui fu scelto lui in sostituzione di Im., ma non dimostrano che l'imputato nell'abitazione di Da. abbia acquisito consapevolezza delle modalità programmate dell'azione né che abbia avuto conoscenza dell'altrui premeditazione condividendola e facendola propria: anzi la motivazione della Corte che, nel ritenere sussistente l'aggravante in capo all'Au., fa riferimento proprio a tali conversazioni, è contraddittoria perché da essa emerge come l'Au. fosse un sodale che obbediva agli ordini che gli venivano impartiti senza fare domande e senza ricevere spiegazioni. La circostanza che Au. si sia presentato la mattina del 9 aprile 2019 a casa di Da. con la macchina intestata alla suocera, contrariamente a quanto rilevato dalla Corte territoriale che ne ha tratto argomento per ritenere la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, dimostra proprio il contrario dal momento che attesta come Au. non conoscesse le ragioni per cui era stato convocato; è poi indimostrato che l'Au. si fosse previamente munito dell'autovettura della suocera in quanto argomento che non si confronta con l'ipotesi alternativa, non smentita in atti, che vede Au. stabile utilizzatore dell'autovettura intestata alla suocera. È infine contraddittoria la motivazione della sentenza laddove conclude che, quand'anche fosse stato posto a conoscenza dell'atto omicidiario solo al suo arrivo in via (Omissis) la mattina del fatto, cionondimeno egli aveva il tempo per desistere e non rendere alcun contributo: contraddittoria perché contrasta con quanto dedotto in precedenza circa l'acquisizione per tempo da parte dell'Au. delle programmate modalità di esecuzione del raid omicidiario; carente perché non sì confronta con le specifiche deduzioni difensive che osservavano come il lasso di tempo fosse incompatibile con la ritenuta sussistenza della premeditazione. 4.4. Con il quarto motivo deduce violazione dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 648 cod. pen., per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto l'imputato responsabile del delitto di cui al capo 4) della rubrica. La Corte territoriale ha completamente omesso di spiegare le circostanze di fatto da cui ha dedotto che Au. fosse consapevole della provenienza furtiva del motociclo, tanto più in considerazione del fatto che l'imputato non aveva partecipato alle fasi organizzative dell'omicidio e non era presente il giorno prima dell'agguato, quando il motociclo venne condotto sul posto e collocato in posizione utile al successivo utilizzo, nonché in considerazione del fatto che l'imputato partecipò all'agguato col ruolo di staffettista a bordo di un'automobile di provenienza lecita direttamente a lui riconducibile. La Corte inoltre ha omesso di spiegare quale sarebbe stato il contributo concorsuale materiale o morale posto in essere dall'imputato rispetto all'acquisto o alla ricezione del motorino di provenienza illecita, tanto più che nell'azione di fuoco sono stati adoperati anche altri veicoli tutti di provenienza lecita. 4.5. Con il quinto motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 10, 12 e 14 legge 497 del 1974 per avere la Corte territoriale erroneamente omesso di riconoscere l'assorbimento per continenza del reato di detenzione dell'arma in quello di porto della stessa. Alla luce delle dichiarazioni rese dal Da. vi era coincidenza temporale tra le due condotte, il che doveva portare ad escludere il concorso materiale tra le due fattispecie di reato. 4.6. Con il sesto motivo denuncia violazione dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62 bis e 81 cod. pen., per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con cui la Corte territoriale ha negato la concessione delle invocate attenuanti generiche ed applicato un aumento di pena a titolo di continuazione che ha comportato l'applicazione della pena perpetua. Quanto al diniego delle attenuanti generiche, la motivazione della Corte è contraddittoria ed illogica, dal momento che da un lato afferma che tutti gli imputati hanno agito con ruolo di assoluto rilievo nell'esecuzione del delitto programmato, dall'altro riconosce che Au. ha offerto un contributo estemporaneo rispetto al verificarsi dell'evento. La Corte inoltre non ha tenuto conto dell'intervenuta confessione dell'imputato, erroneamente qualificata come irrilevante perché intervenuta attraverso spontanee dichiarazioni dal contenuto generico. Infine, ha omesso la Corte di spiegare le ragioni per cui la richiesta di risarcimento del danno operata dall'imputato nei confronti delle vittime dei reati, attraverso un rituale offerta reale, sintomatica di effettiva resipiscenza, sia stata ritenuta inidonea a giustificare la concessione delle invocate attenuanti generiche quantomeno con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante della premeditazione. Del pari censurabile la motivazione con cui la Corte territoriale ha quantificato gli aumenti di pena stabiliti a titolo di continuazione in relazione ai reati diversi dall'omicidio in danno di Lu.Mi.; il percorso argomentativo della Corte sul punto è del tutto generico e non spiega in maniera esaustiva e convincente quali sono stati i parametri normativi e le ragioni che hanno consentito di infliggere a titolo di continuazione pene così severe, che hanno comportato l'inflizione della pena dell'ergastolo, nonostante la scelta del rito abbreviato. 5. L'imputato Im.Ge., a mezzo dell'avvocato Se.Mo., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. 5.1. Con il primo motivo denuncia difetto di motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen., con riferimento alla violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza ex art. 521 cod. proc. pen. Osserva il ricorrente come all'imputato fosse stato contestato solo ed esclusivamente il concorso nell'esecuzione materiale dell'omicidio di Mi. Lu. e nel tentato omicidio di Mi.Pa., non essendo presente in imputazione alcun riferimento alla fase di ideazione e programmazione del delitto. La condotta attribuita all'Im. in sentenza ha quindi subito un radicale stravolgimento appalesandosi un caso di eterogeneità sostanziale del fatto accertato rispetto a quello contestato: infatti le evidenze processuali avevano attestato che Im. si era rifiutato di fornire il proprio contributo all'esecuzione dell'azione delittuosa ed il giudizio di primo grado si concludeva con una sentenza di condanna per concorso morale, e non più materiale, nei delitti in contestazione. Ha errato la Corte d'assise d'appello nel ritenere infondata la questione della violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. sollevata con atto di gravame, ritenendo Im. soggetto comunque impegnato anche nella fase esecutiva, avendo partecipato ai sopralluoghi ed avendo assunto il compito di mettere in sicurezza i killer dopo il delitto, ritenendo irrilevante la successiva condotta omissiva dell'imputato, adottata dal medesimo al fine di non esporsi direttamente. Con tale motivazione la Corte ha tuttavia omesso di rispondere alla doglianza sollevata, che evidenziava la non corrispondenza tra quanto contestato in capo di imputazione e la sentenza di condanna, finendo per attribuire all'Im. un ruolo esecutivo che di fatto non ha mai avuto. 5.2. Con il secondo motivo denuncia difetto di motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. con riferimento alla richiesta di assoluzione per non avere commesso il fatto per il delitto di omicidio di Lu.Mi.. A Im. era contestato, nel capo di imputazione, di avere partecipato, insieme a Mu., alle fasi esecutive del delitto, agendo da staffetta per i killer, assicurandone la fuga e provvedendo poi, sempre insieme a Mu., alla distruzione del ciclomotore utilizzato per l'agguato; con la sentenza di primo grado, a seguito delle dichiarazioni rese da Da. - che aveva dichiarato che Im. era presente in casa durante le riunioni in cui si organizzava il delitto - , si attribuiva all'imputato il concorso morale nel delitto, per avere preso parte alle fasi deliberative dello stesso. Con l'atto di gravame era stato censurata la decisione del primo Giudice osservando come non vi fossero elementi di riscontro al dichiarato di Da.. La Corte ha reso una motivazione carente ed illogica nella parte in cui ha ritenuto sussistenti elementi di riscontro al narrato del collaboratore (avendo ritenuto tali il fatto che Im. è da sempre soggetto legato al clan Da./Ma.; la sua presenza nella casa di Da. il giorno precedente il delitto; le conversazioni intercettate successivamente alla commissione del delitto, in cui i conversanti fanno ripetuti riferimenti all'imputato e in cui quest'ultimo avrebbe parlato del suo ruolo di staffetta ed affermato di aver fornito appoggio successivo ai killer). La Corte territoriale si è infatti limitata ad effettuare un mero elenco di conversazioni intercettate senza tuttavia esaminare in forma critica e ragionata quei richiami fatti dai coimputati all'Im., e senza indicare in quali conversazioni lo stesso Im. avrebbe parlato del suo ruolo nell'omicidio. Ancora nulla argomenta la Corte in ordine al contenuto dell'intercettazione ambientale n. 68 del 10 aprile 2019 delle ore 12:12, richiamata in atto d'appello, allorquando Da. e Lu. attaccano l'Im. per non aver cooperato all'attuazione dell'evento omicidiario ed il ricorrente contesta proprio di non essere mai stato coinvolto nella organizzazione. La Corte non spiega da quale elementi egli abbia tratto la prova che Im. fosse presente all'interno dell'autovettura di Lu. nella zona del delitto alle 07:26, né specifica quale sia la rilevanza dell'avvistamento della medesima vettura lungo la direttrice Nola - Villa Literno alle 11:26 nell'attività di recupero del killer, essendo stato accertato sia dalle conversazioni intercettate che dalle dichiarazioni del Da., che Im. sì era rifiutato di svolgere l'attività di recupero dei killer. La Corte ha ritenuto erroneamente prive di fondamento le argomentazioni difensive volte a sostenere un chiaro atteggiamento di desistenza dell'Im. dall'omicidio in contestazione, desumibile oltre che dalle considerazioni già espresse, anche dal contenuto della conversazione numero 74 del 10 aprile 19, in cui i due principali interlocutori Da. e Lu. si lamentano della condotta tenuta dall'imputato che era rimasto inerte sul luogo dell'agguato intento ad annaffiare le piante. Quanto alla presenza in casa Da. dell'Im. il giorno precedente l'omicidio, la Corte omette di considerare che in quell'occasione i conversanti discutevano degli affari del clan relativi alla gestione del traffico di droga e non dell'organizzazione dell'omicidio. La Corte non spiega, illogicamente non ritenendo configurabile uria desistenza o un recesso attivo, o una mera connivenza, in che modo la completa inoperosità dell'Im. avrebbe apportato quel rafforzamento dell'altrui determinazione criminosa, fondamento dell'affermazione di responsabilità. 5.3. Con il terzo motivo denuncia difetto di motivazione con riferimento alla richiesta di assoluzione per non avere commesso il fatto per il delitto di tentato omicidio di Mi.Pa.. Essendosi accertato incontrovertibilmente che unico e solo obiettivo dei sicari fosse Lu.Mi., erra la Corte territoriale nel non avere ritenuto integrato, con riferimento al ferimento di Mi.Pa., il dolo eventuale, incompatibile con il tentativo. I sicari, pur avendo rilevato la presenza, non preventivata ed occasionale, di Mi.Pa., hanno ugualmente iniziato a sparare non nell'intento di cagionare la morte anche di questi, ma soltanto rappresentandosi la possibilità che essa si potesse verificare ed accettandone il rischio. Al contrario la motivazione della Corte territoriale, che ha riconosciuto sussistente il dolo alternativo, è assertiva e palesemente affetta da vizi logici in ordine all'esame del dolo sotteso all'evento ulteriore. Ancor più illogica e contraddittoria la motivazione della Corte laddove estende la responsabilità per il tentato omicidio di Mi.Pa. anche agli imputati che non parteciparono all'azione di fuoco, come il ricorrente Im.. Considerato che il ricorrente ha manifestato un atteggiamento di palese dissociazione e desistenza rispetto all'evento voluto dai correi, a maggior ragione l'affermazione di responsabilità per il reato diverso ed ulteriore è frutto di una forzatura motivazionale non essendo stato esplicitato quale tipo di contributo o di rafforzamento avrebbe potuto offrire l'Im. alla realizzazione dell'evento ulteriore non solo non voluto ma neppure immaginato e preventivabile. 5.4. Con il quarto motivo denuncia difetto di motivazione con riferimento alla richiesta di assoluzione per non avere commesso il fatto con riferimento ai del itti di cui ai capi 2 (violazione legge armi) e 4 (ricettazione). Il ragionamento della Corte, sotteso alla dichiarazione di responsabilità dell'Im. anche in relazione agli indicati delitti, è gravemente carente, in quanto gli elementi probatori raccolti non hanno evidenziato alcun collegamento tra Im. e l'arma utilizzata per l'omicidio di Lu.Mi., come confermato dalle stesse dichiarazioni di Da. (per il quale l'arma fu procurata da Lu., custodita dal Da. che, unitamente a Sa., la prelevò e consegnò ai killer Te. e Lu. il giorno stesso dell'agguato). Del pari, quanto al delitto di ricettazione, la Corte territoriale ha omesso di rispondere alle doglianze difensive avanzate in atto di appello, che evidenziavano come non ci fosse prova che l'Im. avesse mai conseguito il possesso o la disponibilità del mezzo. 5.5. Con il quinto motivo denuncia vizio di motivazione in relazione al diniego di esclusione dell'aggravante della premeditazione. L'aver circolato con la sua autovettura fino alle 07:26 del (Omissis) nei pressi dell'abitazione della vittima per un delitto commesso poi alle 08:45, è circostanza che la Corte di merito valorizza illogicamente rispetto all'accertata dismissione da parte dell'imputato - riluttante - del proposito criminoso. Del tutto illogico, secondo il ricorrente, avere ritenuto sussistente la citata aggravante pur a fronte di un comportamento definito dalla stesa Corte come riluttante: è contraddittoria la motivazione della Corte nella parte in cui da un lato non esclude che l'Im. si sia rifiutato di procedere alle operazioni di recupero dei killer, di occultamento dello scooter ed ancor prima, di aver messo a disposizione la propria autovettura da utilizzarsi per la staffetta, e nel contempo sostiene che il prevenuto abbia mantenuto fermo il proposito criminoso fino alla sua commissione: il proposito criminoso non è stato mantenuto fermo o irrevocabile, per cui la premeditazione non sussisteva per la sua sfera. 5.6. Con il sesto motivo denuncia vizio di motivazione in relazione al diniego di concessione delle attenuanti generiche prevalenti o quantomeno equivalenti alle contestate aggravanti. E' errata la motivazione della Corte che, nel negare le circostanze innominate, non ha valutato la condotta in concreto tenuta dal ricorrente, ma ha fatto riferimento al ruolo che avrebbe dovuto svolgere nella fase esecutiva del delitto, rispetto al quale tuttavia è stato del tutto negligente. Illogica è anche la motivazione della Corte che non ha ritenuto di differenziare la posizione di Im. rispetto a quella degli altri imputati. 6. L'imputato Lu.Um., a mezzo dei difensori avv. Al.Pi. e avv. Va.Sp., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. 6.1. Con il primo motivo denuncia erronea applicazione della legge processuale penale ex art. 606 lett. c) cod. proc. pen. avuto riguardo al combinato disposto degli artt. 522 e 604 cod. proc. pen. per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in virtù del difetto di contestazione della recidiva reiterata e specifica riconosciuta e applicata nei confronti dell'odierno imputato. Rileva la Difesa come dalla chiara indicazione contenuta nella rubrica di imputazione al Lu. fosse stata contestata la recidiva nella forma semplice; ciò nonostante il giudice di primo grado riconosceva a carico dell'odierno ricorrente la recidiva re te rata e specifica, decisione confermata in appello; il Giudice d'appello avrebbe invece dovuto rilevare l'erroneità in cui era incorso il primo Giudice, dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e trasmettere gli atti al primo Giudice in ossequio a quanto disposto dall'art. 604 comma 1 cod. proc. pen.. 6.2. Con un secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di tentato omicidio ai danni di Mi.Pa. e correlata affermazione di responsabilità dell'imputato anche per tale delitto con omessa valutazione della tesi alternativa opposta dalla Difesa, e travisamento per omissione delle prove indicate. I Giudici di merito hanno ritenuto la responsabilità del Lu. in ordine al delitto di tentato omicidio di Mi.Pa. pur essendosi accertato che l'unico obiettivo dell'azione omicidiaria fosse l'uccisione di Lu.Mi.. La Corte territoriale ha omesso di rispondere alle specifiche doglianze sollevate in atto di gravame, limitandosi a riepilogare la sentenza di primo grado. La Difesa, in particolare, offriva una propria ricostruzione dei fatti incompatibile con quella accolta dal primo Giudice, la cui radicale omessa valutazione da parte della Corte territoriale radica nel provvedimento impugnato un primo vizio motivazionale. In particolare, la ricostruzione alternativa consentiva di posizionare Lu.Mi., al momento dell'arrivo degli aggressori, già sul marciapiede di via (Omissis) a qualche metro di distanza dalla Renault, come comprovato dal rinvenimento dello zainetto del nipote proprio sul marciapiede ad una certa distanza dalla vettura. Ancora si richiamavano gli esiti della polizia scientifica, che documentavano l'assenza di fori sulla parte sinistra della vettura, certificando in tal modo che lo sparatore non fosse al centro della carreggiata nel momento in cui iniziava l'azione di fuoco. Ancora, a conferma della ricostruzione offerta dalla Difesa, vi era l'esito dell'esame autoptico che chiariva come i colpi sparati avessero raggiunto la vittima alle spalle e non frontalmente. Infine, richiamava la difesa le stesse dichiarazioni rese da Mi.Pa. e captate in un'intercettazione ambientale in cui lo stesso affermava di essere stato colpito da un colpo di rimbalzo. Ebbene, l'omessa valutazione da parte della Corte territoriale degli elementi evidenziati dalla Difesa costituisce il vizio di travisamento per omissione. Ed ancora la Corte incorre nel vizio di travisamento allorquando, a pagina 12, parafrasa le dichiarazioni di Mi.Pa. stravolgendole nel loro effettivo contenuto: dalla lettura delle s.i.t. rese il 9 aprile 2019 dal predetto Mi.Pa., allegate al ricorso, emerge come mai questi ebbe a riferire di essere stato il bersaglio dello sparatore né tanto meno che i colpi fossero stati sparati al suo indirizzo ad altezza d'uomo. La sentenza è contraddittoria laddove da una parte afferma che lo specchietto lato destro rotto confermerebbe la dinamica come ricostruita, e dall'altro esclude che lo specchietto si fosse danneggiato a causa di un colpo d'arma da fuoco. Ulteriore profilo di contraddittorietà dell'impugnata sentenza viene ravvisato nella parte della motivazione in cui si esplicitano le ragioni dell'intervenuta assoluzione per il tentato omicidio di Lu.Mi. junior, dal momento che, da un lato, per fondare l'affermazione di responsabilità per il tentato omicidio di Mi.Pa. e di Lu.Mi. senior, quest'ultimo viene collocato, al momento dell'esplosione dei primi colpi, nei pressi della portiera anteriore destra ove sedeva il bambino; dall'altro, nel motivare l'assoluzione per il tentato omicidio di quest'ultimo, si è affermato come non vi fosse prova certa che al momento degli spari Lu.Mi. senior si trovasse di fianco alla portiera anteriore destra dell'auto. La contraddizione poi è palese laddove si consideri che, viste le ridotte dimensioni della vettura e la ricostruzione della dinamica dell'agguato descritta in sentenza, la vittima designata era certamente più vicina al piccolo Lu. di quanto lo fosse Pa.. L'omessa disamina della ricostruzione alternativa offerta dalla difesa radica nel provvedimento impugnato un ulteriore vizio, quello dell'erronea applicazione della legge penale: se infatti è vero che la posizione di Lu.Mi. senior fosse tale da escludere che Pa. si trovasse sulla traiettoria di sparo, il reato di tentato omicidio non può configurarsi né sotto il profilo materiale né sotto quello psicologico. Si sarebbe al più potuto ipotizzare l'eventualità di configurare un'ipotesi di aberratio ictus plurilesiva e quindi di porre a carico degli imputati l'ulteriore evento lesivo non voluto ovvero il ferimento di Mi.Pa. ai sensi dell'articolo 82 comma 2 cod. pen.. 6.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e vizio della motivazione relativamente alla ritenuta sussistenza del reato di tentato omicidio nei confronti di Mi.Pa. nella sua componente oggettiva. La Corte territoriale ha del tutto omesso di confrontarsi con uno dei due requisiti di natura oggettiva previsti dall'articolo 56 cod. pen. ovvero quello della non equivocità degli atti; il giudice d'appello ha sostanzialmente operato una indebita sovrapposizione tra tale requisito e quello della idoneità degli altri. Ha conseguentemente errato la Corte nel non sussumere la fattispecie concreta in quella di cui all'articolo 82 comma 2 cod. pen. ovvero in subordine nel non averla derubricata nel reato di quell'articolo 582 cod. pen.. 6.4. Con il quarto motivo denuncia violazione di legge e vizio della motivazione relativamente alla ritenuta sussistenza del reato di tentato omicidio nei confronti di Mi.Pa. nella sua componente soggettiva. Ha errato la Corte nel ravvisare in capo agli imputati gli estremi del dolo alternativo: la sentenza impugnata è censurabile sia per aver del tutto omesso di confrontarsi con le censure sollevate dalla difesa in atto di appello sul punto elemento psicologico, dall'altra per essere giunta ad una conclusione intrinsecamente contraddittoria poiché smentita dalle stesse premesse poste dalla sentenza impugnata. Richiamava la Difesa il contenuto della conversazione numero 137 dell'11 aprile 2019 in cui si estrinsecava chiaramente come l'intento fosse solo quello di uccidere Lu.Mi.; nonché sottolineava come anche alla luce del numero dei colpi esplosi, nessuno dei quali indirizzato a parti vitali del corpo di Mi.Pa., poteva essere configurato il reato in oggetto. La sentenza impugnata è manifestamente illogica e contraddittoria ed auto - confutante laddove, da un lato postula che il soggetto agente aveva come unico obiettivo la figura di Lu.Mi., dall'altro afferma che gli agenti avrebbero voluto alternativamente la morte o il ferimento di Mi.Pa.. Nessuna considerazione è stata spesa neppure in relazione alla pur dedotta riconducibilità dell'elemento soggettivo nella diversa fattispecie del dolo eventuale. 6.5. Con il quinto motivo denuncia violazione di legge e vizio della motivazione relativamente all'affermazione di responsabilità del ricorrente per il reato di ricettazione di cui al capo 4. Con atto di appello, la Difesa aveva posto all'attenzione della Corte territoriale la totale assenza di approfondimento in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato di ricettazione; analisi da ritenersi ancor più doverosa alla luce del fatto che per l'azione omicidiaria erano stati utilizzati anche veicoli di provenienza lecita, addirittura riconducibili a stretti familiari dei soggetti coinvolti. La Corte d'appello, omettendo di confrontarsi con le specifiche deduzioni ad essa sottoposte, si è limitata a riproporre la congettura cui ha fatto ricorso il primo giudice al fine di affermare la penale responsabilità del ricorrente per il delitto in esame. La motivazione è pertanto manifestamente carente tanto più che il Lu. non era tra i soggetti che si era occupato del posizionamento dello scooter la sera prima del delitto, e non è stato coinvolto nel suo successivo incendio, essendo stato assolto dal reato contestato sub capo 3. 6.6. Con il sesto motivo denuncia vizio della motivazione in ordine al riconoscimento e all'applicazione della recidiva in sede di commisurazione della pena. La motivazione offerta dalla Corte territoriale si è limitata ad elencare i precedenti penali senza effettuare alcuna valutazione circa l'eventuale manifestazione di maggior pericolosità del ricorrente. La Corte ha reso sul punto una motivazione apparente, apprestando una motivazione unica e cumulativa per tutti gli imputati. 6.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla mancata quantificazione dell'aumento di pena in concreto inflitta per effetto del riconoscimento della recidiva. Il giudice di primo grado, dopo aver individuato la pena base per il reato di omicidio di Lu.Mi., si è limitato ad affermare genericamente che l'aumento di pena per i reati in continuazione teneva conto anche del riconoscimento della recidiva, senza tuttavia specificare a quanto ammontasse l'aliquota dei singoli aumenti disposti da ricondursi al riconoscimento dell'aggravante. A tale omissione, debitamente censurata in atto di appello, la Corte territoriale non ha dato risposta. L'omessa quantificazione dell'aumento disposto per effetto della recidiva determina l'impossibilità di verificare il rispetto del limite posto dall'art. 99 comma 6 cod. pen.. 6.8. Con l'ottavo motivo denuncia vizio della motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e dall'assoluta carenza motivazionale in relazione ai criteri di computo degli aumenti per la continuazione. Apodittiche sono le indicazioni motivazionali rese per giustificare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, considerazioni che palesano la natura circolare, dunque, illogica della motivazione offerta in quanto la Corte desume l'inapplicabilità delle circostanze innominate dalla sola gravità dei fatti contestati. Censurabile anche la scelta, ancora una volta, di esaminare congiuntamente le posizioni di diversi imputati e l'omesso riferimento alle censure difensive contenute nell'atto di appello: in particolare si faceva riferimento alla scelta confessoria del Lu., alla decisione di non coltivare una serie di eccezioni di natura processuale tempestivamente sollevate in limine del giudizio di primo grado, all'offerta reale dì un risarcimento nei confronti dei familiari della vittima, come da documentazione prodotta all'udienza 10 dicembre 2020 ed allegata al ricorso. Censurabile è infine la sentenza impugnata per aver omesso di fornire adeguata motivazione in ordine criteri di computo degli aumenti per la continuazione per i reati satellite, tema cruciale posto che la quantificazione di tali aumenti in misura superiore ai 5 anni ha comportato l'inflizione all'imputato della pena dell'ergastolo al netto della riduzione per il rito prescelto. 7. L'imputato Mu.Gi., a mezzo dei difensori avv. Fr.Bo. e Ra.Es., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. Con il primo motivo denuncia vizio della motivazione e travisamento della prova e del fatto, con riferimento all'affermazione di responsabilità in ordine al delitto di omicidio di Lu.Mi.. Il ricorrente analizza le fonti di prova poste dai giudici di merito a base dell'affermazione di responsabilità del Mu. (in particolare le immagini della videosorveglianza, le dichiarazioni di Um.Da., il contenuto delle conversazioni intercettate, debitamente riportate nei tratti ritenuti significativi in sede di ricorso), giungendo alla conclusione come da esse non potesse ricavarsi alcun contributo partecipativo consapevole da parte di Mu. all'azione omicidiaria. Non vi è prova che Mu. fosse a conoscenza del progetto omicidiario; d'altronde, ricorda il difensore, come nella conversazione 68 del 10 aprile 2019, Mu. venisse descritto come persona incompetente. Evidenzia poi la difesa come Mu. non sia l'uomo ripreso alle 08:22 del 9 Aprile 2019 dagli impianti di videosorveglianza della tabaccheria di via (Omissis), come al contrario affermano i giudici d'appello. La Corte ha inoltre omesso di valutare correttamente l'affermazione di innocenza pronunciata da Mu. in carcere nel corso di un colloquio con il padre che l'imputato ignorava essere registrato. Contesta poi la Difesa il giudizio di credibilità ed attendibilità intrinseca ed estrinseca formulato dai giudici di merito in relazione alle dichiarazioni di Um.Da., richiamando la genesi della collaborazione che poggia in una valutazione di convenienza operata addirittura ex ante dal Da., nel corso di una conversazione con Lu.; la genesi di tale collaborazione, certamente non spontanea, impone quindi di valutare con particolare attenzione l'attendibilità intrinseca del Da., anche in considerazione del fatto che la scelta collaborativa è intervenuta solo successivamente all'esecuzione delle misure cautelari, il che aveva consentito al predetto di conoscere tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti. Alle chiamate in correità da parte del Da. difettano poi gli elementi della precisione e della coerenza. Nessuna risposta ha fornito la Corte alla deduzione difensiva per cui Mu. non poteva essersi recato la mattina dell'agguato alle 06:21 a casa del Da. rimanendovi fino alle 07:51 per poi essere individuato alle 07:26 nella vettura Polo. Peraltro il riconoscimento di Mu. da parte di Da. come il soggetto ritratto dalle telecamere alle 06:21 avviene in termini quasi probabilistici, ma la Corte d'Appello con motivazione illogica lo ritiene certo. I giudici di appello hanno disatteso con motivazione sommaria e illogica l'assunto difensivo secondo il quale l'attività legata alla droga era l'unica ragione del rapporto tra Da. e Mu. ed era l'unica ragione per cui Mu. era a casa di Da., nonostante numerose intercettazioni, richiamate in ricorso ma ignorate dalla Corte, corroborassero sul punto le ragioni difensive. 7.2. Con un secondo motivo denuncia vizio di motivazione con riferimento all'affermazione di responsabilità in ordine all'incendio dello scooter, in relazione al quale è stata ritenuta la responsabilità del solo Mu.. Contesta la difesa come le emergenze probatorie indicassero che la decisione di distruggere il mezzo non fu un'iniziativa estemporanea del solo Mu. non prevista dal gruppo. Eppure, il Mu. nel corso del colloquio intercettato in carcere con il padre non fa alcun cenno all'incendio dello scooter. La difesa mette anche in dubbio la tenuta della motivazione della Corte territoriale nella parte in cui ritiene provata l'identificazione di Mu. come il soggetto che si occupa del disfacimento del mezzo ripreso dai fotogrammi: oltre a non consentire un'identificazione certa la visione del filmato, la difesa aveva altresì evidenziato come fosse oggettivamente impossibile per il Mu. trovarsi alle 10:29 del (Omissis) nel luogo dove si è verificato l'incendio, se si trovava alle 10:34 dello stesso giorno a bordo della Polo in direzione San Giorgio dove avrebbe dovuto prelevare il killer. 7.3. Con un terzo motivo denuncia violazione di legge e vizio della motivazione relativamente alla ritenuta aggravante della premeditazione. Nell'impugnata sentenza manca graficamente ogni motivazione in ordine alla doglianza difensiva sollevata in atti di gravame volta all'esclusione dell'aggravante della premeditazione, e motivata dalla peculiarità della posizione del Mu., che era intervenuto solo in un frammento temporale successivo alla perpetrazione del delitto di omicidio, e solo a causa del venir meno dell'apporto dell'Im.. Essendo la condotta del Mu. connotata da occasionalità e contingenza, essa non poteva essere premeditata. 8. L'imputato Sa.Gi., a mezzo dell'avvocato Sa.Se., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. 8.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 190, 192, 495, 603 cod. proc. pen. ed eccepisce la nullità delle ordinanze emesse dalla Corte di assise d'appello di Napoli il 4 maggio 2022 ed il 27 gennaio 2023, con le quali è stata respinta la richiesta di rinnovazione istruttoria dibattimentale al fine di acquisire la testimonianza di Vi.Pa.. Si trattava in particolare dell'idraulico cui Sa., come dallo stesso riferito sin dall'interrogatorio di garanzia, si era rivolto la mattina dell'omicidio su richiesta del nipote Um.Da. per un intervento urgente alla rete fognaria del vicolo all'interno del quale vi erano le abitazioni della famiglia Da.. Osserva la Difesa come l'acquisizione di detta prova fosse decisiva e determinante in quanto consentiva di scardinare l'intero impianto accusatorio che era fondato sulle sole dichiarazioni rese da Um.Da. (secondo il quale il giorno dell'omicidio egli, unitamente a Sa., era salito sul terrazzo di via (Omissis) 122 per poter controllare i movimenti della vittima ed avvisare i complici) da ritenersi inattendibile e non credibile, e comunque privo di riscontri oggettivi ed individualizzanti. Nel corso del giudizio di appello, il difensore aveva riferito di aver appreso il nominativo dell'idraulico solo successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado, instando per l'audizione del Pa. ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen.. La Corte, con ordinanze 4 maggio 22 e 27 gennaio 23 ha respinto la richiesta di escussione di Vi.Pa. e di acquisizione di documentazione attestante la residenza del predetto in via (Omissis) 122, senza tuttavia argomentare in ordine all'irrilevanza ed alla non necessità ai fini del decidere. 8.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge, in particolare degli artt. 192, 533, 546 cod. proc. pen.. nonché 110, 575 cod. pen., e vizio della motivazione anche per travisamento della prova con riferimento al giudizio di conferma della colpevolezza del ricorrente con riferimento al contestato delitto di omicidio di Lu.Mi., che si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni di Um.Da., da ritenersi tuttavia del tutto inattendibili e prive di riscontri individualizzanti. In atto di gravame si era sottolineato come le dichiarazioni del Da. fossero inquinate dal suo dimostrato interesse all'impunità, come espresso nel corso di una conversazione ambientale intercettata il giorno successivo all'omicidio; ancora si era evidenziato come le dichiarazioni del Da. fossero prive di autonomia e spontaneità dal momento che esse furono rese solo successivamente alla notifica nei confronti anche del Da. dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere con conseguente piena conoscenza da parte del medesimo di tutti gli atti di indagine. Nella totale assenza di qualsiasi riscontro esterno al suo dichiarato, esso deve ritenersi pertanto circolare e non autonomo. La Corte, nel respingere la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ha omesso di indicare le ragioni per le quali la prova dichiarativa del Da. potesse assurgere ad elemento di prova certa a carico del ricorrente. 8.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge, in particolare violazione degli artt. 192, 533, 546 cod. proc. pen., e 110, 575 cod. pen., con corrispondente vizio della motivazione, per l'affermazione della responsabilità di Sa., relativamente all'omicidio di Lu.Mi., sulla scorta della suddetta chiamata, con travisamento della prova e con l'omissione della valutazione degli elementi favorevoli all'imputato. La Corte ha omesso di confrontarsi con le deduzioni difensive di cui all'atto di gravame. In particolare, si era osservato che la dichiarazione del Da. per cui Sa. era al corrente dell'omicidio, oltre che generica, era priva di riscontro atteso che in alcuna delle conversazioni intercettate, sia prima che successivamente al fatto, nelle quali era presente il ricorrente, i colloquianti avevano mai parlato dell'omicidio. Del tutto inidonea ad integrare un riscontro alle dichiarazioni del Da. era l'intercettazione dell'8 aprile 2019, riportata a pagina 30 della sentenza impugnata, nota 13 (in cui il collaborante dichiarava che il terrazzo poteva essere il luogo adatto per "buttare il servizio"). Quanto all'affermazione del Da. che il Sa. avrebbe, la mattina dell'agguato, posizionato lo scooter utilizzato dai killer, trattasi di affermazione del tutto priva di riscontri. La motivazione della Corte è omissiva nella parte in cui i Giudici hanno ritenuto che il Sa. avesse partecipato con Lu., Da., Au. e Te. alla riunione svoltasi il 19 aprile 2019, per decidere le contromisure da adottare a seguito del controllo di Mu.Gi. da parte dei Carabinieri. In particolare, la Corte territoriale ha omesso di fornire risposta alle precise contestazioni che in atto di gravame erano mosse avverso tale deduzione, limitandosi a trascrivere integralmente le argomentazioni offerte dal primo giudice e censurate dalla difesa. Ancora i Giudici d'appello hanno trascurato di confrontarsi con le precise deduzioni difensive svolte con riferimento all'affermazione del Da. che aveva indicato Sa. come colui che si era occupato di prelevare la pistola la mattina del delitto insieme al Da. stesso per poi consegnarla a Te.: la difesa aveva evidenziato l'illogicità e la contraddittorietà delle propalazioni del Da. proprio con riferimento al presunto ruolo svolto dal ricorrente ed al contributo che avrebbe offerto con riferimento alla fase organizzativa ed esecutiva dell'omicidio, con riferimento alla dedotta impossibilità che l'arma, se fosse stata prelevata la mattina dell'omicidio, non avrebbe potuto trovarsi all'interno dello scooter. 8.4. Con il quarto motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione anche per travisamento della prova con rifermento alla ritenuta responsabilità del ricorrente in ordine al delitto di tentato omicidio di Mi.Pa., ed omessa motivazione con riferimento all'invocata riqualificazione del delitto in quello di lesioni personali colpose. I Giudici di appello hanno omesso di confrontarsi con due circostanze decisive e determinanti evidenziate dalla difesa del ricorrente in atto di gravame, in particolare l'assenza di prove con riferimento al l'animus necandi, essendo emerso che la ferita inferta a Mi.Pa. era da talmente lieve da essere giudicata guaribile in giorni 7; e la direzione dei colpi che attinsero la vittima Lu.Mi., con evidenza unico obiettivo dei killer. 8.5. Con il quinto motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione anche per travisamento della prova con riferimento alla ritenuta responsabilità del ricorrente in ordine ai delitti di detenzione e porto d'arma da fuoco di cui al capo 2) e di ricettazione di cui al capo 4). I Giudici di merito hanno omesso di indicare gli elementi di prova sulla scorta dei quali hanno ritenuto integrata la condotta di partecipazione ai suddetti delitti; l'adesione di Sa. al piano omicida, supposta dalla Corte di merito, non costituisce infatti prova del concorso dell'imputato nei suddetti reati, se non su base illogica e congetturale; le deduzioni difensive svolte in atto di gravame non hanno ricevuto risposta. 8.6.Con il sesto motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione per avere i Giudici di appello omesso di indicare gli elementi di prova che legittimassero l'estensione al ricorrente dell'aggravante della premeditazione. La motivazione dei Giudici d'appello sul punto si fonda su mere formule di stile ed omette ogni riferimento alla posizione dell'odierno ricorrente. 8.7. Con il settimo motivo denuncia violazione degli artt. 192 cod. proc. pen. e 133, 114 e 62 - bis cod. pen., con corrispondente carenza della motivazione, per il confermato diniego delle attenuanti generiche, per il mancato riconoscimento del ruolo fungibile marginale avuto dall'imputato. La Difesa aveva osservato in atto di gravame come il ruolo attribuito in concreto al Sa. fosse del tutto fungibile e significativo di una minore adesione psicologica o di un minor rilevante contributo morale o materiale alla realizzazione dell'evento, ma la Corte ha omesso di argomentare alcunché sul punto. 8.8. Con l'ottavo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione relativamente al trattamento sanzionatorio, per avere la Corte omesso di rideterminare la pena inflitta dal primo Giudice pur a seguito dell'intervenuta assoluzione per il delitto di tentato omicidio di Lu.Mi. junior. La Corte ha violato il quarto comma dell'art. 597 cod. proc. pen. in quanto, pur avendo escluso dal computo dei reati in continuazione il tentativo di omicidio di Lu.Mi. junior e il reato di incendio, ha lasciato invariata la pena finale vanificando in tal modo gli effetti della riforma della sentenza di primo grado. 9. L'imputato Ci.Te., a mezzo dell'avvocato Le.Pe., ricorre per cassazione, articolando i seguenti motivi di ricorso. 9.1. Con il primo motivo denuncia, ai sensi dell'art.606 lett. b) ed e) cod. proc. pen., la carenza e/o contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla affermazione di responsabilità pronunciata a carico del ricorrente per il capo di imputazione sub 1), limitatamente al tentato omicidio di Mi.Pa., in dipendenza della violazione/falsa applicazione degli artt. 110 e 56 cod. pen., oltre che di una lettura travisante delle prove acquisite, di una giustificazione illogica e, comunque, carente di concludenza probatoria in rapporto al canone del dubbio ragionevole. In premessa, la Difesa evidenzia come, sul punto, non ci si possa ritenere in presenza di una "doppia conforme", in quanto il percorso argomentativo svolto dalle due sentenze di merito per addivenire alla pronuncia di colpevolezza per il reato di tentato omicidio di Mi.Pa. è divergente: mentre per il primo Giudice i killer erano stati notiziati della presenza di Mi.Pa. e del figlio Lu. al momento del "via libera", per i Giudici d'appello la presenza dei predetti divenne noto solo quando "i sicari iniziarono l'azione di fuoco". La Difesa lamenta dunque l'erronea applicazione degli artt. 43, 56 e 575 cod. pen, e la mera assertività/contraddittorietà della motivazione della Corte territoriale con riguardo all'elemento soggettivo del reato, declinato quale dolo alternativo, ma contraddittoriamente in alcuni punti della sentenza (es. pag. 60) descritto secondo uno schema più prossimo al dolo diretto di tipo cumulativo. Ancora la Difesa lamenta l'erronea applicazione da parte del Giudice d'appello dei principi enunciati dalla Giurisprudenza di legittimità in tema di dolo alternativo: si sarebbe potuto ipotizzare il dolo alternativo solo se le prove avessero dimostrato in modo inequivoco che i killer avessero previsto e voluto, come scelta sostanzialmente equipollente, la morte o il grave ferimento di Mi.Pa.. Le prove tuttavia, argomenta la Difesa, hanno attestato al contrario che l'unico obiettivo era Lu.Mi. e che Pa. fu colpito da un solo colpo, verosimilmente di rimbalzo. Il Gip aveva, con artificio argomentativo, spezzato l'azione dei killer in due fasi, ritenendo sussistente il dolo alternativo solo nella prima, quando i killer giungono sul luogo, e non nella seconda, quando i killer infieriscono sul solo Lu.Mi.. La Corte territoriale ha invece enfatizzato dei dati oggettivi (l'aver sparato ad altezza d'uomo con arma micidiale) comunque inidonei a sorreggere la pronuncia di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. In ogni caso, il dato relativo alla micidialità dell'arma è solo supposto, dal momento che l'arma non è stata trovata e sono stati rinvenuti sul posto solo i bossoli (cal. 9). E' invece contraddittoria la motivazione laddove la Corte espone la circostanza che i killer hanno esploso un numero considerevole di colpi ad altezza d'uomo, ridimensionando poi la stessa affermazione (laddove afferma che Pa. poteva rimanere ferito anche solo di striscio). Sotto altro profilo, la Difesa evidenzia come la Corte territoriale abbia ritenuto che i killer avessero previsto gli eventi morte/ferimento di Mi.Pa., senza tuttavia chiarire quale fosse il grado della suddetta previsione, pur appuntandosi in ciò il discrimen tra dolo alternativo e dolo eventuale. Anche le motivazioni rassegnate con riguardo al tema della univocità e idoneità degli atti appaiono viziate sotto diversi profili: la Corte d'appello ha ritenuto l'idoneità e l'univocità degli atti sulla base dei seguenti elementi: micidialità dell'arma; considerevole numero dei colpi esplosi; incuranza della presenza di Mi.Pa.; traiettoria degli spari ad altezza uomo; vicinanza di Mi.Pa. alla vittima designata. Tuttavia, come già detto, il dato relativo alla micidialità dell'arma è stato postulato in maniera assertiva ed illogica, atteso che l'arma non è stata rinvenuta. È neutro il dato relativo al numero considerevole dei colpi esplosi: dal momento che 7 dei 12 colpi colpirono Lu.Mi., i Giudici di merito avrebbero dovuto chiarire quanti dei residui 5 colpi fossero stati sparati in direzione tale da esporre Mi.Pa. a pericolo di vita. La traiettoria dei colpi ad altezza d'uomo è affermata in modo apodittico e contraddittorio anche considerato che Mi.Pa. è stato colpito in un'area corporea incompatibile con la tesi dell'esplosione di colpi in rapida successione ad altezza d'uomo. 9.2. Con il secondo motivo denuncia vizio di motivazione in relazione al diniego di esclusione dell'aggravante della premeditazione. Sulla premessa che Te. ha ammesso gli addebiti limitatamente all'omicidio di Lu.Mi., specificando di aver saputo dell'atto omicidiario da compiere solo al momento dell'arrivo in via (Omissis) il giorno dell'agguato e che il collaboratore Da. non aveva menzionato Te. tra coloro che avevano partecipato alla deliberazione della sentenza di morte, la motivazione resa dalla Corte territoriale sul punto appare lacunosa, gravemente carente e contraddittoria, laddove in modo apodittico afferma che l'imputato, notiziato dell'omicidio, nelle prime ore del mattino dell'agguato, avrebbe in quel momento potuto e dovuto comprendere che si trattava di un agguato premeditato. Ancor più viziata è la motivazione della Corte nel ritenere sussistente l'aggravante della premeditazione con riferimento anche al tentato omicidio di Mi.Pa., in considerazione del fatto che gli stessi Giudici d'appello affermavano che i killer avevano appreso della presenza di Pa. solo quando iniziarono a sparare. 9.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento alla affermazione di responsabilità in ordine al reato sub capo 4 (ricettazione). Detto reato è stato attribuito al ricorrente in difetto assoluto di prove dimostrative del dolo in ordine alla provenienza da delitto del motorino utilizzato per compiere l'agguato. 9.4. Con il quarto motivo denuncia difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza della recidiva. La Corte ha reso sul punto una motivazione apparente, apprestando una motivazione unica e cumulativa per tutti gli imputati. Peraltro, al Te. era stata contestata la recidiva specifica, e la Corte ha omesso di motivare in ordine alla riferibilità dei delitti già giudicati (violazione legge armi e violazione legge stupefacenti) rispetto a quelli sub iudice. 9.5. Con il quinto motivo denuncia violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza di cui all'art. 416 bis. 1 cod. pen.. Sotto il profilo della contestata agevolazione del gruppo camorristico Da./Ma., la Corte ha omesso qualsiasi motivazione incidentale in ordine alla pretesa caratura mafiosa del gruppo criminale di ipotetica appartenenza degli imputati. Quanto al metodo mafioso, del pari carente è la motivazione della sentenza impugnata che senza ulteriori approfondimenti fa derivare automaticamente la sussistenza dell'aggravante genericamente dalle modalità dell'azione omicidiaria. 9.6. Con il sesto motivo denuncia vizio di motivazione in relazione al diniego di concessione delle attenuanti generiche. La Corte ha omesso di motivare con riguardo all'ammissione degli addebiti da parte dell'imputato pur a fronte dì un motivo di gravame, testualmente riportato in ricorso, molto articolato. Non ha poi considerato il ridimensionamento della gravità dei fatti, alla luce della intervenuta assoluzione dal reato di tentato omicidio di Lu.Mi. junior. 9.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli aumenti stabiliti a titolo di continuazione. A fronte di uno specifico motivo di appello con il quale si invocava il contenimento degli aumenti in continuazione in misura non superiore a 5 anni, la Corte ha totalmente omesso di motivare, esplicando i criteri di computo delle pene inflitte a titolo di continuazione per i reati satellite. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di Sa.Au., limitatamente alla circostanza aggravante della premeditazione contestata al capo 1), ed al reato di cui al capo 4); nei confronti di Lu.Um., limitatamente alla recidiva, e nei confronti di tutti i ricorrenti limitatamente alla determinazione degli aumenti per la continuazione. Le impugnazioni, quanto al resto, devono essere rigettate. 1.1. Sotto il profilo metodologico, giova brevemente ricordare quanto segue. In tema di sindacato del vizio della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., nell'apprezzamento delle fonti di prova, il compito del giudice di legittimità non consiste nel sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito; la Corte di cassazione ha il diverso compito, infatti, di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano esattamente applicato le regole della logica, nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni, a preferenza di altre (così Sez. un., n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv 203428; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv 235507; Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217). 1.2. Esula quindi dai poteri della Corte di cassazione la formulazione di una nuova e diversa valutazione, in ordine agli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, giacché tale attività è riservata esclusivamente al giudice di merito, potendo riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell'iter argomentativo seguito da tale giudice, accertando se quest'ultimo abbia, o meno, dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno condotto ad emettere la decisione. 1.3. Va poi osservato che il controllo in sede di legittimità viene esercitato, in via esclusiva, sul fronte della coordinazione delle proposizioni e dei passaggi, attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato; non sussiste possibilità, in questa sede, di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie, come risultanti dagli atti del processo; sicché, nella verifica della eventuale fondatezza del motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il compito della Corte di cassazione non si sostanzia nell'accertare la plausibilità e l'intrinseca adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, bensì nel dovere - radicalmente differente - di stabilire se i giudici di merito: a) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; b) abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti; c) nell'interpretazione delle prove, abbiano esattamente applicato le regole della logica, nonché le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire una giustificazione razionale, circa la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. 1.4. Ne consegue che, ai fini della denuncia del vizio in esame, è indispensabile dimostrare che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, per cui non può essere ritenuto legittimo l'opporre alla valutazione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione degli stessi, magari pure altrettanto logica, dato che in quest'ultima ipotesi verrebbe inevitabilmente invasa l'area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito. Il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione, infatti, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 4, n. 4842 del 2/12/2003, Elia, Rv. 229368). 1.5. Va da ultimo ancora osservato che la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227 - 01; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988 - 01). 1.6. Si rileva, inoltre, sotto concorrente profilo, che anche il giudice di appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione,, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (tra le altre, Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002, dep. 2003, Delvai, Rv. 223061), e che, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, è giudicata ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico - giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (tra le altre, Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250; Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615). 2. Tanto premesso - al solo fine di richiamare il perimetro valutativo entro il quale si svolge il giudizio in sede di legittimità - può passarsi all'esame delle specifiche doglianze, precisandosi che si procederà alla trattazione congiunta delle censure che presentano, fra loro, profili di analogia, ovvero che appaiono connotate da una comune matrice teorica e argomentativa. 2.1. Vanno logicamente analizzati per primi i motivi di ricorso avanzati dagli imputati che hanno contestato il coinvolgimento nell'omicidio di Lu.Mi. di cui al capo 1), e, conseguentemente, anche di tutti i delitti contestati, sotto il profilo del non aver commesso il fatto. Si tratta di Ar.Pa., Sa.Gi., Im.Ge. e Mu.Gi.. 2.2. Prima di esaminare nello specifico le singole posizioni, e i correlativi motivi di ricorso, vale la pena, onde evitare inutili ripetizioni, porre alcune linee guida che orientano la decisione, con riferimento ad una questione avente un substrato contenutistico parzialmente comune a tutti i ricorsi che contestano la partecipazione degli imputati al fatto criminoso, risolvendosi essa in critiche ai criteri di valutazione adottati dai Giudici del merito, in ordine alle propalazioni del collaboratore di giustizia Um.Da.. In riferimento a tale tematica, è bene rammentare che - attenendosi ai principi dogmatici elaborati in questa materia dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv. 255145) - il giudice è chiamato a verificare la sussistenza di tre requisiti, rappresentati: - dalla credibilità soggettiva del dichiarante, valutata alla stregua di elementi personali quali le sue condizioni socio - economiche e familiari, il suo passato, i rapporti con l'accusato, la genesi e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; - l'attendibilità intrinseca del contenuto dichiarativo, desunta da dati quali la spontaneità, la verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi diversi; - la riscontrabilità oggettiva del dichiarante, attraverso elementi di prova o indiziari estrinseci, i quali devono essere esterni alla chiamata onde evitare il fenomeno della c.d. "circolarità" probatoria e che possono consistere in elementi probatori o indiziari di qualsiasi tipo e natura, ivi compresa un'altra chiamata in correità (Sez. 1, n. 16792 del 9/4/2010, Rv. 246948; Sez. 2, n. 16183 del 1/2/2017, Rv. 269987); a condizione, in quest'ultimo caso, che le convergenti dichiarazioni accusatorie, ritenute intrinsecamente attendibili, siano realmente autonome e che la loro coincidenza non sia fittizia, come nel caso in cui una chiamata abbia condizionato l'altra (cfr. ancora Sez. U., n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255143). Ciò premesso, una critica comune ai ricorsi è rappresentato dal fatto che Um.Da. effettuò la scelta di collaborare con la giustizia, solo dopo il formarsi del giudicato cautelare in ordine all'ordinanza di custodia cautelare dalla quale era stato raggiunto, e dopo aver preannunciato al Longo, nel corso della conv. 66 del 10/04/2019, l'intenzione, in caso di cattura, di collaborare con la giustizia "prefigurandola quale scelta di convenienza ... e non certo quale frutto di reale pentimento" (pag. 33 sentenza di primo grado). Con diverse sfumature, le difese evidenziano come la scelta evidentemente utilitaristica del Da. ne mini l'attendibilità. Le argomentazioni svolte non sono condivisibili e trovano piena smentita nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado. In particolare i Giudici di appello (pagg. 23 e ss.), nel condividere il giudizio di credibilità soggettiva ed attendibilità oggettiva delle dichiarazioni del collaborante, hanno innanzitutto valorizzato il ruolo apicale rivestito dal Da. all'interno dell'omonimo clan, che gli aveva consentito di intrattenere con i coimputati rapporti di diretta conoscenza e frequentazione; il Da. inoltre era stato ideatore dell'omicidio Mi., e pertanto ben conosceva non solo le motivazioni sottese al piano omicidiario ma anche i ruoli e le posizioni di coloro che con lui agirono; è stato rimarcato - e sul punto nessuno dei ricorrenti ha introdotto argomenti o financo suggestioni di segno contrario - come nessun intento calunniatorio fosse individuabile in capo al Da., il quale ha reso innanzitutto dichiarazioni autoaccusatorie, oltre che eteroaccusatorie, descrivendo nel dettaglio, con puntualità e costanza, le ragioni del delitto e le fasi deliberative che ne precedettero la sua esecuzione, fornendo, per ciascuno dei soggetti coinvolti, la descrizione dettagliata del contributo da ognuno fornito alla sua esecuzione. Sotto il profilo della attendibilità oggettiva è stato poi osservato come le dichiarazioni rese dal collaborante avessero fornito solo una conferma agli elementi investigativi che gli inquirenti avevano già raccolto nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nel reato, ancor prima che il Da. venisse tratto a sua volta in arresto. La prima ordinanza cautelare, che aveva attinto oltre al Da., anche Au., Im., Lu., Mu. e Te., era precedente rispetto alla scelta collaborativa del Da., il quale iniziò a rendere dichiarazioni auto ed etero accusatorie l'8 luglio 2019; i Giudici d'appello, tuttavia, evidenziano come anche in relazione agli imputati Sa. ed Ar., raggiunti solo successivamente da provvedimento restrittivo, fosse emersa la loro partecipazione al fatto omicidiario, ancor prima rispetto alle propalazioni del Da., grazie alle captazioni ambientali ed alle immagini video acquisite; il Da., secondo la concorde valutazione dei Giudici di merito, ha solo permesso di dettagliare meglio le loro condotte e i loro apporti ai fini di una puntuale formulazione dell'accusa. Infine, osservava la Corte di assise di appello, come il narrato del Da. avesse trovato avallo anche nelle stesse dichiarazioni, confessorie, rese da alcuni dei coimputati, ed in particolare, Au., Lu. e Te.. Prima di passare all'analisi delle singole posizioni, appare utile ricordare come del tutto correttamente la scelta "utilitaristica", preannunciata dal Da. ben prima di venir attinto di misura cautelare, di "buttarsi pentito", sia stata correttamente ritenuta dai Giudici di merito non tale da inficiare, anche per i motivi già succintamente sopra esposti, la sua credibilità soggettiva. È stato, a tale proposito, affermato da Sez. 1 n. 11179 del 31/10/2018 dep. 2019, Patanè, Rv. 274921 - 01 che, in tema di valutazione dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie di un collaboratore di giustizia, il generico interesse a fruire dei benefici premiali non è di per sé solo elemento idoneo ad intaccare la credibilità delle dichiarazioni ove il giudice le abbia doverosamente sottoposte a vaglio critico; ed, ancor più recentemente Sez. 6 n. 48320 del 12/04/2022, PMT c/Manna, Rv. 284074 - 02 ha affermato che, in tema di criteri di valutazione della chiamata in correità, va distinto il generico interesse a "collaborare", che può animare utilitaristicamente ogni collaborante in ragione della possibilità di fruire dei benefici di legge, e non ne inficia la credibilità, in mancanza di quantomeno serie allegazioni contrarie, dall'interesse concreto a rendere dichiarazioni eteroaccusatorie inquinate - per malanimo, astio, rancore, intese collusive o altro - tale da rendere legittimo il sospetto concreto di inattendibilità delle propalazioni accusatorie, ciò che deve indurre il giudice a maggiore cautela e ad applicare con criterio di rigore gli ulteriori parametri valutativi offerti dall'esperienza e dalla logica. 2.3. Va ancora ricordato, in premessa, che, in tema di concorso di persone nel reato, stante la struttura unitaria del reato concorsuale, allorché si realizza la combinazione di diverse volontà finalizzate alla produzione dello stesso evento, ciascun compartecipe è chiamato a rispondere sia degli atti compiuti personalmente, sia di quelli compiuti dai correi nei limiti della concordata impresa criminosa per cui, quando l'attività del compartecipe - morale o materiale - si sia estrinsecata e inserita con efficienza causale nel determinismo produttivo dell'evento, fondendosi indissolubilmente con quella degli altri, l'evento verificatosi è da considerare come l'effetto dell'azione combinata di tutti i concorrenti, anche di quelli che non hanno posto in essere l'azione tipica del reato (fra molte, Sez. 2, n. 51174 dell'1/10/2019, Lucà, Rv. 278012; Sez. 1, n. 7442 dell'8/5/1998, Negri e altro, Rv. 210806). 3. Con il primo motivo del primo atto di ricorso, la Difesa di Ar. contesta la sussistenza di elementi fondanti la responsabilità dell'imputato in relazione a tutti i reati per i quali è intervenuta condanna. 3.1. Si duole in sintesi il ricorrente del fatto che i Giudici di appello abbiano confermato la condanna dell'Ar. sulla base della sola circostanza che l'imputato, il giorno prima l'omicidio, avesse condotto lo scooter Honda SH (Omissis) rubato (utilizzato l'indomani per compiere l'azione di fuoco), nel vicariello, ove abitava Um.Da.. Non sarebbe emerso, secondo l'impostazione difensiva, alcun elemento dal quale poter dedurre che Ar. fosse a conoscenza del piano omicidiario concordato, e che quel veicolo sarebbe stato usato per l'omicidio: nessuna captazione dimostrativa di una sua partecipazione è stata acquisita, ed egli è risultato assente alle riunioni preparatorie l'omicidio. Le sole dichiarazioni accusatorie del Da., peraltro smentito su importanti risultanze ed in assenza di riscontri individualizzanti, non sarebbero sufficienti a fondare la pronuncia di colpevolezza, anche in considerazione della circolarità delle dichiarazioni del collaborante. 3.2. Il motivo è inammissibile: in netto contrasto con i principi di diritto richiamati in preambolo (sopra sub 2.), la doglianza difensiva sostanzialmente invoca una nuova valutazione in punto di fatto, così demandando a questa Corte di legittimità il compimento di una operazione che è preclusa in questa sede. Le sentenze di merito, sul punto specifico, risultano peraltro compiutamente motivate, in base ad un percorso argomentativo lineare, esaustivo e privo del pur minimo spunto di contraddittorietà, di carattere logico o intratestuale. Come già sopra rilevato, il coinvolgimento di Ar.Pa. nei fatti per cui è processo interviene in una fase avanzata delle indagini: egli infatti non risulta essere stato colpito dalla prima ordinanza custodiale emessa dal GIP di Napoli, che aveva attinto Sa.Au., Im.Ge., Lu.Um., Mu.Gi. e Ci.Te.. È il collaboratore Um.Da. che, nel corso delle sue dichiarazioni (riportate nelle parti salienti alle pagg. 62 - 64 della sentenza di primo grado), individua Ar.Pa. come il soggetto che l'8 aprile 2019 aveva, unitamente a Te., recuperato il motorino Honda SH rubato - che sarebbe stato utilizzato l'indomani per condurre i killer sotto casa di Mi. - , parcheggiandolo in piazzale Ischia, nei pressi dell'abitazione del Da.. Il collaboratore ha poi indicato in Ar. il conducente del medesimo motorino che la mattina del 9 aprile 2019, con Te. come passeggero, compie l'azione omicidiaria. Secondo il narrato del collaboratore, dopo l'omicidio, Ar. accompagnava Te. a casa della nonna, e poi, insieme a Mu., si recava a bruciare il motorino. Ebbene, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, i Giudici di appello, ripercorrendo da un lato le propalazioni del collaborante, e dall'altro le risultanze delle indagini, hanno ritenuto pienamente riscontrato il narrato del Da.. La Corte territoriale ha innanzitutto evidenziato come le telecamere di sorveglianza installate nei pressi dell'abitazione di Um.Da., avessero consentito di accertare che la mattina dell'8 aprile 2019 Te. (riconosciuto dagli operanti) ed un altro soggetto, vestito di scuro e con casco integrale, fossero giunti nei pressi del vicariello, l'uno conducendo lo scooter Honda rubato, e Te. a bordo di uno scooter Piaggio MP3 tg. (Omissis), risultato essere nella disponibilità di Ar.Ga., fratello di Pa., gestore di una società di noleggio. I due erano poi entrati nell'abitazione di Da.; il medesimo soggetto vestito di nero e con casco integrale poco prima giunto, usciva da casa Da. alle ore 11.57 e faceva rientro nella medesima abitazione alle ore 12,27: qui le intercettazioni ambientali avevano consentito di captare la voce (riconosciuta dagli operanti) dell'Ar.. Ebbene, i Giudici di appello evidenziano come questo primo riscontro al narrato del collaborante "non è di poco conto", sottolineando come dallo sviluppo degli accertamenti investigativi fosse conseguita la piena credibilità ed attendibilità del riconoscimento di persona effettuato dal Da.. Il conducente appare allora lo sviluppo argomentativo difensivo svolto nel primo ricorso della Difesa Ar. (pagg. 5 e 6), laddove si contesta come "manifestamente illogica la motivazione con la quale la Corte di merito è giunta a ritenere che sia certamente la stessa persona, nonché che vada con certezza identificata proprio nel ricorrente quella che ha guidato i due scooter tra le 11 e le 12:30 in data 08.04.19": partendo dal dato, ammesso, della presenza dell'Ar. a casa di Da. alle ore 12,20 del giorno in questione, la Difesa afferma, richiamando argomenti svolti in atto di appello, come in assenza di captazione precedente alle 12.26 non potesse escludersi che Ar. fosse a casa di Da. anche prima del giungere di Te. insieme all'ignoto soggetto che aveva in precedenza parcheggiato lo scooter Honda rubato, contestando, del tutto genericamente, l'avvenuto riconoscimento operato dal Da.. L'argomento, come si diceva, si appalesa manifestamente infondato alla luce delle stesse ammissioni operate dall'Ar., il quale, come riportato a pag. 37 della sentenza d'appello, in seno ad un memoriale depositato in atti, ammise che la mattina dell'8 aprile 2019 si trovava presso la casa di Da., essendo andato da lui a riscuotere i soldi per una vettura Fiat Panda e per il motorino marca MP3 noleggiati dal fratello, e che proprio in quell'occasione Da. gli aveva chiesto, anzi imposto, di andare a comprare del cibo "in quanto lui aveva problemi ad uscire". D'altronde la frase captata alle ore 12,27 in ambientale, pronunciata dall'Ar. ("ho preso quella che ti piace a te la mare e monti"), conferma vieppiù che, ad andare a prendere il cibo per Da. e gli altri che si trovavano in sua compagnia in quel momento, fosse stato proprio l'Ar., come, si ribadisce, affermato dallo stesso imputato. Del tutto scevra da aporie logiche appare quindi la conclusione raggiunta dai Giudici d'appello per cui (pagg. 39, 40) "dall'esame congiunto delle immagini degli impianti di videosorveglianza e del cattura targhe e quanto emerge dalla conversazione di cui al prog. 57 dell'8.4.2019 (in cui la voce stessa dell'Ar.Pa. viene riconosciuta dalla P.G.) si ricava che l'uomo che ha utilizzato lo scooter dalle 11:57 alle 12:30 dell'8.4.2019 è proprio Ar.Pa. e che questi, vestito con gli stessi abiti dell'uomo che aveva condotto poco prima l'Honda Sh rubata, era colui che prima era stato visto arrivare con Te. Rosario presso la casa del Da.". Ancora, si evidenzia nella sentenza impugnata (pag. 37), ad ulteriore riscontro della partecipazione attiva dell'imputato all'azione omicidiaria, come "dai sistemi di vigilanza esaminati dagli inquirenti è emerso che alle 07:17:57 del giorno (Omissis) (immagini riprese dalla telecamera che controlla via (Omissis), dalla parte in cui abita Da.Sa., detto Pi.) si notava il passaggio dello scooter PIAGGIO MP3 condotto da un uomo vestito di nero con casco protettivo semi integrale (identificato in Ar.Pa.: v, rif. in sent. pag. 14), che percorre la via in direzione dell'incrocio tra via (Omissis) e Via (Omissis)". Del tutto coerente appare conseguentemente la conclusione cui i Giudici di merito pervengono in merito alla piena attendibilità del narrato del Da., in quanto supportata da riscontri individualizzanti a carico dell'Ar.. Tale giudizio non appare inficiato, come vorrebbe il ricorrente, dalla circostanza che su alcuni specifici punti, il narrato del Da. non abbia trovato conferma negli esiti delle intercettazioni o nella visione delle telecamere di sicurezza. D'altronde, come rimarcato dai Giudici della Corte territoriale, l'individuazione di Ar.Pa. era giunta non già per effetto della chiamata in correità del Da., ma grazie all'azione investigativa che aveva consentito alla P.G. di riconoscere la voce dell'imputato nella già citata conversazione ambientale progr. 57 del 08/04/2019. Ebbene, con ragionamento affatto illogico, i Giudici territoriali hanno rimarcato la rilevanza probatoria del fatto, acclarato, che Ar., il giorno prima dell'omicidio, avesse condotto lo scooter rubato (poi utilizzato per compiere l'azione omicidiaria), sottolineando come a tale operazione gli avesse fatto da staffetta Te., esecutore materiale dell'azione di fuoco; i due si erano poi recati a casa del mandante dell'omicidio (Um.Da.) unitamente ad altri soggetti partecipanti al delitto. La valutazione effettuata dai Giudici di merito appare corretta e ossequiosa dei principi sanciti da questa Corte secondo cui, in tema di valutazione della chiamata in correità proveniente da un soggetto che abbia reso dichiarazioni complesse, oggetto della valutazione è la dichiarazione globale del chiamante, relativamente ad un determinato episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti dallo stesso riferiti. Ne consegue che, per stabilire l'attendibilità di una dichiarazione concernente più chiamate fra loro strettamente collegate, si può tener conto anche solo di alcuni aspetti significativi di essa, in modo che, una volta effettuata l'operazione con esito positivo, il giudice di merito possa legittimamente riconoscere valore probatorio a tutta la dichiarazione e non solo a quella specificamente riscontrata" (Sez. 6, n. 42705 del 12/10/2010, Salvo, Rv. 248732). In definitiva, pare a questo Collegio che vi sia stata ampia e doviziosa risposta ad ogni censura formulata dalla difesa in sede di gravame; né il motivo dì ricorso riesce a formulare una fondata critica alla decisione, in punto di tenuta logica, coerenza o contraddittorietà, arrestandosi - sul punto specifico - alla mera critica confutativa. 4. Venendo alla disamina della posizione di Sa.Gi., va, in via preliminare, dichiarata l'inammissibilità del primo motivo con il quale il ricorrente denuncia violazione degli artt. 190, 192, 495, 603 cod. proc. pen., in relazione alle ordinanze emesse dalla Corte di assise d'appello di Napoli il 4 maggio 2022 ed il 27 gennaio 2023, con le quali è stata respinta la richiesta di rinnovazione istruttoria dibattimentale al fine di acquisire la testimonianza di Vi.Pa., soggetto di professione idraulico, cui Sa. si sarebbe rivolto la mattina dell'omicidio su richiesta del nipote Um.Da. per un intervento urgente alla rete fognaria; secondo la tesi difensiva l'acquisizione di detta prova era decisiva e determinante in quanto forniva supporto alle dichiarazioni rese dal Sa. sin dall'interrogatorio di garanzia, secondo le quali egli si sarebbe recato, la mattina del (Omissis), nella palazzina di via (Omissis) 122, per effettuare un programmato intervento idraulico. 4.1. Il motivo è inammissibile in quanto meramente reiterativo di corrispondente doglianza avanzata in sede di gravame e risolta con motivazione affatto illogica della Corte di assise di appello partenopea, che (pagg. 31, 32, 33), ha evidenziato la natura "sospetta, perché tardiva, generica e strumentale" della richiesta. La Corte territoriale ha infatti innanzitutto sottolineato come la richiesta fosse stata avanzata solo successivamente alla scelta del rito abbreviato, reputando "del tutto incredibile che l'identità del soggetto, che (in ipotesi) avrebbe potuto fornire un così importante supporto alla sua tesi difensiva, non si sia potuta accertare sin dalla prima fase delle indagini. In occasione del suo interrogatorio 26/11/2019, infatti, interpellato su tale circostanza, Sa.Gi. non forniva alcuna indicazione utile al riguardo, limitandosi a dichiarare di non ricordare il nome dell'idraulico, pur indicando quest'ultimo come un suo amico che abita nella zona da quarant'anni". Aggiungeva la Corte territoriale come l'istanza istruttoria si appalesasse generica, dal momento che lo stesso Sa., immortalato dalle telecamere di sorveglianza alle ore 07:51 del giorno dell'omicidio, (Omissis), mentre, unitamente a Da., esce dalla sua abitazione ed entra, sempre insieme al Da., all'interno dell'edificio di via (Omissis) 122, aveva affermato nel corso dell'interrogatorio che il suo amico idraulico non era ancora giunto alle ore 8:15 - 8:20, e che il lavoro idraulico era stato poi da lui svolto personalmente. Agli argomenti, come detto affatto illogici, spesi dai Giudici di merito, va aggiunto come sia approdo consolidato di questa Corte quello per cui nel giudizio abbreviato d'appello le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice "ex officio" nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più ampi rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado. Sez. 2, n. 5629 del 30/11/2021 dep. 2022, Granato, Rv. 282585 - 01; e che, nei casi in cui si proceda con giudizio abbreviato, la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello per assumere d'ufficio, anche se su sollecitazione di parte, prove sopravvenute che non siano vietate dalla legge o non siano motivatamente ritenute manifestamente superflue o irrilevanti, può essere sindacata, in sede di legittimità, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., soltanto qualora sussistano, nell'apparato motivazionale posto a base della conclusiva decisione impugnata, lacune, manifeste illogicità o contraddizioni, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza (Sez. 2, n. 40855 del 19/04/2017, Giampà, Rv. 271163 - 01), ipotesi quest'ultima non ricorrente. 4.1. Il secondo e terzo motivo della difesa Sa., con i quali viene denunciata rispettivamente la violazione degli artt. 192, 533, 546 cod. proc. pen.. e 110, 575 cod. pen., con corrispondente vizio della motivazione, per l'affermazione della responsabilità di Sa. sulla scorta della sola chiamata di Da., sospetta, tardiva, non autonoma, né spontanea, nonché la violazione degli artt. 192, 533, 546 cod. proc. pen. e 110, 575 cod. pen., con corrispondente vizio della motivazione, per l'affermazione della responsabilità di Sa. sulla scorta della suddetta chiamata, con travisamento della prova e con l'omissione della valutazione degli elementi favorevoli all'imputato, sono inammissibili in quanto meramente reiterativi e declinati in fatto; i motivi in particolare non si confrontano con la estesa e congrua motivazione della sentenza d'appello, incorrendo in tal modo anche nel vizio di aspecificità. Sa., al pari di Ar., non fu colpito dalla prima ordinanza cautelare emessa dal GIP di Napoli, ma il provvedimento restrittivo fu emesso nei suoi confronti solo successivamente alla scelta collaborativa del Da., ed anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dal collaboratore. Secondo il narrato del Da., si legge nelle sentenze di merito, Sa. fu uno degli ideatori dell'omicidio Mi., partecipe anche delle fasi esecutive: Sa.Gi. si era occupato di ricevere da Te. e Ar. e poi di portare sul luogo del delitto lo scooter Honda SH rubato; di prelevare, la mattina del delitto, insieme a Da., la pistola che era custodita dentro lo stabile sito in via (Omissis) 122, consegnandola poi al killer Te.; era infine salito sul terrazzo del palazzo di via (Omissis) 122 per fare da vedetta, verificando l'uscita della vittima della sua abitazione. Ebbene sotto il profilo dell'attendibilità intrinseca del Da. si richiamano le argomentazioni svolte sopra in premessa (sopra sub 2.). Contrariamente a quanto dedotto in ricorso sono plurimi i riscontri alla chiamata in correità del Da., di cui la Corte d'assise d'appello partenopea parla diffusamente alle pagg. da 24 a 34. La Corte territoriale ha innanzitutto sottolineato come l'accertamento della presenza del Sa. la mattina del fatto, (Omissis), sui luoghi, non aveva origine e causa nelle dichiarazioni del collaboratore, ma era stata accertata in precedenza dagli inquirenti attraverso la visione delle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza poste nei pressi delle abitazioni di Um.Da. e della vittima, di talché il contributo dichiarativo fornito dal collaborante era stato solo esplicativo della realtà già catturata dalle immagini delle telecamere. Ebbene, tale presenza, ammessa dallo stesso Sa., costituisce un primo, evidente, riscontro alle dichiarazioni del Da., il quale aveva affermato di essere salito, unitamente a Sa., sul lastrico della palazzina via (Omissis) 122 "in modo che entrambi potessimo salire per vedere da sopra l'abitazione di Mi. e capire quando sarebbe uscito per colpirlo"; spiegano i Giudici di appello che le "dichiarazioni di Da.Um. appaiono pienamente attendibili, perché hanno avuto piena corrispondenza nelle immagini delle telecamere già visionate dagli investigatori", e che attestavano l'uscita, alle ore 7.51 del (Omissis) da casa di Um.Da., di quest'ultimo in compagnia di Sa.Gi., e l'ingresso dei due nell'edificio di via (Omissis) n. 122; l'uscita alle ore 8.02 da tale edificio di Sa., che si dirigeva verso il vicariello; nuovamente, alle ore 8.29 Sa. usciva ancora da via (Omissis) 122, per dirigersi verso il vicariello. Logica appare pertanto la conclusione dei Giudici di appello (pag. 31) per cui "la presenza dell'imputato insieme al Da. (capo, ideatore e principale organizzatore del piano criminale), proprio nei luoghi in cui stava prendendo avvio la esecuzione dell'agguato, dove già si trovavano anche gli altri coimputati e, per giunta, proprio nei momenti che immediatamente precedettero la consumazione dell'omicidio, appaiono con tutta evidenza circostanze univoche e assolutamente non casuali, che dimostrano la realtà dell'affermata partecipazione di Sa.Gi. al delitto. Ciò tanto più ove si consideri che da un sopralluogo effettuato dal terrazzo del citato edificio, gli inquirenti potevano verificare che da quel punto era ben visibile il luogo ove si era verificato l'omicidio; luogo che viceversa non era possibile vedere dal terrazzo dell'edificio in cui abita Da.Um.". Ulteriore riscontro al narrato del collaborante è costituito dal contenuto delle conversazioni captate il (Omissis) a casa di Gi.Qu., nel corso di una riunione svolta alla presenza di Da., Lu., Au., Te., Mu. e appunto Sa.. Il Mu. aveva subito una perquisizione quella stessa mattina, effettuata dagli operanti al solo scopo di provocare una reazione nell'allora indagato; ed infatti Mu., messo artatamente in allarme dagli inquirenti - che gli avevano fatto credere di essere a conoscenza del coinvolgimento suo e di altri nell'omicidio Mi. - , aveva sollecitato prontamente una riunione con quasi tutti i soggetti coinvolti, che veniva effettuata nella casa di Gi.Qu., ritenuta, a torto, zona sicura. Le conversazioni captate (pag. 38 - 56 sentenza di primo grado), secondo quando affermato dai Giudici di merito, hanno costituito un poderoso ausilio nella effettiva ricostruzione dei singoli ruoli svolti da ciascuno degli indagati. Per quanto qui di interesse, assolutamente esplicative del suo coinvolgimento, sono state correttamente ritenute le affermazioni fatte in quell'occasione dal Sa.: oltre ad avere rimproverato Mu. di non essere stato abbastanza sfrontato con gli agenti, Sa. allertava i complici del prevedibile ricorso degli inquirenti ad intercettazioni ambientali. Non è quindi corrispondente al vero che la Corte non abbia analizzato la versione difensiva; al contrario, la Corte prende in esame tutte le doglianze e le disarticola in modo logico ed affatto contraddittorio; neppure corrisponde al vero il fatto - dedotto in ricorso - per cui in nessuna conversazione intercettata alla presenza del Sa., si sarebbe discusso dell'omicidio Mi.. Ed infatti nelle intercettazioni del 19 aprile 2019, di cui si è testé detto, allorquando, dalle ore 15:01 (in particolare progressivi n. 115 e 116 riportati a pagg. da 46 a 51 della sentenza di primo grado), presenti tra gli altri anche Mu. e Sa., il primo parla proprio delle indagini, svolte dagli inquirenti a proposito dell'omicidio Mi., narrando quello che gli agenti nel corso della perquisizione a suo carico gli hanno detto, e fatto credere. Non è un caso poi che proprio Sa. intuisca essersi trattato di una trappola, tacciando il complice di "inesperien2:a" e sollecitando tutti ad una particolare attenzione alle possibili captazioni con "microspie"; i discorsi successivi sono tutti infatti volti alla elusione delle possibili indagini, con specifici avvertimenti a "non parlare in macchina", a "non camminare a due". Il ricorrente si limita a riproporre le doglianze avanzate in sede di gravame, in modo meramente confutativo ed allo scopo di sollecitare una diversa valutazione da parte di questa Corte di legittimità, operazione all'evidenza non consentita. Quanto alla rilevata mancanza di riscontri su alcuni punti, va ricordato che in tema di valutazione della chiamata in correità proveniente da un soggetto che abbia reso dichiarazioni complesse, oggetto della valutazione è la dichiarazione globale del chiamante, relativamente ad un determinato episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti dallo stesso riferiti. Ne consegue che, per stabilire l'attendibilità di una dichiarazione concernente più chiamate fra loro strettamente collegate, si può tener conto anche solo di alcuni aspetti significativi di essa, in modo che, una volta effettuata l'operazione con esito positivo, il giudice di merito possa legittimamente riconoscere valore probatorio a tutta la dichiarazione e non solo a quella specificamente riscontrata (Sez. 6, n. 42705 del 12/10/2010, Salvo, Rv. 248732). In conclusione, in netto contrasto con i principi di diritto richiamati in preambolo (sub 2.), le doglianze difensive sostanzialmente invocano una nuova valutazione in punto di fatto , così demandando a questa Corte di legittimità il compimento di un'operazione che è preclusa in questa sede. 5. Il primo motivo del ricorso avanzato da Im.Ge.. con il quale si denuncia vizio di motivazione con riferimento alla prospettata violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza, è manifestamente infondato. Si duole in sintesi il ricorrente del fatto che, a fronte di una contestazione cristallizzata nel capo di imputazione sub 1), in cui a Im. viene ascritta una responsabilità concorsuale limitata alla fase esecutiva dell'omicidio, e non in quella ideativa e di programmazione, sia stato, in sentenza, ritenuto un ruolo ideativo nel progetto omicidiario, realizzandosi in tal modo una eterogeneità sostanziale del fatto accertato rispetto a quello contestato. Nella specifica vicenda, nel capo di imputazione viene contestato all'Im. di avere, con Mu., partecipato alle fasi esecutive "in quanto fungevano da staffetta per gli esecutori materiali assicurandone anche la fuga e provvedevano alla distruzione del ciclomotore utilizzato per l'agguato". Il Giudice di primo grado (pag. 94) ha ritenuto gli elementi acquisiti idonei a "fondare un giudizio di responsabilità penale concorsuale a titolo di contributo morale, essendo palese il rafforzamento dell'altrui determinazione criminosa insito nella partecipazione a sopralluoghi per valutazione di basi logistiche, oltre che nell'assunzione del compito di mettere in sicurezza il killer dopo il delitto, nella stessa presentazione all'appuntamento con i complici". A sua volta, la Corte d'assise d'appello, nel respingere l'eccezione di violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., sollevata in atto di gravame, evidenziava come il prevenuto fosse stato sia "impegnato nella fase esecutiva" sia "pienamente concorrente nel piano criminoso, avendo partecipato ai sopralluoghi assumendo il compito di mettere in sicurezza il killer dopo il delitto". 5.1. Ciò premesso, deve concludersi che nel caso di specie non vi stata alcuna immutazione radicale del fatto storico, menomativa del diritto di difesa, ma solo una precisazione del ruolo dell'imputato attuativo della deliberazione originaria. Il delitto è stato contestato richiamando espressamente l'art. 575 cod. pen.; non si è, pertanto, al cospetto di un fatto nuovo. Viene, invero, in rilievo un fatto la cui condotta è a c.d. forma libera e rispetto ad essa l'evento di danno si connota come risultato causalmente orientato in ragione di un contributo specifico dato in fase ideativa e/o di organizzazione materiale. La descrizione complessiva della condotta, pertanto, rileva con riferimento alle norme di legge violate, in ragione del consapevole contributo causale dato all'azione plurisoggettiva. Non incidono, sulla regola di corrispondenza, le singole e particolari modalità di attuazione di ogni specifico segmento commissivo, trattandosi di atti che si incasellano in un paradigma di causazione c.d. libera (in ragione del delitto consumato) e che determinano, comunque e in ogni caso, un apporto eziologico all'omicidio programmato. Del resto, nella specie, si è al cospetto di una condotta definita nelle sue coordinate empirico - fattuali essenziali, e rispetto alla quale il diritto di difesa e alla prova si è potuto articolare senza limitazioni. Sulla base di tali presupposti questa Corte ha ripetutamente affermato che non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui l'imputato, al quale sia stato contestato di essere l'autore materiale del fatto, sia riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, giacché tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione (Sez. 2, n. 30488 del 09/12/2022 dep. 2023, Mangini, Rv. 284953 - 01); ancora si è detto che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza se la condanna è pronunciata per concorso morale, a fronte di un addebito per partecipazione materiale (sez. 5, n. 7638 del 17/01/2007, Cammarata, Rv. 235786 - 01); non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato, cui sia stato contestato di essere l'autore materiale del fatto, sia riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, giacché tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione (Sez. 2, n. 12207 del 17/03/2015, Abruzzese, Rv. 263017 - 01). Va anche considerato, sotto diverso aspetto, che le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica e la correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell'accusa, e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell'imputato. Ne consegue che le stesse non debbono essere interpretate in senso rigorosamente formale ma con riferimento alle finalità alle quali sono dirette e, quindi, queste non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui l'imputazione venga mutata nei suoi elementi essenziali sì da determinare incertezza e pregiudicare il concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 6, n. 2642 del 14/01/1999 - dep. 25/02/1999, Catone A, Rv. 212803). Questa Corte (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 - dep. 29/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278) ha quindi affermato che ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione. Ed ancora, è stato detto che la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015 - dep. 03/02/2016, Addio e altri, Rv. 265946). In tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l"'iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. (Fattispecie relativa a contestazione del delitto di bancarotta post - fallimentare qualificato dalla S.C. come bancarotta pre - fallimentare) (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 24805101) La decisione impugnata appare pertanto conforme alla costante giurisprudenza di legittimità che, proprio in merito alla necessità di garantire il diritto al contraddittorio, ha evidenziato come questo sia assicurato anche solo dalla possibilità di contestare la diversa definizione mediante il ricorso per cassazione ovvero, in generale, con il mezzo di impugnazione (cfr. Sez. un., n. 31617 del 26/06/2015, Rv 264438; Sez. 3, n. 2296 del 09/03/2017, Rv 269992; Sez. 2, n. 5260 del 24/01/2017, Rv 269666; Sez. 5, n. 48677 del 06/06/2014, Rv 261356; Sez. 2, del 09/05/2012, Rv. 253627; Sez. 3, del 07/11/2012, Rv. 254135; Sez. 2, 15/05/2013, Rv. 256652). 5.2. Del pari manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso Im.. con il quale il ricorrente denuncia difetto di motivazione con riferimento alla richiesta di assoluzione per non avere commesso il fatto per il delitto di omicidio di Lu.Mi.. Il motivo è inammissibile in quanto meramente confutativo delle logiche argomentazioni svolte in sentenza d'appello e volto a sollecitare una rilettura degli elementi di fatto, organicamente analizzati dalla Corte territoriale con incedere argomentativo del tutto scevro da aporie logiche. Hanno evidenziato in particolare i Giudici di merito che il Da., dopo la scelta collaborativa, ha indicato Im. tra i soggetti che presero parte alla decisione di uccidere Mi. Lu.. La chiamata in correità, peraltro successiva all'emissione dell'ordinanza custodiate che già in precedenza aveva attinto l'Im., è stata ritenuta riscontrata da plurimi elementi. Ed infatti, le conversazioni intercettate, in parte riportate nella sentenza di secondo grado (pag. 43) nelle parti salienti, in parte semplicemente richiamate, con indicazione delle pagine della sentenza di primo grado in cui erano trascritte, indicano con chiarezza il coinvolgimento dell'Im. in tutte le fasi del delitto, come condivisibilmente ritenuto dalla Corte territoriale. I Giudici di appello (v. nota 24, pag. 43) hanno in particolare richiamato il contenuto della conversazione n. 68, registrata il giorno successivo al delitto, il 10/04/2019, nel corso della quale Lu. rinfaccia a Im. di aver dovuto utilizzare, insieme ad Au., in funzione di copertura del killer Te., l'autovettura del suocero di Au., anziché quella del medesimo Im., come all'evidenza programmato; Lu., con espressione autoevidente che non necessita di essere certo decodificata, rivolgendosi a Im. affermava testualmente "la macchina tua non ci serviva per sparare... mi serviva per far mettere dentro quello come appoggio ... che quello scendeva dalla macchina e se ne andava, Ciro stava con la macchina onesta li fuori". Ancora, viene rimarcato dai Giudici di merito come certamente Im. avesse effettuato dei sopralluoghi in vista dell'omicidio, come plasticamente emerso nella conversazione n. 80 del 10 aprile 19, ("dove la dovevi portare dove siamo andati due tre giorni fa?" - pag. 93 sentenza di primo grado). La Corte ha poi richiamato (pag. 43) le ulteriori conversazioni intercettate il 10 aprile 2019, deducendo in modo lineare come dalle stesse fosse emerso che "i soggetti apicali che avevano organizzato e deciso l'agguato avevano riconosciuto proprio a Im.Ge. un ruolo di primo piano, tanto da rimproverargli di non aver coordinato personalmente le operazioni di recupero dei killer e di messa in sicurezza dei medesimi e dello scooter impiegato, lasciando spazio all'inadeguato Mu.". Del tutto logica appare quindi la ricostruzione operata dalla Corte territoriale, che, sulla base delle emergenze derivanti dalle captazioni, colloca l'Im. sul luogo del delitto la mattina del 9 aprile, dapprima a bordo dell'autovettura Polo con la quale effettua dei giri di ricognizione, e quindi "con la pompa in mano" (progr. 68 del 10 aprile 2019). Le deduzioni difensive relative alle attività svolte da Im. la mattina del delitto si pongono su un piano meramente fattuale, e pertanto sono inammissibili in questa sede di legittimità. Da un lato, la Difesa tende a sminuire l'importanza di alcuni elementi evidenziati dalla Corte territoriale, quali argomenti di sostegno e di riscontro alla chiamata in correità da parte del Da. (l'essere l'Im. soggetto organico al clan Ma. Da., come dichiarato dai collaboratori di giustizia Ma.Al., Ga.Lu. e Sc.Vi.; l'essersi trovato il giorno antecedente l'omicidio a casa di Da. nel momento in cui Ar. e Te. avevano portato in loco lo scooter rubato, da utilizzarsi il giorno dopo per l'azione di fuoco), offrendo una visione atomistica delle emergenze e comunque senza considerare che detti elementi valorizzati dai Giudici di merito, costituivano meri riscontri al narrato del collaborante e soprattutto alle chiare risultanze provenienti dalle captazioni delle conversazioni di cui si è detto. D'altro canto, la Difesa contesta, con una visione parcellizzata, la materialità di alcuni segmenti della condotta (l'essersi trovato Im. a bordo della Polo tg. (Omissis) alle ore 7.26 del 9 aprile 2019 nella zona del delitto, effettuando vari giri di ricognizione): la censura è tuttavia portata esclusivamente sulla valutazione del compendio probatorio, non già evidenziando effettive illogicità o contraddittorietà del discorso giustificativo, ma semplicemente invocandone uno di segno diverso, alla luce della valorizzazione di taluni elementi fattuali e la depressione di significato di altri. Peraltro il ricorrente, nel contestare che l'Im. la mattina del 9 aprile 2019 si trovasse a bordo della Polo, omette di confrontarsi con il contenuto della conversazione 122 del (Omissis), nel corso della quale è lo stesso Im., parlando con Lu., Da. e Mu. ad affermare "ma noi stavamo con la Polo" (pagg. 54,55 sentenza primo grado). Peraltro che Im. si trovasse a bordo della Polo emerge con chiarezza anche dalla conversazione n. 74 del 10 aprile 2019 riportata a pag. 47 della sentenza d'appello: nel corso della conversazione Lu. contesta a Im. di avere lasciato la Polo al Mu. il quale, al di fuori dei piani concordati, aveva accompagnato con detta auto Te. a Formia; scrivono i giudici d'appello che "a questo rimprovero Im.Ge. si difende affermando di essersi semplicemente attenuto ad un'indicazione dello stesso Mu." che gli aveva detto di scendere. Condivisibile appare quindi la conclusione cui perviene la Corte territoriale nell'affermare (pag. 44) che "si tratta di condotte che, lungi dal costituire una presa di distanze o una successiva desistenza dell'imputato rispetto al piano delittuoso da eseguire, evidenziano invece una sua chiara adesione al piano delittuoso che aveva sin dall'inizio concorso a deliberare e a delineare nei suoi contorni operativi". Quanto specificamente alle doglianze reiterate in sede di ricorso in ordine al mancato riconoscimento della desistenza in capo all'Im., è appena il caso di ricordare come, secondo un principio radicato e consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di reati di danno a forma libera (nella specie, omicidio), la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il cosiddetto recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento (Sez. 1, n. 11746 del 28/02/2012, Price, Rv. 252259 - 01). L'avere poi individuato un preciso ruolo effettivamente svolto dall'Im. oltre che nella fase deliberativa ed organizzativa, anche nella fase esecutiva del delitto (essendosi trovato l'Im. a bordo della macchina del Mu., ed avendo effettuato dei giri di ricognizione nei pressi del luogo dell'omicidio), esclude all'evidenza in radice ogni possibilità di riconoscere un ruolo di mera connivenza in capo all'imputato. 