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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9149 del 2021, proposto da Ol. Se. AG, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lu. Ma. e Ha. Re., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Lu. Ma. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del T.R.G.A. - Sezione Autonoma di Bolzano, n. 232/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 maggio 2024 il Cons. Thomas Mathà e udito per la parte appellante l'avvocato Lu. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in esame la società Ol. Se. impugnava la sentenza n. 232 del 2021 del Trga, Sezione Autonoma di Bolzano, recante rigetto dell'originario gravame. Quest'ultimo era stato proposto dalla stessa società al fine di ottenere l'annullamento del provvedimento del Comune di (omissis) del 8.8.2019 e del 19.3.2020 (entrambi riguardanti la determinazione del contributo sul costo di costruzione e di urbanizzazione ai sensi della l.p. n. 13/1997), nonché, in parte qua, del Regolamento per la determinazione e la riscossione del contributo di urbanizzazione e del contributo sul costo di costruzione del Comune di (omissis), approvato con delibera del Consiglio comunale n. 45 del 27.12.2007 (e modificato con la delibera n. 14 del 11.5.2012), in particolare art. 6 comma 1 lettera b). Inoltre, con tale ricorso (n. r.g. 148/2020) la società chiedeva l'accertamento dell'importo corretto ai sensi dell'art. 133 co. 1 lett. f) cod. proc. amm. 2. La società aveva ritenuto che il Comune avesse calcolato un importo eccessivamente alto, lamentando la violazione: i) dell'art. 77 legge urbanistica provinciale (L.U.P., n. 13/1997), in quanto per volumi tecnici non sia dovuto alcun contributo di concessione; ii) delle linee guida per i contributi di concessione, approvate con deliberazione di Giunta provinciale n. 1816 del 6.7.2009, che escluderebbero l'applicazione dei costi di urbanizzazione primaria agli edifici ed alle parti di edifici destinati a scopi secondari; iii) dell'art. 78, comma 2, della L.U.P., che per il calcolo dei contributi di concessione bisognerebbe tenere conto di un'altezza dei locali di soli tre metri; iv) dell'art. 4 delle norme di esecuzione al piano piste da sci che classificherebbe gli edifici delle stazioni degli impianti di risalita come infrastrutture, che non formerebbero volume edificabile. In base a queste disposizioni, deduceva la società in primo grado, si dovrebbe accertare per la maggior parte l'esenzione dai costi di urbanizzazione ovvero dai contributi di concessione. 3. Il TRGA, con la sentenza n. 232/2021, ritenendo tardivo il deposito documentale della ricorrente il 29 aprile 2021 e stralciando la documentazione dal fascicolo, motivava l'infondatezza delle censure alla luce dei seguenti ragionamenti: - i vani indicati dalla ricorrente non rispondono alle caratteristiche richieste dalla giurisprudenza come volumi tecnici; - ai sensi dell'art. 77 della L.U.P. il volume tecnico esente a concessione è soltanto quello realizzato negli edifici esistenti per adeguarli alle norme di legge in materia di prevenzione degli incendi e di abbattimento delle barriere architettoniche, oppure quello applicato agli impianti per adeguare le imprese industriali alle prescrizioni delle normative in materia ecologica, non applicabile per un progetto di costruzione di demolizione e nuova costruzione di un impianto funiviario (rigettando anche un'interpretazione estensiva dell'Avvocatura della Provincia in un parere); - per beneficiare l'esenzione ai sensi delle linee guida provinciali non è sufficiente che i locali non siano accessibili al pubblico o a clienti o che persone si trovano in quei vani solo sporadicamente, ma la norma richiede anche la funzione accessoria all'edificio principale, non presente nel caso di specie; - né può essere applicato l'art. 78 co. 2 LUP (computo dell'altezza di tre metri) in quanto i rispettivi locali sono destinati all'amministrazione, al personale, al noleggio sci, al pronto soccorso, alla scuola di sci ed al servizio antivalanga, che non appartengono agli impianti di risalita; - per quanto riguarda le NDA al piano di settore piste da sci (art. 4) il TRGA ha ritenuto di non potere classificare le opere come infrastrutture esenti dal contributo di concessione, in quanto la norma di legge provinciale - di applicazione restrittiva per quanto riguardo deroghe - non può essere disattesa da una fonte di diritto subordinata. 4. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - error in iudicando sulla tempestività del deposito documentale del 29.4.2021 e chiedendo il beneficio dell'errore scusabile; - error in iudicando con riferimento alla definizione di "volumi tecnici" - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 66, commi 4 e 4 bis, dell'art. 77 e dell'art. 73 della L.P. n. 13/1997; - error in iudicando con riferimento all'applicazione del regolamento di cui alla delibera della giunta provinciale n. 1816/2009; - error in iudicando in punto di merito con riferimento al secondo motivo di impugnazione di primo grado: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 78, comma 2 e dell'art. 66, comma 4/bis L.P. n. 13/1997- eccesso di potere per insufficiente accertamento dei fatti; - error in iudicando in punto di merito con riferimento al terzo motivo di impugnazione di primo grado: illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e falsa applicazione dell'art. 4 delle norme di attuazione del piano di settore degli impianti di risalita e delle piste da sci, approvato con deliberazione della Giunta provinciale n. 1545 del 16 dicembre 2014. 5. Il Comune appellato si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. 6. Alla pubblica udienza del 23 maggio 2024 la causa passava in decisione. 7. La presente controversia ha ad oggetto la sentenza di rigetto del ricorso proposto avverso la determinazione dei contributi concessori ed oneri di urbanizzazione relativi al progetto di rinnovamento ed ammodernamento (demo-ricostruzione) di un impianto di risalita sciistico a (omissis), per il quale il Comune aveva rilasciato la concessione edilizia n. 57 del 2019. Secondo l'amministrazione comunale la società era debitrice di: a) 177.458,14 Euro per contributi commisurati ai costi di costruzione; b) 1.063.336,93 Euro per contributo di urbanizzazione primaria; c) 2.495 Euro come contributo di urbanizzazione secondaria. 8. L'appello non è fondato. 9. Il Collegio ritiene non decisivo il primo motivo riguardante la tempestività del deposito del 29.4.2024 in quanto si condivide pienamente l'assunto del TRGA sull'irrilevanza dei rispettivi documenti che - essendo atti che riguardano una successiva variante progettuale e non concernono il conteggio effettuato con i provvedimenti gravati - non sono rilevanti ai fini della decisione della causa. Tra l'altro la società appellante si è limitata in appello ad affermare che tale documentazione sarebbe rilevante per l'accoglimento della richiesta, ma non fornisce alcun elemento ulteriore in merito, con l'effetto che la richiesta è anche inammissibile non superando i rilievi della sentenza di primo grado sul punto. 10. Con il primo motivo di appello di merito, si contesta la determinazione degli oneri in relazione all'incremento del carico urbanistico derivante dagli interventi su edifici esistenti ai sensi dell'art. 66 co. 4-bis della L.U.P. (ratione temporis vigente). Secondo la tesi attorea l'applicazione del principio che gli oneri debbano essere commisurati all'incidenza delle spese di urbanizzazione primaria e secondaria - nel caso dell'impianti di risalita come infrastruttura esistente - dovrebbe portare ad un diverso conteggio degli importi, che il TRGA non avrebbe nemmeno affrontato. L'articolo 77 della L.U.P. dovrebbe essere interpretato alla stregua di tale principio, arrivando alla conclusione che in casi come quello oggetto del giudizio la maggior parte del volume sia da considerare volume tecnico. Pertanto l'analisi del TAR sulle caratteristiche per la nozione di volume tecnico sarebbe errata: essa non sarebbe pertinente con la determinazione del carico urbanistico e dell'onerosità di urbanizzazione. La maggior parte dei locali di un impianto di risalita sarebbero invece funzionali ed accessori all'attività di trasporto di persone (depositi per olio usato e olio nuovo, sale pompe, cantine per cavi, magazzini elettrici, depositi utensili, magazzini elettrotecnica, locale caldaia, locali pellet, sala trasformatore, sala generatore, magazzini per le cabine, sala tecnica e depositi vari per altro materiale o ricambi). Essi sarebbero funzionali ed accessori all'impianto stesso. Errato sarebbe anche l'assunto del TRGA che l'art. 77 è inapplicabile in quanto non si è in presenza di un intervento presso un edificio esistente: secondo la società appellante, nel caso di volumi tecnici, sarebbero sempre esenti avendo una funzione di servizio, come le infrastrutture pubbliche primarie, inoltre gli impianti sarebbero stati esistenti, poi demoliti e ricostruiti. 11. A prosieguo la società critica il capo della sentenza che aveva respinto l'applicabilità dell'esenzione ai sensi delle linee guida di cui alla delibera della giunta provinciale n. 1816/2009 (al punto 2.2 "edifici destinati ad usi accessori ai sensi della presente direttiva si considerano quelli che non accessibili sono accessibili né per il pubblico né per la clientela e nei quali non si intrattengono persone se non sporadicamente, e parcheggi"). Al contrario, molte parti degli edifici svolgerebbero obiettivamente un uso accessorio rispetto ai vani principali riguardante l'attività di esercenti a fune (non comportano nemmeno un carico urbanistico). Il TRGA non avrebbe approfondito le caratteristiche tecniche dell'impianto, giungendo in un insufficiente accertamento dei fatti di causa. 12. Per quanto riguarda l'applicabilità dell'art. 78 co. 2 della L.U.P. (altezza massima di 3 metri ai fini del calcolo del contributo), l'appellante deduce che: - la normativa sarebbe applicabile sia ai vani tecnici che a quelli non tecnici; - il TRGA non avrebbe motivato perché i vani non tecnici debbano essere esclusi da tale beneficio (l'imposizione di un canone per una massa edilizia che supera l'altezza di tre metri sarebbe irragionevole ed illegittima); - ciò sarebbe stato provato anche con la nuova documentazione che però il TRGA non avrebbe ammesso e quindi non esaminato; - l'appellante reitera infine la richiesta spiegata in primo grado per l'espletamento di una CTU. 13. Con l'ultima doglianza viene censurato il capo della sentenza che riteneva infondato il motivo dell'applicabilità dell'art. 4 co. 2 delle NDA al piano di settore per le piste da sci. Non sarebbe condivisibile l'accertamento del primo giudice sul punto: ad avviso di parte appellante la regola contenuta nel piano di settore, interpretato alla luce degli artt. 73 e 77 L.U.P., avrebbe come effetto di non poter considerare i vani tecnici come cubatura urbanistica. Il piano di settore costituirebbe una lex specialis disciplinando materie specifiche e peculiari, e potrebbe senz'altro stabilire che gli edifici delle stazioni sono infrastrutture e quindi esenti dalla concessione. 14. La questione centrale della controversia è l'inquadramento dell'impianto di risalita e dei suoi vari edifici e vani che formano volumetria ai fini del calcolo degli oneri di urbanizzazione. 15. Giova richiamare l'art. 66 comma 4-bis della l.p. n. 13 del 1997 che statuisce quanto segue: "In caso di interventi su edifici esistenti, ivi compresa la loro demolizione e ricostruzione, sono dovuti gli oneri di urbanizzazione in ragione dell'incremento del carico urbanistico. I comuni con regolamento di cui all'articolo 73, comma 2, stabiliscono i relativi criteri, tenendo conto dell'aumento della superficie utile e del cambiamento della destinazione d'uso. Il contributo commisurato al costo di costruzione non è dovuto per il cambio della destinazione d'uso, se per la parte dell'edificio interessata dal cambio tale contributo è già stato versato per la medesima destinazione d'uso". 16. Come statuito da questo Consiglio di Stato, "la nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa" (Cons. Stato Sez. VI, 17 maggio 2017, n. 2336; Sez. IV 31 agosto 2016, n. 3724). I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità ; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 29 marzo 2019, n. 2101). Anche la giurisprudenza della Cassazione penale ha più volte affermato che sono volumi tecnici quelli strettamente necessari a contenere ed a consentire la sistemazione di quelle parti degli impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda età ), che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare allocazione entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche. Si è anche specificato che per l'identificazione della nozione di "volume tecnico", assumono valore tre ordini di parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, relativo al rapporto di strumentalità necessaria del manufatto con l'utilizzo della costruzione alla quale si connette; il secondo ed il terzo, negativi, ricollegati da un lato all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono potere essere ubicate all'interno della parte abitativa, e dall'altro lato ad un rapporto di necessaria proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti (Cass. pen, Sez. III, 17 novembre 2010, n. 7217; id, 27 maggio 2016, n. 22255). La giurisprudenza osserva, inoltre, che "si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all'interno dell'edificio" (cfr., ancora, Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 luglio 2020, n. 4358). 17. Ricostruito così quindi il quadro giurisprudenziale, che anche questo Collegio condivide pienamente, l'accertamento del TRGA non appare né illogico né irrazionale. Proprio per la peculiarità dell'impianto di risalita si deve confermare l'assenza delle caratteristiche appena ricordate dal primo giudice, che nella sentenza gravata ha richiamato precisamente gli elementi che costituiscono la nozione di vano tecnico (e potrebbero comportare l'esenzione ai fini del calcolo degli oneri di urbanizzazione). Certamente non sono presenti gli elementi centrali di dimensioni ridotte con un ingombro irrilevante. Ciò smentisce anche la tesi principale che essi non sarebbero idonei a comportare un aumento del carico urbanistico. Secondo il calcolo la cubatura della stazione a valle ammonta a 7.540 m3, quella centrale 45.017 m3 e quella a monte 2.183 m3, per un totale di 54.740 m3. 18. Il richiamo da parte del TRGA della giurisprudenza di questa Sezione risulta invece del tutto pertinente e si attaglia perfettamente al caso di specie. Nella sentenza di questo Consiglio di Stato n. 4974 del 2019, è stato accertato che "l'art. 77 è rubricato "adeguamento di edifici esistenti", per cui l'applicabilità della norma viene ristretta agli edifici esistenti. Nella specie, però, non siamo in presenza di un edificio civile, né tanto meno di un edificio esistente, per cui non si applica il primo periodo della norma. I serbatoi, invero, sono inseriti in un processo di produzione di neve artificiale, per cui non sono destinati a servire un edificio. Il secondo periodo della medesima disposizione esclude inoltre dall'applicazione del contributo concessorio "i volumi tecnici... realizzati... da imprese industriali per adeguarsi alle prescrizioni delle vigenti normative ecologiche". Anche in questo caso, per quanto già detto e come giustamente rilevato dal primo giudice, l'ambito di applicazione è ristretto all'adeguamento di edifici esistenti, che non esistono nella specie. Nel caso in esame, poi, la costruzione pare non rispondere stricto sensu all'esigenza di un adeguamento alle vigenti normative in materia ecologica, dal momento che con la realizzazione dei serbatoi non viene prelevata meno acqua. Non è prevista, infatti, alcuna forma di approvvigionamento alternativo, ma l'impianto di produzione di neve artificiale viene pur sempre alimentato attraverso la concessionata deviazione dal torrente ed il prelievo rimane sempre uguale, ovvero la quantità è pur sempre quella occorrente per la produzione della neve artificiale. In altri termini, alla realizzazione dei serbatoi non consegue alcun beneficio in termini di risparmio delle risorse idriche, per cui non può nemmeno dirsi che gli stessi abbiano lo scopo di adeguarsi alla normativa in materia ecologica. Ne consegue che nella specie non si è in presenza di un volume tecnico ai sensi della normativa invocata." Da ciò discende che anche nel caso della demo-ricostruzione dell'impianti di risalita non è applicabile l'articolo 77 della L.U.P. 19. Rispetto a tale chiara indicazione legislativa, appare legittimo il dettato regolamentare comunale laddove ha inteso pretendere per intero gli oneri di urbanizzazione nel caso come quello che occupa la Sezione. Inoltre, sembra del tutto indimostrato dall'appellante che con una cubatura di oltre 55.000 metri cubi per un impianto che trasporta sciatori da valle a monte non ci sia alcun incremento del carico urbanistico. La norma provinciale applicata, invero di formulazione chiara e logica, appare coerente ai consolidati principi in materia: mentre la quota del contributo commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all'entità (superficie e volumetria) dell'intervento edilizio e vuole in qualche modo "compensare" la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare in ragione della trasformazione del territorio consentita al privato istante, quella commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare invece la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. II, 27/06/2022, n. 5297). 20. Nel caso di specie l'appellante è carente, in relazione al primo determinante presupposto, nel dimostrare il mancante aumento di carico urbanistico derivante dalla realizzazione dell'impianto. Al contrario, l'amministrazione ha accertato l'esistenza di tale incremento e ne ha dato conto in termini motivazionali. L'appellante ha calcolato come volume "non tecnico" 718,92 m3 (doc. 17.2. 17.3 e 17.4 di primo grado), di fronte ad una volumetria complessiva di 55.000 m3 (giungendo alla conclusione che il 98,7 % degli edifici sarebbe volume tecnico funzionale senza alcun carico urbanistico). Questa relazione non corrisponde per niente a ciò che la consolidata giurisprudenza ha ritenuto necessario per qualificare il "volume tecnico". Come è stato illustrato autorevolmente, "in sostanza si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questo come possono essere, e sempre in difetto dell'alternativa, quelli connessi alla condotta idrica, termica e all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo (...). Possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori), che non possono essere ubicati all'interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale. Nel caso di specie, nessun elemento viene fornito al riguardo, neppure circa la necessaria strumentalità né le esigenze tecnico funzionali della costruzione principale. Né potrebbe esserlo, trattandosi all'evidenza di autonomi e nuovi volumi destinati ad un utilizzo continuo ed autonomo." (Cons. Stato, sez. VI, n. 7584/2021). 21. Le volumetrie oggetto del contenzioso sono di rilevanti dimensioni e di utilizzo continuo e non hanno caratteristiche di accessorietà ad edifici principali. Ad avviso del Collegio i depositi, sale pompe, cantine, magazzini ed altri vani "tecnici" devono essere considerati complessivamente (e non "atomisticamente"), facendo in ogni loro forma parte dell'impianto. In molti di essi non è nemmeno provato che non siano frequentati da persone o solo sporadicamente, costituendo invece queste parti degli edifici a tutti gli effetti vani nei quali si lavora e si genera il prodotto aziendale (neanche il magazzino del supermercato risulta "vano tecnico"). Nel caso dell'impianto di risalita la funzionalità richiamata dall'appellante per le varie parti degli edifici è connotato dall'elemento gestionale, ma non ai fini edilizi o urbanistici. 22. In base a quanto sin qui evidenziato sul primo e secondo motivo, anche i successivi motivi terzo e quarto sono infondati, alla luce dei seguenti ragionamenti: - il TRGA ha correttamente concluso sull'applicazione dell'art. 78 co. 2 della L.U.P. per i vani destinati all'amministrazione, al personale, al noleggio sci, al pronto soccorso, alla scuola di sci ed al servizio antivalanga; - non facendo parte direttamente all'impianto in senso stretto, i locali non sono soggetti all'applicazione della norma, mentre - per quanto riguarda l'impianto - l'affermazione è stata valutata dal TRGA generica e non supportata da alcuna prova sull'errata interpretazione, non chiedendo nemmeno una precisa richiesta di applicazione: tale assunto non è stato nemmeno utilmente confutato in sede di appello, e quindi il Collegio conferma l'inammissibilità della censura (rigettando anche l'espletamento di un'istruttoria tecnica, che, in assenza di un valido principio di prova, non può aver luogo); - del tutto inconferente è poi la configurabilità come infrastruttura esente dagli oneri di urbanizzazione da parte delle norme di attuazione di un piano settoriale, condividendo pienamente l'accertamento del Giudice bolzanino secondo cui una norma secondaria non può estendere l'ambito di applicazione (rigido) del principio previsto con la normativa primaria sulla contribuzione urbanistica; - questo Consiglio ha più volte chiarito che nel nostro ordinamento il principio generale è quello dell'onerosità del permesso di costruire, costituendo, sia l'esenzione del contributo, sia la realizzazione di opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione, un'eccezione nei modi e nei termini indicati solo dal legislatore (Cons. Stato, sez. IV, n. 2754/2012); - nel presente caso, anche se l'impianto è titolare di una concessione di linea funiviaria, non è si tratta della concessione di un'opera pubblica né è in sé qualificabile come tale, e quindi ai sensi dell'art. 6 co. 1 del regolamento comunale (che rinvia specificamente alle disposizioni di legge in materia) non è esente dal contributo sul costo di costruzione; - è stato chiarito infatti che "le opere di interesse generale costituiscono una categoria logico-giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle "opere pubbliche", poiché si riferiscono a quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinate a scopi di stretta cura della pubblica Amministrazione, sono idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzate e gestite da soggetti privati" (Cons. Stato, sez. IV, n. 3797/2011). Secondo l'autorevole interpretazione, dalla quale anche questo Collegio non vede alcun elemento per discostarsi, "non può, infatti, attribuirsi la qualifica di opera pubblica o di interesse pubblico - con estensione dei conseguenti benefici in termini di esenzione dal contributo di costruzione - a qualunque struttura privata che insiste su suolo privato e gestito a fini di lucro da operatori privati, sebbene la struttura stessa sia idonea a soddisfare esigenze della collettività " (Cons. Stato, sez. IV, n. 8002/2019). 23. Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello va pertanto respinto. 24. Sussistono giusti motivi, stante la peculiarità della fattispecie e la limitata attività difensiva del Comune, che si è costituito con mera clausola di stile, per compensare fra le parti le spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8807 del 2021, proposto da Condominio Pa. Sc. in persona dell'amministratore pro tempore dott. Gi. Fu., rappresentato e difeso dall'avvocato Re. La., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro El. Ro., in proprio nonché quale amministratore e legale rappresentante della Ru. Ce. s.r.l., rappresentato e difeso dagli avvocati Re. Gr. e Fr. Ta., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; At. Br., non costituita in giudizio; Comune Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Li. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tar per la Campania, sez. VIII, n. 3555/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di El. Ro. e di Ru. Ce. s.r.l. e di Comune Caserta; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giovanni Pascuzzi. Nessuno è comparso per le parti costituite; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il Condominio Pa. Sc. con sede in Caserta alla via (omissis), propone appello contro la sentenza del Tar per la Campania n. 3555/2021 che ha accolto il ricorso proposto in primo grado dai signori El. Ro. (in proprio nonché quale amministratore e legale rappresentante della Ru. Ce. s.r.l.) e At. Br. con il quale era stato chiesto l'annullamento: - del permesso di costruire n. 101/2016, prot. n. 90528 del 18.10.2016, rilasciato dal dirigente del Servizio urbanistica - Area edilizia residenziale privata del Comune di Caserta, avente ad oggetto "sanatoria per difformità rispetto alla c.e. 162/92 per muri e sistemazioni esterne"; - degli atti ad esso preordinati, connessi e consequenziali, tra i quali il parere favorevole espresso dal dirigente Servizio urbanistica - Area edilizia residenziale privata del Comune di Caserta, prot. n. 72811 del 2.8.2016, e la relazione istruttoria del responsabile del procedimento (ove esistente). 2. Gli atti da ultimo citati e il ricorso che ne è scaturito costituiscono l'ultimo capitolo di una vicenda che vede da tempo contrapposti, nei diversi ruoli, il Condominio Pa. Sc., i signori Ro. e Br. e il Comune di Caserta, contrapposizione che ha dato vita, nel tempo, a numerose pronunce del giudice amministrativo. 2.1 Le fasi significative dell'intera vicenda possono essere così sintetizzate. Con concessione edilizia del 1991 e variante del 1992 venne realizzato il complesso Pa. Sc.. Il titolo prevedeva la realizzazione, nell'area esterna al fabbricato, di un parcheggio privato ad uso pubblico di mq. 3245, in applicazione dei parametri dettati dall'art. 41-quinquies della l. 1150/1942 (introdotto dall'art. 17 della l. 765/1967). Nella esecuzione dei lavori l'impresa costruttrice realizzava una recinzione in muratura con cancello che riduceva notevolmente la superficie destinata a parcheggio privato di uso pubblico. Il Comune, nel 2002, ordinò di demolire cancelli e muretti. Il Condominio propose ricorso avverso tale atto, ricorso respinto dal Tar per la Campania con sentenza n. 3556/2006. La sentenza del Tar venne confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1893/2008. I condomini Ro. e Br. (proprietari di locali commerciali siti nel Condominio Pa. Sc.) demolirono di propria iniziativa i manufatti. Il Condominio, nel 2011, deliberava di ripristinare muro di recinzione e cancello, e in data 13.9.2011 presentava una S.C.I.A. n. 70477 avente ad oggetto le dette opere. Il Comune restava inerte. I condomini Ro. e Br. proponevano ricorso in cui chiedevano al Comune di esercitare i poteri ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001. Il Tar per la Campania (con sentenza 2142/2012) accoglieva e dichiarava l'obbligo per il Comune di Caserta di esercitare il potere di controllo e vigilanza sulla conformità urbanistica ed edilizia delle opere di cui alla S.C.I.A. n. 70477 del 13 settembre 2011. Nella persistente inerzia del Comune di Caserta, i condomini Ro. e Br. chiedevano l'ottemperanza della sentenza 2142/2012. Il Tar, con sentenza 5014/2012, accoglieva la domanda di ottemperanza. Il Comune emetteva un provvedimento che non conteneva una esplicita statuizione in ordine alla S.C.I.A. Tale provvedimento veniva impugnato dal condomino Ro. e annullato con sentenza del Tar per la Campania n. 5247/2013. I condomini Ro. e Br. chiedevano nuovamente l'ottemperanza della sentenza 2142/2012 e il Tar per la Campania accoglieva la domanda (sentenza n. 5127/2014). A recinzione ormai realizzata, nel 2015, il Comune annullava la S.C.I.A. del 2011 aggiungendo di voler avviare il procedimento di demolizione (senza però compiere alcuna azione concreta). Nel 2016, in seguito ad istanza di accesso agli atti, i condomini Ro. e Br. apprendevano che il Comune di Caserta aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria n. 101/2016, prot. n. 90528 del 18.10.2016. 3. Avverso il provvedimento da ultimo citato, i condomini Ro. e Br. hanno proposto ricorso al Tar. A sostegno dell'impugnativa venivano formulati i seguenti motivi di ricorso: I. Violazione degli artt. 7 e ss. della legge 7.8.1990, n. 241. II. - Violazione e falsa applicazione del d.p.r. 6.6.2001, n. 380. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, carenza di motivazione e di istruttoria, error in procedendo; sviamento. III. Violazione e falsa applicazione del d.p.r. 6.6.2001, n. 380. Violazione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar per la Campania n. 5247/2013. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, carenza di motivazione e di istruttoria, error in procedendo. Incompetenza. Sviamento. IV. Violazione degli artt. 41-quinquies e 41-sexies della l. 1150/1942, dell'art. 10 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. di Caserta, della lex specialis dell'intervento edilizio dettata dalla c.e. n. 162/92 rilasciata dal Comune di Caserta; violazione del giudicato formatosi sulle sentenze del Tar per la Campania nn. 3556/2006, 2142/2012, 5014/2012 e 5247/2013, e sulla sentenza del Consiglio di Stato n. 1893/08; eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti di fatto e di diritto. omessa comparazione di interessi. Sviamento. V. Eccesso di potere per contrasto con precedenti atti della stessa Amministrazione, difetto di istruttoria e di motivazione. 4. Nel giudizio di primo grado si costituiva il Comune di Caserta chiedendo il rigetto del ricorso. 5. Con sentenza n. 3555/2021 il Tar per la Campania ha accolto il ricorso annullando gli atti impugnati. 5.1 In particolare il Tar: - ha ricostruito i principi in materia di efficacia del giudicato; - ha ritenuto di censurare in maniera assorbente l'operato del Comune di Caserta nella misura in cui, rilasciando da ultimo il contestato titolo in sanatoria, ha da un lato trascurato che non era consentito discostarsi dalle previsioni dell'originaria concessione edilizia del 1992, dall'altro ha legittimato che - a mezzo S.C.I.A. - fosse modificato il regime delle aree da destinare a parcheggio privato ad uso pubblico e, nello specifico, a fronte di un volume totale edificato di mc.35.764,64 oltre mq.3.245 di area di parcheggio ad uso pubblico (di cui mq.6.819,64 da destinare a parcheggio), solo mq.4.183 fossero utilizzati a tale fine, di cui mq.1.479 a parcheggi privati ad uso pubblico; - ha infine affermato che: "L'Amministrazione ha omesso di considerare, in definitiva, che il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio in base a norma imperativa non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, ma solo con concessione in variante resa su domanda di tutti i condomini interessati che lo trasferisca su altri spazi riconosciuti idonei; la normativa urbanistica di cui all'art. 41-sexies della Legge n. 1150/1942 prescrive, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari a un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, e tale rapporto va effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della Concessione edilizia (Cass. civ., II, 9.10.2020, n. 21859). In particolare difettava il requisito della legittimità della richiesta di permesso in sanatoria da parte del Condominio, dal momento che tale istanza era stata deliberata l'11/12/2015 con la presenza di 41 condomini su 84 rappresentativi di millesimi 554,74 su1000,00; in ogni caso il Comune non avrebbe potuto attestare la sussistenza delle condizioni di cui all'art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, quale richiede la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria, dovendo escludersi la possibilità che tali effetti possano essere attribuiti alla cd. "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", che consiste nel riconoscimento della legittimità di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica". 6. Avverso la sentenza del Tar per la Campania n. 3555/2021 ha proposto appello il Condominio Pa. Sc. per i motivi che saranno più avanti analizzati. 7. Si è costituito in giudizio il Comune di Caserta per chiedere il rigetto dell'appello. 7.1 Si è costituito il signor El. Ro. (in proprio nonché quale amministratore e legale rappresentante della Ru. Ce. s.r.l.) chiedendo il rigetto dell'appello. 8. All'udienza del 16 maggio 2016 l'appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO 1. Il primo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando. Motivazione erronea. Erronea valutazione dei presupposti di fatto. Erronea applicazione dell'art. 18 della l. 765/67, che ha istituito l'art. 41-sexies della l.u. 1150/42, aggiornata dal comma 2 dell'art. 2 della l. 122/89. Violazione ed erronea applicazione dell'art. 9, comma 5, della l. 122/89. Omessa e/o carente istruttoria. 1.1 Sotto un primo profilo, l'appellante critica la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che il Comune non poteva discostarsi dalle originarie concessioni edilizie e non poteva permettere che con S.C.I.A. si modificasse il regime delle aree da destinare a parcheggio privato ad uso pubblico, sostenendo che: - sono errati i presupposti di fatto; - le concessioni edilizie interessate dal sopralluogo e dall'ordinanza, c.e. in variante n. 138/91 e n. 162/92, sono entrambe soggette alle prescrizioni dell'art. 18 della l. 765/67, che ha istituito l'art. 41-sexies della l.u. 1150/42, aggiornata dal comma 2 dell'art. 2 della l. 122/89, che prescriveva di dover riservare spazi a parcheggio spazi, pari a 1 mq per ogni 10 mc di volume costruito, cioè, il 10% del volume realizzato; - le citate concessioni sono entrambe soggette alle prescrizioni del D.P.P. di Caserta n. 5464/87, che aveva modificato l'art. 10 delle N.T.A. del R.E. del comune di Caserta, in applicazione della lett. D, dell'art. 3, del d.m. 1444/68, che regola quanto prescritto dal penultimo comma dell'art. 17 della l. 765/67, che ha istituito l'art. 41-quinquies della l. 1150/42, di dover riservare ad aree di parcheggio di proprietà privata di uso pubblico, spazi di 1 mq per ogni 20 mc di volume costruito, cioè, il 5% del volume realizzato; - in applicazione delle disposizioni citate, la quota destinata a parcheggi nella c.e. 162/92, dev'essere: area di parcheggio privato 3245 mq per una cubatura di 32.400 mc; area di parcheggio di uso pubblico di proprietà privata 1620 mq per una cubatura di 32.400 mc; - dal permesso a costruire in sanatoria n. 101/2016 le aree di parcheggio, sono state aggiornate alla cubatura data dalla sanatoria dei 6 sottotetti, trasformati in civili abitazioni, non integrate nella c.e. in sanatoria 1933/99, variando la cubatura, dai precedenti 32.400 mc, della c.e. 162/92, ai 35.754 mc del permesso a costruire in sanatoria n. 101/2016; - per l'aumento della cubatura, si sono dovute variare anche le superfici delle aree di parcheggio, le quali, nella c.e. in sanatoria 1933/99, dovevano essere uguali a quelle riportate nel permesso a costruire in sanatoria n. 101/2016, essendo rimasta invariata la cubatura; - nella c.e. 162/92, interessata dal sopralluogo e dall'ordinanza, c'è una sola area di parcheggio di 3245 mq, ed un'autorimessa con box-auto e cantinole pari a 4.183 mq; - il Tar ha omesso di considerare che l'unica area di parcheggio del Condominio odierno appellante è del 10% del volume costruito, e pertanto è da considerare area di parcheggio privata, prescritta dall'art. 18 della l. 765/67, in quanto riservato 1 mq per ogni 10 mc di volume costruito; - sui grafici allegati alla c.e. 162/92, è stata riportata la dicitura parcheggio di uso pubblico di proprietà privata, come l'area di parcheggio ad uso pubblico del 5%, prescritto dal D.P.P. di Caserta n. 5464/87; - dalla c.e. 162/92, si evince che la recinzione era chiaramente individuata nei grafici approvati con un muro perimetrale che cingeva l'intera area di proprietà e l'accesso a tale area doveva avvenire da n. 2 varchi affiancati posti su via (omissis) i quali immettevano a due aree di parcheggio distinte a destra e a sinistra separate da marciapiede; - il Tar ha omesso di valutare che il Comune di Caserta, per le concessioni rilasciate alla I.S.CO., per realizzare il Pa. Sc. di Caserta, quindi anche per l'area di parcheggio, non ha mai chiesto la sottoscrizione né trascrizione di alcuna convenzione urbanistica o atto d'impegno, con cui sarebbero stati obbligati ad un facere, anche gli acquirenti in buona fede all. 35, con il quale sarebbe stato costituito il vincolo ad uso pubblico che si è affermato gravasse sull'area di parcheggio; - si fa menzione del vincolo ad uso pubblico, ma non viene indicato, perché non c'è, l'atto con cui è stato costituito; - il Comune di Caserta fa discendere la costituzione del vincolo dalla dicitura riportata sui grafici concessori della c.e. 162/92 "parcheggio di uso pubblico di proprietà privata", uguale alla dicitura coniata con il D.P.P. di Caserta n. 5464/87; - la giurisprudenza ha sancito che la semplice dicitura su di un grafico concessorio non è documento idoneo a costituire vincoli; - sull'area di parcheggio di 3245 mq, sono presenti 81 posti auto acquistati come proprietà esclusiva. 1.2 Sotto un secondo profilo l'appellante sostiene che la contraddizione tra quanto affermato dal Tar e quanto risulta dall'evidenza dei fatti e degli atti, è rafforzato dalle note del Comune di Caserta dove si legge chiaramente che il parcheggio di uso pubblico di proprietà privata può essere recintato ma non chiuso da cancelli, per cui, tutt'al più, si doveva ordinare di abbattere i cancelli e non anche i muretti; visto che si trattava di un muro di contenimento lungo l'alveo, che ha il precipuo scopo di proteggere i locali commerciali e quelli interrati da possibili allagamenti, e il cui abbattimento è pregiudizievole per il resto dell'edificio. 1.3 Sotto un terzo profilo l'appellante afferma che: - dalla documentazione versata in atti e per i requisiti incontestabili esistenti, si evince chiaramente che l'unica area di parcheggio del Condominio Pa. Sc. di Caserta del 10% del volume costruito, è quella privata, prescritta dall'art. 18 della l. 765/67, della l.u. 1150/42, aggiornata dal comma 2 dell'art. 2 della l. 122/89, unica che prescrive di destinare a spazi per parcheggi privati il 10% del volume costruito; - la conferma incontestabile che l'area è privata e ne erano al corrente tutti i condomini del Pa. Sc. emerge da sentenze emesse in giudizi civili in contenziosi che hanno visto come parti alcuni degli stessi condomini; - l'area di parcheggio è privata e ascritta all'art. 18 della l. 765/67, aggiornata alla l. 122/89, poiché, sulla stessa sono stati acquistati sia dai proprietari dei locali commerciali che dai proprietari di abitazioni, posti auto in proprietà esclusiva; - se l'unica area di parcheggio del Condominio Pa. Sc. è interamente gravata da un vincolo di uso pubblico, occorre chiedersi come è possibile che non risulti da nessun atto opponibile ai terzi; - se si afferma che tutta l'area di parcheggio è ad uso pubblico, sulla stessa non potranno più esserci i posti auto acquistati in proprietà esclusiva, alterando così il vincolo di destinazione pubblicistico gravato dalla pertinenzialità fissata inderogabilmente dall'art. 18 della l. 765/67, aggiornata alla l. 122/89, nonché, il vincolo inscindibile di unione del posto auto all'abitazione, che venendo soppresso il posto auto, automaticamente inficia l'atto di compravendita di nullità, come disposto dal comma 5 dell'art. 9 della l. 122/89, a cui era soggetta la c.e. 162/92, rilasciata dal comune alla I.S.CO.; - il vincolo di destinazione permanente a parcheggio va inquadrato nella categoria delle "limitazioni legali della proprietà privata per scopo di pubblico interesse" e si conforma ope legis in un diritto reale di uso dell'area di parcheggio in favore del condominio; - l'inderogabilità comporta la nullità dei patti contrari e la loro sostituzione con le previsioni della legge; - la legge n. 47 del 1985, all'art. 26, non ha portata innovativa, ma confermativa del regime della legge n. 765 del 1967, proprio in forza del riferimento al vincolo pertinenziale; - il vincolo che grava sulle aree a parcheggio ha natura non solo oggettiva ma anche soggettiva, e si trasferisce, automaticamente, con il trasferimento della titolarità dell'abitazione: è un diritto reale d'uso, di natura pubblicistica, che la legge pone a favore dei condomini del fabbricato cui accede e limita il diritto di proprietà dell'area. 1.4 Sotto un quarto profilo l'appellante sostiene che: - il Comune, nel 2006, ha riscontrato la richiesta di un condomino, dichiarando che la I.S.CO., non ha mai sottoscritto nessun atto d'impegno o convenzione urbanistica con il Comune, per cui, non ha assunto alcun obbligo; - la I.S.CO. ha corrisposto al comune integralmente gli oneri concessori per realizzare le opere di urbanizzazione primaria, in cui ricadono anche le aree di parcheggio previste dal penultimo comma dell'art. 17 della l. 765/67, esonerandosi dall'obbligo di dover realizzare opere di urbanizzazione; - l'art. 16, comma 2, del d.p.r. 380/01, in cui è stato trasfuso l'art. 11 della l. 10/77, prevede "2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune"; - tra le opere di urbanizzazione, elencate al comma 7 del medesimo articolo, ci sono anche "7. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi ai seguenti interventi: (omissis) spazi di sosta o di parcheggio,". Avendo elencato tra le opere di urbanizzazione al comma 4, quelle prescritte dal penultimo comma dell'art. 17 della l. 765/67, che ha istituito l'art. 41-quinquies della l.u. 1150/42. 2. Il motivo è infondato. Parte appellante mira a rimettere in discussione la fonte dell'esistenza della servitù di uso pubblico (facendo leva anche sulle pronunce emesse in contenziosi civili) così da affermare che la stessa non è opponibile ai terzi che hanno acquistato in buona fede. Ma non è possibile aderire a siffatta prospettazione. L'abusività delle opere di recinzione per contrasto con i parametri edilizi ed urbanistici previsti dalla legge e recepiti dal Comune di Caserta nei propri atti di pianificazione territoriale, nonché per violazione delle prescrizioni di cui alla concessione edilizia n. 162/1992, è stata definitivamente accertata nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza n. 49840 del 9.12.2002 di demolizione della recinzione dell'area di parcheggio già realizzata dal costruttore del Pa. Sc. conclusosi con sentenza del Tar per la Campania n. 3558/2006, confermata in appello dal Consiglio di Stato con decisione n. 1893/08. Nella sentenza del Tar per la Campania n. 3558/2006 si legge testualmente: "Passando alla fattispecie sottoposta all'esame del Collegio, si deve innanzi tutto rilevare che "la concessione edilizia n. 162/92 del 14 aprile 1992... prevede per la sistemazione esterna un'area di parcheggio pubblico di proprietà privata di mq 3245", come evidenziato nella relazione in data 21 luglio 2005 a firma del dirigente del Settore Pianificazione Urbanistica del Comune di Caserta (depositata in esecuzione dell'ordinanza istruttoria n. 631/2005). Inoltre, dalla successiva relazione in data 14 marzo 2006, a firma dello stesso dirigente, si desume chiaramente che tale prescrizione discende dalle previsioni introdotte nel P.R.G. del Comune di Caserta in applicazione del penultimo comma dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942. Infatti in tale relazione è stato evidenziato che gli indici e parametri della Zona omogenea B2 previsti dall'art. 10 delle Norme Tecniche del PRG adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 11/1983 (che contiene solo un riferimento alla "quota di parcheggi fissata dall'art. 18 della legge n. 765/1967") sono stati modificati con il Decreto di approvazione del Presidente della Provincia di Caserta n. 5464/1987, con il quale è stato previsto il parametro del "parcheggio di uso pubblico di proprietà privata" (introdotto dall'art. 17 della legge n. 765/1967) in aggiunta al parametro del parcheggio privato di cui all'art. 18 della legge n. 765/1967. Ne consegue che il dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Caserta è legittimamente intervenuto con il provvedimento impugnato per ripristinare l'uso pubblico delle aree di proprietà del condominio ricorrente destinate parcheggio di uso pubblico. Né rileva l'ulteriore censura, secondo la quale l'Amministrazione comunale con l'adozione dell'avversato ordine di demolizione avrebbe posto in essere una procedura acquisitiva che esula dalle previsioni di legge, allo scopo di procurarsi parcheggi di uso pubblico senza corrispondere alcun indennizzo ai proprietari delle aree. Infatti il provvedimento impugnato mira soltanto a ripristinare la destinazione delle aree in questione prevista dalla concessione edilizia n. 162/92 del 14 aprile 1992 in attuazione dei parametri introdotti dagli strumenti urbanistici, sicché la censura in esame avrebbe dovuto essere ritualmente proposta avverso tali provvedimenti e quindi risulta inammissibile in questa sede". La sentenza del Tar per la Campania appena citata è stata confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1893/2008 che, a propria volta, ha testualmente affermato: "Invero, il fatto che all'atto del rilascio della concessione edilizia n. 162/92, nell'elaborato grafico ad essa allegato, sussistesse l'indicazione di un'area privata di parcheggio ad uso privato, non costituiva, come sostenuto dal condominio appellante, una mera annotazione ovvero una dichiarazione di intenti, priva di valore giuridico, ma rappresentava piuttosto la trasposizione o (quanto meno) l'evidenziazione grafica delle puntuali previsioni del vigente strumento urbanistico generale, così come approvato dall'amministrazione provinciale di Caserta, a cui era subordinato necessariamente il rilascio del titolo edilizio. L'ordinanza impugnata, con la quale il Comune di Caserta ha ordinato la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, lungi dall'atteggiarsi ad inammissibile provvedimento espropriativo, costituisce invece doverosa esplicazione del potere di controllo del territorio sub specie di verifica che il beneficiario del titolo edilizio si sia effettivamente attenuto a quanto in esso assentito, senza compiere abusi: del resto, la sua attenta lettura fuga al riguardo ogni dubbio, risultando espressamente che essa si fonda su di un verbale di sopralluogo della polizia municipale che ha accertato discordanze dello stato dei luoghi rispetto ai grafici della concessione edilizia n. 162 del 1992 (variante della precedente concessione n. 138/91). A ciò consegue che le censure rivolte avverso la predetta ingiunzione risultano essere infondate, attendendo in realtà non già al corretto uso da parte dell'amministrazione comunale del potere esercitato di controllo urbanistico del territorio, bensì alla asserita illegittimità della stessa previsione dello strumento urbanistico vigente (che prevedeva un parcheggio pubblico di uso anche privato, senza alcun indennizzo ovvero senza che fosse stato all'uopo previsto un apposito vincolo urbanistico sulla relativa area), doglianza che, però, doveva essere fatta valere o nei confronti del provvedimento di approvazione dello strumento urbanistico ovvero nei confronti della concessione edilizia, espressamente e comunque inevitabilmente subordinata al rispetto delle previsioni del predetto strumento urbanistico e che, in ogni caso, non poteva invece giammai essere avanzata per la prima volta nei confronti dell'ordinanza dell'amministrazione comunale finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi, per rendere questi ultimi conformi nello stato di fatto alla previsione di diritto risultante dal titolo edilizio. Alla luce di tali osservazioni perdono ogni rilevanza le questioni dedotte dall'appellante circa il dubbio sulla natura di parcheggi aggiuntivi di quelli di cui si discute (dubbio peraltro privo di fondamento, essendo pacifica la natura di parcheggi aggiuntivi di cui all'articolo 41-sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, secondo il provvedimento della Provincia di Caserta di approvazione del piano regolatore del Comune di Caserta, ciò senza contare che dalla stessa documentazione esibita dall'appellante risulta respinta l'istanza di sanatoria più volte presentata proprio per questa ragione), circa la asserita natura di vincolo espropriativo che contraddistinguerebbe la predetta previsione di piano regolatore e circa la necessità della trascrizione del vincolo stesso ovvero della previsione contenuta nella concessione edilizia, ai fini della sua opponibilità al condominio". Il Tar per la Campania, nella citata sentenza n. 5247/2013 resa tra le parti dell'odierno giudizio e passata in giudicato, così ha ulteriormente ribadito: "Passando all'esame del merito, punto centrale di contestazione tra le parti è se la superficie da destinare a parcheggio pubblico, quindi da non recintare con muro e cancelli, fosse quella, maggiore, di mq. 3.245, riconducibile alla concessione edilizia n. 162 del 1992, o piuttosto quella di mq 1.650, risultante dal rapporto legale tra spazi da destinare a parcheggio e volumetria realizzata nella misura di 1mq/20mc. Rileva al riguardo il Collegio che gli elementi fondamentali che costituiscono un intervento edilizio devono tutti ricondursi al titolo edificatorio di riferimento; questo, se da un lato potrebbe essere inteso come una sostanziale applicazione vincolata a titolo particolare della disciplina urbanistica generale, nel senso che ne attualizza specifiche previsioni attraverso l'attivazione dello ius ad aedificandum, dall'altro contiene ulteriori aspetti che si colorano di profili di discrezionalità amministrativa (prescrizioni di limiti e modalità costruttive, termini di inizio e completamento delle opere, eventuali operazioni di asservimento, opere a scomputo) o di poteri pubblici di altra natura (fissazione degli oneri concessori e dei costi di costruzione). Il permesso di costruire, in questo modo, finisce per costituire la lex specialis dell'intervento edilizio, assumendo quella natura unilaterale ed autoritativa propria della funzione amministrativa esercitata che si risolve nel controllo del razionale ed ordinato sviluppo del territorio. Ne consegue che non è consentito al privato di discostarsi dalle previsioni e dai limiti del permesso di costruire, non a caso simili eventualità ricadendo nel regime sanzionatorio previsto dal d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380; pertanto, deve ritenersi che, ferma restando la disciplina dell'intervento edilizio come stabilita nella concessione n. 162 del 1992, non avrebbe potuto il condominio con la s.c.i.a. n. 70477 del 13 settembre 2011 modificare il regime delle aree da destinare a parcheggio privato ad uso pubblico, riducendone la superficie, quand'anche tale minore misura fosse quella minima imposta per legge; d'altronde, si tratta di una misura minima, nel senso che non è detto che la superficie non possa essere di estensione maggiore, secondo la progettazione originaria dell'intervento edilizio. Non va dimenticato che l'istituto di cui all'art. 19 della legge 7 agosto 1990 n. 241 in nessun modo può essere assimilato ad un provvedimento amministrativo, restando sul piano di una dichiarazione negoziale di intenti da parte di un privato. Nel caso di specie, oggetto della s.c.i.a. avrebbe potuto essere solo la realizzazione del muro di cinta e dei cancelli, ma giammai anche la modificazione della superficie delle aree da destinare a parcheggio pubblico, aspetto quest'ultimo rimesso alla esclusiva potestà autoritativa dell'amministrazione pubblica che avrebbe potuto avere luogo solo intervenendo previamente e direttamente sul regime dato dalla concessione edilizia n. 162/92". In assenza di interventi sulla concessione edilizia del 1992, il condominio resta vincolato alle condizioni di quest'ultimo provvedimento, anche in relazione alle superfici da destinare a parcheggio di proprietà privata ad uso pubblico. Correttamente il Tar ha accolto il ricorso proposto in primo grado sostenendo per un verso che il permesso di costruire in sanatoria era stato emesso dal Comune di Caserta in violazione delle previsioni dell'originaria concessione edilizia del 1992 e per altro verso che il Comune avesse illegittimamente consentito che - a mezzo S.C.I.A. - fosse modificato il regime delle aree da destinare a parcheggio privato ad uso pubblico. 