Sentenze recenti pertinenze

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2233 del 2024, proposto da: Pa. Ba., rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Pa. e Et. Ne., con domicilio digitale pec in registri di giustizia contro Ministero dell'economia e delle finanze, Agenzia del demanio, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui sono domiciliati in Roma, via (...); Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato El. Ca., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; Comune di (omissis) e Direzione generale dell'Agenzia del demanio, non costituiti in giudizio per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione quinta, n. 18327/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Lazio e del Ministero dell'economia e delle finanze con l'Agenzia del demanio; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2024, l'avvocato Fr. Pa.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. In primo grado il ricorrente ha impugnato, mediante ricorso introduttivo e plurimi motivi aggiunti, gli atti con i quali il comune di (omissis), in riferimento alla concessione demaniale marittima n. 41/2003, successivamente prorogata con concessione n. 11/2015, ha preteso il pagamento dei canoni demaniali relativi agli anni 2011 - 2019. In corso di causa il ricorrente ha chiesto anche di disporre la sospensione del giudizio nelle more della definizione del rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE disposto da questo Consiglio di Stato nell'ambito di una diversa controversia con l'ordinanza del 15 settembre 2022, n. 8010. 2. Con sentenza n. 18327 del 6 dicembre 2023 il Tar Lazio ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, affermando che il sindacato sulla controversia spetta al giudice ordinario, poiché l'oggetto del contendere va qualificato come domanda afferente alla mera quantificazione dei canoni demaniali. Secondo il Tar il comune di (omissis), nel caso di specie, non ha adottato un provvedimento autoritativo costituente esercizio di un potere pubblico di natura discrezionale, essendosi invece limitato a disporre il ricalcolo del canone annuale per la concessione demaniale marittima, in applicazione dell'aggiornamento quantitativo previsto dall'art. 1, comma 251, del decreto legge n. 296 del 2006. In tale ambito, secondo il primo giudice, non stata effettuata una valutazione discrezionale in merito al canone da versare e il suo esatto ammontare quanto, piuttosto, è stata disposta l'applicazione meccanica di disposizioni dettagliate sul calcolo delle somme dovute a titolo di canoni demaniali all'Ente: si tratterebbe di questioni che esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo. Aggiunge il Tar che le censure sull'esatta individuazione dei beni oggetto di concessione (estensione dell'arenile; diversa classificazione dell'area occupata tra impianti di facile o difficile rimozione; individuazione delle "pertinenze" demaniali; contestazione del punteggio previsto le aree demaniali qualificata ad "alta valenza turistica" di categoria) non coinvolgono l'esercizio di poteri discrezionali incidenti sul rapporto concessorio. 3. L'appellante ha impugnato tale decisione, inter alia, per violazione e falsa applicazione dell'art. 133, comma 1, lett b) cod. proc. amm. e dell'art. 1, comma 251, della legge n. 296/2006, nonché per non avere il Tar disposto la sospensione del giudizio in attesa della definizione del rinvio pregiudiziale disposto con ordinanza della sezione VII di questo Consiglio di Stato, n. 8010, del 15 settembre 2022, sulla seguente questione: "Se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C- 375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all'interpretazione di una disposizione nazionale quale l'art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull'area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l'esercizio dell'impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell'obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo". In sintesi l'appellante ritiene che non sussista il difetto di giurisdizione rilevato dal primo giudice, poiché, diversamente da quanto considerato nella sentenza impugnata, nel caso di specie non sarebbe in discussione la mera quantificazione dell'indennità, bensì la qualificazione giuridica stessa del rapporto concessorio, come tale preliminare e sottostante rispetto alla determinazione del canone; quindi la domanda, involgendo il rapporto concessorio, rientrerebbe nell'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo. Con atti di stile si sono costituiti sia la regione Lazio, sia il Ministero dell'economia e delle finanze con l'Agenzia del demanio. In data 10 maggio 2024 l'appellante ha depositato breve memoria qualificata come "replica". Il Ministero delle finanze ha depositato memoria in data 18 maggio 2024 chiedendo la conferma della sentenza impugnata. Nella camera di consiglio del 21 maggio 2024 sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Il Collegio richiama un precedente della sezione (14 giugno 2023, n. 5829) che ha deciso un caso ana, da cui mutua le argomentazioni per accogliere il presente appello. Come noto, in tema di concessione dei beni pubblici, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della pubblica amministrazione a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolga la verifica dell'azione autoritativa della pubblica amministrazione sul rapporto concessorio sottostante, o quando investa l'esercizio di poteri discrezionali valutativi nella determinazione del canone, e non semplicemente di accertamento tecnico dei presupposti fattuali economico-aziendali (sia nell'an che nel quantum), la stessa è attratta nell'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass. civ., sez. un. 17 dicembre 2020, n. 28973). Con riguardo al caso in esame, dagli atti di causa emerge con chiarezza che l'oggetto del contendere non è costituito dalla mera determinazione del quantum degli oneri concessori dovuti, quanto piuttosto dalla necessità di definire la natura giuridica del rapporto concessorio e di qualificare i beni insistenti sull'area demaniale, da cui poi discende, quale conseguenza, l'imputazione degli oneri e la loro misura, secondo le vigenti disposizioni normative. Costituisce, infatti, principio consolidato, oggetto di plurime pronunce della giurisprudenza amministrativa, conformi all'indirizzo delle Sezioni unite della cassazione, che la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di concessioni di beni pubblici fa salva la competenza del giudice ordinario solamente ove si controverta su questioni di carattere meramente patrimoniale, con esclusione della qualificazione del rapporto concessorio (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 11 gennaio 2023, n. 375). Qualora, infatti, la determinazione del canone dipenda da una differente interpretazione e da una mutata classificazione della tipologia di occupazione, non può ritenersi che si controverta meramente sulla entità dei canoni dovuti, venendo in rilievo la qualificazione del tipo di utilizzazione delle aree concesse, con conseguente diversità di canone (cfr. Cass. civ., sez. un., 1 luglio 2010, n. 15644). Secondo, infatti, i precedenti della Suprema corte richiamati dal Consiglio di Stato: "3. Sulla questione della spettanza della giurisdizione in caso di rideterminazione dei canoni demaniali marittimi in applicazione della l. n. 296/2006 è sufficiente richiamare: a) l'ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 17 giugno 2010, n. 14614, da cui si desume che la previsione normativa secondo cui la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici, non si estende alle controversie "concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi...." (art. 133, co. 1, lett. b), c.p.a., già art. 5, l. Ta.r.) va interpretata nel senso che la giurisdizione del giudice ordinario ha per oggetto le controversie di contenuto meramente patrimoniale, ovvero inerenti quantificazione e pagamento dei corrispettivi in questione, e purché non entri in discussione la qualificazione del rapporto concessorio, con esercizio di poteri discrezionali da parte dell'Amministrazione, dovendosi riconoscere in tal caso la cognizione del giudice amministrativo, in presenza sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi; b) l'ordinanza delle Sezioni unite della Cassazione 1° luglio 2010, n. 15644 secondo cui la rideterminazione del canone di occupazione di beni del demanio marittimo da parte dell'Autorità portuale, a seguito di una differente interpretazione e di una mutata classificazione della tipologia di occupazione, spetta alla giurisdizione amministrativa, presupponendo un provvedimento amministrativo con cui l'Autorità incide sull'economia dell'intero rapporto concessorio, attraverso l'esercizio di poteri autoritativi. 4. Anche la giurisprudenza della Sezione ha affermato che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo per il contenzioso relativo ai provvedimenti di rideterminazione del canone demaniale per le concessioni marittime, in applicazione dell'art. 1, co. 251, l. n. 27 dicembre 2006, n. 296, trattandosi non di mera quantificazione del canone, ma di integrale revisione previa ricognizione tecnico-discrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere, in precedenza realizzate dal concessionario, nonché in considerazione dell'inamovibilità, o meno, delle stesse; la rideterminazione degli equilibri dell'intero rapporto concessorio, a seguito dell'applicazione della nuova normativa, non può dunque che configurare una fattispecie rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo, in conformità ai principi in precedenza richiamati (Cons. St, sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348)" (Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 2011, n. 787). Nel caso in esame l'oggetto del contendere è costituito dalla verifica della corretta interpretazione e qualificazione del rapporto di concessione, da cui discendono conseguenze in tema di determinazione del canone, essendo quest'ultimo un aspetto subordinato e condizionato dal primo. Venendo, dunque, in rilievo la verifica dell'azione autoritativa della pubblica amministrazione sull'economia dell'intero rapporto concessorio, il conflitto tra amministrazione e concessionario si configura secondo il binomio potere-interesse (v. Cass. civ., sez. un, 12 gennaio 2007, n. 411; il 23 ottobre 2006, n. 22661). In conclusione, l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa, (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado la causa deve essere rimessa al Tar, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Dunque la sentenza impugnata va annullata, con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar del Lazio, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8368 del 2021, proposto da Ca. Ga. ed altri, anche nella qualità di eredi della signora Li. De Ci., rappresentati e difesi dall'avvocato Ma. Fo., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Comune di Salerno, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Ba., Ni. Co. e An. At., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Società Re. Fe. It. s.p.a., non costituita in giudizio; nei confronti Provincia di Salerno, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. To., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Anas s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Autorità di Sistema Portuale Mar Tirreno Centrale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ba. Pi., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Prima 26 febbraio 2021, n. 519, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Salerno, della Provincia di Salerno, di Anas s.p.a. e dell'Autorità di Sistema Portuale Mar Tirreno Centrale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2024 il consigliere Angela Rotondano e uditi per le parti gli avvocati Fo., Co., At., Mi. in delega di Pi. e To.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il ricorso introduttivo del giudizio i signori Ca. - comproprietari di un'area sita nel Comune di Salerno, rappresentata da un costone scosceso sovrastante l'attuale via (omissis) (già strada statale (omissis)) di proprietà della Provincia di Salerno - impugnavano innanzi al Tribunale amministrativo per la Campania - Sezione staccata di Salerno i provvedimenti (l'ordinanza dirigenziale prot. n. 30522 del 22 febbraio 2014, l'ordinanza sindacale prot. n. 32788 e la nota prot. n. 32488 del 26 febbraio 2014) con cui il Comune di Salerno, a seguito del distaccamento da tale costone di alcuni massi rocciosi interessanti la strada sottostante, intimava, ai sensi dell'art. 54 del T.U.E.L., l'"esecuzione delle opere di verifica e di disgaggio delle parti instabili che incombono sulla strada al fine di garantire la percorribilità in sicurezza della sottostante strada SS. (omissis) ante crollo... (mediante) interventi sostitutivi in danno" e successivamente disponeva l'esecuzione di tali lavori (poi effettivamente eseguiti) in danno, ritenendo da loro dovuti i relativi costi. 1.1. I ricorrenti domandavano l'annullamento di tali atti, per violazione di legge, eccesso di potere per mancanza dei presupposti, difetto di istruttoria e motivazione, sostanzialmente in ragione della loro pretesa estraneità rispetto all'evento franoso, sostenendo che: - gli interventi intimati, trattandosi di opere di sostegno e conservazione della strada, spetterebbero all'amministrazione provinciale (ente proprietario della strada) ai sensi dell'art. 30, comma 4, seconda parte, del d.lgs. n. 285/1992 (c.d. "Codice della strada"); - in prossimità del costone, passerebbe (oltre alla cennata viabilità provinciale) una linea ferroviaria, un tratto autostradale della "Napoli - Salerno" nonché sarebbero stati avviati, nel sottosuolo, su iniziativa dell'Autorità Portuale di Salerno i lavori di realizzazione di una galleria nell'ambito del progetto c.d. "Po. Ov.", tutte circostanze che sarebbero state "ognuna da sola idonea ad incidere sulla stabilità del suolo e, quindi, a concorrere al verificarsi dell'intervenuta frana". 1.2. Si costituiva in giudizio il Comune di Salerno, difendendo la legittimità dei propri atti, siccome preceduti da una precisa e approfondita attività istruttoria posta in essere principalmente dalla Provincia di Salerno, nella qualità di ente titolare e gestore del tratto di strada interessato dalla frana verificatasi. 1.3. Si costituivano in giudizio anche l'Autorità Portuale di Salerno e la Provincia di Salerno, la quale versava in atti una dettagliata relazione del Dirigente del settore Lavori Pubblici dell'Ente, in cui si dava conto della natura degli eventi franosi verificatisi e della relativa istruttoria al riguardo. 1.4. Tutte le amministrazioni concludevano, dunque, per il rigetto del gravame sostenendo che fossero i ricorrenti tenuti alla manutenzione del costone roccioso di loro proprietà . 1.5. Con successivo ricorso per motivi aggiunti, i signori Ca. impugnavano l'ulteriore ordinanza sindacale n. 18 del 26 novembre 2019, con cui il Comune - a seguito del distacco dal costone di ulteriore materiale roccioso - ordinava loro, ai sensi dell'art. 54 del T.U.E.L. l'esecuzione di altri lavori di protezione e verifica delle parti instabili, al fine di garantire il ripristino della percorribilità della sottostante strada statale, ribadendo come tali opere, avendo "per scopo la stabilità o la conservazione della strada", sarebbero invece a totale carico della Provincia, quale ente proprietario della strada, ai sensi dell'art. 30 comma 4 del Codice della strada. Evidenziavano, altresì, i ricorrenti come gli episodi di frana sarebbero stati, comunque, causati dalle continue ed intense sollecitazioni dovute al passaggio di veicoli pesanti sulla confinante strada provinciale e sul sovrastante viadotto autostradale della "Salerno - Reggio Calabria", alla linea ferroviaria nonché ai lavori di escavazione della galleria "Po. Ov.", tutti fattori in grado ciascuno di compromettere la stabilità dei terreni interessati dalle frane. Insistevano, quindi, per l'annullamento anche di tale atto, assumendone la manifesta illegittimità per carenza assoluta di legittimazione passiva ad eseguire le opere di cui all'ordinanza nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto del presupposto e di istruttoria. 1.6. Per contro, le amministrazioni costituite in giudizio chiedevano il rigetto anche dei motivi aggiunti, sostenendo la legittimità delle determinazioni assunte. 1.7. Il Comune evidenziava, tra l'altro, di aver eseguito anche le ulteriori opere di cui all'ordinanza del novembre 2019, impugnata in sede di motivi aggiunti, e che pendeva innanzi al Tribunale civile di Salerno di un giudizio (n. r.g. 6460/2016), instaurato dai ricorrenti avverso i provvedimenti comunali tesi al recupero delle somme occorse per la messa in sicurezza del costone di loro proprietà, nell'ambito del quale era stata disposta una consulenza tecnica d'ufficio. 1.8. L'Autorità Portuale di Salerno depositava, invece, una relazione tecnica della ditta esecutrice dei lavori di perforazione, in corso in prossimità del costone per cui è causa, volta a confutare ogni preteso nesso di causalità di tali lavori con il dissesto del costone. 1.9. La Provincia eccepiva in rito l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse sia del ricorso principale che del ricorso per motivi aggiunti, in ragione dell'incontestata successiva esecuzione dei lavori intimati ai ricorrenti a cura del Comune di Salerno. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, oggetto dell'odierno gravame, il T.a.r. adito, disattesa in limine l'eccezione di improcedibilità sollevata dalla Provincia, atteso "il ragionevole interesse" dei signori Ca. a una definizione nel merito della controversia, nella quale erano impugnati provvedimenti che costituivano gli antecedenti logici e procedimentali dei successivi atti del Comune di recupero delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori (sui quali pende il relativo giudizio innanzi al giudice ordinario), ha respinto sia il ricorso introduttivo che i motivi aggiunti, ritenendo infondate tutte le censure dedotte nei confronti dei provvedimenti adottati dal Comune per fronteggiare la situazione di imminente pericolo riscontrata in relazione al cedimento del costone roccioso di proprietà dei ricorrenti, e ha condannato questi ultimi a rifondere le spese in favore del Comune resistente, compensandole con le altri parti. 3. L'appello avverso la sentenza di primo grado è affidato a quattro motivi così rubricati: "I. - Error in iudicando - violazione di legge (art. 30 - comma 4 d.lgs. n. -285/1992) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento) II - Error in iudicando - violazione di legge (art. 30 - comma 4 d.lgs. n. 285/1992) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento III. - Error in iudicando - violazione di legge (artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento IV. - Error in iudicando - violazione di legge (art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 30 del d.lgs. n. 285/1992 ed art. 54 del d.lgs. n. 267/2000) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - illogicità - travisamento". 3.1. Gli appellanti hanno, altresì, riproposto l'istanza istruttoria formulata in primo grado "al fine di accertare l'effettiva incidenza delle plurime concause in ordine al cedimento del costone roccioso". 3.2. Si sono costituiti in resistenza il Comune di Salerno, la Provincia di Salerno, l'Autorità Portuale. 3.3. In vista dell'udienza pubblica le parti hanno depositato memorie e repliche, precisando le rispettive tesi difensive. 3.4. In particolare, nella memoria di replica l'appellante, richiamato il contenzioso instaurato nei confronti degli enti che hanno realizzato sulle aree interessate dalle impugnate ordinanze alcune opere di pubblica utilità (relative al tratto ferroviario e autostradale Vietri-Salerno) e che è stato definito con le sentenze del Consiglio di Stato n. 9367 e 9368 del 31 ottobre 2023 (con cui sono stati respinti in parte gli appelli di Re. Fe. It. - R.F. e di Au. Me. It. con riferimento alla declaratoria di illegittimità del silenzio rifiuto serbato sulle istanze dei signori Ca. di adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell'art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, riconoscendo sostanzialmente l'obbligo di provvedere a carico di tali enti), hanno formulato istanza di rinvio dell'udienza fissata per la decisione del giudizio, evidenziando che la definizione di detti procedimenti assumerebbe "portata dirimente" in quanto l'"ipotesi di acquisizione delle aree in oggetto farebbe venir definitivamente meno il presupposto da cui muovono i provvedimenti impugnati (la presunta proprietà delle aree in capo agli odierni ricorrenti"). 3.5. Il Comune ha, invece, esposto che i signori Ca. hanno impugnato anche una successiva ordinanza sindacale urgente (prot. 34982 del 19 febbraio 2021), adottata a seguito di ulteriore crollo avvenuto il 10 febbraio 2021 che ha interessato il costone oggetto di causa, dinanzi allo stesso T.a.r. (ricorso n. 585/2021 R.G.) il quale, con sentenza n. 2940 del 12 dicembre 2023, ha respinto il ricorso, ritenendo legittima l'intimazione rivolta ai signori Ca. ad eseguire le opere di messa in sicurezza relativamente alla porzione di costone di proprietà . 3.5.1. Il Comune ha poi replicato che i giudizi relativi all'accertamento dell'irreversibile trasformazione dei fondi da cui sarebbe avvenuto il crollo (ricondotta dagli odierni appellanti all'operato dell'A.N.A.S. s.p.a, delle Au. me. s.p.a e della R.F. s.p.a., che avrebbero realizzato lavori autostradali e ferroviari) e alla correlata istanza ex art. 42 bis T.U. espropriazioni, equivarrebbero a "un'implicita confessione della sussistenza del loro diritto di proprietà sulle aree al tempo degli eventi franosi". 3.6. La Provincia di Salerno, nel costituirsi in giudizio, ha invece eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che i compiti di gestione e di vigilanza sul tratto stradale interessato da dissesti che hanno avuto origine da un costone di proprietà privata non potrebbero comportare a suo carico l'esecuzione di opere di manutenzione delle ripe laterali esterne al confine della strada. 3.7. All'udienza pubblica dell'11 gennaio 2024, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione. DIRITTO 4. In limine va disattesa l'istanza di rinvio formulata dagli appellanti (alle quali si sono opposte le altre parti del giudizio). L'istanza, infatti, non può essere accolta in quanto, come più approfonditamente si evidenzierà e contrariamente a quanto afferma parte appellante, il contenzioso concernente le domande di acquisizione sanante rivolte dai signori Ca. agli enti che hanno realizzato sulle aree oggetto delle ordinanze impugnate in primo grado opere di pubblica utilità che avrebbero determinato l'irreversibile trasformazione dei luoghi non hanno alcuna rilevanza ai fini della decisione del presente giudizio. 5. Tanto premesso, può procedersi all'esame dei motivi di gravame con cui è appellata la sentenza in epigrafe che ha ritenuto legittimi i provvedimenti urgenti, adottati dal Comune di Salerno, con i quali, a seguito di dissesti che nel tempo hanno interessato un costone roccioso sovrastante la strada statale (omissis), si è intimato ai medesimi appellanti, in qualità di proprietari, di eseguire le opere di messa in sicurezza a tutela della pubblica incolumità e della sicurezza della circolazione stradale. 6. In particolare, con il primo motivo gli appellanti contestano la sentenza in quanto li ha ritenuti responsabili dell'esecuzione delle opere di messa in sicurezza del costone roccioso per cui è causa "quali proprietari della ripa soprastante la strada provinciale", laddove dovrebbe applicarsi alla fattispecie l'articolo 30, comma 4, prima parte, del D.Lgs. n. 285/1992 (c.d. Codice della Strada), in forza del quale il proprietario dell'area è tenuto alla costruzione o riparazione delle opere di sostegno lungo le strade soltanto qualora trattasi di opere strumentali alla difesa del fondo di proprietà (precisamente, secondo il tenore testuale della norma, "qualora esse servano unicamente a difendere ed a sostenere i fondi adiacenti"), mentre obbligato ad eseguirle è l'ente proprietario della strada quando hanno per scopo la stabilità o la conservazione della strada stessa. 6.1. Su queste basi gli appellanti, richiamando vari precedenti del medesimo Tribunale amministrativo asseritamente relativi a vicende analoghe, ribadiscono di non essere tenuti all'esecuzione delle opere in questione, finalizzate a stabilizzare il costone in frana per garantire "la percorribilità della sottostante strada S.S. (omissis)" a tutela della pubblica incolumità dei soggetti che vi transitano. Le opere di messa in sicurezza sarebbero, invece, a carico della Provincia, quale ente proprietario della strada, o, comunque, delle pubbliche amministrazioni "a vario titolo coinvolte nel perseguimento delle finalità pubbliche sottese al transito viario". 6.2. Con il secondo motivo gli appellanti sostengono l'assenza di qualsivoglia obbligo manutentivo a loro carico anche sotto ulteriori profili. 6.2.1. Al riguardo, evidenziano che da una serie di elementi si trarrebbe la natura di opera pubblica degli interventi di messa in sicurezza. Nello specifico deducono che, a seguito degli eventi franosi che hanno interessato il costone roccioso, la stessa Amministrazione comunale ha eseguito i lavori di messa in sicurezza e, inoltre, che per le medesime finalità di tutela della pubblica incolumità sono state installate da enti pubblici reti metalliche di protezione del costone. Rappresentano poi che il Comune avrebbe anche provveduto a inserire i lavori nell'ambito del Piano Triennale delle Opere Pubbliche, oltre ad aver deliberato di candidare a finanziamento pubblico le opere di messa in sicurezza del costone soprastante la strada statale (omissis) Salerno - Vietri sul mare, e che le opere sono state poi effettivamente ammesse a finanziamento con successivo decreto ministeriale del 7 dicembre 2020 per un importo di Euro 980.000,00 (primo stralcio). Evidenziano, inoltre, che la Regione Campania, con decreto n. 98 del 23 marzo 2021, ha impegnato l'importo complessivo di Euro 400.000,00 (stimato per il costo dei lavori necessari alla rimozione del pericolo e alla riapertura della strada) in favore del Comune. 6.2.2. Da tali elementi si desumerebbe che l'obbligo di effettuare gli interventi di messa in sicurezza del costone roccioso sarebbe esclusivamente a carico delle pubbliche amministrazioni che hanno chiesto e conseguito finanziamenti pubblici per eseguire i lavori; dal che l'illegittimità dei provvedimenti impugnati con i quali il Comune tenta di riversarli sugli appellanti. 6.3. Con il terzo motivo gli appellanti sostengono l'erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i presupposti di contingibilità e urgenza per l'adozione delle ordinanze impugnate, laddove nella specie non sarebbe stato configurabile alcun pericolo di un danno grave e imminente. 6.3.1. Il difetto dei presupposti rileverebbe anche sotto altro profilo, in quanto, trattandosi di attività ordinaria, sussisterebbe la competenza dirigenziale, ai sensi dell'art. 107 del D. Lgs. n. 267/2000. 6.3.2. La sentenza avrebbe poi errato nel ritenere che l'urgenza di provvedere esonerasse l'amministrazione dallo svolgimento dei dovuti accertamenti, mentre, quale che sia la natura del potere esercitato (ordinario o straordinario), l'amministrazione è tenuta, ai sensi dell'art. 3 comma 1 della L. n. 241/1990, a motivare le proprie determinazioni "in relazione alle risultanze dell'istruttoria". 6.3.4. Nella specie, invece, non sarebbe neanche chiaro quale sia l'origine e la causa del distacco verificatosi, né se questo riguardi o meno le aree di proprietà degli appellanti. Anche la consulenza tecnica disposta nel giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno avrebbe dato atto dell'impossibilità di stabilire in modo puntuale la "provenienza dei massi e pietrisco che hanno caratterizzato i fenomeni franosi del 21 febbraio e del 16 giugno del 2014". In difetto di prova in ordine al punto di distacco dei massi e alle cause che lo hanno determinato non si sarebbe potuto far carico agli appellanti di rimuovere la situazione di pericolo. Sicché il Comune, coi provvedimenti impugnati, avrebbe soltanto perseguito la sviata finalità "di individuare un qualche destinatario, quale che fosse, per sottrarsi agli obblighi a suo carico". 6.3.5. Il difetto di istruttoria inficerebbe anche la sentenza appellata che ha omesso di disporre gli incombenti istruttori richiesti dai ricorrenti nel giudizio di primo grado. 6.4. Con il quarto motivo l'appellante lamenta la violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia da parte della sentenza di prime cure su plurime censure formulate con il ricorso introduttivo e coi motivi aggiunti. 6.4.1. In particolare, sarebbe assorbente l'omessa valutazione di profili di responsabilità addebitabili agli enti coinvolti i quali non avrebbero svolto alcuna istruttoria per chiarire le cause del distacco. 6.4.2. I crolli del materiale roccioso sarebbero imputabili alle attività di trasformazione dell'area nel tempo poste in essere da varie amministrazioni (tra le altre, ferrovia ed autostrada) e, da ultimo, causati dai lavori di escavazione della galleria "Po. Ov." dell'Autorità Portuale di Salerno. Ciò troverebbe conferma nella produzione documentale depositata dal Comune nel giudizio di primo grado, in particolare nella relazione del Settore Ambiente e Mobilità sul contenzioso per motivi aggiunti inerente l'ordinanza sindacale del 26 novembre 2019 (allegato sub 4 della produzione documentale), nella quale il Comune avrebbe chiarito che "non è comunque da escludere" che i distacchi ed i crolli sulla parete siano riconducibili all'esecuzione dei suddetti lavori. Ciò nonostante le richieste rivolte all'Autorità Portuale di avviare delle attività di monitoraggio per valutare tale eventualità sarebbero rimaste prive di riscontro. 7. I motivi di appello non sono fondati. 8. In primo luogo, non è condivisibile l'assunto secondo cui il primo giudice non avrebbe correttamente individuato la disciplina normativa applicabile alla fattispecie. 8.1. Invero, da un lato i dissesti che nel 2014 e nel 2019 hanno interessato il costone roccioso per cui è causa soprastante la strada provinciale si sono originati nelle particelle catastali di proprietà degli appellanti, dall'altro la porzione franata ha le caratteristiche fisiche che ne impongono la ricomprensione nell'ambito disciplinato dall'art. 31 che obbliga i proprietari delle ripe a provvedere alla manutenzione delle medesime. 