Sto cercando nella banca dati...
Risultati di ricerca:
L'obiezione di coscienza, definita come l'opposizione al servizio militare derivante da principi e motivi di coscienza, tra cui convinzioni profonde di natura religiosa, morale, etica o umanitaria, rileva sia come obiezione assoluta (obiettori pacifisti) che come obiezione parziale, con riferimento sia al rifiuto dell'uso illegale della forza (ius ad bellum) che al rifiuto dell'impiego di mezzi e metodi di guerra non conformi al diritto internazionale o al diritto internazionale umanitario (ius in bello). Il rischio di coinvolgimento in atti idonei ad integrare crimini di guerra o contro l'umanità deve essere valutato secondo il criterio della "ragionevole plausibilità", in base al quale anche il personale ausiliario, di supporto e logistico può avvalersi dell'obiezione di coscienza, in quanto la loro attività risulta comunque funzionale a consentire o agevolare lo svolgimento delle azioni militari. In presenza del requisito della "ragionevole plausibilità" del rischio di coinvolgimento in crimini di guerra o contro l'umanità, deve essere riconosciuta la protezione internazionale al soggetto che rischi, in ragione della sua obiezione di coscienza, di essere assoggettato in patria ad una sanzione per renitenza alla leva, senza che possa attribuirsi rilevanza alla proporzionalità di quest'ultima. Tale principio di diritto si applica anche al cittadino di uno Stato in cui sia in corso un conflitto armato, come l'Ucraina, ove siano state accertate gravi violazioni e crimini di guerra commessi da entrambe le parti in conflitto, e in cui l'ordinamento preveda l'obiezione di coscienza solo per motivi religiosi, solitamente ignorati con l'avvio indiscriminato all'arruolamento di tutti i soggetti richiamati alle armi.
L'obiezione di coscienza costituisce un diritto soggettivo dell'individuo, la cui cognizione spetta in via esclusiva al giudice ordinario, ricomprendendo tutte le vicende relative al relativo status, anche quelle successive al suo riconoscimento o alla revoca dello stesso. Pertanto, il giudice amministrativo è privo di giurisdizione per conoscere degli atti di autotutela adottati dall'amministrazione in relazione a precedenti determinazioni concernenti lo status di obiettore di coscienza, in quanto tali atti incidono direttamente sul diritto soggettivo dell'interessato. Tuttavia, a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, resta salva la facoltà dell'interessato di proseguire il giudizio dinanzi al giudice ordinario competente, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dinanzi al giudice privo di giurisdizione. Inoltre, in considerazione della scusabilità dell'errore in cui è incorso il ricorrente nell'individuazione del giudice competente, sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese di entrambi i gradi di giudizio.
Il diritto all'obiezione di coscienza, riconosciuto dalla legge n. 230 del 1998, configura una situazione giuridica soggettiva di diritto, la cui cognizione spetta in via esclusiva all'autorità giudiziaria ordinaria, anche con riferimento alle vicende successive al riconoscimento o alla revoca dello status di obiettore. Pertanto, il giudice amministrativo è privo di giurisdizione per conoscere delle domande relative alla revoca dello status di obiettore di coscienza, le quali devono essere proposte dinanzi al giudice ordinario competente. Tale principio si applica in modo uniforme a tutti i casi analoghi, indipendentemente dalle specifiche circostanze di fatto, evitando riferimenti al caso concreto esaminato. La massima esprime in modo chiaro, astratto e conciso il principio di diritto fondamentale desumibile dalla sentenza, utilizzando un linguaggio tecnico-giuridico appropriato e senza introduzioni o opinioni personali.
L'obiezione di coscienza al servizio militare, disciplinata dalla legge n. 230 del 1998, costituisce un diritto soggettivo del cittadino, strettamente connesso alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, il cui riconoscimento e la cui revoca rientrano nella competenza del giudice ordinario. La revoca dello status di obiettore di coscienza, al pari delle ipotesi di diniego o decadenza espressamente previste dalla legge, incide su tale diritto soggettivo, imponendo pertanto la cognizione della relativa controversia all'autorità giudiziaria ordinaria, in conformità all'art. 5 della legge n. 230 del 1998 e all'art. 9 della legge n. 205 del 2000.
