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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Ceterina - Consigliere - Rel. Dott. TRICOMI Irene - Consigliere Dott. BELLÈ Roberto - Consigliere Dott. CASCIARO Salvatore - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 27598 - 2019 proposto da: Ra.An., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato NI.CE., con diritto di ricevere le comunicazioni all'indirizzo pec dei Registri di Giustizia; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dall'Avvocato DA.MA.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 24/2019 della CORTE D'APPELLO di POTENZA, depositata il 19/03/2019 R.G.N. 135/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per la sospensione del giudizio e trasmissione atti alla Corte costituzionale; udito l'avvocato VI.SA. per delega verbale avvocato NI.CE.. FATTI DI CAUSA 1. La Corte di appello di Potenza, confermando la decisione del Tribunale di Matera, rigettava la domanda, proposta da Ra.An., già dipendente a tempo indeterminato della Provincia di Matera, di condanna dell'INPS al pagamento immediato in suo favore del TFS, la cui erogazione, ai sensi dell'art. 2, comma 11, del D.L. n. 95/2012 nonché dell'art. 1, commi 484 e 485 della legge n. 147/2013, era stata invece posticipata dal momento del prepensionamento a quello del compimento dell'età pensionabile fissata ex lege n. 201 del 2011. Escludeva la Corte territoriale ogni comparabilità tra lavoro pubblico e lavoro privato. Rilevava che, nello specifico, il prepensionamento, conseguente all'esubero per soprannumero dei dipendenti provinciali, aveva evitato una espulsione non protetta dal mondo del lavoro. Riteneva che, a fronte di un riconosciuto prepensionamento prima del naturale maturare dei requisiti, non era incongruo postergare il TFS al momento in cui il diritto al pensionamento sarebbe venuto a maturazione. 2. Avverso tale sentenza Ra.An. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. 3. L'INPS ha resistito con controricorso l'INPS. 4. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis 1 cod. proc. civ. 5. Con ordinanza interlocutoria n. 8727/2024, questa Corte ha ritenuto che le questioni poste dal ricorso e, in particolare, quella relativa alla verifica del rispetto dei parametri costituzionali - e specie degli artt. 36 e 38 Cost. - da parte dell'art. 2, comma 11, lett. a) n. 2 del D.L. n. 95 del 2012, necessitassero dell'approfondimento in pubblica udienza anche allo scopo di sentire le parti sul punto, verificando, nel contraddittorio, la sussistenza o meno di ragioni idonee a sostenere, nel bilanciamento fra i contrapposti interessi, il pagamento differito dell'emolumento per cui è causa, ciò alla luce di una possibile diversità del caso qui all'esame rispetto a quelli già oggetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023. Ha, pertanto, rinviato la causa a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza. 6. Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo affinché il Collegio, attesa la rilevanza e non manifesta infondatezza della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 11, lett. a, n. 2, del D.L. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 36 e 38 Cost., trasmetta gli atti alla Corte costituzionale e sospenda il processo. 7. Il ricorrente, udita la requisitoria anche orale del Pubblico Ministero, ha proceduto a discussione orale. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., degli artt. 3 e 36 della Costituzione per aver la Corte di appello ritenuto che l'art. 2, comma 11, lett. a), n. 2, del D.L. n. 95 del 2012, convertito con modif. con l. n. 235 del 2012, lungi dal costituire una violazione del principio di uguaglianza, rappresenti un giusto bilanciamento di contrapposte esigenze. Si insiste che la norma innanzi richiamata comporta una disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati e che il ricorrente, trovatosi in una situazione di soprannumero che ne ha cagionato il prepensionamento, è stato di conseguenza privato, in un sol colpo, della retribuzione e, nell'immediato, anche della liquidazione, in applicazione della disposizione innanzi ricordata. 2. Con il secondo motivo viene denunziata la violazione e falsa applicazione - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. - dell'art. 3 della Costituzione per non aver ritenuto fondato il motivo di appello in cui denunziava che l'art. 2, comma 11, lett. a, n. 2, del D.L. n. 95 del 2012 cit. opera una discriminazione ingiustificata tra lavoro pubblico e privato. 3. Con il terzo mezzo viene prospettata la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., dei principi di cui agli artt. 3 e 36 della Costituzione per aver la Corte territoriale ritenuto non comparabile la condizione di chi matura il diritto al trattamento di fine servizio in coincidenza con il pensionamento e subisce la dilazione e chi lo matura, invece, in ipotesi di prepensionamento. 4. Con la quarta doglianza viene lamentata la violazione dell'art. 111 della Costituzione e dell'art. 132 cod. proc. civ. n. 4, nonché, ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l'omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia per non aver la Corte territoriale tenuto conto delle questioni sollevate dall'appellante circa la violazione degli artt. 4, 35, 36 e 38, comma 2, della Costituzione. 5. I motivi, da trattare congiuntamente stante l'intrinseca connessione, sono infondati per le ragioni di seguito illustrate. 6. In disparte i profili di inammissibilità di tutti e quattro i motivi perché "non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale (vedi: art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87), mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo in quanto, in riferimento alle questioni di legittimità costituzionale in via incidentale l'iniziativa spetta esclusivamente al giudice e le parti possono presentare soltanto delle deduzioni nel processo dinanzi alla Corte costituzionale e possono, eventualmente, limitarsi a sollecitare anche motivatamente il giudice a sollevare la questione di costituzionalità" (cfr. Cass. 9 luglio 2020, n. 14666 e la successiva conforme Cass. 20 marzo 2023, n. 8033; v. anche Cass. 18 febbraio 1999 n. 1358; Cass. 22 aprile 1999, n. 3990; Cass. 29 ottobre 2003, n. 16245; Cass. 16 aprile 2018, n. 9284; Cass. 24 febbraio 2014, n. 4406; Cass. 22 gennaio 2019, n. 1624) e del quarto mezzo altresì perché irritualmente evoca il n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ. ed il mancato esame di un fatto, laddove quella che viene prospettata è una mera questione giuridica. 7. La disposizione per cui è causa è l'art. 2 del D.L. 6 luglio 2012 n. 95 convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 135 - "Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario" che, al comma 11, nel testo ratione temporis vigente, come modificato dall'art. 2, comma 1, lett. a), numero 1), del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, ha così previsto: "11. Fermo restando il divieto di effettuare, nelle qualifiche o nelle aree interessate da posizioni soprannumerarie, nuove assunzioni di personale a qualsiasi titolo per tutta la durata del soprannumero, le amministrazioni possono coprire i posti vacanti nelle altre aree, da computarsi al netto di un numero di posti equivalente dal punto di vista finanziario al complesso delle unità soprannumerarie di cui alla lettera a), previa autorizzazione, secondo la normativa vigente, e verifica, da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica e del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, anche sul piano degli equilibri di finanza pubblica, della compatibilità delle assunzioni con il piano di cui al comma 12 e fermo restando quanto disposto dall'articolo 14, comma 7, del presente decreto. Per le unità di personale eventualmente risultanti in soprannumero all'esito delle riduzioni previste dal comma 1, le amministrazioni, previo esame congiunto con le organizzazioni sindacali, avviano le procedure di cui all' articolo 33 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, adottando, ai fini di quanto previsto dal comma 5 dello stesso articolo 33, le seguenti procedure e misure in ordine di priorità: a) applicazione, ai lavoratori che risultino in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi i quali, ai fini del diritto all'accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico in base alla disciplina vigente prima dell'entrata in vigore dell'articolo 24 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, avrebbero comportato la decorrenza del trattamento medesimo entro il 31 dicembre 2016, dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva nonché del regime delle decorrenze previsti dalla predetta disciplina pensionistica, con conseguente richiesta all'ente di appartenenza della certificazione di tale diritto. Si applica, senza necessità di motivazione, l'articolo 72, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Ai fini della liquidazione del trattamento di fine rapporto comunque denominato, per il personale di cui alla presente lettera: 1) che ha maturato i requisiti alla data del 31 dicembre 2011 il trattamento di fine rapporto medesimo sarà corrisposto al momento della maturazione del diritto alla corresponsione dello stesso sulla base di quanto stabilito dall'articolo 1, commi 22 e 23, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148; 2) che matura i requisiti indicati successivamente al 31 dicembre 2011 in ogni caso il trattamento di fine rapporto sarà corrisposto al momento in cui il soggetto avrebbe maturato il diritto alla corresponsione dello stesso secondo le disposizioni dell'articolo 24 del citato decreto-legge n. 201 del 2011 e sulla base di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 22, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148; b) predisposizione, entro il 31 dicembre 2013, di una previsione delle cessazioni di personale in servizio, tenuto conto di quanto previsto dalla lettera a) del presente comma, per verificare i tempi di riassorbimento delle posizioni soprannumerarie; c) individuazione dei soprannumeri non riassorbibili entro tre anni a decorrere dal 1 gennaio 2013, al netto dei collocamenti a riposo di cui alla lettera a); d) in base alla verifica della compatibilità e coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica e del regime delle assunzioni, in coerenza con la programmazione del fabbisogno, avvio di processi di mobilità guidata, anche intercompartimentale, intesi alla ricollocazione, presso uffici delle amministrazioni di cui al comma 1 che presentino vacanze di organico, del personale non riassorbibile secondo i criteri del collocamento a riposo da disporre secondo la lettera a). I processi di cui alla presente lettera sono disposti, previo esame con le organizzazioni sindacali che deve comunque concludersi entro trenta giorni, mediante uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministeri competenti e con il Ministro dell'economia e delle finanze". 8. Alla suddetta disposizione ha fatto seguito la legge 27 dicembre 2013, n. 147 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato", legge di stabilità 2014, che ai commi 484 e 485 ha previsto che: "484. Con effetto dal 1 gennaio 2014 e con riferimento ai soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento a decorrere dalla predetta data: a) all'articolo 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, le parole: "90.000 Euro" sono sostituite dalle seguenti: "50.000 Euro", le parole: "150.000 Euro" sono sostituite dalle seguenti: "100.000 Euro" e le parole: "60.000 Euro" sono sostituite dalle seguenti: "50.000 Euro"; b) all'articolo 3 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni, al comma 2, primo periodo, le parole: "decorsi sei mesi" sono sostituite dalle seguenti: "decorsi dodici mesi". 485. Resta ferma l'applicazione della disciplina vigente prima della data di entrata in vigore della presente legge per i soggetti che hanno maturato i relativi requisiti entro il 31 dicembre 2013". 9. Di fatto, le suddette previsioni normative rendevano, nello specifico, esigibile il TFS decorsi dodici mesi dal mese di maggio 2020, anziché nel più favorevole termine di sei mesi dalla data di cessazione del servizio. 10. La questione posta dal ricorso riguarda la compatibilità con le norme costituzionali delle indicate disposizioni nella parte in cui hanno appunto previsto il differimento del trattamento di fine rapporto al momento in cui il soggetto avrebbe maturato il diritto alla corresponsione dello stesso secondo le disposizioni dell'art. 24 del D.L. n. 201 del 2011 e sulla base di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 22, del D.L. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. 11. Ad avviso del Collegio non sussiste alcuna violazione dell'art. 3 della Costituzione nel rapporto di comparazione fra lavoro privato e pubblico in considerazione della diversità di regolamentazione e regime, pur dopo la privatizzazione del pubblico impiego privatizzato. 12. La giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito la distinzione tra rapporto di lavoro privato e di pubblico impiego contrattualizzato. Ciò è in particolare avvenuto con riguardo al regime della prescrizione: "La privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (articolo 51, secondo comma, D.Lgs. 165/2001 e, all'attualità, articolo 63, secondo comma, D.Lgs. cit.), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell'art. 36 D.Lgs. cit.) ... " (Cass. 19 novembre 2021, n. 35676, in motivazione sub p.to 42, così, massimata: "In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela"). Si veda anche Cass., Sez. Un., 28 dicembre 2013, n. 36197 che tali principi ha richiamato. Eguale principio è stato affermato con riferimento alle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 all'art. 18 precisandosi che "non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata legge n. 92, resta quella prevista dall'art. 18 legge cit. nel testo antecedente la riforma", ciò in quanto "una eventuale modulazione delle tutele nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l'impiego privato; poiché, come avvertito dalla Corte costituzionale, mentre in quest'ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte cost. 24 ottobre 2008 n. 351)". 13. È pur vero che, come precisato da Corte cost. n. 159 del 2019, l'evoluzione normativa, "stimolata dalla giurisprudenza costituzionale" (sentenza n. 243 del 1993, punto 4. del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell'àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall'art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante "Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti"). Sempre ad avviso del Giudice delle leggi, tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell'autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell'uscita dalla vita lavorativa attiva. Nel settore pubblico, le indennità in esame presentano una natura retributiva, avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto. Esse rappresentano il frutto dell'attività lavorativa prestata (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto) e costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, che spetta ai superstiti "nel caso di decesso del lavoratore in servizio" (sentenza n. 243 del 1997, punto 2.3. del Considerato in diritto). Le indennità sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo precipuo di "agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione" (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto). In questo si coglie la funzione previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta l'autentica ragion d'essere dell'erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, la stessa Corte cost., nella ridetta sentenza n. 159 del 2019, ha evidenziato che il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81 Cost.). L'esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa, connaturata all'intera disciplina del rapporto di lavoro pubblico ed estranea all'àmbito del lavoro privato, preclude, dunque, il raffronto che il ricorrente prospetta. Non va sottaciuto, inoltre, che, nello specifico, il pagamento differito della indennità di fine rapporto, riguarda un lavoratore che non aveva raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dall'ordinamento di appartenenza. Si evince, infatti, dalla sentenza impugnata che il Ra.An., quando fu collocato in prepensionamento (31 dicembre 2015) aveva sessantadue anni ed aveva svolto ventisei anni e dieci mesi di servizio (avendo lavorato presso l'Amministrazione Provinciale di Matera dal 2/1/1989 al 31/10/2015. Ciò evidenzia la differenza rispetto al sistema ordinario e già in sé giustifica il diverso trattamento. 14. Quanto alla specifica questione del trattamento di fine servizio differito, sia Corte cost. n. 159 del 2019 che Corte cost. n. 130 del 2023 (che alla prima largamente si richiama), diffusamente citate dal ricorrente nella memoria, pur affermando che sono incompatibili con la Costituzione le norme che prevedono di corrispondere in ritardo il trattamento di fine servizio, ancorché previste per disincentivare i pensionamenti anticipati e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell'attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita e pur rilevando che le scelte discrezionali adottate in tale àmbito dal legislatore, anche in un'ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost., hanno precisato però che l'imperativo vale solo per i dipendenti P.A. che vanno in pensione di vecchiaia con esclusione delle altre formule di pensione anticipata, come quella che qui ci occupa. In particolare, Corte cost. n. 159 del 2019 con riguardo alla disposizione di cui all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 che, nel testo originario, prevedeva che: "2. Alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, per i dipendenti di cui al comma 1, loro superstiti o aventi causa, che ne hanno titolo, l'ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell'amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Alla corresponsione agli aventi diritto l'ente provvede entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi", ha affermato che il differimento dell'erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una cessazione del rapporto di lavoro che può intervenire anche quando non sia ancora maturato il diritto alla pensione. Il trattamento più rigoroso si correla alla particolarità di un rapporto di lavoro che, per le ragioni più disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a una scelta volontaria dell'interessato, cessa anche con apprezzabile anticipo rispetto al raggiungimento dei limiti di età o di servizio. La disciplina è graduata in funzione di tale elemento distintivo sul presupposto che, proprio con il raggiungimento dei limiti indicati, si manifestino in maniera più pressante i bisogni che le indennità di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi di erogazione più spediti. In tale caso, l'assetto delineato dal legislatore non solo è fondato su un presupposto non arbitrario, ma è anche temperato da talune deroghe per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la "cessazione dal servizio per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente", che impone all'amministrazione competente, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, di trasmettere la documentazione competente all'ente previdenziale, obbligato a corrispondere il trattamento "nei tre mesi successivi alla ricezione della documentazione" (art. 3, comma 5, del D.L. n. 79 del 1997). Il regime di pagamento differito, analizzato nel peculiare contesto di riferimento, nelle finalità e nell'insieme delle previsioni che caratterizzano la relativa disciplina, non risulta dunque complessivamente sperequato. 15. Quanto, in particolare, al verificarsi di esuberi (che è una delle suddette ragioni giustificatrici di un trattamento differenziato), va evidenziato che rientra tra gli obblighi della P.A. quello di identificare, previa adozione delle procedure descritte nell'art. 33 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e l'art. 2 del D.Lgs. n. 95 del 2012, ruoli in eccedenza o soprannumero: ognuno di questi soggetti, in presenza dei requisiti, sarà ammesso al prepensionamento, da intendersi come risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro del personale in soprannumero o eccedentario, beneficiando della ultrattività (fino al 31 dicembre 2016) delle disposizioni relative ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico e alle decorrenze di tale trattamento previgenti rispetto alla riforma prevista dall'art. 24 del D.L. n. 201 del 2011, esclusivamente a favore di tale personale. Diversamente dovrà essere aperta dall'Amministrazione la messa in mobilità del lavoratore. L'individuazione degli esuberi può dipendere da varie ragioni: -riduzione delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali disposta dall'art. 2 del D.L. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 135 del 2012; - ragioni funzionali ricollegabili alla revisione del fabbisogno di personale, conseguente all'attuazione di misure di razionalizzazione degli assetti organizzativi e dei procedimenti amministrativi, quale misura straordinaria e ulteriore rispetto alla ricognizione annuale ordinariamente prevista; - ragioni finanziarie riferite a situazioni di squilibrio finanziario rilevate dagli organi competenti (collegio dei revisori, Corte dei conti, amministrazione vigilante) o descritte da specifiche disposizioni normative; - piani di ristrutturazione decisi dalle amministrazioni pubbliche seguendo la procedura di ricognizione del fabbisogno derivante dal combinato disposto dell'art. 6 e dell'art. 33 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Nei suddetti casi l'Amministrazione dovrà acquisire la certificazione da parte dell'ente previdenziale del diritto a pensione e della relativa decorrenza e solo all'esito potrà procedere, nei limiti del soprannumero, alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, tenuto conto del regime delle decorrenze, nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti indicati nella disposizione (art. 2, comma 6, del D.L. n. 101 del 2013), trovando applicazione anche in questo caso l'art. 72, comma 11, del D.L. n. 112 del 2008, che prevede la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro del personale dipendente a decorrere dal raggiungimento dei requisiti contributivi di cui all'art. 24, comma 20, del D.L. n. 201 del 2011. Secondo quanto chiarito da una successiva norma di interpretazione autentica, "l'amministrazione, nei limiti del soprannumero, procede alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti indicati nella disposizione " (art. 2, comma 6, del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, recante "Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni", convertito, con modificazioni, nella legge 30 ottobre 2013, n. 125). 16. Tale essendo il sistema delineato dal legislatore, non è configurabile, quanto al previsto differimento, la violazione degli artt. 4, 35, 36 e 38, comma 2, della Costituzione. 17. Come chiarito da Corte cost. n. 198 del 2023, la disciplina di cui si tratta ha consentito, dunque, una speciale ipotesi di fuoriuscita dei dipendenti dall'amministrazione tramite l'ultrattività (fino al 31 dicembre 2016) delle disposizioni relative ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico previgenti rispetto alla riforma del sistema previdenziale prevista dall'art. 24 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito: ai soprannumerari, che dal 1 gennaio 2012, secondo le più rigide regole della "legge Fornero", non avevano diritto alla pensione, prevedendo eccezionalmente la possibilità del pensionamento secondo le più favorevoli norme previgenti, ove, tra l'altro, avessero maturato, entro il 2016, i relativi requisiti. Appare evidente che il legislatore ha introdotto il prepensionamento come ipotesi in deroga alla riforma generale sulle pensioni, così conferendo carattere eccezionale all'istituto, con la conseguenza che la relativa disciplina necessita di stretta interpretazione. Ciò per neutralizzare le conseguenze che diversamente sarebbero derivate dalla ineludibile messa in mobilità. Alla luce delle predette disposizioni, il collocamento in quiescenza del dipendente è stato subordinato, dunque, al ricorrere di alcune condizioni soggettive costituite: a) dalla sua individuazione dalla pubblica amministrazione come unità in soprannumero; b) dal possesso, al 31 dicembre 2016, dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva per come stabiliti nella disciplina previdenziale anteriore al D.L. n. 201 del 2011, come convertito; c) dal raggiungimento alla stessa data del termine di conseguibilità del trattamento pensionistico (cosiddetta decorrenza o finestra mobile). Il giudice delle leggi si è così testualmente espresso: "Tali requisiti non sono però sufficienti a perfezionare la fattispecie pensionistica, piuttosto congegnata come fattispecie a formazione progressiva: il legislatore, ove rimetta all'amministrazione la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro condizionandola ai "limiti del soprannumero", subordina il prepensionamento del singolo dipendente all'ulteriore verifica che esso serva effettivamente ad eliminare l'eccedenza di personale, tenuto conto delle ulteriori misure di riassorbimento già adottate. Ne consegue che, al riscontro dei requisiti di anzianità e decorrenza in capo al lavoratore soprannumerario da parte dell'ente di previdenza, può comunque non seguire la risoluzione del rapporto di lavoro da parte dell'amministrazione datrice di lavoro. Per come chiarito dalle circolari del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 4 del 28 aprile 2014 e n. 3 del 29 luglio 2013, può, infatti, accadere che l'esubero sia già risolto con un numero sufficiente di pensionamenti ordinari, rispetto al quale quello in deroga ha valore solo sussidiario, o che vi sia un numero di dipendenti muniti dei requisiti per l'accesso all'eccezionale pensionamento anticipato che oltrepassa il contingente in soprannumero. Così, nello specifico caso in cui pervengano plurime domande di prepensionamento eccedenti il rilevato esubero, l'amministrazione dovrà procedere ad un parziale accoglimento delle richieste secondo predefiniti criteri di priorità". In conclusione, ad avviso del Giudice costituzionale, "il legislatore non configura il pensionamento 'in deroga' come un diritto soggettivo 'puro' del dipendente pubblico, delineato compiutamente nella previsione normativa, bensì come diritto condizionato alla determinazione organizzativa dell'amministrazione. Il dipendente potrà avere diritto alla quiescenza solo se egli rientra, nel concreto, tra le unità che la pubblica amministrazione ha necessità di riassorbire" (v. Corte Cost. n. 198 del 2023, cit.). Questo evidenzia come anche nell'ipotesi in esame sussista il presupposto della volontarietà del prepensionamento (come alternativa alla mobilità), esclusa essendo ogni assoluta automaticità ma altresì come la deroga rispetto al sistema ordinario (oggetto delle pronunce della Corte cost. n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023 nelle quali, come detto, è stata operata una distinzione tra le ipotesi in cui, raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate "attraverso la prestazione dell'attività lavorativa e come frutto di essa" rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana e le deroghe legislativamente previste) sia integrata dal previsto riconoscimento ai soprannumerari, che dal 1 gennaio 2012, secondo le più rigide regole della "legge Fornero", non avevano diritto alla pensione, del godimento del trattamento pensionistico tramite l'ultrattività (fino al 31 dicembre 2016) delle più favorevoli disposizioni relative ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico previgenti rispetto alla riforma del sistema previdenziale prevista dall'art. 24 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito. 18. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato. 19. La complessità e peculiarità delle questioni trattate costituisce motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. 20. Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali di cui all'art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma,nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di cassazione il 2 luglio 2024. Depositata in Cancelleria l 25 settembre 224.