8.2. Correttamente, quindi, il Comune prima e poi il Tribunale hanno rilevato l'inapplicabilità alla vicenda dell'art. 30, comma 4, prima parte, del Codice della strada, in quanto tale disposizione si riferisce soltanto alla "costruzione e riparazione di opere di sostegno lungo le strade", mentre nel caso di specie è stato ordinato agli odierni appellanti di provvedere alle opere di verifica e di disgaggio delle parti instabili del costone roccioso (sovrastante la strada provinciale), trattandosi di un obbligo manutentivo dell'area di loro proprietà che il legislatore chiaramente pone a loro carico, al fine di prevenire il ripetersi di smottamenti e cedimenti del terreno in grado di interessare la sede stradale, determinando una situazione di pericolo per la pubblica incolumità e la sicurezza della circolazione stradale. 8.3. Tali opere rientrano negli obblighi di manutenzione previsti nell'art. 31 del Codice della Strada (rubricato "Manutenzione delle ripe"). 8.3.1. In particolare, la disposizione normativa stabilisce che "i proprietari devono mantenere le ripe dei fondi laterali alle strade, sia a valle che a monte delle medesime, in stato tale da impedire franamenti o cedimenti del corpo stradale, ivi comprese le opere di sostegno di cui all'art. 30, lo scoscendimento del terreno, l'ingombro delle pertinenze e della sede stradale in modo da prevenire la caduta di massi o di altro materiale sulla strada. Devono altresì realizzare, ove occorrono, le necessarie opere di mantenimento ed evitare di eseguire interventi che possono causare i predetti eventi". 8.3.2. In base alla norma menzionata spetta, dunque, ai proprietari l'obbligo di provvedere alle opere di sostegno nelle ripe, per tali intendendosi, secondo la definizione recata dall'art. 3, n. 44, del D.Lgs. n. 285/1992, la "zona di terreno immediatamente sovrastante o sottostante le scarpate del corpo stradale rispettivamente in taglio o in riporto sul terreno preesistente alla strada". 8.3.3. Il successivo art. 14, comma 1, definisce, poi, i "Poteri e compiti degli enti proprietari delle strade", stabilendo, per quel che qui interessa, come "Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta". Va ancora sottolineato che, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria, l'art. 31 citato prevede la sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi, a spese dei titolari dei fondi. 8.3.4. Dal riportato quadro normativo discende, quindi, come le disposizioni di cui agli artt. 30 e 31 del Codice della Strada delineano un quadro stabile dei rapporti tra proprietari dei fondi finitimi e enti proprietari delle strade, addossando ai primi gli oneri della manutenzione delle ripe dei fondi laterali ovvero la realizzazione delle relative opere di mantenimento, così da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno ovvero alla caduta di massi o altro materiale sulla strada (cfr. in tal senso Cons. Stato, V, 31 maggio 2021, n. 4184). 8.3.5. Giova poi richiamare il parere del Consiglio di Stato n. 2158 del 9 maggio 2012, ove è stato chiarito che "l'art. 14 del Codice della Strada assegna all'ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade. Le ripe, ai sensi dell'art. 31 del Codice della Strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l'ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale". 8.4. In sintesi, in base alla norma incombono, dunque, sui proprietari obblighi manutentivi relativamente alle aree esterne al confine stradale e, in particolare, riguardo alle ripe situate nei fondi laterali alle strade, ai sensi dell'art. 31 cit., in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di massi o altro materiale sulla strada (Cons. Stato sez. III, 26 gennaio 2017, n. 329; si veda anche la più recente, Cons. Stato, sez. V, 9 giugno 2023, n. 5666). Pertanto, l'obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale in capo all'ente proprietario della strada non si estende alle aree estranee ad essa e circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade. 8.5. Ai riportati principi si è pienamente conformata la sentenza appellata. 8.5.1. Nel caso di specie trova applicazione l'art. 31, poiché i costoni rocciosi di proprietà degli appellanti non sono "aree interne al confine stradale" (come, del resto, dimostrano le immagini presenti nell'allegato fotografico della consulenza tecnica d'ufficio disposta in sede civile), per cui non può condividersi l'assunto di parte appellante in base al quale, avendo l'intervento ad oggetto opere di sostegno a vantaggio del sedime stradale, il relativo onere dovrebbe essere sostenuto dall'ente proprietario della strada. Infatti, è stato già chiarito (si veda Cons. Stato V, n. 4184/2021 cit.) che l'art. 31, D.Lgs. n. 285/1992, recante la disciplina della "manutenzione delle ripe", richiamando espressamente l'art. 30 del medesimo decreto, non limita l'intervento del proprietario delle ripe alle sole opere necessarie a sostenere i fondi adiacenti, escludendo per converso quelle strumentali alla sicurezza della strada. La disposizione richiamata è, piuttosto, chiara nello stabilire che, ove le opere di sostegno insistano sulle ripe, esse sono sempre e comunque a carico del proprietario del fondo, in linea con la disciplina generale in materia di responsabilità aquiliana secondo cui "ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia" (art. 2051 c.c.). In definitiva, l'art. 31 contiene una disciplina speciale e derogatoria per le ripe rispetto a quella dell'art. 30 con riferimento alla ripartizione "ordinaria" degli oneri delle opere di sostegno. Ne segue che, rientrando la fattispecie nell'ambito di applicazione del citato art. 31, incombe sugli appellanti l'obbligo di curare il mantenimento della ripa ricompresa nei mappali in loro proprietà onde scongiurare i potenziali pericoli derivanti da frane o smottamenti del terreno. 8.5.2. È poi appena il caso di osservare che l'esecuzione delle opere necessarie a garantire la stabilità e la conservazione della strada non può impropriamente confondersi con l'esecuzione di opere urgenti volte a garantire la sicurezza del traffico veicolare, a tutela della pubblica e privata incolumità, che costituisce il fondamento delle impugnate ordinanze adottate ex art. 54 del d.lgs. 267/2000. Gli interventi di cui si discute non sono infatti opere di sostegno connesse e funzionali alla realizzazione della strada pubblica (come quelle di cui all'art. 30 cit.) bensì preordinate ad evitare franamenti dal costone di proprietà degli appellanti sulla strada pubblica. 8.6. In un contesto di assoluta e sicura urgenza e di concreto pericolo per la pubblica incolumità e la sicurezza della circolazione stradale il Comune ha, dunque, bene indirizzato le ordinanze impugnate nei confronti dei soggetti che risultano comproprietari dell'area interessata dall'intervento di messa in sicurezza, laddove nulla consentiva (né consente allo stato) di avallare le alternative ricostruzioni qui offerte dagli appellanti, secondo cui a ciò sarebbero tenuti il Comune o, comunque, le amministrazioni "a vario titolo coinvolte nel perseguimento delle finalità pubbliche sottese al transito viario". 8.7. In definitiva, alla luce delle risultanze in atti, è immune dalle censure formulate la determinazione dello stato dei luoghi e la loro qualificazione in relazione alle prescrizioni date al riguardo dal codice della strada, operate dall'appellata sentenza, laddove ha concluso che incombe sui ricorrenti e non sull'ente proprietario della strada l'onere di provvedere alle prescritte opere di consolidamento e messa in sicurezza del versante roccioso, in quanto gli interventi ordinati ricadono nelle ripe di loro proprietà . 8.8. Corretta è dunque la ricostruzione del quadro fattuale e normativo di riferimento posta dall'amministrazione comunale a fondamento dei provvedimenti impugnati che hanno individuato negli odierni appellanti i soggetti responsabili ad eseguire le intimate opere di messa in sicurezza. Il tratto roccioso interessato dagli interventi di consolidamento e messa in sicurezza rientra nelle ripe di proprietà degli appellanti che, pertanto, devono manutenerle in modo da impedire e prevenire le descritte situazioni di pericolo incombenti sulla sede viaria. 8.9. Inoltre, deve anche evidenziarsi come la consulenza tecnica d'ufficio disposta nel giudizio civile esperito dagli appellanti per contestare l'attribuzione dei costi della messa in sicurezza della parete rocciosa ha chiarito in modo esaustivo l'effettiva corrispondenza tra le particelle catastali di proprietà Ca. e i punti di attivazione del moto franoso, rilevando che "...le parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada e sul terrazzo suindicati, interessati dai dissesti, sono quelle che ricadono nelle particelle di proprietà Ca. Al. - eredi Ca. che si sviluppano per circa 100 m di altitudine rispetto alla quota della sede stradale..." (cfr. pagg. 22 di 23 della relazione di c.t.u.- doc. 2 della produzione di parte del Comune di Salerno depositata il 23 dicembre 2020). Anche la documentazione fotografica allegata alla relazione tecnica redatta dal consulente di parte dell'Autorità di Sistema Portuale individua i luoghi in cui ebbero a verificarsi gli eventi franosi all'interno della proprietà degli appellanti. 9. Sono, del pari, infondate le doglianze articolate con il secondo motivo con cui si pretende di ricavare la natura pubblicistica delle opere di manutenzione, eseguite sul predetto costone, di proprietà degli appellanti, in occasione degli eventi franosi, dall'utilizzo di risorse pubbliche per effettuare i lavori in danno. 9.1. Per converso, il Collegio rileva come nessuno degli elementi addotti dall'appellante - entità dei costi, finalità dei lavori, natura dei finanziamenti da utilizzare e inserimento delle opere di messa in sicurezza della strada nel Piano Triennale dei lavori pubblici - facciano propendere per il carattere pubblicistico delle opere intimate. 9.2. Invero, non è in discussione che l'Amministrazione comunale abbia richiesto l'assegnazione dei finanziamenti da utilizzare per la messa in sicurezza del costone roccioso che sovrasta la strada 18 nel tratto Salerno - Vietri sul mare: ma ciò è avvenuto con riguardo alle aree di competenza degli enti locali e non per quelle di proprietà dei privati. 9.3. Sotto altro concorrente profilo, l'importo di circa Euro 400.000,00 stanziato dalla Regione Campania, destinato al Comune di Salerno, riguarda i lavori eseguiti dall'amministrazione comunale in danno agli odierni appellanti e corrisponde all'importo stimato dai tecnici comunali, successivamente alla frana, al fine di effettuare le urgenti opere di disgaggio e di ripristino delle condizioni di sicurezza del transito veicolare sulla strada (opere che l'amministrazione ha poi eseguito in sostituzione degli appellanti). 9.4. In definitiva, non è condivisibile l'iter argomentativo di parte appellante quanto alla dedotta natura pubblica delle opere in questione (in ragione dell'attivazione di procedure di ammissione a finanziamenti pubblici, eguali nell'importo alla stima effettuata nei provvedimenti impugnati, nonché dell'inserimento delle attività di ripristino e messa in sicurezza del costone roccioso soprastante la strada nell'ambito del piano triennale delle opere pubbliche). Difatti, le iniziative sopra delineate sono state esclusivamente volte a garantire la copertura finanziaria per l'esecuzione in danno degli interventi. 9.5. Per quanto attiene, infine, alla presenza di reti metalliche da tempo installate nel tratto di versante roccioso ricadente nella ripa oggetto dell'ordinanza sindacale, non è stato provato in giudizio, neppure a livello indiziario, che tali reti siano state posizionate dalle Amministrazioni intimate ed in special modo dall'ente gestore della strada (la Provincia di Salerno). Ad ogni modo, anche l'individuazione del soggetto che ha posizionato le reti sulla ripa risulta, per il caso di specie, del tutto irrilevante. Infatti, gli interventi di installazione delle reti, ragionevolmente volti a mitigare il rischio connesso al potenziale crollo di massi o di altro materiale sulla sede stradale, sono opere comunque rientranti nella previsione di cui all'art. 31 del Codice della Strada, sicché non assume alcuna rilevanza ai fini della decisione l'identità del soggetto che a suo tempo le posizionò in loco. 9.6. In conclusione, se, per un verso, come detto nell'esame del precedente motivo, sulla base del quadro normativo che le riportate disposizioni del Codice della Strada concorrono a delineare spettano ai proprietari delle aree estranee alla sede stradale i relativi obblighi di manutenzione, per altro verso neanche le ulteriori circostanze prospettate con il secondo motivo valgono a smentire la linearità dell'azione amministrativa, indirizzata unicamente dall'urgenza di ripristinare le condizioni di sicurezza per la pubblica incolumità e la circolazione stradale e, quindi, volta ad acquisire le risorse necessarie ad eseguire celermente gli interventi a ciò finalizzati. 9.7. In tale quadro, anche gli argomenti addotti dall'appellante con il mezzo in esame non sovvertono il corretto ragionamento del primo giudice e non apportano alcun elemento di sostanziale novità alla controversia. 10. Alla luce di quanto sin qui esposto, neppure possono condividersi i rilievi formulati con il terzo mezzo secondo cui qui non sussisterebbe l'attualità e la gravità del pericolo, stante l'assenza di un rischio concreto di un danno grave e imminente. 10.1. Per contro, sussistevano i presupposti della necessità, urgenza e attualità del pericolo per l'adozione delle ordinanze sindacali impugnate. 10.2. In generale, il potere sindacale contingibile e urgente presuppone, da un lato, una condizione di pericolo effettivo, da evidenziare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile che possa provocare rischi imminenti per la salute o per l'incolumità pubblica, alla quale non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. Ai fini del legittimo utilizzo del potere di ordinanza rileva, comunque, non la circostanza estrinseca che il pericolo sia correlato ad una situazione preesistente ovvero a un evento nuovo e imprevedibile, ma la sussistenza intrinseca della necessità e dell'urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici da tutelare, a prescindere sia dalla prevedibilità, che, soprattutto, dall'imputabilità della situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere. La giurisprudenza è, poi, concorde nell'affermare come, affinché il Sindaco possa legittimamente ricorrere a tale strumento sia comunque indispensabile la sussistenza, l'attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente. 10.3. Ciò posto, la sentenza di prime cure non ha affatto reputato la situazione di urgenza di per sé sufficiente a legittimare una carenza motivazionale e istruttoria dei provvedimenti contingibili e urgenti, come sostiene parte appellante. 10.4. Tale affermazione non trova, infatti, riscontro nella chiara motivazione della decisione appellata. 10.5. Tutt'altro è il percorso argomentativo seguito dal primo giudice. Quest'ultimo, ravvisata correttamente l'urgenza di provvedere (atteso l'eccezionale pericolo per l'incolumità pubblica che rendeva indispensabili interventi immediati e indifferibili, in ragione dei crolli che avevano interessato la sede stradale) solo ha condivisibilmente osservato che ciò esonerasse in prima battuta l'autorità procedente dallo svolgere accertamenti complessi e laboriosi, potenzialmente incompatibili con l'esigenza di pronta adozione del provvedimento contingibile e urgente, ma, al contempo, ha pure precisato come "la sommarietà degli accertamenti non può riguardare il quadro giuridico di riferimento, che invece deve essere sempre approfonditamente conosciuto dall'Amministrazione anche nei casi che richiedano un immediato intervento". La sentenza ha poi anche correttamente evidenziato che ai fini dell'emanazione delle ordinanze contingibili di cui all'art. 54, T.U.E.L. può prescindersi dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso, stante l'indispensabile celerità che caratterizza il relativo intervento. Tali provvedimenti non hanno, infatti, carattere sanzionatorio, non presupponendo la responsabilità del soggetto intimato (nel caso di specie da individuarsi, come visto, ai sensi dell'art. 31 del Codice della strada, nel proprietario del costone roccioso interessato dai distaccamenti), bensì solo ripristinatorio, in quanto diretti alla rimozione dello stato di pericolo e alla prevenzione di qualsiasi danno alla salute e all'incolumità pubblica; con la conseguenza che il relativo ordine potrà essere legittimamente indirizzato al proprietario dell'area, quale soggetto che si trova con questa in un rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di pericolo, ancorché detta situazione non possa essergli imputata, ben potendo costui, poi, eventualmente rivalersi nei confronti di eventuali soggetti terzi ritenuti responsabili. 10.6. Tanto chiarito, nel caso di specie i tempi brevi imposti dall'esigenza di provvedere non hanno in concreto impedito all'Amministrazione comunale l'attenta considerazione di tutte le circostanze apprese nel corso dell'istruttoria (seppur rapidamente) condotta, che hanno consentito di individuare negli odierni appellanti i soggetti tenuti all'esecuzione degli interventi volti a rimediare alla situazione di pericolo determinata dai distacchi verificatisi sulla parete rocciosa ricadente nell'area di loro proprietà . 10.7. Al riguardo, quanto all'asserita mancanza di qualsivoglia istruttoria per individuare la particella catastale da cui ha avuto origine il dissesto, si tratta anche qui di assunto infondato. Sono in atti i rapporti di intervento dei Vigili del Fuoco e del Settore Viabilità e Trasporti della Provincia di Salerno nonché i provvedimenti dirigenziali del Settore ambiente del Comune di Salerno. In particolare, sono eloquenti gli atti della Provincia di Salerno: nel rapporto prot. n. 21936 del 5 giugno 2014 del Settore Grandi Opere, Lavori Pubblici e Viabilità (depositato nel giudizio di primo grado il 17 marzo 2015) a pag. 3 si riferisce che "... Tale evento (il crollo di materiale lapideo) ha creato e reso evidente un grave pericolo per l'incolumità e la sicurezza dei cittadini, proveniente da costoni rocciosi di esclusiva proprietà privata (...ed Eredi Ca.), che per essere eliminato prevede l'esecuzione di attività, necessarie ed indifferibili, per superare l'emergenza connessa all'evento stesso...", precisando che anche per i nuovi eventi di distacchi dai costoni prospicienti la strada del febbraio 2014 "le aree oggetto del crollo sono ricadenti nelle aree di proprietà ... e degli eredi Ca....". 10.8. Inoltre, anche i richiami operati alla consulenza tecnica d'ufficio disposta in sede civile, depositata agli atti del presente giudizio, non confermano le tesi di parte appellante. Infatti, a tale proposito la relazione del consulente tecnico ha solo chiarito che, data l'altezza del costone, non v'è certezza assoluta sul punto preciso del distacco dei massi ("non è stato possibile eseguire un riscontro puntuale della provenienza dei massi e pietrisco che hanno caratterizzato i fenomeni franosi del 21 febbraio e del 16 giugno del 2014"), ma ha sostanzialmente concluso che detto punto ricade certamente all'interno della particella di proprietà Ca. ("si può ragionevolmente concludere che le pietre e il pietrisco dei fenomeni franosi si sono distaccate da zone di quota non troppo elevata rispetto a quella della strada e quindi ricadenti nelle particelle di proprietà Ca. Al. che successivamente sono state oggetto di lavori"). Giova anzi richiamare ancora, a chiarimento dell'effettiva corrispondenza tra le particelle catastali di proprietà Ca. e i punti di attivazione del moto franoso, i passaggi - già sopra riportati - della relazione di consulenza laddove si evidenzia come sia "tuttavia... ben chiaro che le parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada e sul terrazzo suindicati, interessati dai dissesti, sono quelle che ricadono nelle particelle di proprietà Ca. Al. - eredi Ca. che si sviluppano per circa 100m di altitudine rispetto alla quota della sede stradale..." (pagg. 22 di 23 della consulenza tecnica). La relazione di consulenza (cfr. pag. 19) ha, dunque, chiarito che "le particelle materialmente interessate dai lavori, come si evince dalle documentazioni prodotte dalla Direzione dei lavori, sono state le nn. (omissis) foglio (omissis) per quelli relativi all'evento del 21/02/2014 e la n. (omissis) foglio (omissis) per i lavori relativi all'evento del 16/06/2014. Le tre particelle suindicate risultano intestate a Ca. Al., padre defunto dei ricorrenti." 10.9. Insomma se è ben vero che l'urgenza della situazione contingente esonerava l'amministrazione dal compiere nell'immediato laboriosi accertamenti istruttori, è anche vero che, nel caso di specie, l'Amministrazione ha comunque effettuato un'approfondita valutazione delle circostanze relative al crollo del costone roccioso. Tale valutazione è poi esitata nei provvedimenti impugnati che, previa corretta individuazione dei proprietari delle particelle interessate, hanno ordinato a questi ultimi le opere di messa in sicurezza finalizzate alla tutela della incolumità pubblica e della sicurezza del territorio. Ne consegue che correttamente la sentenza impugnata ha respinto le censure di difetto di istruttoria e di motivazione degli atti impugnati. 11. È infine infondato il quarto motivo di appello. 11.1. La motivazione della sentenza, ancorché concisa, è esaustiva e affronta tutte le questioni emerse nel corso del giudizio negli aspetti essenziali, senza tralasciarne alcuna. 11.2. In particolare, quanto alla pretesa riconducibilità dell'evento franoso ai lavori della galleria "Sa. Po. Ov.", si osserva che l'Autorità portuale ha richiamato gli esiti della perizia effettuata dalla società NT. s.r.l. (incaricata dall'appaltatore) nella parte in cui ha verificato che "le onde sismiche sono inferiori ai limiti che le normative DIN 4150-3 indicano, come tali da garantire al 100% la non insorgenza di danni, anche a livello cosmetico". 11.3. In ogni caso gli appellanti non hanno fornito nel presente giudizio il benché minimo principio di prova sulla esistenza di interferenze (topografiche e temporali) tra la realizzanda galleria e le aree oggetto di causa, interferenze che risultano anzi smentite dalle puntuali deduzioni svolte dall'Autorità portuale (cfr. memoria di replica). 11.4. Quest'ultima, sulla base delle mappe catastali, ha puntualmente dimostrato che rispetto alle aree oggetto di causa la galleria in questione sottopassa solo la particella (omissis) (oggetto del dissesto del 16 giugno 2014) e che però a tale data i fronti di scavo della galleria distavano da dette aree circa 400 m; ma, soprattutto, lo scavo della galleria nella zona sottostante la particella n. (omissis) risultava eseguito nel periodo ricompreso tra i mesi di novembre 2013 e gennaio 2014 (cioè ben sei mesi prima dell'evento franoso). Per il restante tracciato della galleria non vi è invece (la circostanza non è oggetto di specifica confutazione) alcuna interferenza verticale con le altre particelle oggetto di causa e di proprietà degli appellanti (nello specifico con le particelle nn. (omissis) che planimetricamente distano dai circa 45 m. ai circa 150 m-). 11.5. Anche la relazione del Settore Ambiente e Mobilità depositata in data 23 dicembre 2020, richiamata da parte appellante, non conferma in alcun modo una siffatta correlazione tra il crollo del costone roccioso e i lavori di esecuzione della suddetta galleria, precisando anzi che "Non risulta dimostrato da alcuna documentazione tecnica o da alcuna sentenza che l'esecuzione di "Sa. Po. Ov." determini distacchi e crolli sulla parete in superficie...". 11.6. Concludendo sul punto, non si è raggiunta alcuna prova che i moti franosi originatisi nella proprietà Ca. siano causalmente riconducibili a detti lavori; in ogni caso, trattasi di aspetto manifestamente irrilevante ai fini della decisione del presente giudizio, che non costituisce la sede naturale di un siffatto accertamento. 12. Le risultanze di causa non danno adito a dubbi sul fatto che i crolli si siano originati dal costone roccioso sito in proprietà degli appellanti. 13. Non può dunque essere accolta, in quanto irrilevante ai fini della decisione, l'istanza istruttoria, riproposta in questa sede dall'appellante, di una verificazione o consulenza tecnica d'ufficio finalizzate ad "accertare l'effettiva incidenza delle plurime concause in ordine al cedimento del costone roccioso". 13.1. Al riguardo, si osserva che la sussistenza di eventuali responsabilità di terzi nella causazione degli eventi franosi (che parte appellante ipotizza essere stati causati dai lavori di competenza dell'Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale ovvero da passati interventi svolti da Ferrovie dello Stato e dalla società Autostrade), oltre ad essere rimasta mera asserzione sfornita di qualsivoglia dimostrazione anche a livello indiziario (e, come è noto, l'attività istruttoria di questo giudice regolata dall'art. 63 cod. proc. amm. non può sopperire alle carenze probatorie riferibili alle parti del processo), è estranea al tema dell'odierno giudizio, che verte sulla legittimità degli atti amministrativi impugnati e prescinde dall'imputabilità a terzi delle cause dei franamenti. 13.2. Infatti, tale profilo che attiene alla imputabilità della situazione di pericolo (e, dunque, in definitiva all'accertamento delle cause dei crolli) rileva semmai ai fini della individuazione del soggetto su cui vanno definitivamente poste le spese sostenute dall'amministrazione comunale, nell'ambito del giudizio civile a ciò preposto. Per converso, nell'ambito del presente giudizio concernente la legittimità dei provvedimenti contingibili e urgenti, quel che rileva (e che risulta, soprattutto, debitamente accertato in questa sede) è la corretta individuazione dei soggetti responsabili dell'esecuzione delle opere di messa in sicurezza sulle parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada, interessati dai dissesti. 14. Infine, per completezza, sulle ulteriori deduzioni difensive svolte da parte appellante il Collegio osserva quanto segue. 15. Nessun rilievo assumono, in senso contrario, le note della Provincia di Salerno del 15 e del 19 febbraio 2021 -successive ai fatti causa e riferite ad eventi franosi dovuti alle eccezionali precipitazioni del febbraio 2021 - che attestano soltanto che l'ente, quale soggetto gestore del tratto di strada in questione, ha provveduto ad interdire il traffico veicolare e a svolgere, in somma urgenza, attività ispettive e di verifica della staticità del costone quantificando tempi e costi per l'esecuzione degli interventi necessari alla rimozione del pericolo. 16. Anche dalle richiamate sentenze del Consiglio di Stato n. 9367 e n. 9368 del 31 ottobre 2023 non possono trarsi argomenti a sostegno delle tesi di parte appellante, trattandosi di pronunce che non hanno portata dirimente rispetto alle questioni oggetto di giudizio. 16.1. In particolare, la sentenza n. 9368/2023 ha definito il contenzioso instaurato dai signori Ca. innanzi al T.a.r. Salerno contro la Re. Fe. It. s.p.a., avente ad oggetto la declaratoria d'illegittimità del silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza del 29 dicembre 2021, con la quale gli odierni appellanti avevano chiesto alla suddetta società di restituire l'area di loro proprietà, interessata dai lavori di realizzazione del tratto ferroviario, previo ripristino dello stato dei luoghi e pagamento delle dovute indennità, ovvero di adottare un provvedimento ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/01, con la liquidazione dell'indennizzo previsto dalla norma. Tra le particelle interessate dai lavori, i signori Ca. hanno indicato anche la n. (omissis), interessata dal crollo oggetto del presente giudizio. Con tale decisione il Consiglio di Stato ha rigettato in parte il gravame della suddetta società, limitatamente alla declaratoria dell'illegittimità del silenzio-inadempimento serbato sull'istanza degli originari ricorrenti e all'obbligo di R.F. di pronunciarsi su di essa con un provvedimento espresso, ma lo ha accolto per il resto, respingendo, in riforma della sentenza appellata, le ulteriori domande di accertamento e di condanna proposte in primo grado dai ricorrenti. In particolare, la sentenza in questione ha ritenuto "meritevoli di accoglimento le doglianze svolte da RT. s.p.a. circa l'erroneità della pronuncia impugnata nella parte relativa all'accertamento della spettanza ai ricorrenti del bene della vita richiesto con la loro istanza, alla declaratoria della fondatezza della domanda risarcitoria svolta in rapporto all'occupazione senza titolo e alla determinazione del concreto contenuto del provvedimento che, sia nell'ipotesi di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001 sia in quella di restituzione dei fondi asseritamente occupati, la società avrebbe dovuto adottare al riguardo". 16.2. Ciò posto, va comunque ribadito che il suddetto giudizio promosso dagli appellanti non condiziona l'esame della presente vicenda, concernendo la realizzazione di un tratto di linea ferroviaria sulle loro proprietà, fatto rispetto al quale gli odierni appellanti non hanno fornito alcuna prova concreta della dedotta riconducibilità dell'evento franoso. Anzi, come bene osserva la difesa del Comune le argomentazioni dell'appellante, nel richiamare l'istituto dell'acquisizione sanante ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, postulano la proprietà delle aree in discussione in capo agli stessi appellanti, finendo per fornire sostanziale conferma della correttezza dell'istruttoria posta in essere dall'Amministrazione, esitata nella loro individuazione quali legittimi destinatari dei provvedimenti impugnati; il che, come evidenziato, costituisce il vero thema decidendum dell'odierno giudizio. 16.3. La sentenza n. 9367/2023 scaturisce, invece, da due giudizi di appello riuniti (R.G. n. 4725/2023 e n. 4877/2023), proposti rispettivamente da ANAS s.p.a. e da Au. me. s.p.a., avverso la sentenza n. 999 del 28 aprile 2023 del T.a.r. Salerno, che aveva dichiarato l'obbligo delle due società di pronunciarsi sull'istanza dei signori Ca. del 29 dicembre 2021, finalizzata alla restituzione dell'area asseritamente occupata ovvero all'adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis del citato d.P.R. 327/2001 di loro proprietà che sarebbero stati occupati e irreversibilmente trasformati dalla realizzazione dell'infrastruttura pubblica senza la conclusione di un regolare procedimento di esproprio. Con tale pronuncia Consiglio di Stato ha accolto integralmente il primo gravame e in parte il secondo, respingendo per entrambi le ulteriori domande di accertamento e di condanna proposte in primo grado dai ricorrenti, evidenziando che la domanda di "accertamento - in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell'art. 133 comma 1 lett. g) c.p.a.