3. Il secondo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando et in procedendo. Omessa istruttoria. Erronea valutazione dei presupposti di fatto. Omessa e/o erronea applicazione degli artt. 825, 826 e 829 c.c. L'appellante ritiene che altro deficit motivazionale e di istruttoria nella sentenza gravata si ha per l'omessa e/o distorta applicazione degli articoli del codice civile n. 825 (Diritti demaniali su beni altrui) n. 826, comma 3 (Patrimonio dello Stato, delle provincie e dei comuni), n. 829 (Passaggio di beni dal demanio al patrimonio). In particolare si sostiene che i giudici di primo grado hanno completamente omesso di valutare che l'area di parcheggio del Condominio Pa. Sc., non è stata mai acquisita al patrimonio indisponibile del Comune, e né tantomeno sono state applicate le forme di pubblicità stabilito dal regolamento comunale. Inoltre l'appellante, riportando per esteso un passaggio (punti da 10.2 a 11.1) della sentenza della Cassazione n. 12793/2005, sostiene che mentre il vincolo di destinazione per legge di un'area a parcheggio, essendo di natura inderogabile, non può essere modificato dalle parti, il vincolo di destinazione a parcheggio in virtù di atto d'obbligo, essendo di natura convenzionale, può essere modificato dalle parti e non richiede che tale area sia predeterminata nella sua estensione, stante il principio di autonomia. 4. Il motivo è infondato. Le questioni sollevate risultano coperte dal giudicato formatosi sulle sentenze richiamate al punto precedente. Mette conto notare, in ogni caso, che la sentenza della Cassazione citata da parte appellante si riferisce specificamente ai rapporti tra privato costruttore e condominio in ordine alla possibilità di alienare, separatamente dalle abitazioni di cui costituiscono pertinenza, le aree private vincolate a parcheggio ai sensi dell'art. 41-sexies della legge urbanistica (introdotto dall'art. 18 della legge n. 765/1967). Nel caso di specie, invece, rileva il regime delle aree a parcheggio di uso pubblico di proprietà privata, di cui all'art. 41-quinquies della legge urbanistica, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765/1967. 5. Il terzo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando. Palese erroneità dei presupposti di fatto. Motivazione erronea. Carente istruttoria. Erronea applicazione dell'art. 137 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 come modificato e integrato dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301. L'appellante critica le statuizioni della sentenza impugnata relative alla rilevanza della S.C.I.A. affermando che: - tali statuizioni sono palesemente errate perché poggiano sull'erroneo presupposto che l'area di parcheggio del Condominio Pa. Sc. abbia un vincolo di destinazione ad uso pubblico, quando invece, per quanto sopra dimostrato, tale vincolo non sussiste, per le argomentazioni analiticamente svolte nei precedenti motivi; - un ultimo argomento proviene dal d.p.r.380/2001, n. 380, il cui art. 137 prevede che "all'articolo 9 della legge 24 marzo 1989, n. 122, il comma 2 è sostituito del seguente: '2. L'esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta a denuncia di inizio di attività '"; - il titolo abilitativo alla realizzazione del posto auto è oggi costituito non più dall'autorizzazione bensì dalla denuncia di inizio di attività ; - non si ha più un provvedimento, come quello dell'autorizzazione, con allegato atto d'obbligo da cui poter desumere i riferimenti inerenti al parcheggio; - secondo la Cassazione (sentenza prima citata) i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dalla legale (art. 18 legge 6.8.1967, n. 765), non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato, conseguentemente l'originario proprietario-costruttore del fabbricato può legittimamente riservarsi, o cedere a terzi, la proprietà di tali parcheggi, nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d'obbligo; - quanto sancito dalla Cassazione è in perfetta linea con le disposizioni dell'art. 3 del d.m. 1444/68, applicato con il D.P.P. comune di Caserta n. 5464/87; - il massimo consentito nella destinazione a parcheggio di uso pubblico di proprietà privata del D.P.P. di Caserta 5464/87, è il 5% del volume costruito e non il 10% come è la superficie dell'area di parcheggio del Condominio Pa. Sc.; - ne consegue che l'area di parcheggio in più è da considerare privata e a disposizione dei proprietari, tranne che il Comune non esibisca un atto d'impegno o una convenzione urbanistica. 6. Il motivo è infondato. L'assunto che parte appellante mira a revocare in dubbio è coperto dal giudicato formatosi sulla citata sentenza del Tar per la Campania n. 5247/2013 che ha stabilito che: (i) "Il permesso di costruire (i.e.: c.e. n. 162/92) in questo modo, finisce per costituire la lex specialis dell'intervento edilizio, assumendo quella natura unilaterale ed autoritativa propria della funzione amministrativa esercitata che si risolve nel controllo del razionale ed ordinato sviluppo del territorio. Ne consegue che non è consentito al privato di discostarsi dalle previsioni e dai limiti del permesso di costruire"; (ii) "il condominio con la S.C.I.A. n. 70477 del 13 settembre 2011 modificare il regime delle aree da destinare a parcheggio privato ad uso pubblico, riducendone la superficie, quand'anche tale minore misura fosse quella minima imposta per legge; d'altronde, si tratta di una misura minima, nel senso che non è detto che la superficie non possa essere di estensione maggiore, secondo la progettazione originaria dell'intervento edilizio"; e (iii) "Nel caso di specie, oggetto della s.c.i.a. avrebbe potuto essere solo la realizzazione del muro di cinta e dei cancelli, ma giammai anche la modificazione della superficie delle aree da destinare a parcheggio pubblico, aspetto quest'ultimo rimesso alla esclusiva potestà autoritativa dell'amministrazione pubblica che avrebbe potuto avere luogo solo intervenendo previamente e direttamente sul regime dato dalla concessione edilizia n. 162/92". 7. L'appellante ha, infine, ha avanzato una richiesta istruttoria chiedendo al Collegio di invitare il Comune ad esibire (i) l'atto costitutivo del vincolo ad uso pubblico dell'area di parcheggio, (ii) gli oneri concessori e di urbanizzazione pagati dalla I.S.CO. o lo scomputo degli stessi e (iii) l'atto con cui la I.S.CO. si è obbligata a realizzare l'opera di urbanizzazione primaria, nel caso di che trattasi, area di parcheggio ad uso pubblico di proprietà privata prevista dal penultimo comma dell'art. 17 della l. 765/67 (art. 41-quinquies l. 1150/42). 8 La richiesta non può essere accolta perché l'acquisizione dei documenti richiesti sarebbe irrilevante, ovvero non necessaria, rispetto alle conclusioni raggiunte. 9. La sentenza impugnata ha censurato "in maniera assorbente l'operato del Comune di Caserta". Il Comune ha mantenuto, nel presente giudizio, un comportamento oscillante. In primo grado ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dai condomini odierni appellati. In grado di appello ha chiesto il rigetto dell'impugnativa proposta dai condomini. Peraltro non si comprende perché, chiedendo il rigetto dell'appello, non abbia ritirato l'atto impugnato in primo grado. Tale atteggiamento giustifica la statuizione sulle spese di seguito espressa. 10. Per le ragioni esposte, l'appello deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza nei rapporti tra Condominio appellante e condomini appellati. Spese compensate nei rapporti con il Comune. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna il Condominio Pa. Sc. al pagamento, in favore del signor El. Ro., delle spese di lite che si liquidano in complessivi euro 5.000,00 (cinquemila\00), oltre accessori dovuti per legge. Spese compensate nei rapporti con il Comune. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Pascuzzi - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8358 del 2021, proposto dal Comune di (omissis) (CZ), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Gu., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; contro Gr. Ma., rappresentato e difeso dalle avvocate Ro. Ba., Fe. Gi., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio di quest'ultima, sito in (omissis) (CZ), via (...); per la riforma della sentenza del T.a.r. per la Calabria (sezione prima) n. 1440/2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti l'atto di costituzione in giudizio, l'appello incidentale e la memoria di Gr. Ma.; Vista la memoria del Comune di (omissis); Visti gli atti tutti della causa; Designato relatore il cons. Giuseppe La Greca; Uditi nell'udienza pubblica del 26 marzo 2024 per le parti gli avvocati Al. Gu., Ro. Ba. e Fe. Gi.; Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.1.- Con il ricorso introduttivo di primo grado il ricorrente Ma. Gr. impugnava, con richiesta di annullamento: - il provvedimento n. 64 del 3 gennaio 2020 con cui il Comune di (omissis) comunicava l'irricevibilità della "pratica SUAP" da costui presentata e disponeva il contestuale divieto di prosecuzione dell'attività ("Ho. Ba."); - il provvedimento n. 243 del 9 gennaio 2020 di conferma del predetto provvedimento n. 64 del 3 gennaio 2020. 1.2.- Con il primo dei due provvedimenti il Comune rappresentava che in relazione alla SCIA (segnalazione certificata di inizio attività ) del 19 novembre 2019 la stessa non poteva ritenersi "valida" sul rilievo che "per l'esercizio delle attività produttive è necessario possedere il certificato di agibilità relativo all'immobile in cui si svolge l'attività medesima, essendo lo stesso vincolante per lo svolgimento della stessa". 1.3.- In conseguenza di detto provvedimento, la parte privata inoltrava al Comune richiesta di autotutela - ravvisandone profili d'illegittimità - alla quale quest'ultimo rispondeva con atto (il secondo tra quelli impugnati, sopracitati) con cui - in sintesi - chiariva che a seguito di acquisizione di "relazione di consulenza tecnica" sarebbe emerso che il fabbricato ospitante il bene oggetto della SCA (segnalazione certificata di agibilità ) sarebbe stato "difforme rispetto alle prescrizioni contenute nel vigente REU" (regolamento edilizio urbanistico comunale), così come sarebbe stato "difforme rispetto al PDC n. 1825/18". 1.4.- A sostegno della domanda caducatoria veicolata con il ricorso introduttivo - proposta congiuntamente alla domanda di risarcimento del danno - il ricorrente deduceva che: - solo in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti e solo dopo aver invitato il privato a conformarsi, il Comune avrebbe potuto vietare l'attività, e non in via meramente precauzionale, come avvenuto, pendente l'istruttoria; - la SCA in forza della quale il Comune aveva ritenuto di inibire l'attività di somministrazione bevande e alimenti oggetto di SCIA sarebbe stata valida ed efficace (e la stessa non sarebbe stata oggetto di provvedimento di autotutela); - il presupposto della chiusura sarebbe stato carente; - il provvedimento non sarebbe stato sorretto da adeguata istruttoria e motivazione; - sarebbe stato violato il principio di tipicità poiché il provvedimento si sarebbe rivelato non in linea con le previsioni (di legge) per inibire l'attività, recate dalla disciplina sulla c.d. liberalizzazione delle attività commerciali; - il privato non sarebbe stato invitato - prima dell'inibitoria - a conformarsi alla disciplina vigente e la decisione sarebbe stata illegittimamente assunta per motivi meramente precauzionali, i quali non sarebbero stati giustificati dall'ordinamento vigente; - più volte l'Amministrazione, pur in presenza di una SCIA, avrebbe impedito l'apertura e la prosecuzione dell'attività di somministrazione alimenti e bevande: ciò nonostante - secondo quanto esposto - non ci fossero i presupposti di legge per l'adozione dei provvedimenti inibitori. 2.1.- Con un primo ricorso per motivi aggiunti il ricorrente impugnava la nota n. 1108/2020 con la quale il Comune di (omissis) "rigettava" la "segnalazione certificata per l'agibilità " dell'immobile di cui trattasi. La motivazione di detto provvedimento era racchiusa nell'affermazione secondo cui "nella relazione tecnica di controdeduzioni l'ing. (...) conclude che "l'iter amministrativo della SCA parziale non può essere completato positivamente". Avverso detto provvedimento la parte privata deduceva che: - il provvedimento sarebbe intervenuto a distanza di oltre 90 giorni dal deposito della SCA datato 29 novembre 2019; - l'Amministrazione non avrebbe potuto - in ragione della natura dell'atto di liberalizzazione - "rigettare", con provvedimento atipico, la SCA; i poteri inibitori avrebbero potuto esercitarsi soltanto nei trenta giorni (perentori, che qui non sarebbero stati rispettati) dal suo deposito; - una volta perfezionatasi e divenuta efficace la SCIA, il Comune avrebbe dovuto dar luogo ad un procedimento di secondo grado, avente a oggetto (in ipotesi) il riesame di un'autorizzazione "implicita"; - ove pure quello di specie potesse considerarsi un provvedimento di secondo grado, esso si sarebbe rivelato privo di motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale; - sarebbe stato in precedenza rilasciato un certificato di agibilità in base ai permessi di costruire n. 1766/2013 e n. 1792/2015 e, dunque, anche per i locali che ospitavano l'"Ho. Ba."; tale certificazione avrebbe riguardato anche la porzione immobiliare di cui trattasi: essa, peraltro, non sarebbe stata soggetta a condizioni, sarebbe stata valida ed efficace (poiché mai annullata o revocata dal Comune di (omissis)) e della stessa l'Amministrazione non avrebbe tenuto conto; in tal senso sarebbe stata erronea la presentazione della successiva SCA di parte del 2019; - la motivazione dell'impugnato provvedimento avrebbe richiamato una relazione tecnica erronea in considerazione che: - il Comune avrebbe operato una sovrapposizione tra permesso di costruire e SCA ravvisandone un'interrelazione, ma non avrebbe tenuto in considerazione che, nel caso di specie, la SCA avrebbe avuto connotazione parziale "pur nella perdurante efficacia della certificazione di agibilità rilasciata sull'intero edificio nell'anno 2016"; - il tecnico avrebbe erroneamente considerato decaduto il permesso di costruire 1825/2018 (sarebbe stata, invece, inoltrata comunicazione di inizio lavori in data 14 maggio 2018). 2.2.- Il secondo ricorso per motivi aggiunti aveva ad oggetto l'ordine di sospensione lavori n. 5185 del giorno 11 agosto 2020 e la determinazione dell'ufficio tecnico comunale n. 18 del 18 agosto 2020 di annullamento in sede di autotutela dei permessi di costruire n. 1792/2015 e n. 1825/2018 (variante al permesso di costruire n. 1792/2015) rilasciati alla ditta Ma. Gr.. Le ragioni di siffatto atto di ritiro erano così compendiate: a) quanto alla (asserita) difformità della rappresentazione dei luoghi: - il fabbricato sarebbe risultato nello stato attuale già nel 2015; - alla data del 20 ottobre 2014 il fabbricato sarebbe risultato composto da tre piani fuori terra; - vi sarebbe stata una differenza di quota degli impalcati rispetto agli elaborati allegati al permesso di costruire n. 1766/2013 e non contemplati tra le opere oggetto di variante; - l'altezza utile del piano secondo tra le sezioni "A-A" e "B-B" sarebbe stata diversa da quanto indicato in progetto; - non sarebbero state rappresentate negli elaborati grafici tutte le superfici destinate a parcheggio come previsto dall'art. 10 REU; - la sistemazione esterna progettuale sarebbe apparsa artificiosa e idonea ad eludere il REU relativamente all'altezza massima realizzabile; b) quanto alla (asserita) difformità nella realizzazione delle opere: - lo stato delle opere e dei luoghi sarebbe risultato non conforme a quanto autorizzato con permesso di costruire n. 1792/2015 e n. 1825/2018; in particolare la sistemazione esterna non sarebbe stata realizzata secondo quanto previsto dalle tavole progettuali; - i prospetti esterni avrebbero avuto 'bucaturè diverse da quelle autorizzate; - le altezze di interpiano sarebbero risultate diverse da quanto riportato nelle tavole progettuali allegate ai permessi di costruire; - non sarebbero state presenti le aree a parcheggio previste dalla disciplina urbanistica (e dalle non meglio identificate "norme di settore"); - sarebbero state assenti le "aree a standard"; - l'ultimo piano sarebbe stato realizzato in maniera difforme rispetto alle norme di piano e a quanto rappresentato nelle tavole progettuali; c) quanto alle (asserite) difformità documentali: - assenza del parere igienico -sanitario ASL (art. 5 d. P.R. n. 380 del 2001); - l'autorizzazione Genio civile non sarebbe stata comprensiva del calcolo statico dei muri e delle scale indicati nella tavola 4; - non sarebbero stati indicati gli estremi dell'avvenuto pagamento degli oneri di monetizzazione delle superfici a standard; - sarebbe stata fornita una errata rappresentazione grafica dell'altezza massima da realizzare. A sostegno della domanda caducatoria il ricorrente deduceva che: - il provvedimento sarebbe colpito da 'nullità ' poiché non tipizzato dall'art. 6-bis d. P.R. n. 380 del 2001; esso sarebbe stato adottato pendente l'accertamento istruttorio e senza aver invitato il privato a conformarsi; - la sospensione non avrebbe potuto essere ordinata a fini dichiaratamente istruttori e prima della espressa declaratoria di decadenza del titolo; - il titolo abilitativo sarebbe stato annullato oltre il termine di 18 mesi previsto dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 e in mancanza dei presupposti fissati dalla medesima disposizione; - non sarebbe stata compiuta la una necessaria comparazione degli interessi, né valutato il sacrificio imposto al privato; - l'Amministrazione non avrebbe tenuto conto delle osservazioni procedimentali; - non sarebbero stati rinvenibili i presupposti tecnici per l'annullamento, come evidenziato nella perizia tecnica. 2.3.- Il Comune di (omissis) si opponeva all'accoglimento delle domande di controparte. 3.1.- Con sentenza n. 1440 del 2021 il T.a.r. per la Calabria accoglieva - previa declaratoria di improcedibilità della domanda riguardante la sospensione della CILA - le domande di annullamento della parte privata e rigettava la domanda di risarcimento del danno. 3.2.- L'iter argomentativo del T.a.r. era - in via di estrema sintesi e quanto alle statuizioni di accoglimento - così articolato: a) quanto alle vicende inerenti all'esecuzione delle opere: - le criticità compendiate dal Comune nella categoria "difformità nella realizzazione delle opere", si sarebbero sostanziate in asserite irregolarità del "costruito" rispetto all'"assentito", ossia in difformità attinenti alla mera fase di realizzazione dell'opera le quali non avrebbero inciso sulla legittimità del titolo edilizio, ma avrebbero giustificato, in ipotesi, solo un intervento sanzionatorio; - nell'ipotesi sopra menzionata l'Amministrazione avrebbe eventualmente dovuto attivarsi non sul titolo edilizio rilasciato a monte, che non è affetto - per ciò solo - da illegittimità, bensì ricorrendo - in presenza dei presupposti fattuali e giuridici e in relazione alla gravità dell'abuso eventualmente accertato - agli strumenti ripristinatori previsti dal testo unico in materia edilizia; b) quanto alle criticità involgenti la fase concessoria: - le criticità attinenti tanto alla categoria "Difformità della rappresentazione dei luoghi", quanto alla categoria "Difformità documentali", nei termini evidenziati dall'Amministrazione risulterebbero essere correlate "a discrasie interne al compendio documentale prodotto in sede procedimentale ovvero a mere carenze di documenti da allegare alla pratica o incompletezza della pratica stessa, elementi che però, come tali, non implicano un'attività di occultamento doloso - eventualmente a mezzo di artifici - da parte del ricorrente"; - l'istruttoria a base dell'esercizio del potere di autotutela si sarebbe sostanziata "in una mera verifica cartolare della documentazione depositata a suo tempo per l'acquisizione dei titoli edilizi, mentre non sarebbero state indicate attività ulteriori e diverse, quali l'acquisizione postuma di ulteriori elementi, asseritamente nascosti o comunque dolosamente occultati, dal ricorrente ovvero attività di verifica in situ, da cui ragionevolmente si possa inferire il dedotto occultamento": in mancanza di siffatta ipotesi "mancano i presupposti per ritenere insussistenti i limiti temporali al fine di esercitare il potere di autotutela", dovendosi, peraltro, ritenere che "se, come nel caso di specie, sussiste una palese contraddizione tra quanto disposto dall'Amministrazione comunale in sede di autotutela (annullamento di un permesso di costruire) e i precedenti atti della stessa Amministrazione (fondati sull'assunto della legittimità del medesimo titolo abilitativo), il Comune non può ritenersi esonerato dal motivare in merito alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento del titolo edilizio"; - a una disamina estesa agli atti istruttori versati in sede processuale, non si ravviserebbero elementi specifici dai quali ricavare che l'Amministrazione abbia effettivamente ponderato le conseguenze delle difformità indicate (anche in funzione dell'effettivo "peso specifico" che le difformità rilevate possiedono) rispetto ai contrapposti interessi del ricorrente, al fine di concludere che, nel caso concreto, l'eliminazione "radicale" dei permessi di costruire costituisse il modo ottimale di cura complessiva dell'interesse pubblico affidato all'amministrazione (ciò anche nell'ottica dell'impossibilità di individuare modalità di risoluzione proporzionalmente meno drastiche, possibilità che non risulterebbe essere stata neanche vagliata dalla parte pubblica); - l'Amministrazione avrebbe dovuto specificare e valutare l'interesse pubblico concreto ed attuale a ciò sotteso, evidenziando cioè la pregnanza e significatività, a fini di autotutela, dei punti critici inerenti ai permessi di costruire in variante ed apprezzando concretamente il decorso del tempo ed i divergenti interessi del privato; - quanto alla sistemazione esterna che sarebbe stata progettata - in tesi dell'appellante Comune - per eludere le norme del PSC e alla difformità dell'immobile rispetto agli elaborati progettuali, si tratterebbe di profili di irregolarità che non individuano un sotteso interesse concreto e specifico - diverso dal mero ripristino della legalità violata - tale da fondare la (considerata) prevalente esigenza di autotutela; c) quanto al potere inibitorio esercitato dall'amministrazione sulla SCIA: - premesso che il Comune ha fatto ricorso al potere inibitorio sulla SCIA presentata il 24 dicembre 2019 sul presupposto dell'irregolarità della SCA del 19 dicembre 2019, poiché all'epoca dell'adozione del provvedimento impugnato, la predetta SCA era ancora esistente, e poiché era decorso il termine per gli interventi inibitori in mancanza di interventi in autotutela, il Comune avrebbe "posto in essere una censurabile "inversione procedimentale" (nel senso che correttamente il Comune avrebbe dovuto anzitutto agire in autotutela sulla S.C.A. presupposta e solo in conseguenza di ciò rimuovere la S.C.I.A.), che, sul versante dell'atto impugnato, ha però dato luogo ad una sorta di travisamento dei fatti (l'aver rimosso la S.C.I.A. sulla base di una S.C.A. a tale momento non rimossa) che inficia la legittimità dell'impugnato provvedimento di irricevibilità e contestuale disposizione di chiusura dell'attività "; d) quanto al "rigetto" della SCA: - l'Amministrazione non avrebbe valutato la sussistenza di motivi di interesse pubblico, concreti e specifici, che avrebbero imposto il ritiro in autotutela del provvedimento e rispetto ai quali sarebbe risultato non proficuo un eventuale intervento conformativo del ricorrente; - al di là dalla questione dell'esistenza in vita del certificato di agibilità rilasciato sull'intero edificio il 19 maggio 2016, resta il fatto che il ricorrente ha, in data 19 novembre 2019, presentato una segnalazione certificata di agibilità parziale - prevista dall'art. 24 d. P.R. n. 380 del 2001- avente ad oggetto la porzione di edificio ove è ubicato l'esercizio commerciale oggetto di controversia: se per un verso il Comune non ha ritenuto inammissibile la SCA parziale come istituto in sé, per altro verso l'Ente avrebbe ribaltato sulla SCA parziale problemi e criticità che, invece, non sarebbero stati riferibili a quest'ultima; dette criticità avrebbero riguardato l'agibilità complessiva dell'edificio e non la specifica (e funzionalmente autonoma) porzione di edificio oggetto di segnalazione certificata; - in tal senso il Comune non si sarebbe - in definitiva - pronunciato sulla SCA parziale (e autonoma) presentata dal ricorrente, bensì sull'agibilità del complessivo edificio; a ciò va aggiunto che non vi sarebbe stata una valutazione, anche sotto tale profilo, dell'interesse pubblico concreto ed attuale e che l'Amministrazione avrebbe dovuto previamente consentire al privato nei modi previsti dalla normativa urbanistico-edilizia al fine di conformarsi alle norme e a quanto previsto nei progetti assentiti. 3.3.- Il T.a.r. rigettava la domanda di risarcimento del danno in ragione della carenza dell'elemento soggettivo dell'illecito aquiliano e in mancanza di prova del pregiudizio subito. 4.- Avverso la predetta sentenza ha interposto appello - chiedendone la riforma nella parte in cui le domande di annullamento sono state accolte - il Comune di (omissis) il quale ha dedotto l'erroneità della motivazione, la manifesta ed intrinseca illogicità, l'errata valutazione della carenza di interesse pubblico e dei (in tesi, qui assenti) limiti all'esercizio dell'autotutela in presenza di comprovate false rappresentazioni riguardanti un immobile "abusivo". 4.1.- Premesso che ad avviso della parte pubblica sarebbe errata l'affermazione del T.a.r. secondo cui le denunziate "false rappresentazioni" non sarebbero sussistenti, sostiene il Comune appellante che: - i pregressi permessi di costruire sarebbero stati rilasciati sulla base di false rappresentazioni che, se esistenti, avrebbero consentito la rimozione degli atti anche dopo i 18 mesi dalla loro adozione; - tali false rappresentazioni (tradotte, sul piano tecnico, negli ipotizzati elementi di difformità evidenziati in primo grado) avrebbero consentito di trasformare un minuscolo immobile edificato senza elevazioni in un fabbricato composto da tre piani (il quale sarebbe stato tale quanto meno già dal mese di luglio 2014); - sarebbe nullo il collaudo statico poiché riguardante opere asseritamente diverse da quelle autorizzate dalla Regione; - la segnalazione certificata di agibilità sarebbe stata "nulla" in presenza di opere abusive, difformi rispetto al progetto presentato. 4.2.- In punto di perimetro applicativo dell'art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 e limite temporale ivi previsto per l'esercizio dell'autotutela, l'amministrazione, in tesi di parte appellante, avrebbe potuto provvedervi quantunque in mancanza della condanna con sentenza passata in giudicato, ivi prevista, a carico del privato e la non veritiera prospettazione di circostanze non rilevanti avrebbe eliminato in radice ogni presupposto di legittimo affidamento. 4.3.- Sulle altre questioni il Comune ha evidenziato che: - la difformità delle opere realizzate rispetto alla normativa edilizia farebbe decadere l'agibilità (ciò per l'ipotesi, ovviamente, di rigetto della correlata domanda caducatoria della parte privata); - sin dal 19 giugno 2017 (nota n. 5639/2017), il Comune di (omissis) avrebbe comunicato alla ditta che la "certificazione di agibilità non può essere ritenuta valida e si diffida l'utilizzo della stessa a qualsiasi titolo" in ragione delle prescrizioni riportate nel permesso di costruire n. 1792/2015 le quali comportavano lavori mai realizzati (ferme restando le evidenziate difformità e carenze documentali) e (in tesi) non suscettibili di realizzazione. Ciò in considerazione che sia il predetto permesso, sia il permesso di costruire n. 1825/2018, sarebbero da considerarsi decaduti per mancato inizio dei lavori; - legittimamente il Comune avrebbe "rigettato" la SCA a seguito dell'accertamento della mancata conformità dei locali al progetto approvato, della mancata monetizzazione degli standard e della mancata realizzazione e collaudo dei parcheggi, della non corrispondenza tra il collaudo statico della struttura e i progetti strutturali depositati e autorizzati dell'ex ufficio del Genio civile di Catanzaro (la carenza di conformità del progetto ex art. 24, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe stata esaminata dal T.a.r.). 5.1.- Si è costituito in giudizio Gr. Ma. il quale, in rito, ha evidenziato che parte appellante avrebbe prestato acquiescenza alle statuizioni della sentenza riguardanti il ricorso introduttivo e i primi motivi aggiunti; quanto al secondo ricorso per motivi aggiunti sarebbero stati sottoposti a critica soltanto solo due punti della sentenza e non gli altri, pure posti a base della decisione di accoglimento. 5.2.- Sul versante dell'attività procedimentale ha ribadito - in linea con le conclusioni di prime cure - che: - i lavori realizzati nell'immobile dal Ma. non avrebbero riguardato vere e proprie difformità bensì mere irregolarità del "costruito" rispetto all'"assentito" che, come evidenziato dal T.a.r., non avrebbero potuto fondare legittimamente l'annullamento in autotutela del titolo concessorio; - le difformità esecutive non si sarebbero riverberate sulla legittimità del titolo edilizio, ma avrebbero giustificato, in ipotesi, solo un intervento sanzionatorio ; - correttamente il T.a.r. avrebbe rilevato, quanto alle contestate "difformità documentali", che esse, in realtà, sarebbero state configurabili come "discrasie interne al compendio documentale prodotto in sede procedimentale ovvero a mere carenze di documenti da allegare alla pratica o incompletezza della pratica stessa, elementi che però, come tali, non implicano un'attività di occultamento doloso -eventualmente a mezzo di artifici- da parte del ricorrente"; - conseguentemente, sarebbero stati carenti i presupposti per l'autotutela (peraltro non motivata sul piano dell'interesse pubblico concreto e attuale); - il Comune nell'annullare in autotutela i permessi di costruire avrebbe erroneamente ritenuto trattarsi di nuova costruzione e non di variante, e ciò malgrado proprio il certificato di agibilità rilasciato il 19 maggio 2016 dal Comune di (omissis) avesse qualificato l'intervento come tale; - la SCIA del 24 dicembre 2019 non avrebbe avuto come presupposto il certificato di agibilità rilasciato il 19 maggio 2016 ma, diversamente, la SCA parziale (riguardante il solo locale sul quale si sarebbe svolta l'attività commerciale) depositata poco prima della predetta SCIA (e, d'altronde, lo stesso provvedimento di ritiro richiamerebbe la SCA e non il certificato del 2016 oltreché il successivo atto di diffida del 2017 sopra citato il quale, peraltro, non avrebbe annullato o revocato il certificato rilasciato); - il Comune non avrebbe tenuto in considerazione la SCA parziale ma avrebbe pure illegittimamente emanato un provvedimento di divieto di prosecuzione dell'attività senza prima avere invitato il privato a conformarsi ai sensi del comma 3 dell'art. 19 l. 241 del 1990. 5.3.- In relazione alle singole doglianze poste a base dell'appello, la parte privata ha argomentato che: a) quanto all'addotta (dal Comune) esistenza di "false rappresentazioni" che avrebbero consentito di "realizzare un edificio a tre piani su un minuscolo edificio esistente": - la fonte della sopraelevazione del fabbricato (originariamente a un solo piano fuori terra poi elevato a tre piani) non sarebbe né il permesso di costruire n. 1792/2015, né il permesso di costruire n. 1825/2018, ma il permesso di costruire n. 1766/2013 che, conformemente al vigente strumento urbanistico comunale, l'avrebbe prevista (i successivi permessi rilasciati sarebbero mere varianti); - le opere esistenti nel 2014 sarebbero state, dunque, regolarmente autorizzate; b) quanto alle (addotte, dal Comune) "false rappresentazioni relative alla differenza di quota degli impalcati così come riportato nella raffigurazione delle sezioni del fabbricato": - le presunte discrepanze delle quote degli interpiani evidenziate nella relazione di consulenza sarebbero state causate dalla differenza di spessore tra i solai riportati del disegno architettonico e lo spessore strutturale realmente realizzato avrebbe dato luogo ad una maggiore sicurezza sismica dei solai e di tutto l'edificio avrebbe costituito un dato tecnico inidoneo ad incidere sui parametri urbanistici; inoltre, ai sensi dell'art. 9, comma 16, del vigente REU il maggiore spessore eccedente i 20 cm non avrebbe dovuto essere conteggiato ai fini del calcolo dell'altezza; - una volta acclarato che il riscontrato maggiore spessore dei solai sarebbe finalizzato al miglioramento dei livelli di sicurezza, le restanti lievi differenze di misura rientrerebbero nelle tolleranze dimensionali del 2% consentite dall'art. 34 comma 2-ter d.P.R. n. 380 del 2001; si tratterebbe, peraltro, di difformità coperte dalla previsione dell'art. 34-bis d. P.R. n. 380 del 2001; c) quanto all'addotta carenza del collaudo statico: - il tema introdotto dal Comune con l'appello sarebbe nuovo rispetto al giudizio di primo grado; - il nuovo iter di verifica statica dell'immobile sarebbe stato estraneo alla procedura di revoca dei permessi di costruire n. 1792/2015 e n. 1825/2018: esso non sarebbe stato diretto a sostituire il collaudo statico del fabbricato già rilasciato (che era e rimane valido ed efficace, mai revocato e mai oggetto di impugnativa o contestazione prima d'ora); esso sarebbe stato, invece, volto a dimostrare la conformità e la verifica statica dell'immobile alla luce delle difformità rilevate dal perito del Comune di (omissis) (considerato che le difformità in altezza rilevate, pur rientranti nelle tolleranze dimensionali del 2%, sarebbero state utilizzate strumentalmente dal perito di parte del Comune per mettere in discussione il pregresso collaudo statico del fabbricato e la sicurezza strutturale dello stesso); né il Genio civile sarebbe mai in tal senso intervenuto. 6.- La parte privata, appellata, ha altresì proposto appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza in riferimento alla statuizione di rigetto della domanda risarcitoria. Ha evidenziato l'asserita inescusabilità della condotta dell'Amministrazione la quale non avrebbe tenuto conto della natura delle criticità rilevate, "irrilevanti e facilmente emendabili". Anche il provvedimento inibitorio dell'attività oggetto di SCIA, sarebbe stato asseritamente violativo della regola di tipicità poiché emanato in mancanza di un accertamento sulla carenza di requisiti e senza consentire al privato di conformarsi. Il T.a.r. avrebbe, altresì, errato nel valutare il danno e le prove. 7.- In prossimità dell'udienza, le parti hanno depositato ulteriori scritti volti a ribadire le rispettive tesi difensive: il Comune ha, tra l'altro evidenziato la carenza di prova della pretesa risarcitoria e la parte privata la complessiva violazione del legittimo affidamento. 8.- All'udienza pubblica del 26 marzo 2024, presenti i procuratori delle parti, l'appello, su richiesta degli stessi, è stato trattenuto in decisione. 9.- L'appello principale, alla stregua di quanto, si dirà non è meritevole di accoglimento: la sentenza, correttamente e compiutamente argomentata, ha esattamente colto le ragioni di illegittimità degli atti impugnati. 10.- Come si è detto, il Comune ha annullato in autotutela i permessi di costruire del 2015 e del 2018 in ragione della connotazione "abusiva" dell'immobile. Detto annullamento è intervenuto con atto del 18 agosto 2020 e ha riguardato i permessi di costruire rilasciati il 18 maggio 2015 e il 10 maggio 2018. 10.1.- Sulle ragioni che giustificano (e ammettono) il ritiro in autotutela dei titoli edilizi devono essere ribaditi gli approdi cui è giunta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo cui: - i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; - i principi generali che devono essere considerati in materia di annullamento in autotutela di un atto amministrativo devono essere applicati, in linea di principio, anche nell'ipotesi in cui oggetto di annullamento sia un titolo edilizio, di conseguenza è necessario che l'atto di annullamento rechi una motivazione specifica in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, non potendosi ritenere sussistente in via generale un interesse pubblico in re ipsa al ritiro del titolo edilizio illegittimo (sez. VI, n. 1976 del 2022). - anche i provvedimenti di annullamento in autotutela sono attratti all'alveo normativo dell'art. 21- nonies l. n. 241 del 1990 che, per effetto delle riforme introdotte dal legislatore (da ultimo, la legge n. 124 del 2015), ha riconfigurato il relativo potere attribuendo all'Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si esprime attraverso la valutazione dell'interesse pubblico in comparazione con l'affidamento del destinatario dell'atto. Pertanto, nel fare applicazione dei principi espressi anche dall'Adunanza plenaria (sentenza 17 ottobre 2017 n. 8), si rivela che i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. L'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (sez. IV, n. 5277 del 2018). 10.2.- Tali coordinate nel caso di specie non risultano rispettate: sia perché il Comune non ha esplicitato nessuna argomentazione circa la presenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione dei titoli edilizi, sia perché, ove, a tutto concedere, si volesse ritenere implicitamente integrata indicazione dell'interesse pubblico per mezzo dell'individuazione delle opere (asseritamente) abusive, quelle menzionate - come si vedrà - si rivelano non essere tali, e, dunque, non idonee a dar luogo alla rimozione in autotutela dei titoli edificatori. 10.3.- Il provvedimento di ritiro è stato pure (illegittimamente) adottato in uno iato temporale estremamente ampio e, quindi, poco ragionevole e, comunque, ben oltre il termine di diciotto mesi dall'entrata in vigore, in data 28 agosto 2015, dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 come novellato dalla l. n. 124 del 2015. 10.4.- Sul rispetto di tale termine, la giurisprudenza della Sezione, alla quale il Collegio intende dare continuità, ha evidenziato (cfr., da ultimo, sentenza n. 1926 del 2024, qui richiamata ai sensi dell'art. 88, comma 2, lett. d c.p.a.) che: - il regime temporale di diciotto mesi introdotto dalla legge n. 124 del 2015, così come non può decorrere dall'adozione dell'atto di prime cure, se antecedente al 28 agosto 2015, decorre senz'altro, per tali atti, dall'indicato giorno di entrata in vigore della novella legislativa; per cui, nella fattispecie, il provvedimento di ritiro, quanto al permesso di costruire del 2015, è stato adottato oltre il termine perentorio di legge; - il termine di diciotto mesi, peraltro, può essere legittimamente superato nelle ipotesi di cui al comma 2-bis dell'art. 21-nonies, vale a dire di provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato; - la giurisprudenza ha chiarito in proposito come non possa sostenersi che le "false attestazioni", ai fini dell'operatività del comma 2-bis dell'art. 21-nonies e, quindi, per poter consentire di superare il termine dei 18 mesi nell'esercizio dell'autotutela, debbano essere state accertate con sentenza penale passata in giudicato; - "A tali fini, infatti, è stata operata una netta distinzione tra le due ipotesi contemplate dal comma 2-bis dell'art. 21-nonies, costituite, l'una, dalle "false rappresentazioni dei fatti", l'altra, dalle "dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci". In particolare (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 18 marzo 2021 n. 2329), la giurisprudenza ha evidenziato che il superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per l'esercizio del potere di autotutela di cui all'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, deve ritenersi ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto richiedente abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, atteso che, in questi casi, viene in rilievo una fattispecie non corrispondente alla realtà . Tale contrasto, tra la fattispecie rappresentata e quella reale, può essere determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all'uopo rese dichiarazioni sostitutive), dovrà scontare l'accertamento definitivo in sede penale, ovvero da una falsa rappresentazione dei fatti, che può essere rilevante al fine di superamento del termine di diciotto mesi anche in assenza di un accertamento giudiziario della falsità, purché questa sia accertata inequivocabilmente dall'Amministrazione con i propri mezzi. L'articolo 21-nonies, in definitiva, contempla due categorie di provvedimenti - differenziabili in ragione dell'uso della disgiuntiva "o" - che consentono all'Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d'ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive false. La ratio dell'illustrato comma 2-bis, infatti, risiede nell'esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine per l'esercizio dell'autotutela debba essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 17 ottobre 2017, riferita peraltro al concetto di termine "ragionevole", in quanto involgente una fattispecie concreta venuta in essere prima della riforma). La "scoperta" sopravvenuta all'adozione del provvedimento di primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo edilizio, non potendo la negligenza dell'Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine di decorrenza dell'esercizio del potere. In sostanza, il differimento del termine iniziale per l'esercizio dell'autotutela deve essere determinato dall'impossibilità per l'Amministrazione, a causa del comportamento dell'istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell'ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado" (Cons. Stato sez. VI, n. 1926 del 2024, cit.). 10.5.- Ora, ribadito l'esercizio del potere di autotutela è legittimato dal concorso di due condizioni, ossia l'esistenza di un vizio di legittimità, che infici l'atto che si intende annullare, e la presenza di uno specifico pubblico interesse, diverso da quello finalizzato al ripristino della legalità violata, che giustifichi il particolare sacrificio imposto al privato, in relazione alla sua posizione giuridica. In ipotesi di abusi edilizi su immobile legittimamente assentito l'autorità comunale è tenuta, a tacer d'altro, ad individuare espressamente le ragioni non solo per le quali sussistano i presupposti di ritiro del titolo edilizio, ma anche le ragioni per le quali le opere, allorché in precedenza assentite, non siano suscettibili della sola misura ripristinatoria ex art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001. "Per le vicende sorte nella vigenza dell'articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 - per come introdotto dalla l. 15 del 2005 -, l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio anche in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole, non potendosi predicare in via generale la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione in autotutela di tale atto" (Cons. Stato, Ad. plen. n. 8 del 2017). 10.6.- Nel caso di specie nessuna di tali spiegazioni risulta offerta, in mancanza, peraltro, della 'falsa rappresentazione dei fattà su cui fa leva il Comune. D'altronde, ove pure si volesse ritenere nel caso di specie ammissibile, quanto ai presusposti sostanziali, il ritiro in autotutela, esso andava esercitato tempestivamente: il Comune, infatti, era in possesso di tutti gli elementi per avvedersi di eventuali abusi e/o difformità (più o meno essenziali) considerato, del resto, che aveva rilasciato un permesso di costruire nel 2013 (del quale non ha poi tenuto conto in occasione degli atti impugnati) e considerato che vi erano state diverse interlocuzioni (vedasi l'ampio carteggio menzionato nell'atto di autotutela), ivi compresa quella involgente il rilascio del certificato di agibilità del 2016; il tutto corroborato dalla non irrilevante circostanza che la vicenda si svolge in un piccolo ente locale nel quale, nel quale, ordinariamente, sulla base dell'esperienza comune, macroscopici interventi edilizi privi di titoli o difformi da essi sono tutt'altro che difficilmente rilevabili in modo tempestivo. Assetto, questo, che esclude ogni ipotetico differimento della decorrenza del termine di 18 mesi previsto, ratione temporis, dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 per dar luogo al ritiro in autotutela, non rinvenendosi (quale potenziale causa del predetto differimento) la falsa rappresentazione dei fatti nei sensi voluti dalla civica amministrazione appellante. 10.7.- A ciò deve essere aggiunto che, quanto alle difformità evidenziate dal Comune, in primo luogo esso, al di là delle differenze di quota di cui non ha spiegato l'incidenza (in un contesto procedimentale complesso in cui la regola di buona fede avrebbe imposto al Comune più puntuali verifiche), non le ha valutate in ragione del pregresso titolo edificatorio regolarmente rilasciato né le ha considerate come variazioni 'essenzialà al progetto assentito, né, come detto, ha valutato la configurabilità di esse come irregolarità (id est: abusi) da sottoporre, al più, a eventuale provvedimento di ripristino invece che alla più radicale rimozione del titolo abilitativo già rilasciato. Le allegazioni di parte appellante circa la configurabilità come interventi sul piano sostanziale ammissibili (non adeguatamente smentite dal Comune), mostrano, del resto, come, effettivamente, la rimozione dei titoli si mostra(sse), allo stato degli atti, del tutto sproporzionata. In tal senso deve convenirsi con il T.a.r. che le difformità, così come descritte, si sono sostanziate in mere irregolarità del "costruito" rispetto all'"assentito". La stessa addotta nullità dell'autorizzazione del Genio civile - al di là del fatto che essa attiene alla fase esecutiva del titolo edificatorio - non risulta espressamente (e formalmente) dichiarata dall'Amministrazione (regionale) competente. 10.8.- Parimenti fondate erano le doglianze involgenti la decisione del Comune sulla carenza di agibilità del bene. In primo luogo va detto che le difformità evidenziate dal Comune non erano correlate, nell'atto di rigetto, alla violazione di norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene e (oggi) risparmio energetico degli edifici e degli impianti al cui presidio è la disciplina sull'agibilità ; sotto altro profilo, il Comune si è pronunciato circa la complessiva (in)agibilità dell'immobile pur in presenza di una SCA parziale, peraltro redatta in linea con il pregresso certificato di agibilità in precedenza rilasciato e, comunque, in presenza di contestate violazioni per la loro natura non rilevanti come presupposto di rimozione del titolo edilizio (e, sul piano sostanziale, la presunta carenza di efficacia della SCA in ragione delle difformità edilizie trova un limite nella qualificazione di queste ultime come mere irregolarità ). 10.9.- Il sopra descritto complessivo assetto rendeva, dunque, illegittimo il provvedimento di chiusura dell'attività conseguente disposto all'esito della valutazione della SCIA: il Comune ha, al di là dei presupposti sostanziali, carenti, obliterato la possibilità di consentire al ricorrente di conformarsi, né ha tenuto in considerazione la reale portata delle addotte difformità, agendo pur in presenza di una segnalazione certificata di agibilità comunque efficace. 10.10.- I motivi di appello principale si rivelano, dunque, infondati. 11.- Rimane ferma la valutazione dei presupposti, a cura del Comune, per l'adozione di provvedimenti sanzionatori e/o di ripristino edilizio. 12.1.- Può adesso passarsi all'esame dell'appello incidentale, volto ad ottenere la riforma dell'impugnata sentenza nella parte (reiettiva), riguardante la pretesa risarcitoria: esso, come si vedrà, non è meritevole di accoglimento. Ha dedotto la parte privata che: - il Comune non avrebbe provato l'errore scusabile neanche in punto di complessità del procedimento: la vicenda sarebbe stata resa complessa proprio dalla condotta del Comune che avrebbe travisato i fatti, rimesso in discussione i propri titoli abilitativi, adottato atti non facilmente riconducibili alle fattispecie tipizzate dalla legge e provvedimenti illegittimi con inversione della sequenza procedimentale; - l'Amministrazione avrebbe disposto la chiusura in via precauzionale dell'esercizio in violazione del principio di tipicità degli atti; - sarebbe stato rispettato il canone di diligenza ex art. 1227 c.c., posto che il ricorrente si sarebbe attivato, anche in via stragiudiziale, per evitare il prodursi di danni a suo carico; - la dichiarata (dal T.a.r.) carenza di prova del pregiudizio subito sarebbe errata sul rilievo che il Tribunale avrebbe potuto esprimersi con condanna generica da quantificarsi ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a. e, comunque, dalla documentazione in atti sarebbero state evincibili le "perdite" subite. 12.2.- Come correttamente affermato dal T.a.r nel caso di specie non sussistono i presupposti per farsi luogo alla riparazione dell'illecito aquiliano. Premesso che su tale capo della sentenza l'appellato non ha svolto critiche significative alla statuizione di rigetto se non riproponendo argomenti già spesi in primo grado, va comunque rilevato che al di là della condotta del Comune nell'adottare moduli procedimentali e provvedimenti del tutto disallineati dai suoi stessi precedenti provvedimenti, la vicenda presentava un'articolazione tale da renderla particolarmente complessa. In ogni caso, la parte privata non ha provato il pregiudizio subito, né a tale carenza può supplire il giudice in sede di ottemperanza ex art. 34, comma 4, c.p.a.: va, infatti, ricordato come il privato sia tenuto all'assolvimento dell'onere probatorio e che la c.d. sentenza sui criteri, invocata da parte appellata, non esonera la parte da detta prova da rendersi alla stregua dei criteri ex art. 2697 c.c.; manca poi ogni prova sulla spettanza in presenza non di una illegittimità originaria del titolo ma comunque di una difformità fra assentito e costruito. 12.3.- L'appello incidentale va, dunque, anch'esso, rigettato. 13.- Lo scrutinio (complessivo) dei motivi di appello (principale e incidentale) è stato sviluppato alla luce dell'ormai consolidato "principio della ragione più liquida", corollario del principio di economia processuale (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015 n. 5 nonché Cass., sez. un., 12 dicembre 2014 n. 26242), con esame di tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663 e per il Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2022 n. 531 e 2 settembre 2021 n. 6209). 14.- Il complessivo assetto della vicenda consente la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, in epigrafe, rigetta l'appello principale e l'appello incidentale e, per l'effetto, conferma l'impugnata sentenza. Spese del grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Giuseppe La Greca - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8411 del 2021, proposto dalla società Br. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Cr. e Te. Ma., con domicilio digitale presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Cr. in Roma, via (...); contro il Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ma., Pa. Co., Al. Mo. Am., Ma. Lo. Bo., El. Ma. Fe., An. Ma. Pa., dell'Avvocatura comunale e dall'avvocato Gi. Le., con domicilio digitale presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avvocato Gi. Le. in Roma, via (...); nei confronti della società Am. Se. S.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Er. Va., con domicilio digitale presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 febbraio 2021 n. 484, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano e della società Am. Se. S.r.l. e i documenti prodotti; Esaminate le ulteriori memorie, anche di replica, con i documenti depositati e le note d'udienza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza dell'11 aprile 2024 il Cons. Stefano Toschei. Tutte le parti in giudizio hanno depositato note di udienza con richiesta di passaggio in decisione della controversia senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa sullo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio "in presenza" nella fase di superamento dello stato di emergenza del 10 gennaio 2023; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Il presente giudizio in grado di appello ha ad oggetto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 22 febbraio 2021 n. 484 con la quale il predetto TAR in parte ha dichiarato improcedibile e in parte ha respinto il ricorso (n. R.g. 484/2021), corredato da due ricorsi recanti motivi aggiunti, proposto(i) dalla società Br. S.r.l. al fine di ottenere l'annullamento dei seguenti atti e/o provvedimenti: (con il ricorso introduttivo) a) la nota del Comune di Milano n. 316704/2016 del 13 giugno 2016 che ha respinto l'istanza del 18 aprile 2016 con la quale la Br. ha chiesto all'amministrazione comunale di compiere ogni verifica e accertamento necessari e opportuni per la valutazione della legittimità dell'intervento eseguito nell'autorimessa sita in via (omissis) e di adottare "tutti gli atti e provvedimenti conseguenti (anche repressivi e/o in autotutela), ai sensi della legge vigente", con domanda di risarcimento dei danni subiti; (con il primo ricorso recante motivi aggiunti) b) la nota del Comune di Milano, Sportello unico per l'edilizia, Unità territoriale Municipi 1-2-3 Municipio 2, pratica n. 31471/2019 - PG 387343/2019 del 27 gennaio 2020, recante "Comunicazione di conclusione del procedimento amministrativo ai sensi dell'art. 7 e 8 L. 241/90 finalizzato all'espletamento di ulteriori verifiche istruttorie inerenti l'intervento edilizio sito in via (omissis), 5"; c) la segnalazione certificata d'inizio attività a sanatoria presentata da Am. Se. S.r.l., atti PG 387343/2019, il 3 settembre 2019; d) il provvedimento formale di sanatoria relativo alla SCIA sopra citata "non conosciuto e ove esistente", con domanda di risarcimento dei danni subiti; (con il secondo ricorso recante motivi aggiunti) e) la nota del Comune di Milano, Sportello unico per l'edilizia, Unità territoriale Municipi 1-2-3 Municipio 2, pratica n. 31471/2019 - PG 387343/2019 del 24 aprile 2020, recante "via (omissis) - S.C.I.A. in sanatoria Progr. 