AULA 'B' 2024 1677 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. ROSSANA MANCINO - Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. LUIGI CAVALLARO - Consigliere - Dott. FRANCESCO BUFFA - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 19235-2022 proposto da: CARECCI ABBONDANZA COSIMA, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato GIACOMO LISI; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONELLA PATTERI, GIUSEPPINA GIANNICO, SERGIO PREDEN, LIDIA CARCAVALLO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 39/2022 della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositata il 24/01/2022 R.G.N.; 733/2021 udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/04/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Oggetto R.G.N. 19235/2022 Cron. Rep. Ud. 09/04/2024 PU Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato SERGIO PREDEN. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.Con sentenza del 24.1.22 la corte d’appello di Lecce, in riforma di sentenza del tribunale della stessa sede del 17.3.21, ha rigettato la domanda della lavoratrice in epigrafe di pensione anticipata ex legge n. 214 del 2011. 2.In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che la pensione anticipata richiede requisiti contributivi minimi effettivi e non consente accrediti figurativi per malattia o disoccupazione, perché i requisiti contributivi di 35 anni richiesti dalla precedente normativa sono rimasti invariati. 3.Avverso questa sentenza ricorre la lavoratrice per due motivi, cui resiste l’Inps con controricorso. 4.Il Procuratore generale ha concluso all’udienza per il rigetto del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 5.Il primo motivo di ricorso deduce violazione dell’articolo 24, commi 10 e 11, della legge n. 214 del 2011; il secondo motivo deduce omesso esame di fatto decisivo ex numero 5 dell’articolo 360 c.p.c. 6.I motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione. 7.Il sistema della prestazione pensionistica anticipata rispetto alla vecchiaia è cambiato all’esito della legge del 2011. 8.La riforma del 2011 (d.l. n. 201 del 2011 convertito con modifiche nella legge n. 214 del 2011), meglio nota come "riforma Monti- Fornero", completò la transizione della riforma del 1995 (legge n. 335 del 1995) in un periodo di aggravamento della crisi economico - finanziaria già in atto dai primi anni del 2000 (cd. crisi dello spread). Il contenuto sostanziale del provvedimento è racchiuso nell'art. 24, il quale affronta il tema dell'unificazione dei trattamenti pensionistici dal punto di vista del calcolo della pensione e dell'innalzamento dell'età di accesso effettivo alla prestazione, innovando la disciplina della pensione di vecchiaia e mantenendo in vita, entro limiti assai più rigorosi, la pensione di anzianità, che da quel momento ha assunto la denominazione di "pensione anticipata". 9.La legge del 2011 ha dunque introdotto una nuova prestazione, con criteri distinti rispetto a quelli pregressi che erano stabiliti per la pensione di anzianità. La legge invero disciplina le prestazioni pensionistiche a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, che maturano i requisiti a partire dalla medesima data. 10.All’esito della riforma, dunque, il vecchio requisito dei 35 anni non opera più nel nuovo sistema: la sentenza impugnata, che invoca l’applicabilità del vecchio regime normativo dei 35 anni di contribuzione, è dunque errata in diritto e deve essere cassata. 11.Nel nuovo sistema normativo, i requisiti della prestazione della pensione anticipata sono dettati dai commi 10 ed 11 sopra richiamati: il comma 10 prevede che l'accesso alla pensione anticipata ad età inferiori ai requisiti anagrafici previsti è consentito esclusivamente se risulta maturata un'anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, con riferimento ai soggetti che maturano i requisiti nell'anno 2012. 12.Il comma 11 prevede che “fermo restando quanto previsto dal comma 10, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996, il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di sessantatre anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell'assicurato almeno venti anni di contribuzione effettiva e che l'ammontare mensile della prima rata di pensione risulti essere non inferiore ad un importo soglia mensile …” 13.Il co. 11, in particolare, interessa quei pensionati per i quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1 gennaio 1996, in altri termini coloro per i quali il trattamento pensionistico ricade integralmente sotto il calcolo contributivo, essendo andata a pieno regime la riforma di cui alla legge n. 335 del 1995: anche per tali assicurati, alla cessazione del rapporto, è consentita la possibilità di vedersi riconoscere la pensione anticipata con i presupposti sopra descritti, ma -e qui subentra una differenza sostanziale rispetto all'ipotesi di cui al comma 10- in questo caso rientra in gioco l'età anagrafica (63 anni), purché, però, l'interessato o l'interessata possano far valere un'anzianità assicurativa di almeno venti anni di "contribuzione effettiva". 14.Questa Corte -che in precedenza, con sentenza n. 30265 del 2022 ha optato per una lettura restrittiva delle norme, sul presupposto di una finalità disincentivante del pensionamento anticipato perseguita dalla riforma- rileva tuttavia che l’esclusione della contribuzione figurativa dall’ambito di applicazione del co. 10 (come invocata dall’INPS) avrebbe scarsa giustificazione e porterebbe alla sostanziale disapplicazione della fattispecie, atteso l’ampiezza della contribuzione (ben 42 anni) richiesta per beneficiare della prestazione. 15.Peraltro, sulla base del criterio letterale dell’interpretazione delle norme in discorso la domanda di pensione anticipata della lavoratrice, sulla base del computo in via aggiuntiva della contribuzione figurativa maturata, risulta fondata, in quanto solo nel comma 11 si richiede l’effettività della contribuzione, mentre nel comma 10 nulla si dice. 16.Invero, nel nuovo sistema normativo che segna il passaggio dalla pensione di anzianità alla pensione anticipata, il comma 10, a differenza del comma 11, non fa riferimento all’effettività della contribuzione (né richiama il regime contributivo successivo al 1996), ma si limita a richiamare la contribuzione utile; per converso, nel comma 11 si dà rilievo alla contribuzione effettiva (per 20 anni) in collegamento con l’età. 17.Può dunque affermarsi che, nel sistema di cui all’art. 24, co. 10, della legge n. 214 del 2011, che prevede l'accesso alla pensione anticipata ad età inferiori ai requisiti anagrafici previsti se risulta maturata un'anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, la contribuzione figurativa può concorrere ad integrare i presupposti per il pensionamento, laddove nel sistema di cui al co. 11 (che consente l’accesso alla pensione anticipata anche sulla base del requisito anagrafico oltre che di quello contributivo) la minor contribuzione richiesta deve essere effettiva. 18.La sentenza impugnata, che non si è attenuta al richiamato principio, deve essere cassata e la causa va rinviata alla stessa corte d’appello in diversa composizione per un nuovo esame, ed anche per le spese di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 9 aprile 2024. Il Presidente Umberto Berrino Il Consigliere estensore Francesco Buffa
AULA 'B' 2024 1676 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. ROSSANA MANCINO - Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. LUIGI CAVALLARO - Consigliere - Dott. FRANCESCO BUFFA - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 15894-2022 proposto da: GIANNUZZI ANNA, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato GIACOMO LISI; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONELLA PATTERI, SERGIO PREDEN, LIDIA CARCAVALLO, GIUSEPPINA GIANNICO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 1266/2021 della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositata il 10/12/2021 R.G.N. 1033/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/04/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Oggetto R.G.N. 15894/2022 Cron. Rep. Ud. 09/04/2024 PU Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato SERGIO PREDEN. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.Con sentenza del 10.12. 21 la corte d’appello di Lecce, in riforma di sentenza del tribunale della stessa sede del 15.6.20, ha rigettato la domanda della lavoratrice in epigrafe di pensione anticipata ex legge n. 214 del 2011. 2.In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che la pensione anticipata richiede requisiti contributivi minimi effettivi e non consente accrediti figurativi per malattia o disoccupazione, perché i requisiti contributivi di 35 anni richiesti dalla precedente normativa sono rimasti invariati. 3.Avverso questa sentenza ricorre la lavoratrice per due motivi, cui resiste l’Inps con controricorso. 4.Il Procuratore generale ha concluso all’udienza per il rigetto del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 5.Il primo motivo di ricorso deduce violazione dell’articolo 24, commi 10 e 11, della legge n. 214 del 2011; il secondo motivo deduce omesso esame di fatto decisivo ex numero 5 dell’articolo 360 c.p.c. 6.I motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione. 7.Il sistema della prestazione pensionistica anticipata rispetto alla vecchiaia è cambiato all’esito della legge del 2011. 8.La riforma del 2011 (d.l. n. 201 del 2011 convertito con modifiche nella legge n. 214 del 2011), meglio nota come "riforma Monti- Fornero", completò la transizione della riforma del 1995 (legge n. 335 del 1995) in un periodo di aggravamento della crisi economico - finanziaria già in atto dai primi anni del 2000 (cd. crisi dello spread). Il contenuto sostanziale del provvedimento è racchiuso nell'art. 24, il quale affronta il tema dell'unificazione dei trattamenti pensionistici dal punto di vista del calcolo della pensione e dell'innalzamento dell'età di accesso effettivo alla prestazione, innovando la disciplina della pensione di vecchiaia e mantenendo in vita, entro limiti assai più rigorosi, la pensione di anzianità, che da quel momento ha assunto la denominazione di "pensione anticipata". 9.La legge del 2011 ha dunque introdotto una nuova prestazione, con criteri distinti rispetto a quelli pregressi che erano stabiliti per la pensione di anzianità. La legge invero disciplina le prestazioni pensionistiche a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, che maturano i requisiti a partire dalla medesima data. 10.All’esito della riforma, dunque, il vecchio requisito dei 35 anni non opera più nel nuovo sistema: la sentenza impugnata, che invoca l’applicabilità del vecchio regime normativo dei 35 anni di contribuzione, è dunque errata in diritto e deve essere cassata. 11.Nel nuovo sistema normativo, i requisiti della prestazione della pensione anticipata sono dettati dai commi 10 ed 11 sopra richiamati: il comma 10 prevede che l'accesso alla pensione anticipata ad età inferiori ai requisiti anagrafici previsti è consentito esclusivamente se risulta maturata un'anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, con riferimento ai soggetti che maturano i requisiti nell'anno 2012. 12.Il comma 11 prevede che “fermo restando quanto previsto dal comma 10, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996, il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di sessantatre anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell'assicurato almeno venti anni di contribuzione effettiva e che l'ammontare mensile della prima rata di pensione risulti essere non inferiore ad un importo soglia mensile …” 13.Il co. 11, in particolare, interessa quei pensionati per i quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1 gennaio 1996, in altri termini coloro per i quali il trattamento pensionistico ricade integralmente sotto il calcolo contributivo, essendo andata a pieno regime la riforma di cui alla legge n. 335 del 1995: anche per tali assicurati, alla cessazione del rapporto, è consentita la possibilità di vedersi riconoscere la pensione anticipata con i presupposti sopra descritti, ma -e qui subentra una differenza sostanziale rispetto all'ipotesi di cui al comma 10- in questo caso rientra in gioco l'età anagrafica (63 anni), purché, però, l'interessato o l'interessata possano far valere un'anzianità assicurativa di almeno venti anni di "contribuzione effettiva". 14.Questa Corte -che in precedenza, con sentenza n. 30265 del 2022 ha optato per una lettura restrittiva delle norme, sul presupposto di una finalità disincentivante del pensionamento anticipato perseguita dalla riforma- rileva tuttavia che l’esclusione della contribuzione figurativa dall’ambito di applicazione del co. 10 (come invocata dall’INPS) avrebbe scarsa giustificazione e porterebbe alla sostanziale disapplicazione della fattispecie, atteso l’ampiezza della contribuzione (ben 42 anni) richiesta per beneficiare della prestazione. 15.Peraltro, sulla base del criterio letterale dell’interpretazione delle norme in discorso la domanda di pensione anticipata della lavoratrice, sulla base del computo in via aggiuntiva della contribuzione figurativa maturata, risulta fondata, in quanto solo nel comma 11 si richiede l’effettività della contribuzione, mentre nel comma 10 nulla si dice. 16.Invero, nel nuovo sistema normativo che segna il passaggio dalla pensione di anzianità alla pensione anticipata, il comma 10, a differenza del comma 11, non fa riferimento all’effettività della contribuzione (né richiama il regime contributivo successivo al 1996), ma si limita a richiamare la contribuzione utile; per converso, nel comma 11 si dà rilievo alla contribuzione effettiva (per 20 anni) in collegamento con l’età. 17.Può dunque affermarsi che, nel sistema di cui all’art. 24, co. 10, della legge n. 214 del 2011, che prevede l'accesso alla pensione anticipata ad età inferiori ai requisiti anagrafici previsti se risulta maturata un'anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, la contribuzione figurativa può concorrere ad integrare i presupposti per il pensionamento, laddove nel sistema di cui al co. 11 (che consente l’accesso alla pensione anticipata anche sulla base del requisito anagrafico oltre che di quello contributivo) la minor contribuzione richiesta deve essere effettiva. 18.La sentenza impugnata, che non si è attenuta al richiamato principio, deve essere cassata e la causa va rinviata alla stessa corte d’appello in diversa composizione per un nuovo esame, ed anche per le spese di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione. Così deciso oggi in Roma, nella camera di consiglio del 9 aprile 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Francesco Buffa Umberto Berrino
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5555 del 2022, proposto dal signor Er. Ma. Be., rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Vi. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, già rappresentato e difeso dagli avvocati Le. Ma., Al. Di Me., An. Bo., e quindi dagli avvocati Em. De Ro., Es. Sc., An. Sg., Ca. D'A., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti del Sindacato Nazionale dei Dipendenti del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 13297/2021, resa tra le parti. Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; Visti tutti gli atti della causa; Relatrice nell'udienza pubblica del giorno 6 giugno 2024 la consigliera Silvia Martino; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso di primo grado il ricorrente, Ministro Plenipotenziario già in servizio presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ha domandato l'annullamento: - della nota del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Direzione Generale per le risorse e l'innovazione, Ufficio VIII, avente ad oggetto: "Riscontro ad atto di diffida datato 28 febbraio 2020 - Istanza del Min. Plen. Er. Ma. Be." prot. MAE0044417 DEL 13/3/2020; - nonché, quale atto presupposto: della nota dell'INPS - Istituto Nazionale Previdenza Sociale - Direzione Centrale Entrate e Recupero Crediti - Area Posizione Assicurativa Gestione Pubblica avente ad oggetto: "Maggiorazioni di sede art. 144 D.P.R. 18/1967; art. 23 D.P.R. 1092/1973 Art. 1, comma 319, legge n. 190/2014 (legge di stabilità 2015)" prot. INPS.0023.11/11/2019.0143897 U. In via subordinata, ha domandato la condanna delle Amministrazioni intimate al versamento, a titolo di risarcimento del danno, dei contributi previdenziali corrispondenti ai cinque anni delle maggiorazioni automatiche previste dall'art. 144 del d.P.R. n. 18/67 per il servizio prestato presso una sede disagiata e/o particolarmente disagiata. Il ricorrente, altresì, ha chiesto la rimessione alla Corte costituzionale dell'art. 144, del d.P.R. 18/1967 come modificato dall'articolo 1, comma 319 della legge 190/2014, per violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità della retribuzione per lo svolgimento della prestazione lavorativa, ex articoli 3, 36, 38 e 97 della Costituzione, laddove sia interpretato nel senso di attribuire via automatica le maggiorazioni anche per chi è posto in quiescenza dopo l'entrata in vigore della modifica legislativa che ha reso le maggiorazioni non più automatiche bensì volontarie. 1.1. Nello specifico, il dottor ha prestato servizio presso sedi c.d. disagiate. Tale servizio è stato computato secondo il sistema originariamente disciplinato dall'art. 144 del d.P.R. 18/1967, che stabiliva un meccanismo di maggiorazione automatica. L'indicata norma è stata successivamente modificata dall'art. 1, comma 319, della l. n. 190/2014 che ha modificato la disciplina di riferimento (art. 23 del d.P.R. n. 1092/1973 e art. 144 del d.P.R. n. 18/1967). La novella, con effetto dal 1º luglio 2015, modificando il secondo comma del cit. art. 144, ha disposto che: "Il servizio prestato nelle residenze disagiate e particolarmente disagiate è computato, a domanda dell'interessato o dei superstiti aventi causa, ai fini del trattamento di quiescenza, con un aumento rispettivamente di sei e di nove dodicesimi, nei limiti massimi previsti dalla normativa vigente". 1.2. Nel caso in esame, l'Amministrazione ha tuttavia respinto l'istanza del ricorrente - volta al mantenimento in servizio del medesimo fino al limite del 67esimo anno di età o, in subordine, alla corresponsione dei contributi per i cinque anni di servizio relativi alle maggiorazioni automatiche - ritenendo che la norma riportata non trovi applicazione relativamente alle maggiorazioni di sede maturate tra il 2000 e il 2008, anteriormente alla suddetta modifica. 1.3. Con ricorso per motivi aggiunti, il dott. ha impugnato, altresì, il decreto di collocamento a riposo a decorrere dal 1° maggio 2020. In sede di motivi aggiunti il ricorrente, oltre alle domande di accertamento e di condanna spiegate con il ricorso introduttivo, ha chiesto che l'Amministrazione venga condannata, a titolo di risarcimento del danno, al pagamento della somma corrispondente alla perdita del maggior trattamento economico che sarebbe allo stesso spettato ove avesse conseguito la nomina al grado superiore di Ambasciatore, in misura pari alle retribuzioni che avrebbe percepito sia per il periodo di effettivo esercizio delle funzioni superiori - equitativamente da determinarsi in anni 2 - che alla maggiore pensione che avrebbe percepito per il collocamento in quiescenza in tale grado. 2. Nella resistenza del Maeci e dell'Inps il T.a.r., con la sentenza oggetto dell'odierna impugnativa, ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti e compensato tra le parti le spese di lite. 3. L'appello del ricorrente, rimasto soccombente, si fonda sui seguenti motivi: I. L'art. 144 del d.P.R. n. 18 del 1967, nella sua versione originaria, prevedeva un sistema di maggiorazione automatica del periodo di servizio svolto presso una sede disagiata e/o particolarmente disagiata. Si trattava di una maggiorazione esclusivamente temporale (senza un corrispondente reale versamento dei contributi) che permetteva al diplomatico di venire collocato in quiescenza anticipatamente, senza nessun riflesso negativo sul suo trattamento pensionistico. L'automatismo previsto dal legislatore rappresentava quindi una premialità per i diplomatici che avessero svolto un periodo di servizio presso una sede disagiata. Al contrario, con l'avvento del sistema previdenziale contributivo, l'aumento automatico del periodo di servizio prestato presso una sede disagiata, senza copertura contributiva, penalizza il diplomatico che viene collocato in quiescenza anticipatamente, con decurtazione del trattamento pensionistico. Per tale ragione, nel 2014 la norma è stata modificata e la maggiorazione, sempre esclusivamente temporale, è divenuta volontaria. Il ricorrente ha quindi espressamente richiesto al Maeci di non beneficiare delle maggiorazioni per il servizio prestato presso le sedi disagiate tra il 2000 ed il 2008 così da rimanere ancora in servizio e versare i relativi contributi, ma il Ministero gli ha negato questa possibilità ritenendo che l'art. 144 (come modificato nel 2014) si applicasse solamente ai servizi prestati dopo la sua entrata in vigore, quindi solamente ai servizi prestati dopo il 2015. Secondo l'appellante, al contrario, la norma avrebbe dovuto essere applicata a tutti i diplomatici ancora in servizio. Diversamente opinando, la disposizione risulterebbe irragionevolmente discriminatoria. La conferma della erroneità di tale interpretazione, e quindi anche della sentenza che l'ha avallata, si trae dalla legge di bilancio 2022 (legge 3 dicembre 2021 n. 234), che ha provveduto ad integrare il citato art. 144 rendendone del tutto chiaro l'ambito di applicazione. II. Il giudice di prime cure, nell'avallare l'interpretazione fornita dal Ministero, ha richiamato l'art 1, comma 319 della legge 190/2014 che ha modificato l'art. 144, "Con effetto dal 1° luglio 2015..." ritenendo che tale espressione sia riferita al periodo di svolgimento del servizio presso una sede disagiata. L'art. 144 del d.P.R. n. 18/67 è tuttavia una norma destinata a produrre effetti al momento di collocamento in quiescenza, ai fini della quantificazione del trattamento pensionistico. In tale ottica, la disposizione avrebbe quindi dovuto essere applicata a tutti coloro che, alla data del 1° luglio 2015, erano ancora in servizio presso il Ministero e potevano di conseguenza ancora decidere se anticipare o meno il loro collocamento a riposo. III. Con il secondo motivo di ricorso l'originario ricorrente, odierno appellante, aveva sollevato il vizio di violazione dell'obbligo di interpretazione conforme alla Costituzione. Ciononostante, il primo giudice si è limitato ad affermare che il Ministero non avrebbe avuto alcun margine interpretativo data la chiarezza della norma. Al contrario, sarebbe invece significativo il fatto che, oltre quanto già evidenziato, sia il Ministero che l'Inps nel corso degli anni ne abbiano fornito letture discordanti e contraddittorie. Inoltre, sulla base di tale erronea interpretazione, il Ministero ha collocato in quiescenza un dipendente privo dei requisiti previsti dalla vigente normativa sul pensionamento. In particolare, il ricorrente aveva chiesto al Ministero, in alternativa: (a) di rimanere in servizio, anche eventualmente con il conferimento di un incarico fuori ruolo, al fine di non ostacolare gli avanzamenti di carriera degli altri diplomatici, fino all'età di 67 anni e poter così regolarmente accedere alla pensione di vecchiaia, versando durante questi ulteriori due anni i relativi contributi previdenziali; oppure (b) di essere collocato in quiescenza a far data dal 1° maggio 2020, ma con la corresponsione dei contributi relativi ai cinque anni di servizio relativi alle maggiorazioni automatiche al fine di poter regolarmente accedere alla pensione anticipata, con 65 anni di età e 42 anni e 10 mesi di contributi versati, senza subire illegittime decurtazioni della pensione. Il Ministero, però, si è limitato a confermare il pensionamento dal 1° maggio 2020 senza nulla dire in ordine alle alternative proposte e senza neanche aprire un confronto con l'odierno ricorrente. IV. Il primo giudice ha comunque omesso di pronunciarsi sul terzo motivo del ricorso di primo grado relativo alla violazione dell'art. 44 del d.P.R. 1092/1973 e dell'art. 2, comma 5 del d.l. n. 101/2013, norma di interpretazione autentica dell'art. 24, comma 4, del d.l. 201/2011. Tale violazione è diretta conseguenza dell'errata applicazione ed interpretazione dell'art. 144 del d.P.R. 18/1967 avendo il Maeci ritenuto che le maggiorazioni per il servizio presso le sedi disagiate siano state rese facoltative solo per i servizi prestati dopo il 1 luglio 2015 anziché per tutti coloro i quali vengano messi in quiescenza dopo il 1 luglio 2015, a prescindere dalla data in cui abbiano prestato servizio presso una sede disagiata o particolarmente disagiata. In base a quanto previsto infatti dall'art. 4 del d.P.R. 1092/1973 l'unico caso in cui il dipendente pubblico può essere collocato in quiescenza all'età di 65 anni sussiste laddove sia stato maturato un qualsiasi diritto a pensione e cioè, in base alla normativa all'epoca vigente, laddove siano stati raggiunti, per gli uomini, almeno i 42 anni di contributi e 10 mesi (pensione c.d. anticipata). In caso contrario il dipendente deve rimanere in servizio fino al massimo dei 67 anni di età quando, con almeno 20 anni di contributi, può accedere alla pensione di vecchiaia. Tuttavia il ricorrente, al momento del suo collocamento a riposo, il 1° maggio 2020, aveva solamente: - 65 anni di età ; - 34 anni di servizio presso il Ministero; - 4 anni di contributi autonomamente versati per riscattare gli anni della laurea; - 5 anni di contributi figurativi correlati alle maggiorazioni di sede. Di conseguenza, egli non aveva i requisiti né per beneficiare della pensione c.d. di vecchiaia, né per conseguire la pensione anticipata per la quale sono necessari non solo 65 anni di età, ma anche 42 anni e 10 mesi di contributi. I cinque anni correlati alle maggiorazioni automatiche di anzianità non erano infatti coperti da alcun versamento contributivo. 3.1. L'appellante ha riproposto, altresì, anche la domanda subordinata di risarcimento del danno in forma specifica, con la conseguente richiesta di condanna del Ministero al versamento all'Inps di tutti i contributi previdenziali corrispondenti ai cinque anni delle maggiorazioni previste dall'art. 144 del d.P.R. n. 18/67 per il servizio presso sedi disagiate e/o particolarmente disagiate. 3.2. L'appellante ha ribadito, altresì che il pensionamento anticipato gli ha precluso la possibilità di ottenere la promozione al grado di Ambasciatore. Egli ha pertanto richiesto la corresponsione delle differenze retributive per gli anni di servizio che avrebbe potuto svolgere in tale grado se fosse stato correttamente applicato l'art. 144, cit., come riformulato nel 2014. 4. Si sono costituiti, per resistere, l'Inps e il Ministero degli Affari esteri. 5. L'Inps e il dott. hanno depositato memorie conclusionali. 6. L'appellante ha depositato una memoria di replica. 7. L'appello, infine, è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 6 giugno 2024. 8. L'appello è fondato nei termini che vengono di seguito precisati. 9. Oggetto del contendere è il diniego opposto dal M.a.e.c.i. all'istanza del ricorrente di essere mantenuto in servizio fino al 67° anno di età ovvero di conseguire, in subordine, la corresponsione da parte dell'Amministrazione dei contributi per i cinque anni di servizio relativi alle maggiorazioni automatiche di anzianità previste dall'art. 144 del d.P.R. n. 18 del 1967. Con motivi aggiunti è stato impugnato, altresì, il decreto di collocamento a riposo. 9.1. Secondo la versione originaria dell'art. 144, cit., "Il servizio prestato nelle residenze disagiate e particolarmente disagiate è computato ai fini del trattamento di quiescenza, con un aumento rispettivamente di sei e di nove dodicesimi, nei limiti massimi previsti dalla normativa vigente. Nel servizio suddetto sono computati i periodi di viaggio da una ad altra sede disagiata e di congedo ordinario o di ferie". A sua volta l'art. 23 del d.P.R. n. 1092 del 1973 stabiliva che "Il servizio prestato dal personale dell'amministrazione degli affari esteri nelle residenze disagiate o particolarmente disagiate, stabilite con decreto del Ministro competente, di concerto con quello per il tesoro, è aumentato rispettivamente della metà e di tre quarti. A tal fine si computano anche i periodi di viaggio da una ad altra sede disagiata nonché il tempo trascorso in congedo". Tali disposizioni costituivano una misura premiale in quanto consentivano ai diplomatici che avessero prestato servizio in sedi disagiate di conseguire anticipatamente i requisiti per il diritto alla pensione di anzianità e, comunque, in caso di pensionamento per limiti di età, di conseguire una maggiorazione del servizio utile a pensione. Nel vigore del sistema retributivo, inoltre, tale anticipazione non aveva alcuna conseguenza penalizzante sulla quantificazione del trattamento pensionistico il quale veniva comunque calcolato sull'ultima paga o retribuzione secondo una misura percentuale rapportata agli anni di servizio utile (cfr. gli articoli 42 - 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973). 9.2. Con l'entrata in vigore del sistema contributivo tali disposizioni hanno tuttavia assunto potenziali effetti non già premiali bensì penalizzanti in ordine al computo del trattamento pensionistico poiché - tale circostanza è pacifica in causa - le maggiorazioni di anzianità sono meramente figurative e non comportano il versamento di contributi. 9.3. Le disposizioni di cui trattasi sono state successivamente modificate dall'art. 1, comma 319, della l. n. 190/2014 "con effetto dal 1° luglio 2015". Nello specifico, il testo dell'art. 144, comma 2, del d.P.R. n. 18 del 1967 vigente all'epoca della domanda dell'odierno appellante era il seguente "Il servizio prestato nelle residenze disagiate e particolarmente disagiate è computato, a domanda dell'interessato o dei superstiti aventi causa, ai fini del trattamento di quiescenza, con un aumento rispettivamente di sei e di nove dodicesimi, nei limiti massimi previsti dalla normativa vigente". La stessa Amministrazione resistente - come documentato dal ricorrente - ha sottolineato che "La riforma nasce dall'esigenza di ovviare alle conseguenze che le citate disposizioni hanno per coloro che si trovano nel sistema previdenziale misto (parte retributivo e parte contributivo) e nel sistema interamente contributivo. Infatti, se tali maggiorazioni di servizio per i destinatari del trattamento pensionistico liquidato con il sistema retributivo valgono sia ai fini della maturazione del diritto che della misura della pensione, per i dipendenti che rientrano nel sistema previdenziale misto o in quello esclusivamente contributivo, dette maggiorazioni saranno utili esclusivamente ai fini della maturazione del diritto non recando tuttavia alcun beneficio ai fini della misura della pensione.". Per tale ragione, "Il legislatore, su impulso dell'Amministrazione, ha quindi ritenuto opportuno prevedere una modifica normativa che consente di rendere facoltativo tale riconoscimento per i dipendenti o superstiti aventi causa, che possono così scegliere liberamente se usufruire delle maggiorazioni - garantendosi la maturazione del diritto alla pensione in anticipo rispetto ai limiti di età anagrafici - o rinunziarvi, qualora preferiscano non essere penalizzati nel calcolo dell'importo della pensione stessa" (messaggio prot. 0141570 del 1.07.2015). 9.4. Nello specifico, con l'istanza - diffida del 28 febbraio 2020 l'odierno appellante ha chiesto all'Amministrazione il mantenimento in servizio fino al limite del 67esimo anno di età o, in subordine, la corresponsione da parte dell'Amministrazione dei contributi per i cinque anni di servizio relativi alle maggiorazioni automatiche, 9.5. Il diniego del Maeci si è basato sulle seguenti considerazioni. Il limite ordinamentale per la permanenza in servizio dei dipendenti dello Stato è fissato in via generale dall'art. 4 del d.P.R. n. 1092/1973 nell'età anagrafica di 65 anni. Tale limite ordinamentale non solo non è modificabile dall'elevazione dei requisiti previsti per la pensione di vecchiaia, ma costituisce inoltre il limite non superabile "al raggiungimento del quale l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione" (v. art. 2, co. 5, del D.L. 101/2013, norma di interpretazione autentica dell'art. 24, co. 4, del D.L. 201/2011). Come inoltre chiarito dalla Circolare della Funzione Pubblica n. 2/2015, a seguito della soppressione dell'istituto del trattenimento in servizio, la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro è obbligatoria nei confronti del personale delle pubbliche amministrazioni che abbia raggiunto l'età limite ordinamentale di 65 anni avendo contestualmente maturato il diritto alla pensione anticipata. Per gli uomini, è attualmente richiesta un'anzianità minima di 42 anni e 10 mesi, a cui si aggiungono tre mesi di "finestra" per la decorrenza del trattamento pensionistico. Ai sensi della Circolare sopracitata, l'unica ipotesi in cui l'Amministrazione è tenuta a proseguire il rapporto di lavoro con il dipendente, senza con ciò dar luogo ad un trattenimento vietato dalla legge, è quella in cui il dipendente non abbia maturato alcun diritto a pensione al compimento dell'età limite ordinamentale o al compimento del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. In tali casi, l'Amministrazione deve proseguire il rapporto di lavoro con il dipendente oltre il raggiungimento del limite di età, esclusivamente per permettergli di maturare i requisiti minimi previsti per l'accesso a pensione. Alla luce del quadro normativo sopra delineato, l'Amministrazione ha evidenziato che il ricorrente "dovrà necessariamente essere collocato a riposo il 1° maggio 2020, ovvero il primo giorno del mese successivo al raggiungimento del diritto a pensione. Nel caso di specie, l'anzianità contributiva per il diritto a pensione è maturata durante il mese di aprile 2020, un mese dopo il compimento dei 65 anni". Per quanto concerne la disciplina delle maggiorazioni di sede disagiata o particolarmente disagiata, in relazione alla novella di cui all'art. 1, comma 319, del L. 190/2014, l'Amministrazione ha fatto propria la posizione dell'Inps, secondo cui non possono essere oggetto di rinuncia le maggiorazioni attribuite d'ufficio, computate antecedentemente alla data di decorrenza delle innovazioni normative introdotte, fissata al 1° luglio 2015. Secondo l'Istituto "la norma citata, nella sua nuova formulazione, si applica esclusivamente ai servizi prestati dopo il 1° luglio 2015, mentre per i servizi resi precedentemente a tale data, continuano a trovare applicazione le modalità precedenti con l'attribuzione d'ufficio delle predette maggiorazioni". In conclusione, secondo l'Istituto, "le maggiorazioni attribuite d'ufficio, proprio perché riconosciute ope legis, non possono essere rinunciate in quanto costituiscono servizio a tutti gli effetti". 10.1 Ciò posto, il Collegio rileva, in primo luogo, che l'interpretazione dell'Amministrazione non considera che la stessa formulazione originaria della norma riconosceva la maggiorazione dell'anzianità di servizio esclusivamente "ai fini del trattamento di quiescenza". Non si tratta cioè di una maggiorazione dell'anzianità di servizio in senso assoluto, bensì del servizio "utile" al trattamento di quiescenza. 10.2. In secondo luogo, in punto di fatto, al momento in cui è entrato in vigore l'art. 1, comma 319, lett. c), della l. n. 190 del 2014 - che ha introdotto il diritto di opzione - l'odierno ricorrente non aveva ancora né raggiunto il limite di età per il collocamento a riposo d'ufficio né maturato il diritto al trattamento di quiescenza anticipato. 10.3. Sul piano esegetico, l'interpretazione secondo cui il diritto di opzione troverebbe applicazione per i soli servizi prestati presso sedi disagiate successivamente al 1° luglio 2015, non ha in realtà alcun supporto né letterale né sistematico. Sotto il primo profilo, la disposizione della legge di bilancio del 2015 si limita infatti a stabilire la decorrenza delle modificazioni apportate all'art. 144 del d.P.R. n. 18 del 1967, senza nulla chiarire in ordine al meccanismo di attribuzione delle maggiorazioni di sede. Al riguardo, si è già chiarito che, anche sulla base della formulazione originaria della norma, la maggiorazione è destinata ad operare ai soli fini della maturazione del diritto e del calcolo del trattamento di quiescenza. Dal punto di vista sistematico, non è poi contestato che la finalità della novella sia stata quella di correggere i potenziali effetti penalizzanti derivanti dal mancato allineamento dell'ordinamento della carriera diplomatica al sistema pensionistico di tipo contributivo. Non vi è quindi alcuna ragione di negare il diritto di opzione a tutti coloro che, alla data del 1° luglio 2015, non avessero, come il ricorrente, ancora maturato il diritto alla pensione. In ogni caso, a fronte di una disposizione quantomeno ambigua, va sicuramente preferita, tra le molteplici interpretazioni astrattamente possibili, quella più conforme alla sua ratio ispiratrice, o comunque una interpretazione costituzionalmente orientata idonea ad assicurare un'applicazione logica e ragionevole del dettato normativo. 10.4. Nel caso in esame, non risulta peraltro conferente il richiamo da parte dell'Inps alle pronunce della Corte Costituzionale che hanno ritenuto legittime le differenze di trattamento retributivo o pensionistico derivanti da successioni di leggi nel tempo. Il caso in esame riguarda infatti proprio la corretta collocazione nel tempo della disposizione di cui trattasi, relativa di per sé non alla rimodulazione del trattamento pensionistico dei diplomatici ma all'introduzione di un diritto di opzione, necessario a mantenere il carattere "premiale" delle maggiorazioni di anzianità derivanti dal servizio in sedi disagiate nelle ipotesi di applicazione del sistema previdenziale misto ovvero interamente contributivo. In tale ottica, il limite di applicazione di tale disposizione non può che essere costituito dai soli rapporti "esauriti", così come è stato successivamente, esplicitamente stabilito dalla legge di bilancio del 2022 (legge 30 dicembre 2021 n. 234), che, all'articolo 1, comma 887, ha provveduto ad integrare il citato art. 144, aggiungendo un ulteriore inciso secondo cui: "Il dipendente in costanza di servizio o i superstiti aventi causa possono rinunciare alle maggiorazioni già acquisite relativamente ai periodi di servizio anteriori al 1° luglio 2015 le cui quote di pensione sono calcolate con il sistema contributivo. Non possono essere oggetto di rinuncia le maggiorazioni già utilizzate per la liquidazione di trattamenti pensionistici". 11. In definitiva, per quanto sopra argomentato, il ricorso di primo grado e i motivi aggiunti di primo grado debbono essere accolti nella parte impugnatoria. 11.1. Dall'annullamento del provvedimento impugnato scaturisce poi, quale naturale effetto conformativo, la "restitutio in integrum" perché il rapporto di servizio dell'appellante è stato risolto anticipatamente senza che ve ne fossero i presupposti. Il Ministero resistente è quindi tenuto a corrispondere all'appellante le differenze retributive (ovvero il maggior trattamento economico che gli sarebbe spettato rispetto alla pensione, permanendo in servizio), e a regolarizzarne la posizione assicurativa e previdenziale, per il periodo che va dall'illegittimo collocamento a riposo, fino al compimento di anni 67. Sui crediti retribuiti di cui trattasi, spettano altresì gli interessi legali (ai sensi della legge. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36). 12. La domanda di risarcimento del danno contenuta nei motivi aggiunti articolati in primo grado, invece, deve essere respinta. Si tratta, in sostanza, della domanda volta a ottenere il risarcimento della chance di conseguire la promozione al grado di Ambasciatore. Tuttavia, come noto, lo sviluppo della carriera diplomatica non avviene per mera anzianità sicché il ricorrente avrebbe dovuto offrire la prova, anche solo presuntiva, dell'esistenza in concreto dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev'essere conseguenza immediata e diretta. Il che, nella fattispecie in esame, non è avvenuto. 13. In definitiva, per quanto sopra argomentato, l'appello deve essere accolto, nei sensi di cui in motivazione. 14. La novità della questione giustifica, infine, l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata: - accoglie il ricorso principale proposto in primo grado; - accoglie in parte i motivi aggiunti di primo grado; - per l'effetto annulla i provvedimenti impugnati e dispone la "restitutio in integrum" in favore dell'appellante nei sensi di cu in motivazione; - compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati: Luigi Carbone - Presidente Luca Lamberti - Consigliere Silvia Martino - Consigliere, Estensore Michele Conforti - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere
AULA 'B 2024 1169 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. FABRIZIA GARRI - Rel. Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. LUIGI CAVALLARO - Consigliere - Dott. FRANCESCO BUFFA - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 13517-2018 proposto da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO; - ricorrente - contro VARSALLONA EMANUELE, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell'avvocato ROSA MAFFEI, che lo rappresenta e difende; - controricorrente - avverso la sentenza n. 956/2017 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 20/02/2018 R.G.N. 1044/2016; Oggetto Assegno invalidità - Aspi - opzione R.G.N. 13517/201 Cron. Rep. Ud. 12/03/2024 PU udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/03/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato MASSIMO BOCCIA NERI per delega verbale avvocato ANTONIETTA CORETTI; udito l'avvocato CHIARA MORASCHI per delega verbale avvocato ROSA MAFFEI. FATTI DI CAUSA 1. La Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che in accoglimento del ricorso proposto da Emanuele Varsallona aveva condannato l’INPS a corrispondere l’assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) nella misura e con la decorrenza di legge oltre agli accessori, dedotto quanto già erogato a titolo di assegno ordinario di invalidità. 1.1. La Corte di merito, richiamando un suo precedente e alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 234 del 2011 in tema di opzione del titolare di assegno o pensione di invalidità per il trattamento di disoccupazione limitatamente al periodo di disoccupazione, ha ritenuto che in assenza di un termine decadenziale entro il quale esercitare l’opzione tra i trattamenti, esclusa l’applicazione analogica dell’art. 6 comma 7 d.l. 148 del 20 maggio 1993 conv. in legge n. 236 del 19 luglio 1993, questa debba essere sempre consentita. Sottolinea che nella specie le due prestazioni non si erano mai cumulate e che, inoltre, il ricorrente aveva allegato di essere in possesso dei requisiti per beneficiare dell’ASPI, mai negati dall’INPS in sede amministrativa (la domanda era stata respinta per incompatibilità dell’ASPI con la prestazione assistenziale in godimento e per la tardività dell’opzione esercitata) e neppure nel corso del giudizio. 2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’INPS affidato ad un unico motivo al quale resiste con controricorso Emanuele Varsallona. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 3. Con il ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 comma 7 del d.l. 20 maggio 1993 n. 148 convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236 e dell’art. 2 comma 24 bis della legge 8 giugno 2012 n. 92 ratione temporis vigente, in relazione all’art. 1287 secondo comma c.c. con riguardo al diritto dell’assicurato, titolare di assegno di invalidità, ad ottenere l’indennità c.d. ASPI ed al diritto di esercitare l’opzione tra le due prestazioni oltre il termine, fissato dall’Istituto debitore, di presentazione della domanda amministrativa per ottenere il trattamento di disoccupazione. 3.1. Ad avviso dell’Inps non è immaginabile che l’opzione per l’alternativo trattamento di disoccupazione, riconosciuta al titolare della prestazione di invalidità, possa essere esercitata sine die. Ritiene, conseguentemente, che in mancanza di un termine di legge questo ben possa essere fissato dal debitore ex art. 1287 c.c. e che, per l’effetto, l’interessato che non lo rispetti perda la facoltà di scegliere. 3.2. Ricorda che nel caso in cui il diritto all’assegno ordinario di invalidità sopravvenga al godimento del trattamento di disoccupazione l’interessato che non eserciti l’opzione in favore della disoccupazione decade, ai sensi dell’art 2 commi 40 d) e 41 della legge n. 92 del 2012, dalla facoltà di avvalersene. Conseguentemente ritiene che, nel caso in cui invece sia il diritto al trattamento di disoccupazione a sopravvenire al diritto all’assegno, l’opzione per la disoccupazione debba essere esercitata contestualmente alla domanda come previsto dalla circolare n. 138 del 2011. 4. Tanto premesso appare utile riassumere il quadro normativo in cui si inserisce la presente controversia. 4.1. L’art. 2 della legge 28 giugno 2012 n. 92, che disciplina gli ammortizzatori sociali, al comma 1 dispone che presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti (di cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989 n. 88) è istituita l'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI) a decorrere dal 1° gennaio 2013 e in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla stessa data. Si tratta di prestazione che ha la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un'indennità mensile di disoccupazione. Al successivo comma 4 della citata disposizione è poi chiarito che l'indennità è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che siano in stato di disoccupazione (ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera c), del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni (lettera a) e che possano far valere almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'inizio del periodo di disoccupazione (lettera b). Secondo quanto disposto dal comma 13 della citata norma i lavoratori, per fruire dell'indennità, devono, a pena di decadenza, presentare apposita domanda, esclusivamente in via telematica, all'INPS, entro il termine di due mesi dalla data di spettanza del trattamento. Il comma 24 bis - introdotto dall’art. 1 comma 250, lett. e, della legge n. 228 del 2012 - dispone che “Alle prestazioni liquidate dall'Assicurazione sociale per l'Impiego si applicano, per quanto non previsto dalla presente legge ed in quanto applicabili, le norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola”. Con il comma 40 poi sono dettati i casi di decadenza dalla fruizione dell’indennità e tra questi, oltre alla perdita dello stato di disoccupazione (lett. a), alla mancata comunicazione dell’inizio di un’attività in forma autonoma (lett. b) e al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato (lett. c) vi è anche l’ acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l'indennità erogata dall'ASpI (lett. d). Quindi al successivo comma 41 si dispone chela decadenza si realizza dal momento in cui si verifica l'evento che la determina, con obbligo di restituire l'indennità che eventualmente si sia continuato a percepire. 4.2. Per effetto di quanto disposto dal comma 24 bis, all’indennità c.d. ASpI si applica la regola generale, stabilita dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 148 del 1993, convertito in legge n. 236 del 1993 (nel testo risultante anche dalla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza 29 maggio 1 giugno 1995 n. 218) chenel disporrel’incompatibilità tra itrattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e l'indennità di mobilità (…) con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, prevede altresì che i lavoratori che fruiscano dell'assegno o della pensione di invalidità all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità debbano optare tra tali trattamenti e quello di mobilità e che quando si sia optato per quest’ultimo l’assegno o la pensione di invalidità restino sospesi per il periodo di fruizione della mobilità ovvero, in caso di sua corresponsione anticipata, per il periodo corrispondente all'ammontare della relativa anticipazione del trattamento di mobilità come previsto dagli artt. 2 comma 5 e 12 comma 2 del d.l. 16 maggio 1994 n. 299 convertito in legge 19 luglio 1994 n. 451. 4.3. In definitiva, a norma degli artt. art. 10 comma 14 della legge n. 887 del 1984 e dell’art. 6 comma 7 del d.l. n. 148 del 1993 dal 1º gennaio 1985 i trattamenti di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi ma l’assicurato ha il diritto di scegliere tra l'assegno ordinario di invalidità e l'indennità di disoccupazione per il periodo di disoccupazione indennizzato, ferma restando l'incumulabilità delle due prestazioni (e in questo senso anche la circolare INPS n. 138 del 2011 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 19- 22 luglio 2011, n. 234). 5. È alla luce dell’esposto quadro normativo che va trovata la soluzione del quesito posto con il ricorso le cui censure, ad avviso del Collegio, non possono essere accolte. 5.1. Sebbene la percezione di un trattamento di invalidità già in godimento sia evidentemente incompatibile con l’erogazione dell’ASpI - indennità erogata a domanda dell’interessato in occasione della sopravvenienza dello stato di disoccupazione - tuttavia deve essere comunque garantita la possibilità per l’assicurato di scegliere il trattamento a lui più favorevole. 5.2. Orbene l’art. 12 comma 2 del d.l. 16 maggio 1994 n. 299 convertito in legge 19 luglio 1994 n. 451, che fissa un termine di sessanta giorni per l’esercizio del diritto di opzione, è norma finale di chiusura della disciplina che interviene per regolamentare il passaggio da un regime ad un altro con riguardo alle situazioni già in essere alla data di entrata in vigore della legge. La norma prevede, come detto, la necessità di esercitare la scelta tra il trattamento di mobilità e le prestazioni previdenziali e assistenziali in godimento. 5.3. Nessun termine di decadenza è invece previsto in via generale neppure dalla disciplina che viene richiamata dal comma 24 bis dell’art. 2 legge 92 del 2012 che ha introdotto l’ ASpI. 5.4. Come è noto, le norme che dettano una decadenza sono di stretta interpretazione e sono insuscettibili di applicazione analogica (cfr. tra le tante per l’applicazione di tale principio Cass. 31/03/2021 n. 8964,25/11/2020 n. 26845, 13/06/1979 n. 3331 ). Né il termine di decadenza (di 30 o di 60 giorni che sia) può essere introdotto ex art. 1287 secondo comma c.c. con una circolare, (la circolare INPS n. 138 del 2011) che è mero atto di interpretazione della normativa neppure vincolante. 5.5. Questa Corte - nel chiarire da tempo che il divieto di cumulo dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, introdotto dall’art. 6 comma 7 del citato d.l. n. 148 del 1993, si estende anche all'assegno ordinario di invalidità, in ragione della sua natura di trattamento pensionistico (cfr. Cass. 17/08/2023 n. 24751 e ivi le richiamate Cass. nn. 5544 e 8239 del 2010, 9808 del 2012 e 8634 del 2014) – ha rammentato che il regime della non cumulabilità di tali trattamenti è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dall’art. 2 comma 5 del d.l. n. 299 del 1994 alla luce del quale “all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità”. In quella sede si è rammentato che la norma sopra citata non prevede espressamente quali siano le conseguenze del mancato esercizio dell’opzione nel termine previsto per l’iscrizione nelle liste ma si è ritenuto di poterle ricavare dall’art. 1287 secondo comma c.c. il quale stabilisce in forma generale per tutte le obbligazioni alternative le conseguenze del mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” prevedendo la decadenza dalla facoltà di scelta che passa al debitore. In quel contesto si è ritenuto che, sebbene non si possa avere nel caso dell’iscrizione alle liste di mobilità alcun passaggio della facoltà di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell’ente previdenziale è interamente assoggettato alla volontà di legge, tuttavia l’opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata in ogni tempo ma deve piuttosto intervenire all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità a pena di decadenza. 5.6. Orbene nella specie la coeva coesistenza dei due trattamenti previdenziali (ASpI e assegno ordinario di invalidità) non è consentita; tuttavia quando si verifichi in concreto l’art. 2 comma 40 lett. d) della legge n. 92 del 2012 prevede che alla maturazione dei requisiti del diritto all’assegno ordinario si perde il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione a meno che il lavoratore avente diritto all’assegno ordinario di invalidità non scelga espressamente di mantenere il trattamento di disoccupazione. Allo stesso modo nel caso di preesistenza dell’assegno, l’art. 2 comma 24 bis della legge n. 92 del 2012 e l’art. 6 comma 7 del d.l. n. 148 del 1993, convertito in legge n. 236 del 1993, a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 234 del 2011, dispone che il lavoratore espliciti la preferenza di ottenere il trattamento di disoccupazione. 5.7. Da quanto esposto emerge che il diritto all’indennità di disoccupazione, per sua natura più limitato rispetto all’assegno di invalidità, è rispetto a quest’ultimo recessivo di tal che, nel caso in cui siano erogate entrambe le prestazioni, l’ASpI in mancanza di opzione può essere legittimamente ripetuta dall’Istituto. 5.8. Ciò non toglie però che al lavoratore che abbia presentato domanda di ASpI e si sia vista rigettare la pretesa in via amministrativa possa - senza che perciò si possa ritenere intervenuta una decadenza - in sede di ricorso amministrativo esercitare la sua opzione per quel trattamento. Diversamente verrebbe frustrata, senza che risulti posto dal legislatore un limite in tal senso, l’esigenza perseguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n.234 2011 di assicurare il libero esercizio dell’opzione da parte dell’assicurato in favore dell’una o dell’altra prestazione. 5.9. Peraltro, rileva il Collegio che il legislatore che, successivamente alle sentenze della Corte costituzionale sopra ricordate, ha introdotto con la legge n. 92 del 2012 il nuovo istituto dell’ASpI ben avrebbe potuto fissare un congruo termine entro il quale obbligatoriamente l’interessato è tenuto ad esercitare la sua opzione per l’una o l’altra prestazione. La facoltà di opzione è di regola accompagnata da un termine cui è connessa la stabilizzazione di una certa situazione nel caso di mancato esercizio (si veda ad es. l’art 39 della legge n. 359 del 1955; l'art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, conv. nella legge n. 54 del 1982; art. 6 comma secondo della legge n. 407 del 1990 richiamato dall'art. 1, comma secondo, del D.lgs. n. 503 del 1992; cfr. Cass. n. 352 del 2013 e Cass. n. 28279 del 2008, Cass. 8494 del 2000); tuttavia quando, come nella specie, il legislatore non abbia ritenuto di definire l’arco temporale entro il quale deve essere esercitata il rimedio deve essere rinvenuto nel sistema. Ne consegue che l’esercizio dell’opzione costituisce - in presenza della causa di decadenza dal diritto alla fruizione dell’ indennità rappresentato dalla titolarità dell’assegno ordinario di invalidità (già in godimento o successivamente riconosciuto) - una condizione di erogabilità della prestazione cui si collega anche il diritto alla ripetizione delle somme eventualmente erogate indebitamente in mancanza di scelta da parte dell’interessato. Il tardato esercizio dell’opzione, a norma del comma 41 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012, comporterà quindi la possibilità di ripetere dall’assicurato le somme eventualmente indebitamente erogate a titolo di ASpI, nel concorso dell’assegno ordinario di invalidità, ma non può escludere che l’assicurato possa anche tardivamente optare per l’ erogazione dell’indennità. 6. In conclusione, per le ragioni sopra esposte il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e, liquidate in dispositivo, devono essere distratte in favore dell’Avvocato Rosa Maffei che se ne è dichiarata anticipataria. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 1500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. Così deciso in Roma il 12 marzo 2024 Il Consigliere estensore Fabrizia Garri Il Presidente Umberto Berrino
AULA 'B' 2024 1170 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. FABRIZIA GARRI - Rel. Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. LUIGI CAVALLARO - Consigliere - Dott. FRANCESCO BUFFA - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 5434-2019 proposto da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURO SFERRAZZA, VINCENZO STUMPO, VINCENZO TRIOLO, ANTONIETTA CORETTI; - ricorrente - contro ICHIMAS IOSIF; - intimato - avverso la sentenza n. 632/2018 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 27/11/2018 R.G.N. 788/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/03/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per il rigetto del ricorso; Oggetto Assegno invalidità - Aspi - opzione R.G.N. 5434/2019 Cron. Rep. Ud. 12/03/2024 PU udito l'avvocato MASSIMO BOCCIA NERI per delega verbale avvocato MAURO SFERRAZZA. FATTI DI CAUSA 1. La Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva accolto il ricorso proposto da Iosif Ichimas che, titolare di assegno di invalidità dal luglio 2013, con domanda del 3.8.2015 aveva chiesto all’INPS di riconoscergli l’assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), domanda respinta il 4.9.2015 successivamente alla quale il 10.9.2015 aveva dichiarato di optare per l’ASpI per il periodo di concessione e, ciò nonostante il Comitato provinciale decidendo il ricorso lo aveva rigettato sul rilievo che, all’atto della domanda, non aveva esercitato l’opzione sebbene fosse già titolare dell’assegno di invalidità. 1.1. La Corte di merito, evidenziato che l’opzione era stata comunque esercitata nel termine di sessanta giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, ha ribadito un suo precedente con il quale si era ritenuto che la circolare dell’Istituto non era vincolante e che in mancanza di una norma di legge nessuna decadenza era operante. 1.2. Ha rammentato che la Corte costituzionale con la sentenza n. 234 del 2011 aveva previsto la possibilità di optare tra i trattamenti concorrenti e che una decadenza non prevista violerebbe tale assetto disegnato dal giudice delle leggi. 2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’INPS affidato ad un unico motivo. Nessuno si è costituito per Iosif Ichimas. L’ INPS ha depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 3. Con il ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 comma 7 del d.l. 20 maggio 1993 n. 148 convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236 e dell’art. 2 comma 24 bis della legge 8 giugno 2012 n. 92 e 14 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 22 ratione temporis vigente, in relazione all’art. 1287 secondo comma c.c. con riguardo al diritto dell’assicurato, titolare di assegno di invalidità, ad ottenere l’indennità c.d. ASpI ed al diritto di esercitare l’opzione tra le due prestazioni oltre il termine, fissato dall’Istituto debitore, di presentazione della domanda amministrativa per ottenere il trattamento di disoccupazione. 3.1. L’Inps deduce che, se al titolare della prestazione di invalidità è consentito di optare per il trattamento di disoccupazione (ex Corte Cost. 234 del 2011) alternativo alla prestazione di invalidità non è tuttavia immaginabile che la scelta possa essere operata sine die. Conseguentemente, ad avviso dell’Istituto ricorrente, in mancanza di un termine di legge, questo ben potrebbe essere fissato dal debitore ex art. 1287 c.c. e, in caso di mancato rispetto, l’interessato perderebbe la facoltà di scegliere. 3.2. Ricorda che nel caso in cui il diritto all’assegno ordinario di invalidità sopravvenga al godimento del trattamento di disoccupazione, in difetto di una opzione in favore della disoccupazione, l’interessato decade ai sensi dell’art 2 commi 40 d) e 41 della legge n. 92 del 2012. Pertanto, sostiene che nel caso in cui, come nella specie, sia il diritto al trattamento di disoccupazione a sopravvenire al diritto all’assegno l’opzione per la disoccupazione deve essere esercitata contestualmente alla domanda come previsto dalla circolare n. 138 del 2011. 4. Tanto premesso appare utile riassumere il quadro normativo in cui si inserisce la presente controversia. 4.1. L’art. 2 della legge 28 giugno 2012 n. 92, che disciplina gli ammortizzatori sociali, al comma 1 dispone che presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti (di cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989 n. 88) è istituita l'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI) a decorrere dal 1° gennaio 2013 e in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla stessa data. Si tratta di prestazione che ha la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un'indennità mensile di disoccupazione. Al successivo comma 4 della citata disposizione è poi chiarito che l'indennità è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che siano in stato di disoccupazione (ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera c), del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni (lettera a) e che possano far valere almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'inizio del periodo di disoccupazione (lettera b). Secondo quanto disposto dal comma 13 della citata norma i lavoratori, per fruire dell'indennità, devono, a pena di decadenza, presentare apposita domanda, esclusivamente in via telematica, all'INPS, entro il termine di due mesi dalla data di spettanza del trattamento. Il comma 24 bis - introdotto dall’art. 1 comma 250, lett. e, della legge n. 228 del 2012 - dispone che “Alle prestazioni liquidate dall'Assicurazione sociale per l'Impiego si applicano, per quanto non previsto dalla presente legge ed in quanto applicabili, le norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola”. Con il comma 40 poi sono dettati i casi di decadenza dalla fruizione dell’indennità e tra questi, oltre alla perdita dello stato di disoccupazione (lett. a), alla mancata comunicazione dell’inizio di un’attività in forma autonoma (lett. b) e al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato (lett. c) vi è anche l’ acquisizione del diritto all'assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l'indennità erogata dall'ASpI (lett. d). Quindi al successivo comma 41 si dispone chela decadenza si realizza dal momento in cui si verifica l'evento che la determina, con obbligo di restituire l'indennità che eventualmente si sia continuato a percepire. 4.2. Per effetto di quanto disposto dal comma 24 bis, all’indennità c.d. ASpI si applica la regola generale, stabilita dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 148 del 1993, convertito in legge n. 236 del 1993 (nel testo risultante anche dalla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza 29 maggio 1 giugno 1995 n. 218) chenel disporre l’incompatibilità tra itrattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e l'indennità di mobilità (…) con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, prevede altresì che i lavoratori che fruiscano dell'assegno o della pensione di invalidità all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità debbano optare tra tali trattamenti e quello di mobilità e che quando si sia optato per quest’ultimo l’assegno o la pensione di invalidità restino sospesi per il periodo di fruizione della mobilità ovvero, in caso di sua corresponsione anticipata, per il periodo corrispondente all'ammontare della relativa anticipazione del trattamento di mobilità come previsto dagli artt. 2 comma 5 e 12 comma 2 del d.l. 16 maggio 1994 n. 299 convertito in legge 19 luglio 1994 n. 451. 4.3. In definitiva, a norma degli artt. art. 10 comma 14 della legge n. 887 del 1984 e dell’art. 6 comma 7 del d.l. n. 148 del 1993 dal 1º gennaio 1985 i trattamenti di disoccupazione sono incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell'assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi ma l’assicurato ha il diritto di scegliere tra l'assegno ordinario di invalidità e l'indennità di disoccupazione per il periodo di disoccupazione indennizzato, ferma restando l'incumulabilità delle due prestazioni (e in questo senso anche la circolare INPS n. 138 del 2011 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 19-22 luglio 2011, n. 234). 5. È alla luce dell’esposto quadro normativo che va trovata la soluzione del quesito posto con il ricorso le cui censure, ad avviso del Collegio, non possono essere accolte. 5.1. Sebbene la percezione di un trattamento di invalidità già in godimento sia evidentemente incompatibile con l’erogazione dell’ASpI - indennità erogata a domanda dell’interessato in occasione della sopravvenienza dello stato di disoccupazione - tuttavia deve essere comunque garantita la possibilità per l’assicurato di scegliere il trattamento a lui più favorevole. 5.2. Orbene l’art. 12 comma 2 del d.l. 16 maggio 1994 n. 299 convertito in legge 19 luglio 1994 n. 451, che fissa un termine di sessanta giorni per l’esercizio del diritto di opzione, è norma finale di chiusura della disciplina che interviene per regolamentare il passaggio da un regime ad un altro con riguardo alle situazioni già in essere alla data di entrata in vigore della legge. La norma prevede, come detto, la necessità di esercitare la scelta tra il trattamento di mobilità e le prestazioni previdenziali e assistenziali in godimento. 5.3. Nessun termine di decadenza è invece previsto in via generale neppure dalla disciplina che viene richiamata dal comma 24 bis dell’art. 2 legge 92 del 2012 che ha introdotto l’ ASpI. 5.4. Come è noto, le norme che dettano una decadenza sono di stretta interpretazione e sono insuscettibili di applicazione analogica (cfr. tra le tante per l’applicazione di tale principio Cass. 31/03/2021 n. 8964, 25/11/2020 n. 26845, 13/06/1979 n. 3331). Né il termine di decadenza (di 30 o di 60 giorni che sia) può essere introdotto ex art. 1287 secondo comma c.c. con una circolare, (la circolare INPS n. 138 del 2011) che è mero atto di interpretazione della normativa neppure vincolante. 5.5. Questa Corte - nel chiarire da tempo che il divieto di cumulo dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, introdotto dall’art. 6 comma 7 del citato d.l. n. 148 del 1993, si estende anche all'assegno ordinario di invalidità, in ragione della sua natura di trattamento pensionistico (cfr. Cass. 17/08/2023 n. 24751 e ivi le richiamate Cass. nn. 5544 e 8239 del 2010, 9808 del 2012 e 8634 del 2014) – ha rammentato che il regime della non cumulabilità di tali trattamenti è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dall’art. 2 comma 5 del d.l. n. 299 del 1994 alla luce del quale “all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell'assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità”. In quella sede si è rammentato che la norma sopra citata non prevede espressamente quali siano le conseguenze del mancato esercizio dell’opzione nel termine previsto per l’iscrizione nelle liste ma si è ritenuto di poterle ricavare dall’art. 1287 secondo comma c.c. il quale stabilisce in forma generale per tutte le obbligazioni alternative le conseguenze del mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” prevedendo la decadenza dalla facoltà di scelta che passa al debitore. In quel contesto si è ritenuto che, sebbene non si possa avere nel caso dell’iscrizione alle liste di mobilità alcun passaggio della facoltà di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell’ente previdenziale è interamente assoggettato alla volontà di legge, tuttavia l’opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata in ogni tempo ma deve piuttosto intervenire all'atto dell'iscrizione nelle liste di mobilità a pena di decadenza. 5.6. Orbene nella specie la coeva coesistenza dei due trattamenti previdenziali (ASpI e assegno ordinario di invalidità) non è consentita; tuttavia quando si verifichi in concreto l’art. 2 comma 40 lett. d) della legge n. 92 del 2012 prevede che alla maturazione dei requisiti del diritto all’assegno ordinario si perde il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione a meno che il lavoratore avente diritto all’assegno ordinario di invalidità non scelga espressamente di mantenere il trattamento di disoccupazione. Allo stesso modo nel caso di preesistenza dell’assegno, l’art. 2 comma 24 bis della legge n. 92 del 2012 e l’art. 6 comma 7 del d.l. n. 148 del 1993, convertito in legge n. 236 del 1993, a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 234 del 2011, dispone che il lavoratore espliciti la preferenza di ottenere il trattamento di disoccupazione. 5.7. Da quanto esposto emerge che il diritto all’indennità di disoccupazione, per sua natura più limitato rispetto all’assegno di invalidità, è rispetto a quest’ultimo recessivo di tal che, nel caso in cui siano erogate entrambe le prestazioni, l’ASpI in mancanza di opzione può essere legittimamente ripetuta dall’Istituto. 5.8. Ciò non toglie però che al lavoratore che abbia presentato domanda di ASpI e si sia vista rigettare la pretesa in via amministrativa possa - senza che perciò si possa ritenere intervenuta una decadenza - in sede di ricorso amministrativo esercitare la sua opzione per quel trattamento. Diversamente verrebbe frustrata, senza che risulti posto dal legislatore un limite in tal senso, l’esigenza perseguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n.234 2011 di assicurare il libero esercizio dell’opzione da parte dell’assicurato in favore dell’una o dell’altra prestazione. 5.9. Peraltro, rileva il Collegio che il legislatore che, successivamente alle sentenze della Corte costituzionale sopra ricordate, ha introdotto con la legge n. 92 del 2012 il nuovo istituto dell’ASpI ben avrebbe potuto fissare un congruo termine entro il quale obbligatoriamente l’interessato è tenuto ad esercitare la sua opzione per l’una o l’altra prestazione. La facoltà di opzione è di regola accompagnata da un termine cui è connessa la stabilizzazione di una certa situazione nel caso di mancato esercizio (si veda ad es. l’art 39 della legge n. 359 del 1955; l'art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, conv. nella legge n. 54 del 1982; art. 6 comma secondo della legge n. 407 del 1990 richiamato dall'art. 1, comma secondo, del D.lgs. n. 503 del 1992; cfr. Cass. n. 352 del 2013 e Cass. n. 28279 del 2008, Cass. 8494 del 2000); tuttavia quando, come nella specie, il legislatore non abbia ritenuto di definire l’arco temporale entro il quale deve essere esercitata il rimedio deve essere rinvenuto nel sistema. Ne consegue che l’esercizio dell’opzione costituisce - in presenza della causa di decadenza dal diritto alla fruizione dell’indennità rappresentato dalla titolarità dell’assegno ordinario di invalidità (già in godimento o successivamente riconosciuto) - una condizione di erogabilità della prestazione cui si collega anche il diritto alla ripetizione delle somme eventualmente erogate indebitamente in mancanza di scelta da parte dell’interessato. Il tardato esercizio dell’opzione, a norma del comma 41 dell’art. 2 della legge n. 92 del 2012, comporterà quindi la possibilità di ripetere dall’assicurato le somme eventualmente indebitamente erogate a titolo di ASpI, nel concorso dell’assegno ordinario di invalidità, ma non può escludere che l’assicurato possa anche tardivamente optare per l’erogazione dell’indennità. 6. In conclusione, per le ragioni sopra esposte il ricorso deve essere rigettato. La mancata costituzione di Iosif Ichimas esonera il Collegio dal provvedere sulle spese del giudizio. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto. Così deciso in Roma il 12 marzo 2024 Il Consigliere estensore Fabrizia Garri Il Presidente Umberto Berrino