- dell'illegittimità dell'occupazione dell'area di proprietà dei ricorrenti da parte di A.N.A.S. S.p.a e Au. me. S.p.a, nonché per la condanna delle stesse alla restituzione dell'area in oggetto, previo ripristino dello stato dei luoghi e pagamento delle dovute indennità ovvero, in alternativa, all'adozione di un provvedimento ex art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001" non avrebbe, infatti, potuto in nessun caso essere accolta, come statuito, invece, dal T.a.r. La domanda risultava, infatti, completamente sprovvista dell'allegazione degli indispensabili elementi fattuali e giuridici - circa l'esatta individuazione dei fondi che sarebbero stati occupati e delle modalità e dei tempi del procedimento espropriativo che sarebbe stato iniziato e non portato a conclusione - tali da renderne possibile l'identificazione e il successivo esame. 17. Per tutto quanto esposto, l'appello è infondato e va respinto, con conferma della sentenza impugnata. 18. Le peculiarità della vicenda processuale e la particolarità delle questioni trattate consentono di ravvisare giusti motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Dispone compensarsi tra tutte le parti costituite le spese del grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Angela Rotondano - Consigliere, Estensore Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Elena Quadri - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ro.La. nato a E il (Omissis) Da.Br. nato a E il (Omissis) avverso la sentenza del 06/11/2023 della CORTE APPELLO di SALERNO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; udito il PG nella persona del Sostituto Procuratore SABRINA PASSAFIUME che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai soli fini civilistici. udito il difensore l'avvocato CO.GI. del foro di SALERNO in difesa della parte civile Fr.Ca., che ha chiesto il rigetto dei ricorsi come da conclusioni scritte depositate in udienza unitamente alla nota spese udito il difensore l'avvocato VE.FA. del foro di SALERNO in difesa di Da.Br., che riportandosi ai motivi chiede l'accoglimento del ricorso. Udito il difensore l'avvocato ME.MA. del foro di SALERNO in difesa di Ro.La., che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ro.La. d'appello di Salerno con sentenza del 6 novembre 2023, in riforma della sentenza del Tribunale di Salerno del 29 gennaio 2019 di assoluzione nei confronti di Ro.La. e Da.Br. in ordine al reato di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen., commesso in danno di Fa.Ca. in E (sinistro verificatosi il 10 gennaio 2010 con evento morte il 12 febbraio 2010), su appello della parte civile, ha condannato i predetti Ro.La. e Da.Br. in solido al risarcimento del danno nei confronti degli eredi di Fa.Ca. da liquidarsi in separata sede. Il processo ha ad oggetto un incidente stradale, ricostruito nella sentenza impugnata nel modo seguente. Alle ore 2.30 del 10 gennaio 2010, Fa.Ca. a bordo della sua autovettura Ford Fiesta stava percorrendo la SS 19 in direzione B, quando in agro del Comune di E, in un tratto di strada curvilineo destrorso ad ampio raggio, con il fondo bagnato caratterizzato da zone di accumulo di acque meteoriche, e pioggia in atto, a causa della presenza di accumuli di acqua, aveva sbandato verso il margine destro della carreggiata, impattando contro un muretto, e poi ruotato in senso antiorario di circa 120 gradi. A causa dell'urto, Fa.Ca. aveva riportato lesioni in conseguenza delle quali era deceduto il 12 febbraio 2010. Gli addebiti di colpa nei confronti di Ro.La., nella qualità di Dirigente dell'Area Sviluppo del territorio del Comune di E, e di Da.Br., nella qualità di responsabile del Servizio Manutenzione del medesimo Comune, sono stati individuati nella imperizia e nella violazione dell'art. 14 del D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 per avere omesso, ciascuno in relazione alle proprie competenze di provvedere alla adeguata ed efficace manutenzione, gestione, pulizia e controllo tecnico dell'efficienza del tratto della SS n. 19 delle Calabrie rientrante nella competenza manutentiva del comune di E, interessato dalla presenza di caditoie occluse; più specificamente per aver omesso di rendere efficiente il deflusso delle acque meteoriche dalla sede stradale, mediante la costante e sistematica pulizia delle due caditoie esistenti dal fogliame e dal terriccio che le occludevano, e per avere così reso inevitabile il fenomeno dell'aquaplaning in caso di pioggia. 2. Avverso la sentenza d'appello Ro.La. e Da.Br. hanno proposto, a mezzo di difensore, due distinti atti di ricorso di contenuto identico, formulando due motivi. 2.1 Con il primo motivo, hanno dedotto la violazione di Legge e il vizio di motivazione in relazione alla avvenuta esecuzione dell'attività di manutenzione delle caditoie. I difensori osservano che erano state acquisite in atti, già nel processo di primo grado, le determine di spesa del Comune di E concernenti la pulizia ordinaria dei tombini, ovvero la determina n. 327 del 13 ottobre 2009 di affidamento dei lavori di pulizia delle griglie e caditoie e alla ditta (...) Spa e la determina n. 26 del 28 gennaio 2010 di liquidazione del compenso per la pulizia delle griglie e caditoie stradali alla (...) Spa. Ro.La. di Appello aveva svilito il valore probatorio di tali documenti, richiamando per relationem sul punto le argomentazioni della sentenza di primo grado e rilevando che la determinazione di affidamento lavori non valeva a provare che questi fossero stati effettivamente effettuati, a fronte della documentazione fotografica in atti scattata poche ore dopo il sinistro, in cui erano visibili i tombini intasati da fogliame e pietrisco. In proposito i ricorrenti osservano, da un lato, che nella sentenza di primo grado nulla era stato affermato al riguardo e, dall'altro, che era stato comunque travisato il contenuto di tali documenti, in quanto nella determina di pagamento, atto pubblico fidefacente, si dava atto che i lavori erano stati regolarmente effettuati. Le delibere valevano a chiarire che l'intervento manutentivo era stato richiesto il 13 ottobre 2009 e correttamente eseguito alla data di presentazione della fattura, il 25 novembre 2009, ovvero poco più di un mese prima del verificarsi dell'incidente. 2.2. Con il secondo motivo hanno dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta esigibilità della condotta omessa in capo ai ricorrenti Ro.La. e Da.Br. Dopo che la sentenza di primo grado aveva evidenziato come la strada non fosse mai stata segnalata come pericolosa, Ro.La. non si era soffermata su tale aspetto e non aveva chiarito in base a quali indici di pericolosità o altri elementi l'intervento di manutenzione avrebbe dovuto essere ripetuto a distanza di così breve tempo: i giudici non avevano indicato il momento in cui la occlusione delle caditoie si era determinata, né quali regole cautelari imponessero di tenere la condotta omessa, ovvero la 1. Ro.La. d'appello di Salerno con sentenza del 6 novembre 2023, in riforma della sentenza del Tribunale di Salerno del 29 gennaio 2019 di assoluzione nei confronti di Ro.La. e Da.Br. in ordine al reato di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen., commesso in danno di Fa.Ca. in E (sinistro verificatosi il 10 gennaio 2010 con evento morte il 12 febbraio 2010), su appello della parte civile, ha condannato i predetti Ro.La. e Da.Br. in solido al risarcimento del danno nei confronti degli eredi di Fa.Ca. da liquidarsi in separata sede. Il processo ha ad oggetto un incidente stradale, ricostruito nella sentenza impugnata nel modo seguente. Alle ore 2.30 del 10 gennaio 2010, Fa.Ca. a bordo della sua autovettura Ford Fiesta stava percorrendo la SS 19 in direzione B, quando in agro del Comune di E, in un tratto di strada curvilineo destrorso ad ampio raggio, con il fondo bagnato caratterizzato da zone di accumulo di acque meteoriche, e pioggia in atto, a causa della presenza di accumuli di acqua, aveva sbandato verso il margine destro della carreggiata, impattando contro un muretto, e poi ruotato in senso antiorario di circa 120 gradi. A causa dell'urto, Fa.Ca. aveva riportato lesioni in conseguenza delle quali era deceduto il 12 febbraio 2010. Gli addebiti di colpa nei confronti di Ro.La., nella qualità di Dirigente dell'Area Sviluppo del territorio del Comune di E, e di Da.Br., nella qualità di responsabile del Servizio Manutenzione del medesimo Comune, sono stati individuati nella imperizia e nella violazione dell'art. 14 del D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 per avere omesso, ciascuno in relazione alle proprie competenze di provvedere alla adeguata ed efficace manutenzione, gestione, pulizia e controllo tecnico dell'efficienza del tratto della SS n. 19 delle Calabrie rientrante nella competenza manutentiva del comune di E, interessato dalla presenza di caditoie occluse; più specificamente per aver omesso di rendere efficiente il deflusso delle acque meteoriche dalla sede stradale, mediante la costante e sistematica pulizia delle due caditoie esistenti dal fogliame e dal terriccio che le occludevano, e per avere così reso inevitabile il fenomeno dell'aquaplaning in caso di pioggia. 2. Avverso la sentenza d'appello Ro.La. e Da.Br. hanno proposto, a mezzo di difensore, due distinti atti di ricorso di contenuto identico, formulando due motivi. 2.1 Con il primo motivo, hanno dedotto la violazione di Legge e il vizio di motivazione in relazione alla avvenuta esecuzione dell'attività di manutenzione delle caditoie. I difensori osservano che erano state acquisite in atti, già nel processo di primo grado, le determine di spesa del Comune di E concernenti la pulizia ordinaria dei tombini, ovvero la determina n. 327 del 13 ottobre 2009 di affidamento dei lavori di pulizia delle griglie e caditoie e alla ditta (...) Spa e la determina n. 26 del 28 gennaio 2010 di liquidazione del compenso per la pulizia delle griglie e caditoie stradali alla (...) Spa. Ro.La. di Appello aveva svilito il valore probatorio di tali documenti, richiamando per relationem sul punto le argomentazioni della sentenza di primo grado e rilevando che la determinazione di affidamento lavori non valeva a provare che questi fossero stati effettivamente effettuati, a fronte della documentazione fotografica in atti scattata poche ore dopo il sinistro, in cui erano visibili i tombini intasati da fogliame e pietrisco. In proposito i ricorrenti osservano, da un lato, che nella sentenza di primo grado nulla era stato affermato al riguardo e, dall'altro, che era stato comunque travisato il contenuto di tali documenti, in quanto nella determina di pagamento, atto pubblico fidefacente, si dava atto che i lavori erano stati regolarmente effettuati. Le delibere valevano a chiarire che l'intervento manutentivo era stato richiesto il 13 ottobre 2009 e correttamente eseguito alla data di presentazione della fattura, il 25 novembre 2009, ovvero poco più di un mese prima del verificarsi dell'incidente. 2.2. Con il secondo motivo hanno dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta esigibilità della condotta omessa in capo ai ricorrenti Ro.La. e Da.Br. Dopo che la sentenza di primo grado aveva evidenziato come la strada non fosse mai stata segnalata come pericolosa, Ro.La. non si era soffermata su tale aspetto e non aveva chiarito in base a quali indici di pericolosità o altri elementi l'intervento di manutenzione avrebbe dovuto essere ripetuto a distanza di così breve tempo: i giudici non avevano indicato il momento in cui la occlusione delle caditoie si era determinata, né quali regole cautelari imponessero di tenere la condotta omessa, ovvero la ripetizione delle operazioni di pulizia già effettuate, a distanza di così poco tempo. La culpa in vigilando del titolare della posizione di garanzia - osservano i ricorrenti - non può concretizzarsi in onniscienza o dovere di sorveglianza ad horas di ciò che accade nelle strade pubbliche di un comune che vanta 40.000 abitanti con estensione di 13 kmq e centinaia di caditoie. La sentenza avrebbe dovuto dare atto dell'attività di manutenzione ordinaria e delle ragioni i per cui tali attività avrebbero dovuto essere ripetute a ridosso dei fatti. 2.3. Con il terzo motivo hanno dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione per avere Ro.La. di Appello ribaltato la pronuncia assolutoria senza confrontarsi con l'apporto del sapere scientifico veicolato dalla sentenza di primo grado. I difensori osservano che il perito nominato dal Tribunale in primo grado aveva concluso per una velocità dell'auto al momento della perdita di controllo in 70/80 km/h sulla base dell'attrito e delle deformazioni subite, mentre il perito nominato dalla Corte era giunto a conclusioni differenti e stimato la velocità tra i 45 e i 55 km/h al momento della perdita di controllo, sulla base dei dati rilevabili dall'analisi del crash test di veicoli similari. Le due perizie avevano, pertanto, utilizzato metodi scientifici differenti e, nonostante la Corte di appello in sede di conferimento dell'incarico avesse chiesto all'esperto nominato di considerare criticamente le valutazioni e le conclusioni cui era giunto l'esperto nominato nel processo di primo grado, di tale approccio critico non vi era traccia nell'elaborato peritale. La stessa sentenza di appello non aveva spiegato le ragioni per cui il metodo utilizzato dal secondo perito fosse da preferire rispetto a quello utilizzato dal primo perito. 3. Il in data 18 marzo 2024 il difensore della parte civile ha depositato memoria con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi. 4. Nel corso dell'udienza a trattazione orale le parti hanno concluso come indicato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono fondati con riferimento a tutti i motivi dedotti. 2. Il percorso argomentativo su cui si è fondata la sentenza impugnata che ha riformato ai soli fini civili, a seguito di appello delle parti civili, la sentenza di assoluzione di primo grado, è viziato sotto il duplice profilo, da un lato, della ricostruzione dei fatti e della conseguente individuazione della regola cautelare violata (primo e secondo motivo) e, dall'altro, del confronto con il sapere scientifico introdotto nel processo (terzo motivo). 3. La Corte di Appello, nell'affermare la responsabilità a fini civili degli imputati, in ragione della posizione di garanzia rivestita da Ro.La. e Da.Br., rispettivamente quali Dirigente dell'Area Sviluppo del Territorio e Responsabile del Servizio Manutenzione Strade del Comune di E, in ordine all'incidente verificatosi sulla SS 19 nel quale perse la vita Fa.Ca., ha ritenuto che tale incidente si fosse verificato a causa della mancata manutenzione delle caditoie presenti nel tratto di strada interessato, rilevando che nelle fotografie in atti scattate nell'immediatezza le stesse apparivano occluse da fogliami e detriti e che tale occlusione non aveva consentito il regolare deflusso dell'acqua piovana. La fonte della regola cautelare violata e della conseguente posizione di garanzia è stata individuata nell'art. 14 del D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285, a norma del quale, per quel che rileva in questa sede, gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, "provvedono a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché "delle attrezzature, impianti e servizi". Il percorso argomentativo adottato, tuttavia, è manifestamente carente, nella parte in cui fa discendere la prova della mancata manutenzione delle caditoie solo dal rilievo dello stato in cui le stesse si erano trovate al momento dell'infortunio. Sotto tale profilo non può non rilevarsi come la Corte nella valutazione delle prove documentali, sia incorsa in un vero e proprio travisamento, avendo attribuito a tali documenti un significato diverso da quello loro proprio (in ordine alla valutazione propria del giudice di legittimità, si ricorda che allo stesso è consentito non già di accertare eventuali travisamenti del fatto - e dunque di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dal giudice merito -, bensì solo di verificare che quest'ultimo non abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta per l'appunto di reinterpretare gli elementi di prova valutati nel merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano e facessero dunque effettivamente parte dell'orizzonte cognitivo di quel giudice Sez. 7, n. 12406 del 19/02/2015, Micchichè, Rv. 262948; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 Maggio, Rv. 255087; Sez.3, n. 39729 del 18 giugno 2009, Belluccia, Rv 244623; Sez.5. n. 39048 del 25 settembre 2007, Casavola, Rv 238215; Sez. 1, n. 24667, del 15 giugno 2007, Musumeci, Rv 237207; Sez. 4, n. 21602 del 07 aprile 2007, Ventola, Rv 237588). In particolare Ro.La. ha affermato che le determine comunali prodotte della difesa valessero a documentate che il lavori di manutenzione dei tombini fossero stati deliberati, ma non anche eseguiti, quando invece fra i documenti in atti vi era anche la delibera di pagamento di detti lavori nei confronti della ditta esecutrice, preceduto dalla verifica concreta della loro corretta esecuzione. Essendo stato, dunque, processualmente accertato che nel mese di novembre del 2009 la pulizia dei tombini era stata effettuata, la Corte avrebbe dovuto verificare, al fine di valutare la violazione della regola cautelare nel caso in esame, con che cadenza la pulizia avrebbe dovuto ripetuta, ovvero l'esistenza di eventuali segnalazioni in ordine alla occlusone dei tombini nel tratto di strada interessato dall'incidente. Non è superfluo ricordare che l'art. 14 CdS detta una previsione generale di obbligo di manutenzione, senza tuttavia individuare le modalità di assolvimento. Già si è sostenuto che la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi invece avere riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzo per evitare il verificarsi dell'evento (Sez. 4 n, 41350 del 05/06/2018 Nardelli, non mass; Sez 4, n. 12478 del 19/11/2015 dep. 2016, Barbieri, Rv 267813). 4. Come detto, coglie nel segno anche il terzo motivo di ricorso, nella parte cui censura l'approccio da parte della Corte di Appello al sapere scientifico veicolato nel processo. I Giudici, infatti, nel riformare, sia pure ai fini civili, la sentenza di assoluzione del processo di primo grado, in cui pure era stato conferito incarico peritale, hanno disposto una nuova perizia. In premessa si deve dare atto che, ancorché nel caso che ci occupa, venga in rilievo il solo profilo della responsabilità civile, è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità quello secondo cui, per la riforma di una decisione assolutoria, non è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto (cfr. sul punto Sez. Un., n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679). Più in particolare, in un caso analogo a quello in esame si è affermato che "L'effettuazione in secondo grado di una perizia non esime il giudice di appello che riformi la sentenza di primo grado, dal dimostrare l'incompletezza o la non correttezza di quest'ultima, ovvero l'incoerenza delle relative argomentazioni, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa, convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. In altri termini, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti. E quando la sentenza assolutoria si sia fondata, come nel caso che ci occupa sul sapere scientifico introdotto nel processo dai consulenti delle parti, ha il dovere di confrontarsi con tale sapere, cui sia andato eventualmente ad affiancarsi quello del perito (così Sez. 6, n. 20656 del 22/11/2011, dep. il 2012, De Gennaro ed altro, Rv. 252627). Perché possa addivenirsi alla riforma in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non è, pertanto, sufficiente prospettare una ricostruzione dei fatti connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, bensì è necessario che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare - in riforma della precedente assoluzione - la sentenza di condanna sia dotata di "una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza" 4.1 La Corte territoriale non pare fare buon governo dei principi sopra esposti. La Corte, avendo introdotto con la perizia un nuovo sapere scientifico, aveva l'onere di dare conto delle ragioni per cui le conclusioni del secondo perito dovevano prevalere su quelle del primo. La sentenza Sez. 4, n. 43786 del 17/9/2010, Cozzini, Rv. 248944 ha indicato come debba essere impostato metodologicamente l'approccio del giudice di merito al sapere tecnico - scientifico e come esso debba passare attraverso la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto. Nel caso in esame la Corte non avrebbe, dunque, dovuto limitarsi ad aderire alle conclusioni del secondo perito, ma avrebbe, invece, dovuto motivare perché le tesi veicolate nel processo dalla nuova perizia erano maggiormente fondate rispetto a quelle su cui si era fondata la pronuncia assolutoria di primo grado. 5. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello. Al giudizio di rinvio deve essere demandata anche la regolamentazione fra le parti del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda anche la regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il 3 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7914 del 2023, proposto da: Comune di Reggio Emilia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato El. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Da. Da., in proprio e quale legale rappresentante pro tempore dell'Associazione Ac. - Ch. - Ba. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'avvocato Gi. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Wi. Tr. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Arpae - Emilia Romagna, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 7919 del 2023, proposto da: Wi. Tr. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Da. Da., in proprio e quale legale rappresentante pro tempore dell'Associazione Ac. - Ch. - Ba. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'avvocato Gi. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di Reggio Emilia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato El. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma: quanto al ricorso n. 7914 del 2023 e al ricorso n. 7919 del 2023: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna- sezione staccata di Parma, n. 00239/2023, resa tra le parti. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti indicate in epigrafe; Vista l'ordinanza n. 4382/2023, con la quale la Sezione ha riunito i giudizi in epigrafe e accolto le istanze cautelari formulate da Wi. Tr. s.p.a. e dal Comune di Reggio Emilia, sospendendo gli effetti della sentenza appellata; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e uditi, per le parti, gli avvocati Gi. Cr. e An. La., per delega dell'avvocato Gi. Sa.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il Comune di Reggio Emilia e Wi. Tr. s.p.a. hanno appellato, con separati ricorsi, la sentenza n. 239/2023, con la quale il T.A.R. per l'Emilia Romagna - sezione staccata di Parma ha accolto il ricorso proposto dalle odierne parti appellate avverso: i) il provvedimento dell'8.6.2022, rif. PG 128186/2020, con il quale il Comune aveva rilasciato a Wi. Tr. l'autorizzazione alla realizzazione di una stazione radio base in via (omissis), e, in particolare, all'interno del parcheggio comunale ivi ubicato; ii) il provvedimento RUAD n. 469 del 18.3.2022, con cui era stato disposto l'annullamento d'ufficio dell'atto dirigenziale PG 177531 del 4.11.2020, che aveva, in precedenza, negato l'autorizzazione alla realizzazione dell'impianto; iii) il parere Arpae del 5.5.2022 e il precedente parere Arpae del 9.9.2020; iv) tutti gli atti del procedimento, compresi il parere del Servizio Rigenerazione e Qualità Urbana del 23.9.2020 (PG 150197), e l'atto di ostensione dei documenti. 2. In punto di fatto si rappresenta che le odierne parti appellate sono un'Associazione operante sul territorio e un gruppo di cittadini residenti nel Comune di Reggio Emilia, in prossimità del parcheggio pubblico di Via (omissis), zona di (omissis), ove insiste il parco delle Ac. Ch.. In tale zona il Comune ha autorizzato la società Wi. Tr. a realizzare una stazione radio base per telefonia mobile, da collocarsi tra gli stalli di sosta del parcheggio. Tale provvedimento è stato emesso dopo che, in un primo momento, il Comune aveva negato l'autorizzazione. Infatti, la Società aveva presentato l'istanza di autorizzazione in data 7.8.2020, e il Comune aveva acquisito il parere favorevole dell'Arpae del 9.9.2020, e aveva richiesto il parere di altri uffici comunali. In particolare, il Servizio Rigenerazione Urbana del Comune, con nota P.G. 150197 del 23.9.2020, aveva richiesto delle integrazioni documentali, successivamente inviate dalla Società . In data 4.11.2020, il Servizio Ambiente, Energia e Sostenibilità del Comune di Reggio Emilia aveva espresso il proprio diniego, motivato sulla base del parere della Commissione per la Qualità Architettonica (che aveva richiesto un supplemento di istruttoria), e dal parere del Servizio Mobilità che aveva ritenuto condivisibile il parere della Commissione ed evidenziato l'impatto dell'opera sulla fruibilità dei parcheggi. 2.1. La Società non aveva impugnato il provvedimento di diniego e aveva individuato una nuova localizzazione dell'impianto, da collocarsi sull'area privata ubicata in via (omissis) (foglio (omissis), mappale (omissis)). L'Amministrazione aveva, quindi, avviato il procedimento - nel quale aveva espresso il proprio avviso l'Associazione appellata - ma aveva negato l'autorizzazione richiesta. 2.2. L'Amministrazione aveva, quindi, riesaminato l'istanza di realizzazione dell'impianto nel parcheggio di via (omissis), e, all'esito del nuovo esame, aveva: i) annullato in autotutela il precedente diniego, fondato sul parere della Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio (che non era, però, necessario in ragione dell'ubicazione dell'area), sul parere del Servizio di Rigenerazione e Qualità Urbana (che aveva, però, condizionato l'opera a tutele diverse da quelle previste per l'area), e, in ultimo, sul parere del Servizio Mobilità (che si era basato sulla valutazione della Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio); ii) richiesto a Wi. Tr. di confermare l'interesse alla realizzazione della struttura, e, dopo aver ricevuto risposta affermativa, aveva richiesto un nuovo parere all'Arpae, che si era espressa favorevolmente. Ricevuto il parere favorevole di Arpae, il Comune aveva rilasciato l'autorizzazione a Wi. Tr. con provvedimento dell'8.6.2022. 3. Le odierne parti appellate hanno conosciuto, dopo l'accesso agli atti, i provvedimenti adottati, che hanno, successivamente, impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato. Dopo l'opposizione, il ricorso è stato trasposto in sede giurisdizionale dinanzi al T.A.R. per l'Emilia Romagna - sezione staccata di Parma. 4. Il Giudice di primo grado, respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso articolate dal Comune e da Wi. Tr., lo ha accolto ritenendo violata la disposizione di cui all'art. 21-nonies della L. n. 241/1990 per omesso coinvolgimento delle odierne parti appellate, e illegittimo il provvedimento per omessa acquisizione di pareri ritenuti necessari. 5. Wi. Tr. s.p.a. e il Comune di Reggio Emilia hanno impugnato la sentenza con autonomi ricorsi in appello che saranno, di seguito, esaminati nei limiti di quanto necessario per la presente decisione. Si sono costituite nei giudizi le parti appellate indicate in epigrafe, deducendo l'infondatezza dei ricorsi in appello. Con ordinanza n. 4382/2023 la Sezione ha riunito i giudizi (trattandosi di appelli avverso la medesima sentenza) e ha accolto le istanze cautelari, evidenziando come, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, fosse prevalente quello al mantenimento di un impianto già realizzato e operativo, anche considerato che la conservazione della res adhuc integra fino alla definizione del merito dei ricorsi in appello non avrebbe comportato rilevanti compromissioni degli interessi delle parti appellate. In vista dell'udienza pubblica del 16.5.2024, Wi. - Tr. e il Comune hanno depositato memorie conclusionali; le parti appellate hanno depositato, esclusivamente, memorie di replica. All'udienza del 16.5.2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. Preliminarmente occorre confermare la riunione dei giudizi in epigrafe ex art. 96, comma 1, c.p.a., trattandosi di ricorsi in appello avverso la medesima sentenza. 7. Entrando in medias res, il Collegio osserva come possano esaminarsi congiuntamente i primi due motivi dei ricorsi in appello del Comune e di Wi. Tr., entrambi relativi al capo di sentenza con il quale il T.A.R. ha riconosciuto la sussistenza in capo alle odierne parti appellate dell'interesse a ricorrere che gli appellanti avevano, invece, contestato in primo grado. 7.1. Sul punto il Giudice di primo grado ha osservato che: i) per stessa ammissione delle parti, rimaneva incontestata la vicinitas delle odierne parti appellate; ii) in relazione all'interesse a ricorrere, doveva osservarsi come la stazione radio base era stata allocata "in un parcheggio pubblico con concessione di una superficie pari a 50 mq di detta area", e, dunque, atteso che le parti erano cittadini residente nelle vicinanze, appariva chiaro che l'interesse a sostegno della domanda era quello di poter fruire dei parcheggi, "che costituiscono un servizio reso dal Comune di Reggio Emilia agli abitanti al fine di consentire agli stessi la sosta dei propri automezzi"; iii) andava evidenziato che, proprio per tale collocazione dell'impianto, il Comune aveva chiesto una valutazione al Servizio Mobilità, il quale aveva evidenziato l'impatto sulla fruibilità dei parcheggi tangenti alla struttura; iv) erano, pertanto, condivisibili le affermazioni delle odierne parti appellate che avevano osservato come tale parere avesse comprovato l'impatto negativo sulla fruibilità dei parcheggi e, in generale, il deterioramento delle condizioni di vita e il peggioramento dei caratteri urbanistici dell'area; v) doveva, comunque, tenersi conto della giurisprudenza che aveva, più volte, evidenziato lo scadimento della qualità della vita, derivante dalla vicinanza con un impianto come quello oggetto di causa. 