6. Il primo motivo di ricorso avanzato dalla difesa Mu.. con il quale il ricorrente contesta l'affermazione di responsabilità in ordine al reato di omicidio di Lu.Mi. è inammissibile, in quanto rivalutativo, fattuale e manifestamente infondato. I Giudici di appello hanno logicamente ricostruito le condotte operative compiute dal Mu. in occasione dell'evento omicidiario, quali emergenti dal contenuto delle conversazioni intercettate, e dalla chiamata in correità effettuata dal Da.. Innanzitutto vanno richiamate le considerazioni sopra effettuate in premessa (sub 2.) in ordine all'attendibilità intrinseca del Da.; quanto ai riscontri individualizzanti, plurime sono le circostanze che i Giudici di appello hanno evidenziato nel delineare l'apporto causale all'evento omicidiario da parte del Mu.. In particolare Ge.Mu., che aveva rapporti di frequentazione con gli altri soggetti coinvolti, si trovava a casa del Da. il giorno antecedente l'omicidio (il 08/04/2019), nel momento in cui Ar. e Te. collocavano nei pressi lo scooter Honda SH 300, targato (...), che sarebbe servito l'indomani per commettere il fatto. E' sempre Mu. a cadere nel tranello teso dagli agenti operanti che effettuavano una perquisizione a suo carico il 19 aprile 2019 proprio al fine di sollecitare una reazione: effetto realizzatosi, dal momento che proprio a seguito della riunione convocata di lì a poco nella casa, ritenuta erroneamente sicura, di Gi.Qu., molti dei soggetti coinvolti parleranno liberamente dei ruoli svolti nell'evento omicidiario, consentendo agli inquirenti di trarre preziosi elementi di prova a carico degli imputati. Mu. è poi presente la mattina del 9 aprile 2019 alle ore 7:26 a bordo della Polo con la quale, unitamente ad Im., effettua "ripetuti giri in una sorta di quadrato, intorno alla zona ove Mi. Lu. troverà poi la morte" (pag. 46 della sentenza d'appello); la Corte territoriale ha a tale proposito riportato il commento,, registrato nella conversazione 122 del 19 aprile 2019, di Im. che affermava che a quell'ora il Mu. si trovava a bordo della Polo in sua compagnia. Dopo l'omicidio è sempre Mu. che, con la Polo, preleva il killer Te. e lo conduce, fuori dai piani prestabiliti, a Formia. II ricorrente si limita a confutare gli elementi di prova, parcellizzandoli, ma senza in realtà offrire concreti elementi di contrasti alla logica e consequenziale ricostruzione operata dai Giudici di merito. Va sul punto evidenziato come le deduzioni difensive volte a fornite diversi significati al contenuto delle conversazioni intercettate siano inammissibili in sede di legittimità dal momento che la portata dimostrativa del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, sottraendosi essa al sindacato di legittimità, se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 - 01; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 - 01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389 - 01; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650 - 01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784 - 01; Sez. 6, n. 17619 del 08/01/2008, dep. 30/04/2008, Gionta, Rv. 239724). È possibile, infatti, prospettare in sede di legittimità una interpretazione del significato di un'intercettazione diversa, rispetto a quella proposta dal giudice di merito, soltanto in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, 2018. Di Maro, Rv. 272558 - 01; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, dep. 2014, Napoleoni, Rv. 259516 - 01; Sez. 6, n. 11189 del 08/03/2012, Asaro, Rv. 252190 - 01; Sez. 2, n. 38915 del 17/10/2007, dep. 19/10/2007, Donno, Rv. 237994). Nel caso di specie, la difesa non ha dedotto illogicità evidenti desumibili dal'testo della sentenza impugnata, né ha assolto il peculiare onere di rappresentare in modo adeguato l'eventuale vizio di travisamento della prova (Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, dep. 03/10/2008, Buzi, Rv. 241023). Si è limitata, al contrario, ad invocare una diversa lettura delle conversazioni richiamate nel provvedimento impugnato, al fine di ricavarne esiti difformi. Operazione, come detto, non consentita in sede di legittimità. Peraltro, con riferimento alla diversa lettura offerta dal ricorrente in merito alla intercettazione del colloquio avvenuto tra Mu. (ristretto in carcere) ed il padre, il ricorso appare anche aspecifico dal momento che non si confronta con le logiche deduzioni della Corte territoriale (pag. 55) che evidenziava che "Mu. in quel colloquio all'apparenza effettua si una petizione di innocenza; ma quando suo padre dimostra di conoscere invece bene la diversa realtà che risultava dagli atti e di sapere che il figlio veniva indicato come uno dei soggetti presenti a casa di Da.Um. la mattina dell'omicidio, Mu. ammette a quel punto di aver falsamente negato agli inquirenti questa circostanza, accampando la scusa di essere presente in quella zona solo per entrare in tabaccheria per il suo vizio di giocare alle slot machine e di poter, con questa scusa, addirittura negare di aver accompagnato quel giorno Te. a Formia. In tale colloquio egli però non arriva mai a negare la circostanza di essere stato con Da. e gli altri coimputati proprio nella fase preparatoria del delitto". 7. I motivi avanzati dalle Difese in ordine alla sussistenza dell'aggravante della premeditazione - sotto il profilo della comunicabilità ai ricorrenti - hanno caratteri comuni che rendono opportuna una premessa generale, dovendosi poi diversificare l'analisi delle singole posizioni. Rilevato in limine come nessuno dei ricorrenti contesti la sussisterne dell'aggravante dal punto di vista oggettivo, in punto di comunicabilità soggettiva della circostanza, questa Corte ha da tempo chiarito come la circostanza aggravante della premeditazione possa estendersi anche al concorrente nel reato, allorquando risulti provata la conoscenza effettiva e la volontà adesiva al progetto, in modo tale che ciascuno faccia propria la particolare intensità dell'altrui dolo (Sez. 1, n. 4385 del 27/09/2000, dep. 2001 Alfieri, Rv. 217777; Sez. 1, n. 12473 del 19/12/2001, dep. 2002, Vaccaro, Rv. 221526; Sez. 1, n. 22773 del 25/03/2002, Grimoli, Rv. 221479; Sez. 1, n. 12879 del 24/01/2005, Bagarella, Rv. 231124; Sez. 1, n. 40237 del 10/10/2007, Cacisi, Rv. 237866; Sez. 5, n. 29202 del 11/03/2014, C., Rv. 262383; Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Argentieri, Rv. 271952). Fermo nella giurisprudenza di questa Corte è il principio (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241575; Sez. 5, n. 42576 del 03/06/2015, Procacci, Rv. 265149; Sez. 5, n. 34016 del 09/04/2013, F., Rv. 256528) secondo cui elementi costitutivi della premeditazione sono, da un lato, l'apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso (elemento di natura cronologica), e dall'altro la ferma risoluzione criminosa, perdurante nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica). Si è quindi affermato che la circostanza aggravante della premeditazione può essere estesa al concorrente, che non abbia partecipato all'originaria deliberazione volitiva, qualora questi ne abbia acquisito piena consapevolezza precedentemente al suo contributo all'evento ed a tale distanza di tempo da consentire che la maturazione del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori (sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Rv. 271952); la circostanza aggravante della premeditazione è estesa al concorrente che non abbia direttamente premeditato il reato qualora lo stesso abbia acquisito, prima dell'esaurirsi del proprio apporto volontario alla realizzazione dell'evento criminoso, l'effettiva conoscenza della altrui premeditazione. (Sez. 5, n. 29202 del 11/03/2014, C., Rv. 262383). 7.1. Ciò premesso in linea generale, si appalesano infondati i motivi primo del secondo ricorso della Difesa Ar., quinto della Difesa Im.. terzo della Difesa Mu., sesto della Difesa Sa., e secondo della Difesa Te.. Uniformandosi alle statuizioni di principio sopra richiamate, le decisioni di merito hanno posto in evidenza come, nel caso di specie, tra l'ideazione del proposito criminoso e la materiale esecuzione dell'azione omicidiaria aveva fatto seguito un'accurata fase preparatoria e organizzativa ed era quindi intercorso un apprezzabile intervallo temporale, in cui la risoluzione criminosa si è mantenuta ferma e costantemente orientata. Con motivazione scevra da fratture razionali, la Corte territoriale (pag. 69) ha in particolare osservato che "come innanzi già esposto, trattando specificamente la posizione di ciascun imputato, le modalità con cui fu eseguita l'azione di fuoco attraverso gli elementi raccolti dalle indagini e che hanno fornito riscontro alle dichiarazioni di Da. con particolare riferimento all'organizzazione precedente all'agguato con sopralluoghi, alla predisposizione dei mezzi e dall'attribuzione a ciascuno degli imputati di precisi compiti, rendono evidente che all'attuazione del delitto gli imputati pervennero non in base ad una scelta estemporanea ed improvvisa, ma meditata e ben ponderata attraverso una fase preparatoria ed organizzativa che coinvolse a vario titolo ciascuno di essi". Ebbene, il riferimento ai ruoli rivestiti da ciascun imputato, come riconosciuti nelle sentenze di merito, dà conto della correttezza della conclusione cui la Corte territoriale è giunta, laddove solo si consideri che: - Sa., Ar. ed Im. addirittura parteciparono alla fase ideativa dell'omicidio, per come dichiarato da Um.Da., credibile ed attendibile come già sopra argomentato; - Ar. e Te., predisposero lo scooter rubato Honda SH, portandolo nel vicariello il giorno prima dell'omicidio; - Im. effettuò dei sopralluoghi giorni prima rispetto all'omicidio; - Mu., che aveva il ruolo di portare in sicurezza il killer dopo l'agguato, era presente a casa di Da. il giorno precedente i fatti allorquando Ar. e Sa. ebbero a portare in loco lo scooter che sarebbe servito per l'azione omicidiaria. Affatto illogica appare quindi la conclusione della Corte (pag. 70) per cui "per ciascuno degli imputati che partecipava all'esecuzione del delitto, infatti la consapevolezza delle modalità dettagliatamente organizzate con cui l'azione delittuosa doveva essere portata a segno e che prevedeva la precisa distribuzione tra i complici di specifici ruoli esecutivi rivelava ad essi che la decisione di uccidere Mi. Lu. era stata ampiamente premeditata. Per cui, intervenendo sin dalle primissime ore del mattino sul posto per dare esecuzione all'agguato, avevano tutto il tempo per poter maturare anche la scelta di desistere da quel proposito e non rendere alcun contributo all'azione degli altri complici". 7.1.1. In particolare, quanto alla posizione di Ar., secondo la valutazione dei Giudici di merito, la circostanza che egli fosse coinvolto sin da giorno prima dell'omicidio, nel posizionamento dello scooter in posizione utile per l'utilizzazione per l'azione di fuoco, scardina in radice l'affermazione, di per sé apodittica, contenuta in ricorso secondo la quale non sarebbe individuabile un apprezzabile lasso temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione dello stesso. 7.1.2. La Difesa Im. da un lato omette di confrontarsi con l'ampia motivazione resa dai Giudici di merito che hanno riconosciuto in capo all'imputato una responsabilità anche in relazione alla fase ideativa del piano omicidiario, avendo peraltro l'imputato partecipato anche ad un sopralluogo giorni prima dei fatti; dall'altro reitera le proprie doglianze concentrando l'attenzione sul comportamento "riluttante" serbato dall'Im. il giorno dell'omicidio, riproponendo, in tal modo, le argomentazioni già analizzate trattando il motivo di ricorso inerente la responsabilità del predetto, e, come sopra detto, ampiamente contraddette dalle chiare conclusioni raggiunte dai Giudici di merito. 7.1.3. Con riferimento al ricorso avanzato dalla Difesa Mu., si evidenzia come i Giudici di merito avessero evidenziato la presenza del Mu. in casa di Da. al momento in cui venne posizionato, da Ar. e Te., lo scooter che verrà usato per commettere l'omicidio. 7.1.4. Quanto al ricorso avanzato dalla Difesa Sa., contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la Corte non è ricorsa a mere clausole di stile per ritenere sussistente la citata aggravante, avendo in realtà fornito una congrua ed ampia motivazione, anche con riferimento alla specifica posizione del Sa., con la quale il ricorrente omette di confrontarsi. 7.1.5. Con riferimento infine al ricorso avanzato da Te., richiamate le coordinate ermeneutiche cui la Corte territoriale si è attenuta in punto di comunicabilità soggettiva dell'aggravante de quo, non può non evidenziarsi come 'avere individuato Te. quale soggetto non solo incaricato di eseguire materialmente l'omicidio, ma coinvolto, unitamente all'Ar., sin dal giorno prima nel recupero dello scooter Honda rubato, e nel posizionamento dello stesso in luogo utile per l'utilizzo del giorno successivo, appare elemento tale da ritenere certamente sussistente ed integrata in capo al medesimo la aggravante contestata. 7.2. Diversa la valutazione in merito alla posizione di Sa.Au.. La Difesa ha, in merito alla ritenuta sussistenza dell'aggravante ex art. 577 comma 1 n. 3 cod. pen., articolato due distinti motivi, il secondo ed il terzo. 7.2.1. Il secondo motivo è di natura processuale, ed attiene alla sollevata censura relativa alla mancata contestazione dell'aggravante della premeditazione. Il motivo è manifestamente infondato: è sufficiente leggere il capo di imputazione sub 1) per avvedersi che l'aggravante in questione è stata contestata a carico di tutti gli imputati, senza diversificazioni in ragione del ruolo specifico rivestito nell'ambito dell'azione omicidiaria (nella specie di mero esecutore). 7.2.2. È invece fondato il terzo motivo. Declinando i succitati principi in materia di comunicabilità soggettiva dell'aggravante in argomento, occorre evidenziare come, conformemente a quanto osservato dalla Difesa in ricorso, la motivazione della Corte territoriale sia insufficiente a rendere conto delle ragioni per le quali essa è stata ritenuta sussistente nei confronti di Sa.Au.. Giova ricordare che il ruolo ascritto ad Au. nella vicenda omicidiaria, come individuato nel capo di imputazione, e ritenuto con concorde valutazione dai Giudici di merito, è stato quello di "partecipe alle fasi esecutive, in quanto svolgeva funzione di appoggio per gli esecutori materiali anche consentendo loro la fuga e metteva a disposizione uno dei veicoli utilizzati per l'agguato". Ebbene, la Difesa in atto di gravame, nell'invocare l'esclusione della citata aggravante aveva evidenziato come dalle risultanze probatorie fosse emerso che Au., senza avere consapevolezza di quanto doveva compiersi, fu convocato la mattina stessa del 9 aprile 2019 per partecipare all'agguato in sostituzione di Im., che si era tirato indietro; nessun accesso all'abitazione di Um.Da. era stato documentato in precedenza, né dai colloqui intercettati era mai emerso alcun riferimento alla sua presenza in compagnia dei correi o ad un suo coinvolgimento nell'omicidio. Appare allora manifestamente illogica la motivazione della Corte territoriale nella parte in cui, da un lato, avalla la ricostruzione difensiva che vede l'Au. venire a conoscenza del progetto omicidiario la mattina stessa dell'agguato, e cionondimeno ritiene sussistente a suo carico l'aggravante della premeditazione (pag. 71): "anche laddove l'imputato avesse avuto contezza solo al momento del suo arrivo in via (Omissis) dell'atto omicidiario da compiersi per l'acquisita consapevolezza per tempo di quelle programmate modalità che denotavano il carattere premeditato della condotta) egli aveva tutto il tempo sufficiente a desistere da quel proposito e non rendere alcun contributo". Proprio in tale affermazione della Corte territoriale, si annida il denunciato vizio motivazionale denunciato dalla difesa. Va ricordato che, come ricostruito dai Giudici di merito, Au. intervenne la mattina del 9 aprile 2019 in sostituzione di Im.Ge. che, all'ultimo momento e improvvisamente, si era rifiutato di mettere a disposizione la sua autovettura per le operazioni di recupero dei killer. L'azione di Au. viene ripetutamente lodata dai correi; appare opportuno ricordare a tale proposito come nel corso della conversazione n. 83 del (Omissis), presenti anche Da. e Im., il Lu., all'evidente scopo di rimproverare ulteriormente Im., nel tessere le lodi di Au., affermava "senza sapere niente Sa. sta qui ed io gli dico: Sa. vieni un attimo con me., mi metto la cosa addosso (pistola nds) ed esce Sa. non domanda:"dove stiamo andando ...andiamo".. Se io ti dico vicino a te con la cosa addosso vieni un attimo con me .. tu dici "ma perché? Possiamo aspettare? Così fai tu! Invece se io ti dico vicino a Sa.: Sa. vieni un attimo con me... e mi metto la cosa addosso Sa. non dice dove dobbiamo andare? Dice "che si deve fare?" (pag. 40 sentenza di primo grado). Coglie allora nel segno la censura difensiva che lamenta la carenza motivazionale dell'impugnata sentenza laddove ha ritenuto che Au. nel breve lasso di tempo tra l'intervento (alle ore 6,20) nei pressi dell'abitazione di Da. e il fatto omicidiario avesse acquisito l'effettiva e piena conoscenza dell'altrui premeditazione; e ciò tanto più, come evidenziato dalla Difesa, alla luce delle conversazioni intercettate da cui era emerso come Au. fosse un fedele soldato, aduso ad obbedire agli ordini senza fare domande. Non supera la censura sollevata neppure l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la previa consapevolezza in capo all'Au. delle modalità organizzative dell'omicidio Mi. sarebbe ricavabile dalla circostanza che già alle ore 6,20 del mattino si presentasse munito dell'autovettura che sarebbe servita da supporto all'azione omicidiaria. Da un lato è fondata la critica difensiva circa l'assenza di elementi dai quali dedurre che Au. già fosse a conoscenza dei piani da attuare, e dell'impiego che avrebbe dovuto fare dell'auto; dall'altro, la Corte non risponde all'argomento difensivo sollevato in gravame per cui la circostanza dell'essersi presentato con la vettura riconoscibile e direttamente a lui riconducibile (essendo intestata alla suocera), era argomento dal quale dedurre l'inconsapevolezza dell'Au. dell'utilizzo che della macchina si sarebbe fatto. Se quindi, come argomenta la stessa Corte, Au. ha avuto contezza solo la mattina del 9 aprile 2010 dell'atto omicidiario da compiere, e della sua premeditazione, appare fondata la censura difensiva che lamenta l'apoditticità dell'affermazione che il tempo intercorso tra l'arrivo di Au. e l'omicidio (calcolato correttamente dalla difesa in 1 ora e 26 minuti) fosse sufficiente a desistere dalla condotta, alla luce dei principi di diritto richiamati in ricorso affermati da Sez. 1 n. 574 del 09/07/2019 dep. 2020, R., Rv. 278492 - 01, per cui in tema di omicidio, ai fini della configurabilità dell'aggravante della premeditazione, in presenza di un ristretto arco temporale tra l'insorgenza del proposito delittuoso e la sua attuazione, spetta al giudice il compito di valutare se, alla luce dei mezzi impiegati e delle modalità della condotta, tale lasso di tempo sia stato sufficiente a far riflettere l'agente sulla grave decisione adottata e a consentire l'attivazione di motivi inibitori di quelli a delinquere. (In applicazione del principio la Corte ha escluso la configurabilità dell'aggravante in relazione all'omicidio consumato in un contesto di atti persecutori e al termine di un serrato susseguirsi di contatti tra la vittima ed il reo, culminati con l'insorgenza del proposito omicidiario, collocata con certezza solo un'ora prima della consumazione del delitto, spazio temporale ritenuto dalla Corte sintomatico di sola preordinazione del reato); e da Sez. 1 n. 41405 del 16/05/2019, Rossi, Rv. 277136 - 01, che, in motivazione, sostiene che quanto più è circoscritto il lasso temporale intercorso tra l'insorgenza nell'agente' del proposito delittuoso e la sua attuazione, tanto più deve essere specifica la individuazione e la dimostrazione degli altri indici sintomatici dell'avvenuta deliberazione del piano omicidiario e della ferma e pervicace volontà dell'agente stesso di portarlo a termine, senza cedimenti. Su tali elementi la Corte territoriale dovrà quindi rinnovare l'esame delle evidenze probatorie, dando conto della loro univoca concludenza attraverso un percorso argomentativo che superi le evidenziate lacune. 8. I motivi attinenti alla qualificazione giuridica della condotta di cui al capo 1), relativamente al tentato omicidio di Mi.Pa. (il primo del ricorso Au., il terzo del ricorso Im., il secondo, terzo e quarto del ricorso Lu.. il quarto del ricorso Sa. ed il primo del ricorso Te.). che devono essere trattati congiuntamente in ragione della connessione logica delle questioni poste, sono privi di pregio e devono essere rigettati. Dalla concorde ricostruzione in fatto operata dai Giudici di merito è emerso che il 9 aprile 2019, poco prima delle ore 8:45 del mattino, in via (Omissis), ang. Via (Omissis) a Napoli, Lu.Mi., il figlio Pa. ed il nipote Lu. scendevano in strada e sì dirigevano verso l'autovettura Renault Clio ivi posteggiata; Lu.Mi. faceva accomodare il nipote nel posto anteriore lato passeggero, allorquando, mentre si trovava ancora in prossimità della portiera e mentre Mi.Pa. stava facendo il giro posteriore dell'auto per mettersi alla guida, sopraggiungevano (provenienti da tergo, da via (Omissis)) due persone a bordo di uno scooter che, all'improvviso, esplodevano una serie di colpi di pistola ad altezza d'uomo investendo l'auto, lo stesso Mi.Pa. e attingendo al petto Lu.Mi. senior, il quale cercava di darsi la fuga allontanandosi dall'auto ma veniva ulteriormente colpito a morte. Allorquando i killer aprirono il fuoco, la Renault Clio di Mi.Pa. era parcheggiata sul lato destro della strada, con la portiera aperta; Lu.Mi. era in piedi di fianco al veicolo, nell'atto di passare lo zaino al nipote. Nell'azione di fuoco vennero esplosi 12 proiettili, di cui solo 7 colpirono il bersaglio primario (Lu.Mi.); un proiettile colpiva invece Mi.Pa. che veniva ferito ed al quale, trasportato al Pronto Soccorso, venivano refertate "ferite escoriate della regione posteriore coscia sinistra e base posteriore dell'emitorace dx conseguenti ad arma da fuoco"; veniva dimesso in giornata con prognosi di giorni 7. L'autovettura è stata danneggiata da proiettili nel lunotto posteriore ed allo specchietto anteriore destro. Secondo quanto accertato dai Giudici di merito, Sa., unitamente a Da., dal lastrico posto sull'immobile di via (Omissis) 22, avevano osservato la scena e dato il via all'azione omicidiaria. Au. e Lu. si trovavano a bordo del veicolo dell'Au. (rectius, della suocera del medesimo, ma in uso all'imputato) in ricognizione e pronti per fare da staffetta all'auto, condotta da Mu., che, a bordo del veicolo unitamente a Im. era pronto a recuperare e mettere in sicurezza i killer. Ebbene, non vi è dubbio che, come affermato in tutti i ricorsi che hanno impugnato il capo di sentenza relativo alla qualificazione del reato commesso ai danni di Mi.Pa., l'obiettivo principale dell'agguato fosse l'eliminazione di Lu.Mi.. Pacifico anche che l'aggravante della premeditazione sia stata contestata, e ritenuta, solo con riferimento all'omicidio di Lu.Mi., bersaglio principale dell'azione. Ciò posto, ritiene il Collegio corretta la qualificazione quale tentato omicidio dell'azione rivolta nei confronti anche di Mi.Pa.. Escluso il reato di tentato omicidio del piccolo Lu. (come deciso dalla sentenza d'appello), ciò che correttamente è stato ritenuto rilevante ai fini del corretto inquadramento giuridico del fatto è che nel momento in cui Te. cominciò a sparare, sulla linea di fuoco si trovava anche Mi.Pa., che era posizionato dietro l'autovettura posteggiata, intento a raggiungere il posto di guida. I Giudici di appello (pag. 56) hanno a tale proposito osservato come "nel momento in cui i killer aprirono il fuoco l'autovettura Renault Clio di Mi.Pa. era parcheggiata sul lato destro, aveva la portiera destra aperta ed "era ingombrata nel lato inferiore per buona parte dalla figura di Mi.Pa. posta in posizione trasversale all'auto stessa"". E, quindi, correttamente il primo Giudice scriveva che l'azione era stata caratterizzata dall'esplosione indiscriminata di plurimi colpi sin dalla fase iniziale, quando Pa. si trovava dietro il veicolo proprio in corrispondenza del lunotto posteriore attinto da un proiettile. Come scrivono i Giudici di appello "i killer sopraggiungendo con lo scooter da via (Omissis), avevano la piena visuale della vettura della Renault Clio, che era parcheggiata sul margine destro della carreggiata". Allorquando i sicari esplodono i colpi d'arma da fuoco "in maniera indiscriminata" (pag. 58) l'autovettura, un'utilitaria di modeste dimensioni, era ingombrata per buona parte dalla figura su Mi.Pa., mentre l'obiettivo principale Lu. era a pochi metri di distanza dal medesimo Pa.; concludono i Giudici d'appello che "i rilievi e i dati di generica hanno confermato che la direttrice degli spari investì tutta l'area sulla quale in quel momento erano presenti e visibili ai killer Mi. Lu. e Mi.Pa. e che i colpi si proiettavano verso l'auto parcheggiata sulla strada, la danneggiavano nel lunotto posteriore e attingevano Mi.Pa., che, in quel momento, trovandosi in posizione a lui sfavorevole rispetto all'azione di fuoco, rimaneva anch'egli investito da un colpo che solo per puro caso non lo colpiva in patti vitali" (pag. 58). Correttamente gli atti posti in essere sono stati ritenuti idonei a cagionare la morte anche di Mi.Pa.. Del pari, con discorso logico, è stata anche ritenuta, l'inequivocità degli atti, desumibile dalla traiettoria di tiro adoprata dal killer, che infatti ebbe a colpire Pa.. Quanto all'elemento soggettivo, il primo giudice ha sottolineato la distanza ravvicinata tra i soggetti presenti intorno ad una utilitaria di dimensioni modeste; secondo la valutazione del Giudice gli imputati agirono, almeno nella prima fase, con dolo "d'agguato", vale a dire con dolo alternativo (caratterizzato dalla previsione in capo all'agente di una duplicità di esiti della sua condotta, entrambi voluti ed equipollenti nella sua prospettazione psicologica) tanto rispetto alla produzione degli eventi morte o lesioni personali quanto rispetto al bersaglio della condotta lesiva. Quest'ultima è una tipologia di dolo che è contraddistinta dal fatto che l'agente prevede e vuole - in via alternativa, ossia operando una scelta dal valore sostanzialmente equipollente - l'uno o l'altro degli eventi (nella concreta fattispecie, morte o grave ferimento della vittima), che sono ricollegabili alla sua condotta; corollari logici di tale impostazione concettuale sono rappresentati dalla natura di dolo diretto di tale genere di coefficiente psicologico e - in diretta consequenzialità sistematica la compatibilità dello stesso con il tentativo (fra tante, si vedano Sez. 5, n. 6168 del 17/01/2005, Meloro, Rv. 231174 - 01; Sez. 1, n. 5436 del 25/01/2005, Marangon, Rv. 230813 - 01; Sez. 1, n. 9663 del 03/10/2013, Nardelli, Rv. 259465 - 01; Sez. 1, n. 43250 del 13/04/2018, Alfieri, Rv. 274402 - 01; Sez. 1, n. 29611 del 30/03/2022, L., Rv. 283375 - 01). Per quanto attiene alla differenziazione ontologica da porre, tra le due figure del dolo alternativo e del dolo eventuale, impropriamente evocato dalla difesa, questa Corte ha ripetutamente fissato i seguenti ancoraggi concettuali: "Il dolo eventuale è costituito dalla consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall'accettazione di tale rischio, che potrà essere graduata a seconda di quanto maggiore o minore l'agente consideri la probabilità di verificazione dell'evento; diversamente, sussiste il dolo alternativo nel caso in cui l'agente ritenga altamente probabile o certo l'evento, non limitandosi a prevederne e ad accettarne il rischio, ma prevedendo ed accettando l'evento stesso e quindi, pur non perseguendolo come suo scopo finale, alternativamente lo vuole con un'intensità evidentemente maggiore di quelle precedenti" (Sez. 1, n. 385 del 19/11/1999, Denaro, Rv. 215251; Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, Romano, Rv. 281385). In chiave riassuntiva, quindi, si può affermare che - con riferimento alle modalità di demarcazione dell'elemento psicologico del reato - il dolo alternativo ricorra allorquando l'agente si rappresenti e voglia, indifferentemente, l'uno o l'altro degli eventi che, sotto il profilo causale, possano apparire ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria. Allorquando il soggetto attivo ponga in essere la materialità del fatto, occorre che egli preveda e voglia - si ripete, indifferentemente - la realizzazione di entrambi tali eventi. La condotta serbata dal soggetto attivo è inquadrabile, al contrario, nella figura dogmatica del dolo eventuale, nel caso in cui questi, realizzando una condotta che sia diretta verso il perseguimento di altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza, che sia ricollegabile alla propria condotta, determinandosi - ad onta di tale previsione - all'azione e così manifestando la accettazione del rischio di cagionare tale differente evoluzione. Dalla sopra delineata struttura teorica della fattispecie discende l'impossibilità di configurazione del tentativo, in presenza di un elemento soggettivo qualificabile come dolo eventuale. Questo coefficiente psicologico risulta ontologicamente non conciliabile, infatti, con la direzione necessariamente univoca che devono assumere gli atti compiuti nell'ambito del tentativo, che postula necessariamente la ricorrenza del dolo diretto. Per le medesime ragioni, sussiste invece piena compatibilità logica e strutturale, fra la figura del tentativo penalmente punibile e l'elemento psichico del dolo alternativo, In tal caso, infatti, vi è una equipollenza sostanziale, fra i plurimi eventi oggetti di rappresentazione e volizione, poiché il soggetto attivo del reato si rappresenta indifferentemente, entrambi, come collegabili in via eziologica al suo agire ed alla sua cosciente volontà. In definitiva, ciascuno degli eventi, parimenti e ugualmente voluti dal soggetto agente, è in tal caso indifferentemente mente voluto dal reo. I Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei suindicati principi: la condotta voluta è stata quella di sparare più colpi verso persone poste a distanza ravvicinatissima una dall'altra allo scopo di colpirle, mortalmente o indifferentemente ferendole, pur di eliminare Lu.Mi. I giudici di merito hanno desunto la sussistenza del dolo omicidiario, attraverso una ponderazione del tutto corretta, in ordine alle concrete modalità esecutive che hanno connotato la condotta incriminata. La Corte ha sottolineato, dunque, la sussistenza del dolo omicidiario, ricavandolo - in via deduttiva - dal ferreo collegamento logico esistente fra i seguenti elementi oggettivi: - il numero considerevole dei colpi esplosi; - la traiettoria degli spari che sin dalla fase iniziale dell'azione di fuoco, prima che la vittima designata venisse definitivamente raggiunta e colpita a morte, investiva ad altezza d'uomo anche la zona in cui si trovava in quel momento Mi.Pa., tant'è vero che questi veniva ferito da un colpo d'arma da fuoco alla gamba sinistra e alla schiena e anche il lunotto posteriore del veicolo veniva infranto perché attinto da materiale balistico; - dalle caratteristiche dell'arma usata (una pistola cal. 9); - dalla breve distanza che in quel momento separava Mi.Pa. da Mi. Lu.. Del tutto coerentemente i Giudici di appello hanno quindi ritenuto che i killer, trovatisi di fronte oltre al bersaglio principale (costituito da Lu.Mi.) anche Mi.Pa., hanno esploso i colpi rappresentandosi anticipatamente di poter centrare indiscriminatamente organi vitali del soggetto presente in quella traiettoria di tiro: soggetto la cui morte è stata prevista e voluta quale conseguenza equipollente ed indifferenziata della propria condotta lesiva che pure aveva come obiettivo primario l'eliminazione di Lu.Mi.. Non irragionevole è, quindi, la conclusione che - rientrando la sagoma di Mi.Pa. nella direttrice di fuoco inizialmente prescelta, prima che Lu.Mi. si allontanasse dal veicolo - i killer hanno agito rappresentandosi e volendo alternativamente l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta. 8.1. A fronte dell'apparato argomentativo sotteso al provvedimento impugnato (condensato alle pagg. 55 - 61) lineare, coerente e solidamente agganciato alle emergenze probatorie, i ricorrenti svolgono considerazioni critiche deliberatamente circoscritte al presupposto fattuale - cioè alla prevedibilità ex ante di uno sviluppo dell'azione omicidiaria tale da intaccare l'incolumità personale di Mi.Pa. - che si risolvono nella mera confutazione delle valutazioni operate dalla Corte di merito, insuscettibile di eccitare i poteri censori del giudice di legittimità. Del tutto generiche e meramente confutative appaiono le critiche mosse dalla Difesa Au. (primo motivo) e dalla Difesa Te. (primo motivo), nell'ambito delle quali i ricorrenti si limitano a reiterare gli argomenti avanzati in sede di gravame senza confrontarsi con il logico argomentare della Corte territoriale. Priva di pregio, in particolare, appare l'argomentazione svolta alla Difesa Te. volta a contestare la sussistenza nel caso di specie, e sullo specifico capo di sentenza relativo al tentato omicidio di Pa. Magnano, di una "doppia conforme". Ebbene, senza ripercorrere i substrati fattuali già ampiamente descritti, basti solo sottolineare come, in modo del tutto corrispondente, le due sentenze di merito abbiano descritto l'azione delittuosa, come snodatasi in un iter criminis che progrediva sino alla morte del soggetto designato: la ricostruzione complessiva del fatto nelle due sentenze è rimasta pertanto immutata. Questo Collegio, quindi, può limitarsi a sottolineare come il convincimento raggiunto dalla Corte distrettuale - in tema di sussistenza del fatto e di qualificazione giuridica dello stesso, in termini di tentato omicidio - sia stato esposto attraverso una struttura motivazionale rigorosamente coerente, oltre che ampia ed esaustiva e, infine, del tutto priva di vuoti narrativi o vizi di contraddittorietà, sia intratestuale che logica. Il tutto, in definitiva, si sottrae a qualsivoglia stigma in sede di legittimità. 8.2. Ritenuta corretta la qualificazione giuridica, va ora affrontata la tematica evocata nei ricorsi, attinente alla corresponsabilità a titolo di concorso pieno ex art. 110 cod. pen. dei concorrenti nel reato. Va sul punto ricordato che l'espressa adesione del concorrente a un'impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all'uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga. Ne consegue che ricorre un'ipotesi di concorso ordinario a norma dell'art. 110 cod. pen. e non quella di concorso cosiddetto anomalo, ai sensi del successivo art. 116, nell'aggressione consumata con uso di tali armi in relazione all'effettivo verificarsi di qualsiasi evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, quantunque concretamente riconducibile alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso (Conf. sez. I, 7 marzo 2003 n. 12610, non massimata sul punto) - Sez. U, n. 337 del 18/12/2008 dep. 2009, Antonucci, Rv. 241574 - 01. Del tutto scevra da aporie logiche e osservante dei principi operanti in materia appare quindi la conclusione cui è pervenuta la Corte d'assise d'appello di Napoli, in relazione alla posizione di tutti gli imputati, e specificatamente, agli odierni ricorrenti. 8.2.1. Sul punto, e con specifico riferimento alla posizione di Im. che, in seno al terzo motivo di ricorso si duole della ritenuta corresponsabilità del delitto di tentato omicidio di Mi.Pa., sotto lo specifico profilo della riconducibilità soggettiva al ricorrente (dolendosi della mancata assoluzione per non avere commesso il fatto), va osservato come la sussistenza del dolo vada innanzitutto verificata con riferimento all'autore materiale del fatto, ovvero chi ha sparato, e chi ha dato il via all'azione di fuoco. In capo a tali soggetti va verificato il tipo di dolo, per poi accertare la riferibilità del medesimo dolo anche ai concorrenti che non si trovavano presenti all'azione o che hanno partecipato in diversi ruoli. Ciò premesso, si è già ampiamento rilevato, rispondendo ai motivi di ricorso (secondo e quinto, supra sub 5) inerenti la responsabilità dell'Im. nel delitto di omicidio di Lu.Mi., e circa la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, come l'atteggiamento del ricorrente, lungi dal poter essere inquadrato nella categoria della desistenza o comunque della totale inerzia ed inattività rispetto all'agguato omicidiario premeditato, fu di pieno concorso nel delitto di omicidio premeditato di Lu.Mi.; si è detto infatti che, pur essendo stato l'Im. aspramente criticato dai correi per avere rifiutato di mettere a disposizione la sua autovettura per fare da staffettista (costringendo all'utilizzo del veicolo dell'Au.), e per avere lasciato all'iniziativa dell'inesperto Mu. il recupero del killer Te. ed il disfacimento del motorino, cionondimeno l'Im. fu presente, sul luogo del delitto la mattina del 9 aprile, a bordo dell'autovettura Polo con la quale, unitamente al Mu., effettuava dei giri di ricognizione in vista della realizzazione dell'agguato omicidiario. Corretta appare quindi, alla luce delle coordinate ermeneutiche prima evidenziate, la conclusione raggiunta dai giudici di merito circa la corresponsabilità dell'Im. nel delitto de quo. 8.2.2. La Difesa°Lu., nel secondo motivo di ricorso, nel dolersi della mancata adesione, da parte della Corte territoriale, alla ricostruzione alternativa dei fatti offerta in sede di gravame e riproposta in ricorso, introduce argomenti inammissibili in sede di legittimità: il compito del giudice di legittimità non consiste infatti nel sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito; tale compito si sostanzia invece esclusivamente nel fatto di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione degli stessi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n, 930 del 13/12/1995 dep. 1996, Clarke, Rv. 203428; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 dep. 2000, Moro G, Rv. 215745; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003 dep. 2004, Elia, Rv. 229369). Quanto al denunciato vizio di travisamento per omissione denunciato dalla difesa Lu. proprio con riferimento alla mancata esatta valutazione da parte della Corte territoriale della diversa ed alternativa ricostruzione storica dei fatti ad opera della medesima difesa, osserva il Collegio come il dedotto travisamento, funzionale a mascherare una censura che attiene al vizio di motivazione, si risolva , in realtà, in una non consentita censura di travisamento del fatto (e non della prova) perché attinge a piene mani all'intero compendio probatorio. Va tuttavia sul punto osservato che, a seguito delle modifiche dell'art. 606, comma primo, lett. e), mentre non è consentito dedurre il "travisamento del fatto" (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 25309901), stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentita la deduzione del vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, Vignaroli, Rv. 236893). In definitiva, quindi, la necessità di sostenere l'eccezione di manifesta illogicità della motivazione offrendo alla Corte di cassazione un fatto diverso da quello descritto denota la debolezza dell'argomentazione difensiva che implicitamente riconosce che il fatto posto dal giudice a fondamento della impugnata decisione esclude la natura manifestamente illogica delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di assise di appello. Quanto al dedotto travisamento delle dichiarazioni rese a sit il 9 aprile 2019 da Mi.Pa., il ricorrente omette di rappresentare la decisività della prova asseritamente travisata. Va richiamato il principio per cui, nel giudizio di legittimità, ai fini della deducibilità del vizio di "travisamento della prova", che si risolve nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti, è necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento o dell'omissione nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica. (Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Villari, Rv. 280117). Peraltro, il denunciato vizio non appare riscontrabile: ed infatti allorquando la Corte territoriale, a pag. 12 della sentenza, nel ripercorrere la ricostruzione fattuale operata nella sentenza di primo grado, e pienamente condivisa, afferma che, al momento del fatto, i killer esplodevano in direzione di Lu. e Mi.Pa. "una serie di colpi di pistola ad altezza d'uomo", lo fa non parafrasando le dichiarazioni di Mi.Pa., bensì operando una sintesi derivante dal compendio probatorio analizzato nel suo complesso, e precisamente, come riportato a pag. 11, sulla base degli elementi riportati in precedenza (gli accertamenti medico legali, gli accertamenti di P.G., effettuati nel corso del sopralluogo), oltre che sulla base delle dichiarazioni di Mi.Pa. e delle intercettazioni attivate. Priva di pregio appare poi l'osservazione svolta in ricorso circa la contraddittorietà della sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto insussistente il reato di tentato omicidio ai danni del piccolo Lu.Mi., confermando invece la responsabilità degli imputati per il tentato omicidio di Mi.Pa.. L'argomento non si confronta con l'evidente dato di fatto, ben evidenziato dalla Corte territoriale, rappresentato dalla circostanza che negli attimi intercorrente tra il sopraggiungere della Honda con a bordo i killer e l'esplosione dei primi colpi d'arma da fuoco, il piccolo Lu.Mi. non era visibile, essendo già all'interno dell'utilitaria, seduto nel posto anteriore lato passeggero. 9. Manifestamente infondati, e pertanto inammissibili, sono i motivi quarto della difesa Im. e quinto della difesa Sa., nella parte in cui i ricorrenti contestano l'affermazione di responsabilità degli imputati in relazione ai reati di detenzione e porto d'arma da fuoco contestati al capo 2. La Corte d'assise d'appello di Napoli (pag. 62) ha del tutto logicamente argomentato come "il piano deliberato ed organizzato per uccidere Mi. Lu., a cui tutti loro parteciparono e aderirono, prevedeva proprio l'azione di fuoco contro la vittima con l'uso di quell'arma che a tale scopo era già stata preventivamente procurata e acquisita per essere poi affidata ai sicari materialmente incaricati di eseguire il delitto". Invero, secondo la giurisprudenza di legittimità risponde di concorso nel reato di porto illegale di armi colui che aderisce a un'impresa criminosa comportante l'impiego, nel luogo programmato, di un'arma di cui il compartecipe abbia l'esclusiva disponibilità (tra le altre, Sez. 1, n. 40702 del 21/12/2017, dep. 2018, Foschini, Rv. 274364 - 01). È stato anche affermato che nell'ipotesi di consumazione di una rapina a mano armata, tutti i compartecipi, e cioè sia gli autori materiali che coloro i quali abbiano prestato la necessaria assistenza (cosiddetti basisti), rispondono anche del reato di porto illegale di armi, atteso che l'ideazione dell'impresa criminosa comprende anche il momento rappresentativo dell'impiego delle armi e, quindi, del porto abusivo delle stesse per realizzare la necessaria minaccia o violenza, essenziali a tale tipo di reato (Sez. 2, n. 49389 del 04/12/2012, Beccalli, Rv. 253915 - 01). Sicché, appare immune da contraddittorietà e illogicità manifesta ed aderente ai principi giurisprudenziali in materia l'affermazione della responsabilità concorsuale (anche) dei ricorrenti Im. e Sa. nei reati di detenzione e porto d'arma da fuoco contestati al capo 2). 9.1. Il quinto motivo della difesa Au., con il quale si censura la violazione degli artt. 10,12, 14 della legge n. 497 del 1974, afferenti ai reati contestati al capo 2), avendo la Corte di merito omesso di ritenere l'assorbimento per continenza della detenzione dell'arma nel porto, è inammissibile perché proposto dall'Au. per la prima volta in sede di legittimità. Non possono infatti essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura a priori un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello. E ciò a prescindere che la medesima questione sia stata in effetti sollevata, come avvenuto nel caso di specie, in sede di gravame da altro imputato (Sa.Gi.). Invero il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609, comma 1, cod. proc. pen., il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleato dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi - contrassegnati dall'inderogabile indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni atto d'impugnazione ex artt. 581, comma 1, lett. c), e 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione. Infatti, la disposizione in esame deve essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello. Per vero, come detto, la Corte territoriale ha, in ogni caso, rispondendo ad un motivo di appello proposto da un altro imputato, correttamente argomentato (pagg. 62, 63), richiamando il principio di diritto sancito da sez. 1 n. 27343 del 04/03/2021, Rv. 281668, nel senso che "il piano deliberato ed organizzato per uccidere Mi. Lu., a cui tutti loro parteciparono e aderirono, prevedeva proprio l'azione di fuoco contro la vittima con l'uso di quell'arma, che a tale scopo era già stata preventivamente procurata e acquisita, per essere poi affidata ai sicari materialmente incaricati di eseguire il delitto", di talché il motivo si appalesa, in ogni caso, anche manifestamente infondato. 10. Meritano una trattazione congiunta anche i motivi quarto della difesa Im., quinto della difesa Lu.. quinto della difesa Sa., terzo della difesa Te. sollevati in relazione alla ritenuta responsabilità dei concorrenti nel delitto di ricettazione del motociclo Honda SH 300, targato (...) di cui al capo 4 di imputazione. Va premesso che nessuno dei ricorsi contesta il profilo oggettivo della sussistenza del reato di ricettazione, essendo pacifico e non attinto da specifiche critiche, il fatto che lo scooter Honda SH 300 tg. (...), utilizzato il (Omissis) dai killer per portarsi presso l'abitazione dei Mi. ed effettuare l'azione di fuoco, fosse provento di furto denunciato il 13/11/2017 da Ma.Ru.. Deducono in sintesi i difensori essere carente la motivazione dell'impugnata sentenza sotto il profilo della consapevolezza in capo ai citati imputati della provenienza delittuosa del mezzo utilizzato per l'azione di fuoco, tanto più alla luce della circostanza che nell'azione furono utilizzati anche mezzi di provenienza lecita. Le doglianze difensive sono infondate. La Corte, nel rispondere alle doglienze difensive avanzate in atto di appello, ha del tutto logicamente osservato come l'utilizzo dello scooter rubato fosse assolutamente funzionale non solo per consentire ai sicari la rapida esecuzione dell'azione di fuoco ma anche per sfuggire alle ricerche dei colpevoli da parte delle forze dell'ordine utilizzando un mezzo non riconducibile alla proprietà o disponibilità di uno di loro. Quanto alla posizione di Te., del tutto corretta appare quindi la conclusione di giudici di merito che hanno sottolineato come lo scooter in argomento fosse stato posizionato in posizione utile al successivo utilizzo il giorno prima dell'agguato, proprio ad opera del Te., unitamente ad Ar.. Ma, con motivazione più ampia e condivisibile, i Giudici di appello hanno ritenuto che la predisposizione dei mezzi per l'attuazione del progetto omicidiario implicasse la messa a disposizione del gruppo dello scooter rubato, effettivamente funzionale all'utilizzo per l'azione di fuoco. Lo scooter è quindi stato messo a disposizione dei correi e da questi collettivamente ricevuto allorquando il piano era in fase di svolgimento, e quindi nel momento in cui l'8 aprile 2019, il giorno prima dell'agguato, Te., unitamente ad Ar., colloca nei pressi del vicariello, in posizione utile per l'utilizzo del giorno dopo, lo scooter raggiungendo poi i complici a casa di Da. ove si trovavano anche Sa., Lu. ed Im.. Del tutto correttamente la Corte ha poi evidenziato come lo stesso ruolo rivestito da Lu. e Sa., di partecipi della fase deliberativa dell'omicidio implicasse la piena consapevolezza di ogni singolo segmento in cui il progetto si sarebbe verificato, ivi compreso anche l'utilizzo dello scooter rubato, che venne messa a disposizione, e quindi ricevuto dai correi, proprio l'8 aprile 2019. Le stesse argomentazioni non possono che valere anche per Im., che, come detto, partecipò alle fasi organizzative del delitto e si trovava presente in casa di Da. l'(Omissis) allorquando lo scooter venne messo a disposizione. La disamina effettuata dai Giudici di appello appare del tutto coerente e logica, e risulta vieppiù confermata dal contenuto delle conversazioni intercettate (n. 74 e 80 del 10/04/2019) laddove si consideri che fu proprio Lu. a rimproverare Im. per non avere osservato i piani concordati che prevedevano che "il motorino doveva scomparire., si portava dove stava e si doveva smontare" (pag. 65 sentenza appello): se il "piano" prevedeva che il gruppo facesse scomparire il motorino, tale motorino all'evidenza doveva essere stato "ricevuto" dal gruppo. A fronte di tali argomentazioni si appalesano del tutto infondate le doglianze difensive volte ad avvalorare la tesi della inconsapevolezza circa la provenienza furtiva del mezzo. Inconferenti appaiono i richiami giurisprudenziali effettuati dalle difese negli atti difensivi. Questo Collegio non ignora che costituisca principio assodato e risalente, già affermato da questa Corte, quello per cui non risponde del reato di ricettazione colui che, non avendo preso parte alla commissione del fatto, si limiti a fare uso del bene unitamente agli autori del reato, pur nella consapevolezza della illecita provenienza, non potendosi da questa sola successiva condotta desumere l'esistenza di una compartecipazione quanto meno d'ordine morale, atteso che il reato di ricettazione ha natura istantanea e non è ipotizzabile una compartecipazione morale per adesione psicologica ad un fatto criminoso da altri commesso. Sez. 5, Sentenza n. 42911 del 24/09/2014 Rv. 260684 - 01. Diversamente dal caso opinato nella fattispecie scrutinata nella citata sentenza, tuttavia, nel caso che ci occupa, non è affatto illogico il percorso argomentativo effettuato dai Giudici di merito, e pertanto insindacabile in questa sede, che, come sopra analizzato, hanno ritenuto provata l'effettiva messa a disposizione e quindi ricezione da parte dei ricorrenti del mezzo rubato. Quanto alla provenienza delittuosa del mezzo utilizzato per l'azione di fuoco, va ricordato il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, ai fini della configurabilità della consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto nel delitto di ricettazione, non è indispensabile che essa si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorché siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto (Sez. 1, n. 29486 del 26/6/2013, Rv. 256108). Del resto questa Corte ha più volte affermato: - che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell'imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata - o non attendibile - indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Sez. 2, sent. n. 25756 del 11/6/2008, Rv. 241458; Sez. 2, sent. n. 29198 del 25/5/2010, Rv. 248265); - che l'elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto che consentirebbe la qualificazione del fatto come incauto acquisto (Sez. Un., sent. n. 12433 del 26/11/2009, Nocera, Rv. 246324; Sez. 1, sent. n. 27548 del 17/6/2010, Rv. 247718). Alla luce delle argomentazioni sviluppate, si è in presenza di un percorso motivazionale giuridicamente corretto e logicamente coerente, come tale non sindacabile in questa sede, mentre, al contrario, le critiche dei ricorrenti finiscono per sollecitare una diversa valutazione della vicenda fattuale, attività preclusa nel giudizio di legittimità, e sono, in quanto tali, inammissibili (sul punto, fra le molte, Sez. Un., sent. n. 12 del 31/5/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. 