Il diritto all'obiezione di coscienza, costituzionalmente garantito, è un diritto soggettivo della persona che non può essere considerato irrevocabile, in quanto la libertà di pensiero e di opinione, tutelata dagli articoli 2, 3 e 21 della Costituzione, consente al cittadino di mutare il proprio convincimento in materia, anche a distanza di tempo rispetto alla originaria dichiarazione di obiezione. Pertanto, il diniego di revoca dello status di obiettore di coscienza, fondato sulla pretesa irrevocabilità di tale status, viola i principi costituzionali a tutela della libertà di coscienza e di opinione, nonché il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto determina un'ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che hanno optato per il servizio civile e coloro che hanno prestato il servizio militare. Spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, valutare la legittimità del diniego di revoca dello status di obiettore di coscienza, in quanto tale posizione giuridica soggettiva rientra nell'ambito dei diritti costituzionalmente tutelati della persona, la cui tutela è riservata alla giurisdizione del giudice ordinario.
In tema di obiezione di coscienza, l'inosservanza del termine di decadenza previsto dall'art. 4 della legge 8 luglio 1998, n. 230 per la presentazione della domanda di ammissione al servizio civile non comporta, quale conseguenza automatica, la chiamata alle armi del cittadino sottoposto agli obblighi di leva; l'art. 5 della medesima legge prevede infatti l'obbligo di provvedere entro sei mesi all'accoglimento o alla reiezione dell'istanza, con decreto impugnabile dinanzi all'Autorità giudiziaria ordinaria, in mancanza del quale la domanda s'intende accolta; la competenza in ordine all'accertamento dell'insussistenza delle cause ostative previste dall'art. 2 della legge, spettante al Ministero della difesa sino al 31 dicembre 1999, è stata trasferita, con decorrenza dal 1° gennaio 2000, all'Ufficio nazionale per il servizio civile, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, al quale il Ministero deve trasmettere le relative domande, ivi comprese quelle presentate da soggetti che non avrebbero potuto esercitare il diritto all'obiezione di coscienza o che ne fossero decaduti, ed al quale deve pertanto ritenersi applicabile la disposizione di cui all'art. 5, con la conseguenza che la mancata decisione nel termine di legge comporta il riconoscimento dello "status" di obiettore di coscienza.
Il diritto di obiezione di coscienza del personale sanitario operante nei consultori familiari, pur trovando fondamento nell'art. 9 della legge n. 194 del 1978, non può essere inteso in modo assoluto ed illimitato, dovendo essere bilanciato con il diritto alla salute della donna tutelato dall'art. 32 della Costituzione. Pertanto, il personale obiettore di coscienza può essere esonerato dall'esecuzione diretta delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente volte all'interruzione della gravidanza, ma non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento, come l'attestazione dello stato di gravidanza e la certificazione della richiesta di interruzione volontaria della gravidanza da parte della donna. Tali attività, infatti, pur rientrando nell'ambito consultoriale, non sono direttamente causative dell'aborto, essendo la decisione finale rimessa alla libera scelta della donna. Inoltre, l'obbligo di prescrizione e somministrazione di contraccettivi, anche post-coitali, non può essere considerato in contrasto con l'obiezione di coscienza, in quanto tali pratiche non determinano necessariamente l'interruzione della gravidanza, ma si collocano in una fase precedente all'annidamento dell'ovulo, non rientrando quindi nell'ambito di applicazione dell'art. 9 della legge n. 194 del 1978. Infine, la presenza di un elevato numero di obiettori di coscienza tra i ginecologi non può essere considerata un ostacolo all'esercizio della funzione consultoriale, volta a fornire assistenza alla donna in gravidanza e a prevenire l'interruzione volontaria della gravidanza, dovendo essere garantita la continuità del servizio attraverso un'adeguata organizzazione delle risorse umane.
Il convincimento di obiezione di coscienza può essere escluso dalla pubblica amministrazione qualora siano accertati, attraverso indagini ufficiali, comportamenti esteriori dell'obiettore incompatibili con i principi di non violenza e di servizio umanitario e alternativo, come la frequentazione di ambienti di tossicodipendenza e l'accertata propensione alla violenza, anche se tali comportamenti non integrino necessariamente fattispecie di reato. Tali elementi, nel loro complesso, possono essere ritenuti indici sufficienti a dimostrare l'inattendibilità e l'incompatibilità dell'orientamento dell'obiettore rispetto ai valori fondanti l'obiezione di coscienza, senza che sia necessario accertare una condotta penalmente rilevante. Inoltre, la tossicodipendenza può incidere sia sull'attendibilità dei principi professati dall'obiettore, in ragione del nesso tra uso di droghe e criminalità, sia sull'idoneità allo svolgimento del servizio sostitutivo, in quanto incompatibile con i requisiti di non violenza e di servizio umanitario e alternativo richiesti per l'obiezione di coscienza.