7.2. Prima di esaminare le argomentazioni delle parti occorre evidenziare come, nel caso di specie, non sia stata messa in discussione la legittimazione a ricorrere, la cui sussistenza si verifica alla luce dei due criteri della qualificazione e della differenziazione. Tali criteri impongono di accertare quali siano i dati normativi di riferimento che consentono di qualificare l'interesse azionato come giuridicamente tutelato e protetto nonché il criterio che differenzia la situazione in relazione ad un potere amministrativo concretamente esercitato (o in corso di esercizio nell'ambito del procedimento). Il primo momento dell'indagine è, quindi, incentrato necessariamente sul dato normativo, sebbene, come evidenzia parte della dottrina, la distinzione concettuale tra qualificazione e differenziazione non coincida, tuttavia, con la differenza tra dimensione normativa o astratta e dimensione fattuale o concreta; infatti, se è vero che la qualificazione rileva in via astratta essendo l'ordinamento complessivamente inteso ad elevare l'interesse a situazione generale protetta, è altrettanto vero come anche la differenziazione non è operazione logica imperniata, in coerenza con quanto esposto, su soli dati fattuali; al contrario, è, comunque, lo stesso ordinamento a tracciare i confini oggettivi e soggettivi della regola istitutiva di protezione con riferimento ad un determinato e concreto potere amministrativo, compenetrando, quindi il dato squisitamente giuridico con quello più eminentemente fattuale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 agosto 2023, n. 8074). 7.3. Nel caso di specie, ciò che viene contestata è la sussistenza della diversa condizione dell'azione, costituita dall'interesse a ricorrere, che, inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato, non può ritenersi integrato ex se dalla sussistenza della c.d. vicinitas (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 9 dicembre 2021, n. 22). Di conseguenza, il riferimento alla vicinitas operato dal Giudice di primo grado non può ritenersi sufficiente per ritenere sussistente l'interesse a ricorrere. 7.4. Probabilmente consapevole di tale orientamento giurisprudenziale (pur non richiamato), lo stesso Giudice di primo grado, ha, del resto, evocato ulteriori circostanze fattuali, dalle quali desumere tale interesse. Tuttavia, tali circostanze non sono, a parere del Collegio, dirimenti per ritenere integrata tale condizione dell'azione. 7.5. Osserva, infatti, il Collegio, come l'Adunanza plenaria di questo Consiglio abbia evidenziato che il ragionamento intorno all'interesse al ricorso, inteso come uno stato di fatto, si lega necessariamente all'utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e dall'effetto ripristinatorio; utilità che a sua volta è in funzione e specchio del pregiudizio sofferto. In materia edilizia tale pregiudizio è stato rinvenuto in giurisprudenza, non senza una serie di varianti, nel possibile deprezzamento dell'immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero nella compromissione dei beni della salute e dell'ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata. L'Adunanza plenaria ha, poi, evidenziato che il riferimento al godimento dell'immobile in uno con il richiamo a salute e ambiente è, peraltro, un piano di indagine già sufficientemente ampio ed è su di esso che la giurisprudenza ha fatto leva per ravvisare il pregiudizio sofferto dal terzo non solo ad esempio nella diminuzione di aria, luce, visuale o panorama, ma anche nelle menomazioni di valori urbanistici e nelle degradazioni dell'ambiente in conseguenza dell'aumentato carico urbanistico in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento, aumento del traffico. L'Adunanza plenaria ha, in ogni caso, evidenziato come sia necessario svolgere un'indagine strettamente legata al tipo di provvedimento contestato e all'entità e alla destinazione dell'immobile edificando o edificato. 7.6. Declinando questi generali principi al caso di specie, e, quindi, a una vicenda che non involge esclusivamente interessi meramente urbanistici, si osserva, in primo luogo, come l'interesse a ricorrere non possa fondarsi sulla dedotta limitazione degli spazi destinati a parcheggi. Come emerge, infatti, dalla documentazione versata in atti, la stazione radio-base in questione è stata collocata in un'aiuola interna all'area di parcheggio e, quindi, non ha ridotto il numero degli stalli a disposizione degli utenti. Questa affermazione non può ritenersi smentita dal parere del Servizio mobilità evocato dal Giudice di primo grado, atteso che, in parte qua, il parere è errato in punto di fatto, non tenendo conto della specifica ubicazione della struttura. Pertanto, non può asserirsi un interesse a ricorrere per evitare la riduzione degli spazi di parcheggio, che, come evidenziato, non sono stati ridotti. Né può ritenersi che questa collocazione abbia creato un impatto della struttura sui parcheggi, come evidenziato dal Giudice di primo grado. Infatti, appurato che la stazione radio-base è stata realizzata senza sottrarre aree di sosta, questo impatto risulta del tutto generico e imprecisato. 7.7. In secondo luogo, deve escludersi che l'interesse a ricorrere possa ancorarsi ad una possibile lesione del diritto alla salute, considerato che il parere Arpae ha negato un'incidenza della struttura con le abitazioni limitrofe, affermando che, "dall'analisi della planimetria dell'area di controllo e della tabella che la correda, nonché del volume di cui alla tabella 3 sopra riportata e di ulteriori approfondimenti (trova quote) rivolti ad una definizione più accurata e di maggiore aderenza alla realtà del volume succitato, si evince che tutti gli edifici, in conseguenza della loro collocazione o dell'altezza o di entrambe, non vengono interessati dal reale volume definito dall'insieme dei punti in cui si raggiungono e si superano i 6 V/m. Pertanto non sono stati evidenziati edifici adibiti a permanenze non inferiori alle 4 ore giornaliere con relative pertinenze esterne e luoghi all'aperto intensamente frequentati in cui si stimano valori di campo elettrico uguali o superiori a 6 V/m". Tale parere è stato, del resto, ritenuto legittimo dal Giudice di primo grado, con statuizione non appellata in via incidentale dalle odierne parti appellate. Lo stesso T.A.R. ha, poi, respinto, la censura relativa al "mancato rispetto dei valori che connotano l'area", facendo proprie le osservazioni di Wi. Tr., la quale aveva osservato che l'area oggetto di intervento non era oggetto di alcun vincolo paesaggistico-monumentale. Infatti, come osservato dal Comune appellante, nel regolamento edilizio vigente al momento del rilascio dei titoli, l'area ove è stato realizzato l'impianto ricadeva in ambito specializzato per attività produttive. 7.8. In ultimo, non può ritenersi sussistente un interesse a ricorrere in quanto i cittadini che abitano nel luogo, "parcheggiano l'auto quotidianamente in Via (omissis), utilizzano la pensilina posta a ridosso dell'antenna per salire e scendere dal bus di linea il cui capolinea è proprio in Via (omissis), e più in generale utilizzano aiuole e quant'altro ivi presente come per il loro percorso pedonale e per stazionare con i figli e la famiglia, essendovi un parco con giochi per bambini e adulti" (f. 12 della memoria di costituzione delle parti appellate). Osserva, infatti, il Collegio che: i) il riferimento al parcheggio non radica un interesse all'annullamento degli atti, essendo esclusa la riduzione dei relativi spazi; ii) la struttura non determina esposizione per chi usa la pensilina alla luce di quanto evidenziato dal parere di Arpae; iii) l'area tra gli stalli ove si trova la struttura è recintata e, inoltre, non è certamente un luogo da utilizzare con i bambini, trattandosi, comunque, di una intercapedine tra parcheggi di vetture. Né può affermarsi la sussistenza di un interesse per l'impatto negativo sulla vista, trattandosi di una struttura sufficientemente lontana dalle abitazioni e, comunque, collocata in un'area a destinazione produttiva, ove sono presenti - come risulta dalla documentazione fotografica - diverse realtà aziendali. 8. In definitiva, il ricorso introduttivo del giudizio deve ritenersi inammissibile per carenza di interesse a ricorrere. 9. La decretata carenza di una condizione dell'azione esonera il Collegio dallo scrutinio degli ulteriori motivi di appello che, afferendo alla legittimità della vicenda amministrativa, postulano l'ammissibilità del ricorso, esclusa dalla presente decisione. 10. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate ai sensi degli articoli 26 del codice del processo amministrativo e 92 del codice di procedura civile, come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale 19 aprile 2018, n. 77, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, da individuarsi nella natura processuale della presente decisione. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sui ricorsi in appelli come in epigrafe proposti: i) riunisce i giudizi in epigrafe ex art. 96, comma 1, c.p.a.; ii) accoglie i ricorsi in appello ai sensi e nei limiti indicati in motivazione, e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, dichiara inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio; iii) compensa le spese di lite del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore Marco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9030 del 2023, proposto da Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Se. Si. e con domicilio eletto presso l'Avvocatura capitolina, in Roma, via (...); contro La Pl. S.r.l.s., non costituita in giudizio; Agenzia del Demanio, in persona del Direttore pro tempore, ex lege rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata presso gli Uffici della stessa, in Roma, via (...); Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Giuseppe Allocca e con domicilio eletto presso l'Avvocatura regionale, in Roma, via (...); Presidenza del Consiglio dei Ministri, non costituita in giudizio; Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, non costituito in giudizio; Ministero dell'Economia e delle Finanze, non costituito in giudizio; per la riforma, previa sospensione dell'efficacia, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma Sezione Seconda stralcio, n. 5556/2023 del 31 marzo 2023, resa tra le parti e non notificata, con cui è stato parzialmente accolto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, R.G. n. 10476/2011. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di sospensione dell'efficacia della sentenza appellata e preso atto del suo abbinamento al merito; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Agenzia del Demanio e della Regione Lazio; Vista la memoria della Regione Lazio; Visto l'ulteriore documento di Roma Capitale; Viste la memoria e la documentazione dell'Agenzia del Demanio; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 marzo 2024 il Cons. Pietro De Berardinis e uditi per le parti l'avv. Se. Si. e l'Avvocato dello Stato Ma. Ba.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello indicato in epigrafe Roma Capitale impugna la sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II stralcio, n. 5556/2023 del 31 marzo 2023, chiedendone l'annullamento e/o la riforma, previa sospensione dell'efficacia. 1.1. La sentenza appellata ha parzialmente accolto il ricorso della La Pl. S.r.l.s. ("La Pl." o "Società "), integrato da plurimi motivi aggiunti, contro gli atti di determinazione dei canoni dovuti dalla Società quale titolare della concessione demaniale marittima ad essa rilasciata con atto del 24 novembre 2006 per il mantenimento e l'esercizio per diciotto anni di uno stabilimento balneare sito in (omissis), avente superficie di mq. 10.980, dietro pagamento di un canone annuale stabilito in via provvisoria in Euro 15.499,87, nonché contro gli atti presupposti e connessi. 1.2. In particolare, il T.A.R., dopo aver affermato la devoluzione della controversia alla giurisdizione del G.A., ha ritenuto fondato il primo motivo del ricorso, che censurava l'erroneo calcolo delle somme dovute mediante applicazione dei valori "OMI" alle strutture pertinenziali realizzate dalla ricorrente in regime di proprietà superficiaria. Al riguardo il primo giudice ha aderito all'indirizzo formulato da questa Sezione con la sentenza n. 129/2023 del 4 gennaio 2023, che ai fini dell'applicazione dei citati valori "OMI" ha distinto tra rinnovo e proroga della concessione: nel primo caso si ha una nuova concessione, cosicché le opere non amovibili realizzate sull'area demaniale sono incamerate dallo Stato e all'atto della stipula della nuova concessione vanno considerate come pertinenze, su cui il canone andrà calcolato sulla base dei valori "OMI"; nel secondo caso, invece, il rapporto originario prosegue e quindi le opere non vengono acquisite dallo Stato, con conseguente inapplicabilità dell'ora visto meccanismo di calcolo del canone. 1.3. Nella fattispecie sottoposta al suo esame il T.A.R. ha ritenuto che la concessione del 2006 fosse una nuova concessione e non la proroga di quella preesistente, con il corollario che le opere esistenti alla data del suo rilascio (24 novembre 2006) sono state incamerate dallo Stato. Tuttavia, negli atti impugnati, ai fini del calcolo del canone definitivo (quello fissato nella concessione essendo, come detto, provvisorio) si è fatto riferimento a tutte le pertinenze esistenti, distinguendo tra opere di facile o di difficile rimozione, mentre - osserva la sentenza - la distinzione avrebbe dovuto essere tra opere esistenti prima della concessione e opere realizzate o modificate dopo la concessione, perché solo le prime appartengono allo Stato e quindi sono opere pertinenziali assoggettate al calcolo del canone secondo i valori "OMI". In altre parole, la P.A. ha qualificato le opere come pertinenziali senza prima accertare quali parti di esse fossero preesistenti alla concessione (e dunque comprese nel suo oggetto quali beni già in proprietà dello Stato) e quali parti fossero state realizzate dalla Società titolare in costanza della concessione e, tra queste ultime, quali fossero riconducibili al rapporto concessorio anteriore (risalente al 2002): di qui - conclude il T.A.R. - la fondatezza del motivo sotto i profili del difetto di presupposto, di istruttoria e conseguentemente di motivazione. 1.4. La sentenza appellata ha accolto altresì il motivo di ricorso relativo alla qualificazione dell'area interessata come "di alta valenza turistica" ai fini dell'applicazione del canone in misura maggiorata, anche per questo verso facendo applicazione dei principi formulati dalla sentenza n. 129/2023 cit. per quanto riguarda: a) la verifica della presenza di fenomeni erosivi, effettuata con l'utilizzo delle sole pubblicazioni di fonte ENEA, anziché dell'"Atlante regionale del Dinamica Costiera" elaborato nel quadro del "Progetto Europeo Maremed", così come previsto dalla l.r. 14 luglio 2014, n. 7, e dalla scheda allegata alla determinazione regionale 9 aprile 2013, n. A022994; b) la verifica della presenza di scali ferroviari, effettuata con l'utilizzo non del solo "database" di Tr. S.p.A., ma anche del sito dell'Azienda Trasporti Autoferrotranviari del Comune di Roma. In proposito il T.A.R. sottolinea che la deliberazione impugnata, con la quale è stata attribuita la c.d. "alta valenza turistica", è un atto a valenza generale, cosicché la sentenza n. 129/2023 cit. - che l'ha annullata in parte qua - è tale da comportare un'efficacia del giudicato anche nei confronti di coloro che, come appunto la "La Pl.", hanno sollevato identica ragione di doglianza nell'ambito di giudizi pendenti. 2. Nel gravame Roma Capitale impugna i due capi della sentenza ora riferiti, relativamente ai quali è risultata soccombente, deducendo i seguenti motivi: I) error in judicando, la sentenza sarebbe viziata da violazione e falsa applicazione degli artt. 29 e 49 cod. nav., e da errata e falsa applicazione dell'art. 1, comma 251, della l. n. 296/2006 e dell'art. 3 del d.l. n. 400/1993, conv. con l. n. 494/1993, in quanto dal sopralluogo effettuato presso lo stabilimento balneare denominato "La Pl." nel 2016 sarebbe emersa una superficie assentita con la concessione demaniale marittima del 24 novembre 2006 di mq. 10.980,00, di cui mq. 7.519,00 di area scoperta, mq. 1.526,00 di area occupata con impianti di facile rimozione, mq. 1.622,00 di area occupata con impianti di difficile rimozione e mq. 313,00 di aree a destinazione commerciale. Orbene, la natura e la consistenza delle strutture insistenti sull'area in concessione sarebbero rimaste invariate rispetto all'atto di concessione del 2006, che avrebbe richiamato le medesime aree con identica destinazione e consistenza. Inoltre, già la concessione demaniale del 2002 intestata alla "La Pl. S.r.l.s." avrebbe avuto ad oggetto una quota parte di pertinenze demaniali e la concessione del 2006 avrebbe a oggetto non la realizzazione, ma il mantenimento dello stabilimento esistente. Quindi, nel caso de quo non vi sarebbe stata alcuna incertezza sulle pertinenze preesistenti, assoggettate al canone di mercato "OMI": i beni pertinenziali, considerati nel computo dei canoni dovuti, sarebbero stati classificati come tali perché già facenti parte del patrimonio demaniale ai sensi dell'art. 49 cod. nav. e il canone sarebbe stato computato tenendo esclusivamente conto dei beni già acquisiti allo Stato, per come elencati nel vigente atto di concessione (come da relazione esplicativa del competente Ufficio municipale del 25 settembre 2023). Alla scadenza della concessione originaria i beni sarebbero stati devoluti allo Stato ex lege e non potrebbe obiettarsi che è mancata la procedura di incameramento, la quale sarebbe solo una formalità con valore contabile, a fronte di un acquisto che si verifica ipso iure ai sensi del riferito art. 49 cod. nav.; II) error in judicando, la sentenza sarebbe altresì viziata da violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 251, della l. n. 296/2006, con riferimento al concetto di "valenza turistica", in relazione alla deliberazione n. 5 del 26 novembre 2015, prot. n. 138880/15, per la classificazione nella categoria "A" ("Alta Valenza Turistica") piuttosto che "B" ("Media Valenza Turistica"), nonché da violazione e falsa applicazione dei principi rinvenienti dal precedente giurisprudenziale evocato (Cons. Stato, n. 129/2023), privo di valenza conformativa nella fattispecie, sia per l'inattitudine al giudicato esterno della pronuncia, sia per la portata dell'annullamento disposto nel precedente, irrilevante ai fini della presente vicenda. Il vizio affliggerebbe la sentenza anzitutto per l'erronea interpretazione dell'art. 1, comma 251, della l. n. 296/2006 sul concetto di "valenza turistica", poiché la scheda di analisi del Municipio Roma X che ha attribuito al territorio di detto Municipio n. 55 punti, con conseguente sua collocazione fra quelli "ad Alta Valenza Turistica", sarebbe fondata su dati tecnici non diversamente interpretabili. La sentenza appellata sarebbe viziata anche per l'erronea interpretazione della portata dell'annullamento disposto dalla sentenza di questa Sezione n. 129/2023, poiché questa varrebbe inter partes e non sarebbe estensibile, quanto agli effetti dell'annullamento disposto in quel giudizio, alla vicenda ora in esame, sia perché il giudicato non potrebbe operare che entro i confini soggettivi delle parti nei confronti delle quali è intervenuta detta pronuncia, sia per l'irrilevanza e l'incapacità di tale precedente a motivare l'annullamento di cui al presente giudizio, in ragione dei differenti presupposti fattuali tra le fattispecie. 2.1. La concessionaria "La Pl. S.r.l.s.", pur evocata, non si è costituita in giudizio. 2.2. Si sono invece costituite in giudizio la Regione Lazio e l'Agenzia del Demanio, successivamente depositando memorie e argomentando sui fatti di causa. 2.2.1. In particolare, la Regione Lazio ha eccepito nelle sue difese, in via preliminare ed assorbente, il proprio difetto di legittimazione passiva. 2.2.2. L'Agenzia del Demanio, dal canto suo, ha concordato con le argomentazioni svolte da Roma Capitale. 2.3. Infine, il Comune appellante ha depositato una nota del Municipio Roma X del 17 gennaio 2024 con i relativi allegati. 2.4. All'udienza pubblica del 26 marzo 2024 il Collegio, sentiti i difensori comparsi di Roma Capitale e dell'Agenzia del Demanio, ha trattenuto la causa in decisione. 3. In via preliminare occorre delibare l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla Regione Lazio. 3.1. L'eccezione deve essere respinta, essendo stati impugnati nel giudizio di primo grado, tra l'altro, anche atti regionali e in particolare la nota prot. n. 244171 del 5 maggio 2015 e la determinazione n. A022994 aprile 2013. 3.2. Per quanto riguarda la nota del 5 maggio 2015, la difesa comunale eccepisce che sarebbe un mero atto endoprocedimentale, privo di efficacia lesiva: tuttavia, essa da un lato reca indicazioni in materia di analisi dei fenomeni erosivi, dall'altro afferma (richiamando una nota della struttura regionale competente in tema di trasporto ferroviario e impianti fissi) che la linea ferroviaria Roma - (omissis) è da considerare a tutti gli effetti una linea ferroviaria. Tale nota perciò, interviene su due profili che, come si è sopra visto, formano oggetto del secondo motivo di appello, andando a integrare la res litigiosa. 3.3. Quanto poi alla determinazione A022994 del 9 aprile 2013, si tratta dell'atto che reca i criteri generali per la classificazione delle aree interessate come di "alta" o "normale valenza turistica": la Regione Lazio non può, dunque, ritenersi estranea alla presente controversia, in cui si discute anche dell'interpretazione da attribuire ai criteri fissati da detta determinazione (a titolo di esempio, si pensi a quanto si legge al parag. D.2, dov'è scritto che "i dati relativi alla collocazione degli scali ferroviari sono stati ricavati dal database della società Tr. S.p.A."). 4. Nel merito l'appello è parzialmente fondato. 4.1. In specie, è fondato il primo motivo di gravame, poiché l'art. 2 della concessione demaniale del 24 novembre 2006 obbliga il privato concessionario a "mantenere in perfetto stato le opere esistenti entro l'area concessagli, senza apportarvi alcuna modificazione non autorizzata, nonché ad eseguire gli interventi atti al miglioramento e al mantenimento in efficienza dello stabilimento balneare LA Pl.". Va quindi condiviso l'assunto di Roma Capitale secondo cui la natura e la consistenza delle strutture insistenti sull'area demaniale in concessione sono quelle scolpite nell'atto formale di rilascio della medesima concessione, che indica mq. 1.935,00 di pertinenze demaniali marittime, in cui si distinguono superfici commerciali per mq. 313. 4.2. La dimostrazione che si tratta di opere già incamerate dallo Stato la fornisce la concessione (o "licenza di rinnovo") del 24 luglio 2003, con decorrenza dal 1° gennaio 2003 al 31 dicembre 2008 (v. all. 4 del Ministero dei Trasporti depositato nel giudizio di primo grado il 16 marzo 2018), dove si menziona un'area di mq. 1.935,00 occupata da pertinenze demaniali: le misure ivi indicate, infatti, coincidono con quelle cui ha avuto riguardo la P.A. per il calcolo del canone demaniale (mq. 1622,00 per opere di difficile rimozione; mq. 200,00 aree commerciali; mq. 113,00 per aree commerciali con riduzione del 20%, per un totale di mq. 1935.00: v. la relazione di Roma Capitale del 7 aprile 2017 depositata in primo grado come all. n. 1 in data 7 febbraio 2018). 4.3. Non sussistono, pertanto, i presupposti di fatto per applicare alla presente controversia il principio della distinzione tra opere esistenti prima della concessione e opere realizzate o modificate dopo la concessione (solo le prime appartengono allo Stato e quindi sono opere pertinenziali assoggettate al calcolo del canone secondo i valori "OMI"), di cui alla già citata sentenza di questa Sezione n. 129/2023 del 4 gennaio 2023. 5. Non è invece fondato il secondo motivo di appello, dovendosi invece in questo caso estendere alla fattispecie per cui è causa i principi formulati della sentenza di questa Sezione n. 129/2023 in punto di illegittimità della classificazione del litorale del (omissis) (e quindi anche dell'area assentita in concessione alla Società ) come area "ad alta valenza turistica". 5.1. A tale conclusione si giunge in virtù della natura della deliberazione di classificazione del litorale del Municipio X di Roma Capitale come area "ad alta valenza turistica". Detta deliberazione (la n. 5, prot. n. 13880/15 del 26 novembre 2015, impugnata dalla ricorrente con l'ottavo gruppo di motivi aggiunti) si configura quale atto generale, inscindibile e sostanzialmente e strutturalmente unitario, che non può esistere per taluni e non esistere per altri, sicché la sua eliminazione dal mondo giuridico non può che avere efficacia erga omnes, senza essere limitata ai soggetti che si sono costituiti nella controversia che ha portato all'annullamento giudiziale della deliberazione stessa (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1305; Sez. III, 29 gennaio 2024, n. 905; Sez. VI, 27 luglio 2022, n. 6625; Sez. IV, 4 aprile 2018, n. 2097). 5.2. Ha sottolineato al riguardo il T.A.R. che, in forza del giudicato di cui alla sentenza n. 129/2023, l'Amministrazione è tenuta a rinnovare la valutazione del predetto tratto del litorale (nei limiti indicati dal giudicato stesso) con obiettiva efficacia di detto giudicato anche nei confronti di coloro che, come la "La Pl.", abbiano sollevato identica ragione di doglianza nell'ambito dei giudizi pendenti da essi instaurati, cosicché "motivi di uniformità di giudizio, comportano che nel ricalcolo dei canoni che discende dall'accoglimento del gravame, si dovrà tenere conto delle medesime condizioni territoriali e del litorale". E ad avviso del Collegio tale ragionamento deve essere condiviso. 6. La fondatezza del gravame nei limiti suesposti comporta che, in parziale riforma della sentenza di prime cure, va dichiarato l'obbligo di Roma Capitale di rideterminare i canoni a conguaglio tenendo conto degli esiti del nuovo giudizio sull'"alta valenza turistica" del territorio in esame, che la P.A. dovrà effettuare secondo i principi conformativi indicati nella sentenza di questa Sezione n. 129/2023 e in particolare nel paragrafo 18, n. 3) della stessa, ferma restando la consistenza delle opere insistenti nell'area assentita in concessione, secondo quanto si evince dalla "licenza di rinnovo" del 2003, raffrontata alla concessione demaniale del 2006, come specificato ai paragrafi 4.1, 4.2 e 4.3. 6.1. Va, infine, precisato che, ai sensi della determinazione regionale n. A022994 del 9 aprile 2013, sono classificate in categoria "A", "alta valenza turistica", tutte le aree, i manufatti, le pertinenze e gli specchi acquei concessi per utilizzazioni ad uso pubblico, ubicate nel territorio dei Comuni del litorale laziale, che hanno ottenuto un punteggio superiore a 50,00: orbene, la deliberazione n. 5 del 26 novembre 2015 ha assegnato alla zona del litorale di Roma Capitale un totale di punti 55,00, classificandola, perciò, come area ad "alta valenza turistica". A tale punteggio hanno concorso n. 8 punti per il criterio "A3 - Presenza di fenomeni erosivi", corrispondente a una presenza "nulla", e n. 5 punti per il criterio "D2 - Presenza di scali ferroviari", corrispondente alla presenza di uno scalo ferroviario "entro 3 km". Alla stregua della "forchetta" dei punteggi previsti per i criteri ora citati (da 0 a 8 punti per il criterio "A3" e da 0 a 5 punti per il criterio "D2"), è evidente che il nuovo giudizio sull'"alta valenza turistica" del litorale in esame può portare sia alla conferma della suddetta "alta valenza turistica", sia a una modifica di tale classificazione. 7. La fondatezza solo parziale dell'appello giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Settima (VII), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei termini di cui in motivazione e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge il primo motivo del ricorso di primo grado, confermando nel resto la sentenza. Compensa le spese del doppio grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2024, con l'intervento dei magistrati: Roberto Chieppa - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8511 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Va., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Comune di Pescara, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Di Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Azienda Territoriale per l'edilizia residenziale - A.T.E.R. di Pescara, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Zu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara Sezione Prima 14 luglio 2020, n. 223, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Pescara e dell'A.t.e.r. di Pescara, che ha proposto altresì appello incidentale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2024 il consigliere Angela Rotondano, viste le conclusioni delle parti come da verbale e le richieste di passaggio in decisione senza discussione depositate dall'avvocato Zu. per l'A.t.e.r. Pescara e dall'avvocato Di Ma. per il Comune di Pescara; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La signora -OMISSIS- impugnava dinanzi al Tribunale amministrativo per l'Abruzzo - Sezione staccata di Pescara, in uno agli atti presupposti e consequenziali, la determinazione dirigenziale n. -OMISSIS- del 17 giugno 2019, notificata il 26 giugno 2019, con cui il Comune di Pescara disponeva la decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica sito in Pescara alla via -OMISSIS- di proprietà dell'A.t.e.r., nel quale la ricorrente risiedeva con il proprio nucleo familiare sin dal 1 marzo 2004, con conseguente risoluzione di diritto del contratto e intimazione al rilascio. 1.2. Il provvedimento di decadenza dall'assegnazione era adottato sul presupposto che la ricorrente, insieme agli altri componenti il nucleo familiare, avesse adibito l'alloggio ad "usi contrari alla legge" in riferimento ad attività illecite accertate come da nota prot. -OMISSIS- del 4 marzo 2019 della Questura di Pescara. In particolare, a seguito di perquisizione domiciliare presso la predetta abitazione, la ricorrente veniva tratta in arresto e poi sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari con ordinanza del G.i.p. del 23 novembre 2016 per il delitto di detenzione e cessione di stupefacenti ex art. 73 d.P.R. 309/1990 commesso il 21 novembre 2016. 