31471/2019", con domanda di risarcimento dei danni subiti. 2. - La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue: - in data 4 dicembre 2006 la società Am. Se. S.r.l. presentava al Comune di Milano una DIA, ai sensi dell'art. 41 l. Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 diretta alla "trasformazione di posti auto nei due piani interrati in box chiusi" dell'unità immobiliare "AUTORIMESSA" sita in Milano in via (omissis). - successivamente, in data 1 giugno 2007, la suindicata società presentava una (prima) DIA in variante e, dall'esame dagli elaborati grafici, emergeva che alcune opere da realizzarsi insistevano su aree non (evidenziate come) di proprietà esclusiva della richiedente e per la cui realizzazione la società avrebbe dovuto produrre i relativi nulla osta; - in seguito ai numerosi esposti presentati con riferimento ai lavori in corso di svolgimento nell'autorimessa, il Comune di Milano adottava il provvedimento PG 487146/2008, del 16 giugno 2008, con il quale "considerato che dagli atti prodotti a corredo delle D.I.A. presentate, non risulta evidenziata la titolarità /disponibilità giuridica dell'area pertinenziale adibita a giardino e sulla quale sarebbero stati edificati dei manufatti", veniva ordinato di sospendere la realizzazione delle opere in corso e di mantenere tale sospensione sino alla regolarizzazione dell'intervento; - la Am. Se., quindi, presentava una seconda DIA in variante, in data 20 giugno 2008, corredata da una relazione tecnica di precisazione sui lavori eseguiti e dalla richiesta di revoca dell'ordine di sospensione dei lavori; - la richiesta di autorizzazione al riavvio dei lavori era accolta dai competenti uffici comunali, in data 23 luglio 2008, in quanto dalla seconda DIA in variante emergeva che le opere risultavano previste all'interno di aree dichiarate di pertinenza; - in data 8 ottobre 2010, a seguito della comunicazione di fine lavori e del collaudo finale presentati dalla società Am. Se. il 20 febbraio 2009, veniva eseguito un sopralluogo per definire il corretto stato dei luoghi, dal quale emergevano diverse irregolarità ; - quindi, in data 24 febbraio 2011 la suddetta società presentava una richiesta di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 37 d.P.R. 6 giugno 2021, n. 380, che veniva respinto dal Comune di Milano con provvedimento del 17 luglio 2013, nel quale era segnalata la necessità di "produrre la documentazione attestante la proprietà dell'intercapedine ed evidenziare in apposito elaborato grafico la dimostrazione analitica delle aree di proprietà e del relativo confine, dimostrando altresì che tutte le opere sono ricomprese all'interno del perimetro stesso"; - al provvedimento di diniego di sanatoria seguiva l'adozione, in data 20 novembre 2014, dell'ordine di demolizione; - la società Am. Se. impugnava, quindi, i suindicati provvedimenti comunali dinanzi al TAR per la Lombardia e successivamente, in seguito alla rilevazione topografica delle aree ed alla rilevazione metrica delle intercapedini effettuate in data 18 maggio 2015 dall'Ufficio espropri, la ridetta società presentava una istanza di riesame del diniego di sanatoria, alla quale ne seguiva un'altra, in data 3 settembre 2019; - il rinnovato procedimento di sanatoria si concludeva con il pagamento della sanzione liquidata dall'Agenzia delle entrate, di talché il ricorso dinanzi al TAR per la Lombardia non veniva più coltivato ed era dichiarato perento con decreto n. 991 del 2 dicembre 2020; - nel contesto fin qui descritto va segnalato come la società Br. S.r.l., proprietaria di un immobile sito in via (omissis), fin dall'inizio dei lavori di realizzazione dell'intervento da parte della Am. Se. presentava plurime e frammentate istanze di accesso agli atti, alcune soddisfatte prima del loro trasformarsi in ricorsi giurisdizionali, mentre altre venivano ritenute meritevoli di accoglimento solo in seguito a giudizi dinanzi al TAR per la Lombardia; - accadeva quindi che, con nota inviata agli uffici comunali in data 18 febbraio 2014, la società Br. invitava l'amministrazione "ad esercitare i poteri di vigilanza e se del caso sanzionatori sull'intervento" eseguito dalla società Am. Se. e ormai da tempo completato, pur se l'amministrazione avesse già provveduto ad informare e coinvolgere la Br. (ad esempio in occasione della revoca della sospensione dei lavori e nella successiva segnalazione di irregolarità edilizia); - rispondeva alla suddetta richiesta, in data 12 maggio 2014, lo Sportello unico edilizia, Servizio interventi edilizi minori, illustrando il contenuto e gli esiti delle procedure sviluppate in ordine alle richieste della Am. Se. e precisando di avere "effettuato le proprie verifiche in relazione alla regolarità edilizio-urbanistica delle opere realizzate e progettate"; - nondimeno la società Br. reiterava, in data 18 aprile 2016, la diffida "ad intraprendere senza indugio le azioni di vigilanza e repressive di competenza in relazione all'intervento", di talché lo Sportello unico confermava, con nota del 13 giugno 2016, quanto già riferito nella nota dell'aprile 2016; - la società Br., quindi, impugnava la comunicazione del 13 giugno 2016 dinanzi al TAR per la Lombardia e chiedeva che venissero annullati tutti gli atti abilitativi degli interventi edilizi realizzati, oltre a proporre domanda risarcitoria per i danni subiti; - la società Am. Se., nel costituirsi in giudizio, depositava copia della SCIA in sanatoria presentata in data 3 settembre 2019, evidenziando la sopravvenuta carenza di interesse "in relazione al diniego di autotutela ed esercizio dei poteri repressivi richiesti al comune"; - in seguito ad incombenti istruttori disposti dal TAR, l'amministrazione depositava, in data 30 gennaio 2020, una relazione illustrativa con documentazione allegata, nella quale veniva riassunto il procedimento di valutazione del titolo in sanatoria e si dava conto delle comunicazioni nel frattempo intercorse con la società Br.; - quest'ultima, con ricorso recante motivi aggiunti, impugnava la comunicazione del 27 gennaio 2020 con la quale lo Sportello unico edilizia, a conclusione del procedimento di verifica istruttoria sul titolo in sanatoria, informava la società Br. di aver accertato la non rilevanza delle contestazioni oppositive sollevate dalla medesima società ; - definitosi il procedimento di sanatoria con il pagamento da parte della società Am. Se. della sanzione determinata dalla Agenzia delle entrate, la società Br. impugnava quindi l'ordine di pagamento della sanzione per ottenerne l'annullamento, oltre a (tornare a) domandare il risarcimento dei danni subiti; - il giudizio di primo grado, avente ad oggetto il ricorso introduttivo e i due ricorsi recanti motivi aggiunti, per come si è sopra tratteggiato, veniva definito con la sentenza 22 febbraio 2022 n. 484, con la quale il TAR per la Lombardia in parte dichiarava improcedibile il ricorso e in parte lo respingeva. 3. - Propone quindi appello la società Br. S.r.l., nei confronti della suddetta sentenza di primo grado n. 484/2022, prospettando tre complesse traiettorie contestative (oltre alla riproposizione di motivi non scrutinati dal primo giudice), che possono sintetizzarsi come segue: I) Error in iudicando - Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 22 e 27 d.P.R. n. 380/2001 - Violazione a falsa applicazione degli artt. 26, 27 e 28, nonché degli artt. 146 e 147 del vigente Regolamento edilizio del Comune di Milano - Violazione e falsa applicazione dell'art. 75 del previgente Regolamento edilizio del Comune di Milano - Eccesso di potere per violazione del principio di buon andamento e per carenza assoluta di istruttoria e carenza assoluta di motivazione - Eccesso di potere per erronea presupposizione di fatto e contraddittorietà . La società appellante rammenta che, dall'esame di numerosi documenti posti all'attenzione degli uffici comunali, l'autorimessa in questione viene qualificata come "pubblica" e questo sin dalle origini dello sviluppo dell'area (ciò deriva, ad esempio, dall'esame della originaria licenza edilizia originaria del 1962, dal contenuto di un atto di compravendita del 1969, dalla convenzione edilizia del 1967 che prevedeva la possibilità di realizzare box per autorimesse private, purché non al di sotto dei fabbricati contraddistinti dalla lettere 'N', quali quelli in questione, dalle dichiarazioni della stessa società Am. Se., secondo cui detti posti auto erano destinati a "uso pubblico". Ne consegue che la nota rilasciata dagli uffici comunali in data 27 gennaio 2020, nella quale era affermato che "La natura privata dell'autorimessa e delle intercapedini risulta già accertata dall'istruttoria delle precedenti pratiche edilizie e dagli atti processuali del procedimento penale (v. sentenza n. 3917/17 in data 11/04/2017", è illegittima, evincendosi dal contenuto della ridetta documentazione "una qualifica "pubblica" dell'autorimessa in relazione al(la) quale il Comune ha invece il dovere di intervenire per ripristinarne la destinazione. Parimenti illegittimo è quindi il Provvedimento Chiusura SCIA in Sanatoria." (così, testualmente, a pag. 22 dell'atto di appello). Del resto il primo giudice non ha tenuto in nessuna considerazione la documentazione prodotta dall'odierna appellante nel corso del giudizio di primo grado, finendo con raggiungere conclusioni opposte a quanto rappresentato dalla società Br. sulla base di considerazioni interpretative non collegate ad alcuna evidenziazione documentale probante. Peraltro anche la motivazione con la quale il TAR ha ritenuto di non condividere la posizione di contestazione circa il titolo di proprietà dell'area ove si sono realizzati gli interventi edilizi appare l'esito di un insufficiente scrutinio svolto senza tenere in debito conto della documentazione prodotta dalla società Br. in argomento. Sul punto va rammentato che "La clausola di salvaguardia di cui all'articolo 11, comma 3, del D.P.R. 380/2001 non può spingersi infatti fino a esonerare il Comune dal compiere idonei accertamenti se, alla luce della documentazione disponibile (in questo caso, resa disponibile da Br.) risultano chiare irregolarità e incongruenze" (così, testualmente, a pag. 28 dell'atto di appello). Inoltre: A) quanto agli adempimenti in materia di cementi armati, a nulla rileva il "deposito sismico" pratica n. 2325880132-14112019-1213 menzionato dalla nota del 27 gennaio 2019 dal Comune di Milano, in quanto relativo alla denuncia di opere strutturali n. 125 del 12 febbraio 2007, che non riguardava le opere menzionate nella CTU disposta nel giudizio davanti al Tribunale di Milano, sez. XII civile, RG 52381/09. Contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, quindi, nessun approfondimento in merito era stato compiuto dal Comune di Milano, sicché non risulta chiarito (dal Comune o da Am. Se.) se le opere di cui alla CTU fossero ricomprese negli adempimenti da ultimo compiuti da Am. Se.; B) con riferimento all'assentibilità mediante SCIA degli interventi in oggetto, l'art. 75 del Regolamento edilizio vigente all'epoca dell'intervento di cui trattasi assoggettava a "concessione onerosa" la realizzazione di parcheggi interrati non pertinenziali, quali quello di cui è causa. Inoltre, contrariamente a quanto rilevato dal TAR, tale tipologia di interventi all'epoca della realizzazione dei lavori era considerata dalla normativa edilizia quale ristrutturazione "pesante", che necessitava del rilascio del permesso di costruire (solo a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1) e 2), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164 sono da considerarsi interventi di manutenzione straordinaria, anche interventi strutturali e opere di frazionamento); c) quanto alle contestate intercapedini, non era stata affatto accertata in via definitiva la proprietà privata e la possibilità di occupazione delle stesse. Il TAR ha dunque errato nel fondare la propria decisione di contrario avviso rispetto alla prospettazione della società Br. esclusivamente sulla nota della Direzione centrale sviluppo del territorio del 18 maggio 2015 (prot. n. 263686/2015), contestata dalla Br. in occasione della diffida del 2016, i cui rilievi, come attestato dalla stessa nota del 13 giugno 2016, erano stati inoltrati all'Ufficio Espropri dall'amministrazione per "eventuali dirette osservazioni/riscontri di competenza", che tale Ufficio non risulta abbia compiuto; II) Error in iudicando - Violazione e falsa applicazione dell'art. 27 d.P.R. 380/2001 - Violazione a falsa applicazione degli artt. 146 e 147 del vigente Regolamento edilizio del Comune di Milano - Violazione e falsa applicazione dell'art 19, comma 6-ter, l. 241/90 - Eccesso di potere per erronea presupposizione di fatto. La società appellante ribadisce che gli uffici comunali, dinanzi alla presentazione della SCIA in sanatoria da parte della società Am. Se., si siano limitati a prendere atto dell'intenzione della parte interessata accogliendola acriticamente, senza effettuare alcun necessario approfondito scrutinio circa: a) la natura pubblica dell'autorimessa; b) l'accertata assenza di denunce relative ad interventi interessanti cementi armati; c) l'effettivo regime autorizzatorio applicabile all'intervento; d) la natura delle intercapedini, in relazione alla mancanza del titolo sulle aree su cui essi insistono. L'appena contestato atteggiamento degli uffici ha condotto alla evidente violazione dell'art. 19, comma 6-ter, l. 241/1990, in collegamento con la previsione di cui all'art. 27 d.P.R. 380/2001 e degli artt. 146 e ss. del vigente Regolamento edilizio del Comune di Milano in materia di vigilanza edilizia; III) Error in iudicando circa l'istanza per il risarcimento del danno. L'illegittimità degli atti e del comportamento assunto dal Comune di Milano nel corso di tutte le vicende sopra ricordate emerge evidente e la SCIA in sanatoria non ha risolto che alcune delle irregolarità poste in essere nel tempo. Da quanto appena riferito deriva che l'illegittimità dell'operato comunale, quanto meno fino al completamento del procedimento di SCIA in sanatoria, ha determinato pregiudizi alla società appellante e il TAR ha erroneamente omesso di accertare (ai sensi dell'art. 34, comma 3, c.p.a.) l'illegittimità dell'operato comunale ai fini della domanda di risarcimento proposta. 4. - Si è costituito in giudizio il Comune di Milano che ha contestato analiticamente le avverse prospettazioni, confermando la legittimità dei provvedimenti comunali impugnati in primo grado e chiedendo la reiezione del mezzo di gravame proposto stante la correttezza del percorso logico giuridico sviluppato dal giudice di primo grado per come emerge dalla sentenza qui oggetto di appello. Nel formulare le proprie controdeduzioni, il comune appellato riepiloga brevemente i fatti, rispetto ai quali costituiscono dato inoppugnabile e legittimo le determinazioni provvedimentali assunte dagli uffici competenti e qui oggetto di contestazione. In particolare la difesa comunale ricorda che: - la riconduzione dell'autorimessa oggetto degli interventi edilizi contestati nell'ambito della categoria delle autorimesse "pubbliche o di proprietà pubblica o a gestione pubblica" presupporrebbe l'effettiva titolarità dell'immobile in capo a un ente pubblico, circostanza che nella specie non è dimostrata né può discendere dall'utilizzo del termine "pubblico" in senso atecnico nell'ambito dei documenti e degli atti depositati in giudizio dalla società Br.; - i dubbi sulla proprietà dell'area coinvolta (o comunque delle aree interessate) sarebbero sorretti esclusivamente da meri e non decisivi riferimenti catastali che, notoriamente, non hanno valore probatorio, mentre il comune ha effettuato ogni indagine di competenza in materia, anche con riferimento alle intercapedini. D'altronde "(i)l Comune ha (...) provveduto ad effettuare idonea istruttoria in merito alla titolarità delle aree contestate, evitando di compiere indagini che sarebbero eventualmente di competenza esclusiva dell'A.G.O." (così, testualmente, a pag. 11 della memoria del Comune di Milano); - il comune ha poi registrato la presenza di corretti adempimenti, nel corso del procedimento, in materia di cementi armati da parte della Am. Se., giacché detta società, anche in seguito a puntuale contestazione dei competenti uffici comunali, ebbe ad effettuare il "deposito sismico ai sensi dell'art. 6 della L.R. 33/2015 per la conformità delle opere eseguite nel 2009 alle attuali NTC 2018 (...)" con allegata "copia relazione a struttura ultimata di opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica e comunicazione di completamento strutture" (così ancora, testualmente, a pag. 12 della memoria del Comune di Milano); - quanto alla natura degli interventi edilizi realizzati dalla Am. Se. e tenuto conto delle norme vigenti all'epoca dei fatti, essi andavano qualificati nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria il cui titolo di realizzazione non poteva che essere la SCIA (in questo caso "in sanatoria"); - da quanto sopra discende l'irrilevanza delle contestazioni espresse con il secondo e con il terzo motivo di appello dedotti dalla Br.. Da qui la richiesta della difesa comunale di reiezione dell'appello proposto. 5. - Si è costituita nel giudizio di appello anche la società Am. Se. confermando la correttezza del percorso procedimentale svolto dagli uffici comunali e la piena legittimità degli atti oggetto di contenzioso, di talché correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto infondati i motivi di censura in quella sede dedotti. Ad avviso della società controinteressata anche i motivi di appello debbono seguire la sorte delle censure dedotte in primo grado dalla società Br. stante la loro evidente infondatezza. Le parti in giudizio, nel corso del processo di appello, hanno prodotto memorie, documenti e note d'udienza, confermando le rispettive conclusioni già formulate nei precedenti atti giudiziali. 6. - Nel presente contenzioso, giunto al grado di appello, si controverte della legittimità della nota della nota del Comune di Milano, Sportello unico per l'edilizia, Unità territoriale Municipi 1-2-3 Municipio 2, pratica n. 31471/2019 - PG 387343/2019 del 24 aprile 2020, recante "via (omissis) - S.C.I.A. in sanatoria Progr. 31471/2019" e di tutti gli atti precedentemente adottati dal Comune di Milano nel percorso procedimentale che ha condotto alla sanatoria di alcuni interventi edilizi realizzati dalla società Am. Se. nell'immobile di via (omissis) in Milano nonché, conseguentemente, della correttezza della sentenza di primo grado 22 febbraio 2021 n. 484, pronunciata dal TAR per la Lombardia, sede di Milano, che detti atti comunali (e i contestati comportamenti) ha ritenuto essere legittimi, respingendo il ricorso di primo grado proposto all'epoca dall'odierna società appellante. Le opere oggetto di contenzioso attengono alla realizzazione di lavori di "trasformazione di posti auto nei due piani interrati in box chiusi" dell'unità immobiliare AUTORIMESSA sita in via (omissis). Con riferimento a tali opere la società Am. Se. aveva dapprima presentato una DIA in data 4 dicembre 2006, alla quale aveva fatto seguito una DIA in variante dell'1 giugno 2007. In seguito ad esposti pervenuti agli uffici comunali, venne imposta la sospensione dei lavori, in data 16 giugno 2008, "considerato che dagli atti prodotti a corredo delle D.I.A. presentate, non risulta evidenziata la titolarità /disponibilità giuridica dell'area pertinenziale adibita a giardino e sulla quale sarebbero stati edificati dei manufatti". La presentazione di una seconda DIA in variante, in data 20 giugno 2008, conduceva alla revoca dell'ordine di sospensione dei lavori. Questi ultimi venivano completati e di tale circostanza era data comunicazione con presentazione del collaudo finale in data 20 febbraio 2009. In occasione di un sopralluogo da parte del personale comunale in data 8 ottobre 2010, la Am. Se. presentava una SCIA in sanatoria in data 24 febbraio 2011, rispetto alla quale gli uffici comunali opposero il loro contrario avviso evidenziando la necessità di "produrre la documentazione attestante la proprietà dell'intercapedine ed evidenziare in apposito elaborato grafico la dimostrazione analitica delle aree di proprietà e del relativo confine, dimostrando altresì che tutte le opere sono ricomprese all'interno del perimetro stesso". La società Am. Se. presentava quindi, in due tornate, richiesta di riesame fondandola sugli esiti della rilevazione topografica delle aree e della rilevazione metrica delle intercapedini effettuate in data 18 maggio 2015 dall'Ufficio espropri del Comune di Milano. Conseguentemente la procedura di sanatoria si concludeva favorevolmente con il pagamento dell'oblazione e il rilascio del titolo abilitativo in data 3 settembre 2019. Orbene, riassunto (nuovamente, ma) "in pillole" l'ambito fattuale del presente giudizio, pare al Collegio evidente che la contestazione operata dalla società Br. nei confronti dell'operato degli uffici comunali che, a detta dell'appellante, sarebbe stato carente nell'esercitare il potere-dovere di verificare, prima del rilascio del titolo abilitativo edilizio (in sanatoria) richiesto dalla società Am. Se., la proprietà delle aree (anche pertinenziali) e delle intercapedini interessate dagli interventi edilizi in questione, non colga nel segno, essendo dimostrato dalla documentazione versata in atti e riferita a ciascuno dei passaggi procedurali che si sono appena sopra ulteriormente riassunti come gli uffici comunali abbiano prudentemente operato nel caso di specie, non disdegnando di opporsi alla presentazioni di DIA e SCIA al fine di verificare puntualmente il possesso dei titoli proprietari in capo alla società Am. Se., onde poter acclarare la legittimazione della stessa a realizzare le opere e a presentare le dichiarazioni a ciò abilitative, all'esito di ulteriori e circostanziati approfondimenti istruttori, corredati da documentazione allegata dalla società interessata. 7. - Va in proposito, anche in questo caso, rammentato il costante orientamento interpretativo della giurisprudenza di questo Consiglio (si veda, tra le ultime, Cons. Stato, Sez. II, 28 febbraio 2024 n. 1947), in materia di verifica preliminare del titolo legittimante il rilascio di un provvedimento edilizio abilitativo, richiamato - tra l'altro - nei termini seguenti dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 marzo 2022 n. 1827: "La giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 2021, n. 5407, e 30 agosto 2018, n. 5115; sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776; sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4818), che il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell'immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto dall'art. 11, co. 1, D.P.R. n. 380 del 2001), e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell'area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario. Si è precisato, inoltre, che, "il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria" (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 4 aprile 2012, n. 1990). Quanto ora esposto (ed il concetto di "sufficienza" riferito al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in generale, che: - per un verso, chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio debba comprovare la propria legittimazione all'istanza; - per altro verso, è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell'intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza (Cons. giust. Amm., 11 maggio 2021, n. 413; Cons. Stato, sez. II, 30 settembre 2019, n. 6528), ma non comporta anche che l'Amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la "pienezza" (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo. Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l'attribuzione all'Amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro "contenuto" non ad essa attribuito dall'ordinamento. In tal senso, laddove ricorrano limitazioni negoziali al diritto di costruire, l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, sez. IV, n. 5407/2021 cit.). Tuttavia - come si è già affermato - assume rilievo differente l'ipotesi in cui la legittimazione a richiedere l'autorizzazione edilizia si fondi sulla titolarità di un diritto reale, da quella in cui essa attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l'Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire (Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2021, n. 4919; sez. IV, n. 5115/2018 cit.)". In virtù delle appena ricordate coordinate interpretative non può non convenirsi con quanto ha già espresso in merito il giudice di primo grado nell'affermare che, in punto di diritto, "La verifica compiuta dall'Amministrazione è, quindi, compiuta in ragione dello stato degli atti e dei fatti dalla stessa agevolmente accertabile e senza necessità di operare degli accertamenti complessi che, del resto, sono di competenza del Giudice ordinario" (punto 17.3 della sentenza qui oggetto di appello). Dai documenti depositati nel fascicolo digitale del processo, nei due gradi di giudizio, emerge come non sia stata provata la natura pubblica dell'autorimessa, nei termini cui nuovamente fa riferimento la società appellante, tenuto conto che ogni qual volta in uno dei documenti prodotto dalla Br. a sostegno della propria tesi viene in emersione il lemma "pubblico" o similari, detta espressione non si colloca all'interno di un significato tecnico della parola utilizzata e tale da poter far ritenere che l'autorimessa in questione sia pubblica. Ciò è confermato anche dalla sentenza del Tribunale di Milano, n. 3817/2017 dell'11 aprile 2017, con la quale sono stati assolti i rappresentanti della società Am. Se. ed il progettista che aveva collaborato alla presentazione del titolo abilitativo agli uffici comunali dall'imputazione fondata sull'aver "falsamente dichiarato al Comune di Milano - Sportello Unico per l'edilizia, di fatti relativi alla proprietà privata esclusiva delle aree interessate dai lavori". Oltre a quanto sopra si segnala che la natura privata dell'area emerge dal contenuto della convenzione del 30 dicembre 1954 nella quale è consentito espressamente di realizzare box privati nonché dagli accertamenti effettuati dagli uffici comunali in occasione dell'attività svolta su invito istruttorio del giudice di primo grado e rappresentati nella conseguente relazione oltre che dalle complesse indagini effettuate in sede di verifica della SCIA in sanatoria e che hanno condotto alla conclusione positiva della procedura di controllo amministrativo. A ciò si aggiunga che la società Am. Se. è titolare di licenzia d'uso dell'autorimessa del 2 marzo 1999. 8. - Con riferimento poi alla proprietà del giardino ove è stato realizzato l'ascensore per accedere all'autorimessa, dalla documentazione anche notarile prodotta dalle parti in atti emerge che la proprietaria dell'area, la società Eu. S.r.l., in data 18 maggio 2019, ha rilasciato apposito assenso alla realizzazione dell'intervento costruttivo. Per quanto concerne la contestata proprietà delle intercapedini il Collegio non può fare a meno di rilevare come, nel corso del primo grado di giudizio, sia stata prodotta una relazione descrittiva delle operazioni afferenti ad indagini topografiche con annesse misurazioni dalla quale emerge, per come già puntualmente segnalato dal giudice di primo grado, che "i muretti, quota marciapiede, a delimitazione di aree destinate a parcheggio e/o giardino, sono sul confine dei mappali di proprietà privata sia sul lato di via (omissis) che di via (omissis)" e che "su entrambi i lati la posizione dei muretti sembrerebbe essere la testa delle pareti verticali delle intercapedini". Tale accertamento, secondo i parametri di sufficienza legale sopra richiamati, può considerarsi adeguato alla presentazione e al rilascio del titolo edilizio in sanatoria poi assentito, giacché ogni ulteriore approfondimento in merito alla proprietà delle strutture in questione non potrebbe che essere rimesso all'eventuale vaglio del giudice ordinario, non potendosi giuridicamente pretendere dagli uffici comunali, in sede di scrutinio della documentazione utile ad assentire un intervento edilizio, una indagine ulteriormente approfondita in argomento. Seguendo il criterio di sufficienza di indagine rimesso all'ente locale e più sopra tratteggiato, la ulteriore contestazione mossa dalla Br. circa l'incertezza della proprietà delle intercapedini non coglie nel segno tenuto conto di quanto è stato affermato sul punto dagli uffici comunali all'esito dell'indagine svolta nel corso della procedura di verifica della legittimità della SCIA in sanatoria presentata nel 2019 dalla Am. Se.. In tale comunicazione di conclusione dell'istruttoria di controllo del 27 gennaio 2020 si legge infatti che "non si ritiene rilevante dal punto di vista dell'ammissibilità urbanistico-edilizia che alcune porzioni precedentemente indicate come intercapedini siano oggi facenti parte dell'autorimessa, in quanto gli spazi destinati ad autorimessa non costituiscono superficie lorda di pavimento, pertanto non danno luogo ad un aumento del carico urbanistico", oltre a quanto già sopra riferito circa la specifica istruttoria svolta dalla Direzione centrale sviluppo del Territorio, con atto del 18 maggio 2015, prot. n. 263686/2015. Anche il profilo contestativo espresso dalla Br. in ordine agli adempimenti obbligatori in materia di cementi armati e alla asserita carenza di verifiche in tal senso svolte dagli uffici comunali non convince, essendo smentito dalla rappresentazione documentale resa disponibile nel presente giudizio. Emerge infatti che il Comune di Milano ha dapprima contestato alla Am. Se. il livello di sufficienza della denuncia cementi armati n. 142873/2007, tanto che la ridetta società è stata "costretta" a produrre, in data 14 novembre 2019, il "deposito sismico ai sensi dell'art. 6 della L.R. 33/2015 per la conformità delle opere eseguite nel 2009 alle attuali NTC 2018" e ad allegare: "copia (della) relazione a struttura ultimata di opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica e (della) comunicazione di completamento strutture". E tanto il Collegio giudica sufficiente sotto il profilo della pretesa probatoria a carico della Am. Se.. 9. - Appurata, quindi, l'infondatezza del primo e complesso motivo di appello, con riferimento a tutti i profili contestativi dedotti dalla parte appellante, può passarsi allo scrutinio del secondo motivo di appello, con il quale la Br. sostiene che, tenuto conto della tipologia dei lavori effettuati dalla Am. Se. e qui oggetto di contenzioso nonché delle norme settoriali all'epoca vigenti, il Comune di Milano non avrebbe dovuto "accontentarsi" della presentazione di una DIA e poi di una SCIA in sanatoria, avendo dovuto chiedere la società interessata il rilascio di un "permesso di costruire". Ad avviso del Collegio, la trasformazione di posti auto collocati all'interno di una autorimessa in box costituisce un intervento edilizio che non determina in nessuna misura un aumento di carico urbanistico, una variazione di destinazione d'uso o un aumento di superfici utili ben potendo, tale realizzazione, essere sottoposta alla presentazione di una SCIA e ciò anche con riferimento alle norme di settore applicabili ratione temporis al caso di specie, trattandosi di un intervento di manutenzione straordinaria. D'altronde l'appena descritto intervento, semmai, produce una riduzione del numero dei veicoli ricoverabili, ma certamente non implica la realizzazione di un insieme sistematico di opere che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, come avviene nel caso delle ristrutturazioni. Ne deriva la corretta ricostruzione giuridica dell'intervento come realizzabile con SCIA. In ragione di quanto si è fin qui illustrato e dell'appurata infondatezza dei motivi di appello dedotti dalla società appellante, anche la domanda risarcitoria di quest'ultima, presentata quale terzo profilo, non può trovare condivisione venendo meno l'ingiustizia del danno, peraltro solo prospettato dalla Br.. 10. - Dalle sopra espresse considerazioni il ricorso in appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado. Le spese del grado di appello seguono la soccombenza, in virtù del principio di cui all'art. 91 c.p.a., per come richiamato espressamente dall'art. 26, comma 1, c.p.a., sicché la società Br. S.r.l. deve essere condannata a rifondere le spese della presente lite in favore del Comune di Milano e della società Am. Se. S.r.l., che possono liquidarsi nella misura complessiva di Euro 6.000,00 (euro seimila/00), in ragione di Euro 3.000,00 (euro tremila/00) per ciascuna delle suddette parti, oltre accessori come per legge. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello (n. R.g. 8411/2021), come indicato in epigrafe, lo respinge. Condanna la società Br. S.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, a rifondere le spese del grado di appello in favore del Comune di Milano e della società Am. Se. S.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, liquidandole complessivamente nella misura di Euro 6.000,00 (euro seimila/00), in ragione di Euro 3.000,00 (euro tremila/00) per ciascuna delle suddette parti, oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 11 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Stefano Toschei - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Marco Poppi - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8880 del 2021, proposto da Unione (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. Cz., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Seconda n. 144/2021, resa tra le parti, per l'annullamento dell'ordinanza n. 5/2015 prot. n. 5236 in data 15/5/2015, nonché del provvedimento prot. n. 3026 in data 14/3/2016, emessi dal responsabile del servizio urbanistica-edilizia privata del Comune di (omissis). Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Thomas Mathà ; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso introduttivo del giudizio proposto dinanzi al TAR per l'Emilia Romagna, l'appellante Unione (omissis) (di seguito anche Unione), titolare di una concessione edilizia per una residenza sanitaria assistenziale (RSA) a (omissis), ha impugnato l'ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi n. 5 del 15.5.2015 per difformità dalla concessione edilizia n. 20/2001. Con successivi motivi aggiunti, l'Unione ha altresì impugnato il provvedimento del 14.3.2016, prot. n. 3026, con il quale è stata accertata l'inottemperanza all'ordinanza n. 5/2015 e dichiarata l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, mediante trascrizione nei registri immobiliari, del complesso edilizio adibito a RSA, della sua area di sedime e di quella pertinenziale. 2. Le ragioni di detto provvedimento erano - in via di estrema sintesi - così compendiate: - l'Unione (omissis) è un ente pubblico costituito da un'unione di otto comuni limitrofi nella Provincia di Rimini (omissis); - nel quadro delle proprie funzioni, progettava e realizzava a (omissis) una struttura da destinarsi a presidio socio-assistenziale di carattere residenziale rivolto ad anziani non autosufficienti (RSA), in forza della concessione edilizia n. 20 rilasciata dal Comune di (omissis) in data 5.12.2001; - la predetta concessione edilizia includeva come prescrizioni particolari la realizzazione delle seguenti opere (sostanzialmente di urbanizzazione): i) parcheggi pertinenziali alberati con essenze arboree del tipo autoctono; ii) il tratto di strada funzionale alla nuova organizzazione dei parcheggi; - la concessione è stata prorogata con la determina n. 9/2005 per l'ultimazione dei lavori; - l'edificio è stato ultimato nel 2005 senza le opere aggiuntive pretese dal Comune, in quanto, come afferma l'Unione oggi appellante, vi era l'oggettiva impossibilità di darvi seguito, atteso che il tratto di strada da realizzare era localizzato su aree appartenenti a terzi privati di cui l'Unione non aveva alcuna disponibilità ed erano rimaste estranee al precedente piano d'esproprio; inoltre all'Unione sarebbero mancati i mezzi finanziari per l'esecuzione delle opere; - con l'ordinanza n. 1 del 21.2.2006 il Comune di (omissis), dichiarava l'Unione decaduta dalla concessione edilizia n. 20/01 per la parte non eseguita (la strada ed il parcheggio pubblico). Tale provvedimento veniva impugnato dall'Unione con ricorso straordinario al Capo dello Stato, che è stato respinto con D.P.R. del 18.5.2011; - il Comune rilasciava in data 6.8.2007 il certificato di conformità edilizia e agibilità provvisoria del fabbricato destinato a RSA, che è stata, previa espletamento di una gara ad evidenza pubblica, affidata per la gestione al Consorzio Co. So. Qu. di Re. Em.; - con l'ordinanza n. 5 del 15.5.2015 il Comune accertava la mancata esecuzione di: "i) tratto di strada e relativo marciapiede funzionali alla nuova organizzazione dei parcheggi; ii) parte degli spazi da riservare a parcheggio pubblico e annesse alberature, in particolare sul fronte di via (omissis) posto auto e 9 posti previsti in area frontistante la nuova strada; iii) parte degli spazi da riservare a parcheggio pertinenziale e annesse alberature previsti sul retro dell'area cortilizia" e la "diversa sistemazione dell'area esterna (trasformazione di aree destinate a parcheggio pertinenziale in aree verdi, mancata realizzazione dei percorsi pedonali nello spazio verde ad uso dei residenti, mancata piantumazione di alberature nelle aree di parcheggio) nonché la realizzazione di un passo carraio per accedere al retro del complesso" e ordinava all'Unione la demolizione "dell'intero complesso edilizio realizzato in totale difformità dalla concessione edilizia n. 20/01", reputandolo abusivo per totale difformità e con variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo, ai sensi dell'art. 13 della legge regionale dell'Emilia Romagna del 21.10.2004, n. 23, per la mancata realizzazione della strada e del parcheggio pubblico prescritti dalla concessione edilizia. 3. Il TAR per l'Emilia Romagna, Sezione Seconda, con la sentenza n. 144 del 2021, ha respinto il ricorso, integrato dai motivi aggiunti, per cui l'Unione (omissis) ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: 1) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 13 della l.r. 23/2004 - difetto di motivazione - travisamento della portata della concessione edilizia n. 20/2001 - errata valutazione del materiale probatorio. La sentenza del TAR sarebbe illegittima in quanto avrebbe respinto erroneamente il primo motivo del ricorso introduttivo con il quale veniva contestato la riconduzione del caso di specie all'ipotesi della totale difformità dal titolo edilizio previsto dall'art. 13 della L.R. n. 23/2004. Tale circostanza non sarebbe da riscontrare nel caso di specie, sotto nessuno dei profili contemplati dalla norma. 2) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 14 della l.r. n. 31/2002 - violazione dei principi vigenti in tema di prescrizioni e condizioni apponibili ai titoli edilizi - eccesso di potere per contrasto/contraddittorietà rispetto al contenuto della concessione edilizia n. 20/01. Secondo l'appellante nella concessione edilizia n. 20/2001 non si troverebbero prescrizioni atte a subordinare l'efficacia o la validità alla realizzazione delle opere. Il permesso di costruire non potrebbe inoltre contenere condizioni che attengano all'efficacia dell'atto, al di fuori dei casi previsti dalla legge che potrebbero solo fare riferimento ad aspetti tecnici o strutturali legati alla realizzazione dell'intervento costruttivo. 3) Erroneità della sentenza per errata valutazione del contenuto del ricorso - falsa applicazione dell'art. 21 septies della legge n. 241/1990 - violazione dei principi che disciplinano l'impugnazione dei provvedimenti amministrativi. L'Unione deduce che la sentenza avrebbe erroneamente valutato il ricorso introduttivo dato che avrebbe prospettato non la nullità della concessione edilizia, ma la nullità delle prescrizioni, presupponendo che le stesse avessero ad oggetto una prestazione inattuabile e dunque impossibile e che la prestazione richiesta all'Unione sarebbe stata inattuabile e indeterminabile. 4) Erroneità della sentenza per travisamento del contenuto del ricorso, con riguardo a quanto rilevato in ordine all'irrilevanza dell'avvenuto rigetto del ricorso al Presidente della Repubblica proposto dall'Unione contro l'ordinanza comunale n. 1/06. Secondo la tesi dell'Unione, il TAR non avrebbe colto il senso di quanto da essa osservato dall'Unione nel ricorso introduttivo, posto che i rilievi dalla stessa formulati non sarebbero tesi a criticare l'operato del Comune di (omissis) e a rimettere in discussione la legittimità dell'ordinanza n. 1/2006, ma solo a chiarire in via preventiva, le ragioni per le quali il giudicato formatosi su tale ordinanza non sarebbe un ostacolo all'impugnazione del successivo provvedimento di demolizione adottato dal Comune medesimo. 5) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 11 l.r. 23/2004. Con l'ultima doglianza l'Unione ha eccepito l'illegittimità del provvedimento impugnato con motivi aggiunti in via derivata rispetto all'ordinanza n. 5/2015 presupposta, oltre a denunciare un vizio proprio di tale atto, consistente nella violazione dell'art. 11 della L.R. n. 23/2004. Secondo l'Unione nel caso in esame, trattandosi di abusi commessi su aree di proprietà di Enti pubblici, non si potrebbe applicare l'art. 13 della L.R. n. 23/2004, ma l'art. 11 della medesima legge regionale, con conseguente impossibilità per il Comune di disporre l'acquisizione gratuita dell'area al patrimonio comunale. 4. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio ed ha analiticamente contestato la fondatezza delle argomentazioni formulate dall'appellante, concludendo per la reiezione del gravame. 5. All'udienza pubblica del 9 maggio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 6. L'appello è fondato e va accolto nei sensi di quanto di seguito rappresentato. 7. La questione centrale della controversia ha ad oggetto l'idoneità giuridica di un'ordinanza di demolizione e di ripristino a sanzionare un'opera regolarmente concessa, ma realizzata parzialmente. 7.1 In linea generale, occorre considerare che, l'articolo 13 della legge regionale Emilia Romagna 21 ottobre 2004, n. 23, ("Interventi di nuova costruzione eseguiti in assenza del titolo abilitativo, in totale difformità o con variazioni essenziali") disciplina al comma 1 che gli interventi di nuova costruzione eseguiti in totale difformità dal titolo abilitativo sono quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del titolo stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. Secondo il successivo comma 2, una volta accertata l'esecuzione di interventi in assenza del titolo abilitativo richiesto, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali (determinate ai sensi dell'articolo 23 della legge regionale n. 31 del 2002), ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto ai sensi del comma 3, nonché le eventuali servitù di passaggio. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il comma 3 del medesimo articolo prevede che il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. 7.2 L'istituto corrisponde sostanzialmente al dettato previsto dagli articoli 31 e 32 del DPR n. 380/2001 a livello statale. L'art. 31, comma 1 prevede una figura di mancanza sostanziale del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell'opera rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità totale quando sia realizzato un organismo edilizio: integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed edilizie; integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi; integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la destinazione d'uso derivante dai caratteri fisici dell'organismo edilizio stesso); integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi ed autonomi. Accanto alle forme di abuso appena ricordate l'art. 32 regola la fattispecie dell'esecuzione di opere in "variazione essenziale" rispetto al progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità totale, salvo che per gli effetti penali. Le variazioni essenziali sono soggette alla più lieve pena prevista per l'ipotesi della lettera a) dell'articolo 44. Ai sensi dell'art. 32, comma 1, del DPR n. 380 del 2001, sussiste variazione essenziale esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento di destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza; d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentite; e) violazione della normativa edilizia antisismica. Infine, il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni, previsto e regolato dall'art. 34 del DPR n. 380 del 2001, si configura invece quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera (ex multis Cons. Stato, sez. II, n. 6085/2023). 8. La principale caratteristica dell'istituto demolitorio risiede, quindi, nella sanzione tramite demolizione e ripristino di opere che non sono conformi all'assetto urbanistico o edilizio. Ad avviso del Collegio la mancante realizzazione parziale di alcune opere oggetti della concessione, prescritte particolarmente dal Comune, non integra però la fattispecie giuridica prevista dal legislatore regionale (o statale) laddove prevede la riduzione in pristino di parti realizzate in difformità da titoli edilizi o in variazione essenziale. 9. Risulta in primis evidente che l'oggetto del provvedimento gravato non riguarda un'opera realizzata, frutto di un'attività edificatoria (eventualmente in contrasto con norme edilizie), ma costituisce - al contrario - una condotta omissiva. In secundis si rileva che neanche l'ambito di applicazione della variazione essenziale è aperto, non potendo accertare uno scostamento dallo specifico titolo edilizio. In particolare, è escluso per tabulas che la mancata realizzazione di queste opere di urbanizzazione (volute dal Comune) si possa annoverare negli elementi previsti dal legislatore per tale istituto (ai sensi dell'art. 23 co. 1 della L.R. 32/2002: a) mutamento di destinazione d'uso con variazione del carico urbanistico; b) scostamenti di entità superiore al 10% rispetto alla superficie coperta, al rapporto di copertura, al perimetro, all'altezza dei fabbricati, alla sagoma, alle distanze tra fabbricati e dai confini di proprietà, nonché rispetto alla localizzazione del fabbricato sull'area di pertinenza; c) aumenti di cubatura di entità superiore al 10% rispetto al progetto e comunque superiori a 300 m3; d) aumenti della superficie utile superiori a 100 m2; e) violazioni delle norme tecniche in materia di edilizia antisismica; f) interventi in difformità dal titolo abilitativo eseguiti su immobili ricadenti in aree vincolate). 10. Appare invece fondata la censura dell'Unione appellante laddove deduce la contraddittorietà dell'ordinanza di demolizione, avendo già annullato, nell'atto di decadenza, la parte non realizzata, salvo poi, con un ulteriore provvedimento (e dopo ben undici anni di intervallo temporale), chiesto l'adempimento della rispettiva prescrizione amministrativa. Un'ulteriore contraddizione è pure l'avvenuta (anche se parziale) agibilità rilasciata nel 2007 dal Comune, essendo il diniego di agibilità l'unica conseguenza che può sortire il mancato adempimento del concessionario ad eventuali obblighi di realizzare le opere di urbanizzazione contemporaneamente alla costruzione. 11. In conclusione nel caso oggetto del giudizio è stata adottata un'ordinanza di demolizione non prevista dal legislatore per una condotta di una parziale mancante realizzazione di un'opera accessoria: ma la ratio della norma è da annoverare nella sanzionabilità di lavori concessionati e realizzati in difformità della rispettiva cornice urbanistica ed edilizia ed il ripristino di costruzioni che sono da qualificare contra ius. L'ordinanza di demolizione non può invece essere utilizzata al di fuori dal campo di applicazione tassativamente previsto dal legislatore per questi strumenti repressivi. Appare solo logico che il provvedimento che ingiunge ad un soggetto la demolizione di un'opera realizzata non possa essere utilizzato invece come strumento coercitivo di una nuova opera da realizzare. Nulla di ciò che l'ente locale vorrebbe che l'Unione realizzasse, infatti, risulta essere contrario alle norme urbanistico-edilizie. Il Comune doveva quindi percorrere una diversa strada prevista dall'ordinamento giuridico e chiedere l'esecuzione delle opere con un'altra forma. 12. Così ricostruito il complessivo quadro normativo della vicenda contenziosa, si rivela fondato il primo motivo di appello proposto dall'Unione, secondo cui l'Amministrazione rimane titolare solamente di un potere di intervento laddove ricorrano i presupposti di cui all'art. 13 della legge regionale Emilia-Romagna n. 23/2004 (in combinato disposto con l'art. 23 della l.r. 32/2002), mentre, nella fattispecie, sono carenti entrambi i presupposti prescritti da tale normativa che avrebbe giustificato l'adozione di un provvedimento di demolizione e riduzione in pristino dei luoghi. Dalla fondatezza del motivo discende a cascata l'illegittimità dei motivi aggiunti di primo grado con i quali si impugnavano l'accertamento dell'inottemperanza dell'ordinanza e la conseguente acquisizione gratuita al patrimonio comunale. 13. La fondatezza di tale doglianza, che costituisce la "ragione più liquida" (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015), determina, assorbiti gli ulteriori motivi, la fondatezza dell'appello ed il suo accoglimento e, in riforma della sentenza impugnata, l'accoglimento del ricorso proposto in primo grado e dei motivi aggiunti con conseguente annullamento dei provvedimenti gravati. 14. La decisione sulle spese di lite del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e verranno liquidate nel dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso proposto in primo grado ed i motivi aggiunti ed annulla i provvedimenti ivi gravati. Condanna il Comune di (omissis) alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio a favore dell'Unione appellante che vengono liquidate in 6.000 Euro (seimila/00), oltre accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7054 del 2022, proposto dal Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fa. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Gi. Ma., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Gr. De Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce Sezione terza n. 1114 del 30 giugno 2022 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. Gi. Ma.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il consigliere. Ofelia Fratamico; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue FATTO e DIRITTO 1. Il sig. Gi. Ma., proprietario di un fondo di mq 1.522 sito in (omissis), censito nel catasto terreni al fg. (omissis) p.lla (omissis) e ricompreso all'interno del Comparto (omissis) del Piano particolareggiato di iniziativa pubblica a scopo edificatorio (attuativo del Programma di fabbricazione per la zona omogenea di espansione ad uso residenziale del medesimo Comune approvato con deliberazione di C.C. n. 39/1997), deducendo che il suo terreno fosse stato occupato dal Comune e destinato a strada e parcheggi pubblici, ha agito dinanzi al T.a.r. per la Puglia, Sezione staccata di Lecce per l'accertamento dell'illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dall'ente locale sulla sua istanza/diffida del 21-27 aprile 2021 di adozione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001 dell'area predetta, chiedendo la condanna dell'Amministrazione a provvedere e, per il caso di ulteriore inadempimento, la nomina di un commissario ad acta. Il ricorrente ha, altresì domandato, in alternativa, la restituzione, previa riduzione in pristino, dell'area illegittimamente occupata dal Comune nonché, in ogni caso, la condanna del medesimo ente locale al risarcimento del danno subito, ex artt. 30 e 34 c.p.a., per il mancato godimento del fondo per tutto il periodo (23 anni) in cui si era perpetrata l'illegittima occupazione della stessa (per un ammontare totale di Euro 139.740,77). 