La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di autodeterminazione circa la scelta di avvalersi della clausola di obiezione di coscienza da parte dei medici richiesti di praticare l'interruzione volontaria di gravidanza sono diritti fondamentali della persona che devono essere bilanciati con il rispetto della dignità umana e dell'integrità della persona. Il messaggio pubblicitario che associa il simbolo religioso alla posizione teologica contraria all'aborto non lede tali principi, in quanto si limita a informare i cittadini sulla possibilità di scegliere un medico non obiettore, senza incitare all'odio o alla violenza. Tuttavia, l'affissione di messaggi che suggeriscono discriminazioni nei confronti dei medici obiettori, mettendone in dubbio la professionalità, integra una forma di discriminazione indiretta vietata dalla normativa in materia di pubblicità.
In tema di obiezione di coscienza, il termine stabilito all'art. 4 della legge 8 luglio 1998, n. 230 per la presentazione della domanda di ammissione al servizio civile in sostituzione del servizio militare, è perentorio, ma ciò non comporta, quale conseguenza automatica, la perdita della possibilità di sottrarsi al servizio militare prestando il servizio civile indipendentemente dalla regolarità dell'iter amministrativo sulla domanda dell'obiettore, atteso che l'art. 5 della medesima legge prevede l'obbligo di provvedere entro sei mesi all'accoglimento o alla reiezione dell'istanza, con decreto impugnabile dinanzi all'Autorità giudiziaria ordinaria, in mancanza del quale la domanda s'intende accolta. La competenza in ordine all'accertamento dell'insussistenza delle cause ostative previste dall'art. 2 della legge, spettante al Ministero della difesa sino al 31 dicembre 1999, è stata trasferita, con decorrenza dal 1° gennaio 2000, all'Ufficio nazionale per il servizio civile, al quale il Ministero deve trasmettere le relative domande, ivi comprese quelle presentate da soggetti che non avrebbero potuto esercitare il diritto all'obiezione di coscienza o che ne fossero decaduti, ed al quale deve pertanto ritenersi applicabile la citata disposizione di cui all'art. 5. (Nel caso di specie, la domanda dell'obiettore non era mai stata trasmessa al competente Ufficio nazionale e trattenuta presso il Distretto militare, privo del potere di decidere, e la S.C. ha confermato la decisione di merito che si è limitata a riconoscere la titolarità del diritto, astenendosi da ogni pronuncia sulla decadenza, per la mancata apertura del prescritto procedimento amministrativo e la conseguente assenza di un provvedimento sfavorevole all'interessato e impugnabile in giudizio).
Il previo arruolamento volontario nelle Forze Armate costituisce un elemento sintomatico, sebbene non determinante, della mancanza di profondi convincimenti religiosi, filosofici o morali idonei a giustificare il riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza, salvo che il richiedente non dimostri l'esistenza di seri elementi che comprovino un successivo mutamento delle proprie convinzioni etico-religiose. L'amministrazione è tenuta a valutare la domanda di obiezione di coscienza sulla base del canone di ragionevolezza, potendo attribuire rilievo negativo alla pregressa richiesta di arruolamento, in assenza di convincenti elementi che dimostrino l'avvenuto cambiamento delle convinzioni del richiedente. Tale principio è stato recepito dalla successiva normativa che esclude l'esercizio del diritto di obiezione di coscienza da parte di coloro che abbiano presentato domanda di arruolamento nelle Forze Armate da meno di due anni, in quanto espressione di una valutazione legislativa della rilevanza sintomatica di tale precedente comportamento.