2. Avverso il provvedimento impugnato la ricorrente deduceva "Violazione e/o erronea applicazione dell'art. 34 lett.c) della legge regionale Abruzzo n. 96 del 1996, eccesso di potere per travisamento dei presupposti ed illogicità manifesta, per difetto, incompletezza di istruttoria nonché per carenza e/o insufficienza ed illogicità della motivazione e per disparità di trattamento", sostenendo di non aver "adibito" l'alloggio assegnatole ad attività illecite, poiché l'informativa di polizia giudiziaria redatta dagli operanti non conteneva alcun elemento o circostanza che facesse propendere per l'abituale utilizzo dell'alloggio per finalità illecite come sarebbe richiesto dall'art. 34 lett.c) della legge regionale n. 96/1996 (nella versione regolante ratione temporis la fattispecie, antecedente alle modifiche normative); pertanto, da un episodio occasionale non poteva ricavarsi che l'alloggio fosse utilizzato, in modo esclusivo o prevalente, per il compimento di presunte attività illecite. 2.1. Costituitasi in giudizio, l'Azienda territoriale per l'edilizia residenziale di Pescara (di seguito A.t.e.r.) eccepiva in rito il difetto di giurisdizione del T.a.r. adito (vertendosi, a suo avviso, in materia di impugnazione di un atto intervenuto nella fase del "rapporto", successiva alla adozione del provvedimento di assegnazione, in cui la pubblica amministrazione non eserciterebbe poteri autoritativi) e la carenza di legittimazione passiva per estraneità al procedimento di decadenza, di esclusiva competenza comunale; nel merito argomentava l'infondatezza del ricorso, insistendo per il rigetto. 2.2. Anche il Comune, costituitosi in resistenza, concludeva per la reiezione del gravame. 3. Respinta, con ordinanza confermata in appello, la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato per difetto di fumus, con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. adito, disattese le eccezioni di rito sollevate dall'A.t.e.r. (in quanto rilevava che si vertesse, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, in ipotesi di giurisdizione esclusiva ai sensi dell'art. 133 comma 1 lettera b) concernente le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici - tali essendo gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, facenti parte del patrimonio pubblico indisponibile - e considerava altresì sussistente la legittimazione passiva dell'A.t.e.r.), respingeva il ricorso, ritenendolo infondato nel merito. 4. Di tale sentenza di rigetto del gravame la ricorrente domanda la riforma deducendone l'erroneità con il presente appello, affidato a due motivi di impugnazione con i quali lamenta: "1. Violazione e/o erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 34, comma 1, lett. c) e d) l.r. Abruzzo 25 ottobre 1996, n. 96. Errore sui presupposti e travisamento dei fatti; 2. Eccesso di potere per ingiustizia ed illogicità manifesta. Violazione del principio del tempus regit actum". 4.1 Si sono costituite le Amministrazioni resistenti. 4.2. L'A.t.e.r. ha altresì proposto appello incidentale avverso le statuizioni che hanno rigettato l'eccezione di difetto di legittimazione passiva (capo 3 della sentenza). 4.3. Il Comune di Pescara ha argomentato l'infondatezza di entrambi i gravami, chiedendone il rigetto con conferma della sentenza impugnata. Inoltre, il Comune di Pescara ha evidenziato, depositando la relativa documentazione, che con nota prot.n. -OMISSIS- del 17 aprile 2023, è stata data esecuzione al provvedimento di decadenza ed è stato intimato all'appellante il rilascio dell'alloggio e che il 25 settembre 2023 l'ente civico ha provveduto all'esecuzione forzosa del provvedimento di rilascio dell'alloggio e, contestualmente, alla riconsegna all'ente proprietario. 4.4. Con ordinanza n. 6886 del 27 novembre 2020, il Collegio ha respinto l'istanza cautelare in quanto "non assistita da sufficienti elementi di fumus bonis iuris (in ragione anche della portata delle disposiziono di cui all'art. 34, comma 1, lett. c, della l.r. Abruzzo 25 ottobre 1996, n. 96, nel testo ratione temporis vigente)". 4.5. Alla pubblica udienza dell'11 gennaio 2024, la causa è passata in decisione. DIRITTO 5. Va esaminato con priorità l'appello incidentale con cui A.t.e.r. ripropone l'eccezione di carenza di legittimazione passiva respinta dal Tribunale. 5.1. L'Azienda territoriale per l'edilizia residenziale sostiene la propria estraneità al giudizio "in quanto l'atto impugnato era stato emesso dal Comune di Pescara e non dall'A.t.e.r.". 5.2. Si tratta di assunto non condivisibile. 5.3. Ai sensi della vigente normativa regionale, A.t.e.r. svolge un ruolo attivo nel procedimento amministrativo che conduce alla decadenza dall'assegnazione dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica, di cui è ente proprietario e gestore, quale componente della Commissione comunale avente funzioni consultive nella materia in questione e che rende il parere vincolante (atto presupposto parimenti impugnato in primo grado). 5.4. Come correttamente osservato dal primo giudice, all'A.t.e.r. è riconosciuto un ruolo nella composizione della Commissione alloggi che, in base alla normativa regionale, è composta, tra gli altri, anche da un rappresentante dell'A.t.e.r. competente per territorio, in quanto gli alloggi oggetto di assegnazione possono essere di sua pertinenza. 5.4.1. La Commissione a sua volta è insediata presso l'A.t.e.r. nella cui competenza territoriale è situato il Comune; la segreteria operativa della Commissione è formata da dipendenti dell'A.t.e.r., e quest'ultima provvede altresì a determinare il gettone di presenza ai commissari per gli alloggi di sua pertinenza. Sempre all'A.t.e.r. può essere demandata l'istruttoria delle domande di assegnazione previa convenzione con il Comune abilitato per legge ad avvalersi di personale dell'A.t.e.r. territorialmente competente; inoltre, su disposizione della Giunta Regionale può occuparsi della "raccolta e dell'elaborazione a livello regionale delle informazioni contenute nei moduli di domanda". 5.5. Per contro, nessuna delle decisioni richiamate dall'appellante incidentale conduce ad opposte conclusioni. 5.6. In particolare, il precedente del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5137 del 3 settembre 2018 riguarda tutt'altra fattispecie, e cioè l'autonomia funzionale in materia di formazione delle graduatorie per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica delle Commissioni provinciali (alle quali andava pertanto notificato il ricorso) rispetto all'A.t.e.r. territorialmente competente e al Comune di volta in volta interessato in relazione all'ubicazione degli alloggi da assegnare. 5.7. Quel che invece rileva è che anche nel caso di specie l'A.t.e.r. abbia svolto un ruolo attivo nell'ambito del procedimento che ha portato all'adozione del provvedimento comunale di decadenza dall'assegnazione dell'alloggio, nell'esercizio di poteri pubblicistici finalizzati a ripristinare il legittimo utilizzo dell'immobile. 5.8. Non a caso è stata rivolta all'A.t.e.r. (e non al Comune) la comunicazione del Comando della Compagnia Carabinieri di Pescara dell'8 febbraio 2019 con cui veniva richiesta nei confronti dell'odierna appellante, gravata da condanne penali irrevocabili in materia di sostanze stupefacenti, l'attivazione del procedimento di decadenza dall'assegnazione dell'alloggio ex art. 34 l.r. n. 96/1996 per perdita dei requisiti. 5.8.1. Si osserva poi che il provvedimento di decadenza impugnato si sostanzia nell'esercizio di un potere di riesame del provvedimento di assegnazione per circostanze sopravvenute che denotano la non rispondenza dell'assegnazione alle ragioni di utilità e solidarietà sociale cui è funzionalizzata per legge. 5.9. Anche all'A.t.e.r. spetta, pertanto, la legittimazione passiva nel presente giudizio avente ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento di decadenza, adottato in ragione del venir meno dei presupposti legittimanti il mantenimento dell'assegnazione in precedenza riconosciuta, nell'esercizio di poteri che regolano l'utilizzo degli alloggi pubblici da parte degli assegnatari. 6. Sono altresì infondate le doglianze proposte con l'appello principale, che, stante la loro connessione, si prestano a una trattazione unitaria. 6.1. Col primo motivo, l'appellante deduce l'erroneità della sentenza sia quanto alla interpretazione della normativa di riferimento che all'apprezzamento dei fatti di causa. 6.1.1. In particolare, l'appellante si duole che la sentenza abbia ritenuto l'alloggio in questione "adibito" ad attività illecite, fornendo un'interpretazione della norma regolante la fattispecie erronea e contrastante con il suo tenore letterale. L'art. 34, primo comma, lett. c), della l.r. n. 96/1996, nella versione vigente ratione temporis al momento dell'adozione del provvedimento di decadenza, richiede che l'alloggio sia stato "adibito ad attività illecite, rilevate in flagranza di reato", mentre solo a seguito delle modifiche sopravvenute con l'entrata in vigore della legge regionale n. 34 del 2019, che ha sostituito il testo normativo con la locuzione "ad una o più attività illecite, rilevate in flagranza di reato", si sarebbe conferita rilevanza ai fini della pronuncia di decadenza anche al singolo episodio criminoso. Pertanto, in base al principio tempus regit actum la contestazione di un episodio isolato e del tutto occasionale - quale sarebbe quello che ha dato luogo al provvedimento impugnato - non sarebbe sufficiente a dimostrare "una qualche abitualità dell'utilizzo dell'alloggio per finalità illecite", che, ai sensi della normativa del tempo, costituirebbe presupposto per l'adozione del provvedimento di decadenza. 6.1.2. L'appellante lamenta poi che il primo giudice non si sia avveduto difetto dei presupposti della decadenza dall'assegnazione anche alla luce delle circostanze del caso concreto. In particolare, la relazione degli agenti intervenuti non conterrebbe alcun elemento che faccia propendere per l'abituale utilizzo dell'alloggio per finalità illecite, non potendosi reputare sufficiente a tal fine, sulla base della normativa di riferimento, un singolo e risalente episodio delittuoso. Nelle more, non sarebbero emersi ulteriori episodi che dimostrino il coinvolgimento dell'appellante e dei suoi familiari in attività illecite; tant'è che una successiva perquisizione effettuata in data 22 gennaio 2019 per la ricerca di sostanza stupefacente presso l'alloggio in questione ha dato esito negativo salvo il rinvenimento di una somma di danaro sequestrata al coniuge dell'appellante e poi restituitagli "in assenza di un minimo quadro indiziario". 6.2. Con il secondo motivo l'appellante si duole che la sentenza non abbia tratto le logiche conseguenze dalla ritenuta applicabilità alla fattispecie della norma nella originaria versione, antecedente alle modifiche arrecate dalla citata legge regionale n. 34 del 2019. 6.2.2. La sentenza, oltre ad aver violato il principio "tempus regit actum", sarebbe viziata da evidente contraddittorietà nella misura in cui, da un lato, afferma che non esisteva prima della modifica una lacuna normativa che rendesse dubbia l'interpretazione della fattispecie, dall'altro rileva che piuttosto l'ampia formulazione della norma originaria già legittimerebbe l'interpretazione poi recepita dal legislatore, volta ad attribuire rilevanza anche al singolo episodio, accertato in flagranza di reato. 7. Rileva il Collegio che anche al riguardo la sentenza è corretta e merita conferma. 7.1. In punto di fatto, occorre ancora precisare che il provvedimento di decadenza impugnato è stato emesso, previo parere della Commissione E.r.p., poiché dalla informativa della Squadra Mobile della Questura di Pescara del 4 marzo 2019 era emerso che l'assegnataria signora -OMISSIS-, in data 23 novembre 2016, era stato tratta in arresto in flagranza per violazione dell'art. 73 del d.p.r. n. 309/1990 e poi sottoposta agli arresti domiciliari con ordinanza del Gip del 23 novembre 2016 per aver detenuto ai fini di cessione, all'interno dell'abitazione, sostanza stupefacente, come accertato all'esito di perquisizione domiciliare eseguita il 21 novembre 2016 (nel corso della quale venivano rinvenuti e sequestrati due involucri di cellophane trasparente aperti contenenti sette grammi di sostanza stupefacente del tipo eroina suddivisa in frammenti e un bilancino elettronico di precisione che la ricorrente custodiva nell'alloggio) e di informazioni acquisite da un cessionario trovato in possesso di sostanza stupefacente dopo essere uscito dalla predetta abitazione. Inoltre, risulta dagli atti (la circostanza non è contestata) che il 29 gennaio 2019 e il 12 febbraio 2019 i Carabinieri della Compagnia di Pescara segnalavano all'ente gestore che a carico dell'appellante erano stati emessi sentenze definitive di condanna per reati in materia di sostanze stupefacenti e che nell'immobile assegnato era stata rivenuta la somma di Euro 114.950,00 in contanti nonostante la dichiarata indigenza dell'interessata. 7.2. Ciò premesso, la decadenza è stata legittimamente pronunciata in relazione all'ipotesi di cui all'art. 34 comma 1 lett. c) della legge regionale Abruzzo 25 ottobre 1996, n. 96, sussistendone i presupposti. 7.3. La norma, nella versione applicabile ratione temporis, prevede la decadenza qualora l'assegnatario "abbia adibito l'alloggio ad attività illecite, rilevate in flagranza di reato". 7.4. La norma non richiede l'utilizzo continuativo e costante dell'alloggio quale luogo di svolgimento dell'attività illecita né la prova della stabile predisposizione di opere o attrezzature a scopo illecito. L'utilizzo, anche solo occasionale, dell'alloggio per lo svolgimento di un'attività illecita è sufficiente ad integrare la fattispecie normativa ai fini della decadenza dall'assegnazione. 7.5. Per contro, l'interpretazione fatta propria dall'appellante non trova riscontro nel dato normativo che in nessun caso richiede, ai fini della pronuncia di decadenza, la connotazione in termini di abitualità dell'attività espletata all'interno dell'alloggio o la pluralità e reiterazione delle attività illecite accertate. Anche la contestazione di un singolo episodio illecito è, dunque, sufficiente ai fini della decadenza dall'assegnazione. 7.6. Nel caso di specie non può dubitarsi che l'immobile sia stato adibito ad usi contrari alla legge. Tanto emerge, incontrovertibilmente, dalla informativa di polizia giudiziaria posta a base dell'istruttoria espletata dal Comune, dalla quale si evince che all'interno dell'abitazione assegnata l'appellante ha commesso il reato di detenzione e cessione di sostanza stupefacente, occultandovi lo stupefacente e un bilancino di precisione. 7.7. Neanche dalle modifiche sopravvenute per effetto dell'entrata in vigore della l.r. 31 ottobre 2019 n. 34 possono trarsi argomenti a favore degli assunti dell'appellante circa la necessaria abitualità dell'attività illecita accertata in flagranza di reato ai fini della decadenza dall'assegnazione. 7.8. Nella formulazione attuale la decadenza, ai sensi della lettera c), è pronunciata laddove l'assegnatario o altro componente del nucleo familiare o comunque coabitante abbia adibito l'alloggio e/o le zone limitrofe quali pertinenze di quest'ultimo "ad una o più attività illecite, rilevate in flagranza di reato". 7.8.1. Dal fatto che il legislatore regionale abbia inteso conferire espressamente rilevanza alla destinazione dell'alloggio anche ad una sola attività illecita non è dato inferire, a contrario, l'irrilevanza della unicità dell'episodio accertato sulla base della legislazione anteriore (che faceva riferimento più genericamente alla destinazione dell'immobile "ad attività illecite"). 7.9. Con le modifiche arrecate dalla legge regionale n. 34/2019 è stata indubbiamente ampliata la casistica delle ipotesi astrattamente riconducibili all'adibizione dell'alloggio ad una o più attività illecite, includendovi, sotto il profilo soggettivo, quali responsabili oltre l'assegnatario anche gli altri componenti del nucleo familiare o comunque coabitanti, nonché inserendo, sotto il profilo oggettivo, anche le zone limitrofe e/o pertinenze dell'alloggio quali siti rilevanti ai fini dell'accertamento del reato in flagranza. 7.9.1. Se è ben vero che il legislatore ha così ampliato e meglio circostanziato le condotte rilevanti ai fini della decadenza, ciò non può tuttavia condurre a un ridimensionamento della fattispecie originaria che sul punto non presentava lacune normative né dava adito a dubbi interpretativi. 7.9.2. Al contrario, come bene rilevato dal primo giudice, anche la norma originaria, correttamente interpretata nella sua ampia formulazione, non connotata, all'evidenza, da avverbi di significato univoco nel senso di restringerne la portata nei parametri della abitualità, sistematicità o continuatività dell'utilizzo illecito dell'alloggio, attribuiva rilevanza anche al singolo episodio, accertato in flagranza di reato. 8. In conclusione, l'appello principale nel suo complesso va respinto in quanto infondato. 9. Le spese di giudizio sono liquidate come da dispositivo secondo il principio di soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sugli appelli, principale e incidentale, come in epigrafe proposti, li respinge entrambi. Condanna l'appellante -OMISSIS- a rifondere le spese di giudizio a favore del Comune di Pescara e dell'Azienda Territoriale per l'edilizia residenziale - A.T.E.R. di Pescara che liquida in complessivi Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per ciascuna parte costituita, oltre oneri ed accessori se per legge dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Angela Rotondano - Consigliere, Estensore Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Elena Quadri - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8844 del 2021, proposto da: Si. Me., rappresentato e difeso dall'avvocato Si. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Or., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Terza n. 00367/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e udito, per parte appellante, l'avvocato Si. Le.; Viste le conclusioni rassegnate dalle parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il sig. Si. Me. ha appellato la sentenza n. 367/2021, con la quale il T.A.R. per la Toscana ha respinto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto avverso: i) il provvedimento prot. n. 1684 del 16.1.2016 con cui il Comune di (omissis) aveva respinto l'istanza di condono presentata dal dante causa dell'odierno appellante; ii) la comunicazione di avvio del procedimento per infrazione edilizia Id. 1091594 del 13.02.2016; iii) la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della domanda di condono; iv) ogni ulteriore atto presupposto o connesso; v) l'ordinanza di demolizione di opere abusive n. 66 del 27.7.2016. 2. In punto di fatto l'appellante ha esposto che: i) il provvedimento di reiezione del condono - assunto sulla base della normativa regionale attuativa del c.d. terzo condono - aveva riguardato un'istanza relativa a un intervento di ampliamento pari a mc 61,87 ed in termini di mq 30,54, con alcune modifiche interne ed esterne, inerenti al fabbricato oggetto della licenza edilizia n. 164 del 1974 volto a realizzare una nuova unità a destinazione residenziale in luogo delle parti destinate a pertinenze agricole; ii) con tale licenza il Comune di (omissis) aveva autorizzato "la costruzione di una casa colonica della consistenza di vani quattro più servizi destinati ad uso abitazione e di vani tre destinati ad uso agricolo"; iii). Il Comune aveva respinto la domanda di condono osservando che l'intervento aveva comportato la trasformazione dell'originario manufatto in un organismo integralmente diverso per dimensione e destinazione d'uso, come tale non suscettibile di condono ai sensi dell'art. 2 della L.r. n. 53/2004; iv) secondo il Comune, con la licenza edilizia n. 164/1974, era stata, chiaramente, distinta la volumetria destinata ad uso abitativo da quella destinata a rimessa agricola, e la porzione oggetto di condono aveva avuto una destinazione agricola; pertanto, il complessivo intervento aveva determinato un nuovo organismo edilizio, per effetto del cambio di destinazione d'uso, in contrasto con quanto previsto dall'art. 2, comma 1, lett. b), della L.r. n. 53/2004. 3. Il sig. Me. ha proposto ricorso al T.A.R. per la Toscana articolando quattro motivi. 3.1. Con il primo motivo ha dedotto che il Comune aveva autorizzato la costruzione di una casa colonica, ed era, quindi, irrilevante che vi erano tre vani pertinenziali utilizzati per l'attività agricola. Di conseguenza, l'opera di ampliamento oggetto della domanda di condono si sarebbe inserita nell'ambito dell'unica destinazione residenziale già assentita, e, quindi, la difformità sarebbe stata parziale e non integrale, e, quindi, suscettibile di condono. 3.2. Con il secondo motivo ha dedotto che il combinato disposto delle previsioni di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), della L.r. n. 53/2004 e 3 della L.r. n. 52/1999, aveva consentito il condono delle "addizioni funzionali di nuovi elementi agli organismi edilizi esistenti", che non avessero configurato nuovi organismi edilizi; circostanza da escludersi nel caso di specie, in quanto l'originario manufatto era stata una casa colonica, e, quindi, un fabbricato a destinazione d'uso residenziale e non due unità immobiliari di cui una a destinazione abitativa e una a destinazione agricola. 3.3. Con il terzo motivo il sig. Me. ha dedotto che, anche ritenendo che l'originaria licenza avesse assentito un immobile a destinazione residenziale e l'altro a destinazione agricola, il mutamento di destinazione d'uso sarebbe stato suscettibile di condono ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. e), della L. r. n. 52/1999. 3.4. Con il quarto motivo il sig. Me. ha dedotto la sussistenza di una motivazione illogica e contraddittoria. 4. Il sig. Me. ha poi proposto ricorso per motivi aggiunti, impugnando l'ordinanza di demolizione emessa dal Comune dopo il diniego di condono. L'odierno appellante ha dedotto l'invalidità derivata dell'ordinanza e, comunque, la violazione, sotto plurimi profili, della disposizione di cui all'art. 196 della L.r. n. 65/2014, e delle disposizioni di cui agli art. 1, 3 e 10 della L. n. 241/1990. 5. Il T.A.R. per la Toscana ha respinto il ricorso, come integrato da motivi aggiunti, con motivazione che saranno esaminate nel prosieguo della presente sentenza. 6. Il sig. Me. ha proposto appello, reiterando, in sostanza, i motivi articolati a sostegno del ricorso introduttivo e del ricorso per motivi aggiunti. Si è costituto in giudizio il Comune di (omissis) chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica del 23.4.2024 il Comune ha depositato memoria conclusionali. Le parti hanno depositato memorie di replica. All'udienza del 23.4.2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. Passando alla disamina del ricorso in appello il Collegio osserva come i primi quattro motivi possano trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi. 8. Con il primo motivo il sig. Me. parte ha censurato il segmento di sentenza in cui il Giudice di primo grado ha respinto il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, osservando che: i) la licenza edilizia rilasciata nel 1974 aveva previsto distintamente, con distinto computo di superficie e volumetria, il fabbricato destinato a civile abitazione e il fabbricato destinato a rimessa agricola, che anche nella planimetria allegata alla licenza edilizia erano stati rappresentati come parti distinte, collegate tra loro solo da un porticato; ii) nell'insieme le due unità avevano dovuto costituire una casa colonica (secondo la qualificazione data dal titolo edilizio), con la conseguenza che la realizzazione di un'abitazione al posto della rimessa agricola aveva determinato anche il venir meno della identificazione come "colonico" dell'edificio visto nel suo insieme (come aveva dimostrato la classificazione catastale A7 delle due unità immobiliari, trasformate in villini); iii) coerentemente con tali premesse, il condono aveva fatto riferimento ad una nuova unità residenziale e le due porzioni immobiliari erano state oggetto di distinti atti di donazioni e avevano distinti identificativi catastali; iv) pertanto, l'intervento realizzato aveva comportato la realizzazione di un nuovo organismo edilizio con difformità totale rispetto a quanto legittimamente assentito. 8.1. Parte appellante ha dedotto l'erroneità dell'assunto di partenza della sentenza di primo grado, consistente nella circostanza che la licenza edilizia del 1974 aveva assentito due unità immobiliari con differenti destinazioni d'uso. Secondo il sig. Me. questo postulato sarebbe stato erroneo in quanto: i) il titolo aveva fatto riferimento ad una "casa" colonica, intendendo - con l'uso della parola al singolare - un'unica unità immobiliare, destinata a funzione abitativa e munita di vani funzionali alla coltivazione del fondo; ii) il titolo, nel far riferimento ai vari vani, aveva fatto riferimento alla consistenza della casa colonica; iii) la destinazione d'uso doveva ritenersi quella prevalente del fabbricato o dell'unità immobiliare; iv) la casa colonica doveva, quindi, ritenersi un unico fabbricato con funzione residenziale, e, di conseguenza, il mutamento della destinazione di un vano avrebbe dovuto qualificarsi come una mera difformità parziale. 9. Con il secondo motivo la parte ha censurato la sentenza nella parte in cui ha respinto il secondo motivo del ricorso introduttivo, criticando la sentenza del giudice di primo grado ove aveva osservato: i) nel caso di specie vi sarebbe stata la creazione di un nuovo organismo edilizio e, dalla data di realizzazione del mutamento di destinazione indicata nella domanda di condono, si sarebbe potuto dedurre che l'originaria previsione del titolo non sarebbe stata mai attuata; ii) l'incremento volumetrico sarebbe stato pari a mc. 170, effettuando un confronto con la tabella allegata alla licenza edilizia; iii) non sarebbe stata condivisibile la deduzione del sig. Me., il quale aveva evidenziato che la volumetria indicata nella predetta tabella per la parte a destinazione agricola (mc. 237) era la volumetria da aggiungere alla volumetria preesistente pari a mc. 109, e, pertanto, la volumetria a destinazione agricola sarebbe stata pari a mc. 346; iv) infatti, dal prospetto allegato alla licenza edilizia si evinceva che nella zona di riferimento (zona F.1 del P.R.G.) la volumetria edificabile per rimessa agricola era pari a mc. 585,60 e che, detratto da tale importo il volume dei fabbricati agricoli già esistenti, pari a mc. 109, la volumetria massima assentibile per rimesse agricole era pari a mc. 476,6, superiore ai mc. 237 assentiti per la rimessa agricola di interesse della ricorrente; inoltre, le misurazioni del volume del fabbricato esistente, inserite nella tabella subito dopo l'indicazione del volume totale edificabile nella zona, servivano a dare contezza del rispetto dell'indice di edificabilità in ordine al progetto approvato; l'unità immobiliare a destinazione agricola non aveva, quindi, un volume corrispondente alla somma di mc. 237 e mc. 109, in quanto la licenza edilizia aveva fatto riferimento a una nuova casa colonica composta da due organismi edilizi collegati tra loro da un porticato, e non a un ampliamento costituito da volumetria aggiuntiva a quella preesistente. 9.1. Il sig. Me. ha censurato la sentenza richiamando, in primo luogo, le deduzioni contenute nel primo motivo e relative alla non configurabilità di un organismo edilizio integralmente diverso. In relazione all'incremento volumetrico il sig. Me. ha osservato che, nella domanda di condono, si era fatto riferimento ad un aumento di 61,87 mc., e tale dato era stato riportato anche dell'ufficio condono del Comune. Inoltre, il sig. Me. ha osservato che, nella tabella di calcolo allegata alla licenza edilizia, la volumetria assentita per la parte dell'unità immobiliare era stata pari a 237 mc. di nuovo volume, da aggiungersi ai 109 mc. di volume già esistente. 10. Con il terzo motivo il sig. Me. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo nella parte in cui ha escluso che il condono potesse autorizzarsi in caso di incremento volumetrico e cambio di destinazione d'uso. Secondo il Giudice di primo grado, la disposizione di cui all'art. 4, comma 1, lett. e), della L.r. n. 52/1999 non troverebbe applicazione in quanto, diversamente opinando, si sarebbe giunti alla illogica conclusione che l'ampliamento con cambio di destinazione d'uso, con creazione di nuovo organismo edilizio, sarebbe stato assentibile a differenza dell'ana ampliamento senza cambio di destinazione. 10.1. Il sig. Me. ha osservato come l'aspetto dirimente della controversia risiedesse nel verificare se si sia stati in presenza di una parziale o di una totale difformità ; nel primo caso il condono sarebbe stato assentibile anche a ritenere che le unità immobiliari fossero state due, tenuto conto del vincolo di pertinenzialità tra le stesse. 11. Con il quarto motivo il sig. Me. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto l'ultimo motivo del ricorso introduttivo, osservando che il Comune aveva assentito due distinte unità immobiliare, unite tra loro da un porticato, che, nell'insieme erano state qualificate come casa colonica. La modifica e l'ampliamento oggetto della domanda di condono avevano impresso a quella che era la casa colonica una nuova identità, che era quella propria di due villette contigue. Inoltre, l'intervento ricadente sull'ala del complesso edilizio a suo tempo autorizzato (costituito da porzione abitativa, porticato e porzione a destinazione agricola) si era tradotto in una completa modifica della destinazione d'uso e della conformazione della stessa. 11.1. Il sig. Me. ha evidenziato che la sentenza si era limitata a ribadire i precedenti argomenti senza tener conto delle deduzioni articolate nei primi tre motivi di ricorso, e volte a dimostrare che anche ipotizzando due unità immobiliari distinte (ma legate da nesso di pertinenzialità ) il condono sarebbe stato assentibile. 12. Prima di procedere ad esaminare il merito dei motivi di appello occorre vagliare la fondatezza dell'eccezione di inammissibilità articolata dalla difesa del Comune, secondo la quale la mancata impugnazione di un diniego di sanatoria del medesimo manufatto (nella cui istanza si era fatto esclusivamente riferimento al fabbricato di cui al mappale 1534) avrebbe determinato l'inammissibilità del primo motivo nella parte in cui si era sostenuto che la casa colonica sarebbe stata unica. 12.1. L'eccezione è infondata in quanto il diniego di sanatoria costituisce provvedimento amministrativo diverso da quello oggetto del presente giudizio e quanto rappresentato nell'istanza di accertamento di conformità non si traduce in una acquiescenza espressa o implicita al diniego di condono. 