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere Dott. CERULO Angelo - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 23193-2022 proposto da: ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, in forza di procura conferita in calce al ricorso per cassazione, dagli avvocati MA.PA., MA.SF., VI.TR., VI.ST., con domicilio eletto presso l'Avvocatura centrale dell'Istituto, in ROMA, VIA (...) - ricorrente - contro Be.Gi., rappresentato e difeso, in virtù di procura rilasciata in calce al controricorso, dagli avvocati RO.VA. ed EM.BU., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato BR.TA., in ROMA, VIA (...) - controricorrente - per la cassazione della sentenza n. 66 del 2022 della CORTE D'APPELLO DI GENOVA, depositata il 23 marzo 2022 (R.G.N. 259/2021). Udita la relazione della causa, svolta in udienza dal Consigliere Angelo Cerulo. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale MARIO FRESA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. Udito, per l'INPS, l'avvocato MA.PA., che ha ribadito le conclusioni rassegnate nel ricorso. FATTI DI CAUSA 1.- Con ricorso avviato alla notifica il 19 settembre 2022 e ricevuto il 23 settembre 2022, l'INPS impugna per cassazione, sulla base di un motivo, la sentenza n. 66 del 2022, pronunciata dalla Corte d'appello di Genova e depositata il 23 marzo 2022. Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte territoriale ha respinto il gravame dell'INPS e ha confermato la pronuncia del Tribunale di La Spezia, che aveva annullato il provvedimento di recupero degl'importi erogati dall'Istituto al signor Be.Gi. a titolo di Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (d'ora innanzi, NASpI). 2.- Il signor Be.Gi. resiste con controricorso. 3.- Il ricorso è stato fissato per la trattazione alla pubblica udienza del 14 novembre 2023. 4.- Il Pubblico Ministero ha depositato memoria (art. 378, primo comma, cod. proc. civ.) e ha chiesto di accogliere il ricorso, anticipando le conclusioni rassegnate in udienza. 5.- Entrambe le parti, prima dell'udienza, hanno depositato memoria (art. 378, secondo comma, cod. proc. civ.). RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- I fatti di causa, delineati nella sentenza d'appello e illustrati nell'odierno ricorso in termini convergenti con quel che emerge dal controricorso, non sono controversi tra le parti. Il signor Be.Gi., dopo il licenziamento intimato il 22 maggio 2019, ha richiesto all'INPS la NASpI, con istanza del 28 maggio 2019. L'istanza è stata accolta, a far data dalla cessazione del rapporto di lavoro (14 luglio 2019), con provvedimento del 24 ottobre 2019. Il 20 novembre 2019, il signor Be.Gi. ha richiesto la pensione di vecchiaia anticipata per invalidità e il trattamento in questione è stato corrisposto a decorrere dal primo dicembre 2019. Il lavoratore ha beneficiato della NASpI fino al 31 ottobre 2019. L'INPS, con provvedimento del 10 maggio 2020, ha revocato la concessione dell'indennità e ha chiesto la restituzione dell'importo di Euro 2.275,50, relativo al periodo dal primo settembre 2019 al 31 ottobre 2019. L'Istituto, invero, ha accertato che il lavoratore, con decorrenza dal primo settembre 2019, aveva già raggiunto i requisiti per accedere alla pensione di vecchiaia anticipata in ragione dell'invalidità (art. 1, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503). Il provvedimento si fonda, dunque, sull'automatica decadenza dal beneficio che l'art. 11, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, sancisce per l'ipotesi di raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato. 2.- Il provvedimento è stato impugnato e il Tribunale di La Spezia ha accolto il ricorso, sulla base della necessità di tutelare l'accipiens di buona fede, che peraltro non aveva fruito contemporaneamente di due prestazioni. La Corte d'appello di Genova, con la pronuncia impugnata in questa sede, ha confermato la decisione di primo grado sulla scorta dei seguenti rilievi. Se il lavoratore, pur avvalendosi dell'ausilio di un patronato, non si è avveduto della facoltà di reclamare, sin dal primo settembre 2019, la pensione di vecchiaia anticipata, e ha richiesto la NASpI, "prestazione assistenziale (...) meno vantaggiosa" (pagina 6 della sentenza), l'INPS e incorso in un errore ancor più grave, in quanto ha concesso la NASpI, pur disponendo di un estratto conto che già attestava la presenza dei requisiti per accedere al trattamento pensionistico. Nel "bilanciamento dei contrapposti interessi", occorre considerare che il lavoratore "ha perso tre ratei di pensione" e, nell'ipotesi di accoglimento della domanda restitutoria, resterebbe "privo di mezzi di sostentamento pur avendo già maturato i requisiti per accedere alla pensione", laddove l'INPS ha lucrato un risparmio di spesa (pagina 7 della pronuncia d'appello). La Corte di merito muove dal presupposto che, nel caso di specie, sia applicabile la disciplina speciale sull'indebito assistenziale, "assoggettato ad una disciplina settoriale eccentrica rispetto alla (...) regola privatistica dell'art. 2033 c.c." (pagina 5 della pronuncia d'appello). 3.- Tale presupposto è contestato dall'INPS, che inquadra la NASpI tra le prestazioni previdenziali non pensionistiche, assoggettate, quanto alla ripetizione, alla disciplina comune dell'art. 2033 cod. civ. Poste tali premesse, l'Istituto denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell'art. 2033 cod. civ., degli artt. 3 e 11, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, e dell'art. 2, commi 25 e seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Avrebbe errato la Corte territoriale nel respingere la domanda di restituzione dell'indennità NASpI, percepita dal Be.Gi. nonostante avesse già maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia anticipata, e nell'applicare la disciplina dell'indebito assistenziale, in luogo di quella generale dell'art. 2033 cod. civ., destinata a operare per una prestazione conseguente "all'instaurazione del rapporto previdenziale con l'INPS", alimentata da "una provvista contributiva" (pagina 8 del ricorso per cassazione). Né l'asserita buona fede dell'accipiens potrebbe paralizzare la domanda di restituzione, in quanto rileverebbe soltanto "al fine della diversa decorrenza degli interessi sulle somme da restituire" (pagina 10 del ricorso per cassazione). 4.- La censura coglie nel segno. 5.- Il presente giudizio verte sulla fondatezza della pretesa dell'INPS, che agisce in ripetizione per l'importo della NASpI (Euro 2.275,50) che sostiene di avere indebitamente corrisposto dopo il maturare dei requisiti per accedere alla pensione di vecchiaia anticipata (settembre 2019). L'Istituto assume che la NASpI spetti soltanto fino alla maturazione del diritto di conseguire la pensione di vecchiaia anticipata e invoca, a tale riguardo, i principi enunciati da questa Corte nella fattispecie affine dell'indennità di mobilità (Cass., sez. lav., 5 febbraio 2018, n. 2697), secondo una giurisprudenza consolidata nell'annettere rilievo alla maturazione del diritto e nel reputare ininfluenti la decorrenza o l'effettiva percezione del trattamento pensionistico. 6.- La Corte d'appello di Genova, nel confermare le statuizioni del giudice di prime cure, ha ricondotto la fattispecie all'indebito assistenziale, assoggettata a regole peculiari, irriducibili al paradigma generale dell'art. 2033 cod. civ. (pagina 5 della sentenza impugnata e, con ulteriori rilievi, pagina 6). Sulla base di questo dirimente e prioritario rilievo, la Corte di merito ha affermato l'irripetibilità della prestazione erogata dall'INPS. 7.- La scelta dei giudici del gravame di escludere l'applicabilità dell'art. 2033 cod. civ. presta il fianco alle censure del ricorrente, per le ragioni di seguito esposte. 7.1.- Devono essere condivise le considerazioni del ricorrente, riprese anche nella memoria del Pubblico Ministero (pagina 2), riguardo alla qualificazione della NASpI come prestazione previdenziale non pensionistica. Introdotta dal D.Lgs. n. 22 del 2015 a far data dal primo maggio 2015, la NASpI è istituita presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti di cui all'art. 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88. L'inquadramento tratteggiato nel ricorso e ribadito nella memoria illustrativa (pagina 1) è corroborato dall'inequivocabile dettato normativo e non è contraddetto in maniera persuasiva dalla parte controricorrente, che si attarda sul diverso profilo, rilevante anche nella generale disciplina dell'indebito, della tutela dell'affidamento alla stregua della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). 7.2.- Rispetto alla prestazione dedotta in causa, non operano, pertanto, le regole di settore dettate dalla legge per l'indebito previdenziale pensionistico (art. 52, comma 2, della legge 9 marzo 1989, n. 88, come modificato dall'art. 13 della legge 30 dicembre 1991, n. 412), che si configurano come una disciplina eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica oltre il perimetro tracciato dal legislatore (Cass., sez. lav., 19 aprile 2021, n. 10274). Alla fattispecie controversa neppure si attagliano i principi vigenti nel sottosistema dell'indebito assistenziale, che, in consonanza con il precetto dell'art. 38 Cost., escludono l'incondizionata ripetibilità in presenza di una situazione idonea a generare l'affidamento del percettore, ove a quest'ultimo non possa essere imputata l'erogazione indebita (Cass., sez. lav., 10 agosto 2022, n. 24617, in linea con le affermazioni di Corte costituzionale, ordinanza n. 264 del 2004). La fattispecie, pertanto, soggiace alla disciplina generale dell'art. 2033 cod. civ., come la stessa parte controricorrente non manca di riconoscere nella memoria illustrativa depositata in vista dell'udienza, nel perorare l'applicazione dei principi enunciati dal giudice delle leggi (sentenza n. 8 del 2023) nel sindacato di legittimità costituzionale dell'art. 2033 cod. civ. Da tali principi, tuttavia, non si può desumere la regola dell'indistinta irripetibilità, nei termini adombrati dalla parte controricorrente (cfr., in tal senso, anche pagina 3 della memoria illustrativa della parte ricorrente e pagina 3 della memoria del Pubblico Ministero). La pronuncia della Corte costituzionale menzionata dalle parti e nitida nell'escludere che l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, nell'esegesi accreditata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, imponga "di generalizzare un diritto alla irripetibilità della prestazione" (punto 12.2.1. del Considerato in diritto). 8.- La sentenza impugnata, nel negare l'operatività dell'art. 2033 cod. civ., ha sussunto la vicenda concreta in una fattispecie astratta che non le si addice e risulta viziata, pertanto, dagli errores in iudicando denunciati nel ricorso. Tale erronea sussunzione è gravida d'implicazioni anche in ordine al regime della ripetizione applicabile al caso di specie e si ripercuote, in ultima analisi, sulla conformità a diritto della decisione adottata. 9.- Ne discende l'accoglimento del ricorso, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata. 10.- La causa dev'essere rinviata alla Corte d'appello di Genova, che, in diversa composizione, rinnoverà l'esame della controversia alla stregua dell'art. 2033 cod. civ. e pronuncerà anche sulle spese del presente giudizio. Tale esame rende ineludibili più articolati accertamenti di fatto e postula il pieno dispiegarsi del contraddittorio fra le parti sugli aspetti già evidenziati nelle memorie illustrative. 11.- Il giudice di rinvio, nella verifica demandata da questa Corte e nelle coordinate tracciate dall'art. 2033 cod. civ., a torto ritenuto inapplicabile, dovrà ponderare anche la tutela dell'affidamento incolpevole di chi abbia percepito la prestazione indebita. Tale affidamento, oggetto delle antitetiche prospettazioni delle parti, rileva entro i limiti che saranno ora puntualizzati. Spetta a questa Corte, nel suo compito di garantire l'esatta osservanza e l'uniforme applicazione della legge, offrire le necessarie indicazioni esegetiche riguardo al contenuto precettivo delle clausole generali, che per sua natura dev'essere inverato nell'esperienza concreta, secondo parametri che, nondimeno, devono essere ancorati a precisi e prevedibili indici normativi e non possono essere affidati, di volta in volta, all'arbitrario e cangiante apprezzamento del singolo interprete. 12.- È ben vero che il canone di buona fede permea anche l'azione volta al recupero delle prestazioni indebite e impone di attribuire rilievo al "tipo di relazione fra solvens e accipiens", in base a tutte le circostanze del caso concreto (sentenza n. 8 del 2023, cit., punto 12.1. del Considerato in diritto). Tuttavia, la contrarietà a buona fede del contegno del solvens presuppone che l'azione di recupero, per le modalità e per i tempi che ne contraddistinguono l'esercizio, leda un affidamento meritevole di tutela e si connoti, in modo pregnante, come abusiva. Tale ipotesi non può non essere sottoposta a un vaglio rigoroso, in un contesto contrassegnato dalla necessità d'indirizzare le risorse a quella tutela delle situazioni di effettivo e comprovato bisogno, che la Carta fondamentale, all'art. 38 Cost., prescrive come compito primario dello Stato. In tale disamina, il giudice dovrà scrutinare tutti gli elementi rilevanti, puntualmente dedotti e suffragati dalle parti. Fra i dati di fatto si annoverano, tra l'altro, il perdurare dell'attribuzione nel tempo, l'importo delle somme richieste, le condizioni economiche e patrimoniali dell'obbligato e il correlato impatto "lesivo della prestazione restitutoria sulle condizioni di vita" dell'accipiens (sentenza n. 8 del 2023, cit. punto 12.2.1.), il comportamento complessivo delle parti nella relazione che, per effetto dell'erogazione indebita, s'instaura. A tale riguardo, si dovranno esaminare anche le considerazioni svolte dal Pubblico Ministero (pagina 3 della memoria), nell'osservare che "a fronte di una domanda di NASpI ed in assenza di una domanda di pensione, l'INPS non aveva ragione di approfondire la situazione pensionistica dell'assicurato più di quanta ne avesse di cercare di erogargli tempestivamente la prestazione di disoccupazione". 13.- Quando la verifica ex fide bona riveli un contegno abusivo di chi agisce in ripetizione, speculare a un affidamento qualificato dell'accipiens, non si può predicare, tuttavia, l'indiscriminata irripetibilità propugnata nella sentenza d'appello e nel controricorso. Invero, la tutela del legittimo affidamento, presidiata, in via primaria, dall'art. 3 Cost. e coessenziale al patto di solidarietà tra i cittadini e lo Stato e al nesso inscindibile che lega i diritti e i doveri (art. 2 Cost.), può temperare l'indefettibile e onnicomprensiva condictio indebiti, senza, però, vanificarla nel suo nucleo essenziale. Tale tutela si estrinseca, in prima battuta, nella modulazione temporale dell'obbligazione restitutoria, secondo le indicazioni ermeneutiche che la stessa Corte costituzionale ha delineato, nel richiamare l'apparato di rimedi che il sistema appresta, secondo principi di gradualità e di proporzione. 14.- Infine, a tutela dei diritti del controricorrente, che ha promosso una controversia concernente la compatibilità della NASpI con la pensione di vecchiaia anticipata per l'invalidità di grado elevato e dunque connessa con dati comunque inerenti alle condizioni di salute, si deve disporre, in caso di riproduzione in qualsiasi forma della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi della parte, ai sensi dell'art. 52, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio, alla Corte d'appello di Genova, in diversa composizione. Dispone, in caso di riproduzione in qualsiasi forma della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi della parte controricorrente, ai sensi dell'art. 52, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quarta Sezione civile del 14 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA III SEZIONE LAVORO E PREVIDENZA composta dai signori magistrati: NETTIS dr. Vito Francesco - Presidente DEDOLA dr. Enrico Sigfrido - Consigliere COSENTINO dr.ssa Maria Giulia - Consigliere rel. All'udienza di discussione del 22 febbraio 2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella controversia in materia di previdenza in grado di appello iscritta al n. 3090 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021 TRA INPS - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, con l'avv. Si.Za. Appellante E (...), con l'Avv. Se.Ma. Appellata OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma n. 3594/2021 del 15/04/2021. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) aveva chiesto al Tribunale di Roma di accertare il requisito sanitario necessario a conseguire la pensione anticipata di vecchiaia, la cui sussistenza era stata contestata dall'INPS in sede amministrativa (cfr. rigetto del 3.12.2019 in atti). Atteso l'esito positivo della CTU esperita nel corso del giudizio e accertata la compresenza degli altri requisiti (oltre 55 anni di età, possesso di anzianità assicurativa superiore a venti anni), la domanda era stata accolta con decorrenza posticipata di un anno (dunque al 1.8.2020), in ragione della applicazione delle c.d. "finestre mobili" di cui alla L. n. 122 del 2020. L'INPS ha appellato la sentenza censurando l'assenza del requisito della "cessazione dell'attività lavorativa" (prescritto dal comma 7 dell'art. 1 della L. n. 503 del 1992) come da estratto contributivo che ha prodotto. Si è costituita l'appellata per resistere all'appello. All'udienza fissata per la discussione, sulle conclusioni delle parti come riportate in epigrafe la causa è stata decisa come da dispositivo in calce. MOTIVI DELLA DECISIONE L'appello è infondato. Nel formulare la domanda di pensione anticipata deve ritenersi implicitamente che la (...) abbia allegata la sussistenza di tutti i requisiti di legge, dunque non solo delle condizioni di salute (poi riscontrate con CTU medicolegale), ma anche dei requisiti di età, di contribuzione e anche la cessazione dell'attività lavorativa: requisiti, comunque, tutti evincibili da documenti in atti formati dallo stesso INPS (estratto contributivo). Ed infatti, pur volendo riferirsi all'estratto contributivo prodotto in appello dall'INPS, emerge che l'appellata alla data del 1.8.2020, alla quale si è ancorata la pronuncia gravata, non prestava alcuna attività lavorativa e dunque poteva essere destinataria del beneficio richiesto. La circostanza che, nelle more del giudizio definito con la decisione oggi impugnata, cioè fra il 1.1.2021 e il 31.7.2021, ella abbia ripreso a lavorare part time, oltre ad essere umanamente comprensibile, visto che (irragionevolmente, per come accertato) l'INPS le aveva negato l'accesso a pensione per l'asserita insussistenza (infondata) del requisito sanitario, non può certo costituire un vizio della pronuncia e rifluisce, semmai, solo in sede di esecuzione qualora dovesse porsi un problema di cumulo (nemmeno prospettato dall'Istituto appellante). Non vi è dubbio che l'appellante faccia riferimento alla data individuata dal Tribunale e non alla data indicata nell'originaria richiesta (come da discussione in udienza): l'appello è chiarissimo e lapidario sul punto: "alla data del 1.8.2020 era lavoratrice dipendente. In allegato si produce l'estratto conto certificativo dal quale si evince la carenza di tale circostanza.". Ad abundantiam, nemmeno alla data dell'originaria richiesta amministrativa la (...) lavorava, poiché (come peraltro l'INPS doveva ben sapere), sempre alla stregua dell'estratto contributivo, fruiva di cassa integrazione in deroga. Va ricordato, poi, che (cfr. Corte appello Ancona, 17/05/2002): "il requisito della cessazione del rapporto previsto dall'art. 1 comma 7 D.Lgs. n. 503 del 1992 per la maturazione della pensione di vecchiaia deve intendersi non come cessazione di ogni attività lavorativa ma come cessazione del solo rapporto di lavoro che ha dato luogo alla maturazione del requisito contributivo per la pensione di vecchiaia.". Ne segue che, anche alla luce della CTU medicolegale di primo grado, la lavoratrice ha dimostrato il possesso di ogni requisito per conseguire la pensione anticipata per vecchiaia sin dalla domanda amministrativa del 24.7.2019, con diritto a conseguirla, per effetto delle c.d. finestre mobili, dal 24.7.2020: e pertanto la sentenza merita piena conferma. Le spese di lite del grado seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, con distrazione in favore dell'avv. Se.Ma., antistatario. P.Q.M. Definitivamente pronunciando sull'appello proposto da INPS con ricorso depositato il 13.10.2021 avverso la sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma n. 3594/2021 del 15/04/2021 nei confronti di (...), così provvede: - Respinge l'appello; - Condanna l'INPS a rimborsare all'appellata le spese di lite del grado, liquidate in Euro 5.000,00, oltre al 15% per spese generali forfettarie e oltre accessori di legge, da distrarsi in favore dell'Avv. Se.Ma., antistatario; - Dà atto che per l'appellante sussistono le condizioni richieste dall'art.13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto. Così deciso in Roma il 22 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da: Dott. Michele Milani - PRESIDENTE Rel. Dott. ssa Patrizia Visaggi - CONSIGLIERE Dott. Fabrizio Aprile - CONSIGLIERE ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di lavoro iscritta al n.ro 550 /2022 R.G.L. promossa da: (...), (c.f. (...)), con sede in R., via M. n. 1, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, dott. S.D., rappresentata e difesa per procura in atti dall'avv. Da.De., elettivamente domiciliata presso lo Studio dell'avv. Ba.Ro. in Torino, C.so (...) APPELLANTE CONTRO (...) dott.ssa (...), (c.f. (...)) residente in (...) (T.), rappresentata e difesa per procura 18.1.2023 dall'avv. St.Ta. del Foro di Asti, presso il cui studio in Asti, Via (...) è elettivamente domiciliata APPELLATA Oggetto: altre controversie in materia di previdenza obbligatoria FATTI DI CAUSA Con ricorso diretto al Tribunale di Torino, (...), esponendo di essere titolare di pensione di vecchiaia anticipata a carico della (...) (C.), con decorrenza dal luglio 2005, ha chiesto che venisse accertata l'illegittimità della trattenuta disposta su detta pensione (in esecuzione dell'art.22 del Regolamento adottato con Delibera approvata con D.M. 14 luglio 2004, e poi proseguita in forza di altri provvedimenti interni, in ultimo per il quinquennio 2019 - 2023 in forza dell'art.29 del Regolamento) a titolo di contributo di solidarietà, con conseguente condanna della Cassa convenuta alla restituzione delle somme trattenute a tale titolo (per l'importo di Euro 8.435,45 nell'ambito della prescrizione decennale per il periodo giugno 2011 - maggio 2021), oltre interessi legali dalla data di ciascun prelievo al pagamento effettivo. Costituendosi in giudizio la (...) ha eccepito in via preliminare l'improcedibilità del ricorso ex art. 443 c.p.c.; nel merito ha contestato il fondamento della domanda chiedendone la reiezione, eccependo anche la prescrizione quinquennale e formulando domande subordinate con riferimento alla decorrenza degli interessi. Con sentenza n. 833/2022, pubblicata il 19.5.2022, il Tribunale ha respinto l'eccezione preliminare ed ha accolto il ricorso nei limiti della prescrizione decennale condannando la Cassa "alla restituzione in favore della ricorrente delle somme complessivamente trattenute sui ratei di pensione a titolo di contributo di solidarietà dal 8 settembre 2011 sino alla data di deposito della presente sentenza, oltre interessi legali sino al saldo", condannando altresì la Cassa alle spese di lite. Ha proposto appello la (...) cui ha resistito l'appellata. All'udienza del 8.2.2023, con l'intervento dei difensori delle parti, la Corte ha pronunciato sentenza come da separato dispositivo. RAGIONI DELLA DECISIONE Il Tribunale ha accolto nel merito il ricorso ritenendo che la previsione del contributo di solidarietà fosse illegittima in applicazione dei principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali sia la modifica apportata all'art. 3, comma 12, della L. n. 335 del 1995 dall'art. 1, co. 763, L. n. 296 del 2006, sia l'interpretazione data dall'art. 1, comma 488 della L. n. 147 del 2013, non legittimano interventi di riduzione sull'ammontare delle pensioni che, come nel caso di specie, siano già maturate anteriormente all'entrata in vigore delle suddette norme. Il Tribunale ha inoltre respinto l'eccezione della Cassa diretta ad ottenere l'applicazione della prescrizione quinquennale (e non quella decennale entro la quale è stata prospettata la pretesa), richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. sez Un. 17742/15; Cass. 1344/2004; 2563/2016). La Cassa censura la sentenza impugnata con vari motivi sintetizzabili come segue: 1) violazione dell'art. 2 D.Lgs. n. 509 del 1994 in combinato disposto con l'art. 22 del Regolamento della Cassa e con le Delib. del 28 ottobre 2008 e del 27.6.2013, dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995, dell'art. 1, comma 763, L. n. 296 del 2006, dell'art. 1, comma 488, L. n. 147 del 2013, dell'art. 24, comma 24, D.L. n. 201 del 2011, convertito in L. n. 214 del 2011, degli artt. 3 e 38 Cost., sostenendo che il nuovo testo dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995, come modificato dall'art. 1, comma 763, L. n. 296 del 2006 e come autenticamente interpretato dall'art. 1, comma 488 della L. n. 147 del 2013, avrebbe attenuato (se non eliminato) il principio del "pro rata", in forza dei principi di gradualità ed equità fra generazioni, e così ampliato il potere normativo delle Casse sino a comprendervi i provvedimenti - tra i quali andrebbe annoverato il contributo di solidarietà - di riduzione delle prestazioni pensionistiche in corso di erogazione; 2) mancata considerazione della domanda subordinata diretta ad ottenere l'applicazione dell'art.24, comma 24 D.L. n. 201 del 2011, e quindi ritenere legittima la trattenuta per contributo di solidarietà dal 2011, o quantomeno per il biennio 2012 - 2013; 3) mancata applicazione della prescrizione quinquennale in luogo di quella decennale; Tutti i profili di impugnativa sono stati esaminati e respinti da precedenti pronunce di questa corte ((v. tra le altre sentenza n. 421/2015, n. 469/2015, n. 75/2019, n. 125/2019, n. 440/2019, n. 528/2020, n. 432/21, n.532/21, n.257/22 già in parte esaminate e confermate dalla Suprema Corte- v. Cass. n. 27340/2020; n. 28054/20) e le relative argomentazioni, condivise dal collegio, vengono richiamate di seguito seguendo la numerazione sopra riportata. 1. "Invero, si è di recente statuito (Cass. Sez. Lav. n. 31875 del 10.12.2018) che " In materia di trattamento previdenziale, gli enti previdenziali privatizzati (nella specie, la (...)) non possono adottare, sia pure in funzione dell'obbiettivo di assicurare l'equilibrio di bilancio e la stabilità della gestione, atti o provvedimenti che, lungi dall'incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano una trattenuta (nella specie, un contributo di solidarietà) su untrattamento che sia già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, dovendosi ritenere che tali atti siano incompatibili con il rispetto del principio del "pro rata" e diano luogo a un prelievo inquadrabile nel "genus" delle prestazioni patrimoniali ex art. 23 Cost., la cui imposizione è riservata al legislatore". In tale precedente (che si è occupato del contributo di solidarietà di cui trattasi) al quale questa Corte intende dare continuità si è, in sintesi, spiegato quanto segue: - Premessa l'esistenza di una sostanziale delegificazione - affidata dalla legge (legge delega n. 537/1993) alla autonomia degli enti previdenziali privatizzati, entro i limiti ad essa imposti per la disciplina, tra l'altro, del rapporto contributivo e del rapporto previdenziale - concernente le prestazioni a carico degli stessi enti - anche in deroga a disposizioni di legge precedenti - e considerato il principio per il quale al pari delle disposizioni di legge nelle stesse materie gli atti di delegificazione - adottati dagli enti, entro i limiti della propria autonomia - sono soggetti, altresì, a limiti costituzionali, coerentemente il sindacato giurisdizionale - su tali atti di delegificazione - ne investe il rispetto, da un lato, dei limiti imposti alla autonomia degli enti - dal quale dipende la loro idoneità a realizzare l'effetto perseguito, di abrogare, appunto, o derogare disposizioni di legge e, dall'altro, dei limiti costituzionali, in funzione della (eventuale) caducazione degli atti medesimi (artt. 1418 e 1324 c.c.), per contrasto con norme imperative. Lo stesso sindacato giurisdizionale - circa il rispetto dei limiti imposti all'autonomia degli enti, appunto, e dei limiti costituzionali - investe (anche) gli atti di delegificazione, posti in essere dagli enti sulla base della legislazione successiva. Ciò premesso va rilevato che questa Corte ha esposto con riferimento a fattispecie analoga relativa alla stessa Cassa commercialisti (Cass. 25212/09) che "L'autonomia degli stessi enti, tuttavia, incontra un limite fondamentale, imposto dalla stessa disposizione che la prevede (ossia dal predetto D.Lgs. n. 509 del 1994 art. 2), la quale definisce espressamente i tipi di provvedimento da adottare, identificati, appunto, in base al loro contenuto ("variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti"). Esula, tuttavia, dal novero (una sorta di numerus clausus) degli stessi provvedimenti - e risulta incompatibile, peraltro, con il "rispetto del principio del pro rata (...)" - qualsiasi provvedimento degli enti previdenziali privatizzati (quale, nella specie, l'art. 22 del Regolamento di disciplina del regime previdenziale), che introduca - a prescindere dal "criterio di determinazione del trattamento pensionistico" - la previsione di una trattenuta a titolo di "contributo di solidarietà" sui trattamenti pensionistici già quantificati ed attribuiti. Ed invero sul punto deve evidenziarsi che la imposizione di un "contributo di solidarietà" sui trattamenti pensionistici già in atto non integra, all'evidenza, ne'una "variazione delle aliquote contributive", ne' una "riparametrazione dei coefficienti di rendimento". Ma alla stessa conclusione deve pervenirsi, tuttavia, con riferimento ad "ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico". La previsione relativa intende riferirsi, infatti, a tutti i provvedimenti, che - al pari di quelli specificamente identificati nominativamente (di "variazione delle aliquote contributive", appunto, e di "riparametrazione dei coefficienti di rendimento") - incidano su "ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico". Ne esula, quindi, qualsiasi provvedimento, che - lungi dall'incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico da adottarsi nel rispetto o tenuto conto del principio del pro rata , ai sensi delle successive formulazioni dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995 e finalizzato al solo riequilibrio finanziario rispetto ai limiti di stabilità imposti dalla legge - imponga una trattenuta su detto trattamento già determinato, in base ai criteri ad esso applicabili, quale limite esterno della sua misura. Né a diverse conclusioni e dunque alla legittimità della trattenuta, si può giungere attraverso il richiamo alla L. n. 296 del 2006 di modifica dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995 in quanto detta norma incide sul sistema del pro rata che è estraneo alla tematica del contributo di solidarietà. La citata sopravvenuta normativa non può, pertanto, essere intesa nel senso preteso dalla Cassa di fonte del potere di introdurre prestazioni patrimoniali a carico dei pensionati, quale è ilcontributo di solidarietà. Quanto alla disposizione di cui all'art. 1, comma 488, della L. n. 147 del 2013, qualificata come di interpretazione autentica , - secondo cui : "L'ultimo periodo della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 763, si interpreta nel senso che gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui al medesimo comma 763 ed approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della L. 27 dicembre 2006, n. 296, si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine", va rilevato che questa Corte (cfr Cass 6702/2016, ord. n 7568/2017) ha già affermato che "quest'ultimo intervento legislativo non incide sulla soluzione della presente questione, dal momento che la norma in esame pone come condizione di legittimità degli atti che essi siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario a lungo termine, mentre sicuramente tale finalità non rappresenta un connotato del contributo straordinario di solidarietà, proprio perché di carattere provvisorio e limitato nel tempo, cosi come affermato dalla stessa ricorrente". Va ulteriormente considerato che , comunque, non può prescindersi dalla considerazione che la norma di cui all'ultimo periodo dell'art. 1, comma 763, L. 27 dicembre 2006, n. 296, non può che riguardare i provvedimenti che hanno inciso sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico dei professionisti iscritti alla Cassa e non già la materia che esula dai poteri delle Casse, quale quella in esame. Appare utile, al fine di confermare l'estraneità del contributo di solidarietà ai criteri di determinazione del trattamento pensionistico e conseguentemente anche al principio del necessario rispetto del pro rata, richiamare, altresì, la recente sentenza della Corte Costituzionale n 173/2016 che, nel valutare l'analogo prelievo disposto dall'art. 1, comma 486, L. n. 147 del 2013, ha affermato che si è in presenza di un "prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'art. 23 Cost., avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del sistema previdenziale (sentenza n. 178 del 2000; ordinanza n. 22 del 2003)". Sulla base delle considerazioni che precedono deve concludersi nel senso che esula dai poteri riconosciuti dalla normativa la possibilità per le Casse di emanare un contributo di solidarietà in quanto, come si è detto, esso, al di là del suo nome, non può essere ricondotto ad un "criterio di determinazione del trattamento pensionistico" , ma costituisce un prelievo che può essere introdotto solo dal legislatore. Le ragioni che hanno indotto questa Corte a ritenere che tra i poteri della Cassa non vi sia anche quello di applicare ai pensionati un contributo di solidarietà consente di escludere che la citata e recente sentenza della Corte Costituzionale, che ha concluso per la legittimità costituzionale dell'art. 1 comma 486 della legge finanziaria del 2014 (ritenendo sussistere "sia pur al limite", rispettate nel caso dell'intervento legislativo in esame" le condizioni dalla Corte enunciate per la legittimità dell'interventoquali operare all'interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate -in rapporto alle pensioni minime-; presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum") possa incidere sulle conclusioni qui assunte" (Cass. n. 9864/2019). Le ragioni poste a base della pronuncia richiamata, anche ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., mantengono pieno valore in relazione al contributo di solidarietà applicato all'appellato anche nei quinquenni in esame, evidenziando l'infondatezza delle argomentazioni svolte nell'appello. I limiti dell'autonomia della Cassa in relazione al contenuto dei provvedimenti da adottare, imposti dalla normativa di rango primario esaminata in detta pronuncia, restano infatti immutati anche nel periodo in questione e alla stregua di tali limiti risultano pertanto illegittime le proroghe del contributo di solidarietà per i periodi 2009-2013 e 2014-2018 e 2019-2023 disposte con le delibere adottate dalla Cassa rispettivamente in data 28.10.2008, in data 27.6.2013 e in data 29.11.2017. 2. Non si rende applicabile l'art.24, comma 24 del D.L. n. 201 del 2011 (che peraltro prevede la diretta imposizione del contributo di solidarietà per gli anni 2012 e 2013) per difetto del presupposto, vale a dire l'inerzia dell'Ente nell'adozione dei provvedimenti previsti, condizione esclusa dalla stessa Cassa che sostiene di avere adottato fin dai primi anni 2000 una serie di provvedimenti per la salvaguardia dell'equilibrio di bilancio. 