6, n. 9923 del 5/12/2011 - ud. 14/03/2012 - , Rv. 252349. Quanto, poi, alla censura con la quale i ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale non avrebbe esaminato in sentenza le doglianze proposte con i motivi di appello, si osserva come, secondo i principi sovente affermati da questa Corte, nella motivazione della sentenza il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Rv. 254107). 10.1. L'analisi del corrispondente motivo avanzato dalla Difesa Au. (motivo quarto) deve invece condurre ad un annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza relativamente al punto inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato in ordine al delitto di ricettazione di cui al capo 4). Le carenze argomentative evidenziate in reazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravante della premeditazione, implicano, conseguentemente, il venir meno del presupposto fattuale sul quale si basa la ritenuta responsabilità dell'Au. anche con riferimento al delitto di ricettazione. Come già sopra argomentato, Au. non era presente l'8 aprile 2019 allorquando a casa di Da., Ar. e Te. misero a disposizione del gruppo lo scooter rubato; egli intervenne sulla scena, solo la mattina del 9 aprile 2019 partecipando all'azione delittuosa a bordo di una vettura lecita, direttamente a lui riconducibile. Appare quindi fondata la doglianza difensiva che lamenta carenza motivazionale dell'impugnata sentenza in ordine alla prova dell'avvenuta ricezione da parte dell'Au. del bene di provenienza furtiva. La sentenza impugnata dev'essere quindi annullata relativamente all'affermazione di responsabilità di Sa.Au. in relazione al reato di cui al capo 4), con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Napoli. 11. Il secondo motivo del secondo atto di ricorso della Difesa Ar., ed il quinto motivo della difesa Te., entrambi aventi ad oggetto la violazione dell'art. 416 - bis. 1 cod. pen. e vizio della motivazione in merito all'applicazione a carico dei ricorrenti dell'aggravante mafiosa, sono infondati. Sul punto giova premettere che l'art. 416 – bis.1 cod. pen. contempla due differenti aggravanti, consistenti, rispettivamente, nella commissione di un reato avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 - bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. La prima circostanza ricorre quando le modalità esecutive della condotta siano idonee, in concreto, a evocare, nei confronti dei consociati, la forza intimidatrice tipica dell'agire mafioso, quand'anche quest'ultima non sia direttamente indirizzata sui soggetti passivi, ma risulti comunque funzionale a una più agevole e sicura consumazione del reato (Sez. 1, n. 38770 del 22/06/2022, Iaconis, Rv. 283637 - 01); e ha natura oggettiva, dovendo essere riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe (Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259589 - 01). Viceversa, la seconda aggravante ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734 - 01). Sotto il primo profilo (quello del metodo mafioso), pertanto, il riferimento contenuto nel ricorso della Difesa Ar. (secondo motivo del secondo atto, supra sub. 3.3.) alla carente motivazione in punto di sussistenza dell'elemento psicologico,, risulta improprio (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734). La circostanza aggravante della c.d. modalità mafiosa prescinde, infatti, dalla consapevolezza o meno di agevolare un'associazione o un clan e, addirittura, neanche presuppone che l'associazione in effetti esista (Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033; Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019, Gallelli, Rv. 276109). In questo caso, invece, l'aggravante presenta una natura oggettiva e sussiste per il solo fatto che l'agente - come pacificamente avvenuto nel caso di specie - abbia concorso nell'azione omicidiaria predisposta e realizzata facendo ricorso a modalità tipicamente riconducibili alla criminalità organizzata, ed in particolare "l'aver agito in forma organizzata in luogo pubblico, in pieno giorno, a volto praticamente scoperto, senza necessità di rivendicazione dell'agguato". Modalità che, anche per il contesto sociale nel quale si sono svolti i fatti, è evidentemente evocativa di un modo di agire e operare che è tipico delle associazioni mafiose e riveste una forza di intimidazione di eccezionale valenza, proprio quella che l'aggravante ha lo scopo di sanzionare. Ebbene, i Giudici di merito (pagg. 106 e ss. sentenza di primo grado e pagg. 71, 72 sentenza d'appello) hanno fornito adeguata motivazione in ordine alla sussistenza di detta aggravante sia sotto il profilo del metodo mafioso, sia sotto il profilo dell'agevolazione mafiosa. Generica, aspecifica e manifestamente infondata appare la doglianza avanzata nel ricorso della Difesa Te. volta a contestare la carenza motivazionale dell'impugnata sentenza in merito alla "pretesa caratura mafiosa del gruppo criminale occupatosi dell'omicidio": ed infatti contrariamente a quanto dedotto, la Corte territoriale (pag. 72) ha specificatamente ricordato come il giudice di primo grado avesse evidenziato "con puntualità di richiami (v. rif. in sent. pagg. 106 e ss,) la realtà dell'esistenza del clan Da. e il ruolo in esso ricoperto da ciascuno degli imputati (rimarcando i provvedimenti giudiziari allegati in atti e il contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia)". Quanto alla consapevolezza in capo agli imputati della finalità agevolatrice del clan mafioso, essa si desume con chiarezza dalle argomentazioni spese in ordine alla prova della piena responsabilità concorsuale dei medesimi nel premeditato delitto contestato al capo 1): la ritenuta responsabilità dei predetti, coinvolti, come già sopra argomentato nelle fasi deliberative (l'Ar.), organizzative ed esecutive (entrambi) del delitto, costituisce elemento dimostrativo della consapevolezza in capo ad entrambi gli imputati delle finalità, agevolataci del clan, sottesi all'omicidio di Lu.Mi., in quanto affiliato al contrapposto clan @11.Ri.@ e legato da vincoli famigliari con il capo clan Ci.Ri.. 12. E' inammissibile il secondo motivo avanzato dalla difesa Mu., inerente all'affermazione di responsabilità dell'importato in relazione al capo 3 di imputazione (incendio dello scooter). Il motivo è generico, aspecifico, oltre che intrinsecamente contraddittorio. La Difesa in premessa contesta la circostanza che il solo Mu. sia stato riconosciuto responsabile del delitto de quo, dolendosi che del delitto in questione non siano stati individuati e condannati i correi. Appare evidente come il profilo di doglianza testé descritta non rientri in alcuna tipologia di vizio denunciabile in cassazione, e sia pertanto inammissibile. Nello sviluppo argomentativo del ricorso la Difesa pare poi contestare la riconducibilità soggettiva dell'azione delittuosa contestata al capo 3) al Mu.. Premesso che dall'incontestata sintesi dei motivi d'appello riportata nella sentenza impugnata il suddetto motivo non risulta essere stato proposto, va comunque osservato come il ricorso incorra comunque nel vizio di aspecificità. La Difesa, infatti, nulla argomenta in merito alla prova diretta individuata dai Giudici di merito nel chiaro tenore delle conversazioni intercettate (le n. 68, 74 e 80 del 10/04/2019), nel corso delle quali ripetutamente Longo rimprovera Im. di avere lasciato le iniziative al più inesperto Mu., il quale, deviando dal piano originale, aveva consentito che Te. si spostasse con lo scooter utilizzato per l'omicidio , facendo sì che il motorino venisse poi bruciato a San Giorgio Cremano, con il rischio di compromettere Lu.Um. capo clan del sodalizio egemone in quel territorio. Sono quindi gli stessi correi che, discutendo liberamente tra loto, individuano nel Mu. il responsabile di tale azione. Il ricorso sul punto è meramente confutativo e si limita a proporre una, non consentita, diversa lettura delle emergenze probatorie. Va, tuttavia, osservato come non sia compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio sulla base delle prospettazioni del ricorrente, avendo la Corte di cassazione chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. U, n. 41476 del 25/10/2005, Misiano, in motivazione; Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944 - 01; Sez. U, n. 930 del 29/01/1996, Clarke, Rv. 203428 - 01). 13. Il primo motivo del ricorso avanzato dalla Difesa Lu., attinente alla recidiva, è fondato, con conseguente assorbimento dei motivi sesto e settimo. A fronte di una contestazione nel capo di imputazione della recidiva semplice è stata ritenuta sussistente in sentenza la recidiva reiterata e specifica. Scrive in particolare il Giudice di primo grado (pag. 141) "va riconosciuta a Lu.Um. la recidiva reiterata specifica in ragione della pluralità di condotte criminose di particolare gravità e della medesima indole di quelli per cui è procedimento, quali rapina tentata in concorso e detenzione cessioni illecite di sostanze stupefacenti". La Corte d'assise d'appello, pur investita in sede di gravame della corrispondente doglianza, ha, immotivatamente, confermato sul punto la sentenza di primo grado. E' quindi fondato sul punto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento dei motivi sesto e settimo, che denuncia la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen. per essere stata ritenuta sussistente, in assenza di contestazione, l'aggravante ad effetto speciale costituita dalla recidiva reiterata specifica (con riflessi nell'individuazione del trattamento sanzionatorio, come specificato dal Giudice di primo grado a pag. 142). La sentenza impugnata dev'essere quindi annullata sul punto con restituzione alla Corte di assise di appello per nuova valutazione in merito al conseguente trattamento sanzionatorio. 13.1. Sono invece inammissibili i motivi che aggrediscono la sentenza impugnata in relazione alla ritenuta sussistenza della recidiva, avanzati dalle difese Ar. e Te.. 13.2. In particolare, il terzo motivo del secondo atto di ricorso della Difesa Ar., con il quale si contesta la violazione degli artt. 99 e 62 - bis cod. pen. e vizio della motivazione in punto di mancata esclusione della recidiva, è manifestamente infondato. La sentenza impugnata ha richiamato i numerosi precedenti penali dell'imputato (rapina, ricettazione, detenzione illegale di armi e munizioni anche clandestine, detenzione e vendita di sostanze stupefacenti, oltre a plurimi reati di evasione) ed ha osservato come si tratti di reati di particolare gravità specifici e della stessa indole di quelli per cui si procede; ne ha dedotto con discorso privo di mende, che essi fossero indicativi di un atteggiamento consolidato nel tempo di acquisita e radicata inosservanza delle leggi dell'ordinamento penale, nonché della completa assenza di ogni ripensamento critico della propria condotta delittuosa, anche a distanza di tempo dai fatti per i quali ha riportato le precedenti condanne: ciò a conferma del significato che la ennesima ricaduta nel reato assume nel giudizio sulla accresciuta pericolosità dell'imputato. 13.3. Generico e manifestamente infondato è poi il quarto motivo della Difesa Te.: anche con riferimento al predetto ricorrente, la Corte ha sottolineato la correttezza della contestazione della recidiva, ed ha richiamato i precedenti penali riportati dal Te., gravato da condanne per reati di detenzione e porto illegale di armi continuato, oltre che di acquisto e cessione illecita di sostanze stupefacenti. Si appalesa pertanto manifestamente infondata la doglianza avanzata dalla Difesa circa la mancata specificazione delle condanne che fonderebbero la recidiva specifica, dal momento chela Corte ha espressamente richiamato i procedenti in materia di armi. Anche per Te., infine, la Corte territoriale, ha argomentato, con ragionamento privo di aporie logiche, come le precedenti condanne fossero indicative di un atteggiamento consolidato nel tempo di acquisita e radicata inosservanza delle leggi dell'ordinamento penale, nonché della completa assenza di ogni ripensamento critico della propria condotta delittuosa, con la conseguenza che la risoluzione a delinquere attuata per commettere i delitti oggi in esame appare maggiormente consapevole e determinata. 14. Sono tra loro sovrapponibili il terzo motivo formulato nel secondo ricorso nell'interesse di Ar., il sesto motivo formulato nell'interesse di Au., il sesto motivo formulato nell'interesse di Im., l'ottavo motivo formulato nell'interesse di Lu.. il settimo motivo formulato nell'interesse di Sa., il sesto motivo formulato nell'interesse di Te., nella parti in cui vengono formulate doglianze attinenti al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Tali doglianze devono tutte essere colpite da declaratoria di inammissibilità, in quanto generiche e manifestamente infondate. Con specifico riferimento al tema delle invocate circostanze attenuanti generiche, giova rammentare come l'applicazione della norma necessiti di un concreto substrato cognitivo, nonché di una adeguata motivazione, nel senso che è da escludersi l'esistenza di un generico potere discrezionale - riservato al giudice - di operare una riduzione dei limiti legali della sanzione, dovendo di contro apprezzarsi e valorizzarsi, in termini di positività, un "aspetto" del fatto o della personalità, risultante dagli atti del giudizio (tra le molte: Sez. 6, n. 8668 del 28/05/1999, Milenkovic, Rv. 214200). La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62 bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419). Il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale deve quindi motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Pertanto, il diniego delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente fondato anche sull'apprezzamento di un solo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che sia ritenuto prevalente rispetto ad altri, disattesi o superati da tale valutazione. Correttamente, pertanto, la Corte distrettuale (pagg. 73, 74) ha fondato la decisione reiettiva sulla estrema gravità delle condotte serbate, sull'intensità del dolo, sulla assoluta ed allarmante capacità criminale di ogni imputato e sull'assenza per tutti e per ciascuno di elementi favorevolmente valutabili, tali da meritare una differenziazione nel trattamento sanzionatorio. Ha quindi evidenziato, conseguenzialmente, come neppure per Im. fossero valorizzagli elementi favorevoli di valutazione, in considerazione "del ruolo centrale e della posizione di rilievo che egli doveva svolgere nella fase esecutive". Del pari, la Corte ha ritenuto di non poter diversificare la decisione neppure nei confronti dei soggetti (Au., Lu. e Te.) che ebbero a versare in atti parziali ammissioni, e ciò in considerazione del fatto che tali contributi si erano in realtà tradotti in dichiarazioni spontanee, dal contenuto predefinito e generico, e peraltro effettuate quando era ormai consolidato il quadro degli elementi a loro carico. Analogamente sono state ritenute recessive rispetto agli elementi negativi evidenziati financo le manifestate volontà di alcuni degli imputati di risarcire le vittime dei reati. Ebbene, nel contestare una siffatta completa, logica e lineare motivazione, i ricorrenti altro non fanno che riproporre gli argomenti già spesi in sede di gravame, al fine di sollecitare questa Corte ad effettuare una valutazione di merito differente da quella operata dai Giudici territoriali; operazione all'evidenza non consentita. 15. Venendo ai motivi sulla dosimetria sanzionatola, è infondato l'ottavo motivo avanzato dalla Difesa Sa., con il quale lamenta violazione dell'art. 597, comma 4, cod. proc. pen., a mente del quale, se è accolto l'appello dell'imputato in relazione a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita. Infatti, va evidenziato che se è vero che il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall'imputato concerne non solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, tuttavia, in caso di assoluzione per uno dei reati ritenuti, in primo grado, avvinti dalla continuazione ad altri per i quali sia stata, invece, confermata la pronuncia di condanna, secondo le Sezioni unite di questa Corte il giudice di appello non può fissare la pena base per il reato più grave in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. U, n. 40910 del 27/9/2005, William Morales, Rv. 232066 - 01); ma ciò non esclude che in relazione a detta violazione sia, invece, confermata la pena stabilita dal primo giudice. Non pertinente, al riguardo, deve, infatti, ritenersi il richiamo alla giurisprudenza che impone una riduzione della pena base in caso di esclusione di taluna delle aggravanti, posto che, in ipotesi siffatte, il venir meno dell'elemento circostanziale produce un ovvio riflesso sull'apprezzamento della complessiva gravità del fatto, sì da non poter assumere rilievo in punto di concreta dosimetria sanzionatoria. 16. Fondati sono infine fondati, nella parte in cui s dolgono della mancata esplicitazione dei criteri di calcolo degli aumenti per la continuazione interna, il quarto motivo formulato nel secondo ricorso nell'interesse di Ar., il sesto motivo formulato nell'interesse di Au.. l'ottavo motivo formulato nell'interesse di Lu.. ed il settimo motivo formulato nell'interesse di Te.. e, trattandosi di questione non fondata su motivi esclusivamente personali, ai sensi dell'art. 587, comma 1, cod. proc. pen., il relativo accoglimento si estende anche ai coimputati Im.Ge., Mu.Gi. e Sa.Gi., che non avevano proposto un identico motivo. Va premesso che secondo quanto affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice, nel determinare la pena complessiva in caso di reato continuato, oltre a individuare il reato più grave e a stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, in modo che sia rispettato il rapporto di proporzione tra le pene anche in relazione agli altri illeciti accertati (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01). Nel caso in esame, invero, la Corte di assise di appello di Napoli, dopo avere stabilito, per tutti gli imputati, la pena base dell'ergastolo con riferimento al delitto di omicidio pluriaggravato di Lu.Mi. di cui al capo 1) dell'imputazione, ha calcolato gli aumenti di anni 4 di reclusione per il reato di tentato omicidio di Mi.Pa. (capo 1); di anni 1 di reclusione per il reato di detenzione illegale d'arma da fuoco e di anni 2 per il reato di porto d'arma di cui al capo 2); di anni 2 di reclusione per il reato di ricettazione (capo 4); e, relativamente al solo Mu., di anni 1 di reclusione per il reato di incendio aggravato (capo 3). In questo modo, tuttavia, l'operazione logico - valutativa della Corte di secondo grado è stata articolata in termini del tutto generici; è evidente che, in tal modo, la Corte territoriale ha finito per realizzare proprio l'operazione che le Sezioni Unite Pizzone, con la citata pronuncia, hanno censurato, laddove hanno affermato che il giudice, in sede di aumento per la continuazione, deve compiere una valutazione specifica per ogni singola ipotesi di reato ritenuta avvinta dal vincolo della continuazione. Va dunque ribadito che il giudice - in quanto titolare di un potere discrezionale - è tenuto a motivare anche in ordine all'entità dei singoli aumenti per i reati - satellite, affinché sia possibile effettuare un controllo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena, non essendo all'uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena - base (Sez. 1, n. 800 del 07/10/2020, dep. 2021, Bruzzaniti, Rv. 280216). Giova richiamare, poi, il principio fissato dall'art. 587 cod. proc. pen. concernente l'estensione - al soggetto che non abbia proposto impugnazione sullo specifico punto - degli effetti favorevoli connessi all'accoglimento di un motivo di natura oggettiva e non strettamente personale, che sia stato dedotto da altro coimputato (in tema di applicazioni pratiche del dato testuale ricavabile dalla norma, si vedano Sez. 1, n. 2940 del 17/10/2013, dep. 2014, Del Re, Rv. 258393 e Sez. 3, n. 55001 del 18/07/2018, Cante, Rv. 274213; si veda anche il dictum di Sez. 6, n. 1940 del 03/12/2015, dep. 2016, Aresu, Rv. 266686, a mente della quale: "Ai fini dell'operatività dell'istituto dell'estensione dell'impugnazione, di cui all'art. 587 cod. proc. pen., deve considerarsi non ricorrente anche il coimputato presente nel giudizio di cassazione che non abbia impugnato il punto della decisione annullata dalla S.C. in accoglimento di motivi non esclusivamente personali proposti da altro imputato"). Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere accolti limitatamente alla misura dell'aumento di pena per la continuazione con i reati satellite, ed, in virtù del citato principio estensivo, la sentenza impugnata deve essere annullata sul punto - in relazione alla posizione di tutti gli imputati -, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di assise di appello di Napoli affinché colmi le rilevate lacune motivazionali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con riferimento a Sa.Au., limitatamente alla circostanza aggravante della premeditazione relativa al capo 1) e al reato di cui al capo 4), nonché, con riferimento a Lu.Um., limitatamente alla recidiva, nonché, con riferimento a tutti i ricorrenti, limitatamente agli aumenti per la continuazione. Rinvia per nuovo giudizio su tali capi e punti e sul trattamento sanzionatorio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Napoli. Rigetta nel resto i ricorsi. Così deciso il 14 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE Sezione Penale Il Tribunale di Nocera Inferiore - in composizione monocratica - e nella persona del Giudice dott. Federico Noschese, alla pubblica udienza del 4 aprile 2024 con l'intervento del Pubblico Ministero Dott.ssa Giancarla D'Urso (V.P.O) e con l'assistenza del Cancelliere Dott. Massimo Vigilante, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura in udienza, la seguente SENTENZA Nei confronti di: Ol.Ge. n. a P. il (...), elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia, libero assente; difeso di fiducia dall'Avv. Vi.Ca., assente, sostituito per delega ex art. 102 c.p.p. dall'Avv. Ca.Gu.; IMPUTATO Vedi foglio allegato. IMPUTATO per il reato p. e p. dagli artt. 624, 625 n. 2 e 4 c.p., perché, s'impossessava, al fine di trarne profitto, dell'autovettura FIAT Panda di colore bianco targata (...), sottraendola a Me.Vi., mentre era in sosta in N. I. alla via V., manomettendo la centralina G. satellitare e ponendo un cacciavite nel blocchetto di accensione al fine di effettuare l'accensione del veicolo. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con destrezza e con violenza sulle cose. In Nocera Inferiore, il 25.11.2019 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di citazione diretta a giudizio, emesso dal P.M. in sede in data 09.07.2020, Ol.Ge. era tratto innanzi a questo Tribunale per rispondere del reato a lui ascritto in epigrafe. Alla prima udienza del 05.02.2021, dichiarata l'assenza dell'imputato ritualmente avvisato e non comparso senza cause note di impedimento, il processo era differito per omessa notifica del decreto introduttivo alla persona offesa. Nella sessione del 15.07.2021, integro il contraddittorio, il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva le prove richieste dalle parti; si acquisiva il verbale di perquisizione del 25.11.2019 e veniva escussa la persona offesa Me.Vi.. All'assise del 24.02.2022 il processo era rinviato per anomala composizione del Tribunale monocratico. Nella seduta del 15.09.2022 la trattazione era differita per assenza dei testi. Analogo motivo comportava il rinvio della sessione prevista per il 16.03.2023 e di quella fissata per il 14.09.2023. All'assise del 25.01.2024 veniva sentito N.G.D.; all'esito della sua audizione il P.M. rinunciava al teste S.G.. La seduta del 14.03.2024 veniva rinviata per adesione del difensore all'astensione proclamata dall'Unione Camere Penali, con sospensione dei termini di prescrizione per giorni 21. Nell'ultima udienza del 04.04.2024 il Tribunale dichiarava conclusa l'istruttoria dibattimentale e dava lettura, mediante indicazione ex art. 511 co. 5 c.p.p., degli atti confluiti nel fascicolo del dibattimento; seguiva la discussione e le parti rassegnavano le conclusioni riportate in epigrafe. Il Tribunale, all'esito della deliberazione in camera di consiglio, pronunciava la seguente sentenza, pubblicata mediante lettura del dispositivo con riserva del termine per il deposito delle motivazioni in giorni 30, atteso il carico di ruolo monocratico e collegiale. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. La valutazione del quadro probatorio. Gli esiti dell'istruzione dibattimentale consegnano al Tribunale uno scenario chiaro e incontroverso della dinamica fattuale da cui trae abbrivio l'odierno procedimento. La prova raccolta a carico dell'Ol.Ge. è schiacciante, essendo lo stesso stato colto nella flagranza del delitto contestato, al punto da non aver neppure provato a negare gli addebiti. I contributi offerti dalla persona offesa, Me.Vi., che non ha mostrato alcun interesse nelle sorti del giudizio, appaiono di certo affidabili, non potendosi immaginare scopi calunniatori, vista l'assenza di rapporti personali con l'imputato, che neanche conosceva. Il racconto del furto subito è poi attendibile, sia intrinsecamente, sia estrinsecamente saldandosi con gli accertamenti della P.G. nell'immediatezza dei fatti. Quest'ultimi sono compendiati nel verbale di perquisizione personale e veicolare del 25.11.2019, e sono stati illustrati, con maggior dettaglio, dal Vice Brig. N.G.D., in servizio al N.O.R.M. dei CC di Nocera Inferiore, sentito all'udienza del 25.01.2024. I risultati delle indagini non lasciano margini d'incertezza apparendo pressoché autoevidenti, atteso che, dopo neanche mezz'ora dalla segnalazione del furto, l'O. è stato fermato alla guida dell'auto rubata. Può allora ritenersi provata, senza dubbio, la seguente scansione degli avvenimenti. Nella mattinata del 25.11.2019 Me.Vi., dipendente della società E.D., cui era stata data in uso la macchina aziendale Fiat Panda tg. (...), intestata alla società di noleggio L. S.p.A., riceveva, verso le ore 05:30, riceveva una telefonata dalla centrale operativa del sistema di antifurto satellitare che gli chiedeva se fosse lui alla guida del veicolo suddetto; il M., trovandosi a casa, si affacciava dalla finestra e constatava che l'auto, parcheggiata intorno alle ore 01:00 della sera prima in Via V. civico 21/31 del Comune di Nocera Inferiore, era stata asportata da ignoti (cfr. verbale stenotipico del 15.07.2021). La notizia del furto veniva diramata alle ff.oo. che si mettevano alla ricerca del veicolo; questo veniva intercettato, alle ore 05:55 circa, in Pagani, nei pressi di Viale Trieste, dai CC del N.O.R.M. del Reparto Territoriale di Nocera Inferiore. L'autovettura, alla vista dei militari, provava ad eludere il controllo, ma veniva fermata poco dopo. Alla guida vi era Ol.Ge., unico occupante dell'abitacolo, già noto agli operanti per precedenti penali specifici. L'imputato non opponeva resistenza e ammetteva gli addebiti. Veniva sottoposto a perquisizione personale con esito positivo, venendo ritrovata nella tasca del suo giubbotto la centralina G. satellitare che era stata asportata dal vano motore della vettura e sostituita con altra per consentire la marcia del mezzo. I CC constatavano altresì la presenza di un cacciavite nel nottolino d'accensione del veicolo, utilizzato per forzare la messa in moto senza chiavi; entrambi gli oggetti venivano sottoposti a sequestro probatorio (cfr. verbale ex artt. 352-354 c.p.p. del 25.11.2019; cfr. verbale stenotipico del 25.01.2014: P.M.-Ah. C'era solo l' O.? TESTE G.D. N. - Sì, solo lui. Sì. Veniva sottoposto a perquisizione. P.M. - Perquisizione. TESTE G.D. N. - Personale e veicolare. E... P.M. - Cosa avete rinvenuto? TESTE G.D. N. - Rinvenivamo il localizzatore satellitare che aveva appena disinstallato dal veicolo e l'aveva riposto nella tasca; e rinvenivamo la centralina decodificata che era stata apposta al blocco motore. GIUDICE - Quindi il localizzatore era stato asportato e ce l'aveva in tasca il signor O.? TESTE G.D. N. - Sì, sì. Sì, sì, sì. P.M. - C'era anche un cacciavite? TESTE G.D. N. - Sì, l'aveva; quello lo utilizzano nel blocco accensione per far partire l'auto. ... TESTE G.D. N. - Ehm, io ricordo che il danneggiamento riguardava solo il nottolino d'accensione perché loro sanno diciamo dove vanno a collocare queste centraline G.. GIUDICE - Mi spieghi un po ' come ha fatto quindi. Che cosa, per rimuovere questa centralina G. da dove l'ha estratta? TESTE G.D. N. - Penso da... Non ricordo nello specifico; sicuramente sotto il blocco accensione la vanno a rimuovere. GIUDICE - Voi avete visto il nottolino danneggiato? TESTE G.D. N. - Il nottolino sì, c'era il cacciavite inserito dentro; quindi per accenderla, sì. GIUDICE - Cioè c'era il cacciavite inserito nel... TESTE G.D. N. - Comunque va a danneggiare il nottolino d'accensione. GIUDICE - Okay, che era forzato quindi? TESTE G.D. N. - Sì, per forza sennò non riescono a...). L'autovettura veniva infine restituita all'avente diritto. 2. La configurabilità del reato ascritto. L'editto accusatorio contesta a Ol.Ge. il reato p. e p. dagli artt. 624 - 625 n. 2 e 4 c.p., "perché, si impossessava, al fine di trarne profitto, dell'autovettura FIAT Panda di colore bianco targata (...), sottraendola a Me.Vi., mentre era in sosta in N. I. alla via V., manomettendo la centralina G. satellitare e ponendo un cacciavite nel blocchetto di accensione al fine di evitare l'accensione del veicolo. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con destrezza e con violenza sulle cose. In Nocera Inferiore, il 25.11.2019". La prospettazione del P.M. è sicuramente fondata, trovando pieno riscontro nelle emergenze istruttorie appena sintetizzate, salva la sola esclusione dell'aggravante della destrezza di cui, come si vedrà, non ricorrono i presupposti concreti. Preliminarmente, occorre fugare ogni dubbio circa la procedibilità del reato ascritto, essendo presente agli atti una valida querela, con esplicita istanza di punizione, sporta da Me.Vi. in data 25.11.2019, e questo rende irrilevante il mutato regime di perseguibilità della fattispecie a seguito del D.Lgs. n. 150 del 2022. Pur essendo l'autovettura rubata formalmente di proprietà di un soggetto giuridico diverso, la L. S.p.A., il M. era di certo legittimato a sporgere querela, avendo la detenzione qualificata della res in forza della locazione della società per cui lavorava e dell'affidamento in custodia del veicolo per l'espletamento delle sue mansioni lavorative; tanto è vero che il querelante ha raccontato di un trasferimento della detenzione e della responsabilità di custodia tra i dipendenti dell'Enel in concomitanza ai turni di servizio. Si ricorda che il diritto di querela non spetta solo al proprietario, ma anche ai soggetti che abbiano una relazione qualificata e meritevole di tutela con la cosa sottratta, così come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, pronunciatasi su vasta scala nell'ambito dei delitti contro il patrimonio : "il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso - inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità - che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela " (cfr. Cass., SS.UU., sentenza n. 40354/2013); "ai fini della procedibilità di un furto commesso all'interno di un supermercato, il responsabile della sicurezza dell'esercizio commerciale è legittimato a proporre querela, anche quando non sia munito dei poteri di rappresentanza del proprietario, in quanto titolare della detenzione qualificata della cosa in custodia, che è compresa nel bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice" (Cass, pen., Sez. 5, sentenza n. 3736/2019); "il diritto di querela per il reato di appropriazione indebita spetta anche al soggetto, diverso dal proprietario, che, detenendo legittimamente ed autonomamente là cosa, l'abbia consegnata a colui che se n'è appropriato illegittimamente" (Cass, pen., Sez. 2, sentenza n. 8659/2023; fattispecie relativa all'appropriazione indebita di beni sottoposti a sequestro preventivo, in cui la querela era stata sporta dal soggetto nominato custode dei beni medesimi). Ciò premesso, la dinamica fattuale accertata all'esito del giudizio denota l'integrazione di tutti gli estremi della fattispecie contestata: l'O., nel prime ore del mattino del 25.11.2019, si è illecitamente impossessato dell'autovettura Fiat Panda tg. (...), sottraendola al legittimo detentore. Il furto è giunto a consumazione, anche se l'imputato è stato colto nella flagranza del delitto circa 25 minuti dopo la segnalazione della sottrazione: in quell'arco temporale, infatti, la res è fuoriuscita dalla sfera di controllo dell'avente diritto, che ne ha perso la disponibilità; parallellamente, l'O. ha instaurato una momentanea, ma autonoma, signoria sulla refurtiva, e tanto basta a ritenere il furto consumato. In questi termini si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità: "ai fini della configurazione dell 'autonoma disponibilità della cosa, che segna il momento acquisitivo a cui l'impossessamento è funzionale, non rileva il dato temporale ex se, essendo sufficiente che l'agente abbia conseguito anche solo momentaneamente l'esclusiva signoria di fatto sul bene, assumendo, invece, decisivo rilievo la effettiva concretizzazione del rischio di definitiva dispersione, anche se questa non si sia, di fatto, realizzata per l'intervento di fattori causali successivi ed autonomi. In altri termini, l'agente acquisisce l'autonoma disponibilità della cosa sottratta - e la fattispecie si realizza in forma consumata - solo quando il soggetto passivo del reato ne perda, correlativamente, la detenzione, anche mediata attraverso forme indirette di vigilanza e custodia " (cfr. Cass, pen., Sez. 5, sentenza n. 48880/2018). La condotta si è poi manifestata in forma aggravata, essendo palese è l'integrazione della violenza su cose (art. 625 comma 1 n. 2 c.p.), esercitata attraverso la rottura del nottolino dell'autovettura - così come spiegato dal teste di P.G. N. - funzionale all'asportazione della centralina e all'inserimento del cacciavite nel blocchetto di accensione (cfr. Cass, pen., Sez. 5, sentenza n. 5266/14: "si ha "violenza sulle cose " allorché la cosa venga danneggiata, trasformata ovvero ne venga mutata la destinazione. Ed, infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, sussiste l'aggravante speciale di cui si tratta tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, faccia uso di energia fisica, provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento della destinazione "). Ancora, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la circostanza de qua si realizzi "tutte le volte in cui il soggetto faccia uso di energia fisica provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione, il mutamento di destinazione della cosa altrui o il distacco di una componente essenziale ai fini della funzionalità, tali da rendere necessaria un'attività di ripristino per restituire alla res la propria funzionalità" (cfr. Cass. pen. Sez. 5, sentenza n. 13431/2022). Non si ravvisano invece gli estremi dell'aggravante ex art. 625 n. 4 c.p., parimenti contestata dal P.M.. Dalla ricostruzione dei fatti non è emerso un comportamento particolarmente scaltro o astuto da parte dell'agente, il quale si è limitato a forzare le porte d'ingresso e il sistema di accensione dell'autovettura, approfittando della mera assenza dell'avente diritto. Tale comportamento è insufficiente per ritenere configurata l'aggravante della destrezza, secondo l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Ed infatti, la ratio della circostanza risiede nel marcato disvalore dipendente dal fatto che "l'altrui patrimonio è oggetto di aggressione compiuta con modalità più efficaci in quanto rapide, agili, oppure scaltre ed avvedute, dimostrative di incrementata pericolosità sociale ed in grado di menomare la difesa delle cose Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 34090 del 12 luglio 2017, hanno risolto poi il contrasto interpretativo relativo alla configurabilità dell'aggravante della destrezza nelle ipotesi in cui il soggetto agente si limiti ad approfittare di ima situazione di temporanea distrazione della persona offesa. Si è affermato il seguente principio di diritto: "la circostanza aggravante della destrezza di cui all'art. 625 cod. pen., comma 1, n. 4, richiede un comportamento dell'agente, posto in essere prima o durante l'impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso; sicché non sussiste detta aggravante nell 'ipotesi di furto commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore dalla cosa". I giudici di legittimità hanno chiarito che la ratio dell'aggravante della destrezza non può dirsi integrata quando l'agente non si adoperi per creare le condizioni favorevoli alla sottrazione, ma si limiti a percepirle nella realtà fenomenologica a lui esterna ed a volgerle a proprio favore, inserendovi la propria azione appropriativa del bene altrui. Pur non pretendendo perché si configuri la destrezza che l'autore del furto faccia ricorso a doti di eccezionale o straordinaria abilità, ("virtuosismo criminale"), ciò nonostante la modalità della condotta destra deve esprimersi in un quid pluris rispetto all'ordinaria materialità del fatto di reato, che si aggiunga a quanto ordinariamente richiesto per porre in essere la condotta furtiva, consistente nella sottrazione della cosa e nel conseguente suo impossessamento. La modalità esecutiva, per dare luogo all'aggravante, deve potersi distinguere dal fatto tipico, che realizza il furto semplice, ovvero "rivelare un tratto specializzante ed aggiuntivo rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie basilare, costituito dall'abilità esecutiva dell'autore nell'appropriarsi della cosa altrui, che sorprenda o neutralizzi la sorveglianza sulla stessa esercitata e disveli la sua maggiore capacità criminale e la più efficace attitudine a ledere il bene giuridico protetto ". Il mero prelievo di un oggetto dal luogo ove si trova in un momento di altrui disattenzione, che offre l'occasione favorevole all'apprensione per la possibilità di avvicinamento e di asportazione nella mancata e diretta percezione da parte del possessore, non in grado di impedire la sottrazione e perché altrimenti impegnato o assente, non integra la fattispecie circostanziata in esame perché non richiede nulla di più e di diverso da quanto necessario per consumare il furto. In tali situazioni, per conseguire il risultato appropriativo l'agente non deve fare ricorso a particolare abilità, né intesa quale agilità o rapidità motoria né quale sforzo psichico nell'applicazione di astuzia o avvedutezza nello studio dei luoghi e del derubato e nel distoglierne il controllo sulla cosa. E, nell'ottica di un'interpretazione teleologica - calibrata sul principio di offensività che permea anche gli elementi satellitari del reato - per ritenersi sussistente l'aggravante della destrezza, occorre che l'azione furtiva, per le modalità di attuazione, risulti caratterizzata da un'incrementata capacità di ledere il bene protetto, ovvero "una condotta spoliativa attuata con particolare ingegno, astuzia e scaltrezza" tale da meritare una risposta punitiva più severa che sarebbe ingiustificata nei casi di mera sottrazione del bene, pur facilitata dall'altrui disattenzione o dalla momentanea assenza. Nel caso di specie, come anticipato, l'O. non ha dovuto fare applicazione di particolare scaltrezza per superare il controllo della vittima, ma si è limitato ad approfittare della sua assenza dal luogo ove era parcheggiata l'auto. Nessun accorgimento ingegnoso ha dovuto architettare, tanto è vero che per realizzare l'impossessamento ha dovuto esercitare violenza sulla res, danneggiandone il nottolino di avviamento. Né effettiva destrezza può cogliersi nell'asportazione della centralina, e del correlato sistema di localizzazione G., di cui l'imputato non ha avuto neppure l'accortezza di disfarsi, conservandolo nella tasca del suo giubbino; proprio grazie a tale sistema i CC hanno appreso la posizione della vettura e lo hanno colto in flagranza del delitto. Evidente è la sussistenza dell'elemento soggettivo che caratterizza la fattispecie, apparendo chiaro che l'O. abbia agito con dolo specifico di profitto, da individuarsi quest'ultimo nel vantaggio economico derivante da un'eventuale rivendita del veicolo o da un utilizzo in proprio dello stesso. 3. Il trattamento sanzionatone. Sotto il profilo dell'intensità offensiva, il valore della res sottratta, le modalità esperte della sottrazione - denotanti professionalità a delinquere e conoscenza delle tecniche per rubare un'auto in assenza delle chiavi - nonché le circostanze della condotta, pianificata ed avvenuta di notte, approfittando del riposo della vittima, sono del tutto incompatibili con un giudizio di particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. All'imputato possono essere riconosciute le attenuanti generiche, bilanciate in equivalenza con la ritenuta aggravante ex art. 625 n. 2 c.p., potendosi premiare il comportamento collaborativo avuto con le ff.oo. al momento del fermo, cui non ha opposto alcuna resistenza, ammettendo gli addebiti Ciò posto, valutati i criteri commisurativi di cui all'art. 133 c.p., con particolare riguardo alle modalità dell'azione criminale, denotanti esperienza nel settore e professionalità criminale, al valore del bene sottratto e al correlato danno per la parte offesa, derivante non solo dalla sottrazione momentanea dell'auto ma anche dal danneggiamento di sue parti essenziali, all'intensità del dolo, denotante premeditazione, visto l'impiego di strumenti portati appositamente con sé dall'imputato, il Tribunale stima equo infliggere a Ol.Ge. la pena di anni uno (1) e mesi sei (6) di reclusione ed Euro 250,00 di multa, assestandosi sulla media della cornice edittale prevista dall'art. 624 c.p.. Alla condanna segue il pagamento delle spese processuali. All'imputato non può essere concessa la sospensione condizionale, avendone già beneficiato per tre volte in passato. Parimenti deve escludersi la possibilità di sostituire la pena inflitta con quelle sostitutive previste dall'art. 20 bis c.p., eccedendo la condanna inflitta dai limiti per la pena pecuniaria sostitutiva e non avendo l'imputato, personalmente o a mezzo procuratore speciale, manifestato il proprio consenso all'applicazione delle diverse pene sostitutive che lo presuppongono. Si dispone, al passaggio in giudicato, la confisca ex art. 240 c.p. della centralina motore e del cacciavite caduti in sequestro in data 25.11.2019 trattandosi di mezzi esecutivi del reato contestato. P.Q.M. Letti gli artt. 533-535 e segg. c.p.p., DICHIARA Ol.Ge. colpevole del reato a lui ascritto, esclusa l'aggravante di cui all'art. 625 n. 4) c.p. e, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla ritenuta aggravante di cui all'art. 625 n. 2) c.p., e lo condanna alla pena di anni uno (1) e mesi sei (6) di reclusione ed Euro 250,00 di multa, oltre che al pagamento delle spese processuali. Letto Part. 545 bis c.p.p., avvisa l'imputato della possibilità di accedere, previa manifestazione del consenso, alle pene sostitutive previste dall'art. 20 bis c.p. diverse dalla pena pecuniaria. Preso atto della mancata espressione del consenso alla possibile sostituzione della pena detentiva inflitta con pena sostitutiva diversa da quella pecuniaria, conferma il dispositivo di condanna. Letto l'art. 240 c.p. ordina, al passaggio in giudicato, la confisca e la distruzione della centralina elettrica e del cacciavite descritti nel verbale di sequestro del 25.11.2019. Letto l'art. 544 comma 3 c.p.p., indica in giorni 30 il termine per il deposito delle motivazioni. Così deciso in Nocera Inferiore il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. SEMERARO Luca - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da In.Gi., nato a P E il (Omissis) avverso la sentenza del 13/02/2023 della Corte di appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro Maria Andronio; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesca Costantini, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 13 febbraio 2023, la Corte di appello di Palermo ha confermato - per quanto qui rileva - la sentenza del Tribunale di Agrigento del 3 novembre 2020, con la quale l'imputato era stato condannato alla pena di anni 4 di reclusione, oltre alle pene accessorie, per i reati - avvinti dal vincolo della continuazione, considerato più grave il reato di cui all'art. 8 del d. Igs. n. 74 del 2000 - di cui (secondo la numerazione originaria): 7) agli artt. 110 cod. pen. e 8 del d. Igs. n. 74 del 2000, perché, in concorso con altre persone, emetteva - in qualità di amministratore di fatto della ditta individuale formalmente riferibile a Ba.Al. e soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili, indicati nelle fatture da essa emesse - nei confronti di diversi committenti, molteplici fatture per operazioni soggettivamente inesistenti; 19) all'art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, perché ometteva di presentare la dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto per il periodo d'imposta 2010, pur avendo conseguito ricavi quantomeno per complessivi Euro 229.985,21, comprensivi di quelli percepiti quale soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili indicati nelle fatture emesse dalla ditta Sa.Ma., per operazioni soggettivamente inesistenti, nei confronti di diversi committenti a fronte del versamento di corrispettivi a suo favore di importi mai palesati ai fini fiscali, risultanti solo figurativamente in capo alla citata ditta, evadendo imposte IRPEF per Euro 92.963,64 e IVA per Euro 45.997,04; 20) all'art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, perché ometteva di presentare la dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto per il periodo di imposta 2011, pur avendo conseguito ricavi quantomeno per complessivi Euro 135.199,70, percepiti quale soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili indicati nelle fatture emesse dalla ditta Ba.Al., per operazioni soggettivamente inesistenti, nei confronti di diversi committenti a fronte del versamento di corrispettivi a proprio favore di importi mai palesati ai fini fiscali, risultanti solo figurativamente in capo alla citata ditta, evadendo imposta IRPEF per Euro 51.305,87. 