13. Procedendo ad esaminare il merito del ricorso in appello il Collegio precisa che verranno prese in considerazione le sole ragioni ostative indicate nel provvedimento di diniego e non anche ulteriori ragioni di incompatibilità dell'intervento oggetto dell'istanza di condono, sulle quali ha inteso soffermarsi la difesa comunale. Il riferimento è, in particolare, a quanto previsto dal P.R.G.C. del 1974 e dalla variante n. 36, su cui non si è, però, fondato il provvedimento di diniego, e che, in ipotesi, potranno essere approfonditi in sede di riedizione del potere, conseguente alla presente sentenza. Inoltre, la difesa comunale ha evidenziato come tale documentazione fosse reperibile sul sito web del Comune di (omissis). Tuttavia, non spetta al Collegio acquisire da siti internet documentazione non presente negli atti di causa e, come tale, non idonea a costituire un'evidenza che possa supportare il giudizio di questo Consiglio di Stato. 13.1. Operata tale precisazione si evidenzia come l'applicazione dei consolidati principi della giurisprudenza di questo Consiglio in ordine alla distinzione tra difformità totali o parziali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 maggio 2023, n. 5090) debba, necessariamente, tener conto della peculiarità del titolo edilizio originariamente rilasciato e di quanto ivi assentito. La licenza del 1974 aveva, invero, abilitato la realizzazione di un organismo unitario, indicato come un "casa colonica", e distinta, espressamente, dal titolo in vani: quattro (più i servizi) erano destinati ad uso abitazione; tre erano, invece, destinati ad uso agricolo. L'opera assentita non consisteva, quindi, in due unità distinte ma in un unico organismo, funzionale alle esigenze abitative e lavorative del colono, o, comunque, del soggetto esercitante attività agricola. Questa unitarietà funzionale dell'intervento assentito non è, invero, obliterabile facendo riferimento al diverso computo di superficie e volumetria destinati ad uso abitativo e a rimessa agricola. Infatti, tale differente computo è, semplicemente, strumentale a definire le esatte dimensioni delle due porzioni che, necessariamente, compongono una casa colonica, la quale risponde, in parte, alle necessità abitative dell'agricoltore e, in altra parte, alle esigenze connesse alla propria attività . Muovendo da questo assunto non è, quindi, condivisibile la sentenza di primo grado che ritenuto che il titolo avesse, in sostanza, abilitato ex novo due distinte unità, obliterando, in tal modo, le caratteristiche della casa colonica (che legittimava in parte già un'unità abitativa residenziale). 13.2. Inoltre, il mutamento della destinazione della rimessa agricola ha, certamente, fatto venir meno l'identificazione come "colonica" dell'edificio (come affermato dal T.A.R.), ma questa considerazione non smentisce l'unitaria considerazione dell'immobile da parte del titolo edilizio ma, al contrario, implicitamente la conferma. Infatti, il riferimento alla perdita dei tratti distinti postula, logicamente, la previsione - ad opera di un titolo - di un organismo unitario (pur se composito), nel quale le due distinte destinazioni sono componenti essenziali proprio per l'identificazione della casa colonica. Inoltre, non può omettersi di osservare come la non unitarietà dell'organismo non possa essere desunta dall'abuso ma vada verificata solo in relazione al titolo. Diversamente opinando, la condotta illegittima postuma diverrebbe il parametro per valutare quanto assentito dal titolo, invertendo l'operazione che deve essere, invece, compiuta e che non può che muovere proprio dalla licenza del 1974. Inoltre, non hanno neppure rilievo i successivi atti di donazione e le classificazioni catastali anch'esse sopravvenute rispetto al titolo. Si tratta, infatti, di atti che hanno rilievo sul piano civilistico e tributario e che, comunque, non conferiscono significato all'originario titolo edilizio. 13.3. Alla luce delle considerazioni svolte deve ritenersi che la licenza del 1974 aveva autorizzato un organismo unitario, composto da strutture destinate in parte ad uso abitativo e in parte ad uso agricolo. Rispetto al titolo edilizio, l'abuso realizzato (consistente in un lieve incremento volumetrico e nel cambio di destinazione d'uso dei vani finalizzati a rimessa agricola) non è idoneo a costituire la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso (dovendosi tener conto della già esistente prevalente destinazione residenziale). La situazione di difformità ha riguardato, infatti, solo una modesta porzione del complesso immobiliare assentito - ed è su quella che deve appuntarsi la valutazione dell'amministrazione - e, quindi, non può ritenersi sussistenza una difformità integrale dell'organismo, come assentito dal titolo ma eventualmente un cambio di destinazione di uso con opere - costituenti una difformità parziale - da valutarsi alla luce della normativa condonistica o da reprimersi se del caso rispettando il principio di proporzionalità - in caso di rigetto del condono per motivi diversi da quelli qui scrutinati e riportabili all'art. 2 comma 3 della legge regionale n. 53 del 2004 - con una riduzione in pristino stato nei limiti di quanto assentito nel titolo originario (e non con una demolizione integrale come nel caso del provvedimento impugnato con motivi aggiunti in primo grado). La valutazione successiva - nella riedizione del potere - tenuto conto della zonizzazione agricola dovrà incentrarsi sull'art. 2 comma 2 lettera c) e comma 3 della legge regionale Toscana n. 53 del 2004. 13.4. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso in appello in quanto, nel provvedimento impugnato, il Comune non ha contestato l'entità di incremento volumetrico contenuto nella relazione tecnica allegata al condono e, quindi, non ha posto a fondamento del diniego un eventuale superamento del limite di volumetria previsto dalla disposizione di cui all'art. 2 della L.r. n. 52/2004. 13.5. In ultimo, le considerazioni sin qui svolte consentono di ritenere fondati anche il terzo e il quarto motivo, sorretti, in sostanza, sul postulato tecnico-giuridico costituito dall'unitarietà dell'organismo autorizzato e dalla conseguente sussistenza di una difformità parziale. 14. In ragione di quanto esposto, il ricorso in appello deve essere in parte qua accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere annullato il provvedimento di diniego, con obbligo dell'Amministrazione di provvedere ad un nuovo esame dell'istanza, nel rispetto del vincolo conformativo derivante dalla presente sentenza. 14.1. Inoltre, le considerazioni esposte consentono di accogliere il quinto motivo di ricorso in appello, fondato sull'illegittimità derivata dell'ordinanza di demolizione per i medesimi vizi articolati avverso il diniego di condono e riscontrati dal Collegio. L'accoglimento di tale motivo consente, invece, di assorbire le ulteriori censure articolate avverso l'ordinanza-ingiunzione (ff. 17-22 del ricorso in appello). 15. Le questioni esaminate e decise esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 16. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate ai sensi degli articoli 26 del codice del processo amministrativo e 92 del codice di procedura civile, come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale 19 aprile 2018, n. 77, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, da individuarsi nella peculiarità della vicenda e delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. per la Toscana, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, come integrato da motivi aggiunti, e annulla i provvedimenti impugnati. Compensa le spese di lite del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3535 del 2020, proposto da -OMISSIS-., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Cl., Fa. Pe. e Fr. Za., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Ab., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Sesta n. 639/2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 8 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati An. Cl. e Fr. Za. in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l'utilizzo della piattaforma "Mi. Te."; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Con delibera n. 49 del 23 aprile 1985, il -OMISSIS- (-OMISSIS-) assegnava alla società appellante un suolo di mq 8.000 nel -OMISSIS- per la realizzazione di un opificio industriale. In data 15 aprile 1986, veniva stipulato apposito atto di convenzione con contestuale consegna del suolo e, previa presentazione del progetto esecutivo, veniva rilasciata la concessione edilizia n. 82/2001. 2 - Con nota prot. n. 3849 del 12 ottobre 2009, il -OMISSIS- avviava il procedimento di revoca dell'assegnazione del suolo, per il mancato rispetto dei termini previsti dalla convenzione per la realizzazione dell'intervento. Con nota del 29 ottobre 2009, la società -OMISSIS-. rappresentava le ragioni del riscontrato ritardo, adducendo che lo stesso fosse ascrivibile all'intervenuto sequestro delle quote societarie, dei beni e dei conti correnti della società . 2.1 - Con delibera n. 507 del 7 dicembre 2011, il -OMISSIS- - sul presupposto che l'appellante, a distanza di oltre dieci anni dalla concessione edilizia n. 82/2001, non aveva eseguito nessuna opera - procedeva alla revoca della delibera n. 49/1985, disponendo la retrocessione dell'area e la restituzione alla società dell'importo versato. 2.2 - Il -OMISSIS-, con delibera n. 132 del 5 aprile 2013, in accoglimento delle osservazioni della società, sospendeva il provvedimento di revoca, evidenziando che "la situazione della -OMISSIS- allo stato risulta complessa e ancora in via di risoluzione; che alcuni procedimenti giudiziari si sono conclusi positivamente nei confronti di parte della compagine societaria; che il lotto di terreno risulta nella disponibilità dell'-OMISSIS- e non è suscettibile di sequestro fino al trasferimento definitivo; attesa la volontà anche del custode giudiziario di voler portare avanti l'investimento", dando al contempo "mandato al Presidente di valutare unitamente ai rappresentanti della ditta -OMISSIS- ed al custode giudiziario nominato dalla A.G. i tempi e le modalità per la definizione della problematica". 2.3 - Con nota prot. n. 5050 del 24 luglio 2013, nel ribadire ulteriormente la volontà di portare a compimento il progetto originario e nelle more della definizione delle vicende penali, -OMISSIS-. chiedeva l'autorizzazione a realizzare la recinzione del suolo. Seguiva il parere favorevole del Comitato Direttivo del -OMISSIS- (prot. n. 324 dell'11 ottobre 2013) ai fini della richiesta del p.d.c, e concluso l'iter procedimentale, l'esecuzione di tali preliminari interventi. 3 - Con atto n. 278 del 23 novembre 2015, l'-OMISSIS- revocava la delibera n. 49 del 23.4.1985, con retrocessione dell'area e restituzione dell'importo versato, assumendo che: "i) il lotto in argomento non risulta edificato (come si evincerebbe dalla relazione n. 5802 del 23.9.2015); ii) sono trascorsi abbondantemente i termini convenzionali per la realizzazione dell'insediamento produttivo; iii) tutte le azioni della società -OMISSIS- sono da ritenersi dilatorie e contrastanti con il mandato statutario del consorzio -OMISSIS- che è quello di favorire l'industrializzazione delle aree presenti nei propri agglomerati; iiii) accertata, pertanto, l'inadempienza contrattuale, non giustificata da alcun motivo ostativo dipendente da questo Ente". 4 - La società appellante, con ricorso al Tar per la Campania, ha impugnato tale provvedimento (atto n. 278 del 23 novembre 2015), riferendo che: - coevamente all'adozione dello stesso era intervenuto il dissequestro delle quote, dei beni e dei conti correnti della -OMISSIS-. (come da provvedimento di dissequestro e restituzione n. 1615/2014 notificato in data 13.5.2105), ciò in forza di pronuncia penale pienamente assolutoria; - nel marzo 2015, il Tribunale di Napoli rendeva sentenza di assoluzione con formula piena del socio-OMISSIS- (per non aver commesso il fatto), ordinando il dissequestro e la restituzione dei beni oggetto dell'originario sequestro; - dunque, una volta intervenuti gli adempimenti restitutori, sarebbe stato possibile recuperare la piena operatività della società e dar corso alla realizzazione dell'intervento. 4.1- A sostegno del ricorso, la società ha dedotto: - la violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241/1990, per avere l'Ente posto in essere un procedimento di secondo grado ("riattivazione" di una revoca in precedenza sospesa), incidente su posizioni giuridiche consolidate, obliterando le garanzie di partecipazione dell'interessata; - la violazione dell'art. 63 della legge n. 448/1998, dell'art. 21-quinquies della legge n. 241/1990, dell'art. 1453 cod. civ, difetto di istruttoria e di motivazione, in ordine alla concreta imputabilità alla società del ritardo (da ricondursi piuttosto al factum principis del sequestro penale di alcuni pacchetti societari) e alla "decadenza sanzionatoria", conseguentemente disposta; - la contraddittorietà rispetto al provvedimento n. 132/2013, con il quale l'Ente - non disponendo la revoca dell'assegnazione del suolo, bensì la mera sospensione dell'atto di revoca n. 507/2011 - aveva mostrato di condividere le giustificazioni del ritardo addotte dall'interessata (e dunque la non imputabilità alla stessa); - la violazione dell'art. 97 della Cost. e del principio di tutela dell'affidamento. 5 - Il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il ricorso. 6 - La società originariamente ricorrente ha proposto appello avverso tale pronuncia per i motivi di seguito esaminati. 6.1 - Con il primo motivo l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui non ha accolto il primo motivo del ricorso di primo grado, con cui si lamentava l'assenza di comunicazioni e di contraddittorio nella fase conclusiva del procedimento. Per l'appellante, quale che sia la qualificazione dell'atto adottato nel 2015 - come conclusivo dell'originario procedimento avviato nel 2009, oppure quale atto di secondo grado finalizzato alla revoca dell'assegnazione del suolo - sarebbe stato necessario dare comunicazione alla parte interessata della volontà dell'-OMISSIS- di adottare il provvedimento impugnato, essendo trascorsi quasi tre anni dalla sospensione degli effetti della revoca adottata del 2011 (disposta con delibera n. 132 del 5 aprile 2013) e circa 6 anni dall'avvio dell'originario procedimento di revoca. Per l'appellante merita censura la pronuncia nel punto in cui il Giudice di prime cure ha ritenuto che l'avvio del procedimento di revoca comunicato il 12 ottobre 2009 terrebbe luogo di qualsiasi successiva comunicazione. L'appellante, al contrario, sostiene che il procedimento avviato nel 2009 si sarebbe concluso con la delibera di revoca n. 507 del 7 dicembre 2011, a cui è seguito nel 2013 un provvedimento di sospensione; nel 2015 si sarebbe instaurato un nuovo e diverso provvedimento di revoca non della delibera di sospensione del 2013, ma della delibera di assegnazione n. 49 del 23 aprile 1985. Secondo l'appellante nella vicenda non viene in rilievo un unico procedimento, dovendosi piuttosto, da un lato, qualificare l'atto di sospensione del 2013 come avente effetti caducatori rispetto alla revoca del 2011; dall'altro, l'atto di revoca del 2015 dovrebbe qualificarsi quale frutto di un nuovo procedimento sanzionatorio condotto senza l'osservanza delle necessarie forme e prerogative poste dalla legge a garanzia degli interessi privati incisi. L'appellante precisa che nel caso di specie il coinvolgimento della -OMISSIS- con l'allegazione degli esiti positivi dei giudizi penali e del dissequestro delle quote e dei beni societari avrebbe certamente inciso in termini favorevoli sul provvedimento conclusivo. In ragione di ciò, non avrebbe potuto trovare applicazione l'art. 21 octies della l. n. 241/90. 6.2 - Con il secondo motivo l'appellante lamenta l'erroneità e la contraddittorietà della sentenza impugnata nella misura in cui il Tar non avrebbe ravvisato il difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento di revoca, avuto riguardo alla consistenza dei contrapposti interessi nonché della concreta non imputabilità alla società del ritardo dell'inadempimento (da ricondursi piuttosto al sequestro penale di alcuni pacchetti societari) e la violazione dell'art. 63 della legge n. 448/1998, dell'art. 21-quinquies della legge n. 241/1990, dell'art. 1453 cod. civ. L'appellante censura la pronuncia nella parte in cui il Giudice di prime cure ha imputato il ritardo alla società appellante, in quanto sebbene avesse affermato che non fosse dubbia "la presenza di una causa esterna (atto dell'autorità giudiziaria penale) incidente - quanto meno in parte - sul momento strumentale dell'adempimento" al contempo ha ritenuto non sussistente la prova, da parte della ricorrente, in merito alla non imputabilità remota alla società debitrice della causa di arresto. L'appellante chiede la riforma della pronuncia altresì nel punto in cui il Tar ha ritenuto non sussistente un deficit motivazionale. La sentenza impugnata sarebbe, infatti, contraddittoria, in quanto ha ritenuto auto-sufficiente e ragionevole la motivazione del provvedimento gravato, dopo che per circa 25 anni l'-OMISSIS- non si era curata di siffatto ritardo (il quale non sarebbe ascrivibile a -OMISSIS-.) e, quando lo ha fatto, avrebbe instaurato un procedimento durato per oltre 6 anni. Per l'appellante non vi potrebbe essere alcuna automaticità tra il ritardo nell'adempimento e la revoca, posto che l'art. 63 della l. n. 448/1998 qualificherebbe come "facoltà " il potere di riacquistare le aree assegnate. Quanto al profilo revocatorio, l'ordinamento consentirebbe la revoca dei provvedimenti di assegnazione delle aree industriali per la mancata realizzazione dell'intervento ed il riacquisto ai sensi dell'art. 63 della l. n. 448/1999 sempreché sussistano i presupposti e le ragioni di interesse pubblico, di cui all'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990. Le cause di forza maggiore dovrebbero essere considerate dall'Amministrazione come fattore di possibile esclusione della responsabilità circa il mancato rispetto degli oneri assunti dall'assegnatario. La riacquisizione del bene al -OMISSIS- non potrebbe, quindi, derivare da un automatico riscontro del mancato rispetto dei termini, dovendo a tal fine sussistere sia i presupposti di fatto conseguenti alla colpevole mancata realizzazione dell'impianto specificamente previsti dall'art. 63 della l. 488 cit. e sia i "sopravvenuti motivi di pubblico interesse", di cui di cui all'art. 21-quinquies della l. 7 agosto 1990, n. 241. In merito alla non imputabilità del ritardo, l'appellante afferma che difetterebbe il nesso di causalità, in quanto i conti correnti ed i beni erano stati assoggettati da tempo a sequestro preventivo e, per l'effetto, erano stati affidati alla gestione di un Amministratore e di un Custode giudiziario; dunque, il perseguimento e la realizzazione dell'intervento erano di fatto sottratti alla volontà ed all'iniziativa dell'Amministratore e dei soci della -OMISSIS-. Alla luce delle delineate considerazioni, sarebbe evidente l'erroneità della decisione gravata nella misura in cui qualifica la condotta dell'appellante quale inadempimento degli obblighi contrattuali, o comunque tale da integrare la mancata prova della non imputabilità del ritardo, nonostante la sussistenza di una pacifica ipotesi di factum principis. 7 - Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, sono infondate. Seppure possa aderirsi alla prospettazione di parte appellante per cui non è possibile configurare un unico procedimento - iniziato nell'ottobre 2009 con la nota prot. n. 3849 con cui il -OMISSIS- avvia il procedimento di revoca e conclusosi sul finire del 2015 con la delibera n. 278 del 23 novembre 2015 di revoca della delibera n. 49 del 23.04.1985 - le ragioni di parte appellante, volte a sostenere la violazione delle garanzie partecipative, non possono comunque essere apprezzate favorevolmente. In fatto, con la comunicazione di avvio del procedimento del 12 ottobre 2009, nota prot. n. 3849, è stato avviato il procedimento di revoca della delibera n. 49/1985 sfociato nel provvedimento n. 507 del 7 dicembre 2011, che ha concluso tale primo procedimento. Su tale provvedimento è intervenuto il provvedimento di sospensione n. 132 del 5 aprile 2013 che ha sospeso il procedimento di revoca, evidenziando che "la situazione della -OMISSIS- allo stato risulta complessa e ancora in via di risoluzione; che alcuni procedimenti giudiziari si sono conclusi positivamente nei confronti di parte della compagine societaria; che il lotto di terreno risulta nella disponibilità dell'-OMISSIS- e non è suscettibile di sequestro fino al trasferimento definitivo; attesa la volontà anche del custode giudiziario di voler portare avanti l'investimento", dando al contempo "mandato al Presidente di valutare unitamente ai rappresentanti della ditta -OMISSIS- ed al custode giudiziario nominato dalla A.G. i tempi e le modalità per la definizione della problematica". Quindi, il -OMISSIS-, con il provvedimento n. 278 del 23 novembre 2015 - sulla premessa che "il termine per l'attivazione dell'opificio è di anni 6 dal verbale di consegna... che il lotto in argomento, a data attuale,... è non edificato; che sono trascorsi abbondantemente i termini stabiliti in convenzione per la realizzazione dell'insediamento produttivo; che tutte le azioni poste in essere dalla società -OMISSIS- sono da ritenersi dilatorie contrastanti con il mandato statutario del -OMISSIS- -OMISSIS- che è quello di favorire la industrializzazione delle aree presenti nei propri agglomerati", e ritenendo "accertata, pertanto, l'inadempienza contrattuale, non giustificata da alcun motivo ostativo dipendente da questo Ente", - ha deliberato la revoca della delibera n. 49/1985 e di tutti gli atti successivi, disponendo altresì la riconsegna del suolo e tutti gli atti conseguenziali e connessi. Tale ultimo provvedimento, disponendo inequivocabilmente la revoca della delibera n. 49/1985, pare costituire un'autonoma e distinta espressione della volontà provvedimentale del -OMISSIS-, che non si inserisce nei procedimenti che l'hanno preceduta ed alla quale non può essere collegata la comunicazione di avvio del procedimento del 12 ottobre 2009. Anche a voler ritenere che tale ultimo provvedimento costituisca un atto di ritiro del precedente provvedimento di sospensione, ciò non equivale a dire che lo stesso si inserisca nella medesima sequenza procedimentale. In altri termini, pur avendo ad oggetto la medesima vicenda, il provvedimento oggetto del presente giudizio non può essere ricondotto al medesimo procedimento che ha avuto avvio con la comunicazione del 12 ottobre 2009, nota prot. n. 3849. Tale ricostruzione implica, come sostenuto da parte appellante, che il provvedimento di revoca da ultimo impugnato non sia stato formalmente preceduto da alcuna comunicazione di avvio del procedimento; né consta che la società, dopo il provvedimento che aveva sospeso il precedente provvedimento di revoca disposta con il provvedimento n. 507 del 7 dicembre 2011, abbia interloquito con il -OMISSIS-. Tali violazioni procedimentali non sono tuttavia idonee ad incidere sulla legittimità del provvedimento impugnato, che ben può considerarsi necessitato e dal contenuto vincolato, per le ragioni di seguito spiegate, con conseguente irrilevanza di ogni diversa argomentazione difensiva della società (cfr. art. 21 octies della l. 241/90). Seppure, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, l'esercizio del potere di autotutela presuppone l'apertura di un nuovo procedimento volto al riesame del provvedimento già adottato, apertura che deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio di cui all'art. 7 della legge n. 241 del 1990, finalizzata a garantire alla parte interessata la partecipazione al procedimento stesso onde far valere in quella sede i propri interessi, la giurisprudenza ha altresì chiarito che "la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento non inficia il provvedimento conclusivo qualora il contenuto di questo sia vincolato, e non possa essere modificato sulla base di eventuali osservazioni del destinatario" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2015, n. 233). Nel caso di specie, il contenuto del provvedimento di revoca, nel contesto nel quale è intervenuto, si presenta, per l'appunto, vincolato come di seguito meglio spiegato. 7.1 - La conclusione che precede risulta confermata dall'inconsistenza degli argomenti spesi dall'appellante a dimostrazione della dedotta carenza di motivazione e di istruttoria, da cui l'assenza di ogni possibile e significativo contributo partecipativo della società, che se esaminato avrebbe potuto portare ad una determinazione diversa. Il provvedimento impugnato si basa sulle seguenti ragioni: "VISTO Che nella citata convenzione è stabilito che il termine per l'attivazione dell'opificio è di anni 6 dal verbale di consegna ossia due anni per le opere di prima fase e quattro per la completa utilizzazione dell'opera; Che il lotto in argomento, a data attuale, come risultante dalla relazione di cui al prot. n. 5802 del 23/9/2015 è non edificato; Che sono trascorsi abbondantemente i termini stabiliti in convenzione per la realizzazione dell'insediamento produttivo; Che tutti le azioni poste in essere dalla società -OMISSIS-. sono da ritenere dilatorie e contrastanti con il mandato statutario del -OMISSIS- -OMISSIS- che è quello di favorire la industrializzazione delle aree presenti nei propri agglomerati; Accertata pertanto, la inadempienza contrattuale, non giustificata da alcun motivo ostativo dipendente da questo Ente. RITENUTO Nell'interesse generale di dover procedere alla revoca dell'assegnazione e a tutti gli atti conseguenti e connessi, con retrocessione dell'area e restituzione dell'importo versato nella misura stabilita in Convenzione". Come anticipato, avuto riguardo al tempo trascorso dalla sottoscrizione della convenzione del 15 aprile 1986, il provvedimento di revoca appare doveroso, potendosi al più stigmatizzare solo il ritardo con il quale questo è intervenuto, non certo la sua portata decisoria. Al riguardo, come correttamente rilevato dal Tar: - l'art. 63, co. 1, della legge n. 448/1998 stabilisce che "i consorzi di sviluppo industriale di cui all'articolo 36 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, nonché quelli costituiti ai sensi della vigente legislazione delle regioni a statuto speciale, hanno la facoltà di riacquistare la proprietà delle aree cedute per intraprese industriali o artigianali nell'ipotesi in cui il cessionario non realizzi lo stabilimento nel termine di cinque anni dalla cessione"; - l'art. 7 della convenzione del 15 aprile 1986, a sua volta, prevedeva che "il nuovo opificio industriale dovrà essere attivato entro il termine di anni due dalla data del verbale di consegna del terreno per quanto riguarda le opere di prima fase e di anni tre per la completa utilizzazione dell'area. Nel caso però che entro il termine complessivo di anni cinque il terreno in oggetto restasse in tutto o in parte inutilizzato, ovvero che la Ditta non provvedesse ad attivare il nuovo opificio il -OMISSIS- promuoverà l'azione per la retrocessione al -OMISSIS- stesso dell'area non utilizzata, convenendosi fin da ora che alla Ditta sarà rimborsato il prezzo a metro quadrato pagato, detratto il 12% per spese generali nonché le spese per la risoluzione totale o parziale del contratto di vendita ed i danni eventualmente conseguenti..."; - l'art. 53, co. 7, del d.P.R. n. 218/1978 (invocato dalla difesa del -OMISSIS-) stabilisce che "nelle aree e nei nuclei di sviluppo industriale il consorzio può promuovere, con le norme previste dal presente articolo, la espropriazione di immobili, oltre che ai fini dell'attrezzatura della zona, anche allo scopo di rivenderli o cederli in locazione per l'impianto di nuovi stabilimenti industriali e di pertinenze connesse, salvo il diritto degli espropriati alla restituzione, qualora gli immobili non siano utilizzati per lo scopo prestabilito entro 5 anni dal decreto di esproprio. Al riguardo, la Cassazione ha affermato che "il termine quinquennale non solo è posto a tutela dell'interesse dell'espropriato - il cui sacrificio non sarebbe giustificato se entro un congruo tempo non seguisse l'utilizzazione industriale del suolo - ma è altresì diretto a tutelare l'interesse pubblico all'effettiva realizzazione dei nuovi insediamenti produttivi. Poiché, infatti, l'attività del consorzio espropriante si esaurisce con la cessione del suolo e non è previsto - nell'ipotesi della vendita - alcun rimedio risolutorio dell'atto traslativo in caso di mancato raggiungimento dello scopo della complessa operazione, l'imposizione del termine suddetto, la cui inosservanza dà luogo alla restituzione, costituisce l'unico mezzo idoneo ad assicurare che l'imprenditore, conseguita la disponibilità del bene a condizioni di favore, faccia poi seguire l'impianto dello stabilimento... poiché un quinquennio è il tempo normalmente ritenuto sufficiente per l'attuazione dei nuovi insediamenti, la previsione di un termine di uguale durata ai fini dell'"utilizzazione" impone di ritenere che questa, ancorché non implichi l'esistenza di uno stabilimento già funzionante alla scadenza, richiede la sostanziale realizzazione dell'iniziativa, per modo che risulti la irreversibile destinazione del suolo al nuovo opificio e alle sue pertinenze ". Alla luce del quadro regolatorio innanzi tratteggiato, il provvedimento intervenuto nel 2015, tenuto conto che la convenzione è stata sottoscritta nel 1986 ed il permesso di costruire risale al 2001, reca una motivazione assolutamente esaustiva, evidenziano: a) che il mandato statutario del -OMISSIS- è quello di favorire l'industrializzazione delle aree; b) che il lotto in questione risulta non ancora edificato; c) che non vi è stata l'attivazione dell'opificio nel termine previsto; d) che tutte le azioni poste in essere dalla società assegnataria devono ritenersi dilatorie. A fronte di tale situazione oggettiva non rilevano le ragioni che hanno cagionato il blocco dell'iniziativa della società appellante, né se queste siano imputabili alla stessa. Anche ammesso che la mancata attivazione dell'iniziativa non sia ascrivibile a colpa dell'appellante, resta il dato oggettivo per cui a distanza di più di dieci anni alcuna opera era stata realizzata, risultando, dunque, in ogni caso prevalenti le ragioni di interesse pubblico, esplicitate nel provvedimento, alla retrocessione dell'area al fine di consentirne lo sviluppo industriale (in tale senso già l'ordinanza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2406 del 24 giugno 2016). In altri termine, alla luce delle considerazioni che precedono, il provvedimento impugnato appare necessitato a fronte della mancata attuazione dell'intervento durante un periodo di circa dieci anni. 7.2 - Per altro, in riferimento alla dedotta assenza di colpa dell'appellante giova osservare quanto segue. A seguito della concessione edilizia n. 82/2001, l'appellante non si era adoperata per la costruzione dell'opificio in oggetto e proprio tale circostanza aveva comportato l'avvio del procedimento finalizzato alla risoluzione della convenzione e alla decadenza dell'assegnazione con obbligo di retrocessione delle aree. Anche a fronte della comunicazione di avvio del procedimento di revoca del 29 ottobre 2009, l'appellante aveva presentato osservazioni con le quali chiedeva una proroga di 6 mesi per il completamento delle opere convenzionate, le quali, pertanto, potevano essere realizzate per stessa ammissione della società anche a fronte del sequestro dei conti correnti dei soci. Seguivano due note della -OMISSIS- una del 18.05.2015 a firma dell'Avv. Fe. Le. con cui chiedeva la sospensione in autotutela del suddetto provvedimento di revoca seguita da un ulteriore nota del 29.05.2012, a firma dell'Avv. Gi. Ce. che chiedeva l'annullamento in autotutela della delibera n. 507/11 e/o in subordine la sospensione della stessa attesa la volontà della -OMISSIS-. di realizzare l'opificio, in ragione della proroga dei termini dalla stessa richiesti a seguito del dissequestro di quote societarie avvenuto nel 2011. Tuttavia, la società non ha mai avviato i lavori. Seguiva la nota del 20.03.2013, con la quale -OMISSIS- -OMISSIS- invitava la ditta -OMISSIS-. a sgomberare l'area da persone e/o cose, così invitando la -OMISSIS-. ad ottemperare alla delibera di revoca a cui seguiva, in data 29.03.2013, un'ulteriore nota della società che (ri)chiedeva la sospensione del provvedimento di revoca, manifestando l'interesse a provvedere alla realizzazione dell'opificio. Il -OMISSIS- -OMISSIS- in data 5.4. 