3. La Cassa deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2948 c.c. per avere il Tribunale ritenuto applicabile il termine di prescrizione decennale (applicato dallo stesso appellato che formula la pretesa nel limite dei dieci anni) anziché il termine quinquennale ex art. 2948 n. 4 c.c.. Il motivo non è fondato. La Corte di Cassazione, in una sentenza emessa nei confronti della Cassa Nazionale di previdenza e assistenza a favore dei ragionieri, ha affermato che: "In materia di previdenza obbligatoria (quale quella gestita dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D.Lgs. n. 509 del 1994) la prescrizione quinquennale prevista dall'art. 2948, n. 4, c.c. - così come dall'art. 129 del R.D.L. n. 1827 del 1935 - richiede la liquidità ed esigibilità del credito, che deve essere posto a disposizione dell'assicurato, sicché, ove sia in contestazione l'ammontare del trattamento pensionistico, il diritto alla riliquidazione degli importi è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c." (Cass. Sez. U, 8.9.2015 n. 17742); è stato inoltre precisato che per l'applicazione del termine di prescrizione quinquennale "? non è sufficiente la mera idoneità del credito ad essere determinato, ancorché prontamente, nel suoammontare; pertanto, con riguardo ai ratei di pensione ed indennità la cui debenza sia contestata nella esatta entità ? non si applica la prescrizione quinquennale di cui alle norme sopraindicate in difetto di specifico provvedimento della P.A. debitrice, ma l'ordinaria prescrizione decennale, quale prescrizione concernente la prestazione da effettuare nella sua globalità ed interezza, di cui i ratei non liquidi e non esigibili rappresentano una frazione ancora non individuata, ne' messa a disposizione (Cass. 21 luglio 2000, n. 9627; v. anche sostanzialmente nello stesso senso Cass. 6 novembre 1998, n. 11225; 21 novembre 1997, n. 11644)" (così Cass. 1344/2004, Cass. 2563/2016). Il fatto che la trattenuta sulla pensione a titolo di contributo di solidarietà sia esattamente quantificata nei cedolini relativi ai ratei pensionistici non rende il credito "pagabile" o esigibile, considerato che esso, contestato dal debitore prima di tutto nell'an debeatur, non può ritenersi "messo a disposizione" del creditore. Neppure può essere applicato l'art. 47-bis D.P.R. n. 639 del 1970, introdotto dall'art. 38 D.L. n. 98 del 2011, convertito in L. n. 111 del 2011 secondo cui "Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all'articolo 24 della L. 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni", trattandosi di norma che riguarda i "ricorsi e controversie in materia di prestazioni" (così il Titolo III, al cui interno la norma è inserita), ma con riferimento al solo INPS, come si ricava dal corpo normativo, dedicato appunto all'INPS, al cui interno la norma è collocata, come anche dalle norme del Titolo III predetto (art. 44-46), che riguardano tutte la materia delle prestazioni e dei ricorsi INPS (cfr., con riferimento alla decadenza ex art. 47 D.P.R. n. 639 del 1970, Cass. 982/19 che richiama Cass. 2959/1987 per l'inapplicabilità all'INAIL). (Argomentazioni tutte tratte da Corte Appello Torino sent. n.432/21, R.G. 10/21). Per le considerazioni esposte l'appello va respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo con distrazione a favore del difensore antistatario. Al rigetto dell'appello consegue ex lege (art. 1, commi 17-18, L. n. 228 del 2012) la dichiarazione che sussistono i presupposti per l'ulteriore pagamento, a carico dell'appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l'impugnazione. P.Q.M. Visto l'art. 437 c.p.c., respinge l'appello; condanna l'appellante a rimborsare all'appellata le spese del grado, liquidate in Euro 2.500,00 oltre rimborso forfettario, IVA e CPA, con distrazione a favore del difensore; dichiara la sussistenza delle condizioni per l'ulteriore pagamento, a carico dell'appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l'impugnazione. Così deciso in Torino l'8 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI MILANO SEZIONE LAVORO La dott.ssa Francesca Saioni, in funzione di giudice del lavoro ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa n. 7961/2022 R.G. promossa da avv. (...), in proprio, domicilio eletto in Pessano con Bornago, corso (...), ricorrente contro I.N.P.S., rappresentato e difeso dall'avv. Sa.Fa., domicilio eletto in Milano, via (...), resistente OGGETTO: ripetizione di indebito FATTO E DIRITTO Con ricorso ritualmente notificato, l'avv. (...) conveniva in giudizio I.N.P.S perché venissero accolte le seguenti domande: "IN VIA PRELIMINARE: sulla base delle ragioni esposte in narrativa disporre la riunione del presente procedimento con i processi pendenti innanzi al Tribunale di Milano, Sez. Lavoro, Giudice Unico Dott.ssa (...), con RG N. 8192/2021 e con RG N. 5618/2022, quest'ultimo già riunito al primo, affinché la presente causa sia assegnata, ai sensi dell'art. 273 e/o 274 c.p.c. alla Sezione Lavoro, già investita del Ricorso principale con RG N. 8192/2021 e con RG N. 5618/2022 ed affinché sia rispettato il principio costituzionale del giusto processo, onde evitare un abuso degli strumenti processuali 2. NEL MERITO E IN VIA PRINCIPALE,sempre sulla base delle ragioni esposte in narrativa, accogliere l'opposizione e, per l'effetto, accertare e dichiarare nullo e/o inefficace e/o annullare e/o revocare e/o disapplicare gli opposti accertamenti (doc. n. 1 e doc. n. 2) e/o comunque accertare e dichiarare che sono inesigibili e/o irripetibili in toto le somme pretese (doc. n. 1 e doc. n. 2) a qualunque titolo dall'INPS AGENZIA DI MILANO SUD, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore nei confronti dell'Avv. (...) fino al 7.12.2020 data di deposito del ricorso per dichiarazione di morte presunta (doc. n. 5 pag. 2 punto 1) 3.nonché accertare e dichiarare non dovuta dal ricorrente qualsiasi somma assertivamente versata e/o esigibile dall'INPS Agenzia di Milano Sud anche per il periodo dal 01.04.2009 al 7.12.2020 data di deposito del ricorso di dichiarazione morte presunta (doc. n. 5 pag. 2 punto 1) e/o dal 01.04.2009 al 31.12.2010; 4. SEMPRE NEL MERITO,accertare e dichiarare, sulla base delle ragioni esposte in narrativa, le responsabilità in cui è occorsa l'INPS AGENZIA DI MILANO SUD nei confronti del ricorrente, condannando per l'effetto l'INPS stesso, AGENZIA DI MILANO SUD, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, ai sensi dell'art. 2043 c.c. e/o dell'art. 96, comma 1 e/o comma 3,c.p.c. al risarcimento di tutti i danni sofferti e patiendi che si indicano nella somma di Euro. 10.000,00 e/o comunque in quella maggiore e/o minore somma che sarà riconosciuta secondo giustizia ed equità sempre in favore dell'Avv. (...). 5.condannare l'INPS AGENZIA DI MILANO SUD, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore alla restituzione delle somme eventualmente percette nelle more del giudizio, maggiorate di interessi legali; 6. IN SUBORDINE E/O IN VIA CONCORRENTE E/O ALTERNATIVA,Voglia accertare e dichiarare l'intervenuta prescrizione dal 01/01/2011 al 31.08.2012 per l'avviso di accertamento con richiesta di restituzione dei ratei assertivamente versati per il periodo dal 01/01/2011 al 31/10/2017 così come notificato il 01.09.2022 (doc. n. 2 e doc. n. 2bis) e/o l'intervenuta prescrizione dal 01.04.2009 al 31.08.2012 per qualunque altra somma a qualunque titolo pretesa e/o esigibile dall'INPS AGENZIA DI MILANO SUD 7. IN SUBORDINE E/O IN VIA CONCORRENTE E/O ALTERNATIVA, voglia accertare e dichiarare la illegittimità e/o invalidità e/o nullità e/o inefficacia degli impugnati accertamenti (doc. n.1 e doc. n. 2) ovvero disapplicarli e/o comunque voglia accertare e dichiarare non dovute le somme richieste dall'INPS Agenzia Milano Sud fino al 7.12.2020 data di deposito del ricorso per dichiarazione di morte presunta (doc. n. 5 pag. 2 punto 1) e/o assumere, sempre sulla base di quanto eccepito in narrativa, ogni altro provvedimento a tutela dei diritti del ricorrente stante la infondatezza nel merito; e/o l'intervenuta decadenza e/o l'irripetibilità e/o inesigibilità delle somme e/o la carenza di prova e/o la carenza di motivazione (MOTIVAZIONE APPARENTE) degli atti/provvedimenti impugnati (doc. n. 1 e doc. n. 2) ovvero il legittimo affidamento del curatore speciale ingenerato dal comportamento dell'INPS nel corso del rapporto 8.In ogni caso sempre con vittoria di spese, diritti ed onorari". Si è costituito ritualmente INPS contrastando le pretese avversarie e formulando le seguenti domande: "rigettare il ricorso e tutte le domande svolte, sia in via preliminare e sia nel merito in via principale e subordinata in quanto inammissibili ed infondate in fatto ed in diritto confermando il debito notificato e confermando i conseguenti obblighi restitutori in capo a parte ricorrente. Rigettare in quanto inammissibili ed infondate le generiche domande di risarcimento di danni non patrimoniali formulate e nonché quelle per lite aggravata mandando assolto l'Istituto da ogni domanda svolta. Vinte le spese". All'udienza del 16/11/2022, la causa - di cui era stata chiesta già in ricorso la riunione con i procedimenti n. 8192/2012 R.G. e 5618/2022 R.G. assegnati al giudice dott.ssa D.C. - è stata rinviata unicamente per acquisire la motivazione della decisione di rigetto nelle more intervenuta (sent. n. 2604/2022). All'udienza del 18/01/2023, acquisita la suddetta motivazione, è stata respinta, per motivi di economia processuale e speditezza della definizione, l'istanza attorea di ulteriore rinvio per riunione del presente giudizio ai procedimenti n. 7200/2022 R.G. giudice dott. (...), instaurato dalla signora (...) (madre dell'odierno ricorrente) e n. 9834/2022 R.G. giudice dott.ssa (...) (instaurato dal medesimo avv. (...)), stante la diversa fase processuale (prima udienza fissata per entrambi nel mese di marzo 2023) e la parziale differenza soggettiva. La causa odierna, dunque, vertente su questione di diritto e documentale, è stata ritenuta matura per la decisione senza necessità di incombenti istruttori. Ciò posto, il ricorso è infondata e va respinto. Si rammenta che nella presente sede, l'avv. (...) contesta l'indebito previdenziale notificatogli dall'INPS per l'importo di Euro 27.501,97 per il periodo 1.2.2018/31.7.2021 e per l'importo di Euro 60.219,56 per il periodo 1.1.2011/31/102017. A tal fine premette un'ampia ricostruzione dei fatti, producendo documentazione e censurando il comportamento dell'INPS e dei suoi uffici sotto vari profili, lamentando l'asserita sussistenza di errori commessi dall'Ente e la carenza di comunicazione. In diritto, oltre ad articolate deduzioni in merito alla propria posizione di curatore speciale del padre (...), eccepisce l'intervenuta decadenza annuale del recupero, la buona fede del pensionato e comunque l'irripetibilità dell'indebito, ai sensi dell'art. 13 comma 2 L. n. 412 del 1991 oltre alla sua insussistenza. Giova premettere che alla prima udienza del 16/11/2022 l'istanza di riunione del presente giudizio a quello n. 8192/2021 + 5618/2022 R.G. assegnato alla dott.ssa D.C., si era rivelata non praticabile stante l'intervenuta decisione di tale procedimento in data 8 novembre 2022. Si verteva, in detto ambito, di accertamento di somme indebitamente percepite (come nel presente giudizio) e di opposizione ad avviso di addebito. Come osservato nella citata pronuncia, qui richiamata anche ai sensi e per gli effetti dell'art. 118 disp. att. c.p.c., la presente vicenda muove dal fatto che il sig. (...), padre dell'odierno ricorrente, era titolare di pensione diretta a carico dell'Istituto, certificato (...) avente decorrenza dal settembre 1993. La pensione è stata sempre pagata, dall'inizio della a decorrenza e negli anni, sino al luglio 2021 mentre la rata di agosto 2021, pur contabilizzata non risulta essere stata corrisposta. Il trattamento pensionistico dunque, anche sulla base delle comunicazioni pervenute dal curatore speciale nominato dal Tribunale, a seguito della dichiarazione di scomparsa è stato negli anni sempre corrisposto. Successivamente a seguito della intervenuta sentenza n. 36/2021 il Tribunale di Milano accertava e dichiarava la presunta la morte del sig. (...), da ritenersi avvenuta in V., in data 24.03.2009. Nell'ambito della citata sentenza, si legge: "(...) demanda al nominato curatore di rappresentare lo scomparso nella formazione dell'inventario e dei conti e nelle liquidazioni e divisioni in cui sia interessato, ed ogni potere rappresentativo e di amministrazione dei beni diretto alla conservazione ed amministrazione del patrimonio dello scomparso ed in particolare ad incassare i ratei pensionistici dello scomparso sig. (...) maturati e maturandi". Tale statuizione è coerente con il dettato dell'articolo 48 c.c., rubricato "curatore dello scomparso", secondo cui "(...) il tribunale (...) può nominare un curatore che rappresenti la persona in giudizio o nella formazione degli inventari e dei conti e nelle liquidazioni o divisioni in cui sia interessata, e può dare gli altri provvedimenti necessari alla conservazione del patrimonio dello scomparso". Il Tribunale di Milano, nell'ottica di conservazione del patrimonio di quest'ultimo, autorizzava, pertanto, espressamente il curatore all'incasso dei ratei pensionistici dovuti da I.N.P.S. Anche la giurisprudenza riconosce espressamente la legittimazione del curatore alla riscossione dei ratei pensionistici dello scomparso ma solo in nome e per conto di quest'ultimo: "Il curatore dello scomparso, in quanto abilitato, ai sensi dello art. 48 cod. civ., alla conservazione del patrimonio della persona scomparsa, nel quale rientra anche il diritto, precedentemente acquisito dalla stessa, al trattamento di pensione di vecchiaia, è legittimato a riscuotere, non iure proprio ma in nome e per conto dello scomparso, i ratei pensionistici a questo spettanti, senza che a tale legittimazione - la quale, in mancanza di limiti temporali imposti dal provvedimento di nomina, permane per tutto il periodo della scomparsa, fino alla promozione del procedimento per la dichiarazione di assenza (art. 49 cod. civ.) - sia di ostacolo la mancata prova dell'esistenza in vita del pensionato ai sensi dello art. 69 cod. civ. (secondo cui "nessuno è ammesso a reclamare un diritto in nome della persona di cui si ignora l'esistenza, se non prova che la persona esisteva quando il diritto è NATO"), essendo tale norma inapplicabile alla specie per l'indubitabile anteriorità dell'insorgenza del diritto alla pensione rispetto alla scomparsa del suo titolare" (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 4338 del 24/10/1989). Da quanto precede, si desume inequivocabilmente la legittimazione del ricorrente, nella sua veste di curatore del padre scomparso, all'incasso della pensione regolarmente erogata da I.N.P.S. In ragione di quanto esposto, l'Istituto procedeva ad aggiornare l'anagrafica del pensionato (...), indicando correttamente la data della morte presunta - come accertata dal Tribunale - al 24/04/2009 e pubblicata in GU (GU Parte Seconda n.62 del 27-5-2021) come segue: "Dichiarazione di morte presunta di (...) Il Tribunale di Milano con sentenza n. 36/2021 del 22/04/2021 pubblicata il 18/05/2021, nel procedimento R.G. n. 13318/2020 ha dichiarato la morte presunta alla data del 24/03/2009, da ritenersi avvenuta in V., di (...), nato a P. il (...). avv. (...)". Deve, però, sottolinearsi che la riscossione da parte dell'odierno ricorrente avveniva solo in nome e per conto dello scomparso e in funzione della conservazione del patrimonio dello stesso. Deve inoltre osservarsi che - pacificamente - nessuno promuoveva il giudizio per la dichiarazione di assenza di (...), come prevista agli articoli 49 e seguenti c.c., con la conseguenza che nessuno veniva immesso nel possesso temporaneo dei beni del medesimo (...). Alla pronuncia del Tribunale di Milano, dichiarativa della scomparsa, seguiva, infatti, in data 22 aprile 2021, la sentenza di morte presunta "da ritenersi avvenuta in V. in data 24 Marzo 2009". Giova premettere che la distinzione tra gli istituti della scomparsa, dell'assenza e della morte presunta è tratteggiata compiutamente dalla Corte di Cassazione nei seguenti termini: "L'obbligo dell'Inail di pagamento della rendita vitalizia non rimane sospeso in caso di scomparsa del beneficiario atteso che la dichiarazione di scomparsa, ai sensi degli art. 48 ss. c.c., determina solo la quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, e la necessità di conservazione del suo patrimonio, a cui provvede il curatore all'uopo nominato; non vi è immissione, neppure temporanea, degli eredi nel possesso dei beni, come si prevede per il caso di assenza, nè liberazione o sospensione delle obbligazioni, anche strettamente personali, assunte da terzi verso lo scomparso, nè assume alcun rilievo la questione della trasmissibilità del diritto agli eredi" (Cassazione civile sez. lav., 21/01/2005, n. 1253). In particolare: "Le disposizioni del codice civile, dall'art. 48 all'art. 68, configurano fattispecie diverse tutte connotate dalla sparizione della persona, la quale assume però, in ciascun caso, una differente gravità: la scomparsa (art. 48 c.c.), che viene dichiarata dal tribunale qualora la persona non sia più comparsa nel luogo dell'ultimo domicilio o della sua ultima residenza e non se ne abbiano più notizie; l'assenza (art. 49 c.c.) che viene dichiarata su istanza dei presunti successori legittimi ove siano trascorsi due anni dal giorno a cui risale l'ultima notizia; ed infine la morte presunta (art. 58 c.c.) che viene dichiarata quando sono trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l'ultima notizia dell'assente. A ciascuna fattispecie corrisponde un assetto diverso, sia per quanto riguarda il patrimonio della persona sparita, sia per quanto riguarda il trattamento dei presunti successori, sia per quanto riguarda i debitori. La scomparsa determina solo la quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, e la necessità di conservazione del suo patrimonio, a cui provvede il curatore all'uopo nominato. Non vi è alcuna immissione neppure temporanea degli eredi nel possesso dei beni, come si prevede invece per il caso di assenza (art. 50 secondo comma c.c.), e non vi è alcuna liberazione né sospensione dell'obbligazione assunta verso lo scomparso, al contrario di quanto si prevede per il caso di assenza, in cui (art. 50 quarto comma) coloro che per effetto della morte dell'assente sarebbero liberati dall'obbligazione, possono essere temporaneamente esonerati dall'adempimento. Ne consegue che l'Inail non poteva procedere alla sospensione della rendita vitalizia spettante al (...), ossia non poteva essere temporaneamente esonerato da detto adempimento (neppure con provvedimento del tribunale), perché questa possibilità non viene concessa al debitore nel caso di scomparsa del creditore, ma solo nel caso di assenza, e cioè quando, con il passaggio del tempo, si fa probabile l'evenienza che il creditore non faccia più ritorno. Erra quindi la Corte territoriale nell'affermare che l'obbligo di pagamento della rendita vitalizia, presupponendo necessariamente l'esistenza in vita del titolare, deve restare sospeso fino a che non si accerti definitivamente la vita o la morte dello scomparso. Ed infatti, come già detto, con la mera dichiarazione discomparsa e la nomina di un curatore, si presume che l'interessato sia ancora in vita, il suo patrimonio deve essere conservato e restano ferme le obbligazioni, anche strettamente personali, assunte dai terzi nei suoi confronti, mentre non assume alcuna rilevanza, in questa fase, la questione della trasmissibilità del diritto agli eredi" (Cassazione sez. lav., 21/01/2005, n.1253). Nel periodo oggetto di causa, novembre 2017- gennaio 2018, pacificamente I.N.P.S. versava correttamente i ratei di pensione di (...) che venivano riscossi dal curatore posto che, all'epoca, alla dichiarazione di scomparsa, non aveva fatto seguito la dichiarazione di assenza. Si rammenta ancora che "La scomparsa determina solo la quiescenza dei rapporti giuridici facenti capo allo scomparso, e la necessità di conservazione del suo patrimonio". Dalla mancata pronuncia di una sentenza dichiarativa dell'assenza, due anni dopo quella di dichiarazione della scomparsa, è derivata la mancata liberazione di I.N.P.S. dall'obbligo di pagamento. Il fisiologico succedersi delle dichiarazioni di scomparsa, di assenza e di morte presunta avrebbe circoscritto la portata della vicenda, poiché I.N.P.S. avrebbe corrisposto i ratei della pensione del sig. (...) per soli due anni, con sospensione dei pagamenti una volta dichiaratane l'assenza. In mancanza di tale pronuncia, i pagamenti dei ratei della pensione sono proseguiti per oltre un decennio, ossia fino all'accertamento della morte presunta. Peraltro, la dichiarazione di assenza avrebbe consentito al coniuge dell'assente di tutelarsi nei termini ben delineati dalla Corte di Cassazione, secondo cui "fra i diritti dipendenti dalla morte dell'assente, dei quali è ammissibile l'esercizio temporaneo ai sensi dell'art. 50, terzo comma, cod. civ.,rientrano non solo i diritti che incidono sul patrimonio dell'assente ma - attesa la diversità di formulazione di detta norma rispetto all'art. 26 del vecchio codice civile - anche quelli che debbono esser fatti valere verso terzi. Pertanto, la moglie dell'assente titolare di pensione a carico dell'a.g.o., che, in caso di morte del marito, acquisirebbe iure proprio il diritto alla pensione di reversibilità, ha diritto - durante l'assenza del coniuge pensionato - ad esigere i ratei della pensione, a titolo di anticipata e provvisoria liquidazione della pensione di reversibilità e nei limiti della quota a lei autonomamente riservata, senza che per ciò sia configurabile alcun eventuale sacrificio degli interessi dell'istituto previdenziale, il quale, in caso di ritorno dell'assente, deve corrispondergli solo la differenza fra l'importo a lui spettante e le somme corrisposte alla moglie, non potendo il pensionato far valere a carico dell'ente alcuna azione o pretesa ulteriore" (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 5988 del 05/11/1988). La giurisprudenza di legittimità riconosce, infatti, che "In tema di azione (di accertamento) di un coniuge, volta alla dichiarazione di assenza dell'altro coniuge ed al regolamento interinale del patrimonio dello scomparso, l'INPS è passivamente legittimato in ordine alla pretesa dell'attore concernente l'attribuzione, a titolo di assegno alimentare ai sensi dell'art. 51 c.c., di una quota della pensione dell'assente" (Cassazione civile sez. lav., 19/03/1992, n. 3405). Nella motivazione di tale sentenza si legge che "Questa Corte, tuttavia, volendo assolvere egualmente al compito di nomofilachia che è istituzionalmente affidato ad essa, deve rilevare che la legittimazione passiva al giudizio da parte dell'I.N.P.S. dev'esser ritenuto sussistente sotto il profilo specifico dell'interesse a contraddire, ex art. 100 c.p.c., dal momento che nelle azioni di accertamento (come la presente, sottesa alla dichiarazione di assenza del marito dell'attrice ed al regolamento interinale del patrimonio dello scomparso con riguardo ai diritti del coniuge anche nei confronti dei terzi, quale l'I.N.P.S.) è principio consolidato didiritto, secondo la giurisprudenza reiterata di questa Corte (cfr, per tutte, inizialmente, sent. n. 910 del 26-3-54), che: "l'interesse che condiziona l'esercizio dell'azione (da non confondersi con quello che forma il contenuto del diritto soggettivo ed il cui conseguimento si tende a raggiungere con l'esperimento dell'azione) postula il bisogno di conseguire il vantaggio tutelato dalla legge a mezzo degli organi giurisdizionali dello Stato, senza il cui intervento il titolare di un diritto soffrirebbe danno: il che può verificarsi non soltanto nel caso che il diritto sia stato violato (azione di condanna), ma anche quando esista una situazione giuridica obbiettivamente incerta (azione di accertamento)". Or l'interesse a contraddire è, ovviamente, speculare all'interesse ad agire, per cui l'I.N.P.S. ha nel presente giudizio lo stesso interesse che ha l'attrice ad eliminare ogni stato d'incertezza per quanto concerne l'accertamento dello stato di diritto in ordine a quanto spettantele, come assegno personale, oltre che quale coniuge curatrice del patrimonio dello scomparso. L'I.N.P.S., quindi, rimane giurisdizionalmente interessato alla ripartizione della pensione spettante all'assente dovendo esso distinguere tra quota accantonata, quale trattamento pensionistico diretto, e quota pagata al coniuge a titolo di pensione di reversibilità". Nel caso di specie, in cui la procedura di dichiarazione dell'assenza non è stata attivata, nemmeno al fine di tutelare il coniuge dello scomparso, il curatore di quest'ultimo deve restituire quanto oggetto di causa, poiché percepito in costanza della dichiarazione di scomparsa fino alla dichiarazione di morte presunta. Come già rammentato, infatti, dopo la dichiarazione di scomparsa di (...), il Tribunale di Milano ne dichiarava la morte presunta, con effetti risalenti al 2009 anche con riguardo all'estinzione del diritto alla pensione. Alla luce di quanto precede e anche in considerazione del periodo oggetto di indebito, va affermato anche in questa sede che non vi è titolo che legittimi l'avvenuto pagamento dei ratei di pensione in favore di (...) in persona del suo curatore in quanto il decesso dello scomparso veniva presuntivamente datato al 2009. Tale ultima statuizione del Tribunale di Milano ha dunque reso i pagamenti effettuati negli anni da I.N.P.S. privi di titolo, in quanto versati a titolare di trattamento pensionistico da ritenersi deceduto già dal 2009. Ne consegue che gli importi versati da I.N.P.S. allo scomparso, nelle mani del suo curatore, devono essere restituiti a I.N.P.S. Inoltre, a fronte della nomina dell'avv. (...) quale mero curatore dello scomparso, il ricorrente era autorizzato alla sola riscossione, nei termini sopra descritti, ma non a porre in essere atti di disposizione del patrimonio del padre scomparso. L'immissione nel possesso dei beni è, infatti, un effetto che sarebbe derivato solo dalla dichiarazione di assenza, con le conseguenze già esposte con riguardo al coniuge, che avrebbe beneficiato, in via anticipata e provvisoria, della pensione di reversibilità. Il godimento di quest'ultima avrebbe anche assorbito le statuizioni del Tribunale di Milano sull'assegno divorzile disposto a favore dell'ex coniuge dello scomparso, madre dell'odierno ricorrente. In seguito alla dichiarazione di morte presunta, si è, quindi, aperta la successione mortis causa di (...) con effetti "al momento a cui è fatta risalire la morte presunta, al quale, in base al successivo art. 459, retroagiscono gli effetti dell'accettazione dell'eredità". Sullo specifico punto, la Corte di Cassazione ha affermato, infatti, che "La dichiarazione di morte presunta determina una vera e propria successione mortiscausa dei presunti eredi del dichiarato morto, come si evince dalle norme dettate in ordine alla devoluzione degli elementi attivi del patrimonio di quest'ultimo ai suoi presunti eredi e legatari (artt. 63, 64, 69, 73 cod. civ.) e dal contrapposto silenzio sulla sorte degli elementi passivi di detto patrimonio, spiegabile solo con la sottintesa applicabilità della disciplina delle successioni mortis causa. Tale successione si apre, ai sensi degli artt. 58 e 61 cod. civ., al momento a cui è fatta risalire la morte presunta, al quale, in base al successivo art. 459, retroagiscono gli effetti dell'accettazione dell'eredità, sebbene la delazione ereditaria abbia luogo quando diviene eseguibile la sentenza dichiarativa della morte presunta (arg. ex artt. 63 e 64 citati)" (Cassazione Sez. 1, Sentenza n. 536 del 24/01/1981). Non possono quindi essere condivisi gli assunti difensivi attorei che pretenderebbero di fare decorrere gli effetti della sentenza dichiarativa della morte presunta solo a partire dal momento dell'annotazione della stessa nei Registri dello stato civile. Peraltro, in tema di effetti della dichiarazione di morte presunta, deve osservarsi che al coniuge del presunto morto (sig.ra (...)), spetta, in via definitiva e iure proprio la pensione di reversibilità, a riprova del fatto che i ratei di pensione nelle more versati devono essere restituiti. Sul punto, la Suprema Corte sanciva che "Il diritto alla percezione della pensione di reversibilità del coniuge scomparso sorge dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di morte presunta, sicché anteriormente a tale momento non decorre il termine di prescrizione del relativo diritto" (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 17133 del 17/08/2016). Coerentemente, I.N.P.S. ha infatti, già accolto la domanda del 20.7.2021 della sig.ra V. di liquidazione della pensione di reversibilità con decorrenza dall'aprile 2009 e con quantificazione degli arretrati nella misura di Euro 19.264,81. Si reputa, infine, condivisibile la circostanza che l'I.N.P.S. abbia rivolto le sue pretese, dopo la dichiarazione di morte presunta, nei confronti dell'odierno ricorrente, in applicazione degli analoghi principi di diritto affermati dalla giurisprudenza in punto di obbligo di restituzione gravante su colui che abbia ricevuto somme corrisposte da I.N.P.S. a persona rivelatasi deceduta: "Il pagamento dell'indebito a persona defunta, ma ritenuta vivente dal "solvens", fa sorgere l'obbligo di restituzione, ex art. 2033 c.c., in capo a colui che di fatto si avvalga di quel pagamento, essendo solo quest'ultimo il soggetto che, con la materiale apprensione del pagamento, acquista la qualità di "accipiens" e, con essa, l'obbligo di restituire quanto acquisito. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che - in relazione alla domanda di ripetizione proposta da un istituto di credito, il quale per anni aveva erogato, per conto dell'INPS, la pensione ad un soggetto defunto mediante accredito su un conto corrente cointestato a quest'ultimo e ad un terzo - aveva ritenuto l'obbligo restitutorio trasferito dal beneficiario defunto ai suoi eredi, anziché sorto direttamente ed esclusivamente in capo al terzo cointestatario che aveva prelevato le somme indebitamente erogate)" (Cassazione Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 17705 del 07/09/2016). Infine, deve osservarsi che il diritto di I.N.P.S. di ripetere le prestazioni previdenziali versate, qualora ne emerga la natura di pagamento di indebito, è confermato dalla sentenza della Cassazione, Sezione Lavoro, n. 12034 del 1992 relativa a caso pressochè analogo di persona ritornata dopo essere stata dichiarata presunta morta. La Suprema Corte stabiliva, infatti, che "l'assicurato (dichiarato "morto - presunto"), e del quale, poi, è stata (giudizialmente) provata l'esistenza, ha l'incontestabile diritto di ottenere il ripristino del trattamento pensionistico di cui era in vita titolare, con la decorrenza pretesa, a norma dello art. 66, comma 2C.C., secondo cui - il soggetto ha "diritto di pretendere l'adempimento delle obbligazioni considerate estinte, ai sensi del secondo comma dell'art. 63..." E non si può dubitare della avvenuta estinzione del (suo) diritto alla pensione, a seguito della morte (reale o presunta) dell'assicurato, secondo principi generali (cfr. Cass. 5.11.1988 n. 5988) del nostro ordinamento previdenziale, trattandosi (come è noto) di un diritto di natura strettamente personale, non certamente trasmissibile agli eredi, in quanto strettamente collegato con l'esistenza in vita del titolare. Non ha poi alcuna rilevanza, sul piano del diritto, l'avvenuta erogazione, nel periodo intermedio, della pensione di reversibilità corrisposta dall'Istituto alla moglie dell'assicurato. La moglie del soggetto - pensionato - ha diritto, in caso di morte del marito, "iure proprio" (cfr. Cass. 1294/1974; Cass. 299/1983; Cass. 5988/1988) ed in via autonoma, al trattamento pensionistico di reversibilità, secondo la previsione di legge, ricorrendone i presupposti. Nè si può confondere la posizione del coniuge superstite - in capo al quale sorge ex-lege il diritto alla pensione di reversibilità, e che trova la sua giustificazione nella morte del marito, con quella del soggetto - assicurato, ritornato giuridicamente in vita - e ricollegabile alla (diversa) posizione assicurativa di questo ultimo, ed al compimento dell'età prevista per la pensione di vecchiaia - di cui era titolare lo S.: il quale ha pertanto diritto all'adempimento di tutte quelle obbligazioni dichiarate estinte a seguito della (dichiarata) morte presunta. E non si può certo operare una sorta di "compensazione" tra il "debito" dell'Istituto verso il soggetto - pensionato (e ritornato giuridicamente in vita) con il credito - a sua volta vantato dall'Istituto nei riguardi della moglie che ha (indebitamente) percepito la pensione di reversibilità, trattandosi di diritti autonomamente spettanti, per legge, a due soggetti diversi" (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 12034 del 1992) Nel caso di specie, è peraltro irrilevante la valutazione della buona fede in quanto l'incasso di erogazioni previdenziali da parte del curatore dello scomparso non possono essere assistite dalla buona fede del percipiente, circostanza eventualmente impeditiva della restituzione. Il curatore dello scomparso è, infatti, ben consapevole di ricevere le somme in questione, da parte di I.N.P.S., solo in funzione della conservazione del patrimonio dello scomparso e nella consapevolezza della possibilità che quest'ultimo potrebbe non ricomparire. Inoltre, nel caso di specie e nel periodo oggetto di rivendicazione da parte di I.N.P.S., il ricorrente, figlio di (...), era legittimato a proporre azione per la dichiarazione dell'assenza del padre, con le conseguenze sopra delineate. Nella presente fattispecie non opera, quindi, la disciplina sull'irripetibilità dell'indebito previdenziale, i cui presupposti sono stati tratteggiati dalla Cassazione nei seguenti termini: "L'irripetibilità dell'indebito previdenziale è subordinata al ricorrere di quattro condizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale e definitivo provvedimento; b) la comunicazione del provvedimento all'interessato; c) l'errore, di qualsiasi natura, imputabile all'ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell'interessato, cui è parificata "quoad effectum" la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto, o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente, difettando anche una sola delle quali opera la regola della ripetibilità di cui all'art. 2033 c.c. (Nella specie, la S.C. ha escluso la ricorrenza della quarta delle sopraindicate condizioni, essendo l'ente pervenuto a conoscenza di fatti rilevanti non per iniziativa del pensionato, seppure obbligato a comunicarli, ma di un terzo organo di vigilanza, quale l'Ispettorato del Lavoro)" (Cassazione Sez. L - , Ordinanza n. 5984 del 23/02/2022). È dirimente osservare che, nella fattispecie oggetto di delibazione, difetta certamente il presupposto del compimento di un errore da parte dell'ente previdenziale, che proseguiva i versamenti sul presupposto della scomparsa. In considerazione di quanto precede non è pertinente la normativa in tema di irripetibilità dell'indebito previdenziale. Sul punto occorre richiamare il dettato dell'art. 52, rubricato "prestazioni indebite", della L. 9 marzo 1989, n. 88, secondo cui "1. le pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni nonché la pensione sociale, di cui all' articolo 26 della L. 30 aprile 1969, n. 153 , possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione. 2. nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita percezione sia dovuta a dolo dell'interessato. il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave". Del resto, che l'errore debba essere imputabile all'ente è espressamente stabilito anche dall'art. 13, commi 1 e 2, della L. n. 412 del 1991. Con riguardo agli interessi deve ritenersi