2. Avverso la sentenza, l'imputato, tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1 Con un primo motivo di doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 178, lettera c), 191, 192, e 546, cod. proc. pen., 220 disp. att. cod. proc. pen., ed il connesso vizio motivazionale, per avere la Corte di appello omesso di confrontarsi con l'erronea acquisizione, al fascicolo del dibattimento, di prove in realtà vietate. A parere della difesa, gli accertamenti, condotti dall'ispettorato dell'INPS e dai militari della Guardia di finanza, mediante verbale unico di accertamento e notificazione n. (Omissis)/INPS, verbale di accesso Ispettivo INPS del 2 marzo 2012 - contenenti, tra l'altro, dichiarazioni auto ed eteroindizianti dell'imputato, rese in assenza di difensore ed in violazione dell'art. 63 cod. proc. pen. - e processo verbale di contestazione n. 17 del 29 gennaio 2015, sarebbero stati espletati in violazione delle garanzie difensive dell'imputato, onde l'inutilizzabilità dei relativi risultati probatori. Più precisamente, il ricorrente osserva che il presente procedimento penale è scaturito da un altro procedimento, avente R.G.N. n. 3601/2011, iscritto allorché gli uffici di vigilanza dell'INAIL e dell'INPS ebbero ravvisato gli estremi dei reati di truffa e di falso, commessi in loro pregiudizio da numerosi soggetti, tra i quali, l'odierno ricorrente; con la conseguenza che, sussistendo indizi di reato già al momento dei primi accertamenti ispettivi, questi avrebbero dovuto essere espletati nel rispetto delle garanzie difensive dell'imputato, al contrario completamente pretermesse, sull'errato rilievo della natura amministrativa extraprocessuale dell'attività ispettiva eseguita, derivante dal fatto che gli ispettori dell'INPS sarebbero entrati a far parte del novero degli ufficiali di Polizia Giudiziaria solo con il d. Igs. n. 149 del 2015. Ebbene, la Corte di appello avrebbe erroneamente fondato la propria decisione su documenti probatori, in realtà, affetti da inutilizzabilità patologica, proprio perché fallacemente ritenuti "materiale extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa". Né la Corte territoriale avrebbe motivato adeguatamente circa l'utilizzabilità del materiale probatorio contestato; ciò che, da un lato, non ha condotto all'espunzione dal fascicolo del dibattimento dei verbali contestati, mentre, dall'altro, ha determinato un illecito frazionamento, in capitoli, di un atto sostanzialmente unitario, quale il primigenio fascicolo R.G.N. n. 3601/2011, allorché da esso sono state prima raccolte le dichiarazioni auto ed etero indizianti del ricorrente, previa lettura e vaglio delle intercettazioni e degli atti d'indagine già disposti, e poi scorporati quelli che il giudice di secondo grado ha chiamato "ulteriori ed autonomi accertamenti". 2.2. Con una seconda censura, ci si duole della violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 8 del d. Igs. 74 del 2000, 157 e 161 cod. pen., e della legge n. 148 del 2011, nonché del relativo vizio di motivazione, altresì invocando la sopraggiunta e non dichiarata prescrizione del reato sub 7). Il giudice di secondo grado si sarebbe limitato a recepire de plano quanto erroneamente statuito dal Tribunale, astenendosi dal considerare l'insufficienza del compendio accusatorio quanto alla tesi per cui Ba.Al. era un prestanome dell'odierno imputato - visto che nessuna indagine mirata è stata svolta, tramite eventuali servizi di osservazione, per accertare che il ricorrente avesse effettivamente accompagnato in banca il Ba.Al. ad incassare gli assegni ricevuti dai vari committenti - mancando di verificare la veridicità, in realtà inesistente, della circostanza che l'Inclima si sarebbe avvalso della ditta Ba.Al. perché impossibilitato ad operare attraverso la società "(...) Srl" della moglie, erroneamente ritenuta insolvente e non in regola con il pagamento del D.U.R.C. Secondo la difesa, tale società era in regola - tanto da avere in corso appalti e lavori autonomi - ed era priva di qualsiasi correlazione economica e bancaria con le somme fatturate dal Ba.Al. . Allo stesso modo, non potrebbero considerarsi soggettivamente false né le fatture emesse dall'imputato in favore della ditta "(...) Srl" - il cui amministratore, non a caso, è stato correttamente assolto, in primo grado, per insussistenza del fatto - né quelle ricevute dalla "(...) Srl", anch'essa amministrata da soggetto assolto in primo grado; ciò che equivale a dire che l'emissione delle predette fatture avrebbe, irragionevolmente, costituito il presupposto del dolo specifico per l'Inclima e per il Ba.Al., ma non anche per i destinatari Gi.Ge. e Mo.St., i quali non avrebbero percepito l'interposizione dell'odierno ricorrente rispetto al Ba.Al. . Ebbene, sul punto, mancherebbe una motivazione circa il dolo eventuale, da intendersi come consapevole accettazione del fine di evasione o di indebito rimborso. A parere della difesa, inoltre, il medesimo giudice dell'appello si sarebbe erroneamente confrontato con la struttura ontologica della nozione di "fattura soggettivamente inesistente", allorché avrebbe ritenuto integrata tale fattispecie di reato, nonostante l'assenza - asserita sia dal giudice di primo grado che dalla Corte d'appello di Palermo - della connivenza del cessionario rispetto alla condotta di evasione. Né il giudice di secondo grado, nell'assolvere i coimputati, avrebbe colto il fatto che il Tribunale aveva indebitamente frazionato la condotta ascritta all'imputato - in realtà, unica ed infrazionabile - in due diversi segmenti: il primo, relativo alle operazioni soggettivamente inesistenti; il secondo, a quelle oggettivamente inesistenti. Analogamente, la Corte di appello avrebbe omesso di considerare autonomamente - limitandosi, piuttosto, a richiamare per relationem quanto già asserito nel provvedimento impugnato - l'erronea conclusione cui sarebbe pervenuto il giudice di primo grado, concernente l'inesistenza oggettiva delle fatture emessa dalla società Ba.Al. nei confronti della "(...) Srl", sul rilievo della mancanza, in capo alla prima ditta, di quella, seppur minima, organizzazione di mezzi, che appare necessaria all'esercizio dell'attività di impresa edile. Tale conclusione contrasterebbe con la circostanza che i lavori appaltati da "(...) Srl", "(...) Srl" e "(...) Srl" fossero stati effettivamente realizzati, con l'esistenza di molteplici fatture, emesse dalla predetta società, aventi ad oggetto il noleggio dei necessari corredi di cantiere. Sostiene il ricorrente che la tecnica del richiamo per relationem è stata più volte utilizzata dal giudice di secondo grado, in mancanza della necessaria verifica della congruità della prima motivazione, alla luce dei motivi di impugnazione. La difesa asserisce anche che, in ordine al reato contestato, è sopraggiunta la prescrizione, laddove si consideri che la condotta ascritta ha decorrenza dal 15 giugno 2011 ed epilogo in data 2 dicembre 2011, anche con la sospensione di 64 giorni, imposta dall'art. 83, comma 4, del d.l. n. 17 del 2020. 2.3. Con un terzo motivo di doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 5 del d. Igs. 74 n. 2000, 157 e 161 cod. pen., e della legge n. 148 del 2011 e il connesso vizio motivazionale. Secondo la prospettazione difensiva, la Corte d'appello si sarebbe erroneamente confrontata con il capo di imputazione 19), senza considerare i motivi di appello e mancando altresì di dichiarare la sopravvenuta prescrizione del reato. La condanna si fonderebbe sulla sola omessa dichiarazione dei redditi, prodotti dalla "Sa.Ma." - società ritenuta, in realtà, amministrata e gestita dall'imputato - per un importo pari a Euro 92.963,64, senza considerare le testimonianze rese dall'amministratore della ditta "(...) Srl", Tr.An., e dal geometra Sa., dipendente della "(...) Srl", dalle quali, all'opposto, emergerebbero l'esistenza soggettiva ed oggettiva delle operazioni economiche poste in essere dalla società del Sa.Ma. e, conseguentemente, l'esistenza e l'autonomia della medesima. Né il giudice dell'appello e quello di primo grado avrebbero adeguatamente vagliato le soglie di punibilità per il periodo di imposta 2010. Ebbene, nel caso di specie, l'imposta evasa ammonterebbe ad Euro 87.350,00, e non ad Euro 92.963,64, come erroneamente contestato. Di talché - essendo la soglia di punibilità di Euro 77.468,53, e dovendo sussistere il dolo specifico anche su questa, in quanto elemento costitutivo del reato - la società "Sa.Ma." e l'In.Gi., avrebbero consapevolmente programmato il superamento della predetta soglia di soli Euro 10.000,00. Infine, afferma la difesa che, in ordine al reato contestato, commesso 31 dicembre 2011, è sopraggiunta la prescrizione. 2.4. Con una quarta censura, si lamentano la violazione degli artt. 2, secondo comma, 131-bis, 157 e 161 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 e della legge n. 148 del 2011 e il vizio di motivazione, altresì invocando la sopraggiunta prescrizione del reato sub 20). Più precisamente, il giudice di secondo grado avrebbe disatteso il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole allorché, senza vagliare le doglianze sollevate, ha corroborato l'operato del Tribunale, il quale ha fatto riferimento alla più sfavorevole ed attuale soglia di Euro 50.000,00, anziché a quella vigente ratione temporis, di Euro 77.468, 53. Inoltre, sostiene il ricorrente che, anche a volere ammettere l'applicabilità della minore soglia individuata dal primo giudice, non potrebbe ignorarsi la circostanza che detta soglia sia stata superata di soli Euro 885,57, con conseguente applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., visto il modesto disvalore penale. A parere del ricorrente, anche in relazione al presente capo di imputazione, del 31 dicembre 2012, sarebbe sopravvenuta la prescrizione. 2.5. Con un quinto motivo di impugnazione, si denunciano la violazione degli artt. 62-bis, 132, 133 cod. pen., 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, sul rilievo del diniego delle circostanze attenuanti generiche e dell'eccessiva quantificazione della pena, malgrado l'incensuratezza del ricorrente e nonostante il fatto che la condotta evasiva, nelle contestazioni relative alla violazione dell'art. 5 del D.Lgs. 74 n. 2000, superasse, rispettivamente, di soli Euro 10.000,00 e Euro 885,57 le soglie di punibilità. Inoltre, sostiene la difesa che la valutazione della personalità dell'indagato, anche laddove abbia esito negativo, non può comunque giustificare una pena base di anni 3 e mesi 4 di reclusione. In primo luogo, le fatture n. 2 e 8, emesse in favore della "(...) Srl", per l'importo complessivo di Euro 2.560,00, e n. 6 e 8, in favore della "(...) Srl", di ammontare pari Euro 53.808,74, giacché emesse in epoca antecedente al 18 settembre 2011, risulterebbero ontologicamente idonee a supportare una pena avente un minimo edittale di mesi 6, come previsto dall'allora vigente art. 8, terzo comma, del D.Lgs. n. 74 del 2000; all'opposto, per le restanti fatture si dovrebbe considerare la sopravvenienza dell'art. 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011, alla luce della quale, per effetto della regola del favor rei, la pena eventualmente da applicare potrebbe essere contenuta in un anno di reclusione, aumentato di mesi 4 per la continuazione e ridotto, nuovamente, ad un anno, in applicazione delle attenuanti generiche; pena, in ogni caso, da sospendersi, ai sensi dell'art. 12, comma 2-bis, del. d. Igs. n. 74 del 2000, allorché si consideri che l'ammontare dell'imposta evasa non è superiore al 30% del volume d'affari, e comunque superiore a tre milioni di euro. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. La prima doglianza - riferita alla lamentata inutilizzabilità dei verbali di accertamento, nonché al connesso vizio di motivazione - è inammissibile, giacché mancante di qualsivoglia contestazione in ordine alla "prova di resistenza" del residuo materiale probatorio. Infatti, nell'ipotesi in cui, con il ricorso in cassazione, si deduca l'inutilizzabilità della prova, il motivo di impugnazione, a pena di inammissibilità per difetto di specificità, deve illustrare l'incidenza della sua eventuale eliminazione sul complessivo compendio probatorio (ex plurimis, Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, Rv. 279829; Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, Rv. 270303; Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 23 gennaio 2015, Rv. 262011). Ebbene, tale principio si attaglia al caso di specie, in cui le doglianze lamentate dal ricorrente, circa l'inutilizzabilità dei verbali di accertamento, attengono a profili probatori la cui rilevanza non è stata compiutamente dedotta, non essendo stato richiamato il complesso del quadro istruttorio; mentre, nell'economia motivazionale del provvedimento impugnato, le molteplici prove dichiarative, corroboranti la circostanza che l'In.Gi. sia stato il dominus e l'amministratore di fatto delle ditte individuali formalmente intestate al Ba.Al. e al Sa.Ma. -puntualmente indicate alle pagg. 14-17 del provvedimento impugnato - l'acquisizione delle risultanze intercettive, gli accertamenti ispettivi, condotti dall'INPS, nonché la copiosa documentazione, opportunamente acquisita al processo, risultano ampiamente sufficienti a ritenere sussistente la colpevolezza dell'odierno ricorrente. 1.2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si deducono la violazione di legge, in ordine all'applicabilità dei presupposti previsti dall'art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, ed il relativo vizio motivazionale - altresì invocando la prescrizione del reato - è inammissibile. In primo luogo, la prospettazione difensiva si esaurisce in mere asserzioni di ordine fattuale, frutto di una rivisitazione, in termini critici, della valutazione del materiale probatorio, come tale preclusa al sindacato di questa Corte, in quanto afferente a un giudizio sul merito della prova. Contrariamente a quando dedotto dalla difesa, la valutazione operata dalla Corte di appello nella sentenza impugnata - la cui struttura motivazionale correttamente si salda con il provvedimento precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, dal momento che le due decisioni di merito concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova, posti a fondamento delle rispettive decisioni - risulta adeguata e coerente perché frutto di un'attenta e puntuale disamina - di cui alle pagg. 14-21 della sentenza gravata - degli elementi emersi dalle indagini - e minuziosamente vagliati anche dal giudice di primo grado, alle pagg. 67-74 -intangibili alle critiche difensive, giacché ampiamente dimostrativi sia del fatto che l'imputato abbia agito quale dominus ed amministratore di fatto della ditta Ba.Al., che della fatturazione oggettivamente falsa, intercorsa tra detta ditta individuale e la società "(...) Costruzioni Srl". Parimenti dirimenti appaiono, poi, le predette risultanze probatorie nel senso della totale falsità soggettiva ed oggettiva delle fatture, emesse dalla società Ba.Al. a favore delle ditte "(...) Srl", "(...) Srl" e "(...) Srl", non potendosi attribuire alcun rilievo alla circostanza che sia il Mo.St. che il Gi.Ge. siano stati assolti, mancando l'elemento soggettivo, costitutivo del reato contestato. Secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, infatti, in presenza di un articolato compendio probatorio, non è consentito limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata dei singoli elementi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma è necessario procedere ad un esame globale degli elementi certi emergenti dalle indagini (ex multis, Sez.l, n. 20461 di 12 aprile 2016, Rv. 266941; Sez. 1, n. 44324 del 18 aprile 2013, Rv. 258321); ciò che, nel caso di specie, è stato correttamente posto in essere dai giudici di merito, conseguentemente pervenuti all'esatta individuazione della proiezione finalistica delle condotte fraudolente - attuate per più anni e attraverso vari prestanomi -poste in essere dall'imputato. Deve rilevarsi, infine, che il reato non era prescritto al momento della pronuncia di appello, onde l'impossibilità di dichiararne la conseguente estinzione. Invero, il termine prescrizionale per il reato di cui all'art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000 corrisponde alla soglia minima - pari a 6 anni - posta dalla legge, aumentata di un terzo, ai sensi dell'art. 17, secondo comma, del d. Igs. n. 74 del 2000, ed innalzata, ulteriormente, di un quarto, ai sensi dell'art. 161, secondo comma, cod. pen., per un totale di 10 anni. Ebbene, ai sensi dell'art. 8, secondo comma, del predetto decreto, ed in conformità con la giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 47459 del 05/07/2018, Rv. 274865; Sez. 3, n. 6264 del 14/01/2010, Rv. 246193) - secondo cui il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti si perfeziona, ove si abbiano plurimi episodi nel corso del medesimo periodo di imposta, nel momento di emissione dell'ultima fattura - nel caso di specie, il momento consumativo va individuato in data 2 dicembre 2011; con la conseguenza che il termine prescrizionale - dovendosi applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione, come risultanti dai computi operati dai giudici di primo e secondo grado, non contestati dal ricorrente - deve considerarsi maturato in data 3 marzo 2023, ovvero successivamente alla sentenza impugnata, e pertanto precluso al sindacato della Corte di cassazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, l'inammissibilità del ricorso esclude il rilievo dell'eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità e preclude l'apprezzamento di un'eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (ex plurimis, Sez. U, n. 6903 del 27 maggio 2016, dep. 2017, Rv. 268966; Sez. 3, n. 20899 del 25 gennaio 2017, Rv. 2.70130; Sez. 3, n. 26807 del 16 marzo 2023, Rv. 284783). 1.3. La terza censura, relativa alla violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 5 del d. Igs. 74 n. 2000, 157 e 161 cod. pen., e della legge n. 148 del 2011, nonché al connesso vizio motivazionale e alla mancata estinzione del reato sub 19 per intervenuta prescrizione, è inammissibile. Il ricorrente propone una rivisitazione, sul piano del merito, circa la reale esistenza e l'autonomia della ditta Sa.Ma. (su cui vi è ampia motivazione alle pagg. 14-17 della sentenza), senza la compiuta prospettazione di argomenti idonei a scardinare su un piano logico la conforme valutazione dei giudici di primo e secondo grado. In particolare, la sentenza impugnata risulta coerentemente argomentata nella parte in cui valorizza le testimonianze di Tr.An., Ar., Sa., Ma., No., nonché le attività di intercettazione, da cui emerge con chiarezza che Sa.Ma., Bo. e Ba.Al. erano soggetti in condizioni di bisogno scelti come prestanome e del tutto privi di capacità decisionale e di rapporti effettivi con formali dipendenti e clienti. Inoltre, la prospettazione difensiva si confronta erroneamente con le norme che si assumono violate, allorché ritiene che la soglia di punibilità fosse pari a Euro 77.468,53, omettendo di considerare che, in realtà, all'originaria previsione che stabiliva una soglia di punibilità di Euro 77.468,53, era già subentrata, ai sensi del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito dalla legge n. 148 del 2011, una soglia di Euro 30.000,00, poi, ulteriormente, innalzata, per effetto della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, ad Euro 50.000,00. Né può dichiararsi, infine, l'estinzione del reato per avvenuta prescrizione. Il termine di prescrizione, complessivamente previsto per il reato di cui all'art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, infatti, corrisponde alla soglia minima - pari a 6 anni -posta dalla legge, aumentata di un terzo, ai sensi dell'art. 17, secondo comma, del d. Igs. n. 74 del 2000, ed innalzata, ulteriormente, di un quarto, ai sensi dell'art. 161, secondo comma, cod. pen., per un totale di 10 anni. Ebbene, ai sensi dell'art. 5, secondo comma, del predetto decreto, ed in perfetta conformità con la giurisprudenza di legittimità, il reato di omessa dichiarazione si consuma il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione, il quale, per l'anno di imposta 2010, corrispondeva al 30 dicembre 2011; di talché il termine prescrizionale - dovendosi applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione - è maturato in data 31 marzo 2023, ovvero successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata; con la conseguenza che la Corte di cassazione non può prenderlo in considerazione, come già precisato sub 1.2. 1.4. Il quarto motivo di impugnazione - con il quale ci si duole: dell'errata applicazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, in ordine all'individuazione delle soglie di punibilità del reato di cui all'art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 (capo 20); dell'erroneo disconoscimento dei presupposti di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen.; del relativo vizio di motivazione; della mancata dichiarazione della sopraggiunta prescrizione - è manifestamente infondato. Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, la motivazione della Corte di appello, in ordine all'individuazione delle soglie a cui parametrare la punibilità del reato di cui all'art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 - di cui a pag. 22 del provvedimento impugnato - appare corretta: all'originaria previsione che stabiliva una soglia di punibilità di Euro 77.468,53, è subentrata, ai sensi del d. I. n. 138 del 2011, poi convertito dalla legge n. 148 del 2011, una soglia di Euro 30.000,00, poi, ulteriormente, innalzata, per effetto della riforma introdotta dal d. Igs. n. 158 del 2015, ad Euro 50.000,00. Ebbene - come già visto - al momento della commissione dei fatti di reato, la soglia, certamente più sfavorevole per l'imputato, era di Euro 30.000,00. In perfetta conformità all'art. 2 cod. pen., pertanto, la Corte di appello ha preso in considerazione il valore minimo di Euro 50.000,00, introdotto da una legge che, ancorché cronologicamente successiva alla consumazione della condotta delittuosa, è più favorevole; né, all'opposto, potrebbe, in alcun modo, ritenersi applicabile la soglia - nonostante ciò, richiesta dal ricorrente - di Euro 77.468,53, tacitamente abrogata, già al momento della commissione dei fatti. Allo stesso modo, la prospettazione della difesa non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui - a pag. 21 - indica, espressamente, i molteplici elementi posti a fondamento della mancata configurabilità, nel caso di specie, della particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis cod. pen. Né, infine, può ritenersi sopraggiunta la prescrizione. Valgono sul punto le considerazioni svolte, limitatamente al calcolo del termine prescrizionale, sub 1.4., con la differenza che, per l'anno di imposta 2011, il reato si è consumato in data 30 dicembre 2012; di talché il termine prescrizionale - dovendosi, parimenti, applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione - potrà considerarsi maturato soltanto in data 31 marzo 2024. 1.5 L'ultima doglianza - concernente la violazione delle norme in materia di attenuanti generiche e di determinazione della pena - è parimenti inammissibile. Le asserzioni della difesa risultano meramente valutative, giacché dirette ad ottenere una diversa analisi di circostanze già puntualmente considerate dal giudice di secondo grado. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il d.l. n. 92 del 23 maggio 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 24 luglio 2008, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (ex multis, Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489; Sez. 1, n. 39566 del 16 febbraio 2017, Rv. 270986). Conformemente a ciò, la Corte di appello, alla pag. 23 della sentenza gravata, ha dato debitamente conto dell'assenza di elementi di valore, ulteriori rispetto alla sola mancanza di precedenti penali, utilmente apprezzabili ai fini dell'applicazione delle attenuanti generiche, rilevando, sul punto: le finalità fraudolente dell'operato del ricorrente, comportante il coinvolgimento di più soggetti; il particolare disvalore dei fatti; l'assenza di qualsivoglia sintomo effettivo di resipiscenza; la protrazione della condotta fraudolenta; la reiterata indisponibilità dell'In.Gi. ad estinguere le pendenze con l'erario; la costante ricerca - ben desumibile dalle risultanze degli atti di indagine - di nuovi prestatori utili alla perpetrazione della condotta illecita. Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa e a prescindere dall'arbitrarietà del computo della pena da questa proposto, va rilevato che, trattandosi di reato unitario ai sensi dell'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 74 del 2000, perfezionatosi in data 2 dicembre 2011, non poteva considerarsi vigente, all'epoca, l'originaria formulazione dell'art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 74 del 2000, abrogata, a decorrere dal 18 settembre 2011, dalla citata legge n. 148 del 2011. 2. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della 00,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 11 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Relatore Dott. AIELLI Lucia - Consigliere Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da Ru.An. n. a L il (omissis) avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze in data 17/5/2022 visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; letta la memoria a firma del difensore, Avv. Vi.Pe.; udita la relazione svolta dal Consigliere Anna Maria De Santis; udita la requisitoria del Sost. Proc. Gen. Vincenzo Senatore,che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. Vi.Pe., che ha illustrato i motivi, chiedendone l'accoglimento RITENUTO IN FATTO l. Con l'impugnata sentenza la Corte d'Appello di Firenze riformava limitatamente al trattamento sanzionatorio la decisione del Gup del Tribunale di Pisa che, in esito a giudizio abbreviato, aveva riconosciuto Ru.An. colpevole di più episodi di rapina aggravata e furto pluriaggravato commessi in concorso, rideterminando la pena, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, nella misura di anni sette, mesi due di reclusione ed Euro tremila di multa. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato, Avv. Vi.Pe., il quale ha dedotto: 2.1 il vizio di motivazione in relazione alla valutazione delle chiamate in correità degli imputati in procedimento connesso, Pi.Gi. e Vi.Ci., sotto il profilo della credibilità intrinseca del chiamante e della sussistenza di riscontri esterni individualizzanti ai sensi dell'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. Con riguardo alla rapina commessa in danno del Palabingo di N in data 19/12/2012 il difensore lamenta che la Corte d'appello si è limitata ad indicare genericamente quali elementi di riscontro alla chiamata del Pi.Gi. le risultanze dei tabulati telefonici, i contatti tra l'imputato ed altri componenti del gruppo e il noleggio da parte del prevenuto di furgoni dello stesso tipo di quelli utilizzati nelle rapine, senza alcun approfondimento argomentativo. Con riferimento agli ulteriori sette episodi di rapina ascritti al ricorrente, dopo aver richiamato gli asseriti elementi di riscontro del tutto genericamente, la Corte di merito non ha risposto alle doglianze difensive e ha trascurato di considerare che, sebbene il Pi.Gi. abbia dimostrato di conoscere i mezzi di volta in volta nella disponibilità del ricorrente, la presenza di tali veicoli non è mai stata accertata nei luoghi delle rapine, con la sola eccezione del Fiat Ducato bianco avvistato in occasione della rapina alla Banca Popolare di L, e che in talune occasioni i mezzi noleggiati non risultano utilizzati. Inoltre, non constano contatti telefonici tra il Ru.An. e i chiamanti in correità ma solo tra il ricorrente e l'ex moglie ovvero la cugina mentre il fatto che l'utenza del prevenuto abbia attivato celle in aree limitrofe alla zona di residenza o di lavoro è emergenza priva di capacità indiziante. Secondo il difensore gli elementi di riscontro utilizzati dalla Corte di merito hanno un valore soltanto identificativo e non individualizzante. Quanto alle fattispecie di furto aggravato, il difensore sostiene che i giudici territoriali hanno confermato la responsabilità del prevenuto argomentando circa la strumentalità dei furti rispetto alle rapine pianificate in maniera tautologica mentre con riguardo alla credibilità intrinseca del Pi.Gi. e del Vi.Ci. hanno del tutto trascurato la valutazione delle sentenze prodotte con l'atto d'appello, in particolare quella del GUP del Tribunale di Livorno in data 11/10/2016 che assolveva l'odierno ricorrente da alcuni episodi di rapina ritenendo le chiamate in correità di Pi.Gi. e Vi.Ci. prive di riscontri esterni e la sentenza del Gup del Tribunale dì La Spezia che assolveva l'imputato da rapine contestate in concorso con il Vi.Ci. per difetto di credibilità intrinseca ed assenza di riscontri; 2.2 il vizio di motivazione con riguardo alla valutazione dei tabulati telefonici come prova alla stregua della regola legale di valutazione introdotta dall'art. 1 D.L. n. 132/2021 convertito nella L. 178/2021. Il difensore sottolinea che il principale e spesso unico riscontro alle chiamate in correità nei confronti dell'imputato è costituito dalle risultanze dei tabulati telefonici che attesterebbero la sua presenza in luoghi compatibili con quelli di consumazione degli episodi delittuosi a giudizio. A detto riguardo precisa che le indicazioni provenienti dai tabulati telefonici possono fornire dati fuorvianti avuto riguardo alla conformazione territoriale della cella e al posizionamento dell'antenna. Inoltre, alla luce della disposizione transitoria di cui alla legge 178/2021, i dati emergenti dai tabulati regolarmente acquisiti secondo la normativa previgente possono essere utilizzati a carico dell'imputate solo "unitamente ad altri elementi di prova" allorché si proceda per taluno dei reati indicati nella stessa norma. Secondo il ricorrente deve escludersi la possibilità di ritenere riscontrata la chiamata in correità in forza dei tabulati, i quali - a loro volta - per assurgere al rango di prova necessitano di elementi di conforto. In data 25 Gennaio il difensore ha confutato le conclusioni rassegnate dal P.g. con la memoria versata in atti. CONSIDERATO IN DIRITTO l. Le censure formulate in quanto strettamente connesse e complementari rispetto alla denunzia dell'erronea valutazione della prova e del vizio di motivazione in ordine alle doglianze difensive sul punto possono essere congiuntamente delibate e attingono esiti di manifesta infondatezza. La Corte territoriale ha, infatti, debitamente scrutinato e disatteso i rilievi difensivi con corretti argomenti giuridici e motivazione priva di aporie e frizioni logiche sia con riguardo alla attendibilità dei chiamanti in correità Pi.Gi. e Vi.Ci. che con riferimento all'esistenza di riscontri esterni individualizzanti. Invero, la motivazione rassegnata dai giudici d'appello con riguardo al giudizio di penale responsabilità del prevenuto è del tutto conforme a quella di primo grado, di cui ha condiviso i criteri di valutazione della prova e gli esiti attinti sicché le trame giustificative dei due giudici di merito si integrano a vicenda secondo i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità. 1.1 Sono del tutto infondate le doglianze che lamentano il vizio di motivazione in relazione alla valutazione delle chiamate in correità dei coimputati Pi.Gi. e Vi.Ci. sia con riguardo all'attendibilità intrinseca che all'esistenza di riscontri individualizzanti. Come ben chiarito dal primo giudice, che ha analizzato ciascuno degli episodi delittuosi a giudizio (pag. 17), la credibilità intrinseca del Pi.Gi. poggia sul rilievo che le dichiarazioni auto ed etero accusatorie dal medesimo rese risultano precise, circostanziate e rese in una fase precocissima delle indagini tale da escludere sia la conoscenza dei già acquisiti risultati investigativi che accordi con i correi, pressioni di terzi o intenti calunniatori. Inoltre, il Gup ha evidenziato che la ricostruzione dei singoli episodi delittuosi ha trovato riscontro nelle riprese delle telecamere di videosorveglianza poste nelle banche rapinate dalle quali il Pi.Gi., che agiva senza travisamento, risulta facilmente identificabile. Il dichiarante (pag. 12 e segg.) ha ricostruito in dettaglio le singole azioni delittuose, indicando i ruoli di ciascuno dei chiamati e in particolare descrivendo l'odierno prevenuto come colui il quale era incaricato di reperire i furgoni usati per accompagnare il Pi.Gi. in prossimità delle banche da rapinare, recuperandolo successivamente in posti convenuti, mentre insieme al Vi.Ci. si occupava anche della sottrazione di veicoli e ciclomotori usati per il trasporto degli altri rapinatori e la successiva fuga. 1.2 Il difensore sostiene che i giudici di merito abbiano erroneamente valutato le fonti a carico del ricorrente in relazione alla rapina in danno del Palabingo di N, ritenendo del tutto generici e lacunosi gli argomenti posti a fondamento della reiezione del gravame difensivo. La Corte di merito alle pagg. 10/11 ha confermato l'attendibilità del Pi.Gi. che, nella specie, ha riferito di confidenze ricevute dal Ru.An. circa la sua diretta partecipazione alla commissione dell'illecito ed ha richiamato gli elementi di riscontro (ampiamente illustrati dal primo giudice pagg. 18/19), costituiti dall'intenso traffico telefonico registrato il 19/12/2012, tra le ore 10,30 e le ore 11,20 (arco temporale di consumazione del reato) tra il prevenuto e Le.An. mediante apparecchi che agganciavano entrambi le celle ubicate in N e quelle limitrofe. I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui i riscontri esterni consistono in ulteriori, specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, garantendo, nelle ipotesi di carattere indiretto dell'accusa, la puntuale verifica del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa. 1.3 Nella specie la difesa omette di considerare che, alla luce delle conformi sentenze di merito, un primo inoppugnabile riscontro alle dichiarazioni del Pi.Gi. proviene dalle dichiarazioni del coimputato Vi.Ci. (sent. Gup pag. 19), il quale - oltre ad aver ammesso la propria responsabilità in relazione ai furti contestati ai capi Q,S,U,X - ha riferito che gli stessi avvennero su commissione del Ru.An., fornendo specifica conferma alle dichiarazioni del Pi.Gi. circa il ruolo del prevenuto nel gruppo delittuoso. Questa Corte ha in più occasioni chiarito che, in tema di chiamata in correità, qualora i riscontri esterni siano costituiti da ulteriori dichiarazioni accusatorie, esse devono convergere in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione ed avere portata individualizzante, intesa quale riferibilità sia alla persona dell'incolpato che alle imputazioni a lui ascritte, senza che possa pretendersi la piena sovrapponibilità dei loro rispettivi contenuti narrativi, dovendosi piuttosto privilegiare l'aspetto sostanziale della concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere (Sez. 6, n. 47108 del 08/10/2019 Rv. 277393 - 01; Sez. 2, n. 13473 del 04/03/2008, Rv. 239744 - 01). 1.4 Non può, dunque, riconoscersi pregio all'assunto difensivo secondo cui gli elementi di riscontro al narrato del Pi.Gi. sarebbero costituiti unicamente dalle risultanze dei tabulati telefonici che lo collocano in occasione delle rapine in prossimità dei luoghi di consumazione, in conformità al ruolo di autista riferito dal collaboratore, sia per l'esistenza di elementi di corroborazione di natura dichiarativa sia perché l'assolvimento della funzione di riscontro richiesta dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non richiede che l'elemento utilizzato abbia i requisiti della prova autonoma (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Rv. 260607 - 01;Sez. 1, n. 31004 del 10/05/2023, Rv. 284840-01). Alla luce delle considerazioni svolte, non appaiono, pertanto, condivisibili i rilievi in ordine alla pretesa, strutturale inidoneità degli esiti dei tabulati a corroborare l'accusa per effetto delle intervenute modifiche normative, avendo la giurisprudenza di legittimità già chiarito in più occasioni che la regola legale di valutazione della prova costituita dai dati esterni del traffico telefonico e telematico, introdotta dalla norma transitoria di cui all'art. 1-bis D.L. 30 settembre 2021, n. 132, convertito nella legge 23 novembre 2021, n. 178, deve ritenersi ottemperata quando l'affermazione di penale responsabilità dell'imputato si fondi non solo sui dati del traffico telefonico, ma anche di elementi di prova ulteriori, dotati di autonoma forza dimostrativa (Sez. 3, n. 47034 del 17/10/2023, Rv. 285419 - 01; Sez. 4, n. 50102 del 05/12/2023, Rv. 285469 - 01; Sez. 2, n. 11283 del 03/02/2023, Rv. 284600 - 01). 2. Risulta manifestamente infondato anche il rilievo relativo alla mancata considerazione delle sentenze di assoluzione allegate alle conclusioni scritte rassegnate in appello, trattandosi di produzione sottratta al contraddittorio cartolare con il P.g. e, comunque, priva di decisività giacché deve negarsi che il governo delle emergenze processuali proprie del processo possa essere condizionato da apprezzamenti in diritto inerenti vicende: diverse e distinte. In particolare, con riguardo alle dichiarazioni del Pi.Gi. deve escludersi l'erronea applicazione dello statuto probatorio di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., rigorosamente osservato dal primo giudice che, proprio per effetto della ritenuta assenza di riscontri individualizzanti, aveva mandato assolto i coimputati Ma. e Pa. e lo stesso Vi.Ci. in relazione alle fattispecie di rapina. 3. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d'esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, 2 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. MARI Attilio - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere Rel. Dott. CIRESE Marina - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Bo.Hi. nato il (Omissis) El.Ab. nato il (Omissis) avverso l'ordinanza del 20-11-2023 del TRIB. RIESAME di TORINO udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; lette le conclusioni del PG MARILIA DI NARDO che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza pronunciata a norma dell'art. 309 cod. proc. pen., il Tribunale di Torino ha annullato l'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Bo.Hi. in ordine al reato contestato al capo 2) e ha confermato detta ordinanza applicativa della misura in ordine ai restanti sette distinti reati di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. 9 ottobre 1990 n 309 (capi 1, 3, 5, 6, 8, 9, 11) e al reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990 (capo 16); ha confermato l'ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di El.Ab. in ordine a sette distinti reati di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (capi 17, 19, 20, 21, 22, 23, 24) e al reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990 (capo 25). Il Tribunale distrettuale ha desunto la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dalle risultanze di una complessa attività di indagine, consistita in attività di intercettazione, servizi di osservazione e controllo, sequestri di sostanza stupefacente (per un quantitativo complessivo di 458 chilogrammi di hashish, 550 grammi di cocaina e 1 chilogrammo di marijuana), che aveva consentito di disvelare l'esistenza di ben due associazioni a delinquere, finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti. Una prima associazione facente capo all'odierno ricorrente Bo.Hi., detto (Omissis), che annoverava tra i suoi membri Ri.Yo., El.Ab., El.Ya., El.El., El.Ba., Ja.Im., El.El., Le.Ab. Una seconda associazione capeggiata da Sa.Le. e composta dal ricorrente El.Ab. e da un soggetto non identificato di nome Si., quali partecipi. 2. Contro l'ordinanza, hanno proposto ricorso, a mezzo del loro difensore Bo.Hi. e El.Ab. 2.1. La difesa di Bo.Hi. ha formulato un unico articolato motivo con cui ha dedotto la violazione di legge (e in specie dell'art. 192 cod. proc. pen.) e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della gravità indiziaria in ordine ai delitti scopo e al delitto associativo. Il difensore osserva che il ricorrente è stato identificato come soggetto coinvolto in plurime operazioni di detenzione e cessioni di rilevanti quantitativi di sostanza stupefacente, in quanto nel corso dei dialoghi intercettati alcuni soggetti facenti parte del sodalizio avevano fatto riferimento a Bo.Hi., nome di battesimo dell'imputato: tale identificazione sarebbe, tuttavia, debole, essendo il nome Bo.Hi. assai frequente nelle regioni magrebine. Solo con riferimento alla contestazione di cui al capo 2, la lettura coordinata della relazione di servizio, con cui si dava atto che Bo.Hi. era stato visto recarsi con il cugino nello studio del legale di Le.Ab., e dei dialoghi intercettati, aveva consentito di identificare Bo.Hi. come Bo.Hi., ma tale identificazione non poteva valere in relazione alle altre imputazioni contestate. Il difensore, inoltre, quanto al reato associativo di cui al capo 16), lamenta che gli elementi tratti dalle conversazioni intercettate fra soggetti terzi non valevano a configurare indizi gravi precisi e concordanti in ordine al suo ruolo di partecipe, in quanto il contenuto di tali dialoghi non era chiaro e, comunque, non era certo che l'Bo.Hi. ivi menzionato fosse proprio il ricorrente. Il dato pacifico per cui Bo.Hi. si era interessato per il pagamento delle spese legali di Le.Ab. non valeva a provare che egli si fosse interessato al sostentamento anche di altri sodali. In ogni caso, posto che nella stessa ordinanza genetica si affermava che del sostentamento di Le.Ab. si erano occupati anche altri associati, non poteva dirsi che la condotta di Bo.Hi. valesse a provare il suo ruolo apicale. Quanto al reato di cui al capo 3) (relativo all'acquisto, trasporto e detenzione a fini di spaccio di una imprecisata quantità di cocaina per un valore di oltre 90.000 Euro tra il 10 e il 20 ottobre 2021), il difensore osserva che il coinvolgimento del ricorrente sarebbe stato desunto da una conversazione ambientale in cui, a proposito del ricavato della vendita della cocaina nel territorio friulano, si era affermato che dovesse essere consegnato a Bo.Hi. (n. 526 del 24 ottobre 2021): da un lato, tuttavia, la identificazione di Bo.Hi. nell'odierno ricorrente, per le ragioni già dette, doveva ritenersi dubbia e, dall'altro, in tutte le conversazioni evocate nell'ordinanza cautelare a ricostruzione delle vendite di cocaina nel territorio friulano, mai era stato nominato Bo.Hi., quale compartecipe delle transazioni. La captazione su indicata sarebbe stata malintesa: non è certo chi sia l'Bo.Hi. del quale sarebbero dovute le somme; non è certo che la somma sia pari a 90.000 Euro; non è certo che la somma dovuta sia il ricavato delle vendite del 14 e del 20 ottobre 2021; vengono effettuati conteggi riferiti a To. che non consentono un' univoca lettura dei fatti. Quanto al reato di cui al capo 6) (relativo alla detenzione e trasporto di 210 kg. di hashish ceduti in parte a soggetti non identificati e in parte a Ac.Ch. e Bi.Gu. tra il 22 e il 23 dicembre 2021 e il 5 gennaio 2022), il coinvolgimento del ricorrente era stato desunto dalla conversazione n. 135 del 22 dicembre 2021 tra El.Ab. e El.Ab. e Ri.Yo., in cui i due avevano fatto riferimento a tale La., identificato dagli investigatori in Bo.Hi., senza che, tuttavia, tale identificazione possa dirsi certa. Quanto al reato di cui al capo 8) (relativo all'acquisto, trasporto e detenzione di 193,530 kg. di hashish e 993,48 gr. di marijuana il 14 gennaio 2022), il coinvolgimento del ricorrente era stato desunto dalla conversazione ambientale n. 2386 del 14 gennaio 2022, da cui era emersa la contrarietà di El.Ya. alle disposizioni impartite da Bo.Hi. circa lo spostamento dello stupefacente, senza che, tuttavia, la identificazione di Bo.Hi. possa dirsi certa. Quanto al reato di cui al capo 9) (relativo all'acquisto, trasporto e detenzione di un imprecisato quantitativo di cocaina il 9 febbraio 2022), il coinvolgimento del ricorrente era stato desunto dalla presenza in tale data dell'auto nella sua disponibilità nella carrozzeria, ove era giunta l'auto Fiat Bravo in uso a Ja.Im. e ove si trovava l'auto Renault Twingo di Sa.Le., e dal fatto che le due auto dopo alcuni giri di perlustrazione avevano parcheggiato vicino ad un furgone, che aveva poi ripreso la marcia in direzione dell'autostrada: secondo il collegio l'incontro aveva avuto ad oggetto la consegna di sostanza stupefacente del tipo cocaina, in quanto un mese dopo, Ja.Im. aveva manifestato ad un suo cliente la disponibilità di sostanza stupefacente. La deduzione - osserva il difensore - sarebbe meramente congetturale. Quanto al reato di cui al capo 11) (relativo all'acquisto, trasporto e detenzione di 136 kg. di hashish tra i 7 e 1'11 aprile 2022), il coinvolgimento del ricorrente era stato desunto dalla conversazione n. 2528 del 21 gennaio 2022 fra El.Ya. e El.El., in cui i due avevano menzionato Bo.Hi., identificato dagli inquirenti in Bo.Hi., senza che, tuttavia, la identificazione possa dirsi certa. 2.2. La difesa di El.Ab. ha formulato un unico motivo con cui ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta gravità indiziaria del reato associativo. Il difensore segnala l'anomalia di un'associazione composta da sole tre persone, di cui una non identificata che vi avrebbe partecipato con il ruolo di ritirare la sostanza stupefacente, trasportarla e consegnarla Sa.Le., capo dell'associazione, e a El.Ab.In proposito il difensore osserva che l'ipotizzata ripartizione dei ruoli sarebbe smentita dallo stesso tenore dei capi di imputazione, posto che: - quanto al capo 21), nell'ipotesi accusatoria El.Ab. il 15 dicembre 2021 si sarebbe recato in territorio lombardo a ritirare un carico di hashish e lo avrebbe portato a Torino; - quanto al capo 22), nell'ipotesi accusatoria il 3 febbraio 2022 Sa.Le. si sarebbe recato nel comune di C dove avrebbe ritirato era un soggetto non identificato un imprecisato quantitativo di hashish e lo avrebbe portato a Torino; - quanto al capo 23), nell'ipotesi accusatoria 1'8 febbraio 2022 Sa.Le. si sarebbe recato nel comune di C dai soliti fornitori per acquistare sostanza stupefacente e l'avrebbe portata a Torino; - quanto al capo 19) per gli investigatori sarebbe stato El.Ab. a ritirare un imprecisato quantitativo stupefacente dai fornitori di Milano e Sa.Le. a consegnare la sostanza a Si., al fine di ultimare la consegna ai clienti in Toscana. Solo negli episodi del 15 dicembre 2021 e del 3 marzo 2022 (capo 24) El.Ab. avrebbe affidato, in assenza del complice Sa.Le., a Si. l'incarico di ritirare lo stupefacente a M . Dunque il terzo associato, oltre tutto non identificato, avrebbe agito con il ruolo di corriere solo in due occasioni, la seconda delle quali per interessamento del solo El.Ab., in assenza del complice Sa.Le., a fronte di sei transazioni accertate nell'hinterland milanese. II terzo associato, inoltre, avrebbe agito quale corriere a favore del solo Sa.Le. per un periodo marginale, dall'ottobre 2021 al marzo 2022, rispetto a quello di esistenza dell'associazione, avviata nel 2020 e tutt'ora operante, secondo la contestazione di cui al capo di imputazione. Ne consegue - secondo il difensore - che la piattaforma investigativa a disposizione non sarebbe sufficiente a delineare la gravità indiziaria in ordine al reato associativo, soprattutto sotto il profilo dell'esistenza di una struttura organizzativa: la predisposizione e l'utilizzo di un veicolo attrezzato con il doppio fondo e l'uso di cellulari non intercettabili non sarebbero elementi sufficienti, in quanto si tratterebbe di dotazione minima riconducibile anche ad un mero trasporto concorsuale di sostanze stupefacenti. La motivazione dell'ordinanza sarebbe deficitaria nella parte relativa alla stabile adesione del soggetto non identificato al reato associativo, apparendo questi, invece, un mero concorrente con un ruolo fungibile e secondario nella commissione di quattro trasporti (capi 18, 19, 20 e 24), commessi in un breve arco di tempo, da novembre 2021 a marzo 2022, in assenza di indizi circa la percezione di compensi o di partecipazione pro quota agli utili conseguiti dal gruppo, ovvero anche solo di utilizzo di utenza telefonica dedicata per le comunicazioni fra sodali. 