2013, giusta delibera n. 132 provvedeva alla sospensione della delibera 507/2011, attesa la volontà espressa della -OMISSIS-. di proseguire nell'investimento economico effettuato per la realizzazione dell'opificio in esame. A seguito di tale delibera, in data 24.07.2013, la -OMISSIS-., inviava al -OMISSIS- -OMISSIS- un progetto (protocollato con nm. 5050/13) per la realizzazione di un muro di cinta in cemento armato per la recinzione del lotto alla stessa assegnato, al fine di evitare lo sversamento di rifiuti, la quale era esitata favorevolmente dal -OMISSIS- -OMISSIS- (Delibera del Comitato Direttivo n. 324/2013 dell'11.10.2013). Dal medesimo -OMISSIS- era rilasciata, in data 06.12.2013, nulla osta (nota prot. 6810/2013) al suddetto progetto per la conseguente richiesta al -OMISSIS- per ottenere la concessione edilizia. Nonostante ciò, in data 21.09.2015, a seguito del sopralluogo presso l'agglomerato "Aversa Nord", emergeva che la società (cfr. verbale prot. n. 5802 del 23.09.2015) non aveva mai iniziato i lavori di costruzioni dell'opificio. Il -OMISSIS- -OMISSIS- prima di procedere alla revoca definitiva ha concesso nuovo termine alla -OMISSIS-. per avviare i lavori e così salvaguardare il proprio investimento; anche in tale periodo di tempo alcuna attività è stata posta in essere dalla società appellante. Alla luce di tali circostanze non può ritenersi che la società appellante sia esente da colpa per il ritardo nell'adempimento, non avendo mai concretamente dato inizio ai lavori. In conformità alla giurisprudenza, può invece affermarsi la legittimità del provvedimento di decadenza di un'assegnazione di terreno per la realizzazione di insediamenti produttivi per scadenza dei termini pattuiti nella convenzione, allorquando via sia la prova concreta che la ditta assegnataria non abbia un serio animus aedificandi di realizzare i lavori convenzionati. Questi possono reputarsi effettivamente iniziati quando siano di consistenza tale da comprovare l'effettiva volontà del beneficiario dello stesso di realizzare quanto da lui progettato, e non siano meramente simbolici, fittizi o preparatori, ovvero finalizzati a non rispettare la convenzione sottoscritta con il -OMISSIS- (cfr Consiglio di Stato del 19/4/2022, n. 2953). 8 - Con il terzo motivo l'appellante lamenta l'erroneità della pronuncia per non aver ravvisato il Tar la contraddittorietà dei provvedimenti adottati nel 2013 (sospensione) e nel 2015 (revoca) e la lesione dell'affidamento che gli atti adottati nel 2013 avrebbero ingenerato. Il Tar non avrebbe valutato che, in accoglimento delle istanze di riesame e di sospensione della revoca proposte dalla -OMISSIS-. tra il 2012 e 2013 (motivate in ragione della ricorrenza del sequestro penale e della non imputabilità per tale via del ritardo alla odierna appellante), il -OMISSIS-, con la delibera n. 132 del 5 aprile 2013, avrebbe preso atto di tali richieste, rilevando che "la situazione della ditta -OMISSIS- allo stato risulta complessa e ancora in via di risoluzione; che alcuni procedimenti giudiziari si sono conclusi positivamente nei confronti di parte della compagine societaria", e decideva di "sospendere il provvedimento di revoca - delibera n. 507 del 07-12-2011", dando al contempo "mandato al Presidente di valutare unitamente ai rappresentanti della ditta -OMISSIS- ed al custode giudiziario nominato dalla A.G. i tempi e le modalità per la definizione della problematica". Secondo l'appellante, il fatto che il -OMISSIS- ha revocato la concessione, dopo che a seguito della sospensione della revoca era rimasto inerte per circa tre anni, rileverebbe sotto due profili: quale riconoscimento della sussistenza e non imputabilità all'appellante delle situazioni di fatto determinanti il ritardo nell'adempimento degli obblighi convenzionali, in applicazione del principio di implicito riconoscimento dei fatti non contestati di cui all'art. 64 c.p.a.; quale concessione della sospensione peraltro "sine die", in conseguenza della sussistenza di situazioni all'appellante non imputabili e ostative all'adempimento degli obblighi discendenti dalla convenzione. Dunque, sarebbe innegabile la contraddittorietà dell'operato del -OMISSIS- e la ricorrenza di un affidamento legittimo tutelabile. Alla luce delle censure sollevate l'appellante chiede, ai sensi dell'art. 124 c.p.a., che sia reintegrata in forma specifica la propria posizione giuridica mediante il riconoscimento del diritto di riottenere la concessione e in caso di rigetto di questa il risarcimento per equivalente monetario dei danni subiti e subendi. 8.1 - La censura è infondata. Sul piano astratto un mero provvedimento di sospensione non appare idoneo a radicare una situazione di affidamento tutelabile, trattandosi di un provvedimento sostanzialmente cautelare, al fine di verificare la legittimità e la permanente opportunità del provvedimento sul quale interviene, paralizzandone gli effetti. Nello specifico, con la determinazione n. 132/2013 è stata disposta la sospensione del provvedimento di revoca (delibera n. 507 del 07.12.2011), in ragione del fatto che "la situazione della ditta -OMISSIS- allo stato risulta complessa e ancora in via di risoluzione; che alcuni procedimenti giudiziari si sono conclusi positivamente nei confronti di parte della compagine societaria; che il lotto di terreno risulta nella disponibilità dell'-OMISSIS- e non è suscettibile di sequestro fino al trasferimento definitivo" e "attesa la volontà anche del custode giudiziario di voler portare avanti l'investimento". Le motivazioni innanzi richiamate confermano come non sia configurabile alcuna situazione di affidamento tutelabile in capo alla società, dal momento che la causa dell'arresto di ogni iniziativa sull'area non è certo attribuibile al -OMISSIS-, né questo ha ingenerato alcuna aspettativa giuridicamente rilevante in capo alla società, essendosi limitato, in un'ottica collaborativa, a dar modo a questa di portare avanti l'investimento, tenuto conto del fatto che l'appellante aveva ribadito la propria volontà di voler proseguire nel progetto. 9 - Per le ragioni esposte, visto il rigetto delle censure che precedono, non può trovare accoglimento nemmeno la domanda risarcitoria svolta dalla società . 10 - In definitiva, l'appello va respinto. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta respinge l'appello e condanna parte appellante alla refusione delle spese di lite in favore del -OMISSIS- appellato, che si liquidano in Euro4.000, oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone fisiche citate nel provvedimento. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DE MASI Oronzo - Presidente Dott. PAOLITTO Liberato - Consigliere Dott. CANDIA Ugo - Consigliere Dott. BALSAMO Milena - Consigliere Rel. Dott. BILLI Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 15636/2017 R.G. proposto da: ASSOCIAZIONE (...), elettivamente domiciliata in ROMA VIA (...), presso lo studio dell'avvocato Na.Om. ((...); che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato Bo.Va. ((...) - ricorrente - contro COMUNE DI PORTO AZZURRO - intimato - avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. LIGURIA n. 2197/2016 depositata il 15/12/2016. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/04/2024 dal Consigliere MILENA BALSAMO. Udito il P.G. che ha concluso per il rigetto del ricorso. FATTI DI CAUSA 1. L'Associazione ha impugnato l'avviso di accertamento n. (...)/12 per la Tarsu annualità 2012 relativa, pretesa dal Comune per una superficie di 105 mq anziché di mq 68, deducendo che i locali oggetto di tassazione sono adibiti al culto o sono locali tecnici, ed in quanto tali beneficiano della esenzione prevista dal Regolamento comunale in materia di Tarsu; eccepiva altresì che la tariffa applicata era impropria in quanto relativa a caserme e case di reclusione. Il ricorso è stato respinto in primo grado. La contribuente ha proposto appello, che la Commissione tributaria regionale della Liguria ha respinto, sul rilievo che l'esenzione spettava solo per il locale più grande ma non anche per i locali indicati in planimetria come secondari, attesa la natura promiscua della destinazione, tenuto conto della classificazione attribuita in virtù della pratica edilizia. La contribuente ha quindi proposto ricorso per cassazione affidandosi a cinque motivi. Non si è costituito il Comune di Porto Azzurro. L' Associazione ha depositato una memoria difensiva in prossimità dell'udienza. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione egli artt. 62, comma 2, D.Lgs. 30 dicembre 1993, n. 504, 9, comma 2, lett. e del regolamento Tarsu, degli artt. 6, 9, 11 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, nonché degli artt. 3, 8, 19,20 della Costituzione, in relazione all'art. 36, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.. La ricorrente deduce che non sono consentiti trattamenti discriminatori nei confronti delle religioni diverse da quella cattolica e pertanto sono vietate speciali limitazioni o speciali gravami fiscali per le confessioni religiose e ciò a prescindere dalla circostanza che abbiano o meno stipulato un'intesa. In particolare, poi, assume che i giudici di merito non avrebbero giustificato l'esclusione della esenzione per la restante superficie. 2. Con il secondo mezzo di ricorso, si denuncia la violazione dell'art. 132, primo e quarto comma, c.p.c., ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c. per motivazione apparente, avendo il giudicante fondato la statuizione sul presupposto che i locali hanno una destinazione promiscua, trascurando del tutto di esplicitare le ragioni del suo convincimento, se non basandosi sulla categoria catastale attribuita al fabbricato in occasione della pratica edilizia presentata nell'anno 2003, ancorché l'associazione avesse dedotto nel ricorso che la categoria catastale da prendere in considerazione era individuata nella concessione edilizia del 2007. 3. Con il terzo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 62 e 67 del D.Lgs. 507 del 1993 nonché dell'articolo 9, comma 2, lett c) del regolamento Tarsu approvato con delibera di C.C. n. 52 del 28.09.1995. Deduce che il Comune nel suo regolamento Tarsu prevede l'esenzione dalla tassa per gli edifici adibiti al culto, in particolare per la parte dei locali strettamente connessi all'esercizio del culto, senza specificarne l'estensione o prevedere requisiti di prevalenza, stabilendo solo "la stretta connessione all'esercizio del culto". 4. Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. applicazione degli artt. 62 e 73 del D.Lgs. 507 del 1993 nonché dell'articolo 9, comma 2, lett. e) del regolamento Tarsu approvato con delibera di C.C. n. 52 del 28.09.1995; per avere il decidente attribuito alla definizione di "locali secondari " data dalla medesima associazione ai locali di più modeste dimensione nella denuncia di variazione con allegata planimetria del 22.03.2012 il significato di un uso promiscuo, contraddicendo la dichiarazione dell'appuntato dei carabinieri e le risultanze delle foto allegate da cui era agevolmente inferibile che i locali cd. secondari avevano le medesime caratteristiche di quelli principali in quanto destinati al culto. 5. Con il quinto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3), c p.c. per avere il giudicante fondato la sua decisione su "prove inesistenti" Si obietta che sia dalla denuncia di variazione citata che dalla certificazione di agibilità del 19.03.2007 si evince che l'immobile era accatastato in cat. E/7, mentre i giudici territoriali hanno valorizzato la categoria attribuita all'edificio in corso d'opera nell'anno 2003 e non hanno tenuto in debito conto il riconoscimento operato dal medesimo ente locale che alla pagina 5 delle controdeduzioni ha evidenziato che la destinazione del locale caldaia è stata individuata solo successivamente alla presentazione della denuncia di variazione trasmessa in data 22.03.2012 6. Il primo motivo non coglie la ratio decidendi della pronuncia impugnata, atteso che l'esenzione dalla imposta non è stata negata interpretando la norma nel senso della sua applicazione alle sole comunità religiose che hanno stipulato un'intesa ai sensi dell'art. 8 comma 3 della Costituzione; bensì sulla base dell'uso promiscuo dei locali secondari. 7. La seconda censura è destituita di fondamento, atteso che non consta un'apparenza motivazionale, bensì un percorso argomentativo che ben lascia cogliere la ratio decidendi in punto di esclusione dell'esonero dalla tassazione in ragione dell'uso promiscuo dei locali. Il percorso argomentativo è comprensibile e intellegibile. Come chiarito ancor di recente da questa Corte "In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. e dall'art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico - giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito" (v. Cass. 3819 del 2020). È stato messo, inoltre, in evidenza dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016) che "la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture". Nel caso in esame, la CTR ha ritenuto che la definizione quale "secondari" attribuita dall'ente a taluni locali, rispetto a quelli destinati al culto, li escludesse in quanto non strettamente connessi all'esercizio del culto, individuando nella nozione di "secondari" la natura promiscua dell'uso, in virtù della categoria catastale attribuita dall'ente in occasione della pratica edilizia, ancorché esclusi dalla contribuente dalla tassazione. 8. La terza e la quarta doglianza, con le quali si denuncia la violazione degli art. 62, 68 e 73 del D.Lgs. 507/93 nonché dell'art. 9 del regolamento comunale non superano il vaglio di ammissibilità. 8.1. Nella presente fattispecie, si critica la valutazione del giudice come violazione degli artt. 62 e 73 D.Lgs. 504/93, norme che concernono l'intassabilità dei luoghi che per natura e che per destinazione non sono produttivi di rifiuti, tra i quali non sono individuabili i luoghi di culto, atteso che, diversamente da quanto disposto in materia di IMU e TASI, per il prelievo sui rifiuti, in assenza di espressa previsione contenuta nel Regolamento Comunale, la normativa nazionale non prevede esenzioni per i fabbricati (e loro pertinenze) destinati esclusivamente al culto. L'unica violazione censurabile è data dall'art. 9 del regolamento comunale che prevede l'esenzione per i luoghi di culto; tuttavia, nel caso in esame, non è in discussione l'esenzione, ma la destinazione dei locali secondari alle attività di culto, valutazione che attinge al merito della questione non sindacabile in sede di legittimità. 8.2. Delineando l'ambito di esclusione dalla soggezione alla T.A.R.S.U., l'art. 62, comma 2, del D.Lgs. 15 novembre 1993 n. 507 dispone che: "2. Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione". Ancora, l'art. 68, comma 1 e comma 2, del D.Lgs. 15 novembre 1993 n. 507 stabilisce che: "1. 8.3.Per l'applicazione della tassa i comuni sono tenuti ad adottare apposito regolamento che deve contenere: a) la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti e tassabili con la medesima misura tariffaria; b) le modalità di applicazione dei parametri 4 di cui all'art. 65; c) la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni di uso di cui all'art. 66, commi 3 e 4; d) la individuazione delle fattispecie agevolative, delle relative condizioni e modalità di richiesta documentata e delle cause di decadenza. 2. L'articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto, in via di massima, dei seguenti gruppi di attività o di utilizzazione: a) locali ed aree adibiti a musei, archivi, biblioteche, ad attività di istituzioni culturali, politiche e religiose, sale teatrali e cinematografiche, scuole pubbliche e private, palestre, autonomi depositi di stoccaggio e depositi di macchine e materiale militari;(...)". 8.3. L'art. 67 del D.Lgs. 504/1993 prevede che "Oltre alle esclusioni dal tributo di cui all'articolo 62 ed alle tariffe ridotte di cui all'articolo 66, i Comuni possono prevedere con apposita disposizione del regolamento speciale agevolazioni, sotto forma di riduzioni ed, in via eccezionale, di esenzioni". 8.4. In attuazione di tale criterio, l'art. 9 del regolamento comunale per l'applicazione della T.A.R.S.U. ha disposto che: "Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati, o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità. 2. Presentano tali caratteristiche, a titolo esemplificativo: (...) h) edifici o loro parti adibiti al culto nonché i locali strettamente connessi all'attività del culto stesso". 8.5. Assume la ricorrente di aver indicato con denuncia di variazione del 22 marzo 2012 le superfici tassabili corredandola da puntuale planimetria, allegando, nel giudizio di merito, una dichiarazione di un militare, tutti elementi probatori che non sarebbero stati valorizzati dal giudice di merito che ha valutato solo planimetria allegata alla pratica edilizia del 2003. 8.6. Tuttavia, in tema di scrutinio del ragionamento probatorio seguito dal giudice di merito, l'errore di valutazione nell'apprezzamento dell'idoneità dimostrativa del mezzo di prova non è sindacabile in sede di legittimità se non si traduce in un vizio di motivazione costituzionalmente rilevante, (Cass. 37382 del 21/12/2022; Cass. 13918 del 2022), Cass. n. 12971 del 2022). 8.7. Il giudice di merito nell'esprimere in sentenza il risultato della prova, è chiamato a selezionare da ogni elemento o mezzo di prova, ritualmente assunto, uno specifico contenuto informativo che, alla luce delle informazioni desunte dagli altri elementi e mezzi disponibili, utilizzerà nel comporre il ragionamento probatorio, in cui si articola la decisione. Orbene, è indubbio che l'attività di selezione di un dato informativo tra tutti i dati informativi astrattamente desumibili da un elemento o da un mezzo di prova, in quanto espressione del prudente apprezzamento del giudice di merito, è attività riconducibile in via esclusiva al sindacato del giudice di merito ed è estranea al sindacato della Corte di legittimità, con la conseguenza che non è denunciabile come vizio della decisione di merito. Parimenti indubbio è che la parte interessata non può più, una volta esaurito il corso dei giudizi di merito, ridiscutere in sede di legittimità le modalità attraverso le quali il giudice di merito ha valutato, dopo averlo selezionato, il materiale probatorio ai fini della ricostruzione dei fatti di causa. Tuttavia, in sede di legittimità, la parte interessata - oltre a poter denunciare l'omesso esame (da parte del giudice di merito) di specifici fatti (di ordine principale o secondario e comunque di carattere decisivo), che siano stati oggetto di contraddittorio processuale - può denunciare l'inesistenza di una informazione probatoria, che, proprio perché inesistente, illegittimamente è stata posta a fondamento della decisione di merito. 9. Aggiungasi che la omessa trascrizione o allegazione della denuncia di variazione e relativa planimetria rende il motivo inammissibile per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c.; il contenuto dei documenti su cui le doglianze sono fondate -documenti di cui non è indicato il contenuto (v. Cass. n. 28284/2020) - e indispensabile alla disamina delle censure articolate col motivo in parola, essendosi dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 9 del regolamento comunale. 10. Parimenti inammissibile è il quinto mezzo di ricorso. Per le considerazioni sopra esposte anche detto motivo rimette in discussione il potere valutativo delle prove del giudice di merito che ha valorizzato la pratica edilizia in cui si indicavano i locali "archivio, saletta-biblioteca" che, ad avviso del Comune e della medesima CTR, in quanto luoghi secondari non erano destinati esclusivamente al culto. Il nucleo centrale del motivo proposto dall'ente, infatti, concerne la fattispecie concreta oggetto di ricognizione da parte del giudice d'appello, mentre in rubrica si lamenta la violazione delle norme deputate a disciplinarne gli effetti giuridici, secondo quanto effettivamente voluto dalle parti, assumendosi che il giudicante avrebbe erroneamente valutato le prove allegate dalle parti. Una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione" (Cass. n. 27000/2016; Cass. n. 1229/2019). Detta impostazione è stata ulteriormente cesellata dalla successiva Cass., Sez. Un., n. 20867/2020, da cui sono stati tratti due specifici principi: 1) (Rv. 659037 - 01) "In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c."; e 2) (Rv. 659037 -02) "In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione". Orbene, la Corte - anche al netto di talune perduranti oscillazioni giurisprudenziali (v. ad es., Cass. n. 27847/2021) - ritiene di dover dare continuità a detto orientamento. 11. L'ultima censura denuncia l'omesso esame della denuncia di variazione e relativa planimetria. In particolare, la ricorrente assume che dalla planimetria (e non dalla denuncia di variazione) si evincerebbe che i locali esclusi dalla tassazione sono il luogo di culto principale e quelli secondari oltre ad un locale caldaia. 11.1. In disparte la circostanza che il locale caldaia non e esente da tassazione, in quanto locale idoneo a produrre rifiuti, si reiterano le considerazioni sopra esposte in merito al difetto di autosufficienza del motivo per l'omessa trascrizione o allegazione dei due documenti di cui si lamenta il mancato esame valutativo. 11.2. È indubbio che l'attività di selezione di un dato informativo tra tutti i dati informativi astrattamente desumibili da un elemento o da un mezzo di prova, in quanto espressione del prudente apprezzamento del giudice di merito, e attività riconducibile in via esclusiva al sindacato del giudice di merito ed e estranea al sindacato della Corte di legittimità, con la conseguenza che non è denunciabile come vizio della decisione di merito. Parimenti indubbio e che la parte interessata non può più, una volta esaurito il corso dei giudizi di merito, ridiscutere in sede di legittimità le modalità attraverso le quali il giudice di merito ha valutato, dopo averlo selezionato, il materiale probatorio ai fini della ricostruzione dei fatti di causa. 11.3. Tuttavia, in sede di legittimità, la parte interessata può denunciare l'omesso esame (da parte del giudice di merito) di specifici fatti (di ordine principale o secondario e comunque di carattere decisivo), che siano stati oggetto di contraddittorio processuale. 11.4. Anche per detta censura, si osserva che "In tema di ricorso per cassazione, il principio di autosufficienza, riferito alla specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda ai sensi dell'articolo 366, n. 6, c.p.c., anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso faccia rinvio agli atti allegati e contenuti nel fascicolo di parte senza riassumerne il contenuto al fine di soddisfare il requisito ineludibile dell'autonomia del ricorso per cassazione, fondato sulla idoneità del contenuto delle censure a consentire la decisione". (S.U. n. 8077/2012; Cass. 6769 del 01/03/2022; 12481 del 19/04/2022). 12. Il ricorso va dunque respinto. Non vi è luogo per provvedere alle spese di lite, stante la mancata esplicazione di attività difensiva del Comune. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. P.Q.M. La Corte - rigetta il ricorso; Si dà atto ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della legge n. 228 del 2012, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria civile della Corte Suprema di Cassazione il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 765 del 2022, proposto da An. Ca. e Ma. Gi. Me., rappresentati e difesi dall'avvocato Vi. Fa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. De Ni., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata, Sezione Prima, n. 00883/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2024 il Cons. Francesco Cocomile; Per le parti nessun difensore è comparso; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:. FATTO e DIRITTO 1. - Gli appellanti An. Ca. e Ma. Gi. Me., nella dedotta qualità di proprietari di un podere sito a (omissis) dotato di una stalla autorizzata con concessione edilizia n. 42/1999 e DIA n. 2751/2001, impugnavano dinanzi al T.A.R. Basilicata l'ingiunzione n. 9694 dell'11 agosto 2020 disposta ai sensi e per gli effetti dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con la quale il Comune di (omissis) ordinava la demolizione di: a) massetto in calcestruzzo individuato con Aa nella planimetria allegata; b) stalla individuata con B nella planimetria allegata; c) massetto in calcestruzzo individuato con la lettera b.a nella planimetria allegata; d) stalla individuata con la lettera C nella planimetria allegata; d) deposito letame coperto con teli ed individuato con la lettera E nella planimetria allegata. Deducevano i seguenti motivi: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e ss. legge n. 241/1990: sarebbe stata omessa la comunicazione di avvio del relativo procedimento, con violazione dell'art. 7 legge n. 241/1990; 2) nullità del provvedimento impugnato ai sensi dell'art. 21-septies legge n. 241/1990 per difetto di elementi essenziali: il provvedimento di demolizione sarebbe nullo ai sensi dell'art. 21-septies legge n. 241/1990 in quanto difetterebbe degli elementi essenziali, con riferimento alla specificazione dell'oggetto; 3) violazione e falsa applicazione dell'art. 31, lett. d) legge n. 457/1978: le porzioni abusive contestate rientrerebbero nel concetto di pertinenza per essere di modeste dimensioni in relazione alla grandezza della stalla e quindi non necessiterebbero di concessione (ovvero di permesso di costruire); non costituirebbero un volume autonomo e aggiuntivo; l'opera in questione sarebbe una mera pertinenza rispetto alla stalla. 2. - L'adito T.A.R., nella resistenza dell'intimata Amministrazione, con la sentenza segnata in epigrafe, respingeva il ricorso. 3. - Con rituale atto di appello i sig.ri An. Ca. e Ma. Gi. Me. chiedevano la riforma della predetta sentenza, deducendo i seguenti motivi: - "error in iudicando per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 del d.p.r. 6.6.2001, n. 380 e dell'art. 149 del d.lgs. n. 42/2004; error in iudicando per carente motivazione della sentenza impugnata e per travisamento dei fatti". Gli appellanti in sostanza riproponevano le censure articolate in primo grado e formulavano istanza istruttoria per verificare se quanto indicato nel provvedimento impugnato sia conforme ai titoli edilizi e se alcuni interventi non rientrino nell'edilizia libera. 4. - Resisteva al gravame il Comune di (omissis), chiedendone il rigetto. 5. - All'udienza pubblica del 7 maggio 2024 la causa veniva trattenuta in decisione. 6. - L'appello è infondato, potendosi conseguentemente prescindere dalla disamina della eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa comunale in relazione al motivo relativo alla asserita violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 d.p.r. n. 380/2001 e 149 dlgs n. 42/2004. In ogni caso in relazione al motivo de quo che verrà analizzato successivamente - come correttamente evidenziato nella sentenza appellata - non è possibile sostenere che i manufatti per cui è causa non abbiano comportato alcuna modifica della originaria unità immobiliare. 7. - Come visto gli odierni appellanti, ripropongono, in altra parte dell'atto di appello, riportandoli integralmente, i motivi già proposti in primo grado. 7.1. - In primis gli appellanti lamentano la violazione degli artt. 7 e ss. legge n. 241/1990 in relazione alla mancata comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo conclusosi con l'impugnato provvedimento. Il motivo non è meritevole di positivo apprezzamento. Invero, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione e, pertanto, i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 10 agosto 2011, n. 4764 ha rilevato: "... Il Collegio deve, innanzi tutto, ribadire che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione e, pertanto, i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto, né essendo necessario acquisire il parere di organi, quali - come nel caso di specie - la Commissione edilizia integrata. D'altra parte, l'art. 21-octies l. n. 241/1990, sia pure introdotto dalla l. n. 15/2005 (e quindi in momento successivo all'adozione del provvedimento impugnato in I grado) prevede espressamente (comma 2, primo periodo) l'irrilevanza dei vizi procedimentali allorché il contenuto del provvedimento vincolato corrisponde alla previsione di legge. ..."). La pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. III, 14 maggio 2015, n. 2411 ha statuito che "... Per consolidato indirizzo giurisprudenziale, l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (cfr. sez. V, 7/07/2014, n. 3438)....". Detto indirizzo è stato confermato dalla giurisprudenza successiva (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1298: "... L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura - come detto - vincolata, non necessita neppure della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 legge n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso (così Cons. Stato, Sez. VI, 11 maggio 2022, n. 3707)...."; Cons. Stato, Sez. II, 4 aprile 2024, n. 3085: "... non può parimenti contestarsi l'omesso avviso di avvio del procedimento in considerazione del fatto che "L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura - come detto - vincolata, non necessita neppure della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 legge n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso (così Cons. Stato, Sez. VI, 11 maggio 2022, n. 3707)." (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1298)...."). 