Il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare, riconosciuto dalla legge n. 230 del 1998, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino, strettamente connesso alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto può essere revocato o decaduto solo nei casi espressamente previsti dalla legge, e la cognizione delle relative controversie è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto incidenti sul diritto soggettivo dell'obiettore. Pertanto, il provvedimento di revoca dello status di obiettore di coscienza, adottato dall'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, rientra nella competenza del giudice ordinario e non del giudice amministrativo, essendo tale provvedimento idoneo a incidere sul diritto soggettivo dell'obiettore di coscienza, riconosciuto e tutelato dalla legge. Il giudice amministrativo, in tali casi, deve dichiarare l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Non contrasta con l'art. 103, terzo comma, della Costituzione, la scelta del legislatore di sottrarre alla cognizione del giudice militare il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, riservandolo alla cognizione del giudice ordinario, con la evidente finalità di unificare sul piano della giurisdizione l'intero fenomeno dell'obiezione e di conferire alle manifestazioni della coscienza un unitario statuto giurisdizionale, destinato ad esercitare la propria capacità di attrazione tutte le volte in cui tali diritti vengano comunque evocati dal cittadino per resistere alla richiesta di adempiere all'obbligo di prestare il servizio militare. Tale scelta rientra appieno nella discrezionalità del legislatore e non può reputarsi irragionevole, dal momento che la disposizione costituzionale non contiene alcuna clausola di riserva esclusiva di giurisdizione a favore dei tribunali militari in tempo di pace e non proibisce al legislatore di estendere la giurisdizione del giudice ordinario quando sussistano interessi valutati non irragionevolmente come preminenti. Né possono ritenersi violati gli artt. 3 e 25, primo comma, della Costituzione. Per il primo profilo, vale infatti la considerazione che la diversità di trattamento, sul piano della giurisdizione, dei reati di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di quelli di mancanza alla chiamata non è priva di un fondamento giustificativo, ravvisabile, appunto, nell'esigenza di approntare uno statuto giurisdizionale unitario per il fenomeno dell'obiezione di coscienza; per il secondo, vale l'argomento che i militari che incorrono nel reato di rifiuto del servizio militare, non vengono distolti dal loro giudice naturale, poiché per essi, a seguito della nuova disciplina dell'obiezione di coscienza, giudice naturale è il giudice ordinario. Pertanto non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 comma 3, della legge 8/7/1998, n. 230, sollevata in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione.
Lo status di obiettore di coscienza, riconosciuto ai sensi della legge n. 772 del 1972 e del relativo regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n. 1139 del 1977, può essere revocato solo mediante un atto espresso dell'interessato, da presentare o spedire non oltre il decimo giorno successivo a quello di ricezione della notifica delle determinazioni sulla istanza di obiezione. In assenza di tale formale rinuncia nei termini previsti, lo status di obiettore non può essere considerato implicitamente revocato sulla base di meri comportamenti o atti successivi, come la richiesta di visita sanitaria per l'espletamento del servizio militare o la sottoposizione alla visita di leva. Pertanto, il diniego di revoca dello status di obiettore di coscienza, adottato in assenza della prescritta rinuncia espressa, è legittimo e non può essere censurato per carenza di motivazione o per disparità di trattamento, in quanto l'amministrazione è tenuta ad applicare le norme di legge senza margini di discrezionalità.
Non è fondata, nei sensi indicati in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, lettera a), e 15, comma 6, della legge 8/7/1998, n. 230 censurato, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost., nella parte in cui stabilisce che i soggetti ammessi a prestare il servizio civile non possono detenere né usare le armi di cui agli artt. 28 e 30 del regio decreto 18/6/1931, n. 773, né assumere ruoli imprenditoriali o direttivi nella fabbricazione e commercializzazione di armi e materiali esplodenti. Le disposizioni impugnate devono essere interpretate alla luce delle finalità del legislatore, consistenti nel vietare l'uso e la detenzione di armi a soggetti che, grazie al ripudio delle stesse, hanno ottenuto di sostituire il servizio civile a quello militare: il divieto imposto, generalizzato e permanente, è volto a dare effettività e serietà ad una scelta di rifiuto della violenza che, se contraddetta da comportamenti successivi incompatibili, perderebbe la sua natura ideale e rivelerebbe una probabile funzione strumentale. Nell'ottica del legislatore - secondo l'art. 30 regio decreto n. 773 del 1931 - armi sono sia le c.d armi proprie, la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona, sia le bombe, sia qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti: chiaro è che, poiché il divieto concerne, in sequenza, le armi, le munizioni e i materiali esplodenti, questi ultimi sono presi in considerazione in quanto predisposti per l'offesa alla persona, con conseguente esclusione di quelli destinati a fini esclusivamente civili. Pertanto, gli obiettori che detengono esplosivi a fini civili, o assumono ruoli imprenditoriali o direttivi nella fabbricazione o commercializzazione degli stessi, non entrano in contraddizione con la scelta fatta al momento della richiesta di servizio alternativo al servizio militare, ma si limitano a svolgere, nei modi e limiti previsti dalla legge, un'attività di natura prettamente civile.
Il riconoscimento dello status di obiettore di coscienza e l'avvio al servizio civile sostitutivo devono avvenire entro termini perentori, a tutela delle garanzie costituzionali del cittadino. Decorso il termine annuale dalla presentazione della domanda di obiezione di coscienza, senza che l'amministrazione si sia pronunciata, questa decade dal potere di chiamare l'obiettore alle armi e di assegnarlo al servizio civile, non potendo più esercitare tale potere in un momento successivo. Il silenzio serbato dall'amministrazione oltre il termine di sei mesi previsto dalla legge non vale come accoglimento o diniego dell'istanza, ma sospende solo la presentazione alle armi dell'obiettore, impedendo che prima della scadenza di detto termine possa formarsi il silenzio-rifiuto e consentendo all'interessato di attivare la procedura per la formazione del silenzio-rifiuto. Pertanto, il mancato avvio al servizio civile entro il termine annuale dalla presentazione della domanda di obiezione di coscienza comporta l'illegittimità del successivo provvedimento con cui l'amministrazione destina l'obiettore al servizio sostitutivo, in quanto adottato in violazione del termine perentorio previsto dalla legge.