2. A sostegno del suo ricorso il sig. Ma. ha dedotto le seguenti censure: violazione del principio di efficienza dell'attività amministrativa, violazione dell'obbligo di provvedere e concludere il procedimento amministrativo, violazione dell'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, dell'art. 2 e ss. della l. n. 241 del 1990, dell'art. 97 della Costituzione, degli artt. 13, 16 commi 9 e 10 e 23 della l. n. 1150 del 1942 e degli artt. 21 e 37 l.reg. Puglia n. 56 del 1980, eccesso di potere. 3. Con la sentenza n. 1114 del 30 giugno 2022 il T.a.r. per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, ha accolto il ricorso in relazione alla domanda di restituzione del terreno, previa rimessione in pristino, fatta salva l'eventuale applicazione dell'art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 e ha condannato il Comune di (omissis) al risarcimento del danno, dettandone i criteri ex art. 34 c.p.a. e ritenendo superata la domanda svolta in rapporto al silenzio-rifiuto. 4. Il Comune di (omissis) ha chiesto al Consiglio di Stato di riformare, previa sospensione dell'esecutività, tale pronuncia, affidando il proprio appello a cinque motivi così rubricati: I - carenza di giurisdizione; II - inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva (con riferimento alla domanda risarcitoria); III - irricevibilità per tardività ; IV - infondatezza della domanda di risarcimento, assenza dei presupposti di legge, erroneità della sentenza nella valutazione dei fatti di causa e della documentazione in atti; V - erroneità della sentenza sotto ulteriore profilo, mancata valutazione dell'epoca di acquisto della qualità di proprietario da parte del ricorrente. 5. Si è costituito in giudizio il sig. Gi. Ma., eccependo l'inammissibilità, l'improcedibilità e, in ogni caso l'infondatezza nel merito dell'appello. 6. Con ordinanza n. 4778 del 3 ottobre 2022 è stata accolta l'istanza di sospensione in via cautelare dell'esecutività della sentenza appellata e, con successiva ordinanza n. 1486 del 13 febbraio 2023, è stata disposta una verificazione sull'"effettiva consistenza dei luoghi sia sotto il profilo dell'assetto proprietario...sia sotto il profilo della loro effettiva destinazione e del loro concreto utilizzo". 7. Con memorie del 9 e del 15 febbraio 2024 e repliche del 28 e 29 febbraio 2024 le parti hanno ulteriormente sviluppato le loro difese, insistendo nelle rispettive conclusioni. 8. Attraverso il deposito di una nota congiunta in data 5 marzo 2024 le medesime parti hanno chiesto che il ricorso fosse deciso sulla base degli scritti difensivi. 9. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 10. Con l'appello proposto il Comune di (omissis) ha dedotto, in primo luogo, di non aver mai avviato, nonostante l'inclusione dei luoghi di causa nel comparto di espansione residenziale (omissis) del Piano particolareggiato approvato nel 1997, alcuna procedura espropriativa su di essi, limitandosi a lasciare la particella n. (omissis), pur destinata a parcheggio, del tutto incolta e nella disponibilità del ricorrente e ad asfaltare e a dotare dell'illuminazione pubblica "lo stradone" già esistente, realizzato in tempi risalenti dai proprietari dei fondi della zona e da sempre liberamente utilizzato dal pubblico. 11. Alla luce di tali circostanze, negando di aver effettuato qualsiasi occupazione o trasformazione del terreno di proprietà del ricorrente per la costruzione di opere pubbliche, il Comune ha lamentato l'erroneità della sentenza del T.a.r. che sarebbe stata pronunciata su di una controversia appartenente, in realtà, alla giurisdizione del giudice ordinario, cioè del "giudice destinato ad occuparsi delle richieste risarcitorie connesse alle condotte materiali della p.a. da cui derivi un danno a diritti soggettivi del privato". 12. L'appellante ha, inoltre, contestato la legittimazione attiva dell'originario ricorrente che, divenuto proprietario della particella n. (omissis) solo nel 2013 (per averla ereditata dalla madre, sig.ra Gi. Bo.), non risultava aver agito iure hereditatis, e la ricevibilità stessa del ricorso di primo grado, proposto oltre la scadenza del termine di cui all'art. 31 comma 2 c.p.a. rispetto all'istanza del 28 dicembre 2015. 13. Secondo il Comune di (omissis) il T.a.r. avrebbe, poi, trascurato di considerare gli elementi caratterizzanti della vicenda in questione, nella quale la strada era, come detto, stata "realizzata ante 1997 dai proprietari dell'area, benché destinata al pubblico transito da oltre un ventennio, con costituzione di uso pubblico" e la restante porzione della particella n. (omissis) in cui era stato previsto il parcheggio appariva "attualmente nella esatta consistenza e stato di fatto (terreno incolto) in cui si trovava nel 1997", essendo stata recintata ad opera del proprietario con dei paletti in ferro. 14. L'appellante ha censurato la pronuncia impugnata anche sotto il profilo della mancanza di un pieno accertamento istruttorio, tanto più necessario di fronte ad una richiesta risarcitoria caratterizzata, a suo dire, "da estrema genericità e astrattezza" e dal punto di vista dei criteri di quantificazione della voce di risarcimento per l'occupazione illegittima del bene, che non avrebbe potuto essere riconosciuta in favore dell'appellato anteriormente al 29 ottobre 2013, data dell'acquisto da parte sua dell'immobile per successione ereditaria. 15. Deve essere, in primo luogo, disattesa l'eccezione di difetto di giurisdizione formulata dal Comune, poiché le opere che hanno portato all'allargamento e alla pavimentazione della strada su parte del fondo del ricorrente risultano essere state eseguite in attuazione del piano particolareggiato approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 39/1997, implicante dichiarazione di pubblica utilità delle relative opere. 16. Da qui la riconducibilità dell'occupazione determinatasi all'esercizio del potere di pianificazione e di gestione del territorio da parte dell'Amministrazione e il conseguente assoggettamento della controversia sulla restituzione del fondo e sul risarcimento del danno alla giurisdizione del giudice amministrativo. Come evidenziato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione "in tema di espropriazione per pubblica utilità, sono devolute alla giurisdizione amministrativa le domande risarcitorie riferite alle attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti a una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché il procedimento nel cui ambito esse sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo o sia caratterizzato da illegittimità degli atti, mentre sono devolute alla giurisdizione ordinaria le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità di occupazione legittima dovute in conseguenza di atti ablativi, senza che rilevi la proposizione congiunta delle stesse, applicandosi il principio generale di inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione" (Cass. civ. S.U., 1° marzo 2023, n. 6099). 17. Parimenti non meritevoli di accoglimento sono l'eccezione di difetto di legittimazione attiva dell'originario ricorrente, attuale proprietario della particella n. (omissis) ed erede della madre, sig.ra Gi. Bo. (originaria proprietaria di una più vasta superficie di terreno successivamente frazionata) e, come tale, soggetto pienamente legittimato ad agire sia per la restituzione del terreno sia per il risarcimento dell'intero danno derivante dalla sua occupazione senza titolo, e l'eccezione di tardività del ricorso avverso il silenzio-inadempimento, dovendo il termine annuale, come già ritenuto dal T.a.r., essere computato a partire dall'istanza-diffida del 27 luglio 2021 in applicazione, tra l'altro, del comma 2 dell'art. 31 c.p.a. che fa salva la riproposizione dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. 18. Quanto al merito, sulla base delle risultanze della verificazione espletata nel corso del presente grado di giudizio, pienamente condivisibili in quanto frutto di un puntuale accertamento della situazione dei luoghi di causa nonché di un'attenta ricostruzione dell'intera vicenda che li ha interessati, l'appello del Comune deve essere parzialmente accolto, per le motivazioni di seguito illustrate. 19. Il verificatore, all'esito dell'esame condotto attraverso i documenti in atti, i sopralluoghi espletati e l'analisi di tutti i dati raccolti è giunto a concludere che: a) "dell'intera particella catastalmente estesa 1522 mq circa il 40% è ad oggi occupato dalla viabilità comunale comprensiva di marciapiedi (almeno in corrispondenza dei fabbricati privati)"; b) "la restante parte della particella (omissis) si presenta come parco incolto", circondato da alcuni paletti in ferro posti a 10 m di distanza dalle recinzioni in muratura e a circa 2 m dal manto bituminoso; c) dalle immagini satellitari del portale SIT della Regione Puglia e dalle immagini prospettiche di via (omissis) risalenti al febbraio 2009 "è possibile desumere che l'allargamento e la pavimentazione del prolungamento di via (omissis) (sita sulla particella oggetto di contenzioso n. (omissis) del foglio (omissis)) risalgono al periodo compreso fra l'anno 2006 ed il mese di febbraio 2009"; d) il Piano Particolareggiato del Comune di (omissis), nella parte in cui, per una porzione della particella (omissis), prevedeva anche la realizzazione di un'area di sosta caratterizzata da n. 19 stalli a spina, con relativa area di manovra, non ha trovato alcuna attuazione, non essendo tale porzione del terreno stata in alcun modo trasformata dal Comune. 20. Dai suddetti elementi e dagli accertamenti svolti ha trovato, dunque, conferma, in primo luogo, l'assunto dell'appellante per cui l'area a parcheggio "non era mai stata acquisita o occupata dal Comune, risultando ancora di proprietà del sig. Ma., incolta ed esattamente nel medesimo stato e consistenza in cui si trovava anteriormente all'approvazione del PP e del frazionamento". 21. Attraverso la medesima verificazione è stata, invece, smentita la tesi del Comune relativa al fatto che "lo stradone" di accesso fosse sempre rimasto nella sua originaria consistenza quanto a dimensioni ed estensione, e che, in seguito al piano attuativo, esso fosse stato semplicemente dotato di asfaltatura ed illuminazione ad opera dell'Amministrazione ai fini di semplice manutenzione della viabilità già realizzata autonomamente dai proprietari dei fondi circostanti e del tracciato preesistente. 22. Dalla ricostruzione del verificatore è, infatti, emerso come i luoghi di causa siano stati assoggettati, in conseguenza dell'approvazione della delibera C.C. n. 39/1997, a numerosi e rilevanti lavori, come la sistemazione del sistema fognario, il completamento dell'impianto idrico e il totale rifacimento, con ampliamento, della pavimentazione viaria con concreta e definitiva occupazione della porzione della part. (omissis) corrispondente alla strada da parte del Comune per la realizzazione dell'opera pubblica de qua. 23. Sotto il profilo temporale la dimostrazione dei suddetti fatti può dirsi raggiunta, sempre in base alle risultanze dell'istruttoria espletata ed alla documentazione in atti, almeno a partire dal 2006, cosicché il risarcimento per occupazione senza titolo risulta dovuto - secondo i criteri già fissati dal T.a.r. - dal Comune al ricorrente solo a partire da tale anno, fino alla restituzione del fondo o alla sua acquisizione, senza che possano influire sul punto né le contestazioni relative alla titolarità dell'area da parte del sig. Ma. soltanto da un momento successivo - avendo egli acquistato il terreno iure hereditatis, (subentrando quindi in tutte le situazioni soggettive ed i diritti precedentemente spettanti alla sua de cuius in ragione dei beni di sua proprietà, senza soluzione di continuità ), né quelle relative alle pretese servitù esistenti sul fondo, svolte per la prima volta nel presente grado di appello e dunque inammissibili, così come le nuove produzioni documentali effettuate dal Comune in violazione del divieto di cui all'art. 104 c.p.a. 24. In conclusione, per effetto delle argomentazioni che precedono, in parziale accoglimento dell'appello, la sentenza del T.a.r. deve essere riformata nel senso della limitazione della condanna del Comune ad assumere una determinazione, nel già fissato termine di 60 giorni dalla comunicazione della presente pronuncia, circa la restituzione o l'acquisizione sanante ex art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001, in presenza di tutti i presupposti di legge, soltanto alla porzione della particella n. (omissis) effettivamente occupata dalla strada e del rigetto del ricorso per la parte riguardante il preteso parcheggio, in realtà rimasta nella disponibilità del ricorrente e in alcun modo occupata né trasformata dall'Amministrazione, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno da occupazione senza titolo dovuto anch'esso, ovviamente, solo in rapporto all'area interessata dalla realizzazione della strada e non per il "parco incolto", dal 2006 all'effettiva restituzione del fondo o all'adozione del provvedimento di acquisizione. 25. Per la particolarità della controversia, nonché in ragione del suo esito complessivo sussistono, in ogni caso, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado. 26. Le spese di verificazione, liquidate come in dispositivo, sulla base del preciso calcolo depositato dal verificatore prof. ing. Be. Ni. in data 15 dicembre 2023, della devono essere, infine, poste a carico di entrambe le parti, in solido tra loro. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, assegnando al Comune di (omissis) il termine di 60 giorni dalla comunicazione della presente sentenza per l'assunzione della determinazione avente ad oggetto la restituzione della porzione della particella n. (omissis) concretamente occupata dalla strada, previa riduzione in pristino, o, in alternativa, l'adozione dell'acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno dovuto in relazione all'occupazione della suddetta parte del fondo. Compensa le spese di entrambi i gradi di giudizio. Liquida le spese di verificazione nell'importo di Euro 2.423,10, oltre accessori di legge, in favore del verificatore prof. ing. Be. Ni.. Pone le suddette spese in via definitiva a carico di entrambe le parti, in solido tra loro. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Gerardo Mastrandrea - Presidente Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 agosto 2023, depositato in cancelleria il 29 agosto 2023, iscritto al n. 26 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia; udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Anna Bucci per la Regione Puglia; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso iscritto al reg. ric. n. 26 del 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse». La disposizione regionale impugnata prevede, sotto la rubrica «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo», che «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia[. Testo A]), sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica a condizione che entro e non oltre trenta giorni dal termine del relativo utilizzo sia garantito il ripristino dello stato dei luoghi». Il richiamato art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia individua tra gli interventi di «[a]ttività edilizia libera» (eseguibili cioè, ai sensi del comma 1, «senza alcun titolo abilitativo») «le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale». Ad avviso del ricorrente, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 – «[i]n disparte» la sua «eccentrica formulazione», secondo cui l’autorizzazione di un’attivita` sarebbe condizionata da una condotta posteriore all’attività medesima, quale il ripristino dei luoghi – violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, per invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». Sotto un primo profilo, esso introdurrebbe un’illegittima deroga alle previsioni dell’art. 146, commi 1 e 2, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), in tema di autorizzazione paesaggistica, alla cui stregua «[i] proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142 [cod. beni culturali], o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157» dello stesso codice (comma 1), «hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione» (comma 2). Quest’obbligo – osserva il ricorrente – e` implicitamente richiamato dallo stesso art. 6, comma 1, t.u. edilizia, là dove tale disposizione, che come si è detto individua gli interventi eseguibili «senza alcun titolo abilitativo», fa tuttavia salvo il «rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia», comprese le «disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42». <p>Sotto un secondo profilo, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 si applicherebbe a tutti i parcheggi di uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, a prescindere dal numero di posti auto, escludendo in ogni caso che essi siano soggetti a procedure di valutazione ambientale e ponendosi, così, in contrasto con l’Allegato IV alla Parte seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), che al punto 7 (Progetti di infrastrutture), lettera b), prevede che i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» siano sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, senza distinguere tra temporaneità o meno dell’uso. 2.– La Regione Puglia si è costituita in giudizio con atto depositato il 30 settembre 2023, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per la non fondatezza nel merito della questione. 2.1.– In primo luogo, la disposizione impugnata non avrebbe una formulazione «eccentrica», come deduce il ricorrente, in quanto anche il richiamato art. 6, comma 1, t.u. edilizia farebbe «applicazione dello stesso meccanismo per cui le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono considerate ex se e per legge “abilitate” [...], se “destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessita` e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto”». D’altra parte, il legislatore statale farebbe non infrequente ricorso a simili previsioni nel disciplinare interventi di natura temporanea e provvisoria, diretti ad affrontare situazioni di emergenza (è citato l’art. 8-bis del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, recante «Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016», convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2016, n. 229). Non diversamente, il legislatore regionale avrebbe inteso affrontare e risolvere una situazione «emergenziale» connessa alle «esigenze dei comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». Tali esigenze sarebbero desumibili dal «referto tecnico del 27/6/2023 [...] allegato agli atti del procedimento consiliare che ha portato all’approvazione dell’art. 4 della LR n.19/2023», secondo cui «i sindaci delle principali localita` turistiche hanno [...] evidenziato la ricorrenza di una situazione di assoluta urgenza correlata alla insufficienza dei parcheggi che determinerebbe conseguenze non solo sul comparto turistico, ma anche in termini di congestionamenti di traffico difficilmente gestibili anche in termini di sicurezza [della] circolazione e sicurezza urbana». 2.2.– Quanto alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per contrasto con l’art. 146 cod. beni culturali, la Regione osserva che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia, là dove fa salva l’applicazione delle norme contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio e al contempo consente, alla lettera e-bis), l’esecuzione senza alcun titolo abilitativo di «opere stagionali e [di] quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni», dovrebbe essere interpretato nel senso in cui possa avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno. Seguendo le ragioni esposte dal ricorrente, invece, la disposizione sarebbe privata di effettiva utilita` e di qualsiasi conseguenza pratica, non potendo essere applicata nelle aree vincolate paesaggisticamente. In riferimento a queste ultime, infatti, gli interventi sopra indicati non potrebbero essere concretamente realizzati, «atteso che i tempi di rilascio del nullaosta paesistico esaurirebbero la durata stessa delle opere stagionali e temporanee, traducendosi in un antieconomico ed illogico aggravamento procedimentale», tanto piu` evidente nel caso, disciplinato dal legislatore regionale, dei «soli parcheggi “estivi” per non piu` di centoventi giorni e fino al 31 dicembre 2023». Una tale conseguenza sarebbe irragionevole, sproporzionata e comunque contraria allo scopo perseguito del legislatore, che, se avesse voluto un simile effetto, si sarebbe limitato a prevedere l’esplicita esclusione delle aree vincolate dall’ambito applicativo della norma di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. Il richiamo alle disposizioni del cod. beni culturali non si dovrebbe quindi intendere riferito agli interventi di cui alla citata lettera e-bis) o, comunque, andrebbe «limitato a quei casi di beni vincolati paesaggisticamente, che non possono essere oggetto ex se ed intrinsecamente di opere stagionali o temporanee o contingibili, vuoi per le loro caratteristiche fenomeniche, fattuali e naturalistiche, vuoi perché ad es. oggetto di vincoli di inedificabilita` assoluta». Inoltre, la legittimita` costituzionale della disposizione regionale impugnata andrebbe scrutinata anche alla luce di un’interpretazione sistematica e non parziale della normativa statale «di principio». L’incipit dell’art. 6, comma 1, t.u. edilizia si dovrebbe leggere, infatti, «in coordinato disposto» con l’art. 2 del d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), alla cui stregua «[n]on sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all’Allegato “A”». Tale Allegato ricomprende, al punto A.16, gli interventi di «occupazione temporanea di suolo privato, pubblico o di uso pubblico mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare»: interventi a cui sarebbero riconducibili, secondo la Regione, le occupazioni mediante parcheggi per un periodo non superiore a centoventi giorni. In questo senso deporrebbero anche le previsioni dell’Allegato B allo stesso d.P.R. n. 31 del 2017, che annovera tra gli interventi di lieve entita`, soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato, quelli puntuali di adeguamento della viabilita` esistente, quali, tra gli altri, la «realizzazione di parcheggi a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo» (punto B.11) e l’«occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a 120 e non superiore a 180 giorni nell’anno solare» (punto B.25). Se, dunque, rientrano tra le opere di lieve entita`, soggette ad autorizzazione semplificata, sia i parcheggi «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», cioè i parcheggi stabili e permanenti con opere fisse di trasformazione dello stato dei luoghi, sia le opere di occupazione temporanea dei suoli, pubblici o privati, per un periodo compreso fra centoventuno e centottanta giorni, allora i parcheggi temporanei di durata fino a centoventi giorni dovrebbero giocoforza rientrare tra le opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica gia` in base alla normativa statale, rispetto alla quale la disposizione regionale impugnata sarebbe «del tutto coerente ed allineata, e semplicemente attuativa». 2.3.– Quanto al contrasto con il codice dell’ambiente, la questione sarebbe preliminarmente inammissibile per genericità, in difetto di specifica indicazione delle norme interposte di cui si assume la violazione, non essendo sufficiente un generico e complessivo richiamo a tale codice, che prevede una molteplicita` di procedure valutative. Nel merito, la Regione osserva, innanzi tutto, che l’evocato art. 6, comma 1, t.u. edilizia non richiama specificamente il codice dell’ambiente. Comunque, anche i tempi per lo svolgimento di una qualunque procedura valutativa contemplata da tale codice, che prevede la fase della consultazione dei soggetti competenti in materia ambientale e il coinvolgimento del pubblico, sarebbero incompatibili con la durata delle opere stagionali e temporanee prevista sia dalla legge statale che da quella regionale, «oltre a rappresentare intuitivamente un consistente ed antieconomico aggravamento procedimentale, in contrasto – ancora una volta – con i principi di proporzionalita` e ragionevolezza». Si dovrebbe inoltre considerare che, in forza dell’Allegato IV alla Parte seconda, il codice dell’ambiente esonera dalla valutazione di impatto ambientale i parcheggi fino a cinquecento posti, anche se stabili. In conclusione, secondo la resistente, la questione sarebbe stata promossa sulla base di un’erronea lettura della disposizione impugnata e dei parametri interposti, che non avrebbero il significato loro attribuito dal ricorrente. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023, che, sotto la rubrica «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo», prevede quanto segue: «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia[. Testo A]), sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica a condizione che entro e non oltre trenta giorni dal termine del relativo utilizzo sia garantito il ripristino dello stato dei luoghi». Ad avviso del ricorrente, la disposizione impugnata violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». La questione è promossa sotto due profili. In primo luogo, il legislatore regionale avrebbe introdotto un’illegittima deroga alle disposizioni relative all’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 cod. beni culturali, il cui rispetto è implicitamente previsto dall’art. 6, comma 1, t.u. edilizia nel disciplinare gli interventi realizzabili senza titolo abilitativo. In secondo luogo, la disposizione regionale impugnata si applicherebbe a tutti i parcheggi di uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, a prescindere dal numero di posti auto, escludendo in ogni caso che essi siano soggetti a procedure di valutazione ambientale e ponendosi così in contrasto con l’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, che al punto 7 (Progetti di infrastrutture), lettera b), prevede che i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» siano sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, senza distinguere tra temporaneità o meno dell’uso. 2.– La Regione Puglia ha eccepito l’inammissibilità della questione per genericità, limitatamente al secondo profilo di censura, in difetto di specifica indicazione delle norme interposte di cui si assume la violazione, non essendo sufficiente un generico e complessivo richiamo al cod. ambiente. L’eccezione non è fondata. Secondo il costante orientamento di questa Corte, nei giudizi in via principale il ricorrente ha l’onere di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali dei quali lamenta la violazione e di presentare una motivazione non meramente assertiva, che indichi le ragioni del contrasto con i parametri evocati, attraverso una sia pur sintetica argomentazione di merito a sostegno delle censure (tra le molte, sentenze n. 57 del 2023, n. 135 e n. 119 del 2022). Tale onere si estende anche all’individuazione delle specifiche disposizioni statali interposte che si assumono violate (tra le molte, sentenze n. 58 del 2023 e n. 279 del 2020). Sotto quest’ultimo aspetto, il ricorrente non si è limitato a evocare genericamente l’intero codice dell’ambiente, come deduce la Regione, ma ha indicato la specifica disposizione contenuta nel punto 7, lettera b), dell’Allegato IV alla Parte seconda di tale codice, là dove si prevede la sottoposizione alla verifica di assoggettabilità dei progetti relativi a una ben determinata tipologia di opere («parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto»). L’onere motivazionale è stato dunque assolto. 3.– Quanto all’esatta individuazione del thema decidendum, il primo profilo di censura, incentrato sul contrasto tra la disposizione impugnata e la disciplina dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 cod. beni culturali, ha per oggetto la previsione che esclude le procedure di valutazione «paesaggistica», mentre il secondo profilo, incentrato sul contrasto con le disposizioni del codice dell’ambiente relative alla verifica di assoggettabilità, riguarda la menzionata previsione che esclude le procedure di valutazione «ambientale». Va inoltre chiarito che non integra un motivo di censura l’osservazione del ricorrente secondo cui l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 sarebbe di «eccentrica formulazione», subordinando l’autorizzazione di un’attivita` (la realizzazione di parcheggi a uso pubblico e temporaneo per non più di centoventi giorni) alla condizione che si verifichi un fatto posteriore all’attività stessa (il ripristino dei luoghi al termine dell’utilizzo). Si tratta di una considerazione espressamente svolta «in disparte», che risulta priva di nessi con la censura di violazione della competenza legislativa dello Stato in materia di tutela ambientale e che non apporta alcun argomento a suo sostegno. Di conseguenza, le difese svolte sul punto dalla Regione – che richiama analoghi meccanismi adottati dallo stesso art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia e dalla normativa statale che disciplina interventi di natura temporanea e provvisoria, diretti ad affrontare situazioni di emergenza – non sono conferenti. 4.– Prima di esaminare il merito, va ricostruita la genesi e individuata la ratio della disposizione impugnata. La legge regionale di cui si discute deriva dall’approvazione del progetto di legge n. 805 del 2023. In origine, tale progetto era composto di due soli articoli, recanti il riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’art. 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42). Durante l’iter legislativo, al testo iniziale sono stati aggiunti due articoli relativi a materie eterogenee, che nel titolo finale della legge regionale in esame (oltre che nel suo Capo II) sono indicati quali «[d]isposizioni diverse»: l’una dedicata a un contributo finanziario per l’individuazione di figure professionali nei Comuni di Martina Franca e di Molfetta (art. 3), l’altra ai «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo» (art. 4, qui impugnato). L’art. 4 è il frutto di un emendamento approvato dal Consiglio regionale nella seduta del 27 giugno 2023, recante la seguente motivazione: «[l]’emendamento è finalizzato a definire, sino al 31 dicembre 2023, le procedure per l’individuazione di aree di parcheggio ad uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni ricomprese nel novero delle attività di edilizia libera di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. I sindaci delle principali localita` turistiche hanno, infatti, evidenziato la ricorrenza di una situazione di assoluta urgenza correlata alla insufficienza dei parcheggi che determinerebbe conseguenze non solo sul comparto turistico, ma anche in termini di congestionamenti di traffico difficilmente gestibili anche in termini di sicurezza della circolazione e sicurezza urbana. Attesa la temporaneità della misura, è posta la condizione del ripristino dello stato dei luoghi successivo alla cessazione delle esigenze temporanee e contingenti che ne hanno determinato la realizzazione, entro e non oltre i successivi trenta giorni». La Regione sostiene che la disposizione impugnata avrebbe inteso affrontare e risolvere una situazione «emergenziale» connessa alle «esigenze dei comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». Un simile scopo non è enunciato espressamente dalla disposizione medesima, che non limita la sua efficacia ai «comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». È comunque indubitabile che l’utilizzo dei parcheggi debba essere di tipo stagionale o precario, com’è desumibile non solo dalla durata massima di centoventi giorni e dall’obbligo di successivo ripristino dei luoghi, ma anche dalla previsione secondo cui le «aree a parcheggio» (più correttamente, i parcheggi realizzati su di esse) devono essere «comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis)» t.u. edilizia, ossia tra le «opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità». Per favorire queste finalità, il legislatore regionale ha previsto che «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo [...] sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica». 5.– Nel merito, la questione è fondata sotto entrambi i profili sopra indicati. 5.1.– Come si è detto, il ricorrente lamenta, in primo luogo, che l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 avrebbe introdotto una deroga alle disposizioni relative all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 cod. beni culturali. La disposizione impugnata ha previsto, per le aree in oggetto, l’esclusione sino al 31 dicembre 2023 «dalle procedure di valutazione [...] paesaggistica». Tale locuzione comprende il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione di cui al citato art. 146, che è preordinato alla verifica della compatibilità dell’intervento progettato con l’interesse paesaggistico tutelato (comma 3), nonché alla verifica della sua conformità alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico o alla specifica disciplina di cui all’art. 140, comma 2, cod. beni culturali (comma 8). L’esclusione «dalle procedure di valutazione [...] paesaggistica» equivale, dunque, a un’esenzione dal procedimento autorizzatorio, in deroga alla norma statale interposta indicata dal ricorrente. L’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 prevede che le «aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo» devono essere comprese tra le attività di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. L’alinea di tale comma prevede, a sua volta, che gli interventi di edilizia libera (elencati nelle successive lettere dello stesso comma 1) siano sì eseguiti «senza alcun titolo abilitativo», ma «[f]atte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonch[é] delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42». Pertanto, è la medesima disposizione regionale impugnata a richiedere che, per beneficiare dell’esclusione dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica, la realizzazione dei parcheggi a uso temporaneo sia qualificabile come attività edilizia libera, ciò che in ogni caso comporta – in forza della clausola di salvezza di cui al citato art. 6, comma 1, t.u. edilizia – il rispetto delle disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano l’autorizzazione paesaggistica. Al riguardo, la Regione oppone due tesi difensive, entrambe volte a dimostrare che l’impugnato art. 4 disciplinerebbe attività in ogni caso non soggette ai procedimenti di autorizzazione paesaggistica. Il loro separato esame ne rivela la non fondatezza. 5.1.1.– In primo luogo, la Regione osserva che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia dovrebbe essere interpretato in modo che possa avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno. Seguendo le ragioni esposte dal ricorrente, invece, la previsione che consente l’esecuzione senza alcun titolo abilitativo degli interventi di cui alla lettera e-bis) dello stesso art. 6, comma 1, mancherebbe di effettiva utilita`, non potendo essere applicata nelle aree vincolate paesaggisticamente. In riferimento ad esse, infatti, gli interventi sopra indicati non potrebbero essere concretamente realizzati, «atteso che i tempi di rilascio del nullaosta paesistico esaurirebbero la durata stessa delle opere stagionali e temporanee, traducendosi in un antieconomico ed illogico aggravamento procedimentale», tanto piu` evidente nel caso, disciplinato dal legislatore regionale, dei «soli parcheggi “estivi” per non piu` di centoventi giorni e fino al 31 dicembre 2023». Questa tesi non è condivisibile. Nulla consente la prospettata interpretazione dell’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. Il dato letterale dell’alinea del comma 1 depone inequivocamente nel senso della necessità che tutte le opere di edilizia libera elencate nello stesso comma siano conformi, senza distinzioni, alle prescrizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, non comportando la riconduzione a siffatta categoria di opere, di per sé, alcuna sottrazione alle valutazioni paesaggistiche (in tal senso, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 7 febbraio 2024, n. 1237 e 9 giugno 2023, n. 5690). Neppure la stagionalità o la precarietà delle opere indicate nella lettera e-bis) giustifica tale sottrazione, in quanto ciò equivarrebbe, nel caso di aree vincolate, ad una irragionevole limitazione temporale della tutela paesaggistica. Né si può ritenere che, così interpretata, la norma non produca effetti utili in relazione alle opere stagionali o precarie rientranti nella nozione di attività edilizia libera. Manca ogni evidenza dell’assoluta e oggettiva impossibilità della loro esecuzione in attesa dei tempi necessari per la definizione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica, considerando anche che i singoli interventi di cui alla lettera e-bis) ben possono rientrare, per le loro concrete caratteristiche, nella sfera di applicazione del procedimento autorizzatorio semplificato, che si connota per la riduzione dei tempi di definizione e per il ricorso a meccanismi di formazione del silenzio-assenso (come precisato, di seguito, al punto 5.1.2.). 5.1.2.– La Regione sostiene, inoltre, che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia si dovrebbe interpretare «in coordinato disposto» con l’art. 2 del d.P.R. n. 31 del 2017, secondo il quale «[n]on sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all’Allegato “A”». Tale Allegato ricomprende, al punto A.16, gli interventi di «occupazione temporanea di suolo privato, pubblico o di uso pubblico mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare»: interventi cui sarebbero riconducibili, secondo la Regione, le occupazioni di suolo mediante la realizzazione di parcheggi di uso pubblico per un periodo non superiore a centoventi giorni. Andrebbero considerate, ad avviso della difesa regionale, anche le previsioni dell’Allegato B allo stesso d.P.R. n. 31 del 2017, che annovera tra gli «interventi di lieve entita`», soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato: – al punto B.11, gli «interventi puntuali di adeguamento della viabilita` esistente», compresa la «realizzazione di parcheggi a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo» (cioè, secondo la Regione, parcheggi stabili e permanenti con opere fisse di trasformazione dello stato dei luoghi); – al punto B.25, l’«occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a 120 e non superiore a 180 giorni nell’anno solare». Se dunque – conclude la Regione – sono opere di lieve entita`, soggette ad autorizzazione semplificata, sia i parcheggi «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», sia le occupazioni dei suoli per un periodo compreso fra centoventuno e centottanta giorni, allora i parcheggi di durata fino a centoventi giorni dovrebbero a maggior ragione rientrare tra le opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica gia` in base alla normativa statale, rispetto alla quale la disposizione regionale impugnata sarebbe «del tutto coerente ed allineata, e semplicemente attuativa». Anche questa tesi non è condivisibile. Le «aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo» previste dalla disposizione regionale impugnata non sono infatti riconducibili, in quanto tali, agli interventi e alle opere esclusi dall’autorizzazione paesaggistica di cui al punto A.16 del citato Allegato A, poiché l’occupazione temporanea di suolo ivi prevista deve essere realizzata per lo svolgimento di «manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci», mentre le aree di parcheggio di cui si discute non sono destinate a tali specifiche finalità. Inoltre, non è escluso che i parcheggi in questione rientrino nella categoria delle opere soggette ad autorizzazione semplificata di cui al punto B.11 dell’Allegato B, poiché anch’essi possono consistere in «interventi puntuali di adeguamento della viabilità esistente», per fare fronte a esigenze temporanee di congestione del traffico, ed essere realizzati «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», per garantirne un minor impatto sul territorio, senza per questo impedire il ripristino dei luoghi al termine dell’utilizzo. 5.1.3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, «la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato» (tra le molte, sentenze n. 160 del 2021, n. 178 e n. 172 del 2018 e n. 103 del 2017). Con specifico riferimento al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, questa Corte ha altresì costantemente affermato che la legislazione regionale non può prevedere una procedura diversa da quella dettata dalla legge statale, perché alle regioni non è consentito introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, fra i quali rientra l’autorizzazione paesaggistica (sentenze n. 160 e n. 74 del 2021, n. 189 del 2016, n. 238 del 2013, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010 e n. 232 del 2008). La competenza legislativa esclusiva statale risponde, infatti, a ineludibili esigenze di tutela e sarebbe vanificata dall’intervento di una normativa regionale che sancisse in via indiscriminata l’irrilevanza paesaggistica di determinate opere, così sostituendosi all’apprezzamento che compete alla legislazione statale (sentenze n. 74 del 2021 e n. 246 del 2017). Spetta dunque alla legislazione statale determinare presupposti e caratteristiche dell’autorizzazione paesaggistica, delle eventuali esenzioni e delle semplificazioni della procedura, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente (ancora sentenze n. 74 del 2021 e n. 246 del 2017). Il legislatore regionale, infatti, non può introdurre disposizioni che esentano talune opere dall’autorizzazione paesaggistica, perché si sostituirebbe in tal modo all’apprezzamento che compete solo al legislatore statale, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente. Non rileva, infine, che l’esenzione sia limitata nel tempo (sino al 31 dicembre 2023, come si è visto), in quanto spetterebbe comunque allo Stato stabilirne, oltre ai presupposti, anche la durata, per la sua incidenza su un istituto di protezione ambientale uniforme. Alla luce di questi principi, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 integra, sotto il profilo qui esaminato, la violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 5.2.– Con il secondo profilo di censura, il ricorrente lamenta che l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale, contrastando con il punto 7, lettera b), dell’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, secondo cui i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» sono sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. La verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (VIA), nota anche come screening, consiste nella «verifica attivata allo scopo di valutare, ove previsto, se un progetto determina potenziali impatti ambientali significativi e negativi e deve essere quindi sottoposto al procedimento di VIA secondo le disposizioni di cui al Titolo III della parte seconda» del codice dell’ambiente (in particolare, dell’art. 5, comma 1, lettera m). Essa viene effettuata (come la VIA) ai diversi livelli istituzionali, tenendo conto dell’esigenza di razionalizzare i procedimenti ed evitare duplicazioni nelle valutazioni (art. 7-bis, comma 1, cod. ambiente). Per individuare tali diversi livelli istituzionali, il legislatore ha rinviato ad alcuni allegati alla Parte seconda del codice dell’ambiente, prevedendo che «[s]ono sottoposti a verifica di assoggettabilità a VIA in sede statale i progetti di cui all’allegato II-bis» e che «[s]ono sottoposti a verifica di assoggettabilità a VIA in sede regionale i progetti di cui all’allegato IV» (art. 7-bis, commi 2 e 3, cod. ambiente). L’Allegato IV, recante «Progetti sottoposti alla Verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano», contempla al punto 7 una serie di «[p]rogetti di infrastrutture», tra i quali, alla lettera b), i seguenti: «progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari; progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari; costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”; parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto». Questo assetto normativo è il risultato della riforma del codice dell’ambiente di cui al decreto legislativo 16 giugno 2017, n. 104 (Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 9 luglio 2015, n. 114) e delle successive modifiche apportate dal cosiddetto “decreto semplificazioni” (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120). 5.2.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «[l]a disciplina recata dal cod. ambiente e [...] il suo art. 7-bis sono [...] stati adottati dallo Stato sulla base del titolo di competenza esclusiva nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sentenza n. 93 del 2019). In particolare, «l’obbligo di sottoporre il progetto alla procedura di VIA o, nei casi previsti, alla preliminare verifica di assoggettabilità a VIA, rientra nella materia della “tutela ambientale”» (sentenze n. 232 del 2017 e n. 215 del 2015; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 234 e n. 225 del 2009) e rappresenta «nella disciplina statale, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di protezione uniforme che si impone sull’intero territorio nazionale, pur nella concorrenza di altre materie di competenza regionale (tra le altre, sentenze n. 120 del 2010, n. 249 del 2009 e n. 62 del 2008)» (sentenza n. 232 del 2017). Di conseguenza, «[l]a disciplina dei procedimenti di verifica ambientale è [...] riservata in via esclusiva alla legislazione statale (sentenza n. 178 del 2019; da ultimo, sentenza n. 258 del 2020), che rintraccia il punto di equilibrio tra l’esigenza di semplificazione e di accelerazione del procedimento amministrativo, da un lato, e la “speciale” tutela che deve essere riservata al bene ambiente, dall’altro (sentenze n. 106 del 2020 e n. 246 del 2018)» (sentenza n. 53 del 2021). Con specifico riguardo alle procedure di valutazione ambientale riservate dal codice dell’ambiente alla competenza legislativa regionale (nella specie, alla procedura di VIA, ma con considerazioni estensibili a quella di verifica di assoggettabilità a VIA), questa Corte ha affermato, inoltre, che «la “puntuale disciplina del procedimento dettata dal legislatore statale, la dettagliata definizione delle fasi e dei termini che conducono al rilascio del provvedimento autorizzatorio unico regionale concorrono a creare una cornice di riferimento che, sintetizzando i diversi interessi coinvolti, ne individua un punto di equilibrio, che corrisponde anche a uno standard di tutela dell’ambiente” (sentenza n. 106 del 2020), in quanto tale non derogabile da parte delle legislazioni regionali» (ancora sentenza n. 53 del 2021). Nello scrutinare la legittimità costituzionale di una disposizione regionale che consentiva di escludere dalla verifica di assoggettabilità a VIA regionale i progetti di impianti eolici con potenza complessiva nominale superiore a 1 MW e di impianti per conversione fotovoltaica (compresi nel citato Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, punto 2, rispettivamente lettere d e b), questa Corte ha poi affermato che «[n]on spetta [...] alle Regioni decidere quali siano le condizioni che determinano l’esclusione dalle verifiche d’impatto ambientale», in quanto, «sebbene la competenza esclusiva statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. non escluda aprioristicamente interventi regionali, anche legislativi, “è tuttavia necessario che ciò avvenga in termini di piena compatibilità con l’assetto normativo individuato dalla legge statale, non potendo tali interventi alterarne il punto di equilibrio conseguito ai fini di tutela ambientale” (sentenza n. 178 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 147 del 2019)» (sentenza n. 258 del 2020). A quest’ultimo riguardo, si è precisato che il codice dell’ambiente, all’art. 7-bis, comma 8, riconosce sì uno spazio di intervento alle regioni e province autonome, ma «ne definisc[e] tuttavia il perimetro d’azione in ambiti specifici e puntualmente precisati», in quanto «[g]li enti regionali [...] possono disciplinare, “con proprie leggi o regolamenti l’organizzazione e le modalità di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di VIA”, stabilendo “regole particolari ed ulteriori” solo e soltanto “per la semplificazione dei procedimenti, per le modalità della consultazione del pubblico e di tutti i soggetti pubblici potenzialmente interessati, per il coordinamento dei provvedimenti e delle autorizzazioni di competenza regionale e locale, nonché per la destinazione […] dei proventi derivanti dall’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie” (sentenza n. 198 del 2018)», con la conseguenza che, «[f]uori da questi ambiti, [è] dunque preclusa alle Regioni, quale che sia la competenza che [...] adducano, la possibilità di incidere sul dettato normativo che attiene ai procedimenti di verifica ambientale così come definito dal legislatore nazionale» (sentenza n. 178 del 2019). 5.2.2.– La disposizione impugnata ha previsto per le aree in oggetto l’esclusione anche «dalle procedure di valutazione ambientale», locuzione che comprende il procedimento di verificazione di assoggettabilità a VIA di cui ai citati artt. 7-bis e 19 cod. ambiente. In particolare, vi è compresa la verifica di assoggettabilità a VIA di competenza delle regioni e delle province autonome prevista dall’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente (richiamato al comma 3 dell’art. 7-bis), cui sono assoggettati, tra gli altri, i progetti relativi ai «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» (punto 7, lettera b). Da un lato, la disciplina statale non distingue tra temporaneità o meno dell’uso (pubblico), ma solo tra le «capacità» dei parcheggi, obbligando alla verifica di assoggettabilità a VIA i progetti che prevedono più di 500 posti auto. D’altro lato, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 non contiene alcun limite al numero dei posti auto, né la suddetta «capacità» è incompatibile con la natura stagionale o precaria dei parcheggi, che potrebbero raggiungere simili dimensioni anche per esigenze temporanee. La Regione si difende osservando, innanzi tutto, che l’incipit dell’art. 6, comma 1, t.u. edilizia «non richiama specificamente il Codice dell’Ambiente». Tale affermazione sembra voler significare che il citato art. 6, comma 1, non facendo specificamente salve le disposizioni del cod. ambiente, consentirebbe di evitarne il rispetto nel realizzare gli interventi di edilizia libera, tra i quali devono essere compresi i parcheggi disciplinati dall’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023. La tesi non è condivisibile, perché le norme di tutela ambientale di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 rientrano nel novero «delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia», il cui rispetto è fatto salvo, in generale, dall’art. 6, comma 1, t.u. edilizia. Inoltre, la Regione ripropone la tesi dell’incompatibilità dei tempi delle procedure valutative con la durata delle opere stagionali o precarie. Al riguardo, si richiamano le osservazioni già svolte (vedi sopra, punto 5.1.1.), dovendosi qui aggiungere che anche i tempi della verifica di assoggettabilità a VIA (che variano da un minimo di ottanta a un massimo di centoquindici giorni, a seguito della sensibile riduzione della durata del procedimento disposta dal citato “decreto semplificazioni”) non comportano un’oggettiva e assoluta impossibilità di realizzare e utilizzare, nel rispetto dei termini previsti, i parcheggi di cui si discute. Infine, secondo la Regione, si dovrebbe considerare che la norma statale assunta a parametro interposto «esonera dalla valutazione di impatto ambientale i parcheggi fino a cinquecento posti, anche se stabili». L’argomento è irrilevante, perché la disposizione regionale è impugnata proprio in quanto esclude dalla verifica di assoggettabilità a VIA di competenza regionale i parcheggi temporanei con «capacità» superiore, in contrasto con la normativa ambientale. I parcheggi fino a 500 posti, infatti, non rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023, poiché per essi l’esclusione dalla procedura valutativa di competenza regionale è già prevista (senza limiti di tempo) dalla disciplina statale. Ciò posto, e alla luce dei principi stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale in materia (vedi sopra, punto 5.2.1.), sussiste anche sotto questo profilo la violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., non spettando alla Regione decidere quali siano i presupposti e le condizioni che determinano l’esclusione dalle verifiche d’impatto ambientale. Simili interventi, infatti, alterano il punto di equilibrio fissato dallo Stato tra l’esigenza di semplificazione e di accelerazione del procedimento amministrativo, da un lato, e la speciale tutela che deve essere riservata al bene ambiente, d’altro lato. Punto di equilibrio che corrisponde anche a uno standard di tutela dell’ambiente, in quanto tale non derogabile da parte delle legislazioni regionali. 