3. Il Procuratore generale, in persona del sostituto Marilia di Nardo, ha formulato conclusioni scritte con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di Bo.Hi. deve essere dichiarato inammissibile e il ricorso di El.Ab. deve essere rigettato. 2. Si deve ricordare che "in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito" (Sez. 2, n. 27866 del 17-06-2019, (Omissis), Rv. 276976 -01). L'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. è, quindi, rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o in mancanza o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato. Ne consegue che non sono consentite censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze esaminate dal giudice dì merito (quanto al contenuto essenziale dell'atto di impugnazione, pare sufficiente richiamare il consolidato orientamento di questa Corte di legittimità, rinviandosi sez. 6 n. 8700 del 21-01-2013, Rv. 254584, in motivazione; Sezioni Unite n. 8825 del 27-10-2016, dep. 2017, (Omissis), Rv. 268822, sui motivi d'appello, ma i cui principi possono applicarsi anche al ricorso per cassazione). Con riferimento specifico al mezzo di prova delle intercettazioni, questa Corte ha stabilito che l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26-2-205, (Omissis), Rv. 263715-01), essendo, dunque, sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (sez. 3, n. 44938 del 5-10-2021, (Omissis), Rv. 282337). 3. Così ricostruito il perimetro del sindacato di legittimità, il motivo di ricorso dedotto da Bo.Hi. deve ritenersi manifestamente infondato e ai limiti della inammissibilità, in quanto meramente reiterativo delle doglianze già dedotte, in assenza di puntuale confronto con le ragioni individuate nel provvedimento impugnato. 3.1. La contestazione della gravità indiziaria in ordine alla partecipazione al reato associativo si fonda, in primis, sulla asserita incertezza della identificazione del ricorrente nel soggetto che nel corso dei colloqui intercettati viene indicato come Bo.Hi. e La.. I giudici hanno osservato, quanto al preliminare profilo della identificazione, che nell'indagine non erano stati attenzionati altri soggetti aventi il medesimo nome; che nei dialoghi captati in relazione al reato di cui capo 2) - rispetto al quale l'indagato, durante le dichiarazioni spontanee rese in udienza, aveva ammesso l'interessamento per il pagamento delle spese legali del coindagato e quindi un suo coinvolgimento, seppur estemporaneo e successivo all'arresto - lo stesso era stato chiamato in più occasioni con il nome Bo.Hi.; che la riferibilità a Bo.Hi. anche del soprannome "La." era stata puntualmente spiegata dal primo Giudice a p. 15 dell'ordinanza. Quanto alla censura relativa al riconosciuto ruolo apicale di Bo.Hi. all'interno del sodalizio, il Tribunale ha osservato che, nel periodo oggetto di osservazione, il ricorrente era intervenuto quando gli altri associati erano stati arrestati (non solo nella vicenda di Le.Ab., ma anche in quella di El.Ab. e di El.El.); aveva ricevuto i proventi dei reati-fine e aveva impartito direttive sulla riscossione dei crediti (v. capo 5, progr. n. 71 del 18.12.2021: "se ti dice domani digli di no, digli stasera vengo da te, mi ha detto Bo.Hi. di essere duro con lui "comunque tu con Sa.Le. sii duro con lui"), sulle forniture (capo 6, progr. n. 135 del 22.12.2021: "Allora ha detto La. (ndr. Bo.Hi.) tra un po' chiama Ka. e digli che il nostro fratello che lo chiamerà domani pomeriggio ... digli che lui gli riferisce che domani verrà domani mattina il ragazzo di M ... e digli che lui (ndr. Bo.Hi.) gli dice che rimarranno cinque")' sulle consegne (capo 7, progr. n. 187 del 04.01.2022: "senti qua, per quella che è già aperta, visto che io gli ho detto che non mancava nulla, ma La. (ndr. Bo.Hi.) mi ha detto di darglielo lo stesso così come sono...senti, ritornando al discorso di quella che è aperta,. ha detto di sistemargliela in un borsone") e sulle modalità di organizzazione dei traffici; si era interessato ad eventuali controlli da parte delle Forze dell'Ordine (capo 8); aveva fornito le direttive organizzative agli altri sodali (Si veda, ad esempio, progr. n. 2386 del 14.01.2022 in occasione dell'arresto di El.Ab.: "io ho detto ad Bo.Hi. di non farlo andare"; oppure il progr. n. 2528 del 28.01.2022: "io lo dirò a Bo.Hi., gli dirò che io non ho alcun potere su di lui, gli dirò che sei mio fratello, mio figlio, e il figlio di mia sorella "). 3.2.Con riferimento al coinvolgimento nei delitti scopo, il Tribunale ha richiamato: - quanto ai capi 6), 8) e 11), a fronte della generica censura del ricorrente, per cui non vi era alcuna certezza che il soggetto chiamalto Bo.Hi.- La. fosse Bo.Hi., le considerazioni sopra riportate a proposito, appunto, della identificazione; - quanto al capo 3), la conversazione, captata in ambientale, intercorsa tra El.El. ed El.Ya. il giorno 24.10.2021 (progr. n. 516, ali. n. 15) nel corso della quale, appena tornati dalla seconda trasferta in Friuli ove avevano venduto parte dello stupefacente ottenuto pochi giorni prima, i due discorrono di denaro da consegnare a Bo.Hi. ed eseguono un lungo conteggio: il fatto che l'Bo.Hi. citato sia da identificarsi nell'odierno ricorrente è confermato anche dall'esclamazione "Eccolo" pronunciata da El.Ya. alla ricezione di un messaggio vocale da Bo.Hi., subito dopo aver parlato di Bo.Hi.; nella conversazione i sodali fanno riferimento proprio allo smercio della partita di stupefacente appena conclusa in Friuli, come dato desumere dalla data in cui questa conversazione è intervenuta (il 24.10.2021, ovvero il giorno dopo il ritorno a Torino dalla trasferta) e dalle frasi pronunciate contenenti espliciti rimandi temporali; nella conversazione di cui si discute gli indagati riportano varie cifre, ma da una lettura complessiva dell'intero dialogo si comprende che quelle cifre rappresentano soltanto il saldo di un debito maggiore pari all'incirca a 90.000 Euro ('allora aggiungila, ora a quanto siamo?" "siamo a 90.000" "e noi ora quanto gli dobbiamo ancora dare?" "88 e 350" ... "Se aggiungo i 4800 farà 90.000, si + 4800 ecco sono 90.000" ... "a me sembra che ci siano in più 2000 Euro se facciamo il conteggio totale" "4500, sì solo che io non ho scalato tutto quello, io ora ti dico il totale"); - quanto al capo 9), l'attività di osservazione che aveva monitorato Bo.Hi. mentre partiva, unitamente all'autovettura Fiat Bravo tg. (Omissis), dalla carrozzeria "German Car di Br.Il." e si recava in via Ce. angolo via Bo., ove era avvenuto l'incontro con un furgone con targa olandese. Immediatamente dopo la partenza del furgone e dell'altra auto, Bo. era stato visto eseguire in macchina due giri dell'isolato come a voler controllare la zona. L'incontro -secondo i giudici - aveva avuto a oggetto la consegna di sostanza stupefacente di tipo cocaina, come attestato dalle preoccupazioni manifestate da alcuni sodali in merito alle sopravvenute difficoltà economiche a seguito dell'arresto di El.Ab., avvenuto in data 14.01.2022; dall'utilizzo dell'autovettura Fiat Bravo, che era stata appositamente cercata dai sodali qualche giorno prima proprio per essere adoperata a tale scopo; dalle modalità e circostanze in cui era avvenuto l''incontro, per pochi minuti, in una zona vicina all'autostrada, con un automezzo proveniente dall'Olanda, preso a noleggio per soli tre giorni da un soggetto già gravato da precedenti per violazione della normativa sugli stupefacenti; dalle conversazioni intercettate successivamente, da cui si era compreso che il conducente della Fiat Bravo, identificato in Ja.Im., smerciava cocaina al dettaglio e in un'occasione era stato contattato dallo stesso Bo.Hi. 3.3. Il percorso argomentativo del Tribunale del Riesame, nel tratteggiare i gravi indizi di colpevolezza in ordine a tutti i delitti contestati, appare adeguato e non manifestamente illogico nelle inferenze tratte dai dati riportati. Di contro si deve rilevare, in primo luogo, che il richiamo contenuto nel motivo di ricorso alla violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. è del tutto inconferente, avendo questa Corte già da tempo precisato che in tema di applicazione di misure cautelari personali, gli indizi di colpevolezza non devono essere valutati secondo i medesimi criteri richiesti per il giudizio di merito, essendo sufficiente la sola gravità di essi, evidenziata da qualsiasi elemento idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità della responsabilità dell'indagato, e non anche la precisione e la concordanza. In tale senso si è evidenziato che la previsione di cui all'art. 273, comma 1-bis, cod. proc. pen. richiama espressamente quelle di cui ai commi 3 e 4 dell'art.192 cod. proc. pen., ma non quella di cui al comma 2) (Sez. 2, n. 8948 del 10-11-2022, dep. 2023, (Omissis), Rv. 284262; Sez. 4, n. 22345 del 15-05-2014, (Omissis), Rv. 261963 ; Sez. 4, n. 18589 del 14-02-2013, (Omissis), Rv.255928; Sez. 5, n. 36079 del 05-06-2012, (Omissis), Rv. 253511). Ciò premesso, le censure del ricorrente sono meramente generiche nel negare la portata dimostrativa delle risultanze delle indagini e non valgono, pertanto, a incrinare il tessuto motivazionale dell'ordinanza, che in maniera approfondita, con puntuale richiamo ai passaggi significativi delle conversazioni intercettate, ha replicato alle doglianze sollevate con il riesame. La ritenuta identificazione di Bo.Hi. è stata dedotta, in maniera non irragionevole, dalle circostanze sopra indicate e così pure la gravità indiziaria è stata desunta da una pluralità di elementi tratti dalle conversazioni intercettate. Di contro la contestazione del contenuto di dette conversazioni e della loro valenza dimostrativa è, come anticipato, inammissibile, in quanto si risolve in una questione di fatto di competenza del giudice del merito, non deducibile, perciò, in sede di legittimità al di fuori delle ipotesi di manifesta illogicità della motivazione. 4. Il motivo di ricorso di El.Ab. è infondato. Il ricorrente ha contestato la congruità della motivazione dell'ordinanza impugnata con riferimento alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato associativo, rilevando, in sostanza, come difettasse nel caso di specie sia la divisione dei ruoli fra i tre associati, sia una vera e propria struttura organizzativa con predisposizione di mezzi. Il percorso argomentativo del Tribunale delinea in maniera sufficiente l'esistenza, sotto il profilo della gravità indiziaria, della associazione contestata al ricorrente ed è perciò esente dal vizio denunciato. Sotto il profilo della divisione dei ruoli, il Tribunale ha osservato che Si. non si era limitato a fornire un proprio contributo estemporaneo in alcune occasioni specifiche, ma era risultato perfettamente inserito nel gruppo: egli, oltre a essere stato coinvolto in quattro trasporti su sette tra quelli monitorati, aveva preso parte anche a ulteriori spostamenti di stupefacente, anteriori all'avvio dell'attività investigativa, come dato desumere dal tenore delle prime conversazioni intercettate, in cui aveva dimostrato consuetudine di rapporti e risalente abitudine al ruolo di corriere (progr. n. 29 del 16.10.2021; progr. n. 1124 del 02.03.2022); Si., inoltre, aveva contatti sia con Sa.Le., sia con El.Ab., che gli fornivano l'autovettura appositamente predisposta per il trasposto dello stupefacente e gli impartivano ordini sia sulle modalità del trasporto, sia sulla ricezione del denaro. A parere del Tribunale, dunque, tutti tali elementi valevano a dimostrare il forte legame tra i tre associati e l'intraneità di Si. all'associazione, della quale verosimilmente facevano parte anche altri so9getti non ancora identificati. Sotto il secondo profilo, il Tribunale ha dedotto l'esistenza di un apparato, che prescindeva dalla realizzazione di singoli reati scopo, dall'utilizzo indistinto, da parte di tutti i correi di un veicolo dotato di un vano nascosto con apertura elettrica; dalle precauzioni adottate in occasione dei trasporti (quale quella di lavare accuratamente il veicolo prima e dopo il viaggio per eliminare eventuali odori o residui di stupefacente); dal supporto fornito da vari soggetti (dal meccanico di fiducia ai presumibili custodi della sostanza); dall'adozione del medesimo modus operandi in relazioni a traffici illeciti di entità significativa; dalle modalità di reimpiego dei guadagni incamerati tramite strumenti esteri di riciclaggio. I giudici hanno rilevato che la movimentazione di così ingenti quantitativi di stupefacente in un arco di tempo limitato non poteva che presupporre, a monte, l'esistenza di una struttura, di mezzi e persone, che, per quanto rudimentale, aveva le caratteristiche per porsi sul mercato illecito, in modo tendenzialmente stabile. I giudici hanno anche sottolineato che l'organizzazione poteva contare su saldi e plurimi legami all'estero, utilizzati per provvedere al pagamento del corrispettivo e al riciclaggio dei proventi: le modalità di reinvestimento dei capitali di illecita provenienza attraverso il ricorso a forme di complicità offerte da soggetti di nazionalità cinese al fine di trasferire le somme verso la Spagna era segno evidente - secondo il Tribunale - di un progetto delittuoso caratterizzato dal ricorso a forme operative imprenditoriali e organizzate. La motivazione del Tribunale, coerente con i dati riportati, ha in maniera logica desunto l'esistenza della struttura organizzativa dalla comprovata esistenza di un apparato di mezzi, in aderenza al consolidato principio per cui per la configurabilità dell'associazione dedita al narcotraffico non è richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l'esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune, create in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, con il contributo dei singoli associati (Sez. 6 n. 2394 del 12-10-2021, dep. 2022, Rv. 282677; Sez. 2, n. 19146 del 20-02-2019, (Omisssis), Rv. 275583). Il ricorrente, nel dolersi che i mezzi individuati da parte del Tribunale fossero insufficienti a delineare l'esistenza di una struttura organizzativa, menziona solo l'autovettura modificata e l'uso di utenze dedicate e non tiene conto degli ulteriori elementi citati nell'ordinanza impugnata, primo fra tutti quello relativo alle modalità di reinvestimento dei capitali illeciti, con trasferimento delle somme in Spagna attraverso schermi volti a impedire la identificazione della loro provenienza: in maniera ragionevole, tale modalità operativa è stato ritenuta dal Tribunale indice sintomatico di un apparato e di una struttura, esistenti anche al di là della commissione di singoli reati scopo e dunque connotanti una vera e propria associazione. 5. In conclusione, il ricorso di Bo.Hi. deve essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della cassa delle ammende. Il ricorso di El.Ab. deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Gli atti devono essere trasmessi alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso di El.Ab. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di 130ussen Bo.Hi. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Rel. Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: 1. Ma.Vi. nato a N il (Omissis) 2. Am.Ga. nato a N il (Omissis) avverso la ordinanza 14-07-2023 del Tribunale del riesame di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Maria Sabina Vigna; sentite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Rìccardi, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi; uditi gli Avvocati Le.Pe., in difesa di Am.Ga., e Va.Ac., in difesa di Ma.Vi., i quali hanno insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO Con l'ordinanza impugnata, ti Tribunale del riesame di Napoli ha confermato l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 10 maggio 2023, che applicava a Ma.Vi. e Am.Ga. la misura della custodia cautelare in carcere perché ritenuti partecipi dell'associazione a delinquere di stampo camorrista "clan Co.". In particolare, si contesta a Ma.Vi. di avere gestito le attività di riciclaggio e reimpiego dei proventi del sodalizio attraverso il loro reinvestimento in diversificati settori economico-commerciali (dalle attività di autolavaggio e autonoleggio dislocate a ridosso dell'aeroporto di N , all'esercizio di bar pasticcerie e alla attività di ristorazione) e ponendo in essere sistematicamente, nell'esercizio delle attività di impresa a lui riconducibili, interposizioni fittizie. Si contesta ad Am.Ga. il ruolo di: - intermediario fra suo padre, Am.Gi., e Ma.Vi.; - garante dei rapporti tra De.Al., temporaneo reggente della organizzazione criminale, e il medesimo Ma.Vi. per la gestione delle attività imprenditoriali a lui riconducibili; - alter ego di suo padre Am.Gi. nella gestione dei rapporti criminali con gli esponenti di primo piano del "clan" e nella trasmissione di direttive di gestione del gruppo Co.. Il compendio investigativo è costituito dalle intercettazioni, e, in particolare, 1) dalle conversazioni tra presenti intercettate tramite il captatore informatico installato nel telefono cellulare in uso a Ma.Vi.; 2) dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia De. e Sc., i quali hanno attribuito agli indagati i ruoli così come contestati nel capo di incolpazione; 3) dalle dichiarazioni di Ma.Pi. e Ma.Ma., titolari della società "..." e concorrenti commerciali di Ma.Vi., i quali hanno riferito di essere stati sottoposti a estorsione dal 2007, da parte di Am.Gi., e di essere stati costretti a non acquisire nuovi clienti per non pregiudicare l'attività di Ma.Vi., alla quale Am.Gi. si mostrava personalmente interessato. 2. Avverso l'ordinanza ricorrono per cassazione entrambi gli indagati, con due atti distinti a firma di due diversi difensori. 3. La difesa di Ma.Vi. ha dedotto i seguenti motivi: 3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione In relazione alla inutilizzabilità delle intercettazioni captate, tramite virus informatico (RIT (Omissis)), sull'utenza in uso a Ma.Vi., con decreto del G.i.p. del 24 settembre 2018. Ai sensi dell'art. 267, comma 1, cod. proc. pen., il decreto che autorizza l'intercettazione tra presenti mediante l'inserimento di captatore informatico deve indicare le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini. Con motivazione del tutto apodittica, il Tribunale del riesame ha ritenuto, invece, che, sebbene nel dispositivo del decreto del G.i.p. fosse stata autorizzata unicamente l'intercettazione dei flussi di comunicazione, e non anche quelle tra presenti a mazzo di captatore Informatico, in realtà il decreto avesse inteso accogliere integralmente la richiesta del Pubblico ministero. Conseguentemente, tutte le proroghe relative alle conversazioni tra presenti, a partire dalla scadenza del decreto autorizzativo, devono ritenersi inesistenti. Si censura, quindi, la inutilizzabilità di tutte le conversazioni successive al 2 novembre 2018 e, in particolar modo, la conversazione del 18 dicembre 2018 tra De.Al., Ma.Vi. e Am.Ga. 3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla genericità del narrato dei collaboratori di giustizia e all'assenza della convergenza nel molteplice. Le dichiarazioni di De. risalgono al 2010 e quelle di Sc. addirittura al 2005. Le stesse, oltre ad essere generiche, non dimostrano l'appartenenza del ricorrente al "clan" e rimangono prive di riscontro. Con un mero salto logico, il Collegio della cautela ha evidenziato che la gestione da parte del ricorrente delle diverse attività commerciali del Ma.Vi. era attuata in termini di monopolio, non dando contezza dell'esistenza, in termini di gestione da parte del predetto, di una sola società (...), a fronte di quelle gestite dai Ma.Pi. e Ma.Ma. (Avis, He. e Ma.). I giudici, omettendo di valutare le allegazioni difensive, sono giunti a un risultato in contrasto con la documentazione prodotta agli atti. A fronte della dimostrata assenza di rapporti commerciali con la società denominata "Ma.", il Tribunale ha ritenuto superabile tale circostanza sostenendo che i rapporti erano filtrati da un'altra società di servizi, alla quale il "clan" imponeva di avvalersi delle società di Ma.Vi. Tale affermazione è frutto di un'asserzione che non trova riscontro negli atti. Il Tribunale ha reputato irrilevanti anche i rilievi difensivi in merito alle successive vicende che hanno riguardato la società "'Ma.", laddove i riferimenti operati dai collaboratori di giustizia ricostruiscono l'attività del Ma.Vi. facendo riferimento a un più ampio arco temporale rispetto a quello considerato dalla difesa: la motivazione si desume illogica, dal momento che la Ma. ha escluso di avere mai avuto contatti commerciali con le società riconducibili a Ma.Vi. Il Tribunale ha ritenuto non convincente la deduzione difensiva circa il fatto che l'attività di noleggio auto era di per sé incompatibile con il cosiddetto doppio fondo e con l'omessa registrazione dei contratti; così facendo, ha pretermesso di valutare la risposta dala sul punto dalla società "(...)", laddove affermava che, al ritiro delle vetture affidate alla gestione del Ma.Vi., mai alcuna anomalia strutturale è stata rinvenuta. Infine, il Tribunale del riesame, in maniera generica e attraverso un ragionamento privo di riscontro, ha asserito, in termini di gravità indiziaria, che le società erano riconducibili ad Am.Ga. e che le stesse erano state finanziate con i soldi del "clan". Quanto alle propalazioni dei collaboratori di giustizia, De. si è limitato a rappresentare un dato di fatto, ossia quali fossero le attività gestite da Ma.Vi., mentre Sc. ha riferito circostanze generiche e de reato. Le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia non convergono, quindi, in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione e non hanno portata individualizzante. Il Tribunale del riesame ha ritenuto le dichiarazioni riscontrate dalla intercettazione captata in ambientale sull'apparecchio in uso a Ma.Vi. il 18 dicembre 2018. Superata la questione di inutilizzabilità di cui al primo motivo, nulla si aggiunge, in termini di riscontro esterno individualizzante, al narrato dei due collaboratori di giustizia. Da una attenta lettura della intercettazione richiamata, emerge pacificamente che Ma.Vi. era un imprenditore vittima e non già un partecipe dell'associazione. 3.3. Violazione di legge vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari e alla adeguatezza delle stesse. A differenza del G.i.p., che aveva giustificato la misura del carcere sulla scorta di un presunto pericolo di inquinamento probatorio, il Tribunale del riesame ha ritenuto, contrariamente, la sussistenza della lettera c) dell'art. 274 cod. proc. pen. Non sussiste l'attualità del pericolo poiché le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono altamente datate nel tempo e il presunto contatto con ambienti malavitosi si ferma alla data dell'arresto di Am.Gi., e cioè all' agosto 2015. 3.4. Ma.Vi. ha depositato i decreti di intercettazione oggetto del primo motivo di ricorso e motivi aggiunti, nei quali ha insistito sulla inutilizzabilità della intercettazione ambientale del 18 dicembre 2018 e sulla assenza di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione dei reati. 4. La difesa di Am.Ga. ha dedotto i seguenti motivi: 4.1. Violazione di legge processuale e vizio di motivazione con riferimento alla declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazioni di cui al RIT (Omissis). Viene riproposta, negli stessi termini, la deduzione formulata dalla difesa di Ma.Vi. e si precisa che il contenuto della parte motiva del decreto autorizzativo del G.i.p. non ha fornito alcun elemento utile a ritenere che la Autorità giudiziaria avesse considerato assolutamente indispensabile procedere alla effettuazione delle intercettazioni tra presenti richieste. Quanto al decreto di proroga, si osserva che, se è vero che in materia di intercettazioni telefoniche o ambientali il decreto di proroga intervenuto dopo la scadenza del termine originario o già prorogato può avere natura di autonomo provvedimento di autorizzazione alla effettuazione delle suddette operazioni  purché dotato di autonomo apparato giustificativo che dia conto della ritenuta sussistenza delle condizioni legittimanti l'intromissione nell'altrui sfera di riservatezza - è, del pari, vero che, nel caso in esame, il G.i.p., limitandosi a richiamare la informativa del 30 ottobre 2018, non ha chiarito sufficientemente le ragioni circa la sussistenza dei presupposti che avrebbero legittimato il ricorso a detto intrusivo mezzo di ricerca della prova. Non considerando, quindi, la intercettazione ambientale del 18 dicembre 2018, la motivazione sulla quale si fonda il provvedimento confermativo dell'ordinanza impositiva della cautela, viene a essere del tutto destrutturata. 4.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato associativo. Il complessivo materiale indiziario non consente, in conclusione, di ritenere l'odierno ricorrente affiliato, difettando un'attività funzionale all'associazione con carattere di stabilità, tale da fare ritenere sussistente l'adesione al pactum sceleris. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di entrambi gli indagati sono infondati per le ragioni di seguito indicate. 2. Deve osservarsi, preliminarmente, che non coglie nel segno il primo motivo di ricorso comune a entrambe le difese, e cioè quello relativo alla inutilizzabilità del decreto del G.i.p. del 24 settembre 2018. Effettivamente, il provvedimento de qua, sia nella parte motiva che nel dispositivo, non ha menzionato la necessità di disporre intercettazioni tramite inoculazione del virus trojan nel cellullare di Ma.Vi.; le circostanza che tale parziale inutilizzabilità non sia stata rilevata dal Tribunale del riesame non è, però, decisiva, dal momento che il Collegio della cautela, con motivazione congrua e logica, ha ritenuto che il decreto di proroga del 2 gennaio 2019 costituisse un autonomo provvedimento di autorizzazione all'effettuazione delle suddette operazioni. 2.1. Il Tribunale del riesame si è, sul punto, conformato al principio di diritto secondo il quale, in materia di intercettazioni telefoniche o ambientali, il decreto formalmente qualificato "di proroga", intervenuto dopo la scadenza del termine originario o già prorogato, può avere natura di autonomo provvedimento di autorizzazione all'effettuazione delle suddette operazioni, se dotato di autonomo apparato giustificativo, che dia conto della ritenuta sussistenza delle condizioni legittimanti l'intromissione nella altrui sfera di riservatezza (ex multis Sez. 5, n. 4572 del 17-07-2015 -dep. 03-02-2016-, (Omissis), Rv. 265746 -01). 2.2. Deve, poi, osservarsi che in tema di intercettazioni telefoniche, la motivazione dei decreti di proroga può essere ispirata a criteri di minore specificità rispetto alle motivazioni del decreto di autorizzazione, potendosi anche risolvere nel dare atto della plausibilità delle ragioni esposte nella richiesta del pubblico ministero (Sez. 6, n. 22524 del 01-07-2020, (Omissis), Rv. 279564 -01). Errano, quindi, sul punto, i ricorrenti a ritenere la mancanza di motivazione circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: in realtà, il decreto di proroga in esame ha richiamato, legittimamente, la motivazione per relationem contenuta nel primo decreto e la ulteriore informativa di polizia giudiziaria e ha disposto la prosecuzione sia delle intercettazioni telematiche, che di quelle tra presenti. Peraltro, deve osservarsi che la difesa ha sempre lamentato la mancata indicazione del tipo di intercettazione, mentre non ha formulato censure su una ipotetica omessa motivazione sulla gravità indiziaria. 2.3. Anche la deduzione prospettata nei motivi aggiunti è infondata. Occorre sottolineare che la questione delle intercettazioni tramite captatore informatico, è stata affrontata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 26886 del 28-4-2016, (Omissis), Rv. 266905-06, che ha rilevato come, in tema di intercettazioni ambientali, sia legittima l'utilizzazione di tale innovativo strumento tecnologico e come la possibilità di tale suo utilizzo derivi direttamente dalle disposizioni normative vigenti ed in particolare dall'art. 13 del D.L. n. 152 del 1991, convertito in L. n. 203 del 1991, in tal modo limitandone l'utilizzo ai reati di "criminalità organizzata", offrendo anche la corretta nozione di tale categoria criminoiogica secondo la ratio della disciplina dettata nel 1991. Inoltre, la previsione dell'art. 267, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 4 del D.Lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 - che impone di indicare nel decreto di autorizzazione le "ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini" - si applica, a norma dell'art. 9, D.Lgs. cit., come modificato, da ultimo, dal D.L. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, ai soli procedimenti iscritti dal 1 settembre 2020, con la conseguenza che i procedimenti in materia di criminalità organizzata iscritti anteriormente a tale data, per il principio tempus regit actum, sono soggetti alla disciplina previgente che, secondo l'interpretazione fornita dalla sentenza sopra indicata, non prevede uno specifico onere motivazionale (Sez. 5, n. 31849 del 28-09-2020, (Omissis), Rv. 279769 -01). 3. Il secondo motivo di ricorso della difesa di Ma.Vi., avente ad oggetto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, è generico, perché non si confronta con la congrua e logica motivazione della ordinanza impugnata. Il Tribunale del riesame ha evidenziato, innanzitutto, che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia De. e Sc., sono puntualmente riscontrate dalle dichiarazioni rese da soggetti che hanno avuto rapporti commerciali con Ma.Vi. e dalle conversazioni tra presenti captate tramite il virus informatico inoculato nel telefono in uso a quest'ultimo, che hanno rivelato i rapporti intercorrenti tra Ma.Vi. ed esponenti apicali del "clan Co.", la genesi e l'evoluzione dei citati rapporti, nonché la comune condivisa strategia di intervento del "clan" al fine di favorire l'attività commerciale di Ma.Vi. Il Collegio della cautela ha, anche, esaminato e illustrato in modo chiaro e compiuto le risultanze investigative in ordine ai rapporti intercorrenti tra Am.Gi. e Ma.Vi., indicato dai collaboratori di giustizia quale gestore, per conto del "clan", di diverse attività imprenditoriali, nonché quale "uomo" di Am.Gi., del quale era pacifica la affiliazione al "clan Co.". L'ordinanza impugnata ha richiamato le numerose emergenze investigative, dalle quali risultava pacificamente: 1) che Ma.Vi. era il prestanome di Am.Ga. nella gestione di molteplici attività commerciali; 2) che il "clan", non fidandosi completamente, aveva fatto assumere Am.Ga. nella società che lavorava in aeroporto, proprio perché controllasse l'attività del ricorrente. In conclusione, come correttamente evidenziato dal Tribunale del riesame, le risultanze investigative permettevano di accertare che Ma.Vi. agiva nell'impresa di settore per conto del "clan" e, in virtù di un pregresso accordo, riceveva non solo copertura, ma anche protezione, agendo in condizione di quasi monopolio, conferendo del tutto volontariamente, in virtù della condivisione di interessi e dell'adesione agli scopi dell'associazione, una quota degli incassi. 4. Il terzo motivo di ricorso di Ma.Vi., avente ad oggetto la sussistenza delle esigenze cautelari e la adeguatezza della misura applicata, è inammissibile perché generico. Il Tribunale si è confrontato con le deduzioni difensive e ha evidenziato che, a prescindere della presunzione di cui all'art. 275 cod. proc. pen., la gravità della condotta tenuta da Ma.Vi. giustificava l'adozione della custodia cautelare in carcere, unica misura ritenuta idonea a salvaguardare le esigenze cautelari. 5. Il secondo motivo di ricorso di Am.Ga., avente ad oggetto la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, è generico. Il Tribunale del riesame ha analiticamente esaminato la posizione del ricorrente e ha evidenziato, con motivazione congrua e logica, che le indagini permettevano di ritenere che lo stesso si occupasse di trasmettere ordini e "ambasciate" agli altri esponenti del "clan" in caso di assenza del padre per detenzione o perché impegnato ad affiancare Bo. e Co., latitanti, nonché di riferire al padre i messaggi dei correi non detenuti. Come riscontro alle propalazioni accusatorie dei collaboratori, il Collegio della cautela ha, inoltre, indicate le dichiarazioni di Ma.Pi. e Ma.Ma., titolari della società "(...)" - che si occupava di fornire servizi per società di autonoleggio all'interno dell'aeroporto di C - , i quali riferivano che erano stati sottoposti ad estorsione, a partire dal 2007, da Am.Gi. e da altri esponenti del "clan Co." e che erano stati costretti a non acquisire nuovi clienti per non pregiudicare l'attività del Ma.Vi., cui Am.Gi. si mostrava personalmente interessato. L'intercettazione del 18 dicembre 2018 è stata correttamente ritenuta estremamente indicativa del ruolo di Am.Ga. e anche di Ma.Vi. all'interno del sodalizio, posto che da essa emerge che i due avevano un incontro "mafioso" con De.Al., persona al vertice del "clan", e con lui discutevano di tutte le problematiche - prima di tutte quella del denaro che doveva essere inviato ai mafiosi detenuti - della organizzazione. 6. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di Ma.Vi. e Am.Ga. al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen. Così deciso in Roma il 7 dicembre 2023 Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8375 del 2023, proposto dall'Associazione Co. In. di Pu. As. Hu. So. It., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l'Asl Salerno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Va. Ca., Em. To., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti dell'Associazione G.O. - Gr. Op. Pr. In. - P.C. O.D., la Cr. Ro. It. - Co. di Er. O.D., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Da. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza n. 2014 del 19 settembre 2023 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Salerno, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Asl Salerno e dell'associazione G.O. - Gr. Op. Pr. In. - P.C. O.D. e della Cr. Ro. It. - Co. di Er. O.D.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2024 il Cons. Antonio Massimo Marra e uditi per le parti l'avvocato Gi. Ve. per la parte appellante, l'avvocato Va. Ca. per la ASL appellata e l'avvocato Da. Gi. per la Cr. Ro. It. e l'Associazione G.O.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La ASL Salerno, con "Avviso di selezione" pubblicato in data 1° marzo 2021, ha indetto una procedura comparativa riservata alle Organizzazioni di Volontariato ed alla Cr. Ro. It. per l'affidamento biennale con opzione di rinnovo per un ulteriore anno, in convenzione, del servizio di trasporto sanitario di emergenza urgenza 118. 1.1. La procedura è stata suddivisa in 15 lotti distinti, in base alle zone d'interesse, e vi prendeva parte, relativamente al lotto n. 15 (d'importo pari ad Euro 825.600,00, relativo alle postazioni di "S. Arsenio - Sala Consilina - Padula Montesano - Polla trasporto secondario"), l'Associazione Co. In. di Pu. As. Hu. So. It. (odierna appellante). 1.2 In esito all'esame della selezione, l'Associazione Co. In. di Pu. As. Hu. So. It. (d'ora in poi solo Hu. So. It.) si è classificata al secondo posto (con punti 56,9), alle spalle della costituenda Associazione Temporanea di Scopo tra G.O. e Cr. Ro. It. Comitato di (omissis), che riportava il punteggio di 79,3. 1.3. Con determina del Direttore Generale dell'ASL Salerno n. 1433 del 15 dicembre 2022, in esito alla procedura di selezione veniva affidato il servizio, relativamente al lotto di interesse, alla costituenda r.t.i., capeggiato da G.O. 2. Con il ricorso proposto avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Salerno, Hu. So. It., seconda classificata e non affidataria, anche ai fini del richiesto subentro contrattuale, ha chiesto l'annullamento di tali esiti di gara, articolando plurime censure. 2.1. Si è costituita in giudizio la ASL di Salerno, per chiedere la reiezione del ricorso, di cui ha eccepito la infondatezza. 2.2. Si è costituita in giudizio Associazione G.O. Protezione Civile Odv, Cr. Ro. It. Comitato di (omissis) Odv, odierna controinteressata, concludendo negli stessi termini. All'esito del giudizio così incardinato, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Salerno, (di qui in avanti, per brevità, solo il Tribunale), con la sentenza n. 759 del 25 gennaio 2021, ha respinto il ricorso 3. Avverso tale sentenza ha proposto appello Hu. So. It., deducendo sei articolati motivi di censura, e ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma, con il conseguente annullamento degli atti impugnati e, ove possibile, il subentro nella procedura selettiva o, in subordine, il risarcimento del danno. 3.1. Si sono costituite per opporsi all'appello la ASL Salerno, G.O. Gr. Op. Pr. In. - Protezione Civile O.d.V.e Cr. Ro. It., Comitato di (omissis) O.d.V per resistere anche in questo grado di giudizio. 3.2. Nella camera di consiglio del 16 novembre 2023, l'appello cautelare è stato respinto con ordinanza n. 8374/2023. 3.3. Infine nell'udienza dell'1 febbraio 2024, il Collegio, uditi i difensori delle parti come da verbale, ha trattenuto la causa in decisione. 4. Oggetto del presente contenzioso è la procedura comparativa riservata alle Organizzazioni di Volontariato ed alla Cr. Ro. It. per l'affidamento biennale - con opzione di rinnovo per un ulteriore anno- in convenzione, del servizio di trasporto sanitario di emergenza urgenza 118. 4.1. All'esito di detta procedura si è classificata seconda in graduatoria l'Associazione Co. In. di Pu. As. Hu. So. It., con un punteggio totale di 56,9, alle spalle della costituenda Associazione Temporanea di Scopo tra G.O. e Cr. Ro. It. Comitato di (omissis), (odierna controinterssata), che riportava il punteggio di 79,3. Con deliberazione del Direttore Generale dell'ASL Salerno n. 1433 del 15 dicembre 2022, veniva quindi, affidato il servizio con specifico riferimento al Lotto (omissis) alla associazione controinterssata. 4. L'appello è infondato. 5. Con il primo motivo, l'odierna appellante deduce l'error in judicando innanzitutto in ragione dell'invalidità del contratto di avvalimento per incongruità del corrispettivo. La sentenza impugnata ha ritenuto congruo...un pari allo 0,5% dell'importo di gara, ovvero l'importo di Euro 4.128,00 per "l'intera durata dell'appalto". 5.1. Deduce, in particolare, l'appellante che l'asserito squilibrio economico fra le controprestazioni e la natura puramente "simbolica" del corrispettivo avrebbe reso del tutto irrealizzabile lo scopo del contratto, come riconosciuto in analoga fattispecie dalla giurisprudenza. 5.2. L'Avviso di selezione richiedeva, infatti, alle concorrenti, a pena di esclusione, il possesso del requisito di capacità tecnico organizzativa e professionale consistente nella "comprovata esperienza di almeno un anno continuativo nel servizio di Soccorso ed emergenza SIRES 118" (punto 1.1, lett. b), non posseduto a dire della appellante detto requisito - ed è questo il punto in discussione - dalla ATS controinterssata. 5.3. Il motivo è infondato perché il primo giudice ha correttamente respinto tutte le censure proposte dall'odierna appellante in quanto non ha violato le disposizioni normative di riferimento come interpretate dalla giurisprudenza consolidata. 5.4. Il dispositivo reiettivo ha interessato, anzitutto, la censura intesa a lamentare, come già detto, il carattere meramente irrisorio e/o simbolico del corrispettivo contemplato a carico della Associazione G.O. dal contratto di avvalimento, stipulato con l'Organizzazione di Volontariato T.U.R. - 27, con la conseguente nullità dello stesso, in mancanza di altro interesse direttamente o indirettamente patrimoniale atto a sorreggerlo sul piano causale, in quanto non rispondente ad un interesse socialmente apprezzabile ex art. 1322 c.c.; ed, allegatamente inidoneo ad assicurare la serietà degli impegni assunti dalle parti. Tutto ciò, tanto alla luce della evidente sproporzione tra il predetto corrispettivo di soli Euro 4.128,00 per "l'intera durata dell'appalto" - vale a dire tre anni considerato l'anno di proroga -, ed il notevole valore economico delle risorse materiali ed immateriali messe a disposizione dalla ausiliaria, in relazione ad un servizio per il quale l'ASL ha previsto l'importo annuo di Euro 825.600,00, anche alla luce delle responsabilità che l'ausiliaria è tenuta a condividere con l'ausiliata nei confronti della P.A.. 5.5. Il primo giudice, al fine di respingere la censura in esame, ha ritenuto che: "tale corrispettivo, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, non risulta irrisorio o simbolico, tenuto conto delle risorse materiali e umane messe a disposizione e della finalità solidaristica che anima le parti (entrambe organizzazioni di volontariato)". Ha evidenziato, ancora, il Tribunale che "non può trascurarsi la finalità solidaristica che ispira sia l'associazione ausiliaria sia le associazioni ausiliate e che incide necessariamente anche sul rapporto di avvalimento che, a sua volta, inerisce a una procedura finalizzata all'affidamento di una convenzione estranea a finalità lucrative"; osservando, infine, che "i profili evidenziati non possono non aver avuto ricadute sulla determinazione del corrispettivo contrattuale" e che "la finalità solidaristica che colora la causa del contratto di avvalimento, unitamente al costo, ridotto o addirittura nullo, delle risorse messe a disposizione, ben può giustificare una determinazione del corrispettivo del contratto di avvalimento in misura apparentemente inferiore rispetto a quello normalmente praticabile nell'ambito di un rapporto di tipo strettamente commerciale, che pertanto non può costituire utile parametro di riferimento per la verifica della adeguatezza del corrispettivo e della affidabilità del rapporto". 5.6. La parte appellante contesta tale conclusione osservando, in contrario, che il costo per la messa a disposizione dell'ambulanza avrebbe dovuto - quanto meno - avvicinarsi alla spesa che l'ausiliaria annualmente dovrebbe sostenere per dotarsi di una ambulanza in sostituzione di quella messa a disposizione dell'ausiliata in virtù del contratto di avvalimento, in quanto l'avvalimento avrebbe precluso all'ausiliaria l'utilizzo della suddetta risorsa per l'espletamento dei propri servizi statutari, nonché per la partecipazione ad altre gare pubbliche. 5.7. Soggiunge Hu. So. It., tenuto conto che, il costo mensile per il noleggio di un'ambulanza non è inferiore ad Euro 3.500,00, non sarebbe pertinente il richiamo fatto dalla sentenza appellata all'anno di immatricolazione dell'ambulanza dal momento che, all'atto della sottoscrizione del contratto di avvalimento (stipulato il 31 marzo 2021), il veicolo era sostanzialmente "nuovo" poiché immatricolato l'anno prima e che, la restituzione dell'ambulanza alla ausiliaria - dopo i 3 anni di esecuzione del servizio - comporterebbe in capo a quest'ultima l'obbligo di sostituire il predetto automezzo di soccorso (con un veicolo più nuovo), poiché obsoleto e allegatamente non più commerciabile. 5.8. Il motivo di appello in esame non è meritevole di accoglimento. 5.9. Deve premettersi che, la parte appellante, nel sostenere il carattere simbolico e/o irrisorio del corrispettivo pattuito tra l'ausiliaria e l'ausiliata, ai fini della messa a disposizione della seconda dei requisiti tecnico-organizzativi e professionali contemplati dall'Avviso di selezione e delle connesse risorse e mezzi necessari, si prefigge di dimostrarne l'esiguità a fronte, in particolare, del valore economico dell'ambulanza (con le relative dotazioni), indicato nel contratto di avvalimento, nonché della rilevanza dell'attività, cui la medesima ausiliaria, si impegna nei confronti della ausiliata, ai fini della formazione del suo personale addetto al servizio e della trasmissione a quest'ultima della "esperienza tecnico-organizzativa posseduta e, quindi, del proprio "sistema di gestione aziendale". 5.10. Essa, al fine di dimostrare l'erroneità delle considerazioni svolte dal Tribunale, in ordine alla "rapida obsolescenza" dell'ambulanza ed, alla "finalità solidaristica" che permea il contratto di avvalimento, in ragione della natura delle contraenti, quali fattori giustificativi della determinazione di un corrispettivo contrattuale "in misura apparentemente inferiore rispetto a quello normalmente praticabile nell'ambito di un rapporto di tipo strettamente commerciale"; evidenzia, da un lato, che, alla data di stipulazione del contratto di avvalimento, il mezzo di soccorso doveva considerarsi "sostanzialmente "nuovo", poiché immatricolato l'anno prima", a fronte della necessità per l'ausiliaria, dopo i 3 anni di esecuzione del servizio, di dotarsi di un veicolo più nuovo essendo quello dato in prestito all'ausiliata - sulla scorta delle stesse considerazioni fatte dal TAR - obsoleto e, non più commerciabile, dall'altro lato, che, l'estraneità alle organizzazioni di volontariato di uno scopo lucrativo, non toglie ad avviso dell'appellante, che le stesse debbano perseguire quantomeno la copertura dei costi sostenuti per lo svolgimento delle attività statutarie. 5.11. Ebbene deve, in primo luogo, osservarsi che l'invocato principio giurisprudenziale della necessaria onerosità del contratto di avvalimento, quale garanzia della serietà dello stesso e della effettività degli impegni assunti dall'ausiliaria, nei confronti della ausiliata e della stazione appaltante, dev'essere applicato non alla lettera ma cum grano salis, là dove le parti contraenti non siano soggetti imprenditoriali che, secondo l'id quod plerumque accidit, ispirano la loro condotta sul mercato al perseguimento dell'utile. 5.12. Con riferimento a tale ultima categoria soggettiva, è del tutto plausibile far discendere dalla eccessiva esiguità del corrispettivo pattuito - a fronte dell'oggettiva rilevanza economica delle risorse messe a disposizione da parte dell'ausiliaria e dello stesso importo complessivo dell'appalto alla cui aggiudicazione concorre l'ausiliata - il corollario del carattere solo apparente e formale degli impegni assunti dalla prima, in mancanza di altro interesse di carattere direttamente o indirettamente patrimoniale emergente dal contratto, atto a giustificarli sul piano economico-sociale - secondo il paradigma di cui all'art. 1322 c.c.. Ad una diversa conclusione deve, invece, pervenirsi là dove, vengano in rilievo soggetti che orientino la loro azione a scopi di ordine solidaristico e socialmente rilevanti, perseguiti attraverso l'apporto prevalente di volontari, ben potendo in tale ipotesi, lo stesso concorso offerto mediante il prestito dei requisiti ad altra organizzazione al raggiungimento, per il tramite di quest'ultima, delle finalità di carattere solidaristico che ne informano l'assetto statutario, contribuire alla connotazione causale del contratto di avvalimento a tal fine stipulato e, quindi, alla dimostrazione della serietà degli impegni con esso assunti dall'ausiliaria. 