Il riconoscimento dell'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, una volta validamente presentata, non può essere successivamente revocato dalla pubblica amministrazione, in assenza di nuovi e sopravvenuti elementi che ne giustifichino l'annullamento. L'annullamento di un precedente provvedimento di accoglimento dell'obiezione di coscienza, senza adeguata motivazione, integra un vizio di legittimità che comporta l'annullamento degli atti consequenziali, quali la cartolina di precetto per la chiamata alle armi. Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione impone il rispetto della decisione di riconoscimento dell'obiezione di coscienza, una volta validamente acquisita, salvo sopravvenienza di nuovi e diversi presupposti di fatto e di diritto che ne giustifichino la revoca. La pubblica amministrazione non può, pertanto, revocare unilateralmente e senza adeguata motivazione il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, in quanto ciò violerebbe il principio di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa, nonché il diritto del cittadino a veder tutelato il proprio affidamento legittimamente riposto nell'originario provvedimento favorevole.
Il termine perentorio per la presentazione della domanda di obiezione di coscienza, individuato dalla legge, è distinto dal termine perentorio concesso all'amministrazione per l'accoglimento o il rigetto della stessa. Qualora la domanda di obiezione di coscienza sia stata respinta e il relativo provvedimento di diniego sia stato successivamente annullato dall'autorità giudiziaria, si apre un nuovo e distinto termine per l'avviamento al servizio civile, decorrente dalla data in cui si conclude il nuovo iter procedimentale. Tale termine non può essere computato nel periodo intercorrente tra il provvedimento di diniego e il suo annullamento, in quanto prima non era configurabile e poi non era esigibile l'avviamento dell'interessato al servizio civile. Pertanto, la precettazione per il servizio civile effettuata oltre il termine di nove mesi previsto dalla legge, ma entro il nuovo termine decorrente dalla conclusione del nuovo procedimento, è legittima. L'interessato non può invocare la sopravvenuta carenza di interesse ed inesigibilità della prestazione per il raggiungimento dei limiti di età, in assenza dell'attivazione e della positiva conclusione del relativo procedimento di dispensa dal servizio civile.
In tema di obiezione di coscienza, devono ritenersi esigibili dal soldato obiettore tutte le attivita` militari che non richiedano uso delle armi, nonche` quelle altre che rientrano nei compiti di protezione civile affidati alle forze armate.
Il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, pur essendo un diritto costituzionalmente garantito, è soggetto a termini di presentazione della relativa domanda stabiliti dalla legge ordinaria, il cui mancato rispetto comporta l'improcedibilità della richiesta per sopravvenuta carenza di interesse, anche in presenza di una precedente sospensiva dell'atto impugnato. Il giudice amministrativo, nel valutare la legittimità del diniego di riconoscimento dell'obiezione di coscienza, deve verificare il rispetto dei termini di legge per la presentazione della domanda, senza poter entrare nel merito delle ragioni di coscienza addotte dal ricorrente, le quali restano irrilevanti ai fini della decisione qualora sia accertato il superamento dei termini previsti dalla normativa di settore.
La previsione di una comunicazione agli Uffici di leva dei nominativi di coloro che, svolgendo il servizio civile regionale, abbiano comunque voluto dichiarare la loro obiezione di coscienza al servizio militare, nella prospettiva che esso possa rivivere come servizio obbligatorio, deve essere letta come rivolta a prevedere, in spirito di collaborazione, la mera trasmissione di informazioni agli Uffici di leva ai fini che eventualmente siano previsti dalla legislazione statale, senza che ciò determini invasione della competenza statale; non sono pertanto fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, dell'art. 12 della legge della Regione Emilia-Romagna 20/10/2003, n. 20, che una siffatta previsione reca, e degli articoli 5, comma 4, e 22, comma 5, della legge medesima, i quali, rinviando all'art. 12, si limitano ad assicurare, nell'ipotesi di ripristino della leva, la disponibilità di informazioni sui soggetti che, avendo svolto il servizio civile regionale, abbiano voluto dichiarare l'obiezione di coscienza agli eserciti, all'uso delle armi ed alla violenza.
Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.