6.– In conclusione, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Marco D'ALBERTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3457 del 2019, proposto da Vi. Cu., rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ca., con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato In. Pu., con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Me. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima n. 00304/2018. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) (Ud); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Cons. Luigi Furno, uditi per le parti gli avvocati e viste le conclusioni delle parti come da verbale. FATTO 1. Il Comune di (omissis), con la deliberazione consiliare del 15 marzo 2018, n. 15, ha approvato la variante al piano regolatore generale, mediante la quale ha previsto, in relazione al comparto nel quale è ricompresa l'abitazione del sig. Cu. Vi., un ampliamento dell'area destinata a "verde di quartiere" e a "parcheggio". Il signor Cu. ha proposto, in data 24 novembre 2017, formali opposizioni al progetto di variante con le quali ha evidenziato l'insussistenza di un interesse pubblico all'ampliamento del parco cittadino (all'interno del quale sarebbe stata prevista la realizzazione di una nuova pista ciclabile) e l'eccessiva onerosità dell'intervento. Il Comune, in sede di approvazione della variante, ha respinto le predette opposizioni rilevando che: "il parco oggetto di previsto ampliamento è strategico in quanto ridossato alla via principale del centro abitato, accessibile direttamente da questa e perciò capace di rivitalizzare il nucleo storico e offrire un'attrattiva per incentivare il recupero e riuso di questo ai fini residenziali. Un ampliamento del parco verso nord, cioè verso la via principale, lo avvicina a questa e lo rende maggiormente fruibile. Il costo è ritenuto proporzionato alla strategia dell'intervento. Il parco può essere comunque dotato di parcheggi". 2. Con ricorso di primo grado il signor. Cu. ha impugnato la deliberazione di variante, deducendo le seguenti censure: 1)Violazione e falsa applicazione dell'art. 13 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e l'art. 11, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001 (comunicazione individuale dell'avvio del procedimento; 2) Eccesso di potere per illegittimità derivata, travisamento ed erroneità dei presupposti di fatto e difetto di motivazione, violazione dell'art. 42 della Costituzione, con riferimento alla mancanza del requisito di pubblica utilità ; 3) Eccesso di potere dovuta alla carenza di istruttoria, inadeguatezza della motivazione del rigetto, illogicità, mancanza valutazioni dei costi relativa all'opera; 4) Eccesso di potere dovuta alla carenza di istruttoria, violazione di legge per carenza di motivazione, illogicità e sviamento di potere; 5) Eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza manifesta (a); non proporzionalità (b), disparità di trattamento (c) e ingiustizia grave e manifesta (d); 6) Violazione di legge mancata risposta alla richiesta di accesso agli atti ex art. 25 e 25 bis della legge n. 241/1990. 3. Il T.a.r, con la decisione 24 settembre 2018, n. 304, ha respinto il ricorso. 4. Il Signor Cu. ha proposto appello. 5.Si è costituito nel presente giudizio il Comune, chiedendo il rigetto dell'appello. 6.La causa è stata decisa all'esito dell'8 febbraio 2024. DIRITTO 1. La questione posta all'esame della Sezione attiene alla legittimità della variante al piano urbanistico adottata dal Comune di (omissis) con la quale è stata mutata la destinazione dell'area di proprietà dell'odierno appellante da edificabile a "verde di quartiere" e a "parcheggio". 2. Con un unico articolato mezzo di gravame la parte appellante deduce "intrinseca illogicità delia motivazione. violazione di legge. violazioni e falsa applicazione dell'articolo 42 della costituzione, eccesso di potere". Nell'ambito di tale motivo di appello, l'appellante richiama "comunque tutti i motivi di impugnazione già presentati con ricorso dd. 31.05.2018, notificato in data 01.06.2018, al Tribunale Amministrativo del Friuli Venezia Giulia da considerarsi qui per richiamati e ritrascritti, preme al ricorrente evidenziare quanto segue". 2.1. A sostegno del motivo di appello la parte appellante deduce in primo luogo l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la congruità delle scelte di pianificazione urbanistica contenute nella variante n. 56 al PRG del Comune di (omissis) possano essere logicamente giustificate dalla relazione generale di accompagnamento. Nella prospettiva in esame, l'illogicità della motivazione discenderebbe dal fatto che, a fronte di una presenza di verde privato e pubblico, addirittura considerata nella relazione di accompagnamento come sovradimensionata rispetto all'esigenza di incrementare la capacità abitativa e la creazione di parcheggi per la maggior fruibilità dei servizi e delle abitazioni già esistenti, si chiede al sig. Cu. di sacrificare il suo terreno edificabile per ampliare un parco già "enormemente grande" (nella frazione di (omissis), esiste già un parco di ben 28.000 mq) e si chiede alla collettività la eliminazione di 12 posti auto adibiti a parcheggio per lo spostamento di una pista ciclabile già esistente. In via subordinata, assume la parte appellante che, quand'anche si volesse per ipotesi ravvisare nella relazione tecnica di accompagnamento le giustificazioni necessarie per legittimare le modifiche urbanistiche contenute nella variante n. 56 del prg, tale relazione non consentirebbe comunque di adeguatamente motivare scelte urbanistiche manifestatamente illogiche e contraddittorie. In particolare, sarebbe manifestamente irragionevole e contraddittoria la previsione, nella variante del piano urbanistico generale, di un'opera pubblica non sorretta da un adeguato interesse pubblico. Tanto sarebbe desumibile, nell'ottica in esame, dal contenuto delle dichiarazioni (contenute nel verbale del Consiglio comunale) relative alle osservazioni presentate dell'odierno appellante. In particolare, dalla documentazione in atti si ricaverebbe, ad avviso dell'appellante, che: - il parco Az. nel centro cittadino della frazione di (omissis) è ampio 28.000 mq; esso è collocato al centro dell'agglomerato urbano ed è dotato di quattro accessi; tale parco è, inoltre, fornito di una pista ciclabile e di parcheggi che permettono ai non residenti di fruirne. - per la realizzazione di un ampliamento del parco pubblico di circa 700 mq (un quarantesimo dell'attuale superficie del parco) verranno sacrificati 375 mq di verde privato del sig. Cu. e 320 mq di parcheggi pubblici pari a 12 posti auto e verranno eliminati 69,48 m di muro di recinzione che in parte dovranno essere ricostruiti (30,79 m di muro del soggetto privato); si dovranno inoltre affrontare i costi di realizzazione di una nuova pista ciclabile. Alla luce di tali rilievi, secondo l'appellante la variante in esame sarebbe frutto di un non ragionevole bilanciamento dei contrapposti interesse in gioco e ciò renderebbe la scelta in concreto effettuata dalla Pubblica amministrazione illegittima. 2.2. Il motivo complessivamente articolato è in parte inammissibile e in parte non fondato. In particolare, non ammissibile è il sub-motivo con cui la parte appellante si limita a richiamare i motivi del ricorso di primo grado. L'art. 101 cod. proc. civ. prevede, infatti, che il ricorso in appello deve indicare le "specifiche censure contro i capi della sentenza gravata". La Sezione osserva a tal riguardo che, secondo un costante indirizzo interpretativo, sono inammissibili le censure riproposte ai sensi dell'art. 101 comma 2 c.p.a. attraverso un semplice richiamo agli atti di I grado, senza che ne venga trascritto il testo in modo da poter individuare con certezza quali censure vengano effettivamente in rilievo (per tutte, C.d.S., sez. IV, 1 agosto 2023; n7467 C.d.S. sez. VI 14 febbraio 2020 n. 1186 e sez. V 26 ottobre 2016 n. 4471). Siffatta modalità di esposizione dei motivi di ricorso, definita per relationem, per il rinvio ad altro documento allo scopo di integrazione delle ragioni di critica ai provvedimenti impugnati, si pone "in contrasto con il principio di specificità dei motivi imposto dall'art. 40, comma 1, lett. d) Cod. proc. amm. " (così Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1323; Sez. IV, 25 ottobre 2019, n. 7275; Sez. IV, 12 luglio 2019, n. 4903; Sez. V, 20 luglio 2016, n. 3280). Non è, invero, imposto al giudice e alle altre parti di ricostruire le tesi del ricorrente, supplendo al suo mancato assolvimento dell'onere di specificazione dei motivi. Alla luce di tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Collegio, nell'esaminare l'atto di appello, farà esclusivamente riferimento ai sub-motivi compiutamente esposti nell'atto di gravame e non anche a quelli per i quali si opera un generico rinvio a motivi di ricorso di primo grado, i quali per le ragioni evidenziate devono ritenersi inammissibili. 2.4. Nel merito, i sub-motivi espressamente articolati nell'atto di appello non sono fondati. La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nell'affermare che "la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione (c.d. polverizzazione della motivazione), oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione allo strumento urbanistico generale, a meno che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni" (Cons. Stato, sez. IV, n. 2421 del 2021, cit.; Cons. Stato, sez. II, n. 3163 del 2020, cit.; Cons. Stato, sez. II, n. 2824 del 2020, cit.; Cons. Stato, sez. IV, 3 febbraio 2020, n. 844). A questa regola si fa eccezione in alcuni casi che la stessa giurisprudenza ha provveduto a tipizzare, richiedendo una motivazione "rinforzata" soltanto quando ricorrono le seguenti fattispecie: i) affidamento qualificato del privato, derivante, da un lato, da convenzioni di lottizzazione ovvero da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, e, dall'altro, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di titoli edilizi o di silenzio rifiuto su una domanda di rilascio di un titolo; ii) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo; iii) sovradimensionamento delle aree destinate a standard per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico rispetto ai parametri stabiliti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona. Nessuna delle predette fattispecie ricorre nel caso in esame, nel quale non viene in rilievo una variante che incide in maniera lenticolare su singole proprietà, ma una variante generale, che non necessita, in base al pacifico orientamento giurisprudenziale sopra indicato, di una motivazione puntuale. Tale conclusione è del resto coerente con il più generale, e altrettanto consolidato, indirizzo giurisprudenziale secondo cui "le scelte di pianificazione sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito"(tra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2021, n. 2421; Cons. Stato, sez. II, 18 maggio 2020, n. 3163; Cons. Stato, sez. II, 4 maggio 2020, n. 2824; Cons. Stato, sez. II, 9 gennaio 2020, n. 161; Cons. Stato, sez. IV, 19 febbraio 2019, n. 1151; Cons. Stato, sez. II, 6 novembre 2019, n. 7560). 3. Parimenti infondata è la censura che fa leva sul mancato perseguimento dell'interesse pubblico da parte della variante in esame, e più in generale sulla irragionevolezza della motivazione contenuta nella relazione di accompagnamento, in base alla considerazione per cui, pure a fronte di una presenza di verde privato e pubblico più che adeguata in relazione all'esigenza di incrementare la maggior fruibilità accessibilità dal parco cittadino, si imporrebbe al signor Cu. di sacrificare l'edificabilità del terreno di sua proprietà .. Tale sub-motivo va respinto sulla base della più moderna concezione della funzione di pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato sul "caso Cortina" (Cons. Stato. Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). Nell'occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. L'esercizio del potere di pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela"(Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 1998, n. 1734). In tale ordine di idee, è stato ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica", per cui "l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto"(Cons. Stato, sez. IV, n. 1734 cit.; id. 6 marzo 1998, n. 382). Da tale innovativa impostazione discende che l'ambito di discrezionalità del Comune, nel determinare le scelte che incidono sull'assetto del territorio comunale, è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo. Da tale impostazione consegue che il Comune, in sede di variante al piano regolatore generale, ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più consone alle nuove scelte. Si tratta in questi casi dell'esplicazione della discrezionalità amministrativa che permette ai Comuni di pianificare il territorio anche in senso restrittivo rispetto al passato, con i limiti della razionalità e dell'insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a favore della proprietà . 3.1. In coerenza con tali coordinate di fondo della funzione di pianificazione, il Comune di (omissis), contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, ha adeguatamente dato conto, nella relazione di accompagnamento, delle ragioni poste a supporto della propria scelta di mutamento della precedente destinazione urbanistica in quanto "parcheggi e verde possono essere anche motivo di attrazione di attività di servizio e attrazione di popolazione e costituire motivo di incentivazione del processo di recupero" dei centri storici adiacenti, quindi con la non irragionevole funzione di migliorare l'accessibilità e la fruizione della frazione di (omissis). In particolare, ciò si desume dal punto "C 5 Varie" della relazione, nella parte in cui si elencano in modo puntuale gli interventi da realizzare (dopo quelli organicamente trattati ai punti "C 3 Zone C attuate" e "C 4 Zone D2H2") e, con maggiore dettaglio, dal relativo punto t), ove si prevede, oltre all'ampliamento della "zona S per costruire nuovi parcheggi e verde nell'ambito cento storico per rendere questo più accessibile e attrattivo, a (omissis) (in modifica 59) " anche l'inserimento "con lo stesso fine" di "una previsione di nuovo percorso ciclabile, con contestuale indicazione di zona S costituente nuovo vincolo espropriativo". 4. Quanto al sub-motivo con il quale si deduce la mancata adeguata considerazioni delle osservazioni formulate dall'odierno appellante, la Sezione rileva in senso contrario che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, "il Comune neppure ha un obbligo di risposta specifica alle osservazioni presentate dai privati nel corso del procedimento di approvazione dello strumento urbanistico generale, perché queste non costituiscono un rimedio giuridico ma un mero apporto collaborativo (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5125 del 2018); Sotto tale profilo, conformemente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la Sezione evidenzia che le ragioni di un'opera pubblica e le motivazioni della relativa variante vanno ricercate non tanto nel dibattito consiliare e nel tenore delle dichiarazioni dell'assessore proponente o di singoli consiglieri, bensì nella relazione tecnica che accompagna la variante e descrive natura e finalità oggettive dell'opera in progetto complessivamente considerata. 5. Per le ragioni esposte l'appello deve essere rigettato. 6. Le spese seguono il principio della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: a) rigetta l'appello; b) condanna la parte appellante alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.000,00 (quattromila), oltre accessori di legge, pro quota in favore del Comune di (omissis). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere, Estensore Paolo Marotta - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2816 del 2022, proposto da Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An. e Br. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Le. in Roma, via (...); contro Pl. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Pe. e Ma. De Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. De Sa. in Roma, viale (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Sesta n. 7625/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Pl. s.r.l.; Viste le memorie delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Cons. Annamaria Fasano e uditi per le parti l'avvocato Ca. in dichiarata delega dell'avvocato An. e gli avvocati Cr. e Pe.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La società Pl. s.r.l. (in seguito anche solo Pl.) ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, a seguito di richiesta di trasposizione da parte del Comune di Napoli del ricorso straordinario al Capo dello Stato presentato dalla predetta società . Con riferimento alla vicenda processuale in esame, va premesso in fatto che il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 12802 del 2013, aveva accolto l'azione negatoria intentata dalla società Pl., proprietaria delle vie (omissis) e (omissis), contro il Comune di Napoli - il quale aveva delimitato su tali strade gli stalli di sosta (per autovetture, motocicli e scarico merci) - e, per l'effetto, aveva condannato il Comune 'ad interrompere ogni condotta perpetrata sulla proprietà della società attrice, ripristinando lo stato quo ante', ed a versare, in favore della ricorrente, una somma a titolo di risarcimento del danno. A seguito di tale pronuncia, il Comune di Napoli - Direzione centrale Infrastrutture, Lavori Pubblici e Mobilità - Servizio Mobilità Sostenibile, con ordinanza dirigenziale n. 192 del 5 aprile 2016, aveva disposto la revoca dell'ordinanza sindacale n. 349 dell'8 marzo 2005 relativamente: alla "istituzione delle aree di sosta a pagamento alle Vie (omissis) e (omissis) e più precisamente: n. 205 posti auto regolamentati a pagamento, n. 12 posti auto riservati agli invalidi, n. 6 posti per motocicli e n. 1 area di carico e scarico"; alla previsione della "sosta a titolo gratuito per un solo autoveicolo del nucleo familiare residente"; e alla "istituzione delle aree di sosta a rotazione non riservate ai residenti alla Vie (omissis) e (omissis)". Con la sentenza n. 1928 dell'8 aprile 2019, pronunciata nel giudizio per l'ottemperanza al giudicato formatosi con la sentenza n. 12802 del 2013, il T.A.R. per la Campania dichiarava la cessazione della materia del contendere limitatamente agli obblighi di facere specifico adempiuti dal Comune di Napoli, accogliendo il ricorso relativamente all'obbligo di dare esecuzione alla sentenza ottemperanda nella parte relativa alla condanna al risarcimento del danno. Nonostante ciò, il Comune di Napoli, con ordinanza n. 7 del 9 marzo 2017, disponeva con riferimento alla via (omissis) la realizzazione di n. 95 stalli auto regolamentati a pagamento (strisce blu), n. 16 stalli riservati alla sosta dei motocicli, mentre con riferimento a via (omissis) stalli auto regolamentati a pagamento (strisce blu), n. 1 stallo generico per disabili, n. 5 stalli riservati alla sosta di motocicli, ed un'area riservata al carico e scarico di merci (civ. (omissis)). Con successiva ordinanza dirigenziale n. 5 dell'8.5.2017, l'Ente municipale procedeva ad assegnare la gestione degli stalli di sosta alla società A.N. s.p.a. di cui all'ordinanza n. 7 del 2017. 2. La società Pl. proponeva ricorso straordinario al Capo dello Stato avverso i suddetti provvedimenti unitamente agli atti presupposti, preordinati, connessi e consequenziali, denunciandone l'illegittimità sotto diversi profili, poi trasposto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania. 3. Il Tribunale adito, con sentenza n. 7625 del 2021, accoglieva il ricorso, rilevando la fondatezza della censura relativa alla denuncia di violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, atteso che il Comune non avrebbe dovuto negare alla società proprietaria delle strade la possibilità di interloquire attivamente durante lo svolgimento della fase istruttoria del provvedimento finale, al fine di rappresentare le proprie legittime istanze. Il T.A.R. ravvisava, inoltre, l'illegittimità della istituzione degli stalli di sosta a pagamento da parte dell'Amministrazione in una strada di cui non era proprietaria, nè titolare di altri diritti reali idonei a giustificare la compressione del diritto di proprietà della società Pl., accertato dalla sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 del 2013. Quanto alla domanda di risarcimento del danno proposta dalla ricorrente, il Collegio riteneva che non poteva essere riconosciuto come danno ingiusto l'intero valore di mercato dei posti auto, atteso che, in disparte la necessità della prova di concrete proposte di acquisto non andate a buon fine a causa dell'emanato provvedimento, l'intera area era destinata a tornare nella piena disponibilità della società Pl. per effetto della pronuncia di annullamento, pertanto diversamente opinando, si sarebbe prodotto in capo alla ricorrente un ingiustificato arricchimento, derivante dall'acquisizione del prezzo di un bene solo temporaneamente sottratto alla sua disponibilità . Né poteva essere riconosciuto il danno derivante dal mancato sfruttamento economico delle aree di parcheggio, in quanto la ricorrente non aveva fornito alcun elemento di prova. Il Collegio di prima istanza disponeva, pertanto, un risarcimento determinato in via equitativa nella misura di euro 20.000,00 a carico del Comune di Napoli. 4. Il Comune di Napoli ha proposto appello avverso la suddetta pronuncia, chiedendone l'integrale riforma, denunciando: "1. Error in procedendo. Per la mancata declaratoria del difetto di giurisdizione in favore del giudice ordinario e per il mancato accoglimento della specifica eccezione di inammissibilità del ricorso originario. Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e ss. del c.p.a.. Eccesso di potere giurisdizionale, contraddittorietà, assenza di motivazione; 2. Error in procedendo. Per la mancata declaratoria dell'improcedibilità parziale del ricorso. Contrasto con il proprio precedente giudicato di cui alla sentenza T.A.R. Campania VIII del 8.4.2019 n. 1928, resa fra le parti sulla medesima questione. Eccesso di potere giurisdizionale. Contraddittorietà . Assenza di motivazione; 3. Error in iudicando. Per violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 1, della l. n. 241 del 1990. Eccesso di potere giurisdizionale. Contraddittorietà . Assenza di motivazione; 4. Error in iudicando. Per violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 7, del decreto legislativo n. 285 del 1992 (codice della strada), contraddittorietà e assenza di motivazione; 5. Error in iudicando sull'illegittima quantificazione del risarcimento del danno per violazione o falsa applicazione dell'art. 1226 c.c.". 5. La società Pl. s.r.l. si è costituita in resistenza ed ha spiegato appello incidentale, lamentando: "Violazione e falsa applicazione degli articoli 8, 9, 10 e 12 del d.P.R. n. 327/2001. Violazione e falsa applicazione dell'art. 42 Cost. Eccesso di potere per difetto di motivazione, motivazione insufficiente, manifesta ingiustizia, illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà, sviamento. Violazione e falsa applicazione degli articoli 1226 e 2056 cod. civ.". 6. Le parti con successive memorie hanno precisato le proprie difese. 7. All'udienza dell'8 febbraio 2024, la causa è stata assunta in decisione. DIRITTO 8. Con il primo motivo, il Comune di Napoli censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che la controversia, avente ad oggetto la negazione di una servitù di uso pubblico sulle vie (omissis) e (omissis), rientrerebbe nella giurisdizione del giudice ordinario. 8.1. La denuncia non può trovare accoglimento. Va premesso che risulta dai fatti di causa che la società Pl. è l'esclusiva proprietaria delle porzioni immobiliari identificate al catasto al foglio (omissis), p.lla (omissis), sub da (omissis), su cui ricadono le strade oggi denominate via (omissis) e via (omissis). Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 12802 del 2013, ha condannato il Comune di Napoli al risarcimento dei danni per le molestie arrecate alla Pl. nell'esercizio dei suoi diritti di proprietà sulle porzioni immobiliari destinate a parcheggi, indicate specificamente al catasto sub da (omissis) a (omissis). La suddetta pronuncia è passata in giudicato. Il Collegio, per le ragioni di seguito illustrate, anticipa che, diversamente da quanto argomenta l'appellante nei propri scritti difensivi, le emergenze processuali inducono ritenere che le aree oggetto del presente giudizio sono quelle già oggetto del giudizio definito con la sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 del 2013 sopra richiamata, e precisamente le porzioni immobiliari indicate sub da (omissis) a (omissis). Il Tribunale, con la suddetta pronuncia, ha ordinato all'Amministrazione comunale la cessazione di ogni molestia, e l'ha condannata al risarcimento dei danni procurati alla Pl. a causa della mancata percezione dell'utile derivante dalla sottrazione dell'uso dei beni di proprietà . La decisione è stata poi oggetto del giudizio di ottemperanza definito favorevolmente per la società Pl., con sentenza dal Tribunale amministrativo per la Campania n. 1928 del 2019. Ciò premesso in fatto, con riferimento alla denuncia di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il Comune appellante rileva che la ricorrente, nell'atto introduttivo della lite, ha sostanzialmente negato il potere dell'Ente di regolamentare sosta e viabilità sulle strade (omissis) e (omissis), contestando che le suddette strade siano ad uso pubblico. Pertanto, secondo l'esponente, la questione di giurisdizione avrebbe meritato un accertamento più approfondito per evidenziare il reale petitum introdotto dalla controparte ricorrente, che non si sostanzierebbe in una mera ricerca del quomodo del potere esercitato dall'Amministrazione, ma si estenderebbe all'an, sicchè la posizione giuridica soggettiva vantata sarebbe di diritto soggettivo, con la conseguente giurisdizione del giudice ordinario. L'approdo argomentativo non può essere condiviso. Come correttamente precisato dal Collegio di prima istanza, richiamando la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, se è pacifico che il giudice amministrativo non ha giurisdizione per l'accertamento, in via principale, della natura vicinale, pubblica o privata, della strada, ovvero della servitù pubblica di passaggio, essendo dette questioni devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, è anche vero che il medesimo giudice ben può, anzi deve valutare, incidenter tantum, la natura vicinale, pubblica o privata, del passaggio nella strada su cui si controverte, dal momento che tale questione costituisce un presupposto degli atti sottoposti al suo esame in via principale. Nella specie, la società ricorrente ha denunciato il cattivo uso del potere amministrativo da parte del Comune di Napoli nell'adozione degli atti impugnati, emanati sul presupposto, errato, dell'uso pubblico delle strade di proprietà della società Pl.. Infatti, con l'atto introduttivo del giudizio, si è proceduto ad impugnare i provvedimenti impositivi degli stalli di parcheggio tariffati (c.d. strisce blu), eccependone l'illegittimità per violazione dei principi che hanno riguardato l'esercizio del potere amministrativo quale, inter alia, l'uso scorretto del potere di disciplina della viabilità stradale, l'uso distorto del potere di imposizione dei parcheggi a pagamento su suolo di proprietà privata, in violazione del presupposto della effettiva titolarità del necessario diritto reale sulle aree assoggettate. Ne consegue che la giurisdizione sulla controversia appartiene al giudice amministrativo, al quale è stato chiesto l'annullamento dell'ordinanza n. 7 del 9 marzo 2017, che ha inciso sulla regolamentazione dell'uso delle strade di proprietà della ricorrente. Al suddetto giudice, ai sensi dell'art. 8 c.p.a., viene consentito, per la concentrazione delle tutele e la celerità del processo amministrativo, di accertare incidenter tantum la natura delle stesse (Cass. SS.UU. n. 28331 del 2019). Non si controverte, infatti, in via principale, circa la proprietà pubblica o privata, di una strada o circa l'esistenza dei diritti di uso pubblico su una strada privata, e neppure si discute dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica amministrazione (Cass. SS.UU. n. 26897 del 2016). L'oggetto della controversia ruota, invece, sul cattivo uso del potere amministrativo 'sfociato nell'adozione di un provvedimento asseritamente illegittimo (sotto diversi profili), che presuppone - in tesi, erroneamente - l'uso pubblico delle strade'; pertanto, come precisato dal T.A.R. 'correttamente, dunque, la ricorrente si rivolge al Giudice amministrativo per sentir dichiarare l'illegittimità dell'ordinanza n. 7 del 9 marzo 2017'. In ragione di siffatti rilievi, la sentenza impugnata in parte qua non merita censura. 9. Con il secondo mezzo, si contesta la statuizione del T.A.R. con la quale è stata respinta la denuncia di improcedibilità parziale del ricorso introduttivo proposto dalla società Pl.. A tale riguardo, il Comune di Napoli rileva un presunto contrasto con un precedente giudicato, asseritamente identico, reso con la sentenza del T.A.R. per la Campania n. 1928 del 2019 intervenuta tra le stesse parti. L'appellante sostiene l'improcedibilità parziale del ricorso con riferimento alla dedotta avvenuta cessazione delle condotte perpetrate e la riduzione in pristino, in esecuzione della sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 del 2013. Pertanto, gli atti di imposizione degli stalli comunali di sosta, oggetto del presente giudizio, non potrebbero essere ritenuti in elusione del detto giudicato civile. 9.1. La doglianza va respinta. Come precisato dal Tribunale adito, le pronunce richiamate dall'appellante riguardano circostanze di fatto e petitum diversi, in quanto la sentenza n. 1928 del 2019 del T.A.R. per la Campania ha accertato l'intervenuto adempimento da parte del Comune agli obblighi di facere specifico derivanti dalla sentenza del Tribunale civile di Napoli n. 12802 del 2013, con intervento iniziato in data 30 giugno 2016 e terminato in data 4 luglio 2016; mentre con l'atto introduttivo del presente giudizio la Pl. ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza n. 7 del 2017, avente ad oggetto la regolamentazione della sosta nelle vie (omissis) e (omissis), per far valere l'illegittimità della condotta posta in essere dall'Amministrazione comunale. 10. Con la terza critica, si censura la decisione impugnata nella parte in cui si è ravvisata la violazione delle garanzie partecipative di cui all'art. 7 e ss. della legge n. 241 del 1990, in quanto, secondo l'esponente, le determinazioni comunali inerenti alla disciplina della circolazione stradale hanno portata generale, sicchè non vi sarebbe obbligo di comunicare l'avvio del procedimento. 10.1. Il mezzo è infondato. I provvedimenti impugnati, in quanto atti non generali, sono idonei ad incidere in maniera diretta nella sfera giuridica della società Pl., la quale, essendo proprietaria delle vie (omissis) e (omissis), vanta una posizione giuridica di vantaggio qualificata e differenziata. Pertanto, alla predetta società sarebbe spettata la comunicazione di avvio del procedimento al fine della tutela delle garanzie partecipative. Né si può predicare, come pretende l'appellante, che le determinazioni comunali concernenti la disciplina della circolazione stradale, in quanto funzionali ad una pluralità di interessi pubblici, abbiano portata generale, con conseguente esclusione delle garanzie partecipative. Ciò in quanto, come si è detto, l'ordinanza n. 7 del 2017, quanto agli effetti, incide in concreto nella sfera giuridica della società proprietaria delle strade interessate, essendo idonea a mortificare una posizione differenziata assunta dalla destinataria del provvedimento rispetto alla collettività, suscettibile di specifica tutela sia in seno al procedimento amministrativo, sia nell'ambito della successiva fase giudiziale. Così inquadrata la questione, appare del tutto corretta la soluzione data dal primo giudice alle deduzioni difensive proposte, anche in questa sede, dalla società Pl. s.r.l. 11. Con il quarto motivo di appello, il Comune di Napoli censura la sentenza impugnata per asserita violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 285 del 1992, laddove si sostiene l'illegittimità della istituzione di stalli di sosta a pagamento da parte dell'Ente municipale in una strada di cui non è proprietario e, con riferimento alla quale, non è titolare di diritti reali che giustifichino la compressione dell'altrui diritto di proprietà, come accertato dalla sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 del 2013. Con memoria di replica, l'Ente municipale insiste nel ritenere che la situazione fattuale e giuridica conduce a riconoscere l'uso pubblico delle strade, come sarebbe rilevabile anche dalle conclusioni della C.T.U. espletata nell'ambito del giudizio civile R.G.N. 36781 del 2005, promosso dalla ricorrente Pl. dinanzi al Tribunale di Napoli. Conclude, pertanto, domandando che sia riconosciuta la presupposta servitù pubblica sulle strade (omissis) e (omissis), e quindi consentita la regolamentazione della circolazione e la sosta dei veicoli. 11.1. La denuncia è infondata. Il T.A.R., come già detto, ha evidenziato l'illegittimità della istituzione di stalli di sosta a pagamento da parte del Comune su strade di cui non è proprietario e non è titolare di diritti reali che giustificano la compressione dell'altrui diritto di proprietà, come accertato dalla sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 del 2013. Il Collegio di primo grado precisa altresì che: "Del resto, sarebbe illogico consentire a un ente (e in questo caso il Comune di Napoli) diverso dal titolare di sfruttare economicamente un bene altrui. E ciò a prescindere dalle allegate finalità di pubblico interesse, che potrebbero giustificare provvedimenti di mera regolamentazione del traffico e della sosta o, al più, lo svolgimento di procedure di carattere espropriativo con la corresponsione di un adeguato indennizzo". Questa Sezione condivide le conclusioni raggiunte dal primo giudice. Nel particolare caso di specie, dall'esame di tutta la documentazione versata in atti, emerge che non è stato assolto l'onere probatorio da parte del Comune circa la titolarità delle aree destinate a parcheggio di cui alle ordinanze impugnate, presupposto ai sensi dell'art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 285 del 1992, per l'installazione di stalli a pagamento, e neppure è emersa, senza dubbio, la natura di strade ad uso pubblico. Ciò in quanto, la norma testualmente prevede: "I proventi dei parcheggi a pagamento, in quanto spettanti agli enti proprietari della strada, sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi in superficie, sopraelevati o sotterranei, e al loro miglioramento e le somme eventualmente eccedenti ad interventi per migliorare la mobilità urbana". Inoltre, l'art. 7, comma 1, lett. f) cit. precisa che il Comune può 'stabilire, previa delibera di giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sostanza, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe in conformità alle direttive del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti'. Infatti, non risulta che sia stata adottata una specifica deliberazione della Giunta comunale, né che il Comune abbia dimostrato alcun titolo legittimante il controllo della sosta mediante l'istituzione di parcheggi pubblici a pagamento su proprietà privata. Né può predicarsi che la dimostrazione dell'uso pubblico delle particelle oggetto dell'ordinanza n. 7 del 2017, di proprietà della società Pl., possa essere desunta dalle statuizioni contenute nella sentenza n. 2000 del 22.3.2023, resa nell'ambito del giudizio civile R.G. 7705 del 2018, atteso che, come chiarito dal C.T.U. nell'ambito del suddetto procedimento, non vi è identità tra le porzioni oggetto di tale giudizio e quello concluso con la sentenza civile n. 12802 del 2013, poiché il giudizio R.G. 7705 del 2018 ha avuto ad oggetto le due strade insistenti sul subalterno n. (omissis), mentre il giudizio definito con la sentenza n. 12802 del 2013, così come quello per cui oggi si procede, ha avuto ad oggetto le aree di cui ai subalterni da (omissis) a (omissis), destinate a parcheggio, e sulle quali il Comune ha realizzato strisce blu per sosta delle auto a pagamento e installato i relativi parcometri. Il Tribunale di Napoli nella sentenza n. 2000 del 2023 testualmente afferma: 'come si può evincere dalla C.T.U. le aree coinvolte nei due procedimenti sono differenti'. Le aree oggetto del presente giudizio, come chiaramente riferito dalla società Pl. con memoria, sono quelle già poste ad oggetto del giudizio concluso con la sentenza del Tribunale di Napoli n. 12802 cit., relative ai subalterni da (omissis) a (omissis). Come si è detto, la suddetta sentenza è passata in giudicato, ed è stata confermata in sede di ottemperanza dal T.A.R. per la Campania con la pronuncia n. 1928 del 2019. L'assunto è stato accertato dal C.T.U. nella relazione depositata nell'ambito del giudizio R.G.N. 7705 del 2018 relativo all'actio negatoria, il quale ha chiarito che 'non c'è identità tra le aree indicate nel presente giudizio e quello concluso con la sentenza n. 12802/2013'. Le denunce del Comune di Napoli, il quale sostiene che la Pl. ha frantumato la consistenza catastale delle strade solo in data 29 marzo 2017, sono rimaste prive di fondamento, in quanto, come desumibile dalle emergenze processuali (v. C.T.U. ing. La Mo. depositata nel giudizio R.G.N. 36781 del 2005 e C.T.U. disposta nell'ambito del giudizio R.G.N. 7705 del 2018 cit.), le aree della presente controversia erano già distinguibili all'epoca dell'instaurazione del giudizio che ha condotto alla sentenza n. 12802 del 2013. Il C.T.U. ha, infatti, evidenziato che nella causa iscritta al R.G.N. 36781 del 2005: 'il Giudice ordinario, per giungere ad una corretta decisione finale, ha disposto una CTU per valutare la titolarità delle singole particelle catastali acquistate dalla Società attrice...partendo dal 2004'. Orbene, con riferimento alle particelle oggetto del presente giudizio, non è emersa la situazione fattuale e giuridica dell'uso pubblico delle strade, e neppure è possibile desumerne l'uso pubblico dalla sentenza n. 12805 del 2013, anche perchè si è trattato di un procedimento articolato nei limiti di un actio negatoria finalizzata alla interruzione delle molestie e turbative arrecate dal Comune di Napoli ai fondi di proprietà della Pl.. Neppure è sufficiente, ai fini probatori, ad acclarare l'uso pubblico la relazione riassuntiva di cui alla nota del SAT della 5° Municipalità del Comune di Napoli, prot. n. PG/2016/718907 del 14.9.2016, e di cui alla successiva nota integrativa del medesimo servizio del 29.9.2016, atteso si tratta di un parere del soggetto gestore dell'attività di manutenzione della conferma di indici rivelatori di uso pubblico, che fa riferimento alla particella (omissis), oggi (omissis), ma senza alcuna specificazione dei subalterni (in particolare dal (omissis) al (omissis)) che riguardano il presente procedimento. Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, qualora l'ente pubblico non sia proprietario della strada, come nella specie, la dimostrazione dell'uso pubblico richiede un atto che la sancisca quale un provvedimento amministrativo, una convenzione tra privato e amministrazione, o anche un atto di disposizione del privato, quale può essere un testamento, ovvero il possesso utile dell'usucapione ventennale accertato con sentenza, oltre che la concreta dimostrazione della sua idoneità ad assolvere pubbliche esigenze (Cons. Stato, sez. V, n. 7831 del 2003; id. sez. VI, n. 2544 del 2013). Va rammentato che, perché si costituisca per usucapione una servitù pubblica di passaggio su strada privata, è necessario che concorrano contemporaneamente le seguenti condizioni: a) l'uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati 'uti cives' in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un'utilizzazione 'uti singuli', cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata; b) l'oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio della servitù ; c) il protrarsi dell'uso per il tempo necessario all'usucapione (Cass. n. 28632 del 2017). Gli esiti processuali e il lungo contenzioso che hanno visto contrapporre, con riferimento alle specifiche particelle oggetto di causa, la posizione della società Pl. s.r.l. e il Comune di Napoli escludono anche la cosidetta 'dicatio ad patriam', quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, posto che in nessun caso (e fin dal 2005) la proprietaria ha concesso, involontariamente o volontariamente, di destinare, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), il bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune 'uti cives'(Cass. n. 4851 del 2016; Cass. n. 4207 del 2012; v. anche Cons. Stato, sez. V, n. 728 del 2012). I presupposti per l'integrazione della 'dicatio ad patriam' consistono nell'uso esercitato 'iuris servitutis publicae' da una collettività di persone; nella concreta idoneità dell'area a soddisfare esigenze di interesse generale; in un titolo valido a costituire il diritto, ovvero in un comportamento univoco del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dare vita al diritto di uso pubblico, risulti idoneo a manifestare l'intenzione di porre il bene a disposizione della collettività (sui diversi profili cfr: Cons. Stato n. 5785 del 2019; id. n. 6460 del 2018; id. 5286 del 2018; id. n. 3446 del 2015). L'accertamento di un titolo idoneo in capo all'Ente municipale che, come noto, può essere concesso solo incidenter tantum a questo Giudice (Cass. SS.UU. n. 26897 del 2016), ai sensi dell'art. 8 c.p.a., nella specie non può essere effettuato, atteso che gli esiti processuali non hanno consentito di confermare le conclusioni raggiunte dall'appellante, il quale, con memoria di replica, a fronte delle contestazioni della società appellata, insiste nel sostenere la coincidenza delle aree oggetto del presente giudizio con quelle oggetto della sentenza del Tribunale di Napoli n. 2000 del 2023, ciò al fine di affermarne l'uso pubblico, pur essendo tale circostanza smentita, come sopra precisato, dai fatti di causa. Va, inoltre, condivisa la prospettazione difensiva sostenuta dalla Pl., secondo cui l'imposizione degli stalli di sosta comunali su area di proprietà privata costituisce, nella sostanza, un vincolo che inibisce completamente l'utilizzo del bene, assimilabile ad un provvedimento espropriativo che necessiterebbe di un apposito procedimento, ana a quello del vincolo preordinato all'espropriazione, stante l'insussistenza di qualsiasi titolo o presupposto legittimante il Comune di Napoli all'emissione dell'ordinanza n. 7 del 2017. In conclusione, va ribadito quanto acutamente osservato dal Collegio di primo grado, secondo cui: 'Del resto, sarebbe illogico consentire a un ente (in questo caso il Comune di Napoli) diverso dal titolare di sfruttare economicamente il bene altrui. E ciò a prescindere dalle allegate finalità di pubblico interesse, che potrebbero giustificare provvedimenti di mera regolamentazione del traffico e della sosta o, al più, lo svolgimento di procedure di carattere espropriativo con la corresponsione di un adeguato indennizzò . 12. In definitiva, l'appello principale non può trovare accoglimento, con conseguente conferma della sentenza impugnata anche con riferimento al quinto mezzo che, esaminato congiuntamente all'appello incidentale, va respinto. 13. La società Pl. s.r.l. ha spiegato appello incidentale, chiedendo la parziale riforma della pronuncia del T.A.R. nella parte in cui ha condannato il Comune di Napoli al risarcimento del danno in favore della ricorrente determinato in via equitativa in euro 20.000,00, con conseguente richiesta di condanna al risarcimento nella misura indicata con il ricorso introduttivo, ovvero nel diverso importo che vorrà essere liquidato in via equitativa. L'appellante incidentale chiede di essere ristorata per l'illegittima sottrazione delle aree di titolarità privata alla loro propria destinazione economica, nonché per il sostanziale svuotamento del loro valore economico per l'imposizione della destinazione ad un utilizzo pubblico, sostanzialmente ablativo, incompatibile con qualsivoglia iniziativa privata. E in ordine alla quantificazione del danno, domanda, pertanto, la rifusione del'mancato introito annuale del canone mensile per posto auto in relazione al numero dei posti auto esistenti nelle aree di proprietà della ricorrente' e 'del danno conseguente alla totale compressione, allo svuotamento sostanziale del valore del diritto della ricorrente ed all'impedimento concreto alla commerciabilità dei beni che ne costituiscono l'oggetto'. Il Comune di Napoli, con il quinto motivo di appello, ha evidenziato che tutte le aree individuate dal sub (omissis) al sub (omissis) sono ubicate ai margini laterali delle strade denominate via (omissis) e via (omissis). L'Amministrazione sostiene che la frantumazione della sede stradale non è opponibile al Comune, perché è successiva all'ordinanza impugnata che è stata pubblicata in data 10.3.2017, mentre l'accatastamento, con cui è stato separato catastalmente il tracciato della parte di carreggiata adibita alla circolazione veicolare dalle parti della stessa adibite ad area urbana o posto auto, è del successivo 29 marzo 2017. L'Ente municipale contesta la liquidazione del danno effettuata dal giudice del merito, ritenendo che nella specie il danno patrimoniale consistito nella mancata disponibilità del bene avrebbe dovuto essere accertato dal T.A.R., che di fatto non ha provveduto. 13.1. Il Collegio rileva che la domanda di risarcimento del danno, come riproposta nel presente giudizio dalla società Pl. va respinta. Né può trovare accoglimento il quinto mezzo spiegato dal Comune appellante. Il Tribunale amministrativo ha accertato il fatto dell'illecita sottrazione delle aree di proprietà della società ricorrente, riconoscendo correttamente i presupposti del risarcimento quale l'elemento oggettivo, il nesso di causalità e l'elemento soggettivo. Ed ha evidenziato che 'la società ricorrente è stata illegittimamente privata del godimento dei propri beni per un significativo lasso di tempo', pertanto, diversamente da quanto sostenuto dal Comune di Napoli, in disparte la questione dell'asserita frantumazione e inopponibilità dell'accatastamento, appare evidente il pregiudizio subito dalla società Pl. senza che sia necessario ulteriore supporto argomentativo. Ciò premesso, con riferimento al quantum debeatur, va condiviso il ragionamento logico seguito dal giudice territoriale, il quale rileva che non può, ovviamente, essere riconosciuto come danno ingiusto l'intero valore di mercato dei posti auto, atteso che, non solo non è stata offerta la prova delle concrete proposte di acquisto non andate a buon fine a causa dell'ordinanza n. 7 del 2017, ma anche perché l'intera area è destinata a tornare nella piena disponibilità della società Pl. a seguito dell'annullamento degli atti disposto con la sentenza, sicchè, diversamente opinando, 'si produrrebbe in capo al ricorrente un ingiustificato arricchimento, derivante dall'acquisizione del prezzo di un bene solo temporaneamente sottratto alla sua disponibilità '. Da quanto sopra consegue la correttezza e la congruità della determinazione in via equitativa del danno, nella misura indicata dal Collegio di prima istanza, non essendo stati forniti elementi relativi al possesso dei requisiti e dei titoli necessari a svolgere attività economica di sfruttamento delle aree di parcheggio. 14. In definitiva, per le motivazioni espresse va respinto l'appello principale e l'appello incidentale, con conseguente conferma della sentenza impugnata. 15. Le ragioni della decisione e la peculiarità della vicenda processuale giustificano l'integrale compensazione delle spese di lite del grado tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando respinge l'appello principale e l'appello incidentale, come in epigrafe proposti. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7453 del 2021, proposto da Gi. Ve., rappresentato e difeso dall'avvocato Lu. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis) (MO), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ga. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ca. Mi., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Lu. Della Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione Seconda, n. 167 del 1° marzo 2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e del sig. Ca. Mi.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il Cons. Roberto Caponigro; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Al Comune di (omissis) (Provincia di Modena), in data 27 aprile 2015, è pervenuta, da parte del Corpo Polizia Municipale, Nucleo Edilizia Ambiente, dell'Unione Terre di Castelli, una segnalazione di presunta violazione urbanistico - edilizia, relativamente a "intervento di nuova costruzione in difformità sia dal titolo edilizio presentato in variante che da quanto disposto e previsto dalla L. 122 del 24/03/89 (Legge Tognoli) in relazione al mancato interramento della struttura ed in assenza di deposito per le opere in cemento armato in quanto variate", relativamente all'edificio sito in via (omissis). Il signor Mi., proprietario dell'area, ha presentato richiesta di scia in sanatoria in data 22 luglio 2015. L'Amministrazione comunale, con atto del 5 febbraio 2016, ha trasmesso ai signori Ca. Mi. e Gi. Ve. la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio Tecnico, Settore Urbanistica, Edilizia Privata e Ambiente nonché la conclusione del procedimento avviato con la segnalazione del 27 aprile 2015, nel senso che le opere realizzate possono ritenersi conformi alla normativa vigente, per cui è stata accolta la scia in sanatoria, con prescrizione dell'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, ed aumento del livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Il sig. Ve., proprietario di un immobile posto a confine con il fabbricato di proprietà Mi., ha impugnato tale atto del 5 febbraio 2016, unitamente all'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015, dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna che, con la sentenza della Sezione Seconda n. 167 del 1° marzo 2021, ha dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Il soccombente ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli). Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge n. 765 del 1967 (c.d. legge ponte). La dichiarata improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione non sarebbe legittima, in quanto l'ordinanza n. 39/2018, per stessa ammissione dell'amministrazione comunale, non è satisfattiva delle richieste del ricorrente. L'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018 riguarderebbe esclusivamente la porzione edificata sulla proprietà del sig. Ve., ma nulla direbbe in merito al rilascio della scia in sanatoria del 5 febbraio 2016 che sarebbe stata concessa in violazione delle normative vigenti. L'illegittimità della dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse renderebbe illegittimo anche il diniego del risarcimento del danno. La domanda risarcitoria era stata proposta nel ricorso introduttivo del giudizio e nel corso del processo ne sarebbe stata dimostrata la relativa quantificazione. Stante l'insussistenza dell'improcedibilità per carenza d'interesse, l'appellante ha riproposto le censure di merito già dedotte nel giudizio di primo grado, innanzitutto evidenziando quali siano le circostanze, afferenti l'intervento edificatorio realizzato sulla proprietà Mi. - Ba., che sono oggetto delle doglianze da parte del ricorrente, poiché incidenti direttamente sulla proprietà del medesimo e come tali costituenti le censure di legittimità alla sanatoria rilasciata dal Comune di (omissis): 1) insussistenza dei requisiti per l'applicazione della legge Tognoli e norme del P.R.G. e ora P.S.C. per la realizzazione del garage interrato n. 1; 2) insanabilità del garage identificato nei titoli abilitativi con l'autorimessa n. 2 (si trattava di una tettoia in legno a copertura di una cisterna successivamente trasformata e sanata in garage in cemento armato in assenza di deposito strutturale sostenendo che non fossero opere strutturali); 3) la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria (l'unico parere è stato rilasciato nel 2008 prima dell'intervento edificatorio PdC 32/2008 e PRG come parere preventivo e poi più nulla con strumento PSC); 4) l'utilizzazione impropria e strumentale di una scrittura privata del dante causa del signor Ve. per legittimare la deroga alle distanze regolatrici e per far coincidere l'allineamento del muro di confine preesistente (ante intervento edificatorio, poi oggetto di sanatoria) con l'attuale collocazione del muro di confine, difforme rispetto all'origine, che, a ben vedere, prevede la costruzione in aderenza di un secondo muro, mentre in realtà ne è stato realizzato uno solo; 5) omesso rispetto delle distanze regolamentari dai confini con la proprietà Ve.. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e/o applicazione della legge n. 122/1989 (c.d. Legge Tognoli). Invocando l'applicazione della L. n. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), i signori Mi. avrebbero realizzato circa 150 mq di nuovi garage e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando anche la destinazione d'uso al fabbricato originale, da deposito ad abitazione. L'art. 9 si applicherebbe solo all'ipotesi di fabbricati già esistenti all'epoca dell'entrata in vigore della legge e non potrebbe riguardare le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi per i quali provvede, invece, il precedente art. 2, comma 2, della L. n. 122/1989, il quale, nel sostituire l'art. 41 sexies L. 17 agosto 1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc di costruzione. Tale assunto troverebbe la sua giustificazione nella considerazione che gli edifici costruiti dopo la legge Tognoli nascono già forniti di parcheggio per effetto della c.d. legge ponte. Ne conseguirebbe l'inapplicabilità, nella specie, del suddetto articolo 9 l.n. 122/1989, poiché il parcheggio in discorso verrebbe realizzato a servizio di un edificio assentito con titolo abilitativo del 2008, che già era fornito di locali ad uso autorimessa. Sempre con riferimento ai presupposti per applicare la legge Tognoli, sebbene nel caso di specie la stessa non sia applicabile, occorrerebbe considerare che i garage devono essere completamente interrati, laddove, nella fattispecie, il garage sarebbe stato realizzato al piano terra. L'avere imposto, ex post, in sede di sanatoria, che il garage sia ricoperto di terreno - e ad una quota superiore di ben 60 cm rispetto alla reale quota di campagna originaria, per farlo rientrare entro l'ambito operativo della legge Tognoli - non solo costituirebbe un evidente contrasto con la finalità propria della legge (costruire al di sotto della quota di campagna per evitare ulteriore consumo del suolo nei centri urbani), ma determinerebbe una evidente alterazione dello stato dei luoghi tale da delegittimare il titolo abilitativo in sanatoria. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione di legge per errata interpretazione e applicazione della legge 6 agosto 1967 n. 765 (c.d. "legge-ponte"). La sanatoria del manufatto identificato nei titoli abilitativi come garage n. 2, sarebbe illegittima poiché rilasciata sulla base del presupposto che l'edificio sia stato realizzato in un periodo antecedente al 1967. Eccesso di potere, sotto altro profilo, per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali disposte dalle norme di piano e dai regolamenti del comune di (omissis). L'amministrazione comunale, al fine di convalidare la deroga alle distanze regolamentari invocata dalla proprietà Mi., avrebbe assunto come valida ed efficace una scrittura privata datata 5 aprile 2015, in cui la dante causa del sig Ve. avrebbe autorizzato la edificazione di un manufatto oggetto di sanatoria in deroga alle distanze regolamentari (autorimessa n. 1). Ora, evidenziato che le convenzioni in deroga alle distanze previste dal codice, poiché arrecano una menomazione per l'immobile il cui proprietario avrebbe diritto alla distanza legale, concretano veri e propri atti costitutivi di servitù, e in quanto tali sono assoggettati alla forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c. - cioè atto pubblico a pena di nullità - occorre rilevare che la scrittura privata fornita dai signori Mi. non potrebbe comunque assurgere al rango di atto costitutivo di una servitù (non v'è una data certa della sua sottoscrizione né una certificazione dell'autenticità della firma né l'ubicazione degli immobili); inoltre, se il garage fosse stato interrato non sarebbe servita la sottoscrizione di una scrittura in deroga alle distanze legali. Le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale al mantenimento di un prefigurato modello urbanistico, non tollererebbero deroghe convenzionali da parte dei privati; tali deroghe, se concordate, sarebbero invalide, né tale invalidità potrebbe venire meno per l'avvenuto rilascio di un titolo edilizio, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli strumenti urbanistici. Eccesso di potere per carenza assoluta dell'attività istruttoria, per carenza assoluta di motivazione o motivazione contraddittoria. Violazione delle normative in materia di distanze legali. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Prima della realizzazione dell'abuso edilizio oggetto della sanatoria il confine era raffigurato come una linea retta, mentre attualmente, ad abuso realizzato, non è più lineare presentando un dente di circa 50 cm, come sostenuto dal verbale dei vigili urbani e un disallineamento che parte da 39 cm. fino a 109 cm. come rilevato dal CTU in sede di ATP per rilevare che lo sconfinamento è evidente. Dalla disamina degli elaborati grafici di variante/sanatoria presentati dai signori Mi., emergerebbe che i confini della proprietà Ve. non sarebbero stati rispettati (sono state redatte tavole grafiche che erroneamente rappresentano opere mai realizzate al sol fine di rendere accettabile la presenza di un addentellato che modifica la linea di confine preesistente), come anche la realizzazione dell'autorimessa indicata con il n. 2 inciderebbe sulla linea di confine preesistente violandola. La lesione alle distanze regolamentari, invocata dal ricorrente, sussisterebbe poiché il dente originato dalla creazione di una difforme linea di confine rispetto alla situazione preesistente, invade la proprietà Ve. per circa 50/60 cm, secondo i rilievi dei vigili urbani, mente i rilievi del CTU indicano uno sconfinamento di 39 cm e 109 cm; ciò avviene con una traslazione del muro di confine tale da inglobare entro la proprietà Mi. un'area del ricorrente. Al proprietario confinante che lamenti la violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, competerebbe sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva impostazione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria. L'appellante, per mero tuziorismo difensivo, ha riportato anche le controdeduzioni alle argomentazioni dedotte dalle difese avversarie nell'ambito del giudizio di primo grado ed afferenti il merito del contenzioso. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio svolgendo analitiche difese sia in rito che nel merito, ed ha formulato le seguenti conclusioni: In via principale: rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando integralmente la sentenza del TAR di Bologna n. 176/2021 pubblicata in data 01/03/2021. In via subordinata: nell'ipotesi in cui il Collegio accolga il presente appello e riformi l'impugnata sentenza, accertare e dichiarare la tardività della impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432, dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24/12/2015 prot. n. 8764 rilasciata dall'ufficio sismica. In via ulteriormente subordinata: accertare e dichiarare l'inammissibilità della originaria impugnazione della SCIA in sanatoria del 22/07/2015 prot. n. 5432 ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, per la quale poteva essere esperita esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. In via estremamente subordinata: nel merito rigettare l'appello proposto per essere lo stesso infondato sia in fatto che in diritto, per tutti i motivi dedotti, confermando la legittimità degli atti impugnati, in accoglimento dei motivi esposti. In tutti i casi: accertare e dichiarare che l'appellante non ha alcun diritto al risarcimento del danno per effetto dei provvedimenti impugnati. Il sig. Ca. Mi., in rito, ha formulato una serie di eccezioni di inammissibilità . In particolare: - la scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 e la relazione tecnica prot. n. 734 del 5 febbraio 2016, così come la nota di trasmissione prot. 735 di pari data, non costituirebbero provvedimenti amministrativi impugnabili; - l'impugnazione della scia presentata in data 22 luglio 2015, nello specifico, sarebbe inammissibile, in quanto, ai sensi dell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la scia non sarebbe un provvedimento tacito direttamente impugnabile; - tutte le censure avrebbero ad oggetto interventi edilizi previsti e autorizzati dal permesso di costruire prot. n. 6415 rilasciato in data 24 settembre 2008, per cui, non avendo impugnato il detto permesso di costruire, il sig. Ve. non avrebbe alcun interesse ad impugnare la scia in sanatoria (nonché gli atti del Comune in data 5 febbraio 2016) avente ad oggetto opere minori non costituenti varianti essenziali, atteso che, in caso di inoppugnabilità del permesso di costruire, non sarebbe autonomamente impugnabile il titolo edilizio in variante con il quale sono autorizzate variazioni non essenziali del progetto; - l'appellante non avrebbe dedotto, né provato, alcun pregiudizio derivante dalla realizzazione delle due autorimesse e della tavernetta e, soprattutto, dalla realizzazione dell'autorimessa n. 2, che si trova sul lato opposto rispetto al confine con la sua proprietà, con conseguente inammissibilità, anche sotto tale profilo, almeno dei primi due motivi di ricorso; - il sig. Ve., con istanza del 21 aprile 2017, ha chiesto al Comune di (omissis) l'immediato annullamento della scia, ma, nel termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, non ha esperito alcuna azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.; - l'impugnazione dell'autorizzazione sismica sarebbe inammissibile, in quanto avverso detto atto l'appellante non ha proposto alcuna censura. Il sig. Mi., nel merito, ha analiticamente contestato la fondatezza delle doglianze contenute nel ricorso in appello. Le parti hanno prodotto altre analitiche memorie a sostegno delle rispettive difese. Il sig. Mi., in particolare, ha eccepito anche il difetto di interesse al ricorso di primo grado non essendo sufficiente il solo requisito della vicinitas. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. Il giudice di primo grado ha così motivato la declaratoria di improcedibilità del gravame per sopravvenuta carenza di interesse: "L'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 aveva un contenuto satisfattorio degli interessi del ricorrente. Tale provvedimento accoglieva le richieste da lui formulate con la sopra richiamata nota del 21 giugno 2018. Alla data di adozione della sopra richiamata ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 si determinava pertanto la sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso. Successivamente tale ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 veniva annullata dalla stessa amministrazione comunale con provvedimento in data 14 settembre 2018. Era dunque onere di parte ricorrente impugnare in giudizio il sopra richiamato provvedimento del 14 settembre 2018 di annullamento in autotutela dell'ordinanza n. 39/2018, ove tale provvedimento fosse ritenuto lesivo del proprio interesse alla demolizione delle opere costruite dal controinteressato. Il provvedimento del 14 settembre 2018 è un provvedimento produttivo di effetti giuridici novativi riguardo le determinazioni comunali circa l'abusività o meno delle costruzioni contestate da parte ricorrente, avendo ad oggetto l'annullamento dell'ordinanza n° 39 del 6 luglio 2018 Ne consegue che, non essendo stato impugnato in giudizio tale provvedimento del 14 settembre 2018, l'assetto di interessi sulla vicenda è definitivamente disciplinato da esso. Ne consegue altresì che il ricorso è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse". 3. Il motivo con cui l'appellante ha contestato la statuizione di improcedibilità del ricorso è fondato. 3.1. Il sig. Ve. contesta che, invocando l'applicazione della legge n. 122 del 1989, i signori Mi. hanno realizzato circa 150 mq di nuovi garage (al piano terra) e trasformato lo spazio adibito a garage - sito all'interno dell'abitazione di loro proprietà - in tavernetta, cambiando la destinazione d'uso dell'immobile da deposito ad abitazione. Le doglianze proposte dall'interessato concernono: - la violazione dell'art. 9 della c.d. Legge Tognoli per la costruzione di una prima autorimessa (autorimessa 1); - la costruzione di altro garage (autorimessa 2) su immobile privo di titolo abilitativo in quanto edificato successivamente al 1967 e, comunque, rientrante nel centro storico, per cui necessitava della concessione edilizia; - la violazione delle distanze legali derivante dal posizionamento del muro di confine tra le due proprietà . Il Tar ha dichiarato improcedibile l'appello per sopravvenuta carenza di interesse essendo ora il rapporto disciplinato definitivamente dall'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione del 14 settembre 2018, provvedimento non impugnato. 3.2. La statuizione del giudice di primo grado non può essere condivisa. Con l'ordinanza di demolizione n. 39 del 6 luglio 2018, avente ad oggetto il ripristino di opere abusive relativamente al muro di confine sito in via (omissis), il Comune di (omissis) ha ingiunto ai signori Ca. Mi. ed An. Ba., in qualità di realizzatori dell'opera, di agire in modo tale da ripristinare la legalità violata, ai sensi dell'art. 13 della L.R. n. 23/04, attraverso la demolizione e il ripristino delle opere non conformi alle normative vigenti, pertanto mediante lo spostamento del tratto del muro di confine realizzato all'interno della proprietà Ve., pari ad un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), di 7,35 mq. L'ordine demolitorio, successivamente annullato in sede di autotutela con provvedimento del 14 settembre 2018, è stato adottato, evidenziato che, in data 22 giugno 2018, è pervenuta una comunicazione, per conto del sig. Ve., con cui si richiama lo sconfinamento rilevato dal tecnico nominato dal Tribunale di Modena, relativamente all'edificio sito in via (omissis), con diffida ad immediata attivazione affinché si disponga l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi nonché richiamata la relazione tecnica d'ufficio, redatta il 15 dicembre 2016, a firma del CTU, nella quale è stato definito lo sconfinamento del muro di confine all'interno della proprietà Ve., per un'area trapezoidale di 0,39 e 1,09 (basi) x 9,93 (altezza), pari ad un'area di 7,35 mq nonché richiamati anche i titoli edilizi relativi all'edificio di proprietà e al muro di confine, costituiti dal permesso di costruire prot. 6415 del 24 settembre 2008 e scia del 24 settembre 2012, annullata in autotutela in data 9 maggio 2015. Il provvedimento con cui l'Amministrazione comunale ha annullato, in autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l'ordinanza n. 39 del 6 luglio 2018, è stato adottato rilevato, tra l'altro, che, in relazione al manufatto oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 39 del 2018, era stata depositata, oltre ai titoli citati nel detto atto, anche la scia in sanatoria del 22 luglio 2015 prot. n. 5432, per cui l'immobile non sarebbe privo di titolo abilitativo e considerato, tra l'altro che pende dinanzi al Tar per l'Emilia Romagna un ricorso presentato dal sig. Ve., con il quale è stato chiesto l'annullamento del provvedimento del Comune di (omissis) del 5 febbraio 2016 prot. 735 e prot. 734 (atti confermativi dell'efficacia della scia in sanatoria presentata in data 22 luglio 2015 prot. n. 5432 dal sig. Ca. Mi. ed anche dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 prot. 8764 rilasciata dall'Ufficio sismica). In particolare, per quanto maggiormente interessa in questa sede, nella motivazione del provvedimento di autotutela è indicato "considerato che nel giudizio amministrativo promosso dal Geom. G. Ve. (TAR - Bologna RG n. 267/2016) risultano essere costituiti sia il Comune che il sig. Ca. Mi., pertanto la verifica della legittimità amministrativa, degli atti richiamati al punto precedente, sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo, mentre rimane nella libera ed autonoma disponibilità delle parti private ogni diversa questione relativa alla controversia sui reciproci diritti che riguardano la sfera privatistica, azionabile avanti la giustizia ordinaria, come correttamente indicato da entrambe le parti private (sig. Ve. e sig. Mi.) nelle osservazioni/diffide già presentate" ed ancora "tenuto conto che le questioni poco prima esposte, nonché le altre alle stesse connesse e già espresse in precedenti atti e provvedimenti sempre relativi alla stessa fattispecie oggetto dell'ordinanza n. 39/2018, nonché la presenza di un contenzioso amministrativo in essere e di un suo pronunciamento in merito, impongono un esame più approfondito ed una più adeguata ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, al fine anche di evitare che l'esecuzione del provvedimento produca conseguenze pregiudizievoli". Dai descritti passaggi motivazionali emerge con evidenza che il provvedimento di annullamento in autotutela dell'ordinanza di demolizione n. 39/2018 non ha disciplinato nuovamente il rapporto, avendo espressamente evidenziato che "la verifica della legittimità " dell'atto del 5 febbraio 2016 "sarà svolta nell'ambito del giudizio amministrativo", sicché non può sussistere alcun dubbio sulla persistenza dell'interesse alla definizione del presente giudizio di appello, pur a seguito dell'adozione degli atti nel 2018 (ordine di demolizione e annullamento di autotutela). 4. Il provvedimento impugnato, del 5 febbraio 2016, ha trasmesso agli interessati la relazione tecnica di valutazione dell'Ufficio tecnico comunale, Settore urbanistica, edilizia privata ed ambiente che ha così concluso: "L'ufficio Tecnico del Comune di (omissis) ritiene che le opere realizzate possano ritenersi conformi alla normativa vigente, e pertanto ritiene di poter accogliere la scia in sanatoria, prescrivendo l'interramento dell'autorimessa come indicato negli elaborati grafici, pertanto aumentando il livello del terreno come era in origine, nel rispetto della Legge Tognoli. Vengono inoltre provvisoriamente accolte le autorizzazioni del precedente confinante e la dichiarazione di esistenza ante 1967 della seconda autorimessa (prima locale cisterna) fatto salvo eventuali diritti di terzi, o fatto salvo i risultati di eventuali tracciamenti di confini secondo le normative vigenti". Nella motivazione della relazione tecnica è espressamente indicato, nel punto n. 4 della "Ispezione immobile di nuova realizzazione ad uso di autorimessa", che "Non rientra nell'attività istruttoria del presente procedimento di abuso edilizio, il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, dato atto che il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Parimenti, al punto 1 delle "Precisazioni relativamente alla relazione presentata dal Geom. Ve. Gi. in data 21/07/15", l'Ufficio tecnico ha ribadito, relativamente alle distanze dal confine, quanto indicato precedentemente, vale a dire che "il Comune rilascia i titoli edilizi "fatto salvo i diritti di terzi", e non entra in merito a discussioni relative a confini di proprietà, (a meno che non venga prodotta una relazione da un tecnico terzo, che abbia provveduto al tracciamento dei confini con le procedure previste dalla normativa vigente, e abbia rilevato uno sconfinamento da parte di una delle due parti, procedura che non è stata effettuata dalle parti)". Di talché, il provvedimento impugnato non ha preso posizione sul prospettato sconfinamento del muro nella proprietà Ve., sebbene in altre parti del testo abbia richiamato la dichiarazione del 5 aprile 2015, a firma della precedente confinante, secondo cui "il muro è stato realizzato nella posizione esatta in cui si trovava quello originario, e confermo di aver, a suo tempo, autorizzato verbalmente il sig. Mi. Ca. a costruire l'autorimessa a ridosso del muro, senza alcun vincolo di distanza". La relazione tecnica trasmessa ha peraltro evidenziato che "tale problema non sussiste in quanto il muro di confine risulta di altezza superiore ai 3 metri, pertanto da ciò che prevede il codice civile, (art. 878) "... tale manufatto non ha le caratteristiche del muro di confine (altezza max 3 m.) ma viene equiparato in tutto e per tutto a muri di fabbrica, ad una costruzione, e quindi deve rispettare le distanze legali per le costruzioni (3 metri ecc.). Quindi se tale opera originariamente è stata realizzata sul confine di proprietà, in accordo tra le due parti, ambedue le proprietà hanno diritto di costruire nuove opere in adiacenza fatti salvi eventuali diritti dovuti a luci e vedute; (identico al caso in cui un confinante realizza un immobile sul confine, e il vicino acquisisce il diritto di costruirvi in aderenza, fatte salve le eventuali aperture, luci ecc.). Si precisa inoltre che nel tratto dove il muro arretra, (dove è presente la deviazione), il codice civile prevede che "... il vicino può costruirvi in comunione o aderenza se mantiene una distanza massima di 1,5 metri dal confine...". Ne consegue che il provvedimento avversato del 5 febbraio 2016, pur recando precisazioni relative alla relazione presentata dal sig. Ve. il 21 luglio 2015, ha testualmente escluso che nell'attività istruttoria che ha dato luogo all'adozione dell'atto sia rientrato il posizionamento del muro di confine tra le due proprietà, per cui le doglianze proposte in relazione al dedotto spostamento del muro di confine, non avendo costituito oggetto dell'attività istruttoria che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato, devono ritenersi inammissibili. Ad ogni buon conto, le argomentazioni relative alla dichiarazione prodotta dal precedente confinante sono state ritenute irrilevanti, in quanto l'Amministrazione ha formulato osservazioni sulla applicabilità al caso di specie del disposto di cui all'art. 878 c.c., con conseguente non considerazione del muro di cinta per il computo della distanza di cui all'art. 873 c.c. e tali precisazioni non sono state censurate dalla parte. In definitiva, le doglianze relative al posizionamento del muro di confine ed alla violazione delle distanze legali non sono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'annullamento in autotutela dell'ordine di demolizione non è stato impugnato, ma sono ab origine inammissibili, come anche indicato a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, all'udienza pubblica del 21 marzo 2024, perché non hanno costituito oggetto dell'esame istruttorio che ha condotto all'adozione del provvedimento impugnato. 5. Parimenti inammissibili sono le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa n. 2, trasformata in tavernetta, in quanto, se la legittimazione ad agire è indubbia e discende alla vicinitas, l'interesse al ricorso non è stato dimostrato. L'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021 ha affermato il seguente principio di diritto: "Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l'autonomia tra la legittimazione e l'interesse al ricorso quali condizioni dell'azione, è necessario che il giudice accerti, anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato". L'eccezione di inammissibilità è stata formulata dal controinteressato sig. Mi., il quale ha evidenziato come il sito sia dalla parte opposta rispetto alla proprietà Ve.. Tale circostanza non è stata smentita dalla parte, sicché deve ritenersi carente l'interesse alla proposizione delle relative doglianze. 6. Viceversa, le doglianze proposte avverso la realizzazione dell'autorimessa 1 sono ammissibili, in quanto, oltre alla legittimazione ad agire, data dalla vicinitas, sussiste la prova dell'interesse al ricorso, dato dal prospettato sconfinamento, consistito nel modificare la linea del preesistente muro di confine con la creazione di una rientranza per realizzare il nuovo locale ad uso garage. 6.1. Anche in tal caso, sovvengono gli ulteriori principi di diritto affermati nell'Adunanza Plenaria n. 22 del 2021, secondo cui: "L'interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall'intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall'insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso; l'interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante, nel rispetto dell'art. 73, comma 3, c.p.a. Nelle cause in cui si lamenti l'illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l'immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell'accertamento dell'interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l'annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo". 6.2. Nel merito, le doglianze, incentrate sull'inosservanza della Legge Tognoli, si rivelano tuttavia infondate, anche perché è verosimile ritenere che il fabbricato sia preesistente al 1989. L'art. 9 della legge n. 122 del 1989 dispone che "I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti". L'art. 41-sexies, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, aggiunto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967 e, successivamente, sostituito dall'art. 2, comma 2, della legge n. 122 del 1989, stabilisce che "Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione". La relazione tecnica allegata al permesso di costruire n. 6415 del 24 settembre 2008, provvedimento non impugnato, è stata richiamata nello stesso atto di appello e, nella dettagliata descrizione dei lavori oggetto di intervento, ha specificato che le opere in progetto riguardano la "ristrutturazione" di un fabbricato, con cambio di destinazione d'uso da deposito ad ufficio ad uso prevalentemente residenziale; tra i lavori, inoltre, è prevista la realizzazione di 2 autorimesse coperte per complessivi sei posti auto ed anche la eliminazione della cisterna interrata. L'oggetto dell'istanza, infatti, ha riguardato la richiesta di permesso di costruire per realizzazione di autorimesse di pertinenza da realizzare ai sensi della legge n. 122 del 1989 e ristrutturazione con cambio di destinazione d'uso di fabbricato in via (omissis). Tali interventi non possono più essere messi in discussione essendosi evidentemente consolidato il permesso di costruire del 2008. Tale permesso, inoltre, trattandosi di ristrutturazione e non di nuova costruzione, riguarda un fabbricato già esistente e non un nuovo fabbricato, per cui, in primo luogo, in assenza di ulteriori elementi sulla collocazione temporale della realizzazione del manufatto, deve ritenersi applicabile l'art. 9 della L. 122 del 1989, che, come descritto, da un lato, consente il non interramento, dall'altro, consente la realizzabilità dei garage anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. In ogni caso, l'intervento appare compatibile con l'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942. Peraltro, occorre rilevare che il provvedimento del 5 febbraio 2016 ha prescritto l'interramento dell'autorimessa, come indicato negli elaborati grafici, aumentando il livello del terreno "come era in origine", nel rispetto della legge Tognoli. Ne consegue che nessun nuovo interramento è stato previsto, ma è stato imposto il ripristino del livello del terreno iniziale. 7. L'impugnativa dell'autorizzazione sismica in sanatoria del 24 dicembre 2015 è inammissibile, in quanto nessuna censura è stata specificamente dedotta avverso la stessa. 8. Analogamente, la mancanza del parere della Commissione Qualità Architettonica e Paesaggio per la sanatoria, pur enunciata all'inizio dell'atto di appello, non è assistita da ulteriori censure e comunque la contestazione è inammissibile per il c.d. divieto dei nova in appello sancito dall'art. 104 c.p.a., in quanto il motivo d'impugnativa non è stato formulato in primo grado. 9. Le doglianze afferenti la domanda risarcitoria devono essere conseguentemente respinte, in assenza dell'elemento costitutivo fondamentale dell'illecito aquiliano della pubblica amministrazione, vale a dire l'accertamento dell'illegittimità dell'azione amministrativa in ipotesi causativa del danno di cui è chiesto il risarcimento. 10. In conclusione, sulla base di tutto quanto esposto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado deve essere dichiarato in parte inammissibile (per quanto attiene alle doglianze sul prospettato sconfinamento del muro di confine ed alle doglianze relative alla trasformazione dell'autorimessa 2 in tavernetta) ed in parte deve essere respinto (per quanto attiene alle doglianze relative alla realizzazione dell'autorimessa 1). 11. Va da sé che, in relazione alle molteplici specificazioni e puntualizzazioni delle doglianze contenute nel ricorso in appello e nelle successive memorie, nonché alle molteplici precisazioni contenute negli scritti delle controparti, il Collegio ha preso in considerazione, nella motivazione della presente sentenza, solo quelle ritenute astrattamente rilevanti ai fini della definizione del giudizio, per cui i profili eventualmente non menzionati si intendono ritenuti privi di sostanziale interesse. 12. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell'appellante sig. Ve. ed a favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe (R.G. n. 7453 del 2021), in riforma della sentenza impugnata, in parte dichiara inammissibile ed in parte respinge il ricorso proposto in primo grado. Condanna l'appellante sig. Ve. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre accessori di legge, in favore, in parti uguali (ciascuno per Euro 5.000,00), del Comune di (omissis) e del controinteressato sig. Mi.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024, con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Roberto Caponigro - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6670 del 2021, proposto da Gi. La., rappresentata e difesa dall'avvocato Ca. Er., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato capo dell'Avvocatura Municipale Ma. An. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Br. La. e Fr. La., nella qualità di eredi di Er. La., rappresentati e difesi dall'avvocato Er. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Settima, n. 2719 del 2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e dei signori Br. La. e Fr. La., quali eredi del sig. Er. La.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2024, il Cons. Roberto Caponigro e uditi per le parti l'avvocato Ca. Er. e l'avvocato Ga. Ve., in sostituzione dell'avvocato Er. Ru.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La signora Gi. La. ha proposto dinanzi al Tar Campania ricorso per l'annullamento dei seguenti atti: a) l'atto del 28 maggio 2012, con cui il Dirigente del Settore Urbanistica - Ufficio Condono Edilizio del Comune di (omissis) ha rettificato il permesso di costruire in sanatoria n. 85 del 23 dicembre 2009; b) il permesso di costruire in sanatoria n. 85 del 23 dicembre 2009, rilasciato dal Dirigente del X Settore - Ufficio Condono Edilizio del Comune di (omissis) al sig. Er. La. per avere trasformato il locale garage del fabbricato di via (omissis) in n. (omissis) box auto e n. (omissis) cantinola, senza alterare gli aspetti esterni del fabbricato. La signora La. ha altresì proposto azione di condanna dell'Amministrazione resistente e della parte controinteressata al risarcimento dei danni nonché azione per il riconoscimento in proprio favore dell'adeguamento dell'area adibita a parcheggio dell'edificio di via (omissis), su cui esercita il diritto d'uso giudizialmente conseguito, in misura proporzionale allo standard previsto dalla normativa urbanistica vigente. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Settima, con la sentenza n. 2719 del 2021, ha così provveduto: - ha dichiarato il ricorso in parte irricevibile ed in parte inammissibile, nei sensi e nei termini di cui in motivazione; - ha respinto la domanda di risarcimento dei danni. Di talché, l'interessata ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli articoli 18 L. n. 765 del 1967, 35, comma 9, L. n. 47 del 1985 e 39 L. n. 724 del 1994. Contraddittorietà, carenza di istruttoria, in ordine alla irricevibilità per tardività . Eccesso di potere sotto altri profili. La decisione del primo giudice non avrebbe tenuto conto che la rettifica del 28 maggio 2012, successivamente esibita nel corso del processo civile, sarebbe stata regolarmente gravata nei termini, in quanto notificata alle controparti in data 2 agosto 2012. Non sarebbe comprensibile perché la ricorrente avrebbe dovuto conoscere il permesso a costruire del 2009 prima dell'adozione della rettifica dello stesso. Nella allegata CTP, già depositata nel giudizio di primo grado, si darebbe ampiamente conto che vi sono 13 unità immobiliari prive di posto auto, proprio perché il sig. La. non avrebbe riconosciuto ab origine il diritto ex art. 18 della legge n. 765 del 1967 (c.d. legge ponte). Ulteriore paradosso sarebbe dato dalla circostanza che per le 34 unità immobiliari previste nelle scale A e B dell'edificio, vi sarebbero 21 posti auto e 23 box, nonostante 13 unità immobiliari, in violazione di standard urbanistici a valenza pubblicistica, siano privi di posto auto. Le procedure di condono avrebbero di fatto consentito al sig. La. di locupletare, con la realizzazione di 22 box per un valore di circa Euro 2.000.000,00, a scapito e danno dei condomini dell'edificio, nonché a danno dell'Amministrazione che non ha neppure conseguito gli oneri di genere previsti. L'Amministrazione, dopo aver rilasciato il titolo abilitativo alla realizzazione dei 34 appartamenti, avrebbe omesso ogni verifica sul rispetto degli standard urbanistici presupposti e caratterizzanti l'edificazione, non realizzando nessun accesso sui luoghi dell'intervento edilizio e non controllando il rispetto dell'art. 18 della c.d. legge ponte, ancorché 13 unità immobiliari fossero prive di posto auto, mentre altre sarebbero munite sia di posto auto che di box; inoltre, 16 box sarebbero stati alienati a servizio di immobili esterni all'edificio di via (omissis). Tutto quanto rappresentato non potrebbe che inficiare i condoni edilizi richiesti ed ottenuti, in quanto, ai fini della regolarità urbanistica, avrebbe dovuto esserci congruenza tra le 34 unità immobiliari autorizzate con corrispettive 34 aree destinate a parcheggio dei veicoli, mentre, pur essendo state realizzate 44 aree destinate ai veicoli, 13 appartamenti sarebbero privi di tale requisito. Omessa valutazione di ambiti probatori. La sentenza sarebbe affetta da carenza motivazionale, incongruenza ed illogicità, laddove, pur essendo stata versata in atti una consulenza di parte che attesta le violazioni di tutti gli standard urbanistici correlati all'area garage, non darebbe conto delle macroscopiche violazioni sussumibili nei gravati condoni edilizi. La situazione prodotta a seguito degli abusi edilizi realizzati dal sig. La. sarebbe incompatibile con le prescrizioni ex art. 18 legge ponte. In sintesi: 1. Per gli appartamenti realizzati (n. 34), solo n. 21 hanno conseguito il posto auto con contratto integrativo giudizialmente accertato; 2. I box realizzati e di cui ai gravati condoni sono stati alienati anche a soggetti non facenti parte del compendio immobiliare realizzato; di contro, n. 13 appartamenti realizzati sono privi sia dello standard del posto auto ex art. 18 c.d. legge ponte e non hanno il corrispondente spazio auto. A fronte di tali macroscopiche violazioni, il Giudice di prime cure avrebbe omesso ogni valutazione. La signora La., pertanto, ha così concluso: 1) annullare i gravati atti con ogni altra e conseguente statuizione; 2) riconoscersi in favore della ricorrente l'adeguamento dell'area adibita a parcheggio dell'edificio di via (omissis) su cui esercita il diritto d'uso giudizialmente conseguito, in misura proporzionale allo standard previsto dalla normativa urbanistica vigente e di cui all'art. 18 Legge n. 765/1967; 3) condannarsi parte resistente e controinteressati e/o chi di ragione riterrà l'adito Consiglio al pagamento a titolo di minusvalenza delle proprietà immobiliari (appartamento sito in (omissis) alla via (omissis), piano (omissis), scala (omissis), Int. (omissis), composto da vani 5 ed accessori, millesimi 27,32) e del diritto d'uso giudizialmente conseguito al posto auto nella sua attuale ed insufficiente dimensione, ad un importo complessivo di Euro. 200.000,00 (duecentomila/00) e/o alla somma maggiore o minore che si riterrà di giustizia. Il Comune di (omissis) ed i signori La. hanno eccepito la carenza di contraddittorio nei confronti del Condominio via (omissis), con gli ulteriori condomini controinteressati, e, nel merito, hanno analiticamente contestato la fondatezza delle censure dedotte, concludendo per il rigetto del gravame. Le parti hanno depositato altre memorie a sostegno delle rispettive difese. All'udienza pubblica del 22 aprile 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. L'appello è infondato e va di conseguenza respinto. 3. Il giudice di primo grado ha così motivato la propria decisione. "Il ricorso è irricevibile per tardività, come già ritenuto da questa Sezione, in un caso del tutto ana, con sentenza n. 2607/2020. Infatti, come eccepito tanto dall'Amministrazione resistente quanto dalla parte controinteressata, la parte ricorrente, nel 2012, ha impugnato il permesso di costruire in sanatoria n. 85 reg. concessioni del 23.12.2009 e la rettifica al permesso stesso, del 28.05.2012. Orbene, come eccepito dalla parte controinteressata, non è verosimile che i ricorrenti non avessero avuto conoscenza del permesso di costruire del 2009 prima dell'adozione della rettifica allo stesso: e ciò sia per la vicinitas sia perché tra le parti vi è stato un lungo e complesso contenzioso anche dinanzi al giudice civile. In ogni caso, il ricorso non è fondato. Come si evince dalla documentazione depositata dal Comune di (omissis) in data 22.06.2016, il Responsabile dell'Ufficio Condono ha espressamente rappresentato che "a tal proposito è stato effettuato raffronto tra il grafico allegato alla perizia dell'Ing. Gu. e quello allegato al permesso di costruire in sanatoria. Da detto raffronto è emerso che i boxes realizzati dal Sig. La. devono ritenersi situati al di fuori delle superfici riconosciute dal tribunale e per l'effetto non privano i condomini dei propri diritti. Per l'effetto, deve essere considerato corretto il rilascio del permesso di costruire in sanatoria impugnato con il ricorso in oggetto". L'irricevibilità, e comunque l'infondatezza, della domanda impugnatoria comporta anche il rigetto della domanda risarcitoria, ex art. 30 comma 3 c.p.a.: in tal senso Cons. Stato Sez. V, 01/12/2014, n. 5917. È, infine, inammissibile la domanda con cui la parte ricorrente chiede il riconoscimento dell'adeguamento delle aree adibite a parcheggio dell'edificio di Via (omissis) su cui esercitano il diritto d'uso giudizialmente conseguito, in misura proporzionale allo standard previsto dalla normativa urbanistica vigente e di cui all'art. 18 Legge n. 765/1967. La domanda in questione appare finalizzata a tutelare un diritto soggettivo e non un interesse legittimo; in ogni caso, è una domanda di mero accertamento, posta al di fuori dei limiti fissati dal c.p.a., e dunque è inammissibile". 4. Il Collegio ritiene che la domanda centrale proposta dalla signora La., in quanto in essa si manifesta in modo più percepibile l'interesse individuale al conseguimento di un bene della vita in forma specifica, sia la richiesta di accertamento in suo favore dell'adeguamento dell'area adibita a parcheggio. In proposito, deve essere confermata la statuizione di inammissibilità pronunciata dal Tar. La giurisdizione di legittimità, infatti, si caratterizza per essere la ordinaria forma di tutela dell'interesse legittimo chiesta al giudice amministrativo, quale giudice naturale dell'esercizio della funzione pubblica, vale a dire è l'ordinaria forma di tutela della posizione giuridica soggettiva che "dialoga" con l'esercizio del potere pubblico, mentre l'azione di accertamento è solitamente relativa ai casi in cui si controverta su diritti ed oneri patrimoniali discendenti da norme generali, ove, non essendovi contrapposizione con l'esercizio di potere amministrativo autoritativo, la domanda di tutela è esercitabile dinanzi al giudice amministrativo esclusivamente nelle materie ad esso attribuite dalla legge in giurisdizione esclusiva. L'azione di accertamento dell'interesse legittimo, invece, sia pure non espressamente contemplata dal sistema normativo, è in genere ritenuta ammissibile ove la stessa rappresenti l'unica modalità di tutela della posizione soggettiva, e cioè nel caso in cui le azioni tipizzate non soddisfino in modo pieno i bisogni di tutela. Ne consegue - essendo qualificabile come diritto soggettivo la posizione giuridica dedotta nel presente giudizio e non rientrando la fattispecie controversa nell'ambito della giurisdizione amministrativa esclusiva, venendo in risalto una contrapposizione tra privati che, per quanto attiene all'accertamento dell'estensione del diritto d'uso dell'area adibita a parcheggio, rimane al di fuori dell'esercizio del potere amministrativo - risulta condivisibile l'assunto del giudice di primo grado secondo cui è inammissibile la domanda con cui la parte ricorrente ha chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento dell'adeguamento delle aree adibite a parcheggio dell'edificio di Via (omissis) su cui è esercitato il diritto d'uso giudizialmente conseguito, in misura proporzionale allo standard previsto dalla normativa urbanistica vigente di cui all'art. 18 Legge n. 765/1967, in quanto la domanda è finalizzata a tutelare un diritto soggettivo. Il riconoscimento giudiziale del diritto d'uso, d'altra parte, è avvenuto in esito ad un contenzioso dinanzi al giudice civile. Né è dato comprendere in che modo la violazione dei diritti sia stata riconosciuta, in un caso sovrapponibile, da altra sentenza del Tar per la Campania n. 2607 del 2020. 5. L'art. 18 della c.d. legge ponte (legge n. 765 del 1967) ha previsto che, nelle nuove costruzioni, debbano essere riservati appositi spazi a parcheggio, con la finalità di mantenere una data proporzione tra la cubatura edificata e i parcheggi disponibili; la libera trasferibilità di tali spazi, in origine esclusa, è stata ammessa solo con le modifiche normative introdotte dalla legge n. 246 del 2005. Tuttavia, le doglianze proposte avverso la decisione del primo giudice in ordine alle proposte azioni di annullamento del permesso di costruire in sanatoria del 2009 e della successiva rettifica del 2012 sono da disattendere. In primo luogo, una volta escluso che il giudice adito possa pronunciarsi sulla domanda di accertamento all'ampliamento dell'area adibita a parcheggio spettante all'appellante, le censure di annullamento, in un sistema caratterizzato dalla giurisdizione soggettiva, a tutela di interessi individuali, assumono un aspetto volto più a dimostrare l'oggettiva illegittimità dell'azione amministrativa che il vantaggio derivante all'appellante dall'accoglimento dell'azione, atteso che risulta poco comprensibile quale sia il "bene della vita" che, a titolo personale, la signora La. potrebbe conseguire dall'eventuale accoglimento delle azioni di annullamento, in presenza di un diritto all'uso dell'area adibita a parcheggio che, accertato in suo favore dal giudice civile, come detto, non può costituire oggetto di ulteriore accertamento o ampliamento in questa sede. In altri termini, ritenuto che l'interesse individuale all'ampliamento della propria area di parcheggio non può costituire oggetto di tutela nel presente giudizio, è difficilmente percepibile quale interesse individuale possa coltivare la ricorrente di primo grado all'annullamento del permesso di costruire in sanatoria ed alla relativa rettifica rilasciate dal Comune di (omissis) al signor La.. Peraltro, pur condividendo le perplessità esposte nell'atto di appello quanto alla prova della data di piena conoscenza della lesività del permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 15 dicembre 2009, non individuata in un preciso momento temporale ma sulla base di deduzioni controvertibili, occorre evidenziare come la rettifica al permesso di costruire in sanatoria non produca alcun effetto lesivo nei confronti della signora La.. Infatti, il provvedimento in discorso ha rettificato il permesso in sanatoria del 23 dicembre 2009 con esclusivo riferimento agli oneri concessori e costo di costruzione che, erroneamente, erano stati in origine considerati non dovuti in quanto realizzati (rectius: maturati) prima del 1967, mentre, con l'atto successivo, sono stati considerati non dovuti "in quanto trattasi di demolizione e ricostruzione di preesistente edificio, giusta concessione edilizia n. 127 del 13.09.1971 e che l'anno di ultimazione dei lavori di trasferimento del garage in box, deve intendersi 1976". Di talché, da un lato, la rettifica ha prodotto un esito non certo lesivo, ma del tutto indifferente per la ricorrente di primo grado, dall'altro, per tutto il resto, vale a dire per tutto quanto concerne il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, l'atto costituisce una mera conferma del permesso in sanatoria del 23 dicembre 2009 e non ha alcuna natura provvedimentale. Inoltre, occorre convenire anche con la valutazione di merito espressa dal Tar, il quale ha correttamente posto in rilievo che, come emerge dalla nota, in data 22 giugno 2016, del Comune di (omissis), Settore Urbanistica Ufficio Condono, indirizzata all'Ufficio Legale, dal raffronto tra il grafico allegato alla perizia dell'ing. Gu. e quello allegato al permesso di costruire in sanatoria, "i boxes realizzati dal sig. La. devono ritenersi situati al di fuori delle superfici riconosciute dal Tribunale e per l'effetto non privano i condomini dei propri diritti". Tale nota del 22 giugno 2016 costituisce la risposta alla nota del 18 aprile 2016, con cui l'Avvocatura Municipale aveva chiesto di conoscere se i boxes, di cui al permesso di costruire n. 85/2009 e successiva rettifica e conferma n. 20/2012, erano stati realizzati nell'ambito delle superfici assegnate alla disponibilità del sig. La. senza intaccare quelle assegnate ai condomini dal giudice civile. In conclusione, le doglianze proposte in appello concernenti le azioni di annullamento del permesso di costruire in sanatoria del 2009 e della successiva rettifica del 2012 devono essere complessivamente respinte, in quanto in alcun caso potrebbero condurre all'accoglimento delle impugnazioni proposte in primo grado. 6. Le censure relative al rigetto della domanda risarcitoria devono essere ugualmente respinte, in quanto, non essendo stata dimostrata l'illegittimità dell'azione amministrativa, difetta in radice il l'essenziale presupposto dell'illecito aquiliano. 7. In definitiva, l'appello deve essere respinto in quanto infondato. 8. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in Euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell'appellante ed a favore del Comune di (omissis) (per Euro 2.000,00) e dei signori Br. e Fr. La. (per complessivi Euro 2.000,00). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l'appello in epigrafe (R.G. n. 6670 del 2021). Condanna la parte appellante al pagamento delle spese del giudizio, liquidate complessivamente in Euro 4.0000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge, in favore del Comune di (omissis) (per Euro 2.000,00) e dei signori Br. e Fr. La. (per complessivi Euro 2.000,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2024, con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere, Estensore Thomas Mathà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 402 del 2022, proposto da: Im. Co. di Br. Gi. & C. s.n. c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ra. As., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Cl. Bo., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione Terza, n. 00835/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 marzo 2024 il Cons. Francesco Cocomile; Vista le istanze di passaggio in decisione senza discussione della società appellante e del Comune appellato; Per le parti nessun difensore è presente; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. - Con atto del 30 dicembre 2002 la società Co. acquistava da C. un compendio immobiliare sito in (omissis) lungo la via (omissis), costituito da un terreno edificabile e dal fabbricato in esso insistente in corso di costruzione. In forza della deliberazione del Consiglio comunale n. 129 del 19 luglio 1993 il compendio immobiliare de quo era in origine destinato ad accogliere la sede legale di C., la quale, dopo aver realizzato il fabbricato, avrebbe ceduto a titolo gratuito al Comune di (omissis) un'area di 4.385 mq per sedi stradali, parcheggi e verde pubblico. C. aveva presentato il progetto, ottenuto la concessione edilizia n. 2923/1995 e aveva quindi avviato i lavori. In seguito al mutamento del quadro normativo di riferimento dei servizi di distribuzione del gas e dell'acqua, C. aveva avviato la ridefinizione del proprio assetto organizzativo, con conseguente trasformazione del consorzio in società di capitali e cessione di rami d'azienda ad altre società . La progettata sede istituzionale di via (omissis) era così risultata non più funzionale al nuovo assetto, tanto da indurre la nuova società a sospendere i lavori di realizzazione della sede sociale e a ricercare potenziali acquirenti dell'immobile in questione. Con delibera n. 220 del 10 dicembre 2002 il Consiglio comunale di (omissis), preso atto di quanto sopra, aveva accolto la richiesta di C. finalizzata a consentire l'alienazione dell'immobile in vista del suo completamento ed utilizzo da parte di un acquirente, già individuato, operante nel settore del commercio di autoveicoli. Con la stessa delibera consiliare il Comune di (omissis) si impegnava a verificare, nell'ambito degli studi a quell'epoca in corso per l'elaborazione del nuovo piano regolatore generale, la sussistenza delle condizioni per il superamento della vigente "destinazione speciale per standards" dell'area in questione, in coerenza con i contenuti dello schema di convenzione in approvazione con la stessa delibera, e a gestire la fase transitoria, nelle more della definizione della nuova disciplina urbanistica, mediante il rilascio di un'autorizzazione a carattere temporaneo ai sensi dell'art. 6 delle NTA del PRG vigente, finalizzata al completamento dell'opera ed al suo utilizzo a destinazione mista "artigianale/commerciale/direzionale". Inoltre, con la medesima delibera n. 220/2002 l'Amministrazione comunale confermava l'obbligo, posto a carico di C., relativo alla cessione gratuita delle aree destinate a viabilità, parcheggi e verde pubblico e delle opere di urbanizzazione previste, stabilendo che, a fronte dei benefici derivanti dall'atto deliberativo, C. avrebbe dovuto versare nelle casse comunali, prima del rilascio dell'autorizzazione a carattere temporaneo, l'importo forfettario di Euro 410.000,00. In data 24 dicembre 2002 veniva pertanto stipulata tra il Comune di (omissis) e C. la convenzione relativa alle modalità di completamento e di utilizzo dell'immobile in corso di realizzazione, il cui schema era stato approvato con la deliberazione consiliare sopra richiamata. Con detta convenzione C. si obbligava, per sé e per i suoi aventi causa, a corrispondere al Comune di (omissis), al momento del rilascio dell'autorizzazione a carattere temporaneo, la somma forfettaria di Euro 410.000,00 "quantificata basandosi sul calcolo presunto di ipotetici oneri concessori che sarebbero dovuti in relazione al definitivo riconoscimento del cambio di destinazione dell'immobile", restando "inteso che tale somma assolve, salvo conguaglio in caso di maggiore importo dovuto, all'eventuale futuro contributo per oneri concessori da corrispondere al Comune qualora il nuovo Piano Regolatore Generale riconoscesse all'immobile di cui trattasi la destinazione d'uso momentaneamente consentita a mezzo della citata autorizzazione amministrativa a carattere temporaneo". All'atto della compravendita dell'immobile Co. si faceva carico dell'onere economico dell'impegno di C. nei confronti del Comune da ultimo ricordato, una parte del quale - nella misura di Euro 25.000,00 - veniva poi assolta mediante realizzazione a scomputo del collettore fognario di collegamento al depuratore di (omissis). L'obbligo di C. nei confronti del Comune di (omissis) relativo al contributo forfettariamente quantificato in Euro 410.000,00 era espressamente assunto da Co. "salvo conguaglio in caso di maggiore importo dovuto al momento del rilascio dell'autorizzazione definitiva". Co. confermava l'impegno al rispetto della convenzione stipulata tra C. e il Comune di (omissis) anche nell'istanza di autorizzazione temporanea presentata il 15 aprile 2003. Il Comune di (omissis) con provvedimento n. 7 del 7 agosto 2003 autorizzava a titolo provvisorio la società Co. all'esecuzione delle opere di completamento e all'utilizzo dell'immobile con destinazione mista artigianale/commerciale/direzionale. L'efficacia temporale dell'autorizzazione era limitata a due anni a decorrere dalla data del suo rilascio e il titolo avrebbe potuto essere rinnovato a seguito di formale richiesta dell'interessato da inoltrare entro 60 giorni dalla data di scadenza. In caso di mancato rinnovo o di revoca, l'interessato avrebbe dovuto procedere nei 60 giorni successivi alla rimozione dei manufatti e al ripristino dello stato dei luoghi. Con delibera consiliare del 19 febbraio 2007 il Comune di (omissis) approvava il nuovo regolamento urbanistico; in forza del quale il compendio immobiliare di cui si discute ricade in zona classificata "tessuto produttivo saturo", all'interno del quale sono ammesse le destinazioni d'uso artigianale, direzionale e commerciale. Con domanda del 15 luglio 2008 Co. chiedeva al Comune di (omissis) l'attestazione di conformità in sanatoria per opere in difformità rispetto alla concessione edilizia n. 2923/1995 e all'autorizzazione temporanea n. 7/2003 per "completamento e cambio di destinazione del complesso edilizio Co." in via (omissis). Nella stessa istanza la società confermava ulteriormente l'impegno al rispetto della convenzione stipulata tra C. e il Comune di (omissis) in data 24 dicembre 2002. Il Comune riscontrava l'istanza da ultimo citata con la nota prot. n. 46532 del 21 dicembre 2012, con la quale comunicava che la definizione della pratica era subordinata al versamento, da parte di Co., dei contributi di cui al Titolo VII della legge regionale n. 1/2005 e dell'oblazione di cui all'art. 140, comma 4, della medesima legge, determinata secondo i criteri stabiliti dalla deliberazione della Giunta comunale n. 239/2005. Con detta nota l'Amministrazione invitava, pertanto, Co. al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, previo conguaglio con gli oneri afferenti all'autorizzazione temporanea già assolti nella misura di Euro 410.000,00, nell'importo di Euro 73.982,59 (risultante dalla somma degli oneri di urbanizzazione primaria per Euro 37.643,49, degli oneri di urbanizzazione secondaria per Euro 17.820,55 e del contributo di costruzione per Euro 18.518,56), e dell'oblazione nella misura di Euro 150.853,60 (di cui Euro 516,00 per opere eseguite in difformità dal titolo abilitativo ed Euro 150.337,60 per mancato ripristino delle opere di completamento e della destinazione pubblica del complesso edilizio). Con nota del 10 gennaio 2013 Co. contestava la quantificazione dell'oblazione per mancato ripristino della destinazione ad attrezzatura pubblica del complesso edilizio e chiedeva lo stralcio del relativo importo. Seguiva la risposta con nota prot. n. 6346 dell'8 febbraio 2013, con la quale l'Amministrazione richiamava i criteri stabiliti dalla delibera di Giunta comunale n. 239/2005 e rilevava che il versamento dell'oblazione era dovuto per il mancato ripristino della destinazione ad attrezzatura pubblica alla scadenza dell'autorizzazione temporanea n. 7/2003 e che pertanto, pur sussistendo le condizioni per la sanatoria, la mancata corresponsione dell'oblazione e dei contributi, così come determinati nella nota del 21 dicembre 2012, doveva ritenersi ostativa al rilascio del titolo abilitativo. 2. - Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. Toscana la società Co. impugnava le due menzionate note del Comune prot. n. 46532 del 21 dicembre 2012 e prot. n. 6346 dell'8 febbraio 2013 e ne chiedeva l'annullamento per violazione dell'art. 140 e del Titolo VII della legge regionale n. 1/2005 sotto molteplici profili e per eccesso di potere per difetto dei presupposti e violazione del principio del legittimo affidamento. In particolare deduceva i seguenti vizi: "... I. VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI e VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO; II. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI; III. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI; IV. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI; ...". In via subordinata, in caso di rigetto della domanda di annullamento del provvedimento con cui l'Amministrazione resistente aveva determinato l'oblazione dovuta dalla società ricorrente, quest'ultima invocava la condanna del Comune di (omissis) al risarcimento o all'indennizzo dei danni in misura pari a quella della stessa oblazione che la società sarà costretta a pagare per l'accertamento di conformità del mutamento di destinazione d'uso del fabbricato. 3. - L'adito Tribunale con la sentenza segnata in oggetto, nella resistenza della intimata Amministrazione comunale, respingeva i motivi di ricorso proposti avverso i provvedimenti impugnati e dichiarava inammissibile la domanda di condanna dell'Amministrazione resistente al risarcimento o indennizzo del danno per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo adito e rimetteva su di essa le parti dinnanzi al Giudice ordinario dichiarato munito di giurisdizione. 4. - Con rituale atto di appello la Im. Co. di Br. Gi. & C. s.n. c. chiedeva la riforma della sentenza per i seguenti motivi: "... I. VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER SVIAMENTO, PER CONTRADDITTORIETA', PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI e VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO; II. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI; III. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI e PER IRRAGIONEVOLEZZA MANIFESTA; IV. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI LEGGE (art. 140 e Titolo VII della Legge Regionale Toscana n. 1/2005; principi desumibili). ULTERIORE ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DEI PRESUPPOSTI e PER VIOLAZIONE e/o FALSA APPLICAZIONE DELLA REGOLA DEL TEMPUS REGIT ACTUM; V. ULTERIORE VIOLAZIONE e/o ERRONEA APPLICAZIONE DI 22 LEGGE (artt. 7 e 133 del D.Lgs. 02.07.2010, n. 104; principi desumibili)....". 5. - Resisteva al gravame il Comune di (omissis), chiedendone il rigetto. 6. - All'udienza pubblica del 12 marzo 2024, dopo la rituale discussione, la causa passava in decisione. 7. - I motivi di appello sub I), II), III) e IV) vanno respinti in quanto infondati. 7.1. - In ordine al primo motivo di appello si rileva quanto segue. Secondo l'appellante Immobiliare Co. la decisione del Giudice di primo grado sarebbe illegittima laddove ha ritenuto che l'autorizzazione temporanea n. 7/2003 fosse scaduta con il decorso del termine di validità biennale previsto dalla stessa, anziché considerarla efficace fino all'entrata in vigore del nuovo strumento urbanistico. La sentenza appellata sarebbe, infatti, fondata sull'erroneo convincimento che il procedimento seguito dal Comune di (omissis) sia stato quello dell'art. 6 delle N.T.A. del PRG, quando in realtà "secondo lo schema procedimentale confezionato ad hoc dall'organo consiliare (ndr: con la delibera n. 220/2002), dopo l'entrata in vigore della normativa di governo del territorio che avesse reso conforme la destinazione d'uso privato, il titolo legittimante quest'ultima in via definitiva sarebbe stato quello rilasciato originariamente solo in via temporanea, il quale avrebbe acquisito in maniera automatica efficacia stabile senza necessità di essere sostituito da altro titolo" (cfr. pagg. 12 e 13 dell'atto di appello). Un iter, quello sopra delineato, che sarebbe confermato - secondo la prospettazione dell'appellante - dal fatto che, considerata la natura giuridica di diritto privato della società proprietaria dell'immobile, questa non avrebbe mai potuto ripristinare la destinazione d'uso pubblico del complesso immobiliare una volta scaduta l'autorizzazione. Di qui, l'asserita legittimità del mutamento di destinazione d'uso dell'immobile e l'illegittimità dell'oblazione. Il motivo di appello non è, tuttavia, meritevole di positivo apprezzamento. Invero, con la citata delibera n. 220/2002 il Consiglio comunale si è limitato ad autorizzare la vendita dell'immobile da parte di C. a un soggetto privato operante nel settore del commercio degli autoveicoli nella prospettiva (plausibile, ma tutta da verificare in sede di redazione del nuovo strumento urbanistico) di trasformare la destinazione dell'area da "area a destinazione speciale per standard" ad area con "destinazione commerciale/artigianale/direzionale", al fine di evitare il degrado urbanistico derivante dall'interruzione dei lavori e dall'abbandono dell'intervento. L'organo consiliare, nell'esercizio delle proprie funzioni, ha dunque espresso l'interesse pubblico sottostante all'operazione immaginata dalla propria società partecipata e ha indicato l'autorizzazione temporanea quale strumento utile a consentire il completamento dell'edificio e il suo utilizzo artigianale/commerciale/direzionale nelle more della definizione di una nuova disciplina urbanistica dell'area. Al tempo stesso il Consiglio comunale ha lasciato ai competenti organi (il Sindaco) la definizione in concreto dei contenuti di tale provvedimento autorizzatorio, ivi compresa, in particolare, la sua durata temporanea, in conformità all'art. 6 delle N.T.A. del PRG all'epoca vigente (in forza del quale: "È facoltà del Sindaco (dell'Assessore delegato), per comprovati motivi di necessità e/o per esigenze di carattere pubblico o generale, di consentire la realizzazione di interventi e manufatti aventi caratteri di temporaneità, facilmente reversibili, anche se non conforme la disciplina del vigente P.R.G.C. La relativa autorizzazione amministrativa a carattere temporaneo dovrà indicare con precisione i propri termini temporali di validità, ed è comunque subordinata alla produzione di apposito atto unilaterale d'obbligo debitamente registrato e trascritto, e di idonee garanzie fideiussorie per la rimozione dei manufatti e la rimessa in pristino dello stato dei luoghi, cui dovrà provvedere a sua cura e spese l'interessato scaduti i termini dell'autorizzazione"). Ciò premesso, poiché l'Amministrazione comunale ha ritenuto di rilasciare l'autorizzazione (n. 7/2003) soltanto "per un periodo di anni 2", decorrenti dal 7 agosto 2003 (data di rilascio), e di consentirne il rinnovo da subordinarsi all'"insindacabile giudizio dell'Amministrazione" e comunque "a seguito di formale richiesta da inoltrare entro 60 giorni dalla data di scadenza", in nessun modo è possibile sostenere, senza invadere il riparto di competenze sopra descritto, che la citata autorizzazione n. 7/2003, in mancanza di una richiesta di rinnovo da parte della società Co. e del suo accoglimento da parte del Comune, potesse avere una validità diversa o addirittura (come si legge nell'atto di appello) che abbia acquisito efficacia stabile per il solo fatto (cioè "automaticamente") che il nuovo regolamento urbanistico comunale ha consentito il mutamento di destinazione d'uso dell'immobile, al punto da non rendere nemmeno necessario un nuovo titolo edilizio. Né depone a favore della tesi sostenuta dalla parte appellante l'affermazione secondo la quale lo schema procedimentale tracciato dal Consiglio comunale - "in quanto atipico ed abnorme" (cfr. pag. 13 dell'atto di appello) - non sarebbe riconducibile all'art. 6 delle N.T.A. del PRG, in ragione: a) dell'asserita impossibilità, alla scadenza dell'autorizzazione temporanea, di ripristinare la destinazione d'uso pubblico, stante la natura privatistica della società proprietaria; b) della mancata sottoscrizione di un atto unilaterale d'obbligo da parte della società contenente l'impegno al ripristino dello status quo ante; c) nonché, infine, della mancanza di una fideiussione a garanzia del ripristino. Il principio di tipicità degli atti amministrativi - espressione a sua volta del principio di legalità, cui soggiace l'azione amministrativa - impone di ricondurre l'esercizio del potere pubblico e il suo contenuto ad una norma di riferimento, disposizione che, all'epoca dei fatti oggetto del presente giudizio, ai fini del rilascio del titolo edilizio era costituita, in via ordinaria, dalla legge statale e regionale in materia di governo del territorio e, in via straordinaria (e comunque solo temporanea), dall'art. 6 delle N.T.A. del PRG. Ne discende l'impossibilità di configurare un ulteriore tertium genus procedimentale, come ipotizzato dalla parte appellante. Del resto, se è vero che il citato art. 6 delle N.T.A. del PRG contempla un titolo abilitativo "atipico" in materia edilizia, è pur vero che le ipotesi di atipicità - in quanto derogatorie dei principi sopra richiamati - non possono che essere previste dall'ordinamento e che le relative disposizioni devono essere di stretta interpretazione. Né rilevano le ulteriori argomentazioni della difesa della ditta Co. a sostegno della tesi secondo cui l'autorizzazione n. 7/2003 non sarebbe riconducibile all'art. 6 delle N.T.A. del PRG. Sul punto va in primis rilevato che la destinazione d'uso pubblico prescinde dalla natura pubblica o privata del soggetto titolare dell'immobile (si veda Cass. civ., Sez. VI, ord. 17 luglio 2017, n. 17683; Cass. civ., Sez. trib, 7 dicembre 2016, n. 25134; e nello stesso senso, anche se con riferimento alle strade, Cass., Sez. II, ord. 5 giugno 2018, n. 14367), tant'è che nelle aree a standard gli interventi sono riservati in via primaria - ma non esclusiva - all'Amministrazione, ben potendo essere realizzati anche dall'attuatore privato purché ne sia rispettata la finalità pubblica. Ed infatti la stessa C., originaria proprietaria e dante causa della ditta appellante, era stata trasformata in società per azioni - soggetto, quindi, di diritto privato - già prima della sottoscrizione della convenzione del 24 dicembre 2002 con il Comune di (omissis). In secondo luogo va rimarcato che l'atto unilaterale d'obbligo e la fideiussione (che comunque era stata acquisita, come comunicato da Co. con nota del 31 luglio 2003), non sono elementi integrativi della validità dell'autorizzazione temporanea, ma al più della sua efficacia, la cui mancanza, quindi, non muta la natura giuridica dell'istituto di cui al richiamato art. 6 delle N.T.A. Considerato quanto sopra, non si può che concludere per la correttezza in parte qua della sentenza di primo grado e, prima ancora, per la legittimità dell'applicazione, da parte dell'Amministrazione comunale con la censurata nota prot. n. 46532 del 21 dicembre 2012, dell'oblazione di cui all'art. 140, comma 4, della legge regionale n. 1/2005 all'epoca vigente, "dovuta al mancato ripristino della destinazione ad attrezzatura pubblica del complesso edilizio e relative opere di completamento ad avvenuta scadenza dell'Autorizzazione Temporanea n. 7 del 7/08/2003, risultando riconducibile alla categoria d'intervento della ristrutturazione edilizia" (cfr. pag. 3 della citata nota del 21 dicembre 2012). 7.2. - Con il secondo motivo di appello la società Co. sostiene che il T.A.R. Toscana avrebbe errato anche laddove, confermando la legittimità dell'importo richiesto dal Comune a conguaglio del costo di costruzione, avrebbe omesso di considerare la natura sovraordinata della delibera di Consiglio n. 220/2002, la quale - sempre ad avviso dell'appellante - poneva a carico di C. il pagamento del solo importo forfettario di Euro 410.000,00, senza la previsione di alcun conguaglio, che sarebbe stato introdotto solo con le successive pattuizioni convenzionali. Anche tale motivo va disatteso. Al riguardo deve osservarsi che tra la delibera di Consiglio comunale (n. 220 del 10 dicembre 2002) e la convenzione urbanistica siglata in data 24 dicembre 2002 non sussiste alcun rapporto gerarchico; semmai è rinvenibile un rapporto di presupposizione, frutto del riparto di competenze tracciato dal T.U.E.L. (dlgs n. 267/2000), tale per cui il dirigente, nella sua qualità di rappresentante dell'Amministrazione, non può sottoscrivere la convenzione in assenza dell'atto consiliare che ne definisca i contenuti essenziali. Tale rapporto, tuttavia, non preclude alle parti, e in particolare al privato, di assumere impegni/obblighi ulteriori se rispettosi della sostanza e della ratio dell'atto deliberativo, e in particolare dell'interesse pubblico che questo si prefigge. In ogni caso, l'assunto sostenuto dalla società appellante non considera che con la citata delibera n. 220/2002 il Consiglio comunale, al punto 5, ha approvato "quale parte integrante e sostanziale" lo schema di convenzione contenente le modalità e le pattuizioni relative al completamento e all'utilizzo dell'immobile in questione e che tale schema, all'art. 3, comma 2, già prevedeva espressamente il "conguaglio in caso di maggiore importo dovuto" a titolo di oneri concessori, forfettariamente determinati (al comma 1) in Euro 410.000,00, per il caso in cui il nuovo strumento urbanistico comunale "riconoscesse all'immobile di cui trattasi la destinazione d'uso momentaneamente consentita a mezzo della citata autorizzazione a carattere temporaneo". In ogni caso va rilevato che - con la sottoscrizione della convenzione prima e con la nota del 31 luglio 2003 poi - è la stessa appellante ad aver accettato e riconosciuto che l'importo di Euro 410.000,00 corrispondeva solo "al calcolo presunto" degli oneri concessori in relazione al cambio di destinazione d'uso dell'immobile e che avrebbe potuto rendersi necessario il successivo conguaglio. 7.3. - Con il terzo motivo di appello la società Co. evidenzia che la sentenza appellata sarebbe illegittima anche laddove ha respinto la propria pretesa di veder in ogni caso scomputato, dalla somma dovuta a conguaglio del costo di costruzione, il valore delle opere di urbanizzazione realizzate, sul presupposto che tale diritto sorgerebbe solo dopo il collaudo di tali opere e la loro acquisizione al patrimonio comunale. Secondo la prospettazione della società appellante, infatti, il diritto di scomputo "... sussiste ed è esercitabile mediante compensazione a prescindere dal collaudo e dalla cessione gratuita in questione, giacché, in ipotesi di inadempimento del concessionario all'obbligo di esecuzione dell'urbanizzazione pattuita, l'Amministrazione comunale può tutelare i propri diritti e interessi attraverso un'azione di adempimento in forma specifica e, come noto, è ad ogni buon conto pienamente garantita da una apposita fidejussione, che anche in questo caso, così come in tutte le fattispecie analoghe alla presente, è stata prestata dall'odierna appellante" (cfr. pag. 19 dell'atto di appello). La censura deve essere respinta. Invero, come accertato dal Giudice di prime cure, la società appellante non ha mai presentato alcun progetto relativo alle presunte opere di urbanizzazione realizzate, su cui l'Amministrazione potesse esprimere la propria approvazione, né è mai stata sottoscritta al riguardo alcuna convenzione. Ne deriva l'impossibilità di riconoscere ulteriori opere a scomputo e di abbattere il valore degli oneri ancora dovuti, stante la mancanza di documentazione idonea a dimostrare le opere effettivamente eseguite e i costi sostenuti, a prescindere, quindi, da ogni ragionamento in ordine alla necessità che il diritto di scomputo richieda o meno il preventivo collaudo delle opere realizzate. Sul punto Cons. Stato, Sez. IV, 27 aprile 2015, n. 2121 ha evidenziato: "... Punto nodale della controversia, come specifica il Comune appellato, è la natura giuridica da attribuire al computo metrico presentato dall'appellante in data 31.8.2010 e sulla base del quale il Comune ha determinato il conguaglio spettante alla società, da essa contestato sul "quantum". In particolare si tratta di stabilire se successivamente al collaudo dei lavori necessari per realizzare l'opera di urbanizzazione ed ai fini della determinazione degli oneri dovuti, può assumere rilievo una contabilità diversa da quella assunta a base del collaudo. Alla questione ritiene il Collegio debba darsi esito negativo. Al riguardo occorre muovere dal principio, chiaramente recepito dal comma 2 dell'art. 16 del dpr n. 380/2001, per cui il diritto allo scomputo dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta dal costruttore sorge alla "realizzazione delle opere" di che trattasi. È inoltre principio generale (ex art. 190 d.p.r. n. 207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui viene certificata la loro regolare esecuzione, che segna anche la chiusura della relativa contabilità . Dallo stesso momento deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo scomputo delle somme spese per lavori di urbanizzazione, sul cui importo possono insorgere divergenze dipendenti dalla contabilizzazione delle opere (le c.d. "riserve" che l'impresa ha l'onere di presentare nei termini di legge la cui inosservanza produce decadenza (cfr. Cass. n. 14381/2000), ma certamente non sorge la facoltà dell'impresa di presentare "ad libitum" nel tempo una ulteriore contabilità dei lavori....". Del resto, è solo a seguito del collaudo che attesti la regolare esecuzione che l'Amministrazione, ai sensi dell'art. 16, comma 2, d.p.r. n. 380/2001, può acquisire al proprio patrimonio indisponibile la proprietà delle opere di urbanizzazione realizzate dal privato e quindi procedere - senza altrimenti incorrere nel rischio di un danno erariale - al relativo scomputo sulla base del valore certificato in sede di collaudo. Infatti, il citato comma 2 dell'art. 16 d.p.r. n. 380/2001 prevede che "La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune.". La sentenza appellata merita, pertanto, di essere confermata anche sotto questo ulteriore profilo. 7.4. - Con il quarto motivo la ditta appellante afferma che il T.A.R. avrebbe errato anche laddove ha ritenuto legittima la decisione del Comune di applicare, ai fini del calcolo del costo di costruzione e dell'oblazione, le tabelle vigenti alla data di adozione dei provvedimenti impugnati (2012), invece di far uso di quelle vigenti al momento dell'approvazione del regolamento urbanistico (2007) per l'eventuale conguaglio del contributo di costruzione e di quelle vigenti all'epoca (2008) della presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 140 della legge regionale n. 1/2005 per l'eventuale oblazione. La difesa della società sostiene in particolare: - quanto al conguaglio del costo di costruzione, che questo non soggiacerebbe al principio del tempus regit actum, dal momento che la fonte della sua eventuale debenza non sarebbe da ravvisarsi nel rilascio della sanatoria, bensì nell'approvazione delle relative tariffe con il regolamento urbanistico del 2007, che tuttavia, alla data di rilascio dell'autorizzazione provvisoria n. 7/2003, non erano ancora disponibili; - quanto all'oblazione, che il riferimento temporale corretto sarebbe quello della presentazione della domanda di sanatoria, atteso che altrimenti si addosserebbe sulla società il ritardo dell'Amministrazione nell'evadere la richiesta di sanatoria. Anche questo ulteriore motivo deve essere disatteso sotto tutti i profili dedotti. In primo luogo va osservato che il T.A.R. Toscana - nel confermare la legittimità dei provvedimenti impugnati anche in ordine ai criteri di calcolo del contributo di costruzione e dell'oblazione applicati - ha correttamente applicato i principi da tempo affermati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato. Infatti, è stato precisato che "... Per giurisprudenza assolutamente costante e pacifica di questo Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi (da ultimo, Sez. VI, sentenze nn. 2341/2023 e 2343/2023), "il principio per il quale gli oneri concessori vanno determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria, e non a quello della presentazione della domanda, trova fondamento, in primo luogo, nell'applicazione del principio tempus regit actum, perché è soltanto con l'adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere (cfr. Cons. St., sez. II, 19/02/2021, n. 1485; Id., sez. II, 17/11/2020, n. 7124; Id., sez. II, 27/04/2020, nn. 2667 e 2680; Id., sez. VI, 2/07/2019, n. 4514)"...." (cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 17 luglio 2023, n. 6930). Né è meritevole di positivo apprezzamento la tesi sostenuta dalla società appellante secondo cui, adottando tale criterio anche per il calcolo dell'oblazione, si addosserebbero sulla parte istante le conseguenze del ritardo dell'Amministrazione nel rilascio della sanatoria. E ciò sia perché, stante il configurarsi del silenzio-rifiuto sull'istanza di sanatoria in caso di mancata pronuncia nel termine di 60 giorni da parte dell'Amministrazione, ai sensi dell'art. 140, commi 3, 4 e 6, della legge regionale n. 1/2005, non è possibile che si configuri alcun ritardo nella definizione del procedimento che comporti l'applicazione di un'oblazione maggiore rispetto a quella altrimenti dovuta; sia perché sarebbe quanto meno illogico calcolare l'oblazione secondo un criterio temporale diverso rispetto a quello utilizzato per la determinazione degli oneri concessori che - come previsto ancora dal menzionato art. 140, comma 4, della legge regionale n. 1/2005 - pure costituiscono la base per il calcolo dell'oblazione medesima. Ne consegue la corretta applicazione, con i provvedimenti impugnati, delle tabelle adottate dalla Giunta comunale con delibera n. 239/2005 per l'applicazione delle sanzioni amministrative edilizie ai sensi del Titolo VIII della legge regionale n. 1/2005 all'epoca vigente, riferite ad interventi di ristrutturazione edilizia, atteso che con la scadenza dell'autorizzazione temporanea n. 7/2003 era venuta meno la legittimità delle opere di completamento e della destinazione d'uso, ma non anche dell'edificio originario realizzato in forza della concessione edilizia n. 2923/1995. 8. - Con il quinto motivo di appello la società Co. chiedeva, in ipotesi di rigetto del primo motivo del ricorso introduttivo del precedente grado di giudizio, la condanna del Comune di (omissis) al risarcimento e/o all'indennizzo del danno da quest'ultimo causatole attraverso la violazione dei principi di lealtà, di correttezza e di buona fede, per averle ingenerato con la delibera consiliare n. 220/2002 un legittimo affidamento sulla legittimità della destinazione d'uso privato del compendio immobiliare dalla stessa acquistato da C. perlomeno sino alla approvazione dello strumento di governo del territorio comunale successivo al rilascio dell'autorizzazione temporanea n. 7/2003, salvo poi considerare lo stesso organismo edilizio abusivo e perciò bisognoso di sanatoria quanto alla sua destinazione urbanistica. Accogliendo l'eccezione sollevata in primo grado dall'Amministrazione resistente, il T.A.R. Toscana con la sentenza appellata (cfr. par. 22.3) dichiarava inammissibile la domanda per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo adito e attribuiva alla giurisdizione del Giudice ordinario la cognizione di tale azione risarcitoria. Sul punto la sentenza gravata non è condivisibile e va annullata in quanto in contrasto con l'indirizzo espresso dal Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 29 novembre 2021, n. 20. Detta pronuncia ha chiarito che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie in cui si faccia questione di danni da lesione dell'affidamento riposto sul provvedimento favorevole, posto che in base all'art. 7, comma 1, cod. proc. amm. la giurisdizione generale amministrativa di legittimità include i "comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni" ed inoltre che "nelle particolari materie indicate dalla legge" di giurisdizione esclusiva - quale quella sugli "atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia" di cui all'art. 133, comma 1, lettera f), cod. proc. amm. - essa si manifesta attraverso la concentrazione davanti al Giudice amministrativo di ogni forma di tutela, anche dei diritti soggettivi, oltre che dell'affidamento sulla legittimità dei provvedimenti emessi dall'Amministrazione. Evidenzia al riguardo l'Adunanza Plenaria: "... 5. Nella dicotomia diritti soggettivi - interessi legittimi si colloca anche l'affidamento. Esso non è infatti una posizione giudica soggettiva autonoma distinta dalle due, sole considerate dalla Costituzione, ma ad esse può alternativamente riferirsi. Più precisamente, l'affidamento è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all'esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull'esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata. Dell'affidamento sono applicazioni concrete, tra le altre, la "regola possesso vale titolo" ex art. 1153 cod. civ., l'acquisto dall'erede apparente di cui all'art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l'acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 cod. civ., il cui denominatore comune consiste nell'attribuire effetti all'atto compiuto dalla parte che in buona fede abbia pagato o contrattato con chi ha invece ricevuto il pagamento o alienato senza averne titolo. 6. Sorto in questo ambito, l'affidamento ha ad oggi assunto il ruolo di principio regolatore di ogni rapporto giuridico, anche quelli di diritto amministrativo. È in questo senso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che, con affermazione di carattere generale, ha statuito che l'affidamento "è un principio generale dell'azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l'aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività " (Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011). Nella pronuncia ora richiamata non si è condiviso l'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza della Corte regolatrice secondo cui l'affidamento costituisce un diritto autonomo, con conseguente devoluzione al giudice ordinario delle controversie risarcitorie nei confronti della pubblica amministrazione per lesione da affidamento sulla stabilità del provvedimento favorevole poi annullato. Nella pronuncia in esame si è invece posto in rilievo che, in conformità alla sua origine quale istituto giuridico espressione di un principio più che di una situazione soggettiva, l'affidamento "contribuisce a fondare la costituzione di particolari rapporti giuridici e situazioni soggettive" e che nei rapporti con l'amministrazione essa si traduce nell'"aspettativa del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo rilasciato", che se frustrata può essere fonte di responsabilità della prima. 7. Nella condivisibile prospettiva in cui si colloca la pronuncia ora in esame, che pure ha declinato la giurisdizione amministrativa in favore del giudice ordinario, in applicazione dei principi enunciati dalla Cassazione, SS.UU., nelle ordinanze del 23 marzo 2011, nn. 6594, 6595 e 6596, la giurisdizione amministrativa va invece affermata quando l'affidamento abbia ad oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di un atto di esercizio di un potere pubblico, e a fortiori quando questo atto afferisca ad una materia di giurisdizione esclusiva. La giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo perché la "fiducia" su cui riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale - a un "mero comportamento" - ma al potere pubblico, nell'esercizio del quale l'amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo. 8. Seguendo quindi l'insegnamento ricavabile dalle sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale deve quindi essere affermata la giurisdizione amministrativa, poiché anche quando il comportamento non si sia manifestato in atti amministrativi, nondimeno l'operato dell'amministrazione costituisce comunque espressione dei poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura. Tale operato è riferibile dunque all'amministrazione che "agisce in veste di autorità " e si iscrive pertanto nella dinamica potere autoritativo - interesse legittimo, il cui giudice naturale è per Costituzione il giudice amministrativo (art. 103, comma 1). E ciò sia che si verta dell'interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade) cumulativamente all'annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all'interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest'ultimo, infatti, vanta nei confronti dell'amministrazione un legittimo interesse alla sua conservazione, non solo rispetto all'azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell'amministrazione stessa. 9. Non sembra quindi condivisibile interporre nel rapporto amministrativo costituito dal provvedimento un diritto soggettivo, avente ad oggetto l'affidamento alla stabilità del provvedimento medesimo, quale presupposto sostanziale della giurisdizione amministrativa. Attraverso la stabilità del provvedimento e del rapporto con esso costituito il privato beneficiario conserva l'utilità attribuitagli, che nella misura in cui è correlata ad un pubblico potere è e rimane oggetto di un interesse legittimo (da pretensivo a oppositivo, secondo la terminologia invalsa al riguardo). Non può dunque essere seguita l'impostazione secondo cui quando il potere amministrativo non si è manifestato in un provvedimento tipico ma è rimasto a livello di comportamento la giurisdizione sarebbe devoluta al giudice ordinario; questa è per contro ipotizzabile solo a fronte di comportamenti "meri", non riconducibili al pubblico potere, a fronte dei quali le contrapposte situazioni giuridiche dei privati hanno consistenza di diritto soggettivo. In tale contesto, non sembra possa sostenersi, in assenza di base testuale, che l'ambito di applicazione dell'art. 7, comma 1, cod. proc. amm. sia circoscritto al solo risarcimento del danno da provvedimento sfavorevole, azionabile dal ricorrente con l'azione di annullamento, mentre nella situazione assolutamente simmetrica alla precedente e del pari inserita nella vicenda relazionale governata dal diritto amministrativo, sussisterebbe la giurisdizione ordinaria per i danni conseguenti all'annullamento del provvedimento favorevole, "degradato" a mero fatto. 10. Una recente conferma di quanto finora considerato è ritraibile sul piano normativo dall'art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, così formulato: "(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princì pi della collaborazione e della buona fede" (comma aggiunto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), legge 11 settembre 2020, n. 120; di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante "Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitali"). La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell'agire pubblicistico dell'amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - non è più contraddistinto dall'assoluta unilateralità del potere, ma è il luogo di composizione del conflitto tra l'interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell'apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell'ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata; tale dovere comportamentale si rivolge sia all'amministrazione sia ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento, qualificando in termini giuridici una relazione che è e resta pubblicistica, sia pure nell'ottica di un diritto pubblico in cui l'autoritatività dell'agire amministrativo dà vita e si inserisce nel corso di un rapporto in cui doveri comportamentali e obblighi di protezione sono posti a carico di tutte le parti. E non sembra, in tale contesto, che i princì pi che regolano il rapporto siano espressione di autonome situazioni soggettive autonome, se non avulse, dalla posizione delle parti; si deve piuttosto ritenere che si tratti di doveri imposti alle parti, e in primis all'amministrazione, a salvaguardia delle situazioni soggettive coinvolte, che, in quanto afferenti a quel rapporto, non mutano la loro natura e la loro consistenza. 11. Non è pertanto possibile, nel definire il riparto di giurisdizione, circoscrivere la rilevanza dei doveri in esame al diritto comune, dal momento che gli stessi sono invece comuni al diritto civile e al diritto amministrativo, ovverosia ai rapporti paritetici di diritto soggettivo così come a quelli originati dall'esistenza e dall'esercizio in concreto del pubblico potere. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all'utilità derivante dall'atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l'amministrazione fonte di responsabilità . In altri termini, la mancata osservanza del dovere di correttezza da parte dell'amministrazione in violazione del principio di affidamento può determinare una lesione della situazione soggettiva del privato che afferisce pur sempre all'esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell'esercizio di quel potere, e la cui natura quindi resta "qualificata" dall'inerenza al pubblico potere. Si tratta, quindi, di aspettative correlate ad "interessi legittimi (...) concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo" ai sensi dell'art. 7, comma 1, cod. proc. amm. sopra citato, la cui lesione rimane devoluta al giudice amministrativo. Come infatti testualmente previsto dalla disposizione in parola, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo non solo nel caso in cui il potere sia stato esercitato, ma anche nel caso contrario di mancato esercizio. Non è conseguentemente possibile scindere sul piano del riparto giurisdizionale le due ipotesi, che peraltro possono in astratto dare luogo a profili diversi di addebito sul piano diacronico (per il fatto ad esempio di avere esercitato il potere tardivamente e di averlo poi esercitato illegittimamente), la cui cognizione va concentrata presso un unico giudice, ovvero quello amministrativo, quale giudice naturale della funzione amministrativa. 12. Quanto ora affermato trova conferma nella risalente giurisprudenza di questa Adunanza plenaria. Sin dalla sentenza 5 settembre 2005, n. 6, l'Adunanza ha infatti affermato la giurisdizione amministrativa in relazione ad una domanda di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale proposta dall'aggiudicataria di una procedura di affidamento nei confronti dell'amministrazione per revoca legittima della gara. Nel precedente ora richiamato l'Adunanza plenaria ha ricondotto all'ambito della giurisdizione esclusiva sulle procedure di affidamento di contratti pubblici istituita dall'art. 6 della legge di riforma della giustizia amministrativa 21 luglio 2000 n. 205 (oggi trasfusa nell'art. 133, comma 1, lett. e), n. 1), del codice del processo amministrativo), non solo tutte le questioni di interesse legittimo relative agli atti della fase pubblicistica finalizzata alla conclusione del contratto e prima di tale momento, ma anche "la cognizione, secondo il diritto comune, degli affidamenti suscitati nel privato da tali effetti vantaggiosi ormai venuti meno", nel presupposto che l'amministrazione pur tenuta per legge ad adottare moduli di contrattazione impersonale di stampo pubblicistico è nondimeno soggetta anche alle "norme di correttezza di cui all'art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune". E tale orientamento non risulta essere stato smentito dalla Corte regolatrice. 13. Il principio affermato nel precedente ora richiamato, così come l'affermazione in esso della responsabilità dell'amministrazione per revoca legittima, per lesione dell'affidamento dell'aggiudicataria sulla stipulazione del contratto d'appalto, è rilevante nel presente giudizio. Con esso si è infatti chiarito che le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l'altro fonte invece di responsabilità per l'amministrazione. Oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l'accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l'amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi, anche per violazione degli connessi obblighi di protezione inerenti al procedimento. 14. Nell'autonomia dei due ordini di regole operanti con riguardo all'esercizio della funzione pubblica, di validità degli atti e di comportamento complessivo dell'amministrazione, si colloca l'affidamento del privato. Quest'ultimo si proietta sulla positiva conclusione del procedimento, e dunque sull'attuazione dell'interesse legittimo di cui il medesimo privato è portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se l'amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento. E ciò a prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto ed anche se si accertasse in positivo che non era dovuto, come nel caso deciso da questa Adunanza plenaria nel precedente sopra esaminato (l'Adunanza plenaria si è più di recente espressa negli stessi termini, con la sentenza 4 maggio 2018, n. 5). 15. Le considerazioni che precedono convergono nel senso di affermare, in coerenza con il fondamento costituzionale di riparto di giurisdizione, che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie in cui si faccia questione di danni da lesione dell'affidamento sul provvedimento favorevole, posto che in base al richiamato art. 7, comma 1, cod. proc. amm. la giurisdizione generale amministrativa di legittimità include i "comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni"; ed inoltre che "nelle particolari materie indicate dalla legge" di giurisdizione esclusiva - quale quella sugli "atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia" di cui all'art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm. oggetto del presente giudizio - essa si manifesta "attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela", anche dei diritti soggettivi, oltre che dell'affidamento sulla legittimità dei provvedimenti emessi dall'amministrazione. Il possibile contrasto del principio di diritto come sopra affermato in punto di giurisdizione con l'orientamento certamente prevalente della Corte regolatrice potrà essere vagliato in sede di eventuale impugnazione ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione delle sentenze di questo Consiglio, le quali sono nel frattempo tenute all'osservanza del principio di diritto (salva nuova rimessione) ai sensi dell'articolo 99 cod. proc. amm....". Ciò posto, non è revocabile in dubbio che la presente controversia verta in materia di edilizia e urbanistica e che la condotta asseritamente lesiva posta in essere dal Comune di (omissis) nella fattispecie in esame si collochi anch'essa in tale materia appartenente alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo. Il T.A.R. Toscana non poteva, dunque, declinare la propria giurisdizione in ordine alla cognizione dell'azione risarcitoria e/o indennitaria proposta dalla ditta ricorrente. Dall'accoglimento del presente motivo di appello discende la rimessione, ai sensi dell'art. 105 cod. proc. amm., della decisione sull'azione risarcitoria e/o indennitaria proposta dalla ricorrente di nuovo al T.A.R. Toscana. 9. - In conclusione, i motivi di appello sub I), II), III) e IV) vanno respinti. Il motivo di appello sub V) deve essere accolto e, per l'effetto, va annullata la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la domanda di condanna dell'Amministrazione resistente al risarcimento o indennizzo del danno per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo e deve essere disposta la remissione al primo Giudice ai sensi dell'art. 105 cod. proc. amm. 10. - Sussistono giustificati motivi, attesa la natura delle questioni trattate, per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede: 1) respinge i motivi di appello sub I), II), III) e IV); 2) accoglie il motivo di appello sub V) e, per l'effetto, annulla la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la domanda di condanna dell'Amministrazione resistente al risarcimento o indennizzo del danno per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo e rimette ai sensi dell'art. 105 cod. proc. amm. la causa al Giudice di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo - Presidente Francesco Frigida - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2098 del 2022, proposto dai signori Gi. To. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Er. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in (...), via (...); contro il Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Vi. Ba., Ma. Br., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Vi. Ba. in Torino, corso (...); nei confronti dell'Istituto Sa. Ma. Au., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ar. Po., Ma. Oc., Fa. Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ar. Po. in Roma, viale (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (sezione seconda) n. 01175/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e dell'Istituto Sa. Ma. Au.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2024 il consigliere Giuseppe Rotondo; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il presente giudizio reca ad oggetto la domanda di annullamento - proposta dai signori Gi. To., Michelina Testa, Angelo Giuseppe Tomatis, Renato Tomatis, Graziella Grasso e Francesca Brizio con due separati ricorsi innanzi al T.a.r. per il Piemonte - dei seguenti atti: a) deliberazione del Consiglio Comunale di Fossano datata 30 luglio 2020 con la quale sono state approvate alcune deroghe, ai sensi dell'art. 14 del d.p.r. n. 380 del 2001, relative all'aumento dell'indice di utilizzazione fondiaria e variazione dell'indice di verde privato relativamente all'intervento edilizio presentato in data 8 luglio 2019 e registrato come pratica edilizia n. 2019/74 per la costruzione di un fabbricato da destinare ad attività didattiche laboratorio ed aule in via Giuseppe Verdi 22; b) provvedimento conclusivo adottato dallo sportello unico attività produttive del comune di Fassano, pratica n. 00486350044-13062019-1103; c) permesso di costruire, rilasciato in deroga allo strumento urbanistico vigente, relativo alla pratica edilizia n. 2019/74. 2. Questi gli aspetti essenziali della vicenda: a) i sigg. Gi. To., Michelina Testa, Angelo Giuseppe Tomatis (ricorrenti in primo grado e odierni appellanti) sono proprietari di alcuni fabbricati siti in Fossano, rispettivamente in Via San Francesco d'Assisi n. 5 ed in Corso Emanuele Filiberto n. 16, confinanti con i terreni in proprietà dell'Istituto Salesiano (controinteressato); b) In data 8 luglio 2019, l'Istituto Salesiano "Maria Ausiliatrice" richiedeva al Comune di (omissis) il rilascio di un permesso di costruire per la costruzione di un nuovo fabbricato da destinare ad attività didattiche, laboratorio e aule, intervento da realizzare ai sensi dell'art. 14 del d.p.r. n. 380 del 2001 in deroga rispetto alle previsioni attuali del piano regolatore per quanto riguarda: la percentuale di verde privato; la distanza da altri fabbricati e dai confini (deroga all'indice di visuale libera); l'indice di utilizzazione fondiaria); c) i sigg. Tomatis, informati dal Comune dell'avvio del procedimento, presentavano proprie osservazioni; d) l'Istituto Salesiano presentava una nuova soluzione progettuale che, oltre ad alcune modifiche architettoniche, prevedeva la rotazione del fabbricato in modo tale da aumentare la distanza fra il fabbricato in progetto e gli edifici di proprietà dei ricorrenti; e) gli uffici comunali e la commissione edilizia esprimevano il proprio parere favorevole sul progetto; f) i sigg. Tomatis inviavano nuove osservazioni; g) il consiglio comunale di Fossano, con delibera n. 55 assunta nella seduta del 30 luglio 2020, deliberava di concedere le deroghe richieste dall'Istituto, trattandosi di edificio scolastico dichiarato di interesse pubblico; h) in data 16 settembre 2020 il comune con "provvedimento unico" n. 50/2020, assentiva la realizzazione in deroga del fabbricato; i) con atto n. 00486350044-13062019-1103, il dirigente comunale rilasciava il permesso di costruire. 3. I suddetti provvedimenti (delibera consiliare, provvedimento unico e permesso di costruire) venivano impugnati dagli odierni appellanti con due separati ricorsi proposti innanzi al T.a.r. per il Piemonte (nrg 774 del 2020 e nrg 906/2020). 3.1. Con il ricorso n. 774/2020, essi deducevano i seguenti motivi di gravame: a) violazione della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere per irragionevolezza dell'attività della pubblica amministrazione (mancato invio di uno nuovo procedimento amministrativo ex lege 241/1990 a seguito della modifica progettuale apportata dall'Istituto Salesiano); b) eccesso di potere per irragionevolezza, insufficienza e carenza di motivazione (le deroghe al piano regolatore sarebbero state concesse senza adeguatamente motivare in ordine alle osservazioni formulate dai ricorrenti circa: i) l'aggravio veicolare con conseguente necessità di nuovi spazi di parcheggio; ii) le caratteristiche architettoniche del nuovo fabbricato di tipo industriale tali da stravolgere le caratteristiche di via San Francesco che è un tipico quartiere residenziale; iii) la rumorosità e la mancanza di qualsivoglia valutazione previsionale del clima acustico; c) violazione dell'art. 14 del dpr n. 380 del 2001 (i parametri che l'Istituto Salesiano ha richiesto di poter derogare non rientrerebbero tra quelli espressamente e tassativamente previsti dalla norma; d) eccesso di potere e carenza e grave difetto di istruttoria in ordine ai presupposti che legittimerebbero la deroga all'indice di utilizzazione fondiaria (il Comune di (omissis) avrebbe concesso la deroga all'indice di utilizzazione fondiaria sulla base di conteggi errati); e) eccesso di potere, carenza di istruttoria in ordine ai presupposti che legittimerebbero la deroga alla quantità di verde privato (identiche ragioni sottese alla censura di cui sopra, lett. d); f) violazione di legge per mancato rispetto di quanto previsto dell'art. 16 del r.d. n. 274/1929 e del r.d. n. 2537/1925 (incompetenza dei professionisti sottoscrittori degli elaborati grafici). 3.2. Con il ricorso n. 906/2020 (proposto avverso il provvedimento conclusivo dello sportello unico attività produttive pratica n. 00486350044-13062019-1103 e il permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico) i ricorrenti deducevano, oltre agli originari vizi, i seguenti, ulteriori motivi: a) violazione dell'art. 9 delle norme di attuazione del piano regolatore in tema di distanze, eccesso di potere sotto il profilo della carenza e difetto di istruttoria (il divisato fabbricato, essendo posto a mt 5 dal confine di proprietà, non rispetterebbe: i) la distanza dal confine di proprietà, ii) la distanza dai confini di zona (distanza minima di 10,00 mt.), iii) la distanza da Via San Francesco (5 mt, mentre 10,00 ml. per strade di larghezza superiore a ml. 15), iv) la distanza corrispondente all'indice di visuale libera; b) violazione degli artt. 27 e 28 del regolamento edilizio, eccesso di potere sotto il profilo della carenza e difetto di istruttoria (il nuovo fabbricato avrebbe in realtà una altezza diversa rispetto a quella indicata in progetto e superiore di circa un metro rispetto a quella consentita di mt. 12,50 non potendosi configurare il tetto in progetto quale tetto inclinato); c) violazione della legge n. 447 del 1993 e del d.p.r. n. 227 del 2011, eccesso di potere sotto il profilo della carenza e difetto di istruttoria (la realizzazione del fabbricato in oggetto sarebbe stata assentita in assenza di un'adeguata istruttoria per quanto attiene il rispetto del clima acustico); d) violazione di legge per mancato rispetto di quanto previsto dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 e del r.d. n. 2537 del 1925 (gli elaborati grafici presentati dall'Istituto Salesiano sarebbero stati redatti da professionisti non abilitati a progettare una struttura scolastica). 3.3. Si costituivano in entrambi i giudizi, per resistere, il Comune di (omissis) e l'Istituto Salesiano deducendo l'inammissibilità (per difetto di interesse e di legittimazione ad agire dei ricorrenti, stante altresì la mancata allegazione di un concreto pregiudizio derivante alla sfera giuridica dei ricorrenti) nonché l'infondatezza dei gravami. 3.4. Il T.a.r per il Piemonte, con sentenza n. 1175/2021, pubblicata il 13 dicembre 2021: a) disponeva la riunione dei ricorsi; b) dichiarava i ricorsi in parte improcedibili e in parte infondati, respingendoli; c) compensava le spese di giudizio. 