5.13. E' vero che, come sottolinea la parte appellante, anche tali soggetti devono improntare la loro azione al recupero delle spese sostenute per lo svolgimento della loro attività e per l'acquisizione delle risorse ad esse destinate; tuttavia, in disparte il fatto che tale modus operandi non costituisce oggetto di un vincolo cogente, ma rappresenta semmai un limite ai vantaggi economico dalle stesse perseguibili (che non devono appunto assumere i contorni di un utile), occorre pur sempre dimostrare che, il prestito delle risorse -a favore dell'ausiliata-, sia fonte per l'ausiliaria di una spesa o di un costo meritevole di trovare, nella regolamentazione del rapporto di avvalimento, una adeguata e soddisfacente compensazione. 5.14. Ed invero, se tale presupposto ricorre senz'altro là dove, il mezzo di soccorso oggetto di prestito, sia stato acquistato -o comunque la sua disponibilità sia stata acquisita - in vista dello svolgimento del servizio oggetto di eventuale affidamento a favore dell'ausiliata, a diversa conclusione deve pervenirsi, invece, là dove, come nel caso che occupa, trattasi di risorsa già presente nel patrimonio dell'ausiliaria. 5.15. In tale ipotesi, infatti, al fine di sostenere ragionevolmente che il prestito del mezzo di soccorso all'ausiliata sia fonte di un costo a carico dell'ausiliaria, che questa dovrebbe logicamente ammortizzare richiedendo alla prima un adeguato corrispettivo nell'ambito del contratto di avvalimento tra le stesse stipulato, si sarebbe dovuto anche dimostrare che, la seconda, si sia trovata nella oggettiva necessità di acquisire un automezzo sostitutivo di quello messo a disposizione della prima ai fini dello svolgimento della sua attività : così da parametrare l'adeguatezza, del corrispettivo dell'avvalimento, al costo sostenuto o da sostenere per acquisire tale automezzo. 5.16. Analogamente, l'esigenza di acquistare un automezzo nuovo una volta che, alla cessazione del servizio da parte dell'ausiliata, quello messo a sua disposizione dall'ausiliaria non è più utilizzabile ed ha esaurito il suo valore commerciale è, in ogni caso, inidonea a dimostrare che dall'avvalimento è derivato un costo a carico della seconda, meritevole di compensazione nell'ambito del contratto di avvalimento, essendo quell'evento destinato a verificarsi indipendentemente dal prestito fatto nelle more del bene a favore dell'ausiliata. 5.17. Ipotizzare che, anche in mancanza dei suddetti presupposti, l'organizzazione ausiliaria debba, comunque, recuperare il costo relativo all'acquisto dell'ambulanza, richiedendo un adeguato corrispettivo all'organizzazione ausiliata, si fonda sulla imputazione alla prima di un movente speculativo che, come si è detto, è estraneo alla natura ed alle finalità di tali entità associative. 5.18. Né è in grado di giustificare una diversa conclusione il riferimento alle ulteriori risorse messe dalla T.U.R.-27 a disposizione della G.O.. 5.19. Deve, invero, osservarsi, quanto alla "formazione del personale addetto al servizio della impresa ausiliata", che essa è destinata ad essere effettuata "prima dell'avvio del servizio", con la conseguente infondatezza dell'assunto della parte appellante che, al fine di dimostrare l'inadeguatezza del predetto corrispettivo, ipotizza un costo mensile di Euro 500,00, destinato a protrarsi per tutta la durata del servizio. 5.20 Analogamente, quanto alla trasmissione da parte, dell'ausiliaria all'ausiliata, della "propria esperienza tecnico-organizzativa posseduta e, quindi, del proprio sistema di gestione aziendale in tutte le parti che giustificano l'attribuzione" del requisito oggetto di prestito, il contratto di avvalimento espressamente prevede che ciò avvenga "intraprendendo percorsi di tutoring da parte del legale rappresentante dell'ausiliaria, ovvero Re. Fr., con visite ed ispezioni mensili". 5.21. Ebbene, se da un lato non può non osservarsi che la suddetta attività di tutoraggio, finalizzata alla trasmissione all'ausiliata del know-how, posseduto dall'ausiliaria, è demandata al legale rappresentante della seconda, ovvero ad un soggetto diverso dai volontari che prestano la loro attività dietro promessa di un rimborso, dall'altro lato, la periodicità delle visite all'uopo finalizzate e la mancata indicazione della loro durata minima non consente, anche da questo punto di vista, di operare alcuna assimilazione al rimborso mensile spettante ai volontari, calcolato dalla parte appellante, come si è detto, in misura di Euro 500,00. 5.22. Nel contesto delineato, la tesi di una necessaria valorizzazione, nell'ambito del contratto di avvalimento, di utilità immateriali (come il prestito stesso dei requisiti, le responsabilità nascenti dall'avvalimento nei confronti dell'ausiliaria, la condivisione delle "procedure aziendali"), sottende l'attribuzione alle organizzazioni di volontariato di finalità speculative (con le quali è coerente il fine di ottenere un utile anche da prestazioni non aventi un costo diretto per chi le esegua) che, come si è detto, sono avulse dalla loro connotazione istituzionale. 5.23. Deve solo aggiungersi che le conclusioni raggiunte, alla luce dello specifico contesto soggettivo e procedimentale in cui trova collocazione la presente controversia, non sono dissonanti da quelle cui è pervenuta la pregressa giurisprudenza, a cominciare da quella (cfr. C.G.A.R.S., Sez. Giur., n. 74 del 17 gennaio 2022), richiamata dalla parte appellante, che si è invece formata con riferimento a procedure di evidenza pubblica che vedevano partecipanti soggetti che, a differenza delle organizzazioni di volontariato, non perseguivano in maniera esclusiva finalità di carattere solidaristico. 5.24. In tale quadro interpretativo, orientato alla valorizzazione della finalità solidaristica perseguita dalle associazioni di volontariato, per di spessore anche l'evidenziata sproporzione tra il compenso pattuito ed il valore della gara, dal cui importo complessivo esulano peraltro (a differenza che nel caso esaminato con la pronuncia citata) componenti lucrative connesse al conseguimento di un utile. 5.25. Di qui, complessivamente, l'infondatezza del motivo in esame. 6. Con un secondo motivo, ancora, l'odierna appellante lamenta che il primo giudice avrebbe erroneamente respinto il secondo motivo di ricorso, inteso a denunciare la non conformità dell'offerta della controinteressata, relativamente a due delle quattro ambulanze indicate (targate (omissis) e (omissis)), al modello di cui al punto 4, H.7, dell'Avviso il quale, a tenore del quale: "I mezzi dovranno essere intestati all'Associazione offerente o a uno dei partecipanti (in caso di ATS), ovvero intestati all'ausiliario (in caso di avvalimento), è consentita qualunque forma di locazione finanziaria dei mezzi, non sono ammesse da parte dei partecipanti o degli ausiliari (...) reperire mezzi con forme di cessione o di prestito, compreso il comodato d'uso" (punto 4, H.7). 6.1. Il primo giudice, ha respinto la censura in esame rilevando che "l'avviso della procedura di selezione consentiva ai concorrenti di indicare, per lo svolgimento del servizio, mezzi "intestati" agli stessi o agli ausiliari, ammettendo "qualunque forma di locazione finanziaria" ed escludendo "forme di cessione o di prestito, compreso il comodato d'uso", con l'obiettivo di assicurarne la stabile e non precaria disponibilità da parte dei concorrenti. 6.2. La clausola della lex specialis, stante la sua ampia formulazione, deve essere quindi interpretata alla luce di tale obiettivo e secondo un criterio di ragionevolezza; la stessa risulterebbe priva di senso qualora interpretata come volta a imporre l'utilizzo di uno specifico tipo contrattuale e a escludere l'utilizzo di ogni altro tipo. La qualificazione dei contratti mediante i quali i concorrenti dispongono dei mezzi da utilizzare per lo svolgimento del servizio non ha infatti alcuna incidenza sul servizio stesso, pregiudicato invece da quei titoli contrattuali che determinano un utilizzo instabile e provvisorio dei mezzi, come reso evidente dall'esclusione di generiche forme di cessione o di prestito, incluso il comodato d'uso. Quindi i contratti con cui l'ATS, controinteressata, si è assicurata la disponibilità dei due mezzi oggetto di contestazione, assicurando la continuità dell'utilizzo, soddisfano la richiesta dell'avviso di gara. 6.3. A ben vedere, però, l'avviso di gara consentiva ai concorrenti di dimostrare la disponibilità dei citati mezzi mediante... "qualunque forma di locazione finanziaria", senza alcun riferimento a forme tipiche, espressamente disciplinate dal legislatore; in particolare, l'avviso di gara non imponeva la stipula di un contratto di leasing finanziario, secondo il modello previsto dalla legge n. 124/2017. Ciò evidenzia con maggior forza la conformità dello strumento contrattuale utilizzato alle richieste dell'Amministrazione. 6.4. I contratti oggetto di contestazione risultano, invero, inquadrabili nel leasing operativo, come ammesso dalla stessa ricorrente; considerato l'oggetto (l'ambulanza è un bene di costo elevato a rapida obsolescenza, come dimostra la richiesta di cui al punto 4, lett. H8 dell'avviso), l'ammontare del corrispettivo (superiore a quello normalmente praticato, come risultante dalle offerte di altri operatori depositate dalla stessa ricorrente) e la durata contrattuale (di quarantotto mesi, con rinnovo automatico salvo disdetta e facoltà di proroga), ai contratti stipulati dalla controinteressata; non è -per vero- estranea la causa di finanziamento; l'ATS, mediante i citati contratti ha, infatti, ottenuto la disponibilità delle ambulanze per un periodo inferiore alla durata della vita utile del bene (come risultante dal citato punto H.8 dell'avviso), senza sopportarne nell'immediato il costo ma corrispondendo un canone il cui ammontare, rapportato alla durata contrattuale, tende a eguagliare il valore del bene, considerata altresì la possibilità di proroga e di contestuale adeguamento del medesimo canone, prevista dall'art. 13, lett. b, del contratto e tipica dei contratti di leasing in alternativa all'opzione di acquisto, ai fini della copertura del valore residuo. Tali contratti, inoltre, non contengono comunque clausole in grado di compromettere la continuità del rapporto. È d'uso infatti che i negozi commerciali includano clausole che ne disciplinano la risoluzione in caso di inadempimento. 6.5. A ciò si aggiunga che, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, l'eccedenza chilometrica non determina la risoluzione del contratto; infatti l'art. 7, comma 9, del contratto, ricollega alle eccedenze chilometriche il ricalcolo del corrispettivo alla cessazione del rapporto, determinato secondo quanto previsto dall'art. 6A (rectius 7A) del medesimo contratto che rinvia all'offerta formulata ovvero alle "condizioni leasing operativo ambulanza" allegate al contratto - par. "chilometraggio". 6.6. La risoluzione di diritto che, l'art. 10C ricollega alla violazione dell'art. 7A è, in realtà, da riferirsi alla previsione contenuta nell'ultimo comma di quest'ultimo articolo, relativo all'obbligo di conservare la sigillatura e il funzionamento del contachilometri e di dare immediato avviso di qualsiasi rottura o anomalia di funzionamento (incidendo tale aspetto, con tutta evidenza, sulla regolarità dei rapporti del tra le parti e sulla corretta utilizzazione del veicolo)". 6.7. In senso contrario, deduce la parte appellante che, dovendo applicarsi il criterio ermeneutico che fa leva sulla lettera del provvedimento, l'unico contratto di "leasing finanziario", normativamente tipizzato, è stato disciplinato dalla legge n. 124 del 4 agosto 2017, all'art. 1, commi 136-140; laddove, i contratti contestati sono, invece, contratti di noleggio operativo (o a lungo termine), con caratteristiche che ne precludono l'inquadramento nel tipo della locazione finanziaria: da essi emerge, in particolare, che, contrariamente a quanto previsto dall'art. 1, comma 136, l. cit., Alea (cioè il soggetto utilizzatore del veicolo) non è un intermediario finanziario (il proprietario del veicolo tg (omissis), infatti, è Selmabipiemme leasing S.p.A., mentre il proprietario del veicolo tg (omissis) è FC. Ba. S.p.A.9, che il rischio di perimento o danneggiamento dei due mezzi non è stato trasferito a G.O., che non è previsto alcun versamento in acconto oltre al pagamento del canone mensile, che Alea, proprio in quanto noleggiatore, offre a G.O. il godimento dei mezzi unitamente ad una pluralità di servizi accessori (copertura assicurativa, pagamento tassa proprietà, manutenzione ordinaria e straordinaria, sostituzione pneumatici, ecc., che il contratto non prevede la facoltà di acquisto dei mezzi poiché è prevista solo la restituzione del veicolo. 6.8. Deduce, ancora, la parte appellante che errerebbe il primo giudice nel ritenere che i contratti di noleggio "non contengono clausole in grado di compromettere la continuità del rapporto", atteso che, diversamente da quanto stabilito dalla l. n. 124/2017, per la locazione finanziaria (art. 1, comma 138), l'art. 10c del contratto di noleggio in questione prevede la risoluzione anticipata, senza preavviso, del contratto in quattro casi: 1) mancato pagamento "anche di un solo canone"; 2) apertura di una qualsiasi procedura concorsuale; 3) mancato e non concordato ritiro dei veicoli; 4) violazione di altri obblighi ex contractu, tra i quali l'art. 7a, rubricato "Eccedenze chilometriche", con il quale è stato concordato un vincolo chilometrico per l'utilizzo delle ambulanze (30.000 km/anno) con una tolleranza massima del 5%. 6.9. Anche questo motivo è destituito di fondamento. 6.10. La clausola dell'Avviso di selezione invocata dalla parte appellante così recita: "Il servizio dovrà essere effettuato con mezzi idonei e rispondenti alla vigente normativa per il Soccorso Avanzato". 6.11. È quindi evidente, alla luce del tenore testuale della previsione, che l'obbligo de quo - ammesso che si presti a ricomprendere anche quello generale di effettuazione della revisione annuale - è riferito all'"effettuazione del servizio", ergo alla fase esecutiva dello stesso, con la conseguente preclusione di ogni ipotesi interpretativa intesa a prescrivere la verifica del suo rispetto fin dalla fase procedimentale della selezione de qua. 6.12. La reiezione del motivo relativo all'inammissibilità del leasing operativo non può che determinare, di riflesso, quella della censura avente ad oggetto la violazione dell'art. 80, comma 5, lett. c-bis) d.lvo n. 50/2016, riproposta dalla parte appellante, così come di quella intesa a lamentare l'illogica l'attribuzione all'ATS controinteressata di 12 punti (il massimo) per il criterio n. 11 finalizzato a valutare la "Media degli anni di anzianità delle ambulanze/auto mediche del lotto", riproposta dalla parte appellante per l'ipotesi di accoglimento dei primi due motivi dell'appello. 7. Con ulteriore profilo di censura l'appellante aggredisce ancora la statuizione di rigetto del motivo a mezzo del quale la ricorrente lamentava in primo grado che la G.O., mandataria dell'ATS controinteressata, non aveva mai svolto attività di emergenza continuativa nel SIRES 118 e ciò nonostante si era vista attribuire 15 punti per il criterio n. 9, avendo la Commissione giudicatrice tenuto conto del ricorso all'avvalimento e della documentazione prodotta dalla ausiliaria TUR-27 per dimostrare la propria esperienza nel sistema 118 della Regione Puglia, così violando la lex specialis la quale lo attribuiva solo in caso di pregressa "attività di emergenza continuativa nel SIRES 118", cioè nel sistema di emergenza della Regione Campania. 7.1. Il Tribunale ha respinto la censura osservando che "in un'ottica di favor partecipationis, il riferimento alla pregressa esperienza nel "SIRES 118" deve essere, in realtà, riferita in generale al servizio di emergenza - urgenza 118; infatti il paragrafo 1.1 richiedeva, quale requisito di partecipazione, comprovata esperienza nel servizio di soccorso di emergenza (SIRES 118) precisando: "a tal fine si sottolinea che non costituisce esperienza nel servizio 118: l'attività di trasporto sanitario, anche se effettuata per enti pubblici e privati; l'attività per qualunque tipo di servizio sanitario per enti pubblici o privati, svolto al di fuori del servizio di emergenza SIRES 118, anche se tali servizi si sono tradotti in attività assimilabili al soccorso sanitario (es. assistenza a manifestazioni sportive o culturali o servizi di supporto a centri commerciali o altri luoghi di aggregazione, ecc.)". 7.2. Ebbene, la formulazione del requisito, nella regola e nelle eccezioni previste, evidenzia che l'Amministrazione ha inteso porre l'accento sullo svolgimento non di un qualunque servizio di tipo sanitario, di trasporto sanitario o assimilabile al soccorso sanitario, ma sullo svolgimento del servizio di soccorso di emergenza ovvero del "servizio 118", risultando pertanto marginale il riferimento al "SIRES 118" ovvero allo specifico servizio svolto nel contesto della Regione Campania". 7.3. Sebbene non compiutamente esplicitato - e per questo ha indotto la parte appellante a lamentare la non pertinenza, ai fini dell'esame della censura, attinente alla attribuzione dei punteggi, delle disposizioni in tema di partecipazione - il ragionamento svolto dal TAR si fonda sull'analoga formulazione del requisito, sia nella clausola che lo considera ai fini dell'ammissione alla selezione sia in quella che vi attribuisce rilievo ai fini della valutazione delle offerte (e della attribuzione dei relativi punteggi): così come la prima (pag. 1 dell'Avviso di selezione, par. 1.1, lett. b), infatti, prevede quale requisito di ammissione di "possedere comprovata esperienza di alcuno un anno continuativo (cioè senza soluzione di continuità ) nel servizio di Soccorso e di Emergenza SIRES 118", anche la seconda (pag. 14 del medesimo Avviso, criterio 9) prevede la valutazione (con massimo 15 punti) dell'"attività di emergenza continuativa nel SIRES 118". 7.4. Da tale postulato consegue una condivisibile ricaduta interpretativa, che il TAR ha posto, altrettanto condivisibilmente, a fondamento della decisione. L'esito interpretativo cui, alla luce dei principi che devono orientare la lettura dei requisiti di ammissione (tra i quali, in primo luogo, il favor partecipationis, insieme a quello che esclude la rilevanza ai fini partecipativi di fattori di carattere territoriale, ai quali fa riferimento il TAR), è dato pervenire in tema di requisiti di partecipazione non può restare senza effetto in ordine alla interpretazione delle disposizioni concernenti i requisiti di partecipazione, per una evidente esigenza di uniformità interpretativa di clausola pressoché identicamente formulate (sebbene a fini diversi). 7.5. Deve, altresì, osservarsi che la condivisione da parte delle due disposizioni di una medesima logica - in un caso ai fini dell'ammissione, nell'altra sul piano premiale - emerge chiaramente dal fatto che, mentre la prima prevede l'esperienza di "almeno un anno continuativo", la seconda premia il servizio avente durata da 12 mesi in su (sebbene, per la prima frazione annuale, stabilisca l'assegnazione di 0 punti): segno che entrambe le previsioni intendono valorizzare il medesimo dato esperienziale, nel primo caso in una misura minima e nel secondo in relazione alla sua effettiva dimensione. 7.6. Discende dai rilievi che precedono che, non avendo la parte appellante formulato specifiche censure avverso l'interpretazione data dal TAR al suddetto requisito di ammissione, ma solo al nesso logico tra lo stesso ed il suindicato criterio di valutazione, le deduzioni da essa formulate sul punto si scontrano con la corretta ricostruzione che ne ha fatto il TAR e corroborata dalle considerazioni svolte innanzi. 7.7. L'ultimo motivo di appello contesta la statuizione reiettiva della censura intesa a lamentare che la Commissione giudicatrice ha attribuito alla controinteressata 24 punti per il criterio n. 1 (di cui 8 punti per il sub-criterio 1; 6 punti per il sub-criterio 2; 10 punti per il sub-criterio 3) ed alla appellante, per lo stesso criterio, 20 punti (di cui 6 punti per il sub-criterio 1; 6 punti per il sub-criterio 2; 8 punti per il sub-criterio 3). 7.8. L'infondatezza del motivo consente di prescindere dalla relativa eccezione di inammissibilità formulata dall'associazione resistente, in ragione della mancata dimostrazione del superamento, per effetto del suo eventuale accoglimento, della cd. prova di resistenza. Va premesso che il punto 15 dell'Avviso di selezione ha definito, tramite una griglia di valutazione (tabella 1), le modalità per l'attribuzione dei punteggi e sotto-punteggi e che, per il criterio n. 1, la suddetta tabella ha previsto l'assegnazione di massimo 30 punti da attribuire sulla base dei seguenti sub-criteri e sub-punteggi: 1) "Descrizione dell'Associazione e della sua esperienza nell'emergenza 118": punti da 0 a 10; 2) "Relazione dettagliata su come si intende organizzare il servizio presso le postazioni: punti da 0 a 10; 3) "Conoscenza del territorio relativo al lotto per cui si partecipa: punti da 0 a 10. 7.9. La ricorrente, in relazione ai sub-criteri n. 1 e n. 3), lamentava in particolare la violazione dell'Avviso di selezione e la disparità di trattamento tra la stessa e la controinteressata, operando la prima sul territorio ricompreso nel lotto (omissis) almeno dal giorno 1° gennaio 2020, essendo subentrata nello svolgimento del servizio 118 all'associazione Un. Hu. (alla quale aderisce). 7.10. Il TAR, dopo aver osservato che il sub-criterio 1 apprezzava la "descrizione dell'associazione partecipante e della sua esperienza nell'emergenza 118", con particolare riferimento alla composizione associativa, alla composizione numerica e all'esperienza, non solo temporale, nel campo dell'emergenza urgenza 118 nonché alla moralità dell'associazione e al suo impegno sociale, e che "il criterio, di conseguenza, non valorizzava unicamente l'esperienza dell'associazione nella gestione del servizio 118, ma anche altri profili dell'associazione concorrente e dell'attività associativa", ne ha ricavato che, "considerati i punteggi attribuiti alla ricorrente e all'ATS controinteressata in relazione al citato sub-criterio nonché il mancato conseguimento da parte di quest'ultima del punteggio massimo, i punteggi attribuiti non risultano manifestamente illogici o irragionevoli". 7.11. Osserva in chiave critica la parte appellante che la descrizione dell'associazione e/o della sua composizione associativa non può avere un peso maggiore della valorizzazione dell'esperienza nel campo dell'emergenza-urgenza 118 e lamenta che il Tribunale ha completamente obliterato il fatto che nella relazione tecnica dell'appellante è stata minuziosamente esposta l'attività del sodalizio nel campo sociale, la sua organizzazione interna (Legale rappresentante, Direttore tecnico, Direttore sanitario, Responsabile della Centrale operativa, Responsabile amministrativo, Responsabile degli automezzi, ecc.), la sua composizione, la sua appartenenza ad una rete associativa di secondo livello denominata Un. Hu. fortemente impegnata nel campo sociale ed assistenziale e che ha consentito alla ricorrente di conseguire encomi e riconoscimenti sia in sede locale che nazionale ed internazionale. 7.12. Deduce altresì la parte appellante l'illogicità insita nell'attribuzione di 8 punti alla G.O. che, per sua stessa ammissione, non ha alcuna esperienza nel campo dell'emergenza-urgenza 118, essendo ricorsa all'avvalimento, e nell'attribuzione di 6 punti (cioè 2 in meno rispetto alla G.O.) all'appellante che, almeno dal 1° gennaio 2020, ha gestito per conto dell'Asl Salerno il Servizio 118 nelle postazioni di Salerno ed (omissis) ma soprattutto nella postazione di Sala Consilina, e cioè proprio nel territorio ricompreso nel lotto (omissis) oggetto del presente contenzioso. 7.13. Il sub-motivo in esame non può essere accolto. 7.14. Deve premettersi che il sub-criterio di valutazione in esame è così formulato: "Descrizione dell'Associazione partecipante e della sua esperienza nell'emergenza 118. In questo sub criterio l'associazione dovrà valorizzare la composizione associativa, la sua composizione numerica, l'esperienza non solo temporale nel campo dell'emergenza urgenza nello sti118, anche con la presenza di atti che comprovino la moralità dell'associazione e il suo impegno nel sociale". 7.15. Ebbene, deve in primo luogo dissentirsi alla posizione interpretativa della parte appellante, secondo cui il profilo associativo non potrebbe avere un peso maggiore di quello esperienziale, bastando, ad escluderne la fondatezza, che il secondo costituisce solo uno dei quattro indici considerati (accanto cioè alla "composizione associativa", alla "composizione numerica" ed alla "presenza di atti che comprovino la moralità dell'associazione e il suo impegno nel sociale"). 7.16. Ciò chiarito, la parte appellante si limita a porre in evidenza i suoi connotati organizzativi ed associativi, senza svolgere alcuna censura al fine di dimostrarne la preminenza rispetto a quelli posseduti dalla controinteressata, che non vengono nemmeno menzionati. 7.17. Né potrebbe rilevarsi che la appellante non disponeva dell'offerta tecnica di quest'ultima, al fine di meglio articolare le sue deduzioni in una più concreta ottica comparativa, atteso che, quantomeno nella presente sede di appello, essa non ha reiterato l'istanza istruttoria avente ad oggetto la suddetta documentazione, espressamente respinta dal TAR con la statuizione conclusiva della sentenza appellata. 7.18. Deve, inoltre, evidenziarsi che, come affermato con la sentenza appellata, con statuizione non censurata dalla appellante, dopo aver respinto la censura diretta a contestare la legittimità del cd. avvalimento premiale, ha evidenziato che "l'ATS controinteressata, carente del requisito esperienziale, ha fatto ricorso all'avvalimento; avendo speso in gara il requisito dell'ausiliaria, tale esperienza è stata valorizzata anche ai fini dell'attribuzione del punteggio": ne consegue che, essendosi la G.O. avvalsa (ai fini partecipativi e premiali) dell'esperienza della ausiliaria T.U.R.-27, la censura in esame risente della mancata considerazione del contributo di quest'ultima ai fini giustificativi del punteggio contestato. 7.19 Ne consegue che lo scarto (non particolarmente ampio, attesa la differenza di soli 2 punti) tra i punteggi attributi alla appellante ed alla controinteressata in relazione al sub-criterio in esame non è idoneo a disvelare profili di palese irragionevolezza degli stessi, tenuto conto della impostazione del medesimo sub-criterio e della mancata formulazione di censure non esclusivamente rivolte ad evidenziare la maggiore esperienza posseduta dalla prima rispetto alla seconda. 7.20. Il secondo sub-motivo si prefigge di dimostrare l'erroneità della statuizione reiettiva con la quale il TAR ha accolto la censura intesa a lamentare, in relazione al sub-criterio 3, valorizzante la "conoscenza dell'associazione del territorio relativo al lotto a cui partecipa" e, in particolare, "la piena conoscenza del territorio urbano ed extraurbano e le strategie per la riduzione dei tempi di intervento nonché aver eventualmente effettuato iniziative di qualunque tipo nel territorio dove intende svolgere il servizio", che sebbene la sede legale della G.O. ricada nel territorio del lotto, la suddetta associazione partecipa all'ATS con una quota del 52%, mentre la restante quota del 48% è di competenza della mandante, la quale ha sede in (omissis) e, pertanto, non può avere alcuna reale conoscenza di un territorio che si trova ad oltre (omissis) km dalla sua sede sociale, con la conseguente affermata illogicità della decisione della Commissione di attribuire all'ATS controinteressata 10 punti, cioè il massimo consentito per il sub criterio in questione, così come della decisione di attribuire alla ricorrente, per il medesimo sub-criterio, un punteggio più basso di quello assegnato alla ATS G.O., operando essa sul territorio ricompreso nel citato lotto (omissis) almeno dal 1° gennaio 2020, essendo succeduta nello svolgimento del servizio 118 all'associazione Un. Hu. (alla quale aderisce) che, come esposto e documentato nella relazione tecnica, già da molto tempo prima svolgeva analoga attività sul territorio del lotto (omissis). 7.21. Il TAR ha respinto la censura in esame rilevando che "il criterio di valutazione (...) non apprezzava la localizzazione della sede dell'associazione ma la conoscenza del territorio di riferimento del lotto, di cui la sede costituisce indicatore debole e mediato. Non può escludersi pertanto che l'offerta della controinteressata abbia evidenziato una maggiore conoscenza del territorio, soprattutto se si considera che, come rilevato dalla stessa ricorrente, la mandataria dell'ATS ha sede proprio nel territorio del lotto di riferimento. Inoltre il medesimo criterio valorizza anche altri profili diversi dalla mera conoscenza del territorio e, in particolare, le strategie per la riduzione dei tempi di intervento nonché le iniziative già attuate nel territorio di riferimento". 7.22. Deduce la parte appellante che la decisione del TAR non reca alcuna motivazione del percorso logico-giuridico seguito per pervenire alla conclusione di non poter escludere che l'offerta della controparte abbia evidenziato "una maggiore conoscenza del territorio", laddove essa aveva evidenziato che: i) la G.O. ha ottenuto 10 punti, cioè il massimo consentito per il sub-criterio in questione; ii) la G.O. non ha alcuna esperienza nel campo dell'emergenza-urgenza 118; iii) la mandante dall'ATS G.O. ha sede in (omissis) e, pertanto, non può avere alcuna reale conoscenza di un territorio che si trova ad oltre (omissis) km dalla sua sede sociale. 7.23. Nemmeno tale ultima doglianza è meritevole di accoglimento. 7.24. Basti evidenziare che la parte appellante non ha formulato alcuna specifica censura avverso la componente motivazionale intesa a rilevare che "il medesimo criterio valorizza anche altri profili diversi dalla mera conoscenza del territorio e, in particolare, le strategie per la riduzione dei tempi di intervento nonché le iniziative già attuate nel territorio di riferimento". Il carattere decisivo del su riportato passaggio motivazionale - e la conseguente necessità di farne oggetto di specifiche osservazioni al fine di rimuovere la base giustificativa della statuizione appellata - si evince del resto dal fatto che non può escludersi, in mancanza di più concrete allegazioni della parte ricorrente, che l'offerta tecnica della controinteressata esponga "le strategie per la riduzione dei tempi di intervento nonché le iniziative già attuate nel territorio di riferimento" che, per il loro pregio, pongano in secondo piano il dato conoscitivo posseduto (in ipotesi) in maggior grado dalla appellante e giustifichino il migliore punteggio ottenuto dalla resistente in relazione al sub-criterio in esame: ciò non senza osservare che la conoscenza del territorio non è necessariamente subordinata alla presenza in esso di una sede legale e/o alla pregressa operatività, ben potendo essere acquisita attraverso lo studio dello stesso propedeutico alla predisposizione della relazione tecnica e trovare riscontro, piuttosto che negli elementi suindicati, nella illustrazione delle "strategie per la riduzione dei tempi di intervento nonché aver eventualmente effettuato iniziative di qualunque tipo nel territorio dove intende svolgere il servizio", che nella relazione devono trovare esplicitazione. 8. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l'appello deve essere respinto, con la conseguente conferma della sentenza impugnata. 9. Le spese del presente grado del giudizio, stante la complessità tecnica della lite, possono essere interamente compensate tra le parti. 9.1. Rimane definitivamente a carico dell'appellante, per la soccombenza, il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto dall'Associazione Co. In. di Pu. As. Hu. So. It., lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Nicola D'Angelo - Presidente FF Ezio Fedullo - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere, Estensore Luca Di Raimondo - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere
CORTE D'APPELLO DI CAGLIARI PRIMA SEZIONE PENALE Composta dai magistrati 1) dott. Massimo Costantino Poddighe - Presidente 2) dott. Giovanni Lavena - Consigliere 3) dott. Silvia Badas - Consigliere In seguito a trattazione scritta ha pronunciato la seguente SENTENZA in Camera di Consiglio - S.G., nato a S. il (...), libero - non comparso Prescrizione: 24.07.2024 APPELLANTE Avverso la sentenza emessa in data 28 ottobre 2022 dal Tribunale di Cagliari, in composizione monocratica, che - riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, e considerato l'aumento per la continuazione - lo ha condannato alla pena di mesi quattro di reclusione ed Euro 300,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno patito dalla parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio civile, concedendo una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro 5.000,00, nonché a rifondere alla stessa parte civile le spese di costituzione e difesa liquidate come in dispositivo, PERCHÉ DICHIARATO COLPEVOLE Del reato di cui all'art. 3 L. n. 54 dell'8 febbraio 2006 (in relazione all'art. 12 sexies L. 1 dicembre 1970, n. 898 e punito ai sensi dell'art. 570 c.p.) perché, successivamente al provvedimento di separazione personale emesso dal Presidente ff del tribunale di Cagliari in data 10 giugno 2014, si sottraeva alla corresponsione o versava saltuariamente in misura ridotta l'assegno mensile di Euro 700,00 come stabilito dal Giudice, somma dovuta alla coniuge M.S. quale contributo per il mantenimento della stessa e del figlio minore P. ad entrambi affidato con domicilio presso la madre. In Villaputzu dal mese di gennaio 2015 all'8 luglio 2016 Con la recidiva di cui all'art. 99 comma 1 c.p. All'odierna udienza in camera di consiglio si è proceduto, ai sensi dell'articolo 23 del D.L. n. 149 del 9 novembre 2020 (e successive modificazioni e integrazioni), con trattazione scritta senza l'intervento del procuratore Generale e del difensore, che hanno formulato le seguenti Svolgimento del processo 1. Con sentenza pronunciata in data 28 ottobre 2022 il Tribunale di Cagliari, in composizione monocratica, dichiarava S.G. colpevole del reato di cui in epigrafe. 2. Sulla base degli atti del dibattimento, istruito - alla presenza dell'imputato - mediante prove testimoniali (segnatamente la persona offesa M.S., costituitasi parte civile, e il maresciallo M.F., dedotti dal Pubblico Ministero; D.L.M., O.L., T.D., L.M., S.A. e D.G., tutti dedotti dal difensore dell'imputato), produzioni documentali (in particolare, per quanto di specifico interesse, il verbale di sommarie informazioni testimoniali di A.G. e M.P., contestualmente rinunciando al loro esame con il consenso delle altre parti, prodotto dal P.M.; ricevute di alcuni bonifici effettuati dal S., in favore della M., nel periodo in contestazione, oltre copia degli atti esecutivi emessi nei confronti del S., prodotti dal suo difensore) ed esame dell'imputato, il Giudice di primo grado ricostruiva i fatti nei termini di seguito precisati. 2.1. Si era in primo luogo premesso che, stante l'originaria contestazione di cui all'art. 3 della L. n. 54 del 2006, che con il D.Lgs. n. 21 del 2018 il legislatore delegato ha introdotto all'articolo 3 bis del codice penale, la cosiddetta riserva di codice, in base alla quale "nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell'ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero se sono inserite con leggi che disciplinano in modo organico la materia". Conseguentemente, si è avuto il trasferimento, nel nuovo articolo 570 bis c.p., sia dell'articolo 12 sexies della L. n. 898 del 1970, che dell'articolo 3 L. n. 54 del 2006, disposizioni attualmente abrogate che sanzionano l'inadempimento degli obblighi patrimoniali posti a carico di un coniuge nei confronti dell'altro o dei figli. Alla luce dell'insegnamento del giudice di legittimità, doveva ritenersi, nel caso di specie, che sebbene non vi fosse identità di dicitura tra la norma penale incriminatrice dell'articolo 3 L. n. 54 del 2006 e l'attuale articolo 570 bis c.p., la condotta penalmente rilevante e sanzionata (con identica pena, stante il rinvio quo ad poenam all'articolo 570 c.p.), sia identica, quanto meno per il caso della violazione degli obblighi di contribuzione nei confronti dei figli, riferendosi alla mancata corresponsione della somma oggetto dell'obbligo. 2.2. Dalla testimonianza di S.M., persona offesa costituitasi parte civile, era emerso che la stessa era stata coniugata con il S. dal 2008 al 2014, anno in cui aveva chiesto la separazione a causa del carattere violento del marito che aveva originato, nei confronti di quest'ultimo, un procedimento penale per il reato di cui all'art. 572 c.p., conclusosi con la sua condanna. 2.2.1. La stessa aveva altresì riferito che, a seguito di un provvedimento del Tribunale di Cagliari in data 10 giugno 2014, veniva stabilito a carico dell'imputato il pagamento di un importo di Euro 700,00 mensile a titolo di contributo al mantenimento del figlio minore (nato il (...)), di cui Euro 300,00 in favore del figlio ed Euro 400,00 in favore della medesima. In ordine a tale contributo, la stessa aveva riferito che il coniuge, dopo aver corrisposto l'importo dovuto per il primo mese successivo al provvedimento, dai mesi successivi aveva operato autonomamente una auto riduzione dell'importo fino a quando, nel dicembre 2014, aveva omesso totalmente ogni versamento. 2.2.2. Quanto alla propria condizione economica, la M. aveva riferito di aver potuto fornire al figlio quantomeno i mezzi di prima necessità grazie all'aiuto dei propri genitori che avevano provveduto anche a corrispondere il canone di locazione dell'abitazione in cui viveva con il figlio. 2.2.3. In relazione all'attività lavorativa del S., la donna affermava di non conoscere esattamente quale fosse la sua attività, né in costanza di matrimonio né successivamente, di essere però a conoscenza dei viaggi all'estero dell'imputato, avendo ricevuto una cartolina da D. e che questi, dopo la separazione, si era presentato ad una visita al figlio a bordo di una Ferrari e questo nonostante le sue affermazioni di non avere la disponibilità economica per far fronte al pagamento dell'assegno di mantenimento a suo carico. 2.2.4. Da ultimo, la M. aveva affermato che mai nessuna spesa era stata effettuata dal S. per la famiglia e che questi, né in costanza di matrimonio né successivamente, aveva mai pagato nulla, ovvero bollette, spese, o il canone di locazione, e nemmeno un caffè al bar. 2.3. P.M. e G.A., rispettivamente padre e madre della persona offesa, in sede di sommarie informazioni, avevano riferito che dal mese di giugno 2015 il S. non aveva mai corrisposto nulla alla coniuge, e che quindi erano stati loro a fornire alla figlia l'aiuto economico necessario per pagare l'affitto di casa, le bollette di luce e acqua, la spesa, del vestiario e delle visite mediche. 2.4. Nel corso dell'esame dell'imputato aveva ammesso e riconosciuto "di non aver onorato una parte degli assegni familiari, ma gli ho dato anche, qualche soldo glielo ho dato in quei mesi lì". Il S. aveva però giustificato la quasi totale omissione dei versamenti con un (non confermato) problema di depressione e con un contestuale fallimento sia del proprio lavoro di manager teatrale, sia della sua società di pubblicità, entrambi verificatisi nel 2015. 2.4.1. Tali circostanze, a suo dire, non gli avevano permesso di corrispondere l'assegno di mantenimento in favore del figlio. Su domanda del difensore di parte civile, però, il S. aveva meglio chiarito che il fallimento delle proprie società era avvenuto nell'anno 2010 e, richiesto il periodo in cui egli sarebbe stato in possesso di una Ferrari, prontamente riferiva di non esserne mai stato proprietario, ma di averla presa a noleggio, per quindici giorni, nell'anno 2012; periodo in cui, a suo dire, risultava già affetto dalla depressione e privo di mezzi, tanto da essere "costretto" ad interrompere i versamenti dell'assegno del mantenimento. 2.4.2. Irrilevante, ai fini del giudizio, era la circostanza dallo stesso riferita, di aver ricominciato, da circa due anni, a corrispondere al figlio il predetto assegno, essendo il riferito periodo successivo alla contestazione. 2.5. Quanto ai sei testi dedotti dalla difesa, D.M.L., direttore della C., mostratogli il S., presente in aula e richiestogli se lo riconoscesse, aveva affermato di non ricordare di averlo mai visto. Tuttavia aveva riferito di aver preso informazioni dall'Ente e di aver appreso che il soggetto fosse conosciuto sia dagli operatori del Centro di Ascolto, facente parte alla stessa C., sia dal Centro Diocesano C. di Assistenza sito nella Via Po; centro che aveva la finalità di fornire alle persone indigenti una spesa mensile. Non era però era stato in grado di riferire i periodi in cui l'imputato avrebbe frequentato i locali della C.. 2.6. L.O., volontaria della C. presso il Centro Diocesano Assistenza di via Po, aveva riferito di aver visto il S. un paio di volte all'atto del ritiro del pacco di viveri, e che lo stesso frequentava il Centro dal gennaio 2018. Aveva inoltre confermato di non averlo mai visto negli anni precedenti. 2.7. La Dottoressa D.T., operatrice sociale del Comune di Villaputzu, aveva dichiarato di conoscere i coniugi in quanto nell'anno 2016 era giunta al Comune di Villaputzu un decreto del Tribunale Ordinario di Cagliari che stabiliva la sospensione della responsabilità genitoriale di entrambi i genitori con affidamento al servizio sociale, al fine di porre in essere ima serie di interventi, compresi gli incontri protetti tra il S. ed il figlio. La stessa però non era stata in grado di riferire nulla circa la situazione economica dell'imputato; se non per averlo appreso dal diretto interessato. 2.8. M.L., assistente sociale presso il consultorio di Muravera, aveva confermato anch'essa di conoscere i coniugi avendo ricevuto nell'anno 2017 un incarico dal Tribunale di Cagliari per il sostegno alla genitorialità. Nulla era tuttavia in grado di riferire rispetto agli anni antecedenti. 2.9. A.S., fratello dell'imputato, preventivamente informato della facoltà di cui all' art. 199 c.p.p., aveva dichiarato di non volersene avvalere, aveva raccontato che nel periodo in contestazione il fratello era privo di attività lavorativa e che talvolta lo aveva aiutato economicamente, una volta acquistandogli un paio di scarpe e talvolta pagandogli la benzina per poter raggiungere Villaputzu per vedere il figlio. Il teste aveva altresì confermato che il fratello, senza però ricordare il periodo, si era recato diverse volte in Spagna al fine di trovare attività lavorativa; non era stato però in grado di riferire ove avesse reperito i soldi per il viaggio (non avendogli egli fornito alcun aiuto in tal senso), né per il suo sostentamento nel paese straniero. 2.10. G.D., ultimo dei testi dedotto dal difensore, premesso di essere conoscente e amico del S. da circa trent'anni, aveva riferito di essere a conoscenza delle sue precarie condizioni economiche, che non gli consentivano di corrispondere alla moglie l'assegno di mantenimento, avendo anche difficoltà per l'acquisto del mangiare e per il pagamento delle utenze; ciò in un periodo dall'anno 2013 e fino all'attualità. 2.10.1. Il teste aveva inoltre specificato di averlo aiutato, sia economicamente, consegnandogli i soldi per pagare le utenze, sia facendogli la spesa, e ciò, talvolta dietro richiesta del S., e talvolta spontaneamente conoscendone il bisogno. 2.10.2. Richiestogli quale attività esercitasse l'amico, il D. aveva risposto di non saperlo, e in ordine alle motivazioni della presunta crisi economica del medesimo, aveva parimenti detto di non esserne a conoscenza, e rispondendo da ultimo che non ricordava se avesse mai visto l'amico alla guida di una Ferrari. 3. Valutando tali fatti in termini di colpevolezza del S., il Giudice di primo grado svolgeva le seguenti considerazioni. 3.1. All'esito dell'istruttoria era stato certamente provato che questi, non solamente nel periodo in contestazione, ma anche successivamente (ed anche nell'attualità), aveva quasi totalmente omesso il versamento al coniuge dell'assegno disposto a suo carico quale contributo al mantenimento dello stesso coniuge e del figlio minore P.. 3.2. Nel corso del periodo in contestazione (dal gennaio 2015 al luglio 2016), era emerso, a seguito delle produzioni del difensore, che il S. aveva provveduto ad effettuare i seguenti versamenti: Euro 400,00 in data 4 febbraio 2015; Euro 400,00 in data 8 aprile 2015; Euro 400,00 in data 5 maggio 2015; Euro 100,00 in data 10 settembre 2015 ed Euro 100,00 in data 24 settembre 2015. Il S., pertanto, a fronte di un importo pari a 13.300,00 euro (Euro 700 per 19 mensilità), aveva versato il minor importo di Euro 1.400,00. 3.3. Si doveva inoltre rilevare che la colpevolezza del S. era da ritenersi dimostrata da almeno tre ordini di ragioni: 1) dall'oggettiva imposizione a questi dell'obbligo, così come stabilito nella predetta documentazione, di corrispondere mensilmente al coniuge l'importo di Euro 700,00 quale contributo al mantenimento del figlio minore (e dello stesso coniuge); 2) dalla circostanza che il S. aveva quasi totalmente omesso il versamento, corrispondendo un importo pari ad appena un decimo rispetto a quanto avrebbe dovuto corrispondere; 3) dalla assoluta credibilità delle circostanze riferite dalla M., confermate dai genitori di quest'ultima; 4) dall'aver privato il figlio P., beneficiario, dell'importo posto a suo carico. 3.4. Le circostanze dallo stesso S. riferite in sede d'esame, relative ad un suo presunto stato di malattia, non avevano infatti trovato alcuna conferma documentale: la depressione di cui egli sarebbe stato affetto non risultava infatti documentata, avendo lo stesso S. riferito di essere invece in cura con una diabetologa. 3.5. Lo stesso imputato, inoltre, sempre in corso d'esame, aveva riconosciuto il mancato versamento del pagamento dell'assegno di mantenimento, senza però fornire prova di un reale impedimento a compiere un'attività lavorativa. Pertanto, era evidente che il versamento del detto contributo economico da parte del S., per il mantenimento del figlio minore in misura ridotta, configurava il reato di cui all'art. 570 bis c.p. 3.5.1. Proprio in riferimento alla configurabilità del detto reato, pur dovendosi ricordare l'affermazione costante in giurisprudenza che, laddove manchi la capacità economica dell'obbligato, non può trovare applicazione la sanzione penale di cui all'art. 570 bis c.p., deve tuttavia anche ricordarsi che sul punto più volte interveniva la Suprema Corte affermando che l'incapacità economica dell'obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall'art. 570 bis c.p., deve essere assoluta e deve integrare una situazione di persistente oggettiva indisponibilità di introiti. Deve essere pertanto l'imputato a dover allegare "in maniera seria" la propria incapacità economica al fine di condurre alla dimostrazione che, pur esistendo la volontà di adempiere, e quindi difettando il dolo, il venir meno ai doveri di assistenza familiare è stato inevitabile. 3.5.2. Inoltre, deve ricordarsi quanto evidenziato dalla Suprema Corte, secondo la quale il coniuge tenuto al versamento di un assegno di mantenimento in favore dei figli o dell'altro coniuge, è già tutelato dalla legge che stabilisce una proporzione tra l'impegno economico richiesto e le sue effettive capacità economiche. 