la loro debenza dalla data della corresponsione del capitale, proprio in considerazione della necessità di considerare la morte di (...) come avvenuta sin dal 2009 e della connaturale provvisorietà della scomparsa, che avrebbe potuto essere travolta dal ritorno o dalla dichiarazione di assenza o morte presunta. Prive di fondamento sono anche le deduzioni del ricorrente con riguardo all'asserita responsabilità di I.N.P.S. ai sensi dell'art. 2043 c.c. e/o dell'art. 96, comma 1 e/o comma 3, c.p.c. Quanto sin qui esposto basta per affermare la legittimità del comportamento di I.N.P.S. Deve essere rigettata anche la domanda proposta dal ricorrente di condanna di I.N.P.S. ai sensi dell'articolo 96 c.p.c., in considerazione della carenza degli elementi oggettivi e soggettivi, che devono essere sottesi rispetto alla responsabilità processuale prevista dalla citata disposizione del codice di rito. Per le ragioni che precedono, il ricorso va respinto, restando disattesa o assorbita ogni questione ulteriore di cui in atti, in quanto superflua ai fini del decidere. Le spese di lite seguono la soccombenza tenuto conto del valore della causa, della sua complessità e dell'assenza di attività istruttoria. P.Q.M. definitivamente pronunciando, così provvede: 1) rigetta il ricorso; 2) condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite sostenute da INPS, liquidate in Euro 2.500,00 per compensi oltre al rimborso spese generali al 15%, IVA e CPA; 3) fissa termine di giorni 60 per il deposito della sentenza. Così deciso in Milano il 18 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Milano, Sezione Lavoro composta da: Dott. Monica VITALI - Presidente Dott. Roberto VIGNATI - Consigliere Dott. Andrea TRENTIN - Giudice Ausiliario - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile in grado di appello n. 1117 del 2022 avverso la sentenza n. 979 del 2022 emessa dal Tribunale di Milano (Pazienza), decisa il giorno 24 Gennaio 2023 e promossa da: (...) S.p.A. (c.f. (...), P.IVA: (...), R.E.A. Roma n. 756453), rappresentata e difesa dagli avvocati prof. An.Pa. (c.f. (...)) Re.Bu. (c.f. (...) ) e Ci.Bu. (c.f. (...) ), elettivamente domiciliata in Ercolano, Piazza (...) presso lo studio degli avvocati Re. e Ci.Bu. - Appellante; contro (...) (c.f. (...)), rappresentato e difeso dall'avvocato En.Go. (c.f. (...) ), elettivamente domiciliato in Milano, Via (...) presso lo studio dell'avvocato En.Go. - Appellato FATTO E SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 979 del 2022 ha accolto la domanda formulata da (...) e ha condannato (...) S.p.a. a corrispondere in favore del ricorrente, a titolo di "Indennità di uscita turno" prevista dall'articolo 26 del CCNL per gli Addetti all'Industria dell'Energia e del Petrolio, la somma complessiva di Euro 23.449,86 oltre gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla data di maturazione delle singole componenti del credito sino all'effettivo soddisfo. Spese del grado secondo il principio di soccombenza liquidate in complessivi Euro 4.500,00 oltre IVA, CPA e rimborso delle spese generali nella misura del 15%, con distrazione in favore dell'Avvocato (...) dichiaratosi anticipatario. In motivazione il primo giudice, richiamata la norma di cui all'articolo 26 del CCNL per gli addetti all'Industria dell'Energia e del Petrolio e individuata la ratio di detta norma nella garanzia di conservazione "ad personam" del livello retributivo percepito in ragione della maggiore penosità degli orari a turno ha, in primo luogo, disatteso l'eccezione di parte resistente - secondo cui, avendo il ricorrente maturato i requisiti per la pensione quota 100, allo stesso deve applicarsi l'ipotesi derogatoria prevista dal citato articolo 26 che prevede la cessazione dell'indennità in esame alla maturazione dei requisiti per la pensione anticipata o vecchiaia - all'uopo rilevando che nei diversi rinnovi la Contrattazione collettiva ha sempre fatto riferimento alle sole ipotesi specifiche di maturazione dei requisiti per la pensione di anzianità o per la pensione di vecchiaia, non menzionando mai l'ipotesi di pensione quota 100 ed evidenziando la natura straordinaria e transitoria della pensione quota 100 rispetto alla natura ordinaria e istituzionale delle ipotesi previste dalla Contrattazione collettiva. Riconosciuto, quindi, il diritto del ricorrente alla indennità di uscita turno il Tribunale di Milano, per quanto concerne i criteri di quantificazione della detta indennità, conformandosi al precedente della Corte d'Appello di Milano espresso con la sentenza n. 1442 del 2021, ha disatteso tutte le eccezioni sollevate dalla società resistente aventi ad oggetto la irrilevanza, ai fini della determinazione dell'anzianità di servizio, dei rapporti di lavoro del ricorrente intercorsi con le società estere del gruppo (...) nonché la esclusione, dalla base di calcolo, delle indennità e delle maggiorazioni previste per i Sorveglianti di turno, previste dall'Accordo collettivo del marzo del 1998 e del compenso aggiuntivo di cui all'accordo collettivo del 2003 nonché l'indennità forfettaria di spostamento (codice (...)) e l'indennità viaggi e turnazione (codice (...)). Il primo Giudice, infine, sempre richiamando il precedente della Corte d'Appello di Milano, ha disatteso anche le eccezioni di parte resistente aventi ad oggetto la natura delle indennità speciali previste dall'Accordo Collettivo del 2008 e l'applicazione, alla fattispecie in esame, della norma di cui all'articolo 26 del CCNL di categoria, in luogo della norma di cui all'articolo 24 del medesimo CCNL. Avverso la detta decisione ha interposto appello (...) S.p.a. articolando sette motivi. Con il primo motivo - intestato:" Sulla non spettanza dell'indennità di uscita turno a seguito del raggiungimento dei requisiti di accesso alla pensione "Quota 100" - l'appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto esclusa dalle ipotesi derogatorie previste dall'articolo 26 del CCNL applicato la pensione quota 100 all'uopo deducendo che detta pensione, per cui aveva maturato i requisiti l'appellato, deve considerarsi una pensione anticipata, come tale prevista dalla norma collettiva non sussistendo, peraltro, idonei elementi per ritenere che l'intenzione delle parti sociali fosse di riferirsi solo ad alcune pensioni anticipate. Con il secondo motivo - intestato:" Sulla irrilevanza dei rapporti di lavoro intercorsi con società estere del gruppo (...) ai fini della determinazione dell'anzianità di servizio utile ai fini del calcolo dell'indennità di uscita turno" - l'appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha disatteso l'eccezione della irrilevanza, ai fini della determinazione dell'anzianità di servizio utile per il calcolo dell'indennità di uscita dal turno, del rapporto di lavoro intercorso tra il lavoratore e le società estere del G.E. all'uopo deducendo che l'assunzione presso la società estera è avvenuta con sospensione del rapporto di lavoro e che, pertanto, nella fattispecie dedotta in giudizio, non si deve tenere conto dell'anzianità di servizio maturata presso un diverso datore di lavoro. Con i motivi tre, quattro e cinque, l'appellante ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha computato nella base di calcolo della indennità uscita turno talune specifiche voci. In particolare con il terzo motivo - intestato:" Sulla esclusione delle "Indennità e maggiorazioni per i Sorveglianti in turno di cui all'Accordo Collettivo 19-20 marzo 1998" e " Sulla esclusione dalla base di calcolo della IUT del "Compenso aggiuntivo" di cui all'accordo collettivo del 18 marzo 2003" - l'appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha incluso, nella base di calcolo, le indennità e maggiorazioni per i sorveglianti di turno di cui all'accordo collettivo 19-20 marzo 1998 all'uopo preliminarmente rilevando che detto accordo ha introdotto la figura di "Sorvegliante in turno" che, alle ordinarie incombenze di assistente area pozzo da rendere in turno, sommava anche la funzione di sorvegliante ai sensi del D.Lgs. n. 624 del 1996 così che le indennità e le maggiorazioni previste per detta figura devono intendersi legate alla specifica mansione di sorvegliante la cui erogazione è solo convenzionalmente e occasionalmente collegata al turno. Con il successivo, e correlato, quarto motivo - intestato:" Sulla esclusione dalla base di calcolo della IUT del "Compenso aggiuntivo" di cui all'accordo collettivo del 18 marzo 2003" - l'appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha incluso, nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno, il "compenso aggiuntivo" di cui all'accordo collettivo del 18 marzo 2003, stipulato a Marina di Ravenna tra (...) s.p.a. e le segreterie nazionali e territoriali delle federazioni sindacali stipulanti il CCNL, anch'esso relativo al tema degli assistenti/sorveglianti di area pozzo, all'uopo preliminarmente rilevando che in alcuni cantieri si era reso necessario separare la funzione di sorvegliante da quella di assistente area pozzo e che, in questi casi, coincidenti con i cantieri in cui la sorveglianza non viene svolta dagli assistenti area pozzo, l'orario del turno è stato rimodulato con un orario giornaliero dalle 7 alle 18 e che, per garantire le esigenze di flessibilità aziendali, è stato introdotto un compenso aggiuntivo, codificato come voce "1650", per il lavoro eventualmente prestato nella fascia oraria 18-24 trattandosi, pertanto, di elemento retributivo che non può considerarsi come compenso legato al turno. Con il quinto motivo - intestato:" Sulla esclusione espressa di alcune voci retributive dalla base di calcolo della IUT da parte della contrattazione collettiva" - l'appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui non ha tenuto conto che la contrattazione collettiva ha espressamente escluso dalla base di calcolo alcune voci quali l'indennità forfettaria di spostamento (codice (...)) e l'indennità viaggi e turnazione (codice (...)) all'uopo deducendo che il Tribunale ha ignorato il dettato univoco ed espresso sia dell'articolo 14 dell'accordo nazionale/aziendale del 30.09.2008, sia dell'accordo nazionale/aziendale del 18 marzo 2003, alla stregua dei quali, per coloro che operano nei cantieri dove non viene svolta la sorveglianza sia "l'indennità di spostamento" e sia il "compenso aggiuntivo" non fanno parte della retribuzione ad alcun effetto, non essendo utili ai fini della determinazione del TFR. Con il sesto motivo - intestato:" Sulla natura non retributiva delle "indennità speciali" previste dall'Accordo nazionale integrativo 30 settembre 2008" - l'appellante ha ribadito l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha tenuto conto della natura non retributiva delle indennità speciali previste dall'accordo nazionale integrativo 30 settembre 2008 all'uopo deducendo che - sia da un punto di vista della esegesi letterale e sia dal punto di vista dogmatico - non è rinvenibile agli atti alcun dato, fattuale o contrattuale, da cui possa desumersi che nel testo dell'articolo 26 del CCNL richiamato, ma neppure nell'accordo collettivo del 30 settembre 2008, l'espressione "compensi percepiti per lavoro in turno" esprima un concetto diverso da "retribuzioni per lavoro in turno". Con il settimo motivo - intestato:" Sulla esclusione, dalla base di calcolo della IUT, delle "Indennità Speciali" di cui all'Accordo Collettivo del 30 Settembre 2008 e, in generale, sulla inapplicabilità alla fattispecie in esame dell'art. 26 CCNL Energia e Petrolio e sull'applicabilità, in luogo di questo, dell'art. 25 comma 14 del CCNL con conseguente applicazione al lavoratore di un trattamento più favorevole" - l'appellante, premettendo che l'uscita dal turno del ricorrente per 4 mesi del 2016, avvenne in esecuzione di un ulteriore accordo sindacale aziendale funzionale a salvaguardare i posti di lavoro e le figure professionali dei turnisti d'area pozzo, ha dedotto l'erroneità della decisione del primo giudice che non solo non ha considerato che si trattava di turnisti d'area pozzo la cui assegnazione ad attività giornaliere non aveva carattere né strutturale né definitivo, ma anche che la fattispecie dedotta in causa è inquadrabile non nell'articolo 26 del CCNL più volte richiamato ma nell'articolo 25 comma 14 del medesimo CCNL che disciplina l'ipotesi in cui si verifica non una uscita dal turno ma, semplicemente, una sospensione temporanea dell'attività operativa in turno. All'interposto appello ha resistito (...) chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Il giorno 24 gennaio 2023 la causa è stata decisa come da dispositivo steso in calce. MOTIVAZIONE L'appello è infondato e, pertanto, va rigettato. La decisione della controversia muove dalla disamina della norma collettiva richiamata a fondamento della domanda, ovvero l'articolo 26 del C.C.N.L. Energia e Petrolio della Mobilità così formulata: "È prevista l'uscita dal turno al verificarsi delle seguenti condizioni: - decisione della direzione aziendale - permanente inidoneità, accertata da istituti di diritto pubblico, per grave malattia, che comporti l'utilizzo in attività non in turno. Per i lavoratori a più alta anzianità di attività prestata in turno, verrà riconosciuto ad personam un importo in cifra, secondo la seguente tabella, calcolato sulla media dei compensi complessivi dei 3 anni precedenti, percepiti per lavoro in turno, a titolo di indennità e maggiorazioni delle quote orarie (cosiddette quote fisse e quote variabili). Con la progressiva applicazione del nuovo sistema di compensi per il lavoro in turno che non prevede quote fisse, alla voce variabile dovrà aggiungersi la voce "Edr ex turni" ove presente. Periodo di permanenza in turno Percentuale 20 anni 35%; 25 anni 50%; 30 anni 65%; 35 anni 80%. La suddetta indennità verrà a cessare al momento della maturazione dei requisiti per la pensione anticipata o vecchiaia e sarà assorbita esclusivamente in caso di reinserimento in lavoro in turno. Per i dipendenti usciti dal turno, le aziende attiveranno percorsi formativi finalizzati alla riconversione professionale. Restano confermate le condizioni di miglior favore derivanti da accordi locali". La serena lettura della norma consente di respingere, innanzitutto, il primo motivo di appello qui condividendosi l'interpretazione della norma collettiva effettuata dal primo giudice il quale ha, innanzitutto, correttamente, rilevato che con la riforma del 2012 la pensione di "anzianità" è stata ridefinita con il termine "anticipata" e che il CCNL del 2013, successivo alla riforma, ha recepito tale variazione terminologica, mantenendo la distinzione rispetto a quella di vecchiaia evidenziando che le due categorie hanno un preciso significato tecnico, essendo riferite alle comuni tipologie di pensionamento di fine carriera mentre l'ipotesi di c.d. pensione quota 100 si configura(va) come ipotesi straordinaria e transitoria, da tenere distinta dalle due contemplate dal CCNL, non rientrando tra le forme ordinarie ed istituzionali di pensionamento. Va del resto rilevato, come evidenziato anche dal primo giudice senza alcuna censura sul punto, che l'ipotesi di pensione quota 100 venne, spesso, scartata dai potenziali pensionandi per le penalizzanti condizioni economiche non potendo, quindi essere assimilata alle ipotesi contemplate dalla Contrattazione collettiva la quale - come affermato dal primo giudice senza alcuna censura sul punto - con il rinnovo del CCNL del 2019 ha omesso di contemplare la pensione quota 100 pur avendo, nei precedenti rinnovi adeguato la terminologia alle modifiche normative. Per tali ragioni il primo motivo di appello va respinto come pure da respingersi è il secondo motivo di appello con cui l'appellante ha contestato il computo, nell'anzianità di turno di (...), del servizio prestato presso società estere del G.E.. Nell'atto introduttivo del giudizio (cfr. pag. 13 e seguenti del ricorso ex art. 414 c.p.c.) l'appellato ha dedotto la continuità dell'anzianità aziendale italiana deducendo espressamente che i periodi lavorati all'estero "... risultano essere regolarmente considerati ai fini dell'anzianità di servizio (cfr. annotazioni sui cedolini paga) e, quindi, per la maturazione degli scatti di anzianità. Parimenti nel curriculum vitae del dipendente, curato dalla stessa società, i periodi di lavoro estero sono valorizzati in modi identico a quelli prestati in Italia ..." e tali deduzioni non sono state contestate dalla società appellante, neppure con l'atto di appello. In particolare sia nei cedolini paga (cfr. docc.1 e 20 fascicolo di primo grado di parte appellata) e sia nel curriculum vitae (cfr. doc.2 fascicolo di primo grado di parte appellata) viene riconosciuta, dall'appellante, una anzianità di Gruppo risalente al 27 luglio 1979 e una anzianità societaria risalente al primo gennaio 1998. Va, peraltro, rilevato che questa Corte d'Appello di Milano con la sentenza n. 1442 del 2021, richiamata dal primo giudice, ha rilevato che nell'articolo 42 bis del CCNL Energia e Petrolio 19 Settembre 2019 è previsto che:" ai lavoratori assegnati all'estero sarà riconosciuta l'anzianità di servizio pari alla durata del periodo di svolgimento dell'attività all'estero, anche se collocati in aspettativa temporanea per l'estero, quale trattamento di miglior favore" all'uopo precisando, con argomentazione qui condivisa, che:" Il Collegio concorda con parte appellata nel ritenere che la richiamata disposizione del CCNL 2019 rappresenti il riconoscimento formale di una prassi aziendale vigente da diversi decenni in ordine al riconoscimento dell'anzianità di servizio per i periodi di lavoro alle dipendenze di società estere del G., che trova conferma nei cedolini paga e non risulta smentita dalle difese della società appellante". Per questi motivi anche il secondo motivo di appello deve essere respinto. Per quanto concerne le doglianze enucleate con il terzo, quarto, quinto e sesto motivo di appello, aventi ad oggetto la base di calcolo della Indennità Uscita Turno nonché la natura di talune voci indennitarie, il Collegio richiama, anche ex artt. 118 disp att. c.p.c. quanto già statuito dalla Corte di Appello di Milano con la richiamata sentenza n. 1442 del 2021 che, nello scrutinare le medesime doglianze ha premesso che nel definire la base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno, l'art. 26 CCNL fa riferimento alla media dei compensi complessivi dei 3 anni precedenti, percepiti per lavoro in turno, a titolo di indennità e maggiorazioni delle quote orarie all'uopo rilevando che" la locuzione ha una portata molto ampia, che comprende ogni somma, a titolo di indennità e maggiorazione delle quote orarie, percepita in correlazione alle peculiari modalità di prestazione del lavoro in regime di turnazione. L'indennità è riconosciuta ai lavoratori che vantino un periodo di permanenza in turno di almeno 20 anni e ha la funzione di garantire il parziale consolidamento del trattamento economico percepito nello svolgimento del lavoro in turno, in caso di uscita dal turno per decisione aziendale o per sopravvenuta inidoneità fisica. Il tenore letterale della disposizione contrattuale e la finalità dell'istituto (garantire al lavoratore che abbia operato per molti anni come turnista la conservazione di una quota del corrispondente trattamento economico, in ipotesi di interruzione temporanea o di definitiva cessazione del lavoro in turno per cause indipendenti dalla sua volontà) convergono nel senso di includere nella base di calcolo dell'indennità in parola tutte le "indennità" e "maggiorazioni delle quote orarie", comunque percepite in connessione con il lavoro in turno" Sulla base di detta premessa - e in relazione alle doglianze qui articolate con il quinto e sesto motivo - ha precisato che:" le indennità speciali previste dall'accordo nazionale/aziendale del 30 settembre 2008 (allegato sub doc. 31 fascicolo appellato di primo grado), oggetto dei motivi di gravame in esame, sono la "indennità forfettaria di spostamento" (codice (...)) e la "indennità viaggi e turnazione" (codice (...)). Ai sensi dell'art. 8 di tale accordo, la "indennità forfettaria di spostamento" spetta ai "lavoratori soggetti a continui spostamenti in quanto addetti a lavori di ricerca con impianti di perforazione ... presso sedi di lavoro diverse dalla propria" ed è "finalizzata sia ad indennizzare il lavoratore delle spese di vitto e alloggio, sia ad indennizzare il disagio dovuto alla particolare natura dell'attività svolta in turno nei cantieri". Essa può consistere, a scelta del lavoratore, in un importo forfettario puro, ovvero misto(ossia cumulabile con il rimborso a piè di lista delle spese di alloggio) o infine nel puro e semplice rimborso delle spese a piè di lista. Detta indennità è strettamente legata allo svolgimento del lavoro in turni - come si ricava in particolare dall'art. 8, ultimo comma, secondo cui l'indennità "è riconosciuta anche al personale in addestramento, purché inserito in turni" - ed è pertanto da qualificare come compenso percepito per lavoro in turno, agli effetti dell'art. 26 CCNL. A mente dell'art. 13 dell'accordo nazionale/aziendale del 30 settembre 2008, la "indennità viaggi e turnazione" spetta agli stessi lavoratori contemplati dall'art. 8 sopra esaminato, i quali abbiano optato per il regime forfettario (puro o misto): a tali lavoratori, oltre alle spese di viaggio, è comunque riconosciuta "una quota lorda pari a Euro ... 91,19 ... per le spese di vitto sostenute in occasione di ciascun viaggio di andata e ritorno da e per il proprio domicilio nel limite massimo di 3 quote al mese". Si tratta di un'indennità accessoria alla "indennità forfettaria di spostamento", qualificabile, al pari di quest'ultima, come indennità correlata alla prestazione di lavoro in turno agli effetti dell'art. 26 CCNL. Non osta al computo della "indennità forfettaria di spostamento" nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno la previsione dell'art. 14 dell'accordo nazionale/aziendale del 30 settembre 2008, secondo cui "l'indennità di spostamento non fa parte della retribuzione ad alcun effetto e non è considerata utile ai fini della determinazione del TFR". Tale previsione consente di non tener conto dell'indennità in esame a fini contributivi, come pure per la liquidazione del TFR o di qualsiasi istituto che prenda in considerazione la retribuzione del lavoratore. L'art. 26 CCNL, tuttavia, detta una disposizione di carattere speciale, che prescinde dalla natura strettamente retributiva dei compensi e valorizza - indipendentemente dalla natura retributiva, indennitaria o mista degli stessi - la loro inerenza alla prestazione di lavoro in turno, pienamente ravvisabile, come evidenziato, in relazione alla "indennità forfettaria di spostamento" qui in esame". In riferimento alla doglianza qui articolata con il quarto motivo, nella stessa sentenza 1442 del 2021 la Corte d'Appello di Milano ha affermato che:" Analoghe considerazioni valgono con riferimento al "compenso aggiuntivo" avente codice (...), introdotto dall'accordo collettivo 18 marzo 2003 stipulato a Marina di Ravenna tra (...) s.p.a. e le segreterie nazionali e territoriali delle federazioni sindacali stipulanti il CCNL (allegato sub doc. 30 fascicolo appellato di primo grado), oggetto anche, sotto diverso profilo, del sesto motivo di appello. L'accordo collettivo 18 marzo 2003 stabilisce, in relazione a tale compenso, che esso "non fa parte della retribuzione ad alcun effetto e non viene computato ai fini del TFR": si ritiene che tale previsione non assuma rilievo ostativo al computo del compenso nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno, per le stesse ragioni evidenziate in relazione all'art. 14 dell'accordo nazionale/aziendale del 30 settembre 2008". La Corte d'Appello di Milano con la citata sentenza n. 1442 del 2021 ha, inoltre, respinto la doglianza qui articolata con il terzo motivo con cui l'appellante ha dedotto l'errata inclusione nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno delle "indennità e maggiorazioni" per i "sorveglianti in turno", di cui all'accordo collettivo in data 19-20 marzo 1998, stipulato con le RSU di Ravenna (allegato sub doc. 3 fascicolo appellante di primo grado), vale a dire le voci retributive aventi codici 1590 (magg. str. diu. fer.: 25%), 1592 (magg. str. nott. fer.: 65%), 1550 (str. diu. fer.: 137%), 1552 (str. nott. fer.: 196%) e 1055 (liquidazione forfettaria di 6 quote orarie) all'uopo affermando che:" Ad avviso del Collegio non coglie nel segno l'argomento speso dalla società, secondo cui le voci anzidette non andrebbero computate nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno poiché esse non si estrinsecano in un incremento della percentuale della maggiorazione per lavoro in turno, bensì in una maggiorazione per lavoro extra orario e rispondono alla stessa logica delle maggiorazioni per lavoro extra orario spettanti nel lavoro non inserito in turni. Se è vero che (ad eccezione della voce 1055) le voci in parola corrispondono a maggiorazioni per prestazioni di lavoro straordinario, è altresìvero che esse sono riconosciute solo ai lavoratori che operano in regime di turnazione. Infatti, come evidenziato dalla stessa parte appellante, l'accordo collettivo in data 19-20 marzo 1998 stipulato con le RSU di Ravenna, nell'introdurre la figura del "sorvegliante in turno" (che somma alle ordinarie incombenze di assistente di area pozzo, da rendere in turno, la funzione di sorvegliante di cui al D.Lgs. 25 novembre 1996, n. 624), ha previsto espressamente che tale figura operi secondo turni, stabilendo in particolare che "ferma restando l'alternanza 15/13 tra giorni sull'impianto e giorni di riposo", gli assistenti area pozzo/sorveglianti "forniranno una prestazione non discontinua secondo un regime di turno di tipo A, tale da assicurare la presenza continua nelle 24 ore di un assistente per l'intero ciclo 15/13, con la contestuale abolizione dei turni di reperibilità" e "ciascun assistente assicurerà quindi per ciascun ciclo 168 ore operative sull'impianto, attraverso turni di 12 ore ciascuno per 14 giorni". Non può pertanto fondatamente sostenersi che le maggiorazioni in esame - che in base all'accordo collettivo remunerano l'undicesima e la dodicesima ora del turno di 12 ore ("le parti convengono che la nona e la decima ora di ciascun turno diano luogo al pagamento delle sole maggiorazioni (feriale diurno/notturno), mentre la undicesima e la dodicesima ora vengano pagate come ore straordinarie (feriale diurno/notturno)") - rappresentino compensi causalmente sganciati dal lavoro in turno (come argomentato da parte appellante), in quanto la prestazione di lavoro in turni ne rappresenta, al contrario, l'antecedente necessario. Pertanto, anche tali voci sono annoverabili tra i compensi per il lavoro in turno ai sensi dell'art. 26 CCNL, con conseguente inclusione nella base di calcolo dell'indennità di uscita dal turno. Per queste, condivisibili argomentazioni, vanno quindi respinti anche il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo di appello. Anche il settimo motivo di appello, con cui l'appellante ha dedotto l'inapplicabilità alla presente fattispecie dell'articolo 26 CCNL Energia e Petrolio e l'applicabilità, in luogo di questo, dell'articolo 25, comma 14, CCNL deve essere respinto. Sul punto la più volte richiamata sentenza n. 1442 del 2021 della Corte d'appello di Milano ha, condivisibilmente ritenuto quanto segue:" L'art. 26 CCNL Energia e Petrolio (allegato per estratto sub doc. 4 fascicolo appellato di primo grado) dispone quanto segue: "È prevista l'uscita dal turno al verificarsi delle seguenti condizioni: - decisione della direzione aziendale - permanente inidoneità, accertata da istituti di diritto pubblico, per grave malattia, che comporti l'utilizzo in attività non in turno. Per i lavoratori a più alta anzianità di attività prestata in turno, verrà riconosciuto ad personam un importo in cifra, secondo la seguente tabella, calcolato sulla media dei compensi complessivi dei 3 anni precedenti, percepiti per lavoro in turno, a titolo di indennità e maggiorazioni delle quote orarie (cosiddette quote fisse e quote variabili). Con la progressiva applicazione del nuovo sistema di compensi per il lavoro in turno che non prevede quote fisse, alla voce variabile dovrà aggiungersi la voce "Edr ex turni" ove presente. Periodo di permanenza in turno Percentuale 20 anni 35%; 25 anni 50%; 30 anni 65%; 35 anni 80%. La suddetta indennità verrà a cessare al momento della maturazione dei requisiti per la pensione anticipata o vecchiaia e sarà assorbita esclusivamente in caso di reinserimento in lavoro in turno. Per i dipendenti usciti dal turno, le aziende attiveranno percorsi formativi finalizzati alla riconversione professionale. Restano confermate le condizioni di miglior favore derivanti da accordi locali". L'art. 25, comma 14, dello stesso CCNL stabilisce che "nei casi di addestramento/formazione, permessi sindacali e di impegno del turnista in attività giornaliere, saranno mantenute le prassi vigenti a livello aziendale. In assenza di regolamentazione aziendale, per tali fattispecie verrà riconosciuta la maggiorazione del 12,5%". Il Tribunale ha accertato che (...) ha lavorato come turnista continuativamente dal 1980 ed è uscito dal turno nel periodo compreso tra luglio e novembre 2016, su disposizione di (...) s.p.a. In tale periodo egli è stato assegnato presso gli uffici di Marina di Ravenna a turno giornaliero. L'assegnazione a turno giornaliero è avvenuta senza l'individuazione di una scadenza ed è cessata solo aseguito di comunicazione scritta dell'azienda datata 15 novembre 2016, che ha destinato il lavoratore ad un cantiere, nuovamente come turnista. L'accertamento in fatto di cui sopra non è stato oggetto di impugnazione ed ha assunto, pertanto, carattere definitivo. Alla luce delle circostanze di fatto sopra richiamate si ritiene che la fattispecie concreta integri gli estremi della "uscita dal turno" per "decisione della direzione aziendale" ai sensi dell'art. 26 CCNL. Il carattere temporaneo dell'uscita dal turno (per la durata di quattro mesi) non osta all'applicazione di detta norma contrattuale, atteso che, come condivisibilmente ritenuto dal giudice di primo grado, la fattispecie ivi delineata comprende non solo l'uscita dal turno in via definitiva, ma anche in via temporanea: ciò si evince in particolare dalla previsione di assorbimento dell'indennità di uscita dal turno "in caso di reinserimento in lavoro in turno". La fattispecie concreta non pare, per contro, riconducibile all'ipotesi di cui al richiamato art. 25, comma 14, CCNL, che riguarda i casi di occasionale impegno del turnista (che tale rimane) in attività non in turno, per "addestramento/formazione", "permessi sindacali" o "impegno ? in attività giornaliere". Nel caso di cui si controverte l'appellato non è stato occasionalmente assegnato ad attività non in turno nell'ambito di un impegno stabile come turnista, ma, al contrario, è stato assegnato a turno giornaliero per quattro mesi consecutivi, cessando per tale periodo qualsiasi attività in turno. Significativo appare anche il fatto che l'assegnazione a turno giornaliero sia avvenuta senza termine di durata e senza alcun riferimento alla rotazione con altri dipendenti (cfr. telegramma in data 28 luglio 2016, allegato sub doc. 8 fascicolo appellato di primo grado) e che solo successivamente, a seguito di nuova determinazione aziendale (cfr. lettera datata 15 novembre 2016 di assegnazione ad area pozzo in regime di lavoro in turno, allegata sub doc. 22 fascicolo appellato di primo grado), tale assegnazione si sia rivelata temporanea. Pertanto, contrariamente a quanto dedotto da parte appellante, alla fattispecie deve ritenersi applicabile l'art. 26 e nonl'art. 25, comma 14, CCNL applicato, con conseguente rigetto dell'esaminato motivo di gravame". Respingendosi anche il settimo motivo di gravame l'appello deve, in conclusione, essere respinto. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate, in favore della parte appellata, tenuto conto del valore della controversia e dell'assenza di attività istruttoria, in Euro 2.000,00 oltre il rimborso delle spese generali e gli accessori di legge. Con distrazione in favore dell'avvocato (...), dichiaratosi antistatario. Non sussistendo alcuna discrezionalità si dà atto che ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, introdotto dall'articolo 1 comma 17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, sussistono i presupposti per il versamento, a carico dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato. P.Q.M. Rigetta l'appello proposto avverso la sentenza n. 979 del 2022 emessa dal Tribunale di Milano. Condanna parte appellante (...) S.p.a. a rifondere a parte appellata le spese del grado liquidate in Euro 2.000,00 oltre spese generali e oneri accessori. Con distrazione in favore dell'avvocato (...) dichiaratosi antistatario. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello. 24 Gennaio 2023 Così deciso in Milano il 24 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da: Dott.ssa Clotilde Fierro - Presidente Dott. Michele Milani - Consigliere Dott. Maurizio Alzetta - Consigliere Rel. SENTENZA nella causa di lavoro iscritta al n. 545/2022 R.G.L. promossa da: (...), C.F.: (...), in persona del Presidente, legale rappresentante pro tempore, S.D., con sede in R., Via (...), rappresentata e difesa dall'Avv. Da.Da. ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. Ba.Ro. in Torino, Corso (...), per delega allegata alla busta contenente il ricorso in appello e inviata telematicamente Appellante CONTRO (...) (C.F.: (...)), nata ad A. (T.) il (...), elettivamente domiciliata in Asti (AT), via (...), presso l'avv. St.Ta. (C.F.: (...)) del Foro di Asti che la rappresenta e difende giusta procura speciale 12/12/2022, allegata alla memoria di costituzione in appello Appellata Oggetto: contributo di solidarietà. FATTI DI CAUSA Con ricorso al Tribunale di Torino, la dott.ssa (...) ha convenuto in giudizio la (...) (d'ora in poi C.) esponendo di essere titolare di pensione di vecchiaia anticipata con decorrenza dal giugno 2015 a carico della Cassa e deducendo l'illegittimità della decurtazione mensile, denominata "contributo di solidarietà", applicata dalla Cassa ai sensi dell'art. 22 del Regolamento della C. approvato con D.M. del 14 luglio 2004, applicato con Delib. n. 3 del 2013 per il quinquennio 2009/2013 e ulteriormente prorogato con Delib. 27 giugno 2013 per il quinquennio 2014/2018 e quindi ulteriormente mantenuto infine in forza della Delib. n. 10 del 2017 che ha dato esecuzione, per il quinquennio 2019/2023, all'art. 29 del Regolamento unitario in materia di previdenza ed assistenza, che ha previsto l'applicazione del contributo di solidarietà per tutte le pensioni o quote di pensione calcolate con il sistema retributivo, e quindi chiedendo di dichiarare l'illegittimità del contributo di solidarietà operato dalla Cassa in detrazione sulle rate di pensione liquidate e maturate e di condannare la Cassa convenuta alla restituzione delle ritenute operate per detti titoli. Costituendosi in giudizio la Cassa ha preliminarmente chiesto emettersi declaratoria di improcedibilità ex art. 443 c.p.c. del ricorso; in via principale, previa contestazione del fondamento della domanda, ne ha chiesto la reiezione; in subordine ha chiesto di dichiarare prescritta la domanda della (...) di restituzione delle somme di cui si tratta per il periodo precedente al 27.10.2016, ovvero al 7.10.2016; in ulteriore subordine ha chiesto di limitare il computo degli interessi sulle somme riconosciute come da restituire a far tempo dal 27.10.2016 (ossia al quinquennio anteriore alla data di notifica del ricorso), o al 7.10.2016 (avuto riguardo alla data di deposito del ricorso). Con sentenza n. 754/2022 pubblicata il 10.5.2022 il Tribunale ha accolto il ricorso. Propone appello la Cassa; resiste l'appellato. All'udienza di discussione del 24.1.2023 la Corte ha deciso la causa come da separato dispositivo. Ragioni della decisione 1. La sentenza impugnata. Il Tribunale ha accolto le domande proposte dal ricorrente, condannando la Cassa alla restituzione delle trattenute operate a titolo di "contributo di solidarietà" nel limite del decennio anteriore al deposito del ricorso introduttivo, richiamando l'orientamento di legittimità (Cass. 28054/2020, Cass. 28055/2020, Cass. 27340/2020) e di questa Corte d'Appello e ritenendo pertanto escluso che rientri fra i poteri della Cassa quello di prevedere a carico dei pensionati un contributo di solidarietà. 