4. Hanno appellato i signori Gi. To., Michelina Testa, Angelo Giuseppe Tomatis, Renato Tomatis, Graziella Grasso e Francesca Brizio che, nel censurare la sentenza di primo grado, ripropongono i soli, seguenti motivi di gravame. A) Mancato rispetto della distanza da Via San Francesco d'Assisi. Gli appellanti lamentavano (in primo grado) che il nuovo fabbricato, essendo previsto a 5 mt dal confine di proprietà rispetto a Via San Francesco, non rispettasse la distanza dalla via stessa. Il T.a.r. ha ritenuto la censura inammissibile sul presupposto che nessuna delle proprietà dei ricorrenti affaccerebbe sulla citata via San Francesco. Gli appellanti osservano che: i) "via San Francesco (comprensiva di marciapiedi ed aree di sosta, che il codice della Strada prevede espressamente che costituiscano parte integrante della strada) è di larghezza variabile tra mt. 16,64 e mt. 18,65"; ii) "la larghezza compresa tra 7 e 15 metri indicata dalla difesa del Comune non è chiaro come possa essere ritenuta valida in quanto priva di ogni fondamento"; iii) parimenti, la distanza di 9 metri indicata ancora una volta dalla difesa del Comune appare meramente empirica (anche perché ricomprende interamente l'area di parcheggio che fa parte integrante della strada), ma quand'anche - per assurdo - fosse corretta, non sarebbe sufficiente a rispettare la distanza di mt. 10 prevista dal PRGC vigente"; iv) "priva di fondamento è anche l'argomentazione difensiva del controinteressato perché - contrariamente a quanto affermato - le proprietà (rectius, alcuni dei fabbricati) di proprietà dei ricorrenti si affacciano sulla citata via San Francesco"; v) infondata poi l'affermazione secondo la quale, poiché nessuno dei ricorrenti è proprietario di edifici posti sul fronte opposto di Via San Francesco, la doglianza sarebbe inammissibile in quanto il vizio dedotto non arreca alcun pregiudizio agli immobili dei ricorrenti: al contrario, l'interesse al rispetto della distanza dalla strada sussiste comunque considerato che l'edificazione del nuovo fabbricato (un capannone di 50 metri per oltre 20 metri, alto 12,50 metri - oltre il parapetto di un metro - a soli 5 metri dalla strada influisce notevolmente... re, sul soleggiamento dei fabbricati dei ricorrenti". B) Mancato rispetto dell'indice di visuale libera. Il giudice di primo grado ha ritenuto che il fabbricato "rispetto dell'indice di visuale libera relativamente agli immobili in proprietà dei ricorrenti garantisce le condizioni di adeguato irraggiamento e aerazione", Sennonché, osservano gli appellanti, il T.a.r. non avrebbe considerato che l'erigendo fabbricato viola, invece, l'indice di visuale libera rispetto alla strada comunale. Tale indice infatti - deducono gli appellanti - "deve essere rispettato non soltanto tra fabbricati... ma anche rispetto alla strada pubblica". E "Poichè l'indice di visuale libera deve essere pari all'altezza dell'edificio, ne discende che il nuovo fabbricato dovrebbe essere posto a distanza quanto meno di 12,40 metri dal confine stradale" (altezza del fabbricato indicato in progetto). C) Carenza di istruttoria da parte dell'amministrazione comunale in ordine alla valutazione delle prestazioni acustiche del fabbricato. Il T.a.r. ha ritenuto il motivo, oltre che infondato, inammissibile (in quanto la doglianza sarebbe stata formulata in termini dubitativi). Gli appellanti lamentano che il Comune avrebbe accolto la relazione del controinteressato omettendo di effettuare la necessaria istruttoria sul punto. In altri termini, per gli esponenti "non è che la valutazione è sicuramente errata (i ricorrenti non hanno la competenza per poter svolgere tale affermazione), ma che il Comune abbia omesso di effettuare la necessaria istruttoria sul punto". D) Incompetenza dei professionisti che hanno progettato il nuovo fabbricato ad uso plesso scolastico. Gli istanti sostengono che "I progettisti del fabbricato non avrebbero le competenze adeguate alla progettazione architettonica di un edificio scolastico o, più precisamente, che la loro qualifica professionale (rispettivamente di geometra ed ingegnere industriale) non gli consente di sottoscrivere gli elaborati progettuali alla base del provvedimento di assenso rilasciato dal Comune di (omissis)". Il T.a.r. ha ritenuto che "la complessità dell'intervento, tale da renderne impossibile la progettazione per la figura professionale del geometra, non può automaticamente trarsi dalla destinazione d'uso del fabbricato.... ma avrebbe dovuto essere oggetto di puntuale allegazione.... sulla base delle effettive caratteristiche della costruzione in progetto". Gli appellanti censurano il capo di motivazione evidenziando "le dimensioni del fabbricato (che, come si ricava dai documenti prodotti, sono pari a 20,40 m. x 50,50 m in pianta e di 12,4 (o 13,4) m in altezza, da cui consegue un volume di 12.774,48 m³ con tre piani fuori terra)" le quali dimostrerebbero "chiaramente e senza necessità di ulteriori allegazioni la rilevanza dell'edificio". E) Mancata motivazione relativamente alla carenza di parcheggi pubblici in conseguenza della realizzazione del nuovo fabbricato ad uso plesso scolastico. Gli appellanti osservano che il T.a.r. ha respinto il motivo sul presupposto che "la realizzazione di un edificio scolastico di istruzione superiore non richiede automaticamente la creazione di nuovi parcheggi, ben potendo essere sufficienti quelli già presenti in zona", e che "i ricorrenti, tuttavia, non dimostrano in alcun modo che la costruzione dell'edificio in parola comporterebbe, in relazione allo specifico contesto, un'effettiva carenza di aree di sosta, per cui la doglianza rimane del tutto indimostrata e generica". Gli esponenti a sostegno della censura (difetto di istruttoria) producono foto dei luoghi (allegate al ricorso) a dimostrazione del fatto che tutti i parcheggi esistenti, pur in giorno di chiusura della scuola, risulterebbero occupati. 4.1. Si sono costituiti, per resistere, il Comune di (omissis) e l'Istituto Salesiano che reiterano le eccezioni di inammissibilità dei ricorsi per difetto di interesse e carenza di legittimazione ad agire. 4.2. Con ordinanza n. 1638/2022, la Sezione ha respinto (per mancanza di fumus e periculum) la domanda cautelare di sospensione della efficacia della sentenza impugnata. 4.3. Con memoria depositata il 22 dicembre 2023, gli appellanti hanno evidenziato la circostanza che "i lavori relativi al permesso di costruire 74/2019 non (hanno) mai avuto inizio" e che, pertanto, il "permesso di costruire impugnato debba ritenersi ormai decaduto, essendo decorso ben più di un anno dal suo rilascio". Essi chiedono, pertanto, che venga dichiarata la cessata materia del contendere. 4.4. Controparti hanno confutato la richiesta degli appellanti, ritenendola inammissibile processualmente. 4.5. Le parti hanno depositato, in prossimità dell'udienza, rispettive memorie di repliche con le quali insistono nelle proprie tesi difensive. 5. All'udienza del 25 gennaio 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 6. Preliminarmente, il collegio deve disattendere la richiesta di estinzione del giudizio, formulata dagli appellanti, per cessata materia del contendere. 7. La Sezione (v. sentenza 4 novembre 2021, n. 7373) ha chiarito che la decadenza di un titolo edilizio deve essere espressamente dichiarata dal comune, sia pure con un provvedimento ricognitivo di effetti prodotti ex tunc, all'esito di specifici accertamenti istruttori: il che rende inammissibile (sotto diverso profilo) la domanda - proposta direttamente al giudice amministrativo - di condanna dell'ente all'emanazione di tale provvedimento di decadenza ovvero di accertamento della violazione dell'obbligo di provvedere obbligatoriamente in tal senso (ex multis, cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4648 del 2021; id., sez. IV, n. 2078 del 2020; id., sez. II, n. 2206 del 2020), tanto più se si considera la natura della controversia, avente ad oggetto interessi legittimi. 7.1. Per le stesse ragioni, deve ritenersi inammissibile una pronuncia nei termini sollecitati dagli appellanti in assenza di un formale provvedimento in relazione all'esercizio del potere attribuito dall'art. 15, t.u. edilizia. 7.2. In altri termini, in conformità coi principi generali di trasparenza e certezza giuridica ex artt. 1 e 2, l. n. 241 del 1990, è sempre richiesto che l'amministrazione si pronunci sul titolo edilizio con provvedimenti espressi, sia pure con valenza ricognitiva di effetti discendenti direttamente dalla legge. 8. Sempre in via preliminare, il collegio deve farsi carico di scrutinare le eccezioni di inammissibilità dei ricorsi di primo grado che controparti hanno reiterato nel presente giudizio di appello. 8.1 Le eccezioni sono infondate. 8.2. Gli appellanti, unitamente alla vicinitas, hanno allegato il pregiudizio ad essi derivante in ipotesi dall'erigendo fabbricato, indicandolo nella perdita di visuale libera anche rispetto alle fonti naturali di luce e calore solare. 9. Nel merito, l'appello è infondato. 10. Con il primo motivo (sopra, par. 4, lett. A), gli appellanti deducono la violazione dell'art. 9 delle n. t.a. di p.r.g. Essi sostengono che il fabbricato non rispetterebbe le distanze dal confine di proprietà, dai confini di zona e da Via San Francesco stabilite dalla sopra citata norma urbanistica. 10.1. Il collegio osserva che i fabbricati dell'Istituto Salesiano (compreso quello da realizzare) ricadono all'interno dell'area urbanistica denominata "Spazi e attrezzature di interesse generale". 10.2. Per essi trova applicazione, non già l'art. 9 delle n. t.a. bensì, il successivo art. 35. 10.3. E invero, l'art. 9 detta una previsione di carattere generale, riprova ne è che esso è inserito nel "Titolo I - disposizioni generali" delle medesime n. t.a. L'art. 35, invece, detta prescrizioni specifiche per le singole zone del territorio comunale per cui, in quanto norma speciale, essa deroga alla disposizione generale. 10.4. Nel caso di specie, il permesso di costruire in deroga riguarda, per l'appunto, un edificio scolastico, di pubblica utilità, da realizzare in area urbanistica denominata "Spazi e attrezzature di interesse generale". Tale fabbricato risulta, pertanto, soggetto alle specifiche previsioni dettate per le "Aree per l'istruzione" dall'art. 35, comma 4, delle n. t.a. di prg comunale. 10.5. Orbene, l'art. 35 delle n. t.a. di p.r.g., per tale area prevede: - la distanza minima del fabbricato dal confine di proprietà pari a 5 metri; - la distanza dal confine di zona pari a 5 metri; - la distanza dai confini stradali: i) di 5 metri per strade di larghezza inferiore a 7 metri; ii) di 7,5 metri per strade con larghezza compresa tra 7 e 15 metri; ii) di 10 metri da strade con larghezza superiore a 15 metri; - inoltre, l'estratto delle n. t.a. aggiornato alla variante n. 12 al prg stabilisce (con prescrizione speciale) per l'area in Via Verdi che "la distanza dalla strada è derogata sino a m. 2". 10.6. Ebbene, tali distanze risultano rispettate per tabulas ove esaminata la tavola 1 di progetto nonché l'estratto di mappa recante le quote dei confini (v. anche allegato 2 ai documenti depositati dal comune nel giudizio di primo grado). 10.6. In particolare: a) quanto alla distanza dal confine di proprietà e di zona, gli elaborati grafici nonché la relazione tecnica di accompagnamento al progetto indicano una distanza pari a 5 metri dai rispettivi confini, segnatamente: i) 5 metri rispetto al confine di fronte alla via San Francesco; ii) 19,70 metri rispetto alle proprietà dei signori Tomatis; iii) 14,50 metri rispetto alla proprietà della signora Brizio; b) per quanto riguarda la distanza dal confine stradale, la documentazione tecnica versata in giudizio indica. invece, una distanza dalla via San Francesco di metri 9 (v. estratto di mappa, allegato 6 alla memoria del comune di Fassano depositata in data 12 dicembre 2020 nel giudizio di primo grado instaurato con ricorso nrg 906/2020). 10.7. Gli appellanti sostengono che la strada "via San Francesco" avrebbe una larghezza variabile tra mt. 16,64 e mt. 18,65 sicchè la distanza dal confine stradale dovrebbe essere di almeno 10 metri (art. 35 nta). 10.8. La censura è infondata. Gli appellanti hanno calcolato la larghezza della strada "compresa l'area di sosta delle auto" (aree che, dalla "mappa" allegata dagli stessi istanti, risultano ai due lati della via). Sennonché, secondo le comuni definizioni e metodi di misurazione, il limite della strada è costituito dal confine della piattaforma stradale intesa come l'area pavimentata costituita dalla carreggiata destinata allo scorrimento dei veicoli e dalle relative banchine laterali, escluse le piazzole di sosta, ovvero le aree destinate alla sosta dei veicoli e ai marciapiedi. Gli appellanti non hanno comprovato la larghezza della strada al netto di tali aree. Di contro, il Comune di (omissis) ha chiarito - in assenza di plausibili e pertinenti confutazioni - che la via San Francesco ha una larghezza pari a 5,85 metri, al netto delle aree di sosta. 11. Col secondo motivo di appello, gli istanti hanno lamentato il mancato rispetto dell'indice di visuale libera. 11.1. Il motivo è infondato. 11.1. L'indice di visuale libera è il rapporto esistente fra le distanze dal confine di proprietà o dai confini stradali dei singoli fronti del fabbricato e l'altezza dei fronti medesimi. Nel caso di specie, l'erigendo fabbricato, a seguito delle osservazioni dei sig. Tomatis, ha subito una traslazione (oggetto di variante), nel senso di una rotazione per distanziarlo ulteriormente rispetto all'edificio dei signori Tomatis (circostanza documentata in atti). Ebbene, a seguito della sua rotazione, il parametro in questione (indice di visuale libera) risulta rispettato rispetto agli immobili degli appellanti (circostanza ammessa anche dagli appellanti). 11.2. Consegue a tanto che infondata s'appalesa anche la censura secondo cui, se l'edificio rispettasse l'indice di visuale libera rispetto a via San Francesco, i fabbricati degli istanti godrebbero "di un maggiore irraggiamento ed aerazione". 11.3. L'indice di visuale libera risulta, infatti, pienamente rispettato nel rapporto tra i fabbricati (da realizzare ed esistenti), essendo pari a m. 12,40 (art. 35, n. t.a.), e tanto basta a ritenere, per un verso, insussistente qualsiasi forma di pregiudizio giuridicamente rilevante per gli appellanti - in quanto già apprezzate, ex ante e positivamente dal pianificatore locale, le condizioni per un adeguato "irraggiamento e aereazione"degli immobili ove rispettata, appunto, tale distanza tra fabbricati -; per l'altro infondata la pretesa violazione. 11.3.1. Parte appellante sostiene che tale distanza andrebbe rispettata non solo rispetto agli immobili di proprietà bensì anche avuto riguardo al confine stradale. La questione da dirimere involge la posizione del "terzo", ovvero del titolare di un interesse legittimo "oppositivo" (quale appunto nella circostanza gli appellanti) legittimato ad impugnare l'altrui atto ampliativo (e, specularmente, controinteressato sostanziale nel giudizio contro l'altrui diniego o altro atto sanzionatorio-repressivo). Il Consiglio di Stato (sez. II, sentenza 6 dicembre 2023, n. 10589) ha chiarito che "Il "terzo" vanta una posizione qualificata nella misura in cui invoca l'osservanza di regole preordinate alla protezione (anche) della sua sfera giuridica. Ciò avviene quando, nel contesto di attività economiche e sociali regolate dal diritto pubblico per garantire lo sviluppo ordinato di una trama di rapporti reciprocamente interferenti, l'Amministrazione deve prendere decisioni che incidono, allo stesso tempo, sia sull'interesse di chi chiede il permesso di intraprendere una certa attività (come quella costruttiva), sia in ordine agli interessi contrapposti presi in considerazione dal medesimo assetto regolativo. In queste ipotesi, anche i soggetti che non sono non destinatari dell'atto hanno titolo a chiedere tutela contro l'inosservanza delle regole pubblicistiche, in quanto evocano un interesse legittimo uguale e contrario a quello del destinatario dell'atto". Orbene, al fine di selezionare (all'interno della indistinta pluralità di soggetti cui si riferisce, nella sua generalità e astrattezza, la norma violata (id est, art. 35 delle n,t.a. del prg comunale) coloro che possono ritenersi individualmente incisi dall'esercizio illegittimo del potere ? e, per questo, siano titolari di una posizione anche differenziata, oltre che qualificata ? la giurisprudenza ha elaborato un sorta di test del danno (o dell'attitudine lesiva, a seconda della concezione astratta o concreta che si abbia della legittimazione), in virtù del quale "l'istante deve allegare e dimostrare il pregiudizio personale, e non meramente "organico" o "collettivo", che abbia subito o rischi di subire a causa dell'iniziativa altrui". Nel caso di specie, gli appellanti non hanno allegato né comprovato siffatto pregiudizio personale - derivante dall'asserita violazione della distanza dal confine stradale, in grado di differenziare la propria posizione soggettiva - essendosi limitati a indicare una generica compromissione dell'irraggiamento e aerazione dei propri immobili questa, tuttavia, già esclusa per quanto appena sopra motivato (par. 11.3.). 12. Con il terzo motivo di appello, gli istanti lamentano carenza di istruttoria in ordine alla valutazione delle prestazioni acustiche del fabbricato: il Comune avrebbe accolto la relazione del controinteressato omettendo di effettuare la necessaria istruttoria sul punto. 12.1. La censura è infondata. 12.2. Il controinteressato ha supportato la valutazione della prestazione acustica con l'asseverazione di un tecnico abilitato recante "Autocertificazione sulla previsione di impatto acustico", cui si è aggiunta la relazione tecnica (datata 1 giugno 2020) recante la "Valutazione preventiva delle prestazioni acustiche - Verifica con D.P.C.M. 05/12/1997". 12.3. L'assunto per cui la relazione tecnica prodotta dal controinteressato si riferirebbe al progetto originario e non a quello successivamente approvato dal Comune è confutata dalla circostanza che, sia nel progetto edilizio originario che nel progetto di variante (approvato dal Comune), la destinazione dell'edificio è rimasta inalterata nella sua destinazione funzionale (v. relazione tecnica), sicché non risulta provata la tesi per cui i parametri acustici sarebbero mutati. 12.4. Altrettanto sotto il profilo strutturale, laddove risulta dalla medesima documentazione a confronto (v. anche tavole di progetto originario e variante), la presenza sempre di un unico laboratorio al piano terra mentre i locali del piano 1 e del piano 2 risultano equivalenti sia nel primo che nel secondo progetto. 13. Con il quarto motivo di appello, gli istanti hanno dedotto l'incompetenza dei professionisti che hanno progettato il nuovo fabbricato ad uso plesso scolastico. 13.1. Gli appellanti adducono a fondamento della censura le "dimensioni del fabbricato". 13.2. La censura è infondata. 13.3. Il geometra - ai sensi dell'art. 16, del r.d. 11 febbraio 1929, n. 275, dell'art. 1 del r.d. 16 novembre 1939 n. 2229, della l. 24 giugno 1923 n. 1395 e del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537 - può a pieno titolo progettare e dirigere architettonicamente i lavori per la costruzione di un fabbricato civile di modesta entità . In particolare, l'art. 16 lett. m del r.d. n. 274 del 1929 (Regolamento per la professione di geometra) contempla chiaramente - tra le varie ipotesi - le attività di "progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili". Tale competenza permane anche (v. art. 2 della legge n. 1086/1971 - Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, ribadito anche dall'art. 64. co. 2, del T.U. Edilizia approvato con D.P.R. 380/2001) nelle ipotesi in cui il progetto (di edificio modesto) preveda l'impiego di cemento armato. 13.4. Tanto chiarito in punto di diritto, il collegio osserva che la "Richiesta di variante a provvedimento unico n. 50/2020", assentita con provvedimento unico del 16 settembre 2020, è stata elaborata, progettata e sottoscritta dal geometra Ezio Rocco e dall'arch. Federico Rocco per la parte architettonica nonché dall'ing. Pietro Nervo per la parte relativa agli impianti e alla sicurezza. 13.5. Nel caso di specie, dunque, il progetto architettonico - ossia, quello concernente l'aspetto estetico, la collocazione spaziale, e l'immagine dimensionale dell'edificio - risulta redatto da un geometra, con l'ausilio di un architetto; le tavole-elaborati progettuali sono state redatte da un architetto; l'impiantistica per l'efficienza energetica e la sicurezza antincendio sono state redatte da un ingegnere strutturista. In altri termini, non siamo in presenza di un progetto ascritto solo al geometra bensì, di una progettazione effettuata a più mani, nella quale gli apporti dell'architetto e dell'ingegnere risultano prevalenti sul piano quantitativo e tecnico. 14. Con il quinto motivo di appello, gli istanti lamentano la mancata motivazione relativamente alla carenza di parcheggi pubblici in conseguenza della realizzazione del nuovo fabbricato ad uso plesso scolastico. 14. La censura è formulata in modo generico e non adeguatamente supportata in punto di principio di prova. 14.1. Essa si regge, infatti, su una produzione fotografica con la quale si intende dimostrare che, anche in giorno di chiusura delle scuole, le aree di sosta limitrofe sono occupate da autovetture. 14.2. Sennonché, la documentazione fotografica prodotta in giudizio s'appalesa non idonea, sotto il profilo giuridico, a dimostrare che la realizzazione dell'edificio ridurrebbe la concreta disponibilità di parcheggi nella zona circostante. 14.3. Più precisamente, se gli appellanti fondano la censura sulla disponibilità di spazi dedicati a parcheggi pubblici, la stessa deve ritenersi inammissibile poiché non è stata dedotta o allegata alcuna violazione di precostituiti e vincolanti standard urbanistici, ovvero il superamento di tali limiti, né è stata rappresentata la necessità di reperire tali standard per assicurare il dimensionamento previsto nello strumento urbanistico. 14.3. Qualora, invece, si trattasse della necessità di reperire spazi dedicati a parcheggi in aree private pertinenziali alla nuova costruzione, allora il controinteressato ne avrebbe comprovato la loro previsione progettuale indicandola in un'area antistante all'edificio scolastico e interna alla proprietà dei Salesiani destinata, appunto, a parcheggi privati. 15. Per le argomentazioni sin qui svolte, l'appello è infondato e deve essere respinto. 16. Le spese relative al presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna i signori Gi. To., Michelina Testa, Angelo Giuseppe Tomatis, Renato Tomatis, Graziella Grasso e Francesca Brizio, in solido fra loro, al pagamento delle spese di giudizio - che si liquidano in complessivi euro 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori di legge e spese generali - e precisamente nella misura di euro 3.000,00 (tremila/00) in favore del Comune di (omissis) ed euro 3.000,00 (tremila/00) in favore dell'Istituto Slesiano. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA NON DEFINITIVA sul ricorso numero di registro generale 7306 del 2022, proposto da -OMISSIS- rappresentato e difeso dall'avvocato Ni.Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma.Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Wwf Italia Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An.Ia. e Gi.Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ed.Gr. S.r.l., non costituita in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 7373 del 2022, proposto da Ed.Gr. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An.Cl., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avv. An.Cl. in Roma, via (...); contro Comune di Omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma.Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti W.W.F. Italia Onlus, rappresentato e difeso dagli avvocati An.Ia. e Gi.Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; -OMISSIS- non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione Sesta, n. -OMISSIS-, resa tra le parti il -OMISSIS- sui giudizi riuniti RG. n. -OMISSIS- Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Omissis e di Wwf Italia Onlus; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 febbraio 2024 il Cons. Maria Stella Boscarino e uditi per le parti gli avvocati An.Cl., anche per l’avv. Ni.Pa., e Fa.Ma. per l’avv. Ma.Pa.; Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Premessa. La sentenza del T.A.R. Campania appellata ha riunito i ricorsi presentati dall’avv. -OMISSIS- proprietario di un terreno sito in Omissis (ric. R.G. n. -OMISSIS- volto all’annullamento dell’ordinanza n. -OMISSIS- di acquisizione gratuita del fondo al patrimonio comunale), e dall’impresa Ed.Gr. S.r.l., promissaria acquirente del diritto di superficie sotterranea sul medesimo fondo, il cui acquisto era stato condizionato al rilascio del permesso di costruire (Ric. R.G. n-OMISSIS- per l’annullamento dell’ordine di rispristino dello stato dei luoghi n. 24101/2018 e dell’ordinanza di acquisizione n. -OMISSIS-), e ha dichiarato: il primo ricorso infondato; il secondo ricorso in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse ed infondato nella restante parte. Per la migliore comprensione della complessa vicenda occorre premettere in punto di fatto che il 2 febbraio 2006 l’avv. -OMISSIS- stipulava con la società Ed.Gr. un contratto preliminare di compravendita del “diritto di superficie al di sotto del suolo sito in Omissis al Vico III Rota n. 20, dell’estensione catastale di circa metri quadrati 3.393... foglio 2, particelle: 1326”, terreno ricadente in zona omogenea B6 “residenziale satura” del P.R.G. - zona omogenea B “urbanizzazione recente” del PUC, in area assoggettata a vincolo paesaggistico e zona sismica di grado 6. 2.1. 2.1. L’efficacia era subordinata “al rilascio, a nome della parte promissaria acquirente (o, nel caso, della stessa parte promittente venditrice in veste di procuratrice), entro il termine del 31 dicembre 2006 [poi posticipato], da parte del Comune di Omissis, del permesso o autorizzazione della D.I.A. a realizzare boxes garages interrati”. 2.2. Sulla scorta di tale scrittura privata, la Ed.Gr., giusta procura speciale dell’avv. -OMISSIS- otteneva il permesso di costruire n. 33 del 24 novembre 2010 per la realizzazione di un’autorimessa interrata. 2.3. A seguito di un esposto, veniva avviata un’indagine penale che sfociava nella sentenza n. 1579 del 4 giugno 2020 con la quale la Corte d’Appello di Napoli accertava “la assoluta e macroscopica illegittimità del permesso a costruire n. 33 del 24.11.2010” per violazione del P.U.T., del P.R.G., del P.U.C. e del Regolamento comunale di attuazione per la realizzazione dei parcheggi, precisando (mediante richiamo alla deposizione del c.t.u.) che secondo le previsioni del P.U.T. nella zona oggetto di intervento “potevano essere realizzati parcheggi pubblici a rotazione, verde attrezzato ed altro (...) però di fatto devono essere sempre interventi pubblici”. In data 22 novembre 2016, il Comune di Omissis notificava al proprietario del fondo e all’impresa esecutrice il provvedimento prot. n. 54834 di presa d’atto della decadenza del permesso di costruire n. 33 del 2010, per lo spirare del termine di ultimazione dei lavori. 3.1. WWF Italia sollecitava il Comune di Omissis alla definizione del procedimento repressivo. Con la sentenza n. -OMISSIS-pronunciata nel giudizio proposto dal WWF Italia avverso il silenzio serbato dal Comune di Omissis su tale istanza, il T.A.R., in accoglimento del ricorso, ordinava all’Amministrazione di provvedere nel termine di trenta giorni. 3.2. Quindi il Comune, con provvedimento comunale prot. n. 24101 del 2018, rigettava l’istanza presentata dalla Ed.Gr. per il rinvio della conferenza di servizi, indetta con nota prot. n. 17303 del 6 aprile 2018 per l’esame del (nuovo) progetto presentato per il ripristino dello stato dei luoghi e per l’edificazione, in regime di convenzione urbanistica, di un’attrezzatura d’interesse pubblico, e ordinava “il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire n. ro 33/2010”. Avverso tale atto insorgeva la Ed.Gr. s.r.l. con ricorso avanti al T.A.R. Campania iscritto al n. -OMISSIS- r.g. 4.1. Nelle more del giudizio intervenivano il provvedimento prot. n. 15923 del 13 maggio 2020, non impugnato, con il quale veniva respinta una nuova istanza di permesso di costruire prot. n. 11787 del 18 marzo 2019, e l’ordinanza n. 59 del 2021, con la quale il Comune disponeva l’acquisizione gratuita del fondo al proprio patrimonio, atto, quest’ultimo, impugnato dalla Ed.Gr. con motivi aggiunti. 4.2. Contro la medesima ordinanza n. 59 del 2021, l’avv. -OMISSIS- proponeva autonomo ricorso iscritto al n. -OMISSIS- r.g. Il T.A.R. Campania, riuniti i ricorsi, ha dichiarato improcedibile il ricorso n. -OMISSIS- r.g. proposto dalla Ed.Gr. s.r.l., per sopravvenuta carenza d’interesse, limitatamente all’impugnazione del provvedimento comunale prot. n. 24101 del 2018 (nella parte relativa al rigetto dell’istanza di rinvio della conferenza di servizi, in quanto superata dall’attivazione di una nuova conferenza di servizi relativa all’ultimo progetto presentato dalla Ed.Gr. in data 18 luglio 2018, con nota prot. n. 33371) e lo ha, per il resto, respinto. 5.1. Il T.A.R. ha, al riguardo, affermato che, sebbene il permesso decada - decorso inutilmente il termine di conclusione dei lavori - per la sola parte non eseguita, ciò tuttavia presuppone la possibilità di portare a compimento l’opera iniziata; diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la possibilità per il privato titolare di un permesso di costruire di abbandonare l’opera incompiuta - specie se funzionalmente non autonoma - con ingiustificato deturpamento del contesto circostante; nel caso in questione, il T.A.R. ha ritenuto l’intervento progettato sicuramente incompatibile con la disciplina giuridica dell’area, come accertato dal Giudice penale prima e dalla Soprintendenza poi e come fatto proprio altresì dal Comune mediante il provvedimento impugnato. Il T.A.R. ha quindi concluso per la legittimità dell’ordinanza di ripristino dell’originario stato dei luoghi mediante eliminazione degli sbancamenti di terra, dello sterro dell’impianto vegetale del fondo e di quant’altro posto in essere in via prodromica all’edificazione, rimasti ormai privi di finalizzazione. 5.2. Quanto ai motivi aggiunti, il T.A.R. li ha respinti, essendo emersa la compromissione delle condizioni dell’intero fondo, tale da giustificare la disposta acquisizione della particella. 5.3. Il giudice di primo grado adito ha respinto anche il ricorso n. -OMISSIS- r.g., non riconoscendo, in capo al ricorrente, la posizione del proprietario incolpevole, argomentando che egli aveva stipulato con la Ed.Gr. un mero contratto preliminare per il trasferimento del diritto di superficie al di sotto del suolo, sospensivamente condizionato al rilascio del permesso di costruire, il che non avrebbe potuto impedirgli di provvedere al ripristino dello stato dei luoghi sulla superficie della particella. La sentenza è stata appellata da entrambe le parti soccombenti. 6.1. Con il ricorso n. -OMISSIS- l’avv. -OMISSIS-lamenta l’erroneità della decisione, “fondata su una motivazione perplessa e contraddittoria, nonché, invero, illegittimamente integrativa della motivazione del provvedimento impugnato”. 6.2. Il permesso di costruire, argomenta l’appellante, non è mai stato annullato in autotutela o revocato ma solo divenuto inefficace per decorrenza dei termini di conclusione dei lavori, con conseguente legittimità delle opere realizzate nella propria vigenza. Il Comune non poteva dare efficacia retroattiva alla decadenza e non poteva disporre il ripristino senza prima annullare il titolo edilizio. 6.3. Il Tribunale Amministrativo, inoltre, per giustificare l’acquisizione dell’intera area, fa riferimento a documenti e provvedimenti estranei al procedimento amministrativo 6.4. L’atto di acquisizione sarebbe comunque illegittimo, avendo il Comune di Omissis omesso qualsiasi motivazione circa l’estensione dell’area da acquisire, individuata semplicisticamente nell’intera particella 1326 di mq 3236 a fronte di uno scavo di mq 1900. 6.5. Quanto al capo relativo all’inottemperanza all’obbligo di demolizione, l’appellante rileva che egli, sin dal rilascio del titolo edilizio, per espressa pattuizione negoziale, non era più nella disponibilità, giuridica e materiale, del bene. 6.6. L’appellante, poi, ripropone le censure non esaminate circa la inapplicabilità della misura dell’acquisizione ex art. 31, co. 3, DPR 380/2001 in danno del proprietario di un immobile rimasto estraneo alla realizzazione delle opere contestate, impossibilitato alla rimozione, nonché in ordine alla circostanza che le opere contestate erano state autorizzate con il PdC n. 33 del 2010, mai oggetto di revoca. Il Comune di Omissis, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità del primo motivo di appello, non avendo l’avv. -OMISSIS-impugnato in primo grado gli atti presupposti dell’ordinanza n. -OMISSIS-, ormai consolidati ed inoppugnabili (precisamente: il provvedimento prot.n. 54034/2016 di decadenza del permesso di costruire n. 33/2010, l’ordinanza n. 24101/2018 di rispristino dello stato dei luoghi e il provvedimento prot.n. 15923/2020 di diniego sull’istanza di permesso di costruire prot.n. 11787/2019 successiva alla decadenza del precedente titolo). 7.1. Il Comune argomenta che, essendo la decadenza del permesso di costruire non suscettibile di contestazione, il ricorrente non ha alcun titolo edilizio legittimante la permanenza in loco delle opere realizzate a seguito del rilascio del precedente titolo. 7.2. Quanto al secondo motivo di appello, il Comune di Omissis rimarca di aver emesso gli atti repressivi stante l’avvenuto scavo nell’area di proprietà del ricorrente nella misura di ben 1.900 mq. 7.3. Quanto al terzo motivo, il Comune rileva che il ricorrente non avrebbe comprovato la presunta mancata disponibilità materiale e giuridica dell’area. Con ordinanza n. 5016/22 è stata respinta la domanda di sospensione. W.W.F. Italia Onlus si è costituita in giudizio per resistere all’appello, adducendo l’illegittimità del titolo edilizio e la correttezza degli atti adottati dal comune, considerato che l’area di intervento risulta dalla sentenza penale estesa mq 3200 e che il proprietario del fondo era pienamente consapevole dell’illegittimità dell’intervento. Con successiva memoria ha rappresentato, tra l’altro, che la sentenza della Corte di Appello di Napoli, sez. II, n. 1579/2020, con la quale è stata accertata l’illegittimità del provvedimento edificatorio n. 33/10, ha retto anche al giudizio per Cassazione, definitosi con declaratoria di inammissibilità giusta sentenza della Sez. 6 penale n. -OMISSIS- L’appellante con memoria ha controdedotto alle eccezioni delle parti appellate. W.W.F. Italia Onlus ha prodotto memoria di replica insistendo nella legittimità degli atti del Comune impugnati in primo grado e nella correttezza dell’ter logico giuridico sotteso alla sentenza appellata. Con appello iscritto al n. -OMISSIS-, la Ed.Gr. s.r.l. ha impugnato la medesima sentenza n. -OMISSIS- lamentandone l’erroneità perché: - andava riconosciuto l’interesse della ricorrente al rinvio della conferenza dei servizi al fine di proseguire l’attività istruttoria cui la ricorrente non aveva mai rinunciato; - a differenza di quanto ritenuto dal T.A.R., la disciplina urbanistica dell’area consentiva ai soggetti privati di costruire, in regime di convenzionamento per l'uso pubblico, un parcheggio di relazione interrato, con sistemazione dell’estradosso a verde attrezzato; - sarebbe erronea la dichiarazione di improcedibilità perché il rigetto della seconda istanza di convocazione della conferenza di servizi non avrebbe fatto venire meno l’interesse ad una pronuncia sull’impugnazione del rigetto della istanza di rinvio; - la motivazione del diniego, relativamente al nuovo progetto, avrebbe dovuto essere incentrata sulla valutazione dell’effettiva contrarietà all’art. 21 delle NTA del PUC, non potendo derivare assiomaticamente dalla contrarietà a tali disposizioni del progetto approvato con il permesso di costruire dichiarato decaduto; - il T.A.R. avrebbe interpretato erroneamente l’art. 15 d.PR. n. 380/2001 facendone derivare l’applicabilità del successivo art. 31 per le opere incompiute, mentre per le opere eseguite in costanza di legittimo titolo edilizio non potrebbe comminarsi l’ordine di demolizione; - l’acquisizione gratuita sarebbe ingiusta, considerato che le opere di cui si era ingiunta la demolizione erano state effettuate in base al permesso di cui era stata poi dichiarata la decadenza, e sproporzionata, data la consistenza delle opere stesse; - le opere edili erano solo in fase embrionale, con conseguente inesistenza di alcuna costruzione in senso tecnico giuridico; - l’ordinanza n. -OMISSIS- era stata emanata dopo la presentazione del ricorso per l’annullamento del provvedimento recante l’ingiunzione di demolizione, avvenuta prima del decorso dei 90 giorni previsti per l’ottemperanza alla stessa ingiunzione. Il Comune di Omissis e W.W.F. Italia Onlus si sono costituiti in giudizio, spiegando difese analoghe a quelle svolte nel giudizio n. -OMISSIS- Con memoria l’appellante ha controdedotto alle argomentazioni degli appellati, insistendo nelle proprie difese ed in particolare nella circostanza che il Comune non avrebbe mai concluso il procedimento instaurato con l’istanza della ditta del 17.1.2017, sicché sarebbe illegittimo l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi come parzialmente modificato in esecuzione del permesso di costruire n. 33/2010, permesso, a sua volta, mai caducato in sede giurisdizionale e mai assoggettato ad autotutela decisoria, ma solo oggetto di decadenza; quindi le opere sarebbero assistite dalla presunzione di legittimità. Il Comune ha prodotto una memoria di replica. All'udienza pubblica del giorno 6 febbraio 2024, esaurita la trattazione orale, i ricorsi sono stati trattenuti in decisione. DIRITTO Preliminarmente dev’essere disposta (ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a.) la riunione degli appelli, proposti avverso la stessa sentenza. Viene preso in esame il ric. n. -OMISSIS- proposto dal proprietario del fondo. 19.1. Al fine di delibare le eccezioni in rito, occorre riportare la sequenza dei provvedimenti amministrativi di cui si controverte. 19.2. Il 22/11/2016 il Comune di Omissis, in relazione al permesso di costruire n. 33/10, notificava al proprietario del fondo in questione e alla impresa esecutrice Ed.Gr. il provvedimento n. prot. 54834 di presa d’atto della decadenza del permesso per lo spirare “del termine utile previsto dalla normativa ai sensi del D.P.R. 380/01 per l’efficacia del titolo concessorio rilasciato in data 24/11/10” con contestuale avviso di avvio del procedimento per l’emissione “dei provvedimenti repressivi e/o sanzionatori previsti dalla normativa vigente in materia urbanistico-edilizia e di tutela paesistico-ambientale, volti all’emissione della ingiunzione al ripristino dello status quo ante...”. 19.3. La ditta costruttrice, con osservazioni del 09/12/16, chiedeva di soprassedere nell’emissione di provvedimenti sanzionatori e di convocare una conferenza di servizi preliminare volta a discutere un nuovo progetto da realizzare nell’area in questione. 19.4. Con ordinanza n. 24101 del 17/05/2018, il Comune di Omissis rilevava che la richiesta di rinvio della conferenza di servizi non poteva aver seguito a causa della presentazione di rinuncia all’incarico, con contestuale diffida all’uso dell’elaborato progettuale, da parte del progettista dell’opera, ing. Elefante. Con il detto provvedimento n. 24101/2018 l’Ente: a) respingeva la richiesta della società costruttrice di rinviare la procedura di 60 giorni onde depositare una ulteriore proposta progettuale, sulla scorta del fatto che, trattandosi di altro progetto, sarebbe stato necessario avviare autonomo procedimento amministrativo; b) dato il mancato completamento dell’opera originaria nel termine utile - anche in ottemperanza di quanto disposto dal Tribunale Amministrativo con la sentenza 2502/18 sul ricorso di W.W.F. Italia avverso l’inerzia del Comune nell’adottare i provvedimenti sanzionatori conseguenti alla decadenza- ordinava il ripristino dello stato dei luoghi. 19.5. La società Ed.Gr. appellava la sentenza n. -OMISSIS-el TAR per la Campania (ricorso rigettato con sentenza del Consiglio di Stato n. 1399/19) e, con autonomo ricorso (RG. 3547/18), impugnava il provvedimento n. 24101. 19.6. Parallelamente, con istanza n. 37501 del 16/08/2018 la medesima società protocollava ulteriore richiesta di conferenza di servizi relativa ad altra proposta progettuale. Quest’ultima conferenza di servizi, in adesione ai motivi ostativi palesati dalla Soprintendenza, si concludeva con verbale del 24/01/2019 (non impugnato) con il quale veniva archiviato il procedimento e ribadita la piena efficacia dell’ordinanza n. 24101/2018. 19.7. Il 18.3.2019 la ditta presentava un nuovo progetto volto al parziale ripristino ed alla realizzazione di un parcheggio interrato, che veniva respinto il 13.5.2020 (atto non impugnato). 19.8. Con il verbale di sopralluogo prot. n. 41697 del 17 settembre 2018 ed il verbale di Polizia Municipale del 10 febbraio 2021 si constatava che: “1) Insiste tuttora sui luoghi il taglio del muro di confine su via Rota, creato al fine di configurare il varco di accesso all’area di cantiere. Il varco risulta protetto da un cancello provvisionale in pannelli di lamiera; 2) Il fondo, ricoperto per la quasi totalità da piante ed arbusti, presenta tracce di parziali opere di sbancamento e livellamento del terreno, in particolar modo nella posizione centrale. Al suo interno sono accatastate alcune gabbie/armature per pali da trivellare, alcuni dissuasori in cemento del tipo prefabbricato (tipo new jersey), oltre che due moduli di tipo prefabbricato (moduli ufficio) nei pressi dell’ingresso. 3) Lungo il perimetro del fondo, adiacenti il muro di confine verso viale Nizza (lato ovest) insistevano una serie di scavi per pali trivellati, dotati di armatura ma privi di getto in cls. 4) Lungo il tratto di confine sul lato Sud (opposto all’ingresso) sono tuttora presenti n. 4/5 pali di fondazione trivellati, completi di getto...” peraltro completati su DIA autorizzata durante il procedimento penale, per ragioni di sicurezza. 19.9. Quindi, il Comune di Omissis, con provvedimento n. -OMISSIS-, accertata l’inottemperanza alla ordinanza n. 24101/2018, relativamente alla mancata rimozione delle opere abusive insistenti nel fondo e al contestuale ripristino dello status quo ante, ordinava l’acquisizione dell’area di sedime delle opere abusive nonché dell’ulteriore area necessaria per il cantiere edile relativo alle opere di demolizione, per la consistenza dell’intera particella 1326 pari a mq 3236 “considerato che solo su parte di essa insistono le opere rilevate nel corso degli accertamenti”, dandosi poi atto che lo scavo occupava circa mq 1900. Il proprietario del fondo ha impugnato solo quest’ultimo atto. Ne consegue la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune con riferimento ai motivi di ricorso che investono gli atti presupposti non impugnati in primo grado dall’avv. Bellacosa. 21.1. Peraltro, nonostante le sentenze penali avessero rilevato l’illegittimità del permesso di costruire, lo stesso non è mai stato annullato (né in sede di autotutela e nemmeno in quella giurisdizionale), per cui le argomentazioni spese in merito alla legittimità dell’intervento risultano irrilevanti. Il ripristino dello stato dei luoghi (ordinanza n. 24101/2018) è stato ingiunto in relazione alla intervenuta decadenza del titolo edilizio, constatata il 22/11/2016 con un atto mai impugnato da alcuno; la stessa ordinanza n. 24101/2018 non è stata impugnata dal ricorrente, che ne ebbe conoscenza quanto meno al momento della notifica del ricorso di primo grado n. -OMISSIS- da parte dell’impresa Ed.Gr.. Quindi il primo motivo di appello (riferito alla legittimità o meno dell’ordine di ripristino di opere legittimamente eseguite in virtù di un titolo poi decaduto) è inammissibile, come eccepito dal Comune. Le argomentazioni svolte dall’appellante in tema di interesse ad agire e relativo giudicato interno risultano, all’evidenza, fuori fuoco: l’inammissibilità scaturisce dalla mancata impugnazione degli atti di decadenza e repressivi, la cui inoppugnabilità preclude all’appellante ogni contestazione. Venendo in esame i profili di ricorso avverso il provvedimento n. -OMISSIS- di acquisizione, unico atto impugnato dall’avv. -OMISSIS-con il ricorso di primo grado, il Collegio rileva la pregiudizialità logica dell’esame dell’appello proposto dalla Ed.Gr., avendo la stessa tempestivamente impugnato l’ordinanza n. 24101/2018 ed il provvedimento di acquisizione. Ove, infatti, risultassero fondate le censure avverso la sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto infondati i motivi di ricorso relativi agli atti antecedenti l’acquisizione, l’accoglimento del ricorso comporterebbe l’annullamento (anche) dell’atto di acquisizione, impugnato dall’avv. Bellacosa. Viene quindi in esame il ricorso in appello n. -OMISSIS- R.G. proposto dalla Ed.Gr. s.r.l. Come esposto in premesse, l’ordinanza n. 24101/2018, in assunta ottemperanza alla sentenza n. -OMISSIS-el TAR per la Campania sul ricorso del W.W.F. Italia e a seguito della decadenza del permesso di costruire n. 33/2010, dichiarata il 22/11/2016, ha ordinato la rimozione delle opere, dopo aver negato il rinvio della conferenza dei servizi. 25.1. Il Collegio osserva che l’interesse al rinvio, come eccepito dal Comune, era venuto meno: come si evince dalla lettura dell’ordinanza, la richiesta di differimento (presentata dal nuovo tecnico dell’impresa) era stata motivata per il fatto che l’originario progettista aveva comunicato la rinuncia all’incarico, diffidando a non utilizzare il suo elaborato, per cui il nuovo progettista aveva chiesto il differimento al fine di approntare un nuovo progetto; cosa che, nonostante il rigetto dell’istanza di rinvio, è poi avvenuta. Come sopra ricordato, infatti, sulla nuova proposta progettuale si è espressa la conferenza dei servizi, che, in adesione ai motivi ostativi palesati dalla Soprintendenza, con verbale del 24/01/2019 (non impugnato) ha archiviato il procedimento e ribadita la piena efficacia dell’ordinanza n. 24101/2018. Peraltro, il 18.3.2019 la ditta presentava un nuovo progetto volto al parziale ripristino ed alla realizzazione di un parcheggio interrato, che veniva respinto il 13.5.2020 (atto non impugnato). Quindi l’interesse sotteso alla richiesta di rinvio -la possibilità di approntare e presentare un nuovo progetto- è stato comunque raggiunto dalla ditta, con ciò manifestando anche de facto l’abbandono del precedente elaborato, comunque implicito nella richiesta di rinvio per la presentazione di un nuovo progetto. Ne consegue l’infondatezza dell’appello, in parte qua. Priva di rilevanza risulta la questione circa la (asserita) compatibilità dell’intervento (originariamente) progettato (ma poi abbandonato) con lo strumento urbanistico, essendosi l’interesse spostato sul nuovo progetto, che però è stato archiviato con provvedimento (come visto sopra) non impugnato. Parimenti irrilevanti sono le questioni ampiamente articolate in ordine alla legittimità del permesso di costruire: l’ordine di ripristino, infatti, è stato esplicitamente adottato in conseguenza della decadenza (dichiarata il 22/11/2016, con atto non impugnato), pur avendo il Comune introdotto in narrativa ampia dissertazione circa l’illegittimità del pdc che, però, non è stato annullato. Ne consegue, quindi, l’irrilevanza delle questioni sollevate dall’impresa in relazione ad un titolo edilizio decaduto ma mai annullato e posto che l’ordine di ripristino è stato emesso in conseguenza della dichiarata decadenza. Viene, a questo punto, in esame il profilo di appello relativo alla sorte delle opere eseguite in costanza di un titolo edilizio successivamente decaduto. 28.1. Come esposto in premesse, il giudice di prime cure ha affermato che, sebbene il permesso decada - decorso inutilmente il termine di conclusione dei lavori - per la sola parte non eseguita, il mantenimento delle opere presuppone la possibilità di portare a compimento l’opera iniziata; diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la possibilità per il privato titolare di un permesso di costruire di abbandonare l’opera incompiuta - specie se funzionalmente non autonoma - con ingiustificato deturpamento del contesto circostante, specie se l’opera contrasti con la regolamentazione urbanistica dell’area. 28.2. L’appellante censura il capo di sentenza, osservando che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio valido ma poi decaduto non possono essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del D.P.R. 380/2001, che riguarda le opere eseguite sine titulo ovvero abusivamente, e data la tassatività delle norme sanzionatorie non può essere esteso a fattispecie non espressamente contemplate. Il Collegio osserva che sulla questione si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di questo Consiglio, affermando che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini - cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di utilizzo /inutilizzo del titolo - ha efficacia ex nunc e non ex tunc e quindi non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive) - ove queste risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire - ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate; in mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la legittimità dell'ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all'intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza (Consiglio di Stato sez. VI, 27/06/2022, n. 5258, 19/03/2021, ord n. 1377 ed ivi richiam. Cons. St., IV, 6 agosto 2019 n. 5588). Per Consiglio di Stato, sez. VI, 19 dicembre 2019 n. 8605, una eventuale decadenza del titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nel termine triennale non consentirebbe la demolizione del manufatto, operando l'effetto decadenziale ex nunc e lasciando, pertanto, salve le opere a tale data già realizzate: <Invero, in una corretta interpretazione dell'articolo 15 del DPR n. 380 del 2001, la decadenza impedisce solo l'ulteriore corso dei lavori ma non determina illeceità urbanistica di quanto già realizzato nella vigenza del titolo edificatorio. Come più sopra precisato, infatti, l'abusività dell'opera (e la sua conseguente demolizione) avrebbe potuto legittimamente predicarsi solo per effetto dell'annullamento del permesso di costruire per vizi di legittimità, determinazione questa nella specie mai assunta.>. 29.2. D’altra parte, si può osservare che, se l’art. 31 del D.P.R. 380/2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione, l’art. 38 dello stesso Decreto ha disciplinato il particolare caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato”, prevedendo la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a demolire possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere. Il Consiglio di Stato (cfr. ad es. sent. n. 6753/2018 della Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del DPR 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (cfr. ex multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018). Motivo per cui striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art. 31 in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto. D’altra parte, il Collegio osserva che l’orientamento del giudice di prime cure appare non irragionevole e tuttavia, in carenza di una norma che espliciti il regime delle opere parzialmente eseguite cui non faccia seguito il completamento dei lavori in virtù di un nuovo titolo (come nel caso in questione, in cui l’impresa si è vista respingere per due volte un progetto di completamento, in virtù di atti cui ha prestato acquiescenza), andrebbe esclusa l’applicazione analogica di una disciplina sanzionatoria espressamente circoscritta ad opere eseguite senza titolo (o in difformità dallo stesso). Potrebbe, tuttavia, ritenersi che l’opera parziale costituisca un manufatto difforme dall’intervento edilizio autorizzato, e per questa via possa ritenersene precluso il mantenimento. Poiché la tesi da ultimo suggerita potrebbe porsi in frizione con gli orientamenti precedentemente richiamati, il Collegio ritiene di sollecitare l’intervento dell’Adunanza plenaria. Viene dunque rimesso all’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato il seguente quesito: quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio. Ogni ulteriore statuizione sugli appelli in epigrafe e sulle spese è riservata alla decisione definitiva. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, dispone: - la riunione degli appelli in epigrafe; - il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del quesito indicato in motivazione. Manda alla segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i soggetti privati citati nel presente provvedimento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli, Presidente FF Francesco Guarracino - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Giancarlo Carmelo Pezzuto - Consigliere Maria Stella Boscarino - Consigliere, Estensore L'ESTENSORE IL PRESIDENTE Maria Stella Boscarino Dario Simeoli IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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