3.5.3. Non può, pertanto, ritenersi ammissibile che un soggetto decida di omettere o ridurre l'importo stabilito, secondo quanto stabilito nella sentenza della Suprema Corte n. 5752 del 2011, che ha certamente segnato un inasprimento interpretativo in ordine al reato di mancata (o ridotta) corresponsione dell'assegno di mantenimento, così come contestato al S.. 3.5.4. In sostanza, è stato ribadito che il corretto adempimento dell'obbligazione gravante sul soggetto in favore dell'altro coniuge consiste nella dazione dei mezzi di sussistenza, nella qualità e nel valore determinato nel dialettico confronto delle parti, e nel superiore interesse del soggetto debole, oggetto di tutela privilegiata. Non è pertanto consentito al soggetto tenuto, di autoridurre (od omettere) il versamento dell'assegno disposto a suo carico, salva la sua comprovata incapacità di far fronte all'impegno. 3.6. Relativamente al caso in esame, si doveva infine evidenziare che all'esito dell'istruttoria dibattimentale era risultata totalmente assente la dimostrazione di una impossibilità assoluta, da parte del S., a adempiere all'obbligazione, essendo al contrario emerso che questi, quanto meno in costanza di matrimonio, aveva sempre esercitato attività lavorativa, non essendo stati fomiti, da parte di questi, elementi dai quali potesse desumersi l'impossibilità di adempiere. 3.6.1. La sola circostanza delle azioni esecutive poste in essere nei suoi confronti a seguito delle quali erano risultate essere state sottoposte a pignoramento diverse unità immobiliari, sia in S. che a R., ove l'imputato aveva esercitato per lungo tempo attività lavorativa, non costituivano prova per poter ritenere sussistente l'incapacità lavorativa dello stesso. 3.6.2. Nessun elemento poteva inoltre dedursi dalle circostanze riferite dai testi dedotti dalla difesa non essendo stati questi in grado di far emergere un'assoluta indisponibilità di mezzi da parte del S.. Al contrario essendo emerso dalle risultanze dibattimentali, il dato pacifico della corresponsione in maniera saltuaria e ridotta, da parte del S., dell'assegno di mantenimento disposto dal Tribunale in favore del figlio minore, risultava provata la colpevolezza dell'odierno imputato in ordine al reato di cui all'articolo 570 bis c.p., in continuità normativa con la norma in contestazione. 3.7. Non era infine applicabile la disciplina prevista dall'art. 131 bis c.p. e ciò, sia in quanto, tenuto conto della durata della condotta inadempiente e della protrazione della stessa anche oltre il periodo in contestazione (avendo lo stesso S. indicato nell'anno 2019 il periodo in cui avrebbe ripreso a versare il predetto assegno), non poteva ritenersi il fatto di particolare tenuità, e sia in quanto l'applicabilità risultava preclusa stanti i precedenti del S. nei confronti del quale risultava essere stata emessa sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 572 c.p., commesso nei confronti della M.. 3.8. Ciò posto, il Giudice di primo grado - riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, e considerato l'aumento per la continuazione - richiamati i parametri dell'articolo 133 c.p., riteneva equo determinare la pena per il S. in mesi quattro di reclusione ed Euro 300,00 di multa (pena base mesi tre di reclusione ed Euro 300,00 di multa, con l'aumento ai sensi dell'art. 81 c.2 c.p. pari a mesi uno di reclusione fino alla misura finale), oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno patito dalla parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio civile, concedendo una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro 5.000,00, nonché a rifondere alla stessa parte civile le spese di costituzione e difesa liquidate come in dispositivo Motivi della decisione 4. Il difensore del S. ha proposto appello sottoponendo alla Corte i motivi di seguito sintetizzati 4.1. L'appellante lamenta, sotto molteplici profili, l'erronea valutazione delle prove con specifico riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato. 4.1.1. Il Giudice di prime cure ha attribuito piena efficacia probatoria alle dichiarazioni rese dalla persona offesa e ai di lei genitori in sede di s.i.t., acquisite in dibattimento, mentre non ha mostrato di tenere nella medesima considerazione quanto invece riferito dal m.llo M. e dai testi a difesa, oltre alla documentazione da quest'ultima prodotta con riguardo alla procedura esecutiva immobiliare promossa contro il S., tutti elementi che contraddicono di fatto sia la prospettiva accusatoria sia le dichiarazioni della M.. Oltretutto risulta errata la affermazione che il S., nonostante la depressione e le sue difficoltà economiche dovute al fallimento delle proprie attività, abbia preso a noleggio una Ferrari invece di contribuire al mantenimento dallo stesso dovuto, posto che dalle dichiarazioni della M. e dall'ordinanza del Tribunale di Cagliari del 10.06.2014, emerge chiaramente che nel 2012 non sussisteva alcun provvedimento che imponesse obblighi contributivi al prevenuto nei confronti della M.. 4.1.2. Ma soprattutto in sentenza, pur correttamente premesso che nell'art. 570 bis c.p. sono confluite le disposizioni di legge contestate all'imputato e che tale reato si configura qualora il coniuge si sottragga agli obblighi contributivi ed economici previsti dal giudice civile autoriducendosi od omettendo il versamento a suo carico, non considera che dall'istruttoria non emerge la capacità economica del S. di far fronte a tale impegno. Difatti, è stato dimostrato che l'imputato non ha potuto adempiere integralmente al suo obbligo a causa di uno stato di indigenza determinato da cause a lui non imputabili, e quindi risulta, in linea con l'insegnamento di cui alla sentenza n. 3257 del 5.09.2022 della Corte di Cassazione, la sua impossibilità assoluta a adempiere all'obbligazione. Non può dunque ritenersi sussistente l'elemento psicologico del reato contestato, avendo dato il S. prova di essersi incolpevolmente trovato in situazione di indigenza e quindi nell'impossibilità pressoché assoluta di adempiere agli ordini impostigli dal Giudice civile, dimostrando il prevenuto perfino di aver provveduto parzialmente ai pagamenti dovuti. 4.1.3. Tutti i testi, compresa la M., che ha definito l'abitazione del S. "un tugurio", hanno riferito sulle disastrose condizioni economiche dell'imputato e sugli aiuti fomiti allo stesso. Il m.llo M., in seguito agli accertamenti patrimoniali e reddituali sul S., aveva riferito delle sue proprietà immobiliari, di una FIAT Tipo e non una Mercedes o una Ferrari, e sul reddito pari ad Euro 2.900,00 circa ma in negativo, relativi alle perdite della Ditta Individuale G.S. di S.G., cessata tra l'altro nel 2007. 4.1.4. In relazione alle proprietà immobiliari, sono stati prodotti dalla difesa all'udienza del 4.04.2022 svariati documenti dai quali si evince una forte esposizione debitoria del S. di 294.000,00 euro circa, come risulta dagli atti del procedimento esecutivo ed in particolare dal provvedimento del Tribunale di Cagliari, Ufficio esecuzioni immobiliari in data 29.07.2009, che ha determinato prima il pignoramento di due immobili siti in S. e successivamente la vendita all'asta di uno dei due. In ogni caso, nonostante le grosse difficoltà economiche determinate prima della cessazione della sua attività di intrattenimento e spettacolo con sede a R., dalla quale è residuato un debito di circa 2.900,00 euro e successivamente dal pignoramento e dalla conseguente vendita e assegnazione dell'immobile sito in S., il S. ha sempre cercato di adempiere con grossi sacrifici e secondo le sue possibilità, l'obbligazione su di lui gravante. 4.1.5. La Dott.ssa T. aveva riferito di quanto appreso dai coniugi durante gli incontri protetti, in particolare dal S. che le aveva comunicato di essere in una situazione economica precaria tanto da avere difficoltà a recarsi a Villaputzu per gli incontri con il figlio, mentre la M. si lamentava con lei del fatto di non aver mai ricevuto il mantenimento dal marito, per poi riferirle di non gradire la spesa che quest'ultimo portava a Villaputzu in quanto ritenuta dal figlio un'elemosina. 4.1.6. Anche la Dott.ssa L. smentisce quanto affermato dalla M. sull'assoluta mancata corresponsione dell'assegno, riferendo sulla base di quanto appreso dalla donna che il marito "qualche volta dava 50,00 100,00 euro". 4.1.7. È altresì emerso che il S., disoccupato, sia stato solerte nella ricerca di un'attività lavorativa, pur senza successo, circostanza peraltro confermata dal fratello A. che riferiva altresì del suo viaggio in Spagna a tal fine, elemento però preso in considerazione dal P.M. e dalla parte civile per screditare il S. e far apparire quest'ultimo come soggetto incline a spendere soldi per una vacanza piuttosto che contribuire al mantenimento della M. e di suo figlio. 4.1.8. Anche i testi L. e O. avevano detto che il S. era assistito dal Centro di ascolto e dal Centro Diocesano che si occupa di fornire aiuto e sostegno ai bisognosi, fomiti allo stesso dal 31 gennaio 2018 con la consegna di alimenti o anche il pagamento delle bollette relative alle utenze domestiche. 4.1.9. Mentre i testi S.A. e D. hanno analogamente raccontato delle condizioni economiche dell'imputato, tanto da doverlo aiutare facendogli la spesa, pagandogli le bollette, dandogli del denaro (perché a detta del D. non aveva soldi nemmeno per mangiare) e addirittura comprargli le scarpe. Da tale situazione il S. è riuscito a venirne fuori solo da qualche anno grazie ad un lavoretto che, come lui stesso ha detto, "mi sono inventato", consistente nell'accompagnare persone in difficoltà a fare visite mediche, lavoro che gli ha consentito di provvedere integralmente alla corresponsione di quanto dovuto. 4.10. Per tale motivo ricorre violazione e falsa applicazione degli artt. 125 e 546 c.p.p. per mancanza di esplicitazione dell'impianto argomentativo della sentenza, essendosi limitato il giudicante ad indicare la fonte di prova delle dichiarazioni sulla base delle quali è stato ritenuto sussistere il reato (le dichiarazioni della M. e dei di lei genitori), senza tuttavia indicare né valutare gli elementi probatori documentali e soprattutto senza un'analisi approfondita degli elementi costitutivi del reato. 4.2. Il Giudice di primo grado inoltre ritiene erroneamente non applicabile la disciplina di cui all'art. 131 bis c.p. In particolare, il Tribunale ha basato il proprio convincimento avuto riguardo alla precedente condanna dell'imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia, nonostante di tale sentenza non si faccia cenno nel certificato penale. Inoltre, l'imputato ha fornito la prova sia degli adempimenti, sebbene parziali, dell'obbligazione, sia dell'indisponibilità per causa a lui non imputabile di risorse economiche che gli consentissero di adempiere la sua obbligazione, per cui il fatto deve ritenersi di lieve entità. 5. L'appellante ha quindi concluso chiedendo, in via preliminare, di annullare la sentenza impugnata; in via principale, in riforma della sentenza impugnata, di assolvere l'imputato ai sensi dell'art. 530 c.p.p. perché il fatto non costituisce reato o con la formula ritenuta di giustizia; in via subordinata, di non doversi procedere perché non punibile per la particolare tenuità del fatto; in via ulteriormente subordinata, di applicare la pena pecuniaria e ridurla al minimo. LA CORTE OSSERVA 6. L'appello è fondato, e la sentenza deve essere pertanto riformata. 6.1. Osserva la Corte che, non appare contestabile ne è stata contestata la materialità del fatto, essendo certamente comprovato che il S. non ha provveduto interamente, o solo parzialmente, al contributo dal medesimo dovuto a titolo di mantenimento per il figlio minore P. secondo quanto stabilito dal Tribunale civile di Cagliari con Provv. del 10 giugno 2014. Di converso, l'esame delle prove raccolte e di tutte le deposizioni testimoniali, restituisce un quadro che non consente di ritenere provata oltre ogni ragionevole dubbio la ricorrenza dell'elemento soggettivo del contestato reato atteso che, al contrario, numerosi elementi rendono plausibile, se non rigorosamente comprovata, la ricostruzione alternativa dei fatti offerta dall'imputato. 6.1.1. Si rileva in primo luogo come diversi testi della difesa hanno reso dichiarazioni convergenti in ordine all'effettiva situazione del S. che, privo di impiego e dedito a lavori occasionali, cercava per quanto possibile di contribuire al mantenimento del figlio, seppur in misura ridotta, come dimostrato dalle ricevute dei bonifici in atti in cui egli ha provveduto almeno al mantenimento del minore per i mesi di febbraio, aprile e maggio 2015 oltre a due contributi per le spese scolastiche e i libri in data 10 settembre e 24 settembre 2015. 6.1.2. In tal senso hanno deposto in primo luogo D.M.L., soggetto terzo e disinteressato, che, indagando presso il centro Diocesano e della C., aveva riferito che il S. frequentava il centro di ascolto ed era destinatario degli aiuti alimentari previsti dal pacchetto di aiuto ai bisognosi della C., come del resto confermato anche dalla volontaria O.L.. 6.1.3. Anche le dichiarazioni del fratello S.A. e dell'amico di lunga data D.G. convergono in tale direzione, riferendo delle condizioni disastrose dell'imputato che necessitava del loro contributo per le esigenze primarie di vita, quali il cibo, il vestiario e perfino i soldi della benzina per recarsi a Villaputzu in occasione degli incontri con il figlio. Gli stessi avevano riferito della sua volontà di contribuire al mantenimento del figlio con qualsiasi mezzo, tramite lavori occasionali e poi con uno "di sua invenzione" consistente nell'accompagnare gli anziani alle visite mediche. Pertanto, il S. si è impegnato attivamente per la ricerca di un'occupazione senza adagiarsi in tale condizione, come dallo stesso riferito all'udienza del 17 giugno 2022, durante il suo esame. 6.1.4. La stessa deposizione poi del m.llo M., offre poi ulteriori elementi di riscontro in relazione alla situazione finanziaria del S., da cui emerge il debito del medesimo risultante dalla cessazione della sua attività, oltre al pignoramento dell'immobile sito in S. e le varie ingiunzioni di pagamento a suo carico, che dimostrano la situazione economica negativa dell'imputato e le difficoltà a adempiere totalmente ai suoi obblighi. 6.1.5. Infine, per quanto sia comunque idoneo ad integrare l'elemento oggettivo del reato, non si può non considerare l'impegno del S. nell'adempiere, seppur parzialmente, all'obbligo di mantenimento, considerate altresì le sue condizioni economiche disastrose che gli impedivano di sostenere in maniera completamente dignitosa perfino sé stesso. Da ultimo, è necessario precisare che il noleggio della Ferrari da parte del S. si riferisce ad un periodo antecedente alla contestazione, al 2012- 2013 precisamente, come riferito dalla stessa M.; mentre il viaggio in Spagna era giustificato dalla ricerca di un lavoro migliore anche per contribuire al mantenimento del figlio, e dunque in un'ottica di ricerca attiva di un'occupazione da parte del S.. 6.2. Richiamato pertanto il recente insegnamento del giudice di legittimità a mente del quale l'impossibilità assoluta dell'obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionati dall'art. 570-bis cod. pen., che esclude il dolo, non può essere assimilata alla indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell'interesse dei minori e degli aventi diritto alle prestazioni, il soggetto avesse effettivamente la possibilità di assolvere ai propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza, ritiene questa Corte che nel caso in esame la condizione del S. quale emersa dall'istruttoria lo ponesse per l'appunto in condizione di non poter adempiere agli obblighi imposti, indipendentemente dalla sua volontà, risultando che lo stesso si fosse trovato in condizioni economiche così disastrose da dover ricorrere all'aiuto sistematico della C. e di associazioni dello stesso genere, oltre che di parenti ed amici e ciò nonostante si fosse dato da fare nel tentativo di reperire una nuova attività lavorativa, anche umile, quale quella da ultimo reperita. 6.3. Va da ultimo rilevato come la remissione della querela ad opera della persona offesa S.M. risulta irrilevante nel caso in esame, trattandosi di reato perseguibile d'ufficio. 7. L'imputato alla luce del quadro probatorio quantomeno dubbio che emerge dall'istruttoria con riguardo alla ricorrenza dell'elemento soggettivo, deve andare assolto dal delitto ascritto perché il fatto non costituisce reato. P.Q.M. La Corte Visto l'art. 605 c.p.p., in riforma della sentenza impugnata assolve G.S. dal reato ascrittigli perché il fatto non costituisce reato e revoca le statuizioni civili. Motivazione contestuale. Così deciso in Cagliari, il 6 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4253 del 2019, proposto da Au. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Ce., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Comune di Pisa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Sa. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Le. in Roma, via (...); nei confronti To. Ae. S.p.A. ed altri, non costituite in giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum: Fl. Bu. S.r.l. e Ti. S.p.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dall'avvocato Gi. Pr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Prima n. 00371/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Pisa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2023 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e viste le conclusioni come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana ha respinto il ricorso proposto dalla società Au. S.r.l. contro il Comune di Pisa e nei confronti di P. s.p.a. e Pi. s.p.a., nonché di To. Ae. s.p.a., per l'annullamento dell'ordinanza dirigenziale n. DD-10/244 del 6 febbraio 2018, avente ad oggetto "Regolamento della circolazione degli autobus nella città di Pisa - Quartiere (omissis) - Integrazione dell'ordinanza n. 505 del 18.12.2012", con la quale il Comune di Pisa ha ordinato, a far data dal 19 aprile 2018, il divieto di circolazione per gli autobus in tutte le strade del centro abitato e nelle vie esterne ma strettamente connesse al centro abitato specificate nell'ordinanza, ordinando inoltre la sosta degli autobus diretti nelle zone vietate presso il parcheggio "scambiatore" posto sulla via (omissis), in adiacenza alla fermata intermedia del c.d. People Mover (metropolitana leggera di collegamento tra l'aeroporto e la stazione ferroviaria di Pisa). 1.1. L'ordinanza è stata impugnata dalla società ricorrente, in quanto autorizzata ad espletare il servizio di trasporto pubblico a mezzo autobus da Pi. Ae. a Fi. Ae., in qualità di sub concessionaria della società To. Ae., relativamente sia ad alcuni spazi all'interno dell'Aeroporto di Pi. per la vendita dei biglietti del servizio "transfer bus" da e per Firenze, sia ad "alcune aree esterne destinate al carico e scarico di passeggeri dei veicoli utilizzati da Autostradale per lo svolgimento del servizio". La società Autostradale, impugnando l'ordinanza, ha dedotto che: - l'amministrazione comunale aveva di fatto inibito l'accesso dei pullman nell'Aeroporto di Pi., per imporre come terminal aeroportuale alcuni parcheggi "scambiatori"; - la determinazione assunta dal Comune di Pisa era la conseguenza dell'avvenuta attivazione (in data 18 marzo 2017) del c.d. People Mover, cioè di una navetta completamente automatizzata, che collega l'Aeroporto di Pi. con la stazione ferroviaria, effettuando una fermata intermedia all'altezza della via (omissis) - (omissis) in prossimità della quale sono stati realizzati i due parcheggi di scambio; - l'opera era stata posta in essere ricorrendo all'istituto della finanza di progetto ed in base ad una convenzione del 2012 tra il Comune di Pisa e la società "Pi." (Azienda per la Mo. s.p.a.), a seguito della quale era stata costituita la società P. s.p.a., concessionaria della gestione del trasporto e dei parcheggi "scambiatori". Nella sentenza si rappresenta che la convenzione costituiva l'ultimo atto di una serie di accordi intervenuti tra i soggetti coinvolti, specificati in motivazione. 1.2. Il tribunale - dato atto dei motivi di ricorso e della costituzione e delle difese in giudizio del Comune di Pisa e delle società Pi. e P. - ha deciso come segue: 1) ha respinto il primo motivo (violazione degli artt. 5, 6 e 7 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), ritenendo ininfluente che nell'ordinanza fosse stato richiamato l'art. 7 del d.lgs. n. 285/1992 invece dell'art. 6, "sussistendo la titolarità del Comune di disciplinare la circolazione complessiva dell'area comunque riferita al centro abitato, incidendo così anche sulle strade adiacenti, nell'intento di prevenire l'inquinamento e la salubrità dell'ambiente circostante"; 2) ha quindi disatteso "l'argomentazione contenuta nelle ultime memorie", con la quale la società Autostradale aveva sostenuto l'applicabilità della deroga al divieto di accesso per il trasporto pubblico locale, stabilita dagli artt. 2 e 4 dell'ordinanza n. 505/2012; il tribunale ha escluso l'applicabilità della deroga, affermando quanto segue: "Ai sensi del d.lgs. n. 422/98 e della legge regionale 42/1998 il servizio di trasporto pubblico locale risulta caratterizzato dalla scelta con gara del gestore con una gara pubblica...e, ancora, dalla regolamentazione del rapporto mediante contratto di servizio" e precisando che tali requisiti non sussistevano nel caso di specie e che il collegamento con l'aeroporto andava inserito tra i "servizi autorizzati"; 3) ha respinto il secondo motivo (inidoneità dell'ordinanza a preservare la qualità della vita nel quartiere di (omissis), attraverso la riduzione del traffico su gomma, perché gli autobus non attraverserebbero il quartiere e comunque violazione dell'accordo di programma del 2011), ritenendo che il quartiere (omissis) fosse comunque interessato dal traffico su gomma e che le azioni comunali fossero "coerenti (consentendo di escludere l'esistenza di profili di eccesso di potere) con la volontà dell'Amministrazione, così come dichiarata nell'ordinanza n. 244/2018, di "operare un decremento del carico veicolare sulla rete stradale oggetto di studio" e di liberare le abitazioni dalle conseguenze del traffico dei bus". Ha aggiunto una serie di argomentazioni volte a sostenere il giudizio di legittimità dell'esercizio della discrezionalità amministrativa da parte dell'amministrazione comunale (punti da 2.3. a 2.8 della motivazione ai quali è sufficiente fare rinvio, essendo rimasti estranei al thema decidendum dell'appello); 4) ha respinto il terzo e ultimo motivo (violazione dell'obbligazione assunta con l'accordo di programma 2011 di mantenere i parcheggi realizzati col c.d. People Mover "ad esclusivo utilizzo cittadino"), ritenendo non provata l'affermazione della ricorrente che il parcheggio "scambiatore" di Via (omissis) fosse divenuto un parcheggio a servizio dell'aeroporto ed anzi smentita la stessa affermazione dal fatto che il parcheggio rimaneva adibito comunque ad un uso prettamente "cittadino", essendo solo in parte dedicato alla sosta degli autobus. 1.3. Respinto il ricorso, le spese processuali sono state regolate secondo il criterio della soccombenza e poste a carico della società ricorrente ed a favore di ciascuna delle parti resistenti. 2. Avverso la sentenza Au. S.r.l. ha proposto appello con un unico motivo. 2.1. Il Comune di Pisa si è costituito per resistere all'appello. 2.2. Le altre parti resistenti in primo grado non si sono costituite in appello. 2.3. Sono invece intervenute ad adiuvandum dell'appellante le società Fl. Bu. s.r.l. e Ti. s.p.a., a loro volta esercenti la gestione dei servizi di trasporto di persone nell'ambito territoriale toscano. 2.4. All'udienza del 5 dicembre 2023 la causa è stata assegnata a sentenza, previo deposito di memorie e repliche. 3. Con l'unico motivo (Violazione e falsa applicazione art. 1 d.lgs. n. 422/1997 e art. 1, comma 2, L.R. Toscana n. 42/1998. Irragionevolezza. Eccesso di potere) la società appellante si limita a censurare una sola delle ragioni della decisione, vale a dire quella attinente alla natura giuridica del servizio di trasporto effettuato da Autostradale ed alla ritenuta inapplicabilità della deroga di cui agli artt. 2 e 4 dell'ordinanza comunale n. 505/2012 (sopra sintetizzata al n. 2 del punto 1.2). 3.1. L'appellante premette che l'ordinanza impugnata ha fatto salve le eccezioni previste dai detti articoli della precedente ordinanza n. 505 del 18 dicembre 2012 e che, ai sensi dell'art. 4, punto 1), di quest'ultima, la deroga al divieto di circolazione si applica "agli autobus del trasporto pubblico locale, con sosta e fermata negli appositi spazi riservati", di modo che agli operatori del servizio di trasporto pubblico locale, quale sarebbe la società ricorrente, sarebbe consentito transitare all'interno del centro abitato del Comune di Pisa ed all'interno dell'Aeroporto di Pi.. 3.2. La società Autostradale precisa infatti di svolgere il servizio di trasporto passeggeri a mezzo autobus Firenze - Pi. Ae. e viceversa in forza dell'autorizzazione rilasciata dalla Regione Toscana con decreto n. 2951 del 13 luglio 2011, adottata ai sensi dell'art. 14, l.r. n. 42/1998, recante per l'appunto "Norme per il trasporto pubblico locale". Dato ciò, l'appellante denuncia l'errore nel quale sarebbe incorso il giudice di primo grado nella configurazione dei servizi di trasporto pubblico locale, posto che il servizio di trasporto passeggeri svolto dagli operatori economici in virtù di autorizzazioni regionali - come nel caso appunto della società Autostradale - è qualificabile servizio di trasporto pubblico locale ai sensi della normativa vigente, quale ricostruita nell'atto di appello, con particolare riferimento alla disciplina approvata dalla Regione Toscana. 4. Il motivo è infondato nel merito. Pertanto, non è necessario soffermarsi sulla ammissibilità della censura - rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado ai sensi dell'art. 35, comma 1, c.p.a. -, che pur appare dubbia, considerato che, come peraltro evidenziato in sentenza, ha formato oggetto di una "argomentazione" contenuta nelle memorie conclusive dinanzi al T.a.r., ma risulta essere estranea ai motivi del ricorso che ha introdotto il giudizio di primo grado. L'estraneità è confermata dal fatto che oggetto specifico del ricorso di primo grado è stata esclusivamente l'ordinanza dirigenziale n. 10/244 del 6 febbraio 2018, laddove, se fosse stata interpretabile come preteso dall'appellante non avrebbe dovuto essere impugnata, perché priva di lesività nei confronti di Au. S.r.l. Piuttosto, avrebbe dovuto essere impugnato - eventualmente anche in subordine - il provvedimento di diniego di cui alla nota prot. n. 52496 del 31 maggio 2018 nei confronti della società appellante, la quale vi fa esplicito riferimento soltanto nel ricorso in appello, non essendo lo stesso nemmeno menzionato nel ricorso di primo grado. 4.1. In disparte tale profilo di ammissibilità, l'infondatezza nel merito consegue ad un'interpretazione delle ordinanze n. 10/244 del 6 febbraio 2018 e n. 505 del 18 dicembre 2012 diversa da quella sostenuta da Autostradale (e dalle società intervenute ad adiuvandum). 4.1.1. Va premesso che, in linea generale, è da condividere la ricostruzione della normativa di settore effettuata da parte appellante, sintetizzabile nei seguenti punti decisivi: - ai sensi del d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422, attuativo della delega di cui all'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, sono servizi di trasporto pubblico locale, tra gli altri, i servizi di mobilità terrestri, che operano in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite, ad accesso generalizzato, in un territorio infra-regionale; nell'ambito di tali servizi vi sono poi i c.d. servizi minimi, cioè quelli qualitativamente e quantitativamente sufficienti a soddisfare la domanda di mobilità dei cittadini, i cui costi sono a carico del bilancio delle regioni; - la Regione Toscana è intervenuta con la legge regionale 31 luglio 1998, n. 42 (Norme per il trasporto pubblico locale), distinguendo - per quanto rileva ai fini della decisione - tra "servizi programmati" ("i servizi di trasporto pubblico individuati dagli enti competenti ed effettuati nelle forme indicate all'articolo 13", cioè con oneri a carico degli enti, a loro volta suddivisi in servizi minimi e servizi aggiuntivi) e "servizi autorizzati" ("i servizi di trasporto pubblico effettuati da imprese di trasporto in possesso dei requisiti previsti dalla vigente normativa ed autorizzati ai sensi dell'articolo 14"); - i servizi "programmati" possono essere esercitati, oltre che in economia, mediante affidamento a terzi, previo espletamento di procedura concorsuale, e sono regolati da contratti di servizio (art. 13 della l.r.); - i servizi "autorizzati" presuppongono il rilascio dell'autorizzazione alle condizioni fissate dall'art. 14 della legge regionale e, nel caso di autorizzazione da rilasciare per tratte interessate anche da servizi di trasporto pubblico "programmati", occorre che l'amministrazione ne verifichi la compatibilità e, in caso negativo, la possibilità e le condizioni per la modifica del contratto di servizio (art. 14, comma 5, della l.r.). Tenuto conto del quadro normativo sintetizzato, non è errata la qualificazione di attività di trasporto pubblico locale esercitata da Autostradale, in quanto avente le caratteristiche richieste dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 422 del 1997, pur non essendo finanziata da parte dell'amministrazione né obbligata in forza di contratto di servizio, quindi rientrando fra i servizi di trasporto pubblico locale "autorizzati", e non "programmati". 4.1.2. Siffatta conclusione non consente tuttavia di estendere alla società ricorrente la deroga di cui all'art. 4.1 dell'ordinanza n. 505 del 2012, richiamata dall'ordinanza n. 10/244 del 2018. Quest'ultima va infatti inserita nel contesto dell'attività discrezionale dell'amministrazione, valorizzata nella sentenza gravata mediante il richiamo: - in primo luogo, degli "accordi intervenuti tra i soggetti coinvolti, tra i quali il protocollo d'intesa stipulato il 12 marzo 2004, l'accordo del 1 marzo 2010 "per il potenziamento dei collegamenti e dell'integrazione modale fra l'Aeroporto Ga. Ga. di Pi. e la Stazione di Pisa Centrale" e, ancora, l'accordo programma stipulato il 13 aprile 2011 tra Regione Toscana, Comune di Pisa, Provincia di Pisa, SA. S.p.A., Re. Fe. It. S.p.A., FS Si. Ur. S.p.A. "per la realizzazione di un sistema di collegamento (People Mover) tra l'aeroporto Ga. Ga. di Pi. e la Stazione ferroviaria di Pisa Centrale, parcheggi scambiatori e viabilità di connessione"" (cfr. parte "in fatto"); - soprattutto, del "percorso motivazionale dell'ordinanza n. 244/18", laddove "evidenzia come quest'ultima sia diretta a risolvere la situazione di congestionamento del quartiere (omissis), riconducibile al traffico derivante dall'attraversamento e stazionamento degli autobus" (punto 1.6 della parte "in diritto"). 4.1.3. Vi sono ulteriori passaggi dell'articolata motivazione del provvedimento gravato che si rivelano decisivi per la sua corretta interpretazione quanto alla deroga oggetto del presente appello. Nella "premessa" dell'ordinanza si richiamano: - la Relazione al Regolamento Urbanistico del 2001 (deliberazione C.C. n. 43 del 28.07.01 - Approvazione definitiva), nella parte in cui, in riferimento al quartiere (omissis) - (omissis) erano previsti degli interventi ivi specificati, in conformità con il Piano Strutturale approvato nel 1998 (deliberazione C.C. n. 103 del 02.10.98 - Approvazione definitiva); - il citato Accordo di Programma del 2011 (avente come obiettivi, tra gli altri, "quelli di alleggerire la pressione del traffico sul quartiere, di migliorare così la qualità urbana e insediativa dell'area circostante la nuova infrastruttura, nonché di razionalizzare la viabilità locale; obiettivi da conseguire anche attraverso la realizzazione di nuove strade destinate a raggiungere più agevolmente la rete stradale primaria, la creazione di aree a parcheggio e la diminuzione della circolazione dei veicoli e, in particolare, degli autobus, nel quartiere"); - il Piano Regionale Integrato delle Infrastrutture e della Mobilità, approvato con deliberazione del Consiglio Regionale n. 18 del 12.02.14, che "indica come azione prioritaria nell'intera Regione ed in quartieri del genere, l'incremento delle azioni volte allo spostamento dei traffici da gomma su ferro"; - soprattutto lo Studio della domanda del sistema di trasporto per il collegamento Aeroporto Ga. - Stazione FS, posto alla base dell'Accordo di Programma ed allegato al bando di gara per l'assegnazione della concessione di costruzione e gestione del People Mover, dove "si prevede, nell'area interessata, la diminuzione dei passeggeri che si recano all'Aeroporto con mezzi propri (auto, auto con accompagnatore e auto a noleggio) e dei passeggeri che utilizzano gli autobus (e per autobus si intendono quelli autorizzati ai sensi dell'articolo 14 della Legge Regione Toscana n. 42 del 1998, quelli extraurbani e quelli urbani in servizio di Trasporto Pubblico Locale, tra i quali la LA. Ro., che negli atti di pianificazione regionale, trovano capolinea non più all'aeroporto ma alla Stazione Fs"; evidente è in tale ultimo passaggio la distinzione che si è inteso fare tra gli autobus "autorizzati" e gli autobus definiti "urbani in servizio di Trasporto Pubblico Locale", con ciò presupponendo il riferimento ai servizi "programmati"; - ed ancora la documentazione riguardante la domanda di sostegno alla Commissione Europea e il documento di indirizzo per la formazione del Piano Strutturale dei Comuni dell'Area Pisana. Data la "premessa", e considerata l'avvenuta realizzazione sia dell'opera c.d. People Mover sia dei due parcheggi di scambio, nell'ordinanza di divieto impugnata viene rilevato, sulla base di studi ivi indicati, che "per concorrere più efficacemente al decongestionamento dello svincolo della SGC FI-PI-LI in corrispondenza dell'aeroporto, la fermata intermedia del People Mover può divenire il nodo di interscambio su cui convogliare le autolinee regionali che collegano l'aeroporto con diverse città (Firenze, Lucca, Viareggio, ecc.), nonché delle linee nazionali di autobus afferenti a Pisa" e viene dato atto che "nel parcheggio scambiatore dei Via (omissis) è possibile accogliere gli autobus che escono dalla superstrada o si immettono nella stessa, che invece sinora hanno utilizzato lo svincolo di Pi. Ae., con tutte le ricadute negative sulla situazione ambientale e di traffico del quartiere". 4.2. Le motivazioni contenute nell'ordinanza sono perfettamente coerenti con gli obiettivi da realizzare, tra i quali va compreso - in ragione dei diversi rinvii contenuti nel provvedimento e del tenore complessivo dello stesso - anche quello - su cui si sofferma la difesa del Comune di Pisa nella memoria depositata in appello - di garantire la compatibilità dei servizi "autorizzati" ex art. 14 della legge regionale n. 42 del 1998 con il servizio "programmato" (sebbene non ne costituisca un obiettivo specifico, come sottolineato da Autostradale nella memoria di replica) e con gli obblighi assunti con l'accordo di programma del 13 aprile 2011 (invece specificamente richiamati). 4.3. La portata di dette motivazioni sarebbe posta nel nulla, con conseguente mancata realizzazione degli obiettivi perseguiti, ove la deroga del punto 4.1 dell'ordinanza del 2012 (laddove prevede la possibilità di transito nel centro urbano di Pisa, per gli "autobus del trasporto pubblico locale, con sosta e fermata negli appositi spazi riservati") - peraltro solo genericamente richiamato nell'ordinanza del 2018 - fosse intesa in senso strettamente letterale, quindi riferita a tutti gli autobus del servizio di trasporto pubblico locale. Più correttamente, tenuto conto dell'ampia e articolata motivazione che sorregge l'istituzione del divieto impugnato, la deroga va riferita agli autobus urbani in servizio pubblico "programmato", cioè a quello che la sentenza gravata ha individuato come "caratterizzato dalla scelta con gara del gestore con una gara pubblica... e ancora dalla regolamentazione del rapporto mediante contratto di servizio". Si tratta infatti dell'unica possibile interpretazione pienamente conservativa della portata e degli obiettivi del provvedimento impugnato, nonché coerente con la sua motivazione, nella quale - per come emerge per tabulas anche soltanto dai passaggi sopra riportati - è inequivocabile l'intenzione dell'amministrazione di riferire il divieto a tutti gli autobus "autorizzati" ai sensi dell'art. 14 della legge regionale, malgrado la distinzione tra le due tipologie di servizi di trasporto pubblico locale non sia esplicitata, ma solo presupposta, dall'ordinanza. 5. L'appello va quindi respinto. 5.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo a carico dell'appellante ed a favore del Comune di Pisa. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese tra quest'ultimo e le società intervenute ad adiuvandum dell'appellante, non avendo il Comune svolto attività difensiva relativa all'intervento. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore del Comune di Pisa nell'importo complessivo di Euro 4.000,00, oltre accessori come per legge. Compensa le spese tra il Comune e le società intervenute ad adiuvandum dell'appellante. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Giorgio Manca - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE PENALE Composta da: Dott. CALASELICE Barbara - Presidente Dott. MASI Paola Dott. CAPPUCCIO Daniele Dott. CENTONZE Alessandro Dott. RUSSO Carmine - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Em.Gi., nato a omissis il omissis avverso l'ordinanza del 23/06/2023 del Tribunale del riesame di Caltanissetta udita la relazione svolta dal Consigliere Carmine Russo; udite le conclusioni del PG, Assunta Cocomello, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la nota di conclusioni scritte del difensore del ricorrente, avv. An.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 23 giugno 2023 il Tribunale del riesame di Caltanissetta ha confermato l'ordinanza cautelare di applicazione della custodia in carcere nei confronti di Em.Gi. emessa dal Gip. del Tribunale di Gela in relazione al reato di cui agli articoli 110 cod. pen. e 2, 4 e 7 L. 2 ottobre 1967, n. 895, perché illegalmente portava in luogo pubblico una pistola a funzionamento semiautomatico calibro 7.65; fatto commesso in Gela il 22 ottobre del 2022. In particolare, il giudice cautelare riteneva accertato che nella giornata del 22 ottobre il minorenne, giudicato a parte, Tu.Ro., che sedeva sul sedile passeggero di un'autovettura la cui targa era stata occultata da nastro adesivo nero, condotta dal maggiorenne Em.Gi., aveva esploso sei colpi di pistola all'indirizzo di Co.Vi., Fa.Ca. ed Tu.Or., ferendo i primi due al calcagno ed alla gamba; la vicenda era accaduta per precedenti dissidi tra Tu.Ro. e le persone offese. Ad Em.Gi. erano stati contestati il reato di tentate lesioni volontarie aggravate (56, 577, 582 583, 585 cod. pen.) il reato di concorso in porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (artt. 4 e 7 L. 895 del 1967). La misura era stata applicata solo per il reato di porto in luogo pubblico della pistola. Secondo la ricostruzione del giudice cautelare, l'accertamento del fatto era stato possibile grazie alle immagini delle videocamere di sicurezza di un bar, che avevano ripreso parte del percorso dell'autovettura Fiat Panda di colore bianco su cui viaggiavano gli autori dell'agguato, ed avevano consentito di notare che la persona che sedeva sul sedile del passeggero aveva il braccio sinistro fasciato; a seguito di accertamenti presso l'ospedale di Gela era emerso che tre giorni prima Tu.Ro. era stato medicato e refertato per una frattura alla falange media del dito terzo della mano sinistra; era stato individuato dalle fattezze anche il conducente dell'autovettura, nonché una donna che sedeva sul sedile posteriore; vi era stata una prima confessione da parte del soggetto maggiorenne che guidava l'autovettura, che aveva indicato in Tu.Ro. la persona che aveva materialmente sparato, era seguita poi anche la confessione da parte dello stesso Tu.Ro. nonché la chiamata in reità dei due da parte della donna che era seduta sul sedile posteriore. 2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l'indagato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi, di seguito esposti nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. Con il primo motivo deduce violazione di legge nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto la pistola era materialmente detenuta da Tu.Ro. ed è rimasta occultata nei pantaloni della tuta di Tu.Ro. fino al momento in cui questi ha sparato; Em.Gi. era intento a guidare e non ha mai potuto accorgersi della esistenza di questa pistola; i fatti accaduti dopo il momento in cui Tu.Ro. ha sparato non possono essere ritenuti rilevanti al fine di stabilire il concorso nel porto; deduce, inoltre, violazione di legge nella valutazione delle esigenze cautelari, sia con riferimento al pericolo di inquinamento delle prove, atteso che il reato è stato commesso nell'ottobre del 2022 e la misura è applicata nel maggio del 2023, ed in questo lungo arco temporale Em.Gi. non ha tenuto comportamenti tali da far temere un ipotetico inquinamento delle prove ma ha addirittura rilasciato dichiarazioni confessorie (inoltre la polizia giudiziaria in pochi giorni ha completato l'istruttoria sventando qualsiasi pericolo di inquinamento) sia in ordine al pericolo di reiterazione del reato; l'ordinanza motiva esclusivamente sulla gravità del fatto commesso e sui precedenti penali da cui l'indagato è gravato, non evidenzia un concreto ed attuale pericolo che lo stesso possa commettere gravi delitti con l'uso di armi, anche perché alla data della emissione dell'ordinanza sono decorsi nove mesi dalla data del commesso reato, periodo in cui lo stesso non ha compiuto nessun tipo di reato. Con il secondo motivo deduce violazione dell'articolo 275 cod. proc. pen., perché non è stata considerata adeguata la misura cautelare degli arresti domiciliari, anche attraverso il controllo con braccialetto elettronico, ma ragioni di proporzionalità avrebbero imposto l'applicazione di tale misura; l'indagato, d'altronde, pur avendo riportato diverse condanne, non ha mal riportato condanne per evasione dagli arresti domiciliari. Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione sia in punto di inquinamento probatorio che di reiterazione del reato che in punto di inidoneità del braccialetto elettronico, perché la motivazione dell'ordinanza del Tribunale del riesame è sovrapponibile a quella dell'ordinanza del Gip. 3. La difesa dell'indagato ha chiesto la discussione orale. Il Procuratore Generale, Assunta Cocornello, ha chiesto il rigetto del ricorso. Nessuno è stato presente per il ricorrente. Il difensore del ricorrente, avv. An.Ca., ha inviato nota di conclusioni scritte con cui ha insistito per l'accoglimento del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 1.1. Il primo motivo attacca anzitutto la valutazione effettuata dal Tribunale del riesame in punto di gravi indizi di colpevolezza, deducendo, in particolare, che la pistola era materialmente detenuta da Tu.Ro. ed è rimasta occultata nei pantaloni della tuta di Tu.Ro. fino al momento in cui questi ha sparato, che Em.Gi. era intento a guidare e non ha mai potuto accorgersi della esistenza di questa pistola, e che i fatti accaduti dopo il momento in cui Tu.Ro. ha sparato non possono essere ritenuti rilevanti al fine di stabilire il concorso di Em.Gi. nel porto. L'argomento è infondato. In modo del tutto logico l'ordinanza motiva il giudizio sui gravi indizi affermando che nessuna credibilità può essere riconosciuta alla tesi difensiva secondo cui il ricorrente avrebbe creduto al fatto che Tu.Ro. portasse con sé un'arma giocattolo, trattandosi di una versione contrastante con le particolari cautele adoperate dagli indagati per ostacolare l'attività investigativa, quale l'uso di un passa montagna, l'utilizzo di un'auto presa a noleggio e l'occultamento delle targhe, che denunciano la piena consapevolezza della gravità dell'atto intimidatorio che stavano andando a compiere, gravità di gran lunga superiore a quella normalmente prevedibile per il caso di un utilizzo di arma finta, che sarebbe stata in grado solo di esplodere soltanto rumore. Il primo motivo attacca poi la valutazione effettuata dal Tribunale del riesame in punto di esigenze cautelari, deducendo, in particolare, con riferimento al pericolo di inquinamento delle prove, che il reato è stato commesso nell'ottobre del 2002 e la misura è applicata nel maggio del 2023, in questo lungo arco temporale Em.Gi. ha rilasciato dichiarazioni confessorie e l'indagine è stata completata. L'argomento è inammissibile, in quanto non si confronta con la motivazione dell'ordinanza impugnata che ha desunto il pericolo di inquinamento probatorio dalle minacce poste in essere dal ricorrente in danno della testimone Co.An. (la donna che era in auto seduta sul sedile posteriore) al fine di indurla a non rendere dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti. Il primo motivo attacca, da ultimo, anche la valutazione effettuata dal Tribunale del riesame in punto di pericolo di reiterazione del reato, deducendo che esso è stato desunto esclusivamente dalla gravità del fatto commesso e dai precedenti penali da cui l'indagato è gravato, mentre non sarebbe stato evidenziato un concreto ed attuale pericolo che lo stesso possa commettere gravi delitti con l'uso di armi. Anche questo argomento è inammissibile, in quanto non si confronta con la motivazione dell'ordinanza impugnata che ha desunto il pericolo di reiterazione del reato dalle dichiarazioni della testimone Co.An., che ha riferito di essere stata minacciata da Em.Gi. con una pistola, oltre che, in modo non illogico, dall'esame del certificato penale da cui emerge che il ricorrente è gravato da plurimi precedenti anche specifici, tutti indicati in ordinanza. 1.2. Il secondo motivo deduce violazione dell'articolo 275 cod. proc. pen., perché non è stata considerata adeguata la misura cautelare degli arresti domiciliari, anche attraverso il controllo con braccialetto elettronico, e che ragioni di proporzionalità avrebbero imposto l'applicazione di tale misura. Il motivo è infondato, perché l'ordinanza ha preso posizione sulla possibilità o meno di applicare gli arresti domiciliari con il controllo a distanza tramite braccialetto elettronico, ma ha ritenuto tale misura non in grado di tutelare le esigenze cautelari, attesa l'impossibilità di fare affidamento sulla capacità del ricorrente di osservare le prescrizioni delle misure alternative al carcere. Il ricorso attacca la motivazione dell'ordinanza impugnata sostenendo che l'indagato, pur avendo riportato diverse condanne, non ha mai riportato condanne per evasione dagli arresti domiciliari, ma la prognosi negativa sull'affidamento al rispetto spontaneo delle prescrizioni di misure cautelari diverse dal carcere può legittimamente essere desunta anche da fatti diversi da una condanna per evasione, e nel caso in esame, mediante il richiamo contenuto nel passaggio della ordinanza impugnata alle "ragioni anzidette" devono intendersi richiamate sia le minacce alla testimone, su cui l'ordinanza impugnata si diffonde molto, sia i precedenti penali che depongono per la completa inaffidabilità del ricorrente. Il motivo è, pertanto, infondato. 1.3. E', invece, inammissibile, il terzo motivo, che deduce vizio di motivazione perché la motivazione dell'ordinanza del Tribunale del riesame sarebbe sovrapponibile a quella dell'ordinanza del Gip. Premesso che la giurisprudenza di legittimità ritiene che la sistematica dell'autonoma valutazione sia applicabile all'ordinanza genetica del giudice per le indagini preliminari, ma non a quella confermativa del Tribunale del riesame (Sez. l, Sentenza n. 8518 del 10/09/2020, dep. 2021, Galletta, Rv. 280603), il motivo è in ogni caso inammissibile, perché formulato in modo estremamente generico e non indica in quali passaggi logici la motivazione del Tribunale del riesame sarebbe meramente apparente. 2. Ai sensi dell'art. 616, comma l, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. 3. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 25 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 3 gennaio 2024.
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