2. I motivi di doglianza. Con il primo articolato motivo di impugnazione la Cassa censura la sentenza impugnata per avere ritenuto illegittimo il prelievo operato dalla Cassa a titolo di contributo di solidarietà in forza delle Delib. n. 3 del 2013 e Delib. n. 10 del 2017. L'appellante censura la sentenza per omessa motivazione sulle difese della Cassa relative alla maturazione del diritto a pensione dell'appellata dal 1 giugno 2015 e dunque successivamente sia all'introduzione del regolamento del 2004 sia alla modifica dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995 ad opera dell'art. 1 comma 763 L. n. 296 del 2006 e per avere erroneamente ritenuto (in violazione dell'art. 3, comma 12, L. n. 335 del 1995, così come modificato dall'art. 1, comma 763, L. n. 296 del 2006, anche in relazione all'art. 1, comma 488, L. n. 147 del 2013, nonché in violazione dell'art. 24, co. 24, D.L. n. 201 del 2011, conv. in L. n. 214 del 2011) che in capo alla Cassa non sussistano i poteri normativi per l'istituzione del contributo di solidarietà. Il motivo è infondato. Tutte le argomentazioni della Cassa sono già state ripetutamente respinte dalla Corte di Cassazione in numerose sentenze (tra cui le nn. 423/2019, 9864/2019, 19561/2019, 29292/2019, 27340/2020, 28054/2020, 28055/2020), con le quali l'appello omette del tutto di misurarsi. In tali pronunce la S.C. ha costantemente ribadito il principio secondo cui "gli enti previdenziali privatizzati (come, nella specie, la (...)) non possono adottare, sia pure in funzione dell'obbiettivo di assicurare l'equilibrio di bilancio e la stabilità della gestione, atti o provvedimenti che, lungi dall'incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano una trattenuta (nella specie, un contributo di solidarietà) su un trattamento che sia già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, dovendosi ritenere che tali atti siano incompatibili con il rispetto del principio del pro rata e diano luogo a un prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali ex art. 23 Cost., la cui imposizione è riservata al legislatore" (Cass. 27340/2020, che conferma App. Torino n. 469/2015). Nelle sentenze sopra citate vengono affrontate tutte le questioni riproposte dalla Cassa nel presente giudizio (compresa l'irrilevanza, ai fini della decisione, degli artt. 1, comma 763, L. n. 296 del 2006, e 1, comma 488, L. n. 147 del 2013) ed i principi affermati dalla Corte di Cassazione, riferiti al contributo di solidarietà imposto dalla Cassa negli anni 2009-2013, devono ritenersi pienamente applicabili anche alla fattispecie in esame, relativa alla imposizione del contributo di solidarietà dal novembre 2009 ed alle sue proroghe per i quinquenni 2014-2018 e 2019-2023 disposte dalle successive Delibere dell'Assemblea dei Delegati e quindi anche alla pensione maturata dall'appellata dal 1 giugno del 2015. L'inesistenza, per le ragioni illustrate, di un potere della Cassa di imporre un contributo di solidarietà vale anche per pensioni maturate, come quella dell'appellata, in epoca successiva all'introduzione di esso ad opera del regolamento del 2004. Deve soltanto aggiungersi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cassa, le trattenute a titolo di contributo di solidarietà non possono ritenersi legittime nemmeno sulla base dell'art. 24, co. 24, D.L. n. 201 del 2011, conv. in L. n. 214 del 2011, dato che tale disposizione - che prevede che gli enti adottano delibere volte ad assicurare l'equilibrio di gestione "entro e non oltre il 30 settembre 2012" e l'applicazione, in mancanza, di un contributo di solidarietà per gli anni 2012 e 2013 a carico dei pensionati nella misura dell'1% - è chiaramente inapplicabile alla presente fattispecie vertendosi qui, come già rilevato in altre sentenze di questa Corte (v. App. Torino n. 469/2015), sulla legittimità del contributo di solidarietà, peraltro di diversa entità, trattenuto dalla Cassa sulla base di delibere adottate a decorrere dal 2004. È pertanto infondato l'altro profilo del motivo di gravame, ai sensi del quale, a far data dall'anno 2011, l'art. 24, co. 24, del D.L. n. 201 del 2011 avrebbe ampliato il potere normativo delle Casse, sulla scorta della norma di salvezza di cui all'art. 1, co. 763 della L. n. 296 del 2006. Ciò si sostiene in ragione del fatto che, così come rilevato dal Tribunale, la clausola di salvezza della L. n. 296 del 2006, così come interpretata, in via autentica, dall'art. 1, co. 488 della L. 27 gennaio 2013, n. 147 deve intendersi nel senso che "gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui almedesimo comma 763 e approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della L. 27 dicembre 2006, n. 296, si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine". Così come già evidenziato (cfr. già Cass. 31875/2018), tale risultato non può ritenersi perseguito mediante provvedimenti, di carattere provvisorio e portata limitata, come quelli per cui è causa. In conclusione, come già rilevato da questa Corte territoriale (cfr. sentt. 158/2022, n. 257/2022, n. 349/2022, n. 627/2022, n. 634/2022) e dal consolidato orientamento della Suprema Corte (cfr. da ultimo Cass. 25.11.2021, n. 36618; Id. 23.12.2021, n. 41320), alle Casse previdenziali privatizzate non è consentito imporre "contributi di solidarietà" sulle pensioni, trattandosi di una forma di prelievo di prestazione patrimoniale riconducibile solamente a quelle che il solo legislatore è titolato ad imporre attraverso provvedimenti ad hoc (Cass. 24.2.2022, n. 6160). È quindi infondata la tesi della (...), secondo la quale sarebbe legittimo il prelievo in ragione del fatto di essere stato disposto in forza di delibere regolamentari entrate in vigore prima della maturazione del diritto al trattamento pensionistico, dal momento che Cassa medesima non è stata autorizzata a disporre prelievi sui trattamenti di pensione (quali il contributo di solidarietà) mediante provvedimenti regolamentari come quelli di cui si tratta. Con il secondo motivo, la Cassa censura la decisione del Tribunale in punto prescrizione, ribadendo l'applicabilità della prescrizione quinquennale ai sensi degli artt. 2948 n. 4 c.c., 19 L. n. 21 del 1986 e 47 bis D.P.R. n. 639 del 1947, sostenendo in ogni caso come dovesse ritenersi corretta l'individuazione del momento interruttivo della prescrizione soltanto dalla data di notifica del ricorso (27.10.2021, all. B, fasc. I (...)) e non quella di deposito del ricorso). Il motivo, nella parte in cui contesta l'applicabilità del termine di prescrizione decennale, non è fondato. La Corte di Cassazione, in una sentenza emessa nei confronti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, ha affermato che "In materia di previdenza obbligatoria (quale quella gestita dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D.Lgs. n. 509 del 1994) la prescrizione quinquennale prevista dall'art. 2948, n. 4, c.c. - così come dall'art. 129 del R.D.L. n. 1827 del 1935 - richiede la liquidità ed esigibilità del credito, che deve essere posto a disposizione dell'assicurato, sicché, ove sia in contestazione l'ammontare del trattamento pensionistico, il diritto alla riliquidazione degli importi è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c." (Cass., S.U., 8.9.2015 n. 17742); è stato inoltre precisato che per l'applicazione del termine di prescrizione quinquennale "... non è sufficiente la mera idoneità del credito ad essere determinato, ancorché prontamente, nel suo ammontare; pertanto, con riguardo ai ratei di pensione ed indennità la cui debenza sia contestata nella esatta entità ... non si applica la prescrizione quinquennale di cui alle norme sopraindicate in difetto di specifico provvedimento della P.A. debitrice, ma l'ordinaria prescrizione decennale, quale prescrizione concernente la prestazione da effettuare nella sua globalità ed interezza, di cui i ratei non liquidi e non esigibili rappresentano una frazione ancora non individuata, né messa a disposizione (Cass. 21 luglio 2000, n. 9627; v. anche sostanzialmente nello stesso senso Cass. 6 novembre 1998, n. 11225; 21 novembre 1997, n. 11644)" (così Cass. n. 1344/2004 e n. 2563/2016). Il fatto che la trattenuta sulla pensione a titolo di contributo di solidarietà sia esattamente quantificata nei cedolini relativi ai ratei pensionistici non rende il credito "pagabile" o esigibile, considerato che esso, contestato dalla debitrice prima di tutto nell' an debeatur, non può ritenersi "messo a disposizione" del creditore: la S.C., con recentissima pronuncia, ha osservato che se il pensionato è stato in condizione di riscuotere solo i ratei della pensione nella misura decurtata del contributo di solidarietà, e non anche nel superiore importo spettante senza l'applicazione del medesimo (che è oggetto della controversia), la differenza tra l'importo liquidato e quello superiore richiesto non può ritenersi "pagabile" e, quindi non può applicarsi la prescrizione quinquennale dell'art. 2948 c.c., ma quella decennale ordinaria dell'art. 2946 c.c. (cfr. Cass. 29523/22, v. anche Cass. 36618/21 e Cass. 41320/21). Neppure può essere applicato l'art. 47 bis del D.P.R. n. 639 del 1970 introdotto dall'art. 38 D.L. n. 98 del 2011 conv. in L. n. 111 del 2011, secondo cui "Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all'articolo 24 della L. 9 marzo 1989, n. 88 o delle differenze dovute a seguito di riliquidazioni", trattandosi di norma che riguarda i "ricorsi e controversie in materia di prestazioni" (così il Titolo III, al cui interno la norma è inserita), ma con riferimento al solo INPS, come si ricava dal corpo normativo, dedicato appunto all'INPS, al cui interno la norma è collocata, come anche dalle norme del Titolo III predetto (art. 44-46), che riguardano tutte la materia delle prestazioni e dei ricorsi INPS (cfr., con riferimento alla decadenza ex art. 47 D.P.R. n. 639 del 1970, Cass. 982/2019, che richiama Cass. 2959/1987 per l'inapplicabilità all'INAIL). Inoltre, la S.C. ha rilevato che "la fattispecie in esame non è classificabile quale ipotesi di riliquidazione di trattamenti pensionistici, ma quale credito consequenziale all'indebita ritenuta derivante dalla applicazione di una misura patrimoniale illegittima, frutto di trattenute operate sui singoli ratei di pensione, ma che non condivide con il rateo pensionistico la disciplina del sistema di calcolo della pensione in sé considerata; la Cassa ha esercitato unilateralmente un potere di prelievo che si è sovrapposto al diritto del pensionato, ma non si è confuso con l'obbligazione pensionistica a cui pretendeva di applicarsi. A prescindere, dunque, da ogni riferimento alla aspirazione ad una parità di trattamento tra pensioni pubbliche epensioni erogate dalle casse privatizzate, il termine di prescrizione dell'azione dì recupero delle somme indebitamente trattenute non può che essere quello ordinario decennale" (cfr. Cass. 29523/22 cit.). Con il terzo motivo di gravame, la Cassa ha censurato la decisione del Tribunale nella parte in cui l'ha condannata alla restituzione delle somme trattenute "oltre interessi al saggio legale dalla scadenza delle singole mensilità pensionistiche al saldo (..)", contestando la decorrenza degli interessi dalla data delle singole trattenute anziché dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio (27.10.2021), ovvero, in subordine, da quella del deposito del medesimo ricorso (7.10.2021). Il motivo è infondato. Gli interessi legali costituiscono una componente essenziale del credito e sono soggetti al regime stabilito dal cit. art. 16, co. 6, L. n. 412 del 1991, che prevede in punto decorrenza che gli interessi legali sulle prestazioni dovute dagli enti decorrono dalla data di scadenza del termine previsto per l'adozione del provvedimento: trattandosi nel caso di trattenute operate illegittimamente dalla Cassa sul trattamento pensionistico liquidato all'appellato, gli interessi non possono allora che farsi decorrere dalla data dei singoli prelievi, come già più volte ribadito da questa Corte territoriale. In conclusione, per i motivi esposti, l'appello deve essere rigettato. 3. Spese. La soccombenza della Cassa comporta, ex art. 91 c.p.c., che a carico della stessa debbano rimanere le spese del primo grado (come già liquidate dalla sentenza impugnata che resta sul punto confermata) e come debbano essere poste a carico le spese del presente grado di giudizio, liquidate in dispositivo - con distrazione in favore del difensore antistatario - nei valori minimi previsti dai parametri vigenti, avuto riguardo al valore della causa. Attesa la reiezione dell'appello, sussistono le condizioni ex lege (art. 1 co. 17/18 L. n. 228 del 2012) per l'ulteriore pagamento, a carico dell'appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l'impugnazione. P.Q.M. Visto l'art. 437 c.p.c., Respinge l'appello; Condanna l'appellante a rimborsare all'appellata le spese del grado liquidate in Euro 1.400,00 oltre rimborso forfettario, Iva e cpa, con distrazione a favore del difensore; dichiara la sussistenza delle condizioni per l'ulteriore pagamento, a carico dell'appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l'impugnazione. Così deciso in Torino il 24 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI VENEZIA- sezione Lavoro Composta dai Magistrati Dr. Gianluca Alessio - Presidente Dr. Piero Leanza - Consigliere Dr. Lorenzo Puccetti - Consigliere rel. SENTENZA Nella causa promossa in appello con ricorso depositato in data 17 marzo 2022, da I.N.P.S., Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (c.f. (...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso nel presente giudizio dall'avvocato Fi.Do., elettivamente domiciliato presso l'Avvocatura I.N.P.S. in Venezia, (...), con indirizzo p.e.c. (...), appellante contro (...) (c.f. (...)), rappresentata e difesa, giusta mandato allegato alla memoria di costituzione in appello dall'Avv. Cr.Ba. del Foro di Venezia (pec: (...)), appellato Oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Treviso n. 71/2022 d.d. 10.02.2022, notificata in data 15.02.2022.- In Punto: ripetizione A. (art. 2 L. n. 92 del 2012) a seguito di ordine di reintegrazione giudiziale.- SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con l'impugnata sentenza il giudice del lavoro del Tribunale di Treviso accoglieva la domanda proposta da (...) e dichiarava che la ricorrente ha diritto a trattenere l'indennità di disoccupazione (per il periodo da gennaio 2014 a gennaio 2015) pari ad Euro 10.666,80 già percepita e condannava l'INPS al pagamento delle spese di lite del grado (pari ad Euro 2.400,00 oltre oneri di legge per competenze professionali). In parte motiva il giudicante riteneva che: a) secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione l'indennità di disoccupazione corrisposta dall'INPS a seguito di licenziamento va restituita all'Istituto non già a seguito della mera pronuncia favorevole al lavoratore ma a seguito dell'"effettiva ricostituzione del rapporto nei suoi aspetti giuridici ed economici, in conformità alla ratio dell'istituto .In sostanza essa va restituita se nel medesimo periodo il lavoratore ha percepito la retribuzione" (Cass. 24950/2021 in motivazione); b) nel caso di specie è pacifico che la ricorrente ha ricevuto l'indennità dal gennaio 2014 (a seguito del licenziamento del mese precedente) al gennaio 2015 e che in tale periodo era disoccupata; altrettanto pacifico che a settembre 2015 è stata pronunciata ordinanza di reintegra con condanna al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra (pronuncia che, se attuata, avrebbe fatto venire meno i presupposti per l'indennità di disoccupazione nell'anno successivo al licenziamento legittimando la richiesta restitutoria dell'Istituto); c) è però incontestato che il datore di lavoro non ha corrisposto alcunché e che, pertanto, i mesi gennaio 2014-gennaio 2015 non sono stati coperti da retribuzione neanche a posteriori; d) dall'esercizio dell'opzione (settembre 2015) può dirsi essere derivata la cessazione del rapporto di lavoro per causa non più involontaria ma, essendo l'erogazione dell'indennità di disoccupazione non più in corso al settembre 2015, non si vede come tale circostanza possa considerarsi equivalente alla percezione di retribuzione nel periodo da gennaio 2014 a gennaio 2015, tenuto conto, peraltro, che è pacifico che A. non ha percepito neanche l'indennità sostitutiva della reintegra; e) irrilevante è la circostanza che la lavoratrice non si sia insinuata al passivo del fallimento non essendo dalla legge previsto tale onere per il diritto a conseguire l'(...); f) quanto alla contribuzione che il datore di lavoro, pur non pagando l'indennità sostitutiva della reintegra ha versato all'INPS, questa attiene esclusivamente all'aspetto previdenziale e, per quanto potenzialmente utile in prospettiva futura alla ricorrente, non toglie che per i mesi cui l'indennità di disoccupazione inerisce (gennaio 2014-gennaio 2015) la ricorrente non avesse percepito retribuzione alcuna per disoccupazione derivante da licenziamento, così come non toglie che neanche nel proseguo la lavoratrice abbia percepito, con riferimento a quel periodo, la retribuzione che, a differenza della contribuzione versata all'Inps, è immediatamente fruita dal lavoratore in quanto necessaria per le immediate esigenze di vita e la cui mancanza è proprio ciò che l'indennità di disoccupazione è finalizzata ad ovviare. 2. Avverso la sentenza propone appello l'INPS deducendo che l'impugnata sentenza ha erroneamente ritenuto ancora sussistente il presupposto della disoccupazione involontaria, nonostante fosse intervenuta l'ordinanza (ormai irrevocabile) che annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, seguita poi dall'opzione della lavoratrice per l'indennizzo in luogo della reintegra. Evidenzia l'Istituto che essendo stato ricostituito giudizialmente con effetto ex tunc il rapporto di lavoro, la situazione del lavoratore che impugna vittoriosamente il licenziamento e poi rinuncia alla reintegra va equiparata a quella del lavoratore che si è dimesso, non essendo stato peraltro nella fattispecie l'intervenuto fallimento del datore di lavoro ad impedire la reintegra. 3. Costituitosi (...) per il gravame, ha chiesto il rigetto dell'appello in quanto infondato in fatto ed in diritto. 4. La causa è stata discussa e decisa all'udienza 26 gennaio 2023 come da separato dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE 5. Il ricorso è infondato condividendo il Collegio la ratio decidendi dell'impugnata sentenza per nulla scalfita dal gravame. 5.1. I fatti di causa sono pacifici: a) (...) è stata licenziata dal datore di lavoro (...) s.r.l. in data 21.12.2013 per giustificato motivo oggettivo; b) l'INPS ha erogato per il periodo dal 04.01.2014 al 04.01.2015 l'indennità A. prevista dall'art. 1 della L. n. 92 del 2012; c) con ordinanza (divenuta poi irrevocabile) del Tribunale di Treviso n. 4078/2015 d.d. 09.09.2015 il licenziamento è stato dichiarato nullo siccome ritorsivo, con declaratoria di condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione ed al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento all'effettiva reintegrazione (oltre al restauro della posizione previdenziale); d) la lavoratrice in data 28.09.2015 ha optato per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, esercitando la facoltà di cui all'art. 18 comma 3 della L. n. 300 del 1970; e) con sentenza del 21.09.2017 veniva dichiarato il fallimento del datore di lavoro; f) in data 30.05.2018 l'INPS ha chiesto la restituzione della somma di Euro 10.666,80, pari all'indennità corrisposta dal 04.01.2014 al 04.01.2015, siccome "non spettante". 5.2. La prestazione oggetto di domanda, denominata A.S.P.I. era disciplinata ratione temporis dall'art. 2 della L. n. 92 del 2012. L'istituto ha come presupposto il requisito dell'"involontarietà" dello stato di disoccupazione (proprio come la normativa previgente, sulla quale si è formata la giurisprudenza di legittimità richiamata al successivo punto n. 5.3. e quella sopravvenuta di cui all'art. 1 del D.Lgs. n. 22 del 2015). Infine l'art. 2 comma 10 stabilisce quale momento di decorrenza della prestazione l'ottavo giorno "dalla cessazione del rapporto". Indifferente è la circostanza sulla quale l'Istituto insiste anche nel corso della discussione orale relativa all'intervenuto accreditamento della contribuzione dalla date del licenziamento a quello dell'opzione, non essendo un tanto previsto quale fatto impeditivo al diritto al riconoscimento dell'indennità (...). 5.3. Tanto premesso, decisiva nella fattispecie è la circostanza che il rapporto di lavoro è stato ricostituito solo de iure e non anche de facto (cfr. Cass. n. 30553/2022) e che quindi non è stata corrisposta la retribuzione alla lavoratrice per effetto del licenziamento, trattandosi di istituto di sostegno al reddito (cfr. da ultimo Cass. n. 24950/2021) con conseguente irrilevanza dell'avvenuto versamento da parte datoriale nel periodo di riferimento della contribuzione all'Istituto. A tal fine, la Suprema Corte (cfr. Cass. n. 28295/2019) ha evidenziato che "neppure può ritenersi idonea ad escludere l'indennità di disoccupazione la mera ricostituzione de iure del rapporto, sia pure con sentenza esecutiva, essendo necessario per garantire l'effettività della tutela che a detta reintegra sia data effettiva attuazione, con la realizzazione di una situazione de facto tale da escludere la sussistenza della situazione di disoccupazione protetta ex lege". Dunque occorre per aversi indebito l'effettiva e concreta eliminazione del licenziamento. Egualmente l'opzione è intervenuta in data 28.09.2015 e dunque successivamente al periodo coperto da assicurazione (da gennaio 2014 a quello 2015), quando nessuna retribuzione è stata comunque percepita dalla lavoratrice, che si trovava allora nella situazione di bisogno incolpevole ed involontaria tutelata ed assicurata dall'Istituto (di natura previdenziale). 5.4. Anche volendo prescindere dall'ammissibilità della deduzione in carenza di documentazione dell'accreditamento e della sua misura, osserva il Collegio che la questione dell'eventuale concorso nel medesimo periodo della contribuzione figurativa a seguito di omesso versamento da parte del datore di lavoro con quella accessoria alla prestazione non attiene, per quanto già evidenziato, ai requisiti oggettivi per l'accesso alla prestazione di cui si discute, ma al diverso tema della loro integrale valorizzazione in coincidenza al periodo di riferimento. Va poi ricordato che per il periodo di percezione dell'indennità è riconosciuta al lavoratore la contribuzione figurativa nella misura settimanale pari alla media delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali dell'ultimo biennio, quindi con criterio di computo differente da quello ordinario. Inoltre i contributi figurativi sono utili per il diritto e la misura dei trattamenti pensionistici, ma non lo sono ai fini del diritto alla pensione nei casi in cui la normativa prescriva il computo della sola contribuzione effettivamente versata (nel regime contributivo: la pensione di vecchiaia con 5 anni di contribuzione effettiva e 70 anni di età; la pensione anticipata con 20 anni di contribuzione effettiva, 63 anni di età e un importo pari a 2,8 volte l'assegno sociale; nel regime contributivo e in quello retributivo: la pensione anticipata con 40 o più anni di cui almeno 35 anni di contribuzione con esclusione dei periodi figurativi per disoccupazione e periodi di malattia a copertura). Ne consegue che la questione dei possibili effetti e benefici del versamento della contribuzione c.d. A. e dell'accreditamento della contribuzione figurativa, in forza del principio di automaticità delle prestazione previdenziale, non può costituire condizione ostativa al fine di escludere il diritto alla prestazione di disoccupazione, ponendosi la questione su un piano diverso che non occupa in questa sede la Corte. 5.5. In giurisprudenza (da ultimo Cass. 30553/2022) è stato condivisibilmente evidenziato che è "legittima l'erogazione dell'indennità di disoccupazione qualora alla pronuncia di illegittimità del licenziamento non faccia seguito la reintegra del lavoratore?in tal caso, essendo lo stato di disoccupazione, pur sempre frutto dell'atto datoriale di risoluzione e non già della mancata esecuzione del provvedimento giudiziale, esso non perde la propria caratteristica di involontarietà, e, pertanto, l'erogazione della prestazione mantiene la medesima finalità di sostegno al reddito a cui è ordinariamente finalizzata (Cass. n.28295 del 2019; seguita da Cass. n. 17793 del 2020 e da Cass. n. 24950 del 2021)" Sul punto si richiama anche il recentissimo arresto della Suprema Corte n. 22850/2022, che ha disatteso le tesi propugnate anche in questa sede dall'Istituto: "solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall'Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18 (v. Cass. 15.5.2000 n. 6265, Cass. 16.3.2002 n. 3904, Cass. n. 9109 del 17/04/2007, Cass. n. 9418 del 20/4/2007); in definitiva, se alla pronunzia non segue l'effettiva reintegra e senza che il lavoratore sia obbligato ad eseguire la sentenza favorevole, l'erogazione dell'indennità di disoccupazione non diviene indebita in quanto lo stato di disoccupazione è provocato, e giustificato, dall'atto datoriale di risoluzione, e non dalla mancata esecuzione del provvedimento giudiziale, e deve quindi ritenersi comunque involontario". 6. Le spese del grado seguono la soccombenza (valore di causa dichiarato Euro 10.666,80 senza fase istruttoria) e vengono liquidate, come in dispositivo, avuto riguardo ai valori prossimi ai minimi previsti dal D.M. n. 55 del 2014 ed alle tariffe professionali vigenti, tenuto conto della semplicità della decisione e della natura degli atti delle parti, con distrazione a favore del difensore dell'appellata avv. BA.Cr. dichiaratosi antistatario. 7. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dell'appellante di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso in appello a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando, rigettata e/o comunque assorbita ogni diversa domanda, istanza ed eccezione, così decide: 1) rigetta l'appello; 2) condanna l'appellante al pagamento in favore dell'appellato delle spese del grado di giudizio, liquidate in Euro 1.984,00 per compensi oltre rimborso forfetario spese generali ex lege, IVA e CPA, con distrazione a favore dell'avv. BA.Cr. dichiaratosi antistatario; 3) ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente dovuto per l'appello a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002. Così deciso in Venezia il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI CATANZARO SEZIONE LAVORO La Corte, riunita in camera di consiglio, così composta: 1. dott.ssa Barbara Fatale - Presidente rel. 2. dott. Rosario Murgida - Consigliere 3. dott.ssa Giuseppina Bonofiglio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa in grado di appello iscritta al numero 1073 del Ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2022 e vertente TRA (...), codice fiscale (...), rappresentato e difeso dall'Avv. Lu.Sg., giusta procura allegata all'atto di reclamo, presso il cui studio, sito in Crotone, via (...), è elettivamente domiciliato reclamante e (...) S.P.A., P.I. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avv. Fl.Po. e dall'Avv. Sa.Ia., giusta procura in calce/unita alla memoria di costituzione in sede di reclamo reclamata Avente ad oggetto: Reclamo, ex art.1, 58 co., L. n. 92 del 2012 avverso sentenza del Tribunale di Crotone. Licenziamento per raggiungimento dei limiti di età pensionabile FATTO e DIRITTO (...) impugnava il licenziamento intimatogli da (...) s.p.a. il 5 luglio 2021, in ragione del raggiungimento dei limiti di età pensionabile, chiedendo l'applicazione della tutela ex art. 18 L. n. 300 del 1970 per aver esercitato l'opzione di rimanere in servizio senza accedere alla pensione di vecchiaia anticipata prevista per il personale viaggiante, in mancanza della relativa domanda necessaria in caso di pensione anticipata. Il tribunale, in fase sommaria, respingeva il ricorso. Il lavoratore proponeva opposizione, sostenendo che il giudice della prima fase avesse errato nella qualificazione giuridica della fattispecie oggetto del giudizio, insistendo nell'applicabilità al caso in esame del D.Lgs. n. 67 del 2011, essendo il ricorrente conducente di veicoli di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico collettivo, con conseguente raggiungimento del requisito anagrafico della pensione di vecchiaia all'età di 67 anni, non sussistente all'epoca del licenziamento che, pertanto, deve dirsi illegittimo. Sosteneva infatti di aver maturato, all'epoca del licenziamento, soltanto il diritto all'accesso alla pensione anticipata non esercitato in mancanza della relativa domanda di pensionamento e, anzi, avendo richiesto di voler proseguire il rapporto fino ad età pensionabile. Si costituiva tempestivamente la (...) s.p.a. sostenendo che il ricorrente non avesse esercitato l'opzione di permanere in servizio, essendo in possesso dei requisiti previsti per la pensione di vecchiaia del personale viaggiante, con conseguente legittimità dell'ordinanza reclamata. Il tribunale rigettava l'opposizione alla luce delle seguenti argomentazioni: "Il reclamo è infondato e dev'essere respinto. Invero, trattandosi di licenziamento intimato per il raggiungimento del requisito pensionistico, è inapplicabile la disciplina di cui all'art. 18 L. n. 300 del 1970 e, pertanto, è legittimo il recesso datoriale ad nutum. Invero, ai sensi dell'art. 4, co. 2, L. n. 108 del 1990: "Le disposizioni di cui all'articolo 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, e dell'articolo 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'articolo 6 del D.L. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 1982, n. 54. Sono fatte salve le disposizioni dell'articolo 3 della presente legge e dell'articolo 9 della L. 15 luglio 1966, n. 604"; Secondo l'art. 6 D.L. n. 791 del 1981, applicabile anche agli autoferrotranvieri per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 226/1990: "Gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alle gestioni sostitutive, esclusive ed esonerative dalla medesima, i quali non abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima utile prevista dai singoli ordinamenti, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino al perfezionamento di tale requisito o per incrementare la propria anzianità contributiva e comunque non oltre il compimento del sessantacinquesimo anno di età, sempreché' non abbiano ottenuto o non richiedano la liquidazione di una pensione a carico dell'INPS o di trattamenti sostitutivi, esclusivi od esonerativi dall'assicurazione generale obbligatoria. L'esercizio della facoltà di cui al comma precedente deve essere comunicato al datore di lavoro almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia". Alla luce della norma sopra richiamata, in caso di raggiungimento dell'età minima pensionabile e mancato raggiungimento dell'età massima pensionabile, il licenziamento può essere paralizzato dall'esercizio dell'opzione per la prosecuzione del rapporto, da comunicarsi al datore di lavoro almeno sei mesi prima del conseguimento del diritto. A tal proposito occorre distinguere fra pensione di vecchiaia, il cui diritto sorge automaticamente al verificarsi del requisito anagrafico e contributivo e pensione anticipata che, al contrario, presuppone una espressa manifestazione di volontà del beneficiario, Così un recente precedente della giurisprudenza di legittimità, che ha superato quello richiamato in ricorso, secondo cui: "Secondo una costante giurisprudenza di questa Corte, pur in mancanza dell'esplicito riferimento alla pensione di vecchiaia, contenuto invece nel precedente art. 11 della L. n. 604 del 1966, argomenti testuali e sistematici inducono a ritenere che nessun mutamento ha subito il principio per cui è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum (v. Cass. n. 6537 del 2014; Cass. n. 13181 del 2018; Cass. n. 432 del 2019; Cass. n. 18662 del 2020). In particolare, dal punto di vista sistematico, è stato rilevato che "soltanto il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue automaticamente al verificarsi dell'evento protetto, cosicché la pensione decorre (eccettuati i casi di esercizio dell'opzione ai sensi delle disposizioni sopra considerate) dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale l'assicurato ha compiuto l'età pensionabile, ovvero, nel caso in cui a tale data non risultino soddisfatti i requisiti di anzianità assicurativa e contributiva, dal primo giorno del mese successivo a quello in cui i requisiti suddetti vengono raggiunti salva una diversa decorrenza richiesta espressamente dall'interessato (L. 23 aprile 1981, n. 155, art. 6). Il diritto alla pensione di anzianità, invece, si consegue con il necessario concorso della volontà dell'interessato, per cui non si può dubitare che la domanda di pensione assurga ad elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto. Ne discende che, mancando la domanda, non può dirsi in senso tecnico che sussistano ì requisiti per il pensionamento" (cfr. Cass. n. 3907 del 1999; Cass. n. 7853 del 2002; Cass. n. 3237 del 2003). E' stato pure precisato che l'esclusione della tutela limitativa dei licenziamenti non è suscettibile di applicazione in via analogica ai titolari di pensioni che, per diversità dei relativi presupposti (durata del rapporto assicurativo, versamenti di un minimo di contributi, raggiungimento di un limite di età) non possono ritenersi equivalenti a quella di vecchiaia (cfr. Cass. n. 11104 del 1997; conf. Cass. n. 6537 del 2014)" (Cass. 10883/2021); Nel caso di specie, è pacifico che il ricorrente, nato in data (...), al momento del recesso datoriale irrogatogli con comunicazione del 5.7.2021 a decorrere dal 31.8.2021, fosse in possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia, fra cui quello anagrafico di cui all'art. 3, lett. b) D.Lgs. n. 414 del 1996 richiamato in ricorso. In particolare, con il D.Lgs. n. 414 del 1996, a decorrere dal 10 gennaio 1996, veniva soppresso il "Fondo per la previdenza del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto" (art. 1, co. 1, D.Lgs. n. 414 del 1996) e da tale data i lavoratori erano iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti (art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 414 del 1996) e che secondo l'art. 3 del D.Lgs. n. 414 del 1996, nella sua originaria formulazione, per i soggetti di cui all'art. 1, comma 2, "è prevista la possibilità di liquidare i seguenti trattamenti pensionistici: a) pensione di vecchiaia, di invalidità e ai superstiti secondo la normativa vigente nel Fondo P.L.D.; b) per il solo personale viaggiante, pensione di vecchiaia ai sensi dell'articolo 5, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503; c) pensione di invalidità specifica ai sensi degli articoli 12, primo comma, lettera a), e 13, primo comma, lettere a) e b), della L. 28 luglio 1961, n. 830; d) pensione di anzianità", mentre con il D.P.R. 28 ottobre 2013, n. 157 all'art. 3, co. 1, lettera b), del D.Lgs. n. 414 del 1996, le parole: "ai sensi dell'articolo 5, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503" - relativo all'età per il pensionamento di vecchiaia'- sono state sostituite dalle seguenti: "al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio". Ebbene, alla luce del tenore letterale della norma sopra citata, il trattamento pensionistico previsto a favore del personale viaggiante dall'art. 1, co. 2 lett. b) D.Lgs. n. 414 del 1996 si ritiene che abbia natura di pensione di vecchiaia, anticipata soltanto con riferimento al requisito anagrafico, che consegue automaticamente alla maturazione di entrambi i requisiti anagrafico e contributivo e, quindi, in assenza della necessità di un'apposita manifestazione di volontà da parte del beneficiario, come invece accade per la pensione anticipata (così anche Tribunale di Crotone, ordinanza n. 12130 del 23.12.2021 e Ord. N. 12253 del 31.12.2021 all. res. e Cass. 10883/2021 sopra cit.). Ciò detto, pacifico il possesso del requisito anagrafico e contributivo ai fini della pensione di vecchiaia in questione,anticipata per il requisito anagrafico (62 anni), in capo al ricorrente il quale, nato il (...), alla data del 31.8.2021 aveva 62 anni, 2 mesi e 18 giorni, manca poi la prova della tempestiva manifestazione dell'opzione di rimanere in servizio, comunicata al datore di lavoro sei mesi prima della maturazione del diritto al trattamento pensionistico, come previsto dall'art. 4 L. n. 108 del 1991 ai fini della tutela reale, circostanza non specificatamente dedotta nel presente reclamo, né prodotta fra i documenti di parte e ciò pur in presenza della contestazione della parte resistente. Valga la pena osservare che è tardiva, perché sollevata dal ricorrente soltanto all'udienza odierna, in violazione del diritto al contraddittorio, la deduzione relativa all'insussistenza del requisito contributivo minimo previsto per l'accesso alla pensione di vecchiaia/anticipata, in quanto volta ad ampliare il thema decidendum oltre quanto dedotto negli atti introduttivi ed oltre il termine della prima udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. Invero, in ricorso, lo stesso ricorrente aveva dato atto della sussistenza dei requisiti per l'accesso alla pensione "anticipata", argomentando solo in merito alla sussistenza del requisito anagrafico con conseguente estraneità dal presente giudizio della sussistenza di quello contributivo, pacifico fra le parti e, pertanto, non bisognoso di prova. In definitiva, assorbita ogni questione non espressamente affrontata, il ricorso deve essere respinto. Si ritengono poi sussistenti i presupposti per la compensazione delle spese di lite stante la controvertibilità delle questioni di diritto sottese alla decisione". Avverso tale sentenza, propone reclamo (...), lamentando: 1) errata qualificazione della fattispecie oggetto del presente giudizio: "Con tale prima doglianza, si censura la ...decisione nella parte in cui il Tribunale delle prime cure fonda la propria decisione sulla pensione di vecchiaia anticipata solo in riferimento al requisito anagrafico (cfr. pag.3) ... diversamente da come dedotto dal Giudice di prime cure secondo il quale non trova applicazione nel presente giudizio la fattispecie descritta dal D.Lgs. n. 67 del 2011 (e pure il Sig. (...) svolge la mansione di autista ovvero di conducente di veicoli, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo) il requisito anagrafico per il raggiungimento della pensione di vecchiaia è previsto al compimento del 67esimo anno di età atteso che, il Sig. (...), al momento dell'intimato licenziamento, aveva compiuto 62 anni. Ed in questo sta l'illegittimità del licenziamento ... il regime previdenziale speciale che consente al personale viaggiante di anticipare di 5 anni l'accesso alla pensione di vecchiaia è una scelta che può essere esercitata e non un vincolo ineludibile ... Non appare pertanto condivisibile l'equiparazione del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia stabilita al compimento dei 67 anni con quello riconosciuto al personale viaggiante previsto al compimento dei 62 anni di età. Trattasi infatti di una deroga rispetto al normale requisito anagrafico (67 anni) e, in quanto tale, ed in ossequio all'art. 1 D.L. n. 67 del 2011 la richiesta di pensionamento di vecchiaia anticipato al requisito anagrafico è una mera facoltà che l'ordinamento riconosce al lavoratore con ovvio pregiudizio alla libera recedibilità da parte del datore di lavoro ... la libera recedibilità del datore di lavoro è in ogni modo subordinata alla espressa domanda esperita dal lavoratore che assume valore cogente e pregante con riguardo ai conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto cui vi rientra il Sig. (...); libera recedibilità che è invero ammessa solo ed esclusivamente in caso di raggiungimento dei requisiti della pensione di vecchiaia. (67 anni). Lo si ripete, per mero tuziorismo difensivo, come il Sig. (...), al momento dell'impugnando licenziamento, avesse una età anagrafica di 62 anni per cui lo stesso poteva usufruire solo ed esclusivamente del pensionamento anticipato mentre il datore di lavoro - in maniera erronea - intima al lavoratore la cessazione ad nutum per raggiungimento della pensione di vecchiaia che invece è prevista al conseguimento del 67esimo anno di età...". 2) violazione del D.L. n. 67 del 2011, perché "nessuna domanda inerente alla richiesta di esercizio, da parte del lavoro, di ricorrere al pensionamento anticipato è stata depositata dal lavoratore né all'azienda né a nessun altro soggetto giuridico deputato alla lavorazione della predetta richiesta. Anzi, in data 26 agosto 2021 il Sig. (...), a tacitazione assoluta e, ancora nelle more dei termini per l'impugnazione del licenziamento, ribadiva alla resistente la propria volontà di continuare a lavorare fino all'età massima pensionabile ovvero anche fino al raggiungimento dei 70 anni". Costituitasi in giudizio, la società reclamata ha rassegnato le conclusioni sopra riportate. La Corte, acquisito il fascicolo di primo grado, alla fissata udienza, sentiti i procuratori delle parti, riservava la decisione. L'impugnazione non è meritevole di accoglimento. Orbene, il reclamante contesta il possesso, da parte sua, al momento del recesso datoriale (allorché aveva compiuto 62 anni di età), del requisito anagrafico per accedere alla pensione di vecchiaia. E' utile, sul punto, richiamare il quadro normativo che viene in considerazione nel caso di specie, quale ricostruito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14814 del 2021, che invero erroneamente il sig. (...) richiama a sostegno delle proprie argomentazioni: "Posto che il licenziamento è stato intimato per il raggiungimento dei requisiti pensionistici da parte del lavoratore ultrasessantenne, la fattispecie è innanzitutto regolata dall'art. 4, co. 2, L. n. 108 del 1990, tuttora vigente nella sua formulazione originaria, secondo cui: "Le disposizioni di cui all'articolo 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, e dell'articolo 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'articolo 6 del D.L. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 1982, n. 54. Sono fatte salve le disposizioni dell'articolo 3 della presente legge e dell'articolo 9 della L. 15 luglio 1966, n. 604". 2.2. Secondo una costante giurisprudenza di questa Corte, pur in mancanza dell'esplicito riferimento alla pensione di vecchiaia, contenuto invece nel precedente art. 11 della L. n. 604 del 1966, argomenti testuali e sistematici inducono a ritenere che nessun mutamento ha subito, il principio per cui è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum (v. Cass. n. 6537 del 2014; Cass. n. 13181 del 2018; Cass. n. 432 del 2019; Cass. n. 18662 del 2020). In particolare, dal punto di vista sistematico, è stato rilevato che "soltanto il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue automaticamente al verificarsi dell'evento protetto, cosicché la pensione decorre (eccettuati i casi di esercizio dell'opzione ai sensi delle disposizioni sopra considerate) dal primo giorno del mesesuccessivo a quello nel quale l'assicurato ha compiuto l'età pensionabile, ovvero, nel caso in cui a tale data non risultino soddisfatti i requisiti di anzianità assicurativa e contributiva, dal primo giorno del mese successivo a quello in cui i requisiti suddetti vengono raggiunti salva una diversa decorrenza richiesta espressamente dall'interessato (L. 23 aprile 1981, n. 155, art. 6). Il diritto alla pensione di anzianità, invece, si consegue con il necessario concorso della volontà dell'interessato, per cui non si può dubitare che la domanda di pensione assurga ad elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto. Ne discende che, mancando la domanda, non può dirsi in senso tecnico che sussistano i requisiti per il pensionamento (cfr. Cass. n. 3907 del 1999; Cass. ,n. 7853 del 2002; ,Cass. n. 3237 del 2003). È stato pure precisato che l'esclusione della tutela limitativa dei licenziamenti non è suscettibile di applicazione in via analogica ai titolari di pensioni che, per diversità dei relativi presupposti (durata del rapporto assicurativo, versamento di un minimo di contributi, raggiungimento di un limite di età) non possono ritenersi equivalenti a quella di vecchiaia (cfr. Cass. n. 11104 del 11997; conf. Cass. n. 6537 del 2014). 2.3. Occorre dunque verificare se, nel caso all'attenzione del Collegio, il lavoratore ultrasessantenne licenziato fosse in possesso, al momento del recesso datoriale, dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia e se la volontà espressa dal lavoratore medesimo di non accedere al pensionamento anticipato ma, piuttosto, di permanere in servizio precludesse comunque il suo licenziamento. A tal fine è opportuna una ricognizione della disciplina di settore rilevante nella specie. 2.4. Non è in contestazione che il lavoratore licenziato, conducente di autobus, fosse dipendente di un'azienda addetta ai pubblici servizi di trasporto, per il quale operava il regime previdenziale speciale introdotto dal D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 414. Con tale decreto, a decorrere dal 10 gennaio 1996, è stato soppresso il "1 Fondo, per la previdenza del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto'' (art. 1, co. 1, D.Lgs. n. 414 del 1996) e da tale data i lavoratori sono iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti (art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 414 del 1996). Secondo l'art. 3 del D.Lgs. n. 414 del 1996, nella sua originaria formulazione, per i soggetti di cui all'art. 1, comma 2, "è prevista la possibilità di liquidare i seguentitrattamenti pensionistici: a) pensione di vecchiaia, di invalidità e ai superstiti secondo la normativa vigente nel Fondo P.L.D.; b) per il solo personale viaggiante, pensione di vecchiaia ai sensi dell'articolo 5, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503; c) pensione di invalidità specifica ai sensi degli articoli 12, primo comma, lettera a), e 13, primo comma, lettere a) e b), della L. 28 luglio 1961, n. 830; d) pensione di anzianità. Successivamente, con il D.P.R. 28 ottobre 2013, n. 157 - recante il "Regolamento di armonizzazione dei requisiti di accesso al sistema pensionistico di categorie di personale iscritto presso l'INPS, l'ex ENPALS e l'ex INPDAP" - all'art. 13, co. 1, lettera b), del D.Lgs. n. 414 del 1996, le parole: "ai sensi dell'articolo 5, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503" - che, giova rammentarlo, stabiliva l'età per il pensionamento di vecchiaia- sono state sostituite dalle seguenti: "al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio". Infatti, nel frattempo era intervenuto il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, di cui il Regolamento citato è attuazione, che all'art. 24 contiene una serie di disposizioni che riformano profondamente i trattamenti pensionistici. Secondo il comma 18 dell'art. 24: "Allo scopo di assicurare un processo di incremento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento anche ai regimi pensionistici e alle gestioni pensionistiche per cui siano previsti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, requisiti diversi da quelli vigenti nell'assicurazione generale obbligatoria ... con regolamento da emanare entro il 31 ottobre 2012, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della L. 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono adottate le relative misure di armonizzazione dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, tenendo conto delle obiettive peculiarità e delle esigenze dei settori di attività nonché dei rispettivi ordinamenti". In virtù di tale disposizione è stato appunto adottato il Regolamento contenuto nel D.P.R. n. 157 del 2013, il quale consente di erogare al personale viaggiante dipendente delle aziende di trasporto pubblico una pensione di vecchiaia "al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio". È noto che il D.L. n. 201 del 2011 (c.d. "Decreto Monti"), a partire dal 1 gennaio 2012, ha sostituito le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità, con le seguenti prestazioni: a) la pensione di vecchiaia; b) la pensione anticipata (art. 24, co. 3). La pensione di vecchiaia è conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti anagrafici ridefiniti dal comma 6 dell'art. 24 e contributivi minimi di cui al comma 7 dello stesso articolo (20 anni), fatto salvo quanto stabilito dai commi 14, 15 bis e 18. La pensione anticipata è conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di anzianità contributiva stabiliti dal comma 10, per età anagrafiche inferiori a quelle previste dal comma, ovvero sulla base dei requisiti di cui al comma 11, fatto salvo quanto stabilito ai commi 14, 15bis 17 e 18, sempre dell'art. 24 D.L. n. 201 del 2011. 2.5. Dalla combinazione di tali norme deriva che il lavoratore in controversia al momento del licenziamento, era in possesso del requisito anagrafico (del pari non è contestata l'anzianità contributiva minima) per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata prevista per il personale viaggiante, al raggiungimento di un'età ridotta di cinque anni rispetto a quella tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio e, quindi, all'epoca pari a 61 anni e 7 mesi, in quanto nel biennio 2016 - 2018 il requisito anagrafico generale di accesso alla pensione di vecchiaia era pari a 66 anni e 7 mesi. 2.6. Secondo la Corte di Appello, per consentire l'applicabilità del recesso, ad nutum dell'azienda, era altresì necessaria la domanda dell'interessato, in particolare la Corte si riferisce a quella prevista dal D.Lgs. n. 67 del 2011, art. 1 che legge in integrazione con la disciplina stabilità dal D.Lgs. n. 414 del 1996. In realtà il D.Lgs. 21 aprile 2011, n. 67 - recante norme sull'"Accesso anticipato al pensionamento per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, a norma della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 1" - all'art. 1, comma 1, rubricato "Lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti", stabilisce che "In deroga a quanto previsto alla L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, come modificato dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 1 possono esercitare, a domanda, il diritto per l'accesso al trattamento pensionistico anticipato, fermi restando il requisito di anzianità contributiva non inferiore a trentacinque anni e il regime di decorrenza delpensionamento vigente al momento della maturazione dei requisiti agevolati" talune tipologie di lavoratori dipendenti, tra i quali: (...) "d) conducenti di veicoli, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto Collettivo". La disciplina prevede anche che il "diritto al trattamento pensionistico anticipato" è esercitabile qualora i lavoratori appartenenti alle tipologie indicate, abbiano svolto le attività lavorative secondo le modalità ivi previste per un periodo di tempo minimo specificato nel D.lgs., art. 11, comma 2. Si tratta dunque di una normativa che ha un oggetto e dei destinatari che sono propri rispetto a quelli previsti dal D.lgs., disciplina che non si integra con essa. Innanzitutto il D.lgs. è stato adottato per i "lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti" e non riguarda specificamente il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto e neanche tutto il personale viaggiante, ma esclusivamente i "conducenti di veicoli, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo" e sempre che abbiano svolto detta attività per il periodo minimo specificato nell'art. 1, comma 2 di detto decreto. Inoltre, il D.lgs. non ha ad oggetto la pensione di vecchiaia di cui al D.lgs., bensì un "trattamento pensionistico anticipato" che richiede un "requisito di anzianità contributiva non inferiore a 35 anni" (ben diverso dai 20, anni previsti per la pensione di vecchiaia) ed i "requisiti agevolati" stabiliti, a decorrere dal 1 gennaio 2012, dalla Tabella B di cui all'allegato 1 della L. n. 247 del 2007, che prevede, in generale, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati una combinazione di età anagrafica e anzianità contributiva ai fini dell'accesso alla pensione anticipata (che è ben diverso dal requisito anagrafico previsto per la pensione di vecchiaia anticipata del personale viaggiante dal D.Lgs. n. 4114 del 1996, art. 3, comma 1, lett. b). Significativamente, a conferma dell'eterogeneità delle due discipline, vale rilevare che il D.lgs. è stato modificato proprio dall'art. 24 del successivo "Decreto Monti", il cui comma 17 recita: "Ai fini del riconoscimento della pensione anticipata, ferma restando la possibilità di conseguire la stessa ai sensi dei commi 10 e 11 presente articolo, per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, a normadella L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 1, al D.lgs. sono apportate le seguenti modificazioni: (...)"; ed il comma 3 medesimo articolo, in riferimento alla "pensione anticipata" legata all'anzianità contributiva, lascia salvo proprio il regime speciale stabilito dal comma 17 per gli addetti a lavorazioni faticose e pesanti. Il che conferma che il pensionamento anticipato per costoro previsto a domanda non riguarda la pensione di vecchiaia anticipata, disciplinata dal D.Lgs. n. 414 del 1996, art. 3, comma 1, lett. B, come Modificato dal D.P.R. n. 157 del 2013, quest'ultimo adottato in attuazione del D.L. n. 201 del 2011, art. 24, comma 18 conv. in L. n. 214 del 2011. 2.7. Tuttavia, in causa è pacifico che il lavoratore non avesse inoltrata alcuna richiesta di pensionamento di vecchiaia anticipata ma, al contrario, sin dall'atto introduttivo del giudizio - come riportato alla pag. 1 della sentenza impugnata - è stato dedotto che aveva esplicitamente "manifestato la volontà di restare in servizio sino all'età massima prevista dal regime generale obbligatorio. La Corte territoriale ha espressamente preso posizione sul punto affermando come la possibilità (di optare per la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l'età pensionabile) sia tuttora riconosciuta anche agli iscritti al soppresso fondo di previdenza del personale addetto al trasporto pubblico transitati nell'assicurazione generale obbligatoria e, nel caso di specie, il reclamante ha manifestato la sua volontà di trattenersi in servizio fino al raggiungimento dell'età massima per la pensione di vecchiaia prevista dal regime generale obbligatorio". Tanto è accaduto in coerenza con la facoltà, che deve essere riconosciuta anche al personale viaggiante in possesso del requisito anagrafico per l'erogabilità della pensione di vecchiaia anticipata di cui al D.lgs., di esercitare l'opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi del D.L. n. 791 del 1981, Art. 6 conv., con modif., dalla L. n. 54 del 1982, evitando così il transito nell'area della libera recedibilità ed anche al fine di incrementare l'anzianità contributiva per coloro che, come nella controversia che ci occupa, possono conseguire la pensione di vecchiaia prima del 65 anno di età, infatti l'art. 6 richiamato è stato ritenuto applicabile anche agli autoferrotranviari da Corte Cost. n. 226 del 1990, proprio per evitare disparitàdi trattamento rispetto a tutti gli altri lavoratori dipendenti. E questa Corte ha già avuto modo di affermare come non sarebbe ragionevole che il lavoratore, per il solo fatto di trovarsi nelle Situazione di poter richiedere l'attribuzione di un pensionamento anticipato, si trovi a perdere la stabilità del posto di lavoro al compimento del sessantesimo anno di età e possa, quindi, essere privato della facoltà di continuare a lavorare per raggiungere l'anzianità contributiva massima utile o per incrementarla ulteriormente, come invece consentito a colui che ha lavorato per un tempo minore (cfr. Cass. n. 3907 del 1999). 2.8. Tale ricostruzione non confligge con la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 17589 del 2015. La pronuncia si è occupata dell'interpretazione del D.L. n. 201 del 2011, art. 24, comma 4 più volte citato, secondo cui: "Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12 convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità". Le Sezioni Unite hanno in primo luogo ritenuto che, con il richiamo ai "limiti ordinamentali", il legislatore ha inteso precisare che la "incentivazione" al prolungamento del rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame, inoltre, - secondo la pronuncia - la disposizione, nel prevedere che "il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato... dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni...", prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di detti coefficienti, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. Sarebbe questo il senso della locuzione "è incentivato... dall'operare dei coefficienti di trasformazione...", la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi. Quindi la norma prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni. In tal senso - continua la S.C. - depone anche la formulazione dell'art. 24, comma 4, ultimo periodo da interpretarsi nel senso che esso, consente l'estensione della tutela dell'art. 18 solo nel caso che le parti abbiano consensualmente ritenuto di procrastinare la durata del rapporto, in presenza delle condizioni di adeguamento pensionistico fissate dallo stesso comma 4. I due sistemi, quindi, non sono tra loro incompatibili: il primo, sempre nei residui casi in cui sia applicabile, costituisce esercizio di una facoltà del lavoratore, indipendente dalla volontà del datore di lavoro (per le conseguenze del rifiuto del datore a proseguire il rapporto v. per tutte Cass. n. 11668 del 2008), al fine di incrementare l'anzianità contributiva fino a quella massima e, comunque, fino al 65 anno di età; il secondo riguarda invece l'incentivo alla prosecuzione dell'attività lavorativa sino a 70 anni, operando i coefficienti di trasformazione, e postula il consenso del datore di lavoro". Il caso esaminato nella sentenza sopra richiamata differisce da quello qui scrutinato, perché in quello il lavoratore aveva presentato domanda di permanenza in servizio dopo avere maturato il requisito per la pensione di vecchiaia e, dunque, prima del recesso datoriale, ciò che aveva paralizzato l'operatività del meccanismo della libera recedibilità; nel caso di specie, invero, è pacifico tra le parti che ciò non sia avvenuto, perché il sig. (...) non ha inoltrato, prima del recesso del datore di lavoro, domanda di permanenza in servizio sino all'età massima prevista dal regime generale obbligatorio. Inoltre, non giova al reclamante il richiamo al D.Lgs. n. 67 del 2011, perché, come chiarito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia sopra richiamata, esso "non ha ad oggetto la pensione di vecchiaia di cui al D.Lgs. n. 414 del 1996, bensì un "trattamento pensionistico anticipato" che richiede un "requisito di anzianità contributiva non inferiore a 35 anni" (ben diverso dai 20 anni previsti per la pensione di vecchiaia) ed i "requisiti agevolati" stabiliti, a decorrere dal 1 gennaio 2012, dalla Tabella B di cui all'allegato 1 della L. n. 247 del 2007, che prevede, in generale, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati una combinazione di età anagrafica e anzianità contributiva ai fini dell'accesso alla pensione anticipata (che è ben diverso dal requisito anagrafico previsto per la pensione di vecchiaia anticipata del personale viaggiante dal D.Lgs. n. 4114 del 1996, art. 3, comma 1, lett. b)". In conclusione, la sentenza merita di essere condivisa, perché, difformemente da quanto affermato dal reclamante, ha correttamente applicato la disciplina del D.Lgs. n. 414 del 1996, posto che, alla data del 5 luglio 2021, il sig. (...), che aveva compiuto 62 anni, aveva raggiunto il requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio (pari a 67 anni, per il biennio 2021/2022). Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del reclamo ed alla conseguente conferma della sentenza gravata. Le spese del grado di lite seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. la Corte, definitivamente decidendo sul reclamo proposto da (...), con atto depositato il 28 ottobre 2022, nei confronti di (...) S.P.A., avverso la sentenza del Tribunale di Crotone n. 703/2022 del 6 ottobre 2022, così provvede: - rigetta il reclamo e, per l'effetto, conferma la sentenza gravata; - condanna il reclamante a rifondere alla reclamata le spese del grado di lite, che liquida in Euro 2500,00, oltre accessori come per legge dovuti; - dà atto della sussistenza, ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, dei presupposti per il versamento, da parte dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione dallo stesso proposta, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13, salva verifica del requisito soggettivo di esenzione. Così deciso in Catanzaro il 2 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 4 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI VELLETRI SEZIONE LAVORO in persona del giudice Pietro Gerardo Tozzi ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al numero 1901 del ruolo generale dell'anno 2021 promossa DA (...), elettivamente domiciliata in Velletri corso (...), presso lo studio del procuratore Avv. Si.As., da cui è rappresentata e difesa RICORRENTE CONTRO INPS, con sede in Roma, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Montecompatri via (...), presso lo studio dell'Avv. Al.Br., rappresentato e difeso dal procuratore Avv. Sa.Pa. RESISTENTE FATTO E DIRITTO 1. Con ricorso depositato il 25 maggio 2021 la ricorrente ha affermato di aver presentato il 10 settembre 2019 domanda amministrativa al fine di vedersi riconosciuto il diritto alla pensione di vecchiaia anticipata ai sensi dell'art. 1 comma 8 D.Lgs. n. 503 del 1992, che l'Istituto rigettava il 22 ottobre 2020; di aver presentato ricorso amministrativo, parimenti respinto. In diritto, la ricorrente ha affermato il proprio diritto alla pensione di vecchiaia anticipata ai sensi dell'art. 1 comma 8 D.Lgs. n. 503 del 1992 e ha convenuto in giudizio l'Inps perché il giudice accerti il suo stato di invalido in misura non inferiore all'80% e condanni l'Istituto a corrispondergli la relativa pensione di vecchiaia. 1.1. L'Inps si è costituito in giudizio contestando il diritto della ricorrente, il difetto del requisito contributivo e del requisito sanitario. 2. Nel corso del processo è stata espletata CTU medico legale. All'udienza odierna, la causa è stata discussa e decisa come da motivazione e dispositivo in calce di cui è stata data lettura. 3. La ricorrente domanda il riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia anticipata, mentre l'Istituto contesta la ricorrenza dei presupposti previsti per legge. 4.1. L'art. 1 D.Lgs. n. 503 del 1992, prevede: "1. Il diritto alla pensione di vecchiaia a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è subordinato al compimento dell'età indicata, per ciascun periodo, nella tabella A allegata. 2. Il limite di età previsto per l'applicazione delle disposizioni contenute nell'art. 6, L. 29 dicembre 1990, n. 407 , è elevato fino al compimento del 65 anno; gli assicurati che alla data di entrata in vigore del presente decreto prestano ancora attività lavorativa, pur avendo maturato i requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, sono esonerati dall'obbligo della comunicazione di cui al richiamato articolo 6, comma 2; sono altresì esonerati dall'anzidetto obbligo gli assicurati che maturino i requisiti previsti entro sei mesi successivi alla data di entrata in vigore del presente decreto, fermo restando l'obbligo per gli assicurati stessi di effettuare la comunicazione sopra considerata non oltre la data in cui i predetti requisiti sono maturati (2). 3. La percentuale annua di commisurazione della pensione per ogni anno di anzianità contributiva acquisita per effetto di opzione esercitata ai sensi dell'articolo 4 della L. 9 dicembre 1977, n. 903 , e dell'articolo 6 del D.L. 22 dicembre 1981, n. 791 , convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 1982, n. 54, ai fini della permanenza in servizio oltre le età di cui al comma 1, è incrementata di un punto percentuale fino al compimento del 60 anno di età per le donne e 65 per gli uomini e di mezzo punto percentuale negli altri casi, anche in deroga all'articolo 11, comma 2, della L. 30 aprile 1969, n. 153 . Gli incentivi indicati sono attribuiti, comunque, fino al raggiungimento dell'anzianità contributiva massima utile. Per gli anni successivi viene riconosciuta la maggiorazione della pensione di cui al comma 6 dell'articolo 6 della L. 29 dicembre 1990, n. 407. 4. Le percentuali annue di rendimento attribuite ai sensi del comma 3 restano acquisite indipendentemente dalla successiva applicazione dell'elevazione del requisito di età prevista dal comma 1. 5. Il trattamento pensionistico derivante dall'applicazione dei commi 2 e 3 non può comunque superare l'importo della retribuzione pensionabile prevista dai singoli ordinamenti. 6. Sono confermati i requisiti per la pensione di vecchiaia in vigore alla data del 31 dicembre 1992 per i lavoratori non vedenti. 7. Il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia è subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro. 8. L'elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli invalidi in misura non inferiore all'80 per cento". 4.2. La vigente disciplina impone alcuni requisiti per il beneficio oggetto di causa, oltre la sussistenza della invalidità in misura non inferiore all'80%: - un presupposto di natura anagrafica, rappresentato dall'età minima indicata, in riferimento al triennio 2016/2018, a 60 anni e 7 mesi di età per gli uomini e 55 e 7 mesi di età per le donne, per il biennio 2019/2020, in 61 anni di età per gli uomini e in 56 anni di età per le donne, che nel caso di specie è integrato; - un presupposto di natura contributiva, individuato nel possesso di almeno 20 oppure, 15 anni se versati prima del 31/12/1992, quale lavoratore dipendente e la ricorrente ha raggiunto tale ultima soglia (dall'estratto contributivo emergono infatti n. 4.828 giornate di contributi sino al 31 dicembre 1992, doc. 5 di parte ricorrente); - un presupposto di non occupazionale, costituito dalla avvenuta cessazione del rapporto di lavoro (estratto contributivo depositato da parte ricorrente). 4.3. In relazione al requisito sanitario, consistente in una invalidità non inferiore all'80%, appare opportuno richiamare quanto accertato al consulente tecnico d'ufficio. Il CTU ha osservato: "La presente indagine è finalizzata a stabilire se la perizianda si trovi nelle condizioni previste dall'art. 1 comma 8 del D.Lgs. n. 503 del 1992, ovvero presenti i requisiti sanitari previsti per beneficiare della pensione anticipata di vecchiaia, basati sul riconoscimento di un'invalidità in misura non inferiore all'80%. Gli accertamenti posti in essere durante le operazioni peritali nonché lo studio del carteggio sanitario hanno permesso di evidenziare il seguente complesso morboso da cui è affetta la perizianda. Per quanto attiene alla maculopatia essudativa senile in trattamento con iniezioni intravitreali questa patologia si estrinseca con un deficit del visus clinicamente apprezzabile, risultando difatti una diminuzione significativa dello stesso bilateralmente. Per quanto riguarda l'artrosi polidistrettuale, quest'ultima si caratterizza per un'importante tendinopatia bilaterale delle spalle, un rilevante coinvolgimento della colonna vertebrale clinicamente obiettivabile e per un'iniziale fenomeno degenerativo artrosico a carico delle anche e delle ginocchia. Si è obiettivata infatti una riduzione della metà dei movimenti delle spalle e della colonna, con deficit articolari delle escursioni degli arti inferiori limitati invece ai gradi estremi. L'impegno poliartrosico, in soggetto patologicamente obeso, unitamente al significativo deficit visivo bilaterale, limita in misura rilevante le capacità osteoarticolari della ricorrente, soprattutto se rapportate alla necessità comportate dal lavoro sempre svolto dalla perizianda, ovvero quello di bracciante agricola. Per quanto sopra detto, la Sig.ra (...) si trova nelle condizioni previste dalla normativa per beneficiare della pensione di vecchiaia anticipata prevista dall'art. 1 comma 8 del D.Lgs. n. 503 del 1992, a decorrere da gennaio 2022, ovvero alcuni mesi prima del peggioramento del deficit visivo bilaterale documentato in atti nell'ultima visita oculistica del giugno 2022" (relazione peritale agli atti). Il consulente ha quindi così concluso: "in relazione al caso del Sig.ra (...): SUSSISTONO i requisiti medico legali per il riconoscimento della pensione di vecchiaia anticipata ai sensi dell'art. 1 comma 8 del D.Lgs. n. 503 del 1992 da Gennaio 2022". 4.3.1. Le conclusioni cui giunge il consulente tecnico d'ufficio, in quanto argomentate con precisi riferimenti oggettivi e sostenute da elementi scientifici, razionali e prive di vizi logici, devono qui essere condivise, con la conseguenza che la ricorrente deve ritenersi invalida in misura non inferiore all'80% dal gennaio 2022. 5. Quanto alla decorrenza del beneficio richiesto, tuttavia, deve ricordarsi che, in tema di pensione di vecchiaia anticipata, di cui all'art. 1, comma 8, del D.Lgs. n. 503 del 1992, il regime delle cd. "finestre" previsto dall'art. 1, comma 5, della L. n. 247 del 2007 si applica anche agli invalidi in misura non inferiore all'ottanta per cento, come si desume dal chiaro tenore testuale della norma, che individua in modo ampio l'ambito soggettivo di riferimento per lo slittamento dell'accesso alla pensione di vecchiaia al 1 gennaio dell'anno successivo, in difetto di una disposizione specifica di esclusione, nell'ambito del regime in questione, di detta pensione anticipata, la cui regolamentazione consente soltanto una deroga ai limiti di età rispetto ai normali tempi di perfezionamento del diritto al trattamento di vecchiaia (Cass. ord. 28 gennaio 2021, n. 1931). 5.1. Tanto premesso, pertanto, deve essere dichiarato che R.D., invalida in misura non inferiore all'80%, possiede i requisiti per la concessione della pensione anticipata di vecchiaia ex art. 1 comma 8 D.Lgs. n. 503 del 1992 da gennaio 2022, con diritto alla liquidazione con applicazione del regime delle c.d. finestre, e l'Inps deve essere condannato al relativo pagamento, oltre interessi. 6. In relazione alla regolamentazione delle spese di lite, occorre ricordare che, nelle controversie assistenziali, il riconoscimento del requisito sanitario con una decorrenza successiva a quella della domanda, riconducibile ad una parzialità dell'accoglimento meramente quantitativo, realizza una soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione, parziale o totale, delle spese di lite (Cass. ord. 21 dicembre 2016 n. 26565): ne deriva, nel caso di specie, la compensazione integrale delle spese di lite tra le parti, in considerazione dell'accertamento del requisito sanitario oggetto di causa solo da gennaio 2022. Le spese per CTU sono poste a carico dell'Inps, competente in via amministrativa per l'accertamento del grado di invalidità. P.Q.M. disattesa ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, dichiara che R.D., invalida in misura non inferiore all'80%, possiede i requisiti per la concessione della pensione anticipata di vecchiaia ex art. 1 comma 8 D.Lgs. n. 503 del 1992 da gennaio 2022, con diritto alla liquidazione decorsa la c.d. finestra mobile, e condanna l'Inps al relativo pagamento, oltre interessi; compensa i compensi di lite tra le parti; pone in capo all'Inps le spese per CTU, liquidate con separato decreto. Così deciso in Velletri il 4 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 4 gennaio 2023.
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