7.2. - Gli appellanti lamentano, inoltre, la violazione dell'art. 21-septies legge 241/1990 in quanto l'ordinanza impugnata difetterebbe degli elementi essenziali per la sua legittimità . Anche detto motivo va disatteso. La censurata ordinanza è pienamente legittima sotto il profilo dell'essenzialità degli elementi costitutivi a partire dalla esatta individuazione dell'oggetto, del tutto lecito, possibile, determinato e specifico (cfr. pagg. 1 e 2 del provvedimento impugnato): "... a) immobile A stalla e zona mungitura: realizzato con Concessione Edilizia n. 42 del 02.07.1999 e successiva D.I.A. prot. n. 2751/2001(individuata con A nell'Allegata Planimetria) avente struttura portante in acciaio e coperta da lastre di fibro-cemento colorate, delle dimensioni in pianta di 30,20 x 84,00 m. Copertura a due falde sfalzate, di circa 100 cm, ed ha altezza al colmo di 650 cm e alle gronde di 350 cm. In difformità ai titoli sopracitati, risulta la realizzazione di una platea in cls in estendimento della stalla (Corpo A.a) di circa 5 m per l'intera sua lunghezza, per circa mq 420. b) Stalla (individuata con B nell'Allegata Planimetria) coperta per stazionamento animali. Struttura modulare composta da 4 elementi uniti, realizzata con elementi portanti in acciaio e coperta con telo di materiale plastico delle dimensioni totali in pianta di 41,40 x 13,00 m ed altezza media di 6 m (per un volume coperto di mc 3230 circa. Su due lati dei tunnel, è stato realizzato un massetto in cemento aventi dimensioni di 16,50 x 4,00 metri e 41,40 x 3,50 m (Corpo B.a). Confina, per un lato, con il corpo individuato con A (Stalla). La pavimentazione è in cls. Tale struttura risulta realizzata senza titolo edilizio, presumibilmente nel 2019. c) Stalla (individuata con C nell'Allegata Planimetria) realizzata in elementi portanti in acciaio e coperta da lastre in acciaio zincato, delle dimensioni in pianta di 10,00 x 22,00 m. Il tetto è ad unica falda avente altezza da terra variabile tra i 460 e i 380 cm, per un volume coperto di 924 mc. È aperta lateralmente. La pavimentazione è costituita da un basamento in cls che emerge circa 10 cm da piano di campagna. Tale struttura risulta realizzata senza titolo edilizio, presumibilmente nel periodo compreso tra il 28.07.2006 e il 18.05.2013. d) Deposito scoperto per letame (individuata con D nell'Allegata Planimetria) realizzata con platea in cls suddivisa da muri in c.a.; le dimensioni in pianta di 23,30 x 31,00 m circa. È realizzato conformemente a quanto previsto dalla Concessione Edilizia n. 42 del 02.07.1999. e) Deposito scoperto per letame (individuata con E nell'Allegata Planimetria) realizzato in aderenza al corpo D. Ha un ingombro in pianta di 19 x 41 m circa. Su tre dei 4 lati sono stati realizzati dei muri in cls dell'altezza di circa 2,40 m. Tale area, da indagini cartografiche, risulta utilizzata a scopo di deposito letame già dal 28.07.2006, anche se la conformazione attuale (ingombro in pianta) è stata raggiunta tra il 18.05.2013 e il 08.01.2015 Tale deposito risulta realizzata senza titolo edilizio....". 7.3. - Infine, gli istanti contestano l'asserita violazione dell'art. 31, lett. d) legge n. 457/1978 in materia di pertinenze edilizie, ossia la mancata considerazione della pertinenzialità dei manufatti assentibili con semplice D.I.A. e, per l'effetto, non sanzionabili con la demolizione. La contestazione non può essere condivisa. La considerazione di una tettoia di oltre 400 mq alla stregua di mero "elemento di arredo delle aree pertinenziali" appare, nello specifico, una forzatura. Il concetto di pertinenza edilizia ha in realtà una portata assai più ristretta dell'omo istituto civilistico. Inoltre, nel caso di specie la tettoia incide sul carico urbanistico e comporta la modifica della sagoma e la creazione di volume. La necessità del permesso di costruire si ricava dall'essere il manufatto di notevoli dimensioni esterno alla sagoma dell'edificio principale che si estende, come detto, per oltre 400 mq, e che amplia di centinaia di mq la parte legittimata, retto da travi e pilastri in acciaio e cemento armato con copertura con pannelli in acciaio zincato. In conclusione, come evidenziato dal Comune nel provvedimento demolitorio impugnato e dal T.A.R. nella sentenza appellata, non può parlarsi di opera pertinenziale, né tanto meno di intervento di manutenzione straordinaria rispetto a quanto era stato legittimato dalla D.I.A. del 2001. D'altronde, alla stregua dell'art. 3, comma 1, lett. e.6) d.p.r. n. 380/2001 (secondo cui sono "interventi di nuova costruzione", "quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali:... e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale; ...") la realizzazione di una tettoia - quale quella oggetto del presente contenzioso - intesa come elemento edilizio di copertura di uno spazio aperto sostenuto da una struttura discontinua, adibita ad usi accessori oppure alla fruizione di spazi pertinenziali, costituisce certamente una nuova costruzione (necessitante di permesso di costruire nel caso di specie omesso) e non mera pertinenza di un'unità immobiliare, avendo una volumetria superiore al 20% dell'unità principale. Si deve, pertanto, escludere il carattere pertinenziale delle opere in esame realizzate senza titolo, venendo in rilievo nel caso di specie una stalla di 533 mq per un volume coperto di 3230 mc e un'altra stalla di 220 mq per una volumetria coperta di 924 mc. 8. - In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte deve giungersi alla reiezione dell'appello. 9. - Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna gli appellanti An. Ca. e Ma. Gi. Me. in solido tra loro al pagamento in favore del Comune di (omissis) delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 3.000,00, oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli - Presidente FF Cecilia Altavista - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LORENZO ORILIAPresidente MAURO MOCCIConsigliere MARIO BERTUZZIConsigliere VINCENZO PICAROConsigliere ANTONIO MONDINIConsigliere-Rel. Oggetto: PROPRIETA' Ud.16/04/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 26532/2020 R.G. proposto da: CANGIOTTI SERGIA, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato MINARDI MIRCO (MNRMRC69T06A271W) -ricorrente- contro CANGIOTTI ANNUNZIATA, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato MARCELLI GIOVANNI (MRCGNN64S17G479P) -controricorrente- nonchè contro CANGIOTTI CARLO e MENEGAZZO LAURA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA ALESSANDRIA 119, presso lo studio dell’avvocato CICCHIELLO FRANCO (CCCFNC41D26H501P) che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato BATTAGLIA FRANCESCO (BTTFNC73R16D488N) -controricorrenti- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO ANCONA n. 400/2020 depositata il 05/05/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/04/2024 dal Consigliere ANTONIO MONDINI. Udite le conclusioni della Procura Generale, nella persona del dottor TOMMASO BASILE, che ha chiesto rigettarsi il ricorso. FATTI DI CAUSA 1. Con atto di citazione notificato in data 12.06.2008, Cangiotti Annunziata e Cangiotti Sergia convenivano innanzi il Tribunale di Urbino Cangiotti Carlo e Menegazzo Laura, al fine di sentir dichiarare il loro diritto di proprietà esclusiva sulla corte censita nel Catasto fabbricati del Comune di Urbino al Foglio 210, mappale 44 sub 4. A sostegno della domanda, le attrici deducevano che la corte in questione, ancorché catastalmente individuata come bene comune sia ai subalterni 44 sub 1 e 44 sub 2, di loro proprietà, sia ai subalterni 44 sub 6 e 44 sub 7, di proprietà dei convenuti, doveva ritenersi in realtà nella loro esclusiva titolarità, siccome derivante dall’antico mappale 719/6023 del Catasto pontificio, appartenuto ad un loro remoto dante causa e a loro pervenuto all’esito di una serie di trasferimenti compiuti nel corso del tempo, di cui producevano prova documentale. Affermavano, altresì, che l’odierna individuazione della corte come bene comune non censibile (B.C.N.C.), di pertinenza anche dei mappali dei convenuti, era dipesa da un errore dei tecnici che avevano curato il passaggio dal Catasto pontificio al Catasto dello Stato italiano, consistito in particolare nell’aver considerato unitariamente il mappale 44, benché frazionato in più subalterni, non tutti in realtà derivanti dal mappale 719/6023. I convenuti, nel resistere alla domanda, deducevano che il subalterno 44 sub 4 aveva da sempre costituito corte comune ai subalterni 44 sub 1, 44 sub 2, 44 sub 6 e 44 sub 7, ed affermavano quindi di esserne comproprietari con le attrici, vuoi per acquisto a titolo derivativo, vuoi per usucapione. A tali deduzioni replicavano le Cangiotti, eccependo in particolare la tardività dell’eccezione riconvenzionale di usucapione, siccome sollevata con comparsa di risposta tardivamente depositata, oltre il termine di venti giorni dalla prima udienza di comparizione. Il Tribunale di Urbino, istruita la causa mediante prova per testi e consulenza tecnica di ufficio, accoglieva la domanda attorea, ritenendo provata la proprietà esclusiva delle attrici in forza dei titoli versati in atti e delle convergenti conclusioni della CTU; il primo giudice riteneva invece non provato il possesso ultraventennale della corte da parte dei convenuti, in relazione alla genericità delle dichiarazioni rese sul punto dai testi escussi, che si erano limitati a dare atto dell’utilizzo dell’area come parcheggio. 2. Sul gravame di Cangiotti Carlo e Menegazzo Laura, e nella resistenza di Cangiotti Annunziata e Cangiotti Sergia, la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza n. 400/2020, riformava integralmente la pronuncia del Tribunale, rigettando la domanda formulata dalle originarie attrici. In particolare, la Corte distrettuale riteneva infondata l’eccezione di tardività della costituzione in primo grado dei convenuti, sul presupposto che il termine dei venti giorni antecedenti l’udienza di prima comparizione, fissata per il 7 novembre 2008, era scaduto domenica 19 ottobre, e doveva intendersi dunque prorogato a lunedì 20 ottobre, quale primo giorno non festivo successivo alla scadenza, data in cui i Cangiotti e Menegazzo avevano depositato la comparsa di risposta, con conseguente tempestività dell’eccezione riconvenzionale di usucapione ivi sollevata. Nel merito, il giudice di seconde cure osservava che: (a) gli appellanti, oltre al possesso ad usucapionem ultraventennale, avevano fatto valere anche un titolo di proprietà del 1959, con cui il loro dante causa aveva acquistato il subalterno 44 sub 3 (che poi sarebbe stato frazionato negli attuali subalterni 44 sub 6 e 44 sub 7) comprensivo delle adiacenze, pertinenze, diritti, azioni, ragioni, usi e servitù fino ad allora praticati; ampia formulazione, questa, ritenuta idonea a trasmettere anche la titolarità dell’area in contestazione, catastalmente individuata come bene comune non censibile; (b) tra il 1914 e il 1926, squadre specialistiche di cartografi avevano ricostruito ex novo tutte le mappe catastali, previa assunzione di informazioni direttamente presso gli interessati; d’altra parte, nessuno della famiglia Cangiotti risultava aver proposto reclamo, dopo la pubblicazione delle nuove mappe, nel termine all’uopo concesso; (c) le risultanze della CTU avevano sconfessato le deduzioni attoree circa la provenienza del subalterno 44 sub 4, poiché dagli accertamenti peritali era emerso che nel Catasto pontificio esso risultava indicato come mappale 719/6023 proveniente dal mappale 719, privo di attinenza con l’attuale foglio 210 mappale 44, che rappresenta la parte comune del fabbricato. Era peraltro prassi dei tecnici del Catasto attribuire lo scoperto al sub 1 (di proprietà delle appellate), per una mera semplificazione nella realizzazione dei disegni; (d)vi era discordanza e discontinuità tra la mappa d’impianto del Catasto italiano e le mappe del Catasto pontificio; (e) era impossibile ricostruire la vicenda della corte in contestazione in termini di proprietà esclusiva delle appellate sulla base degli atti da loro allegati, precedenti al passaggio dal Catasto pontificio a quello italiano; (f) di contro, le risultanze documentali e catastali, unitamente a quelle testimoniali sul possesso comunque esercitato dagli appellanti, deponevano per la sussistenza del diritto di comproprietà di questi ultimi sull’area oggetto di causa. 3. Per la cassazione di detta decisione ha proposto ricorso Cangiotti Sergia, affidandosi a tre motivi. 4. Cangiotti Carlo e Menegazzi Laura hanno resistito con controricorso. 5. Cangiotti Annunziata si è associata al ricorso principale, concludendo per il relativo accoglimento. 6. Con il primo motivo di ricorso Cangiotti Sergia deduce “nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli artt. 166 e 167 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4) c.p.c.”: afferma che il giudice di seconde cure avrebbe errato a considerare tempestiva l’eccezione riconvenzionale di usucapione sollevata dai convenuti nella comparsa di risposta depositata 18 giorni prima dell’udienza di prima comparizione delle parti; osserva che la scadenza in un giorno festivo del termine ex art. 166 cod. proc. civ., trattandosi di termine “a ritroso”, avrebbe dovuto comportarne la proroga al primo giorno non festivo antecedente, non a quello successivo. 7. Il secondo motivo è così rubricato: “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4) c.p.c. Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, in relazione all’art. 360 n. 5) c.p.c.”. La ricorrente si duole che la sentenza impugnata sarebbe solo apparentemente motivata quanto all’affermazione dell’esercizio del possesso sull’area in contestazione da parte degli originari convenuti; sostiene, altresì, che il giudice di merito avrebbe omesso di considerare che i Cangiotti e Menegazzo si erano limitati a sostenere di aver usato l’area come parcheggio; attività comunque inidonea a comportare l’acquisto della proprietà per usucapione. 8. Il terzo, articolato, motivo è così rubricato: “nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione dell’art. 132 n. 4 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4) c.p.c. e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c.”. La ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui, per un verso, non ha ritenuto provata la titolarità esclusiva della corte in capo alle originarie attrici; per altro verso, ne ha ritenuto provata la comproprietà con gli appellanti sulla scorta dei titoli versati in atti: lamenta, in proposito, che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente interpretato e travisato il titolo del 1959 prodotto dai convenuti, poiché esso aveva avuto ad oggetto i soli mappali 44 sub 2 e 44 sub 3 (quest’ultimo poi frazionato nei subalterni 44 sub 6 e 44 sub 7), e non anche il mappale 44 sub 4 relativo alla corte in contestazione; sostiene che la mancata proposizione di opposizioni da parte dei membri della famiglia Cangiotti alle nuove mappe, realizzate dai tecnici del Catasto italiano tra il 1914 e 1926, non avrebbe in alcun modo potuto conferire ai danti causa dei convenuti un titolo di proprietà che costoro non avevano, mentre del tutto irrilevante sarebbe stata la prassi di assegnare lo scoperto al sub 1, in quanto le attrici avevano sottoposto all’attenzione del giudice di merito i titoli di proprietà tramite cui poter risalire all’effettiva situazione dominicale della corte, attraverso i passaggi descritti e confermati anche nella CTU. Quanto, poi, all’affermazione secondo cui sarebbe stato impossibile ricostruire le vicende traslative dell’area in questione nel passaggio dal Catasto pontificio a quello italiano, in ragione della discordanza tra le rispettive risultanze, la Cangiotti denuncia la mera apparenza e contraddittorietà della motivazione, alla luce dell’accertata provenienza dell’attuale subalterno 44 sub 4 dal mappale 719/6023 del vecchio catasto Pontificio. 9. In esito all’adunanza camerale del 12 dicembre 2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza per il profilo di rilevanza nomofilattica relativo alla operatività delle preclusioni processuali in un caso come quello in esame in cui parte convenuta abbia eccepito tardivamente l'acquisto per usucapione della proprietà dell'area rivendicata dalla controparte, in quanto la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti diritti autodeterminati, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non assolve ad una funzione di specificazione della domanda o dell'eccezione, ma è necessaria ai soli fini della prova. 10. La Procura Generale ha chiesto rigettarsi il ricorso. 11. La ricorrente Cangiotti Sergia ha depositato memoria. 12. Cangiotti Carlo e Menegazzi Laura hanno depositato memoria RAGIONI DELLA DECISIONE 1.In relazione al primo motivo di ricorso va innanzi tutto osservato che il giudice di seconde cure è incorso in errore laddove ha dichiarato la costituzione del convenuto tempestiva. Non ha tenuto conto del fatto che il termine di costituzione del convenuto, ai sensi dell’art. 166 cod. proc. civ. applicabile ratione temporis (secondo cui, come è noto, la comparsa di risposta deve essere depositata “almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione”), si computa “a ritroso”, come tutti i termini contraddistinti dall’assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività. Questa Corte ha costantemente affermato che i commi 4 e 5 dell’art. 155 cod. proc. civ., diretti a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada, rispettivamente, in un giorno festivo o nella giornata di sabato, si applicano anche ai termini “a ritroso”, dovendosi tuttavia correlare l’operatività di siffatto meccanismo alle caratteristiche proprie di tale tipologia di termine, con la conseguente individuazione del dies ad quem nel giorno non festivo cronologicamente precedente rispetto a quello di scadenza, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio per le esigenze garantite dalla previsione del termine medesimo (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 182 del 04/01/2011, Rv. 616375; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14767 del 30/06/2014, Rv. 631570; Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 21335 del 14/09/2017, Rv. 645702; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8496 del 24/03/2023, Rv. 667109). Nel caso in esame, l’udienza di prima comparizione era fissata per il giorno 7 novembre 2008, il termine di venti giorni, a ritroso, è scaduto in data 18 ottobre 2008 e non in data 19 ottobre come affermato dalla Corte d’Appello (infatti, il giorno dell’udienza costituisce il dies a quo, che notoriamente non computatur in termino ai sensi dell’art. 155, primo comma, cod. proc. civ.). Il 18 ottobre 2008 cadeva nella giornata di sabato e, ai sensi del quinto comma dell’art. 155 cod. proc. civ., il dies ad quem è stato prorogato al primo giorno non festivo antecedente, cioè a venerdì 17 ottobre 2008. Si rileva ad abundantiam che, anche collocando la scadenza nella giornata di domenica 19 ottobre 2008 (come ha erroneamente fatto il giudice di merito), facendo corretta applicazione dei suindicati principi avrebbe comunque dovuto farsi luogo alla proroga del termine “a ritroso” a venerdì 17 ottobre 2008. Ne consegue la tardività della comparsa di risposta dei convenuti Cangiotti e Menegazzo, depositata solamente in data 20 ottobre 2008. 2. Riguardo al se alla tardività della costituzione di parte convenuta consegua o meno l’inammissibilità dell’eccezione riconvenzionale di usucapione sollevata con la comparsa di costituzione, il Collegio - premesso il rilievo per cui la questione può concretamente porsi solo nell’ipotesi rara in cui le circostanze integrative del possesso ad usucapionem siano state già acquisite al processo per tempo (evidentemente ad opera di parte diversa dal convenuto), altrimenti l’eccezione resta preclusa dall’essere correlata a fatti non più allegabili (v. in tema Cass.27405/2018)- ritiene il Collegio doversi rispondere in senso negativo: costituisce principio generale, enucleato da Cass. Sez. U, 03/06/2015, n. 11377, l’affermazione per cui "tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti- diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d'ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l'ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato ai casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l'effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all'esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all'esercizio di un'autonoma azione costitutiva"; l’eccezione di usucapione è un’eccezione in senso stretto soggetta al termine fissato per la proposizione di tali eccezioni (v., tra molte, Cass. Sez. 2, n.25107/2023; Cass. Sez. 2, n.27246/2023, in motivazione, Cass. Sez. 2, 27/08/2019, n. 21716; Cass. Sez. 2, 19/05/2015, n. 10206 e Cass. 30/06/2017, n.16279 relative alla disciplina anteriore alla riforma introdotta dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80; Cass. Sez. 6- 2, 4 marzo 2020, n. 6009; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 18322 del 27/06/2023, Rv. 668272); si applica, infatti, in forza del rinvio dell'art. 1165 c.c. alle norme sulla prescrizione in generale, l’art. 2938 c.c. che stabilisce la non rilevabilità d’ufficio della prescrizione non opposta. In questo senso la Corte si è già espressa è più volte espressa (v., tra altre, Cass. Sez. 2, 22/07/2002, n. 10685; Cass. 13107/2010). La Corte ha altresì ritenuto che tra le norme richiamate dall’art. 1165 c.c. vi sia anche l’art. 2937 c.c. che prevede la rinuncia alla prescrizione (v. Cass. Sez. 2 - , Sentenza n. 1363 del 19/01/2018 ; Cass. 17321 del 31/08/2015; Cass. 2616/1970; Cass. Sez. 1, Sentenza n.4945 del 28/05/1996) e come è stato notato dalla dottrina assolutamente prevalente espressasi pur essa per l’applicazione dell’art. 2938 c.c. all’usucapione, la non rilevabilità d’ufficio è coerente con il fatto che la parte che può far valere l’usucapione può anche rinunciarvi in forza dell’art. 2937 c.c. 3. Alla luce delle considerazioni che precedono, il primo motivo di ricorso deve essere accolto. 4. L’esame della censura veicolata con il secondo motivo è assorbito in conseguenza dell’accoglimento del primo motivo. 5. Il terzo, articolato, motivo è fondato. 5.1. Il Collegio ritiene dirimente l’esame delle argomentazioni in base alle quali il giudice di merito ha affermato l’impossibilità di ricostruire le vicende della corte oggetto di giudizio nel passaggio dal Catasto pontificio a quello italiano. Nello specifico, la Corte distrettuale ha ritenuto inconsistenti le deduzioni delle Cangiotti sulle origini del subalterno 44 sub 4 (che costoro sostenevano annesso al mappale 721 del vecchio Catasto pontificio, appartenente ad un loro dante causa), poiché, come si legge a pagina 6 della sentenza, ove si rinvia alla consulenza tecnica d’ufficio, “l’attuale particella 44 sub 4 (area oggetto di causa), era indicata sulle Mappe del Catasto Pontificio al numero 719/6023 e proveniva dalla particella 719 che non ha alcuna attinenza con il Foglio 210 mappale 44 che rappresenta la parte comune del fabbricato”. Orbene, in tale passaggio della motivazione si ravvisa un irriducibile contrasto logico, in quanto il giudice di merito afferma che l’attuale subalterno 44 sub 4 (cioè la corte di cui si discute) proviene dalla particella 719/6023 del Catasto pontificio, a sua volta derivante dalla particella 719, che non ha nulla a che vedere con il subalterno 44 sub 4 (che però è proprio l’area di cui si discute). Per dare un senso al periodo, deve necessariamente concludersi che la particella 719/6023 delle mappe pontificie individua la corte oggi censita come subalterno 44 sub 4, mentre la particella 719 individua tutt’altro bene, e che sia solo quest’ultima a non aver alcuna attinenza con il Foglio 210 mappale 44. Se così è, allora il passaggio in commento si risolve in una non motivazione, poiché, una volta individuata la provenienza della corte (particella 719/6023), è su quest’ultima che la Corte d’Appello avrebbe dovuto concentrare la propria attenzione al fine di ricostruire l’attuale regime dominicale dello scoperto, e non sulla particella 719, che per stessa ammissione del giudice di merito non ha nulla a che vedere con l’area oggetto di causa. In particolare, al fine di verificare l’esattezza di quanto sostenuto dalle appellate (cioè, che la corte in questione era loro pervenuta tramite un proprio remoto dante causa che ne era titolare esclusivo, essendo peraltro connessa alla particella 721, parimenti di un loro dante causa), il giudice di merito avrebbe dovuto procedere all’esame dei titoli di provenienza prodotti dalle Cangiotti. L’affermazione secondo cui sarebbe risultato impossibile “ricostruire la vicenda relativa alla corte oggetto di controversia in termini di proprietà esclusiva a favore delle sorelle Cangiotti Sergia e Annunziata sulla base degli atti da loro allegati, precedenti al passaggio dal Catasto Pontificio al Catasto dello Stato Italiano (1879/1919)” (così a pag. 7 della sentenza impugnata), appare invero apodittica in assenza di riferimenti alle risultanze dei titoli di proprietà prodotti dalle appellate, e si risolve in una motivazione affetta da mera apparenza, che peraltro contraddice apertamente quanto poco prima affermato dalla Corte d’Appello in ordine alla riconducibilità del subalterno 44 sub 4 dell’odierno Catasto italiano al mappale 719/6023 del vecchio Catasto pontificio. Una volta infatti accertato quale fosse il mappale che individuava lo scoperto nel Catasto pontificio, e qual è oggi il subalterno che lo individua nel Catasto italiano, in assenza di ulteriori chiarimenti (che il giudice di merito non rende) non è dato comprendere in cosa consista l’impossibilità di ricostruirne le vicende dominicali e traslative nel passaggio dal primo al secondo sistema. D’altra parte, tale impossibilità non può ritenersi derivare dalla mera “discordanza e discontinuità tra la Mappa d’Impianto del Catasto italiano e la Mappa del vecchio Catasto Pontificio” (così, ancora, a pag. 7 della sentenza), la quale piuttosto costituisce il presupposto di fatto della controversia in essere tra le parti, alla cui soluzione il giudice di merito avrebbe dovuto pervenire tramite l’esame dei titoli versati in atti, anteriori e successi al passaggio dal vecchio al nuovo Catasto. 3.3. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che la motivazione della sentenza impugnata non risulta rispettosa del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., in quanto non consente alcun controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio (Cass., Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 13248 del 30/06/2020, Rv. 658088; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022, Rv. 664120). Si impone dunque l’accoglimento del motivo in esame, con assorbimento degli ulteriori profili della censura articolati dalla ricorrente. 4. Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Ancona, in diversa composizione, che provvederà, altresì, alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame del merito, nonché per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 16/04/2024 IL CONSIGLIERE EST. IL PRESIDENTE Antonio Mondini Lorenzo Orilia

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta da: Dott. SORRENTINO Federico - Presidente Dott. Oronzo DE MASI Oronzo - Consigliere - rel. Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere Dott. PAOLITTO Liberato - Consigliere Dott. PICARDI Francesca - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27621/2020 R.G. proposto da: Da.Da., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato CI.CA. (Omissis), che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato RI. AL. (Omissis). -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (Omissis) che ex lege la rappresenta e difende. - controricorrente - avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.LOMBARDIA n. 208/2020, depositata il 27/01/2020, Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12/04/2024 dal Consigliere ORONZO DE MASI. FATTI DI CAUSA 1.Da.Da. ha proposto un motivo di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha riformato la prima decisione, resa sui ricorsi riuniti del contribuente, che aveva ritenuto illegittimi gli avvisi di liquidazione, con irrogazione di sanzioni, notificati dall'Agenzia delle Entrate per omesso integrale versamento dell'imposta di registro, relativamente alle annualità 2012 e 2013, in ordine al contratto di locazione, stipulato nel 2010 con Scandinavian Airlines System (Sas), avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo, sito in Milano, destinato al legale rappresentante della società (parte conduttrice del contratto di locazione). 2.La Commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che il comma 6 dell'art. 3, D.Lgs. n. 23 del 2011 esclude l'applicazione del regime sostitutivo di tassazione (c.d. "cedolare secca") previsto dal comma 1, a favore del locatore persona fisica che non esercita attività imprenditoriale, "alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate nell'esercizio di una attività d'impresa, o arti e professioni", perché in tale esclusione rientra anche l'ipotesi in cui sia il conduttore ad esercitare attività d'impresa o arti o professioni. 3.Ha resistito con controricorso l'Agenzia delle Entrate. 4.II P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso. 5.II ricorrente ha depositato ulteriore memoria. Ragioni della decisione 1.Con il motivo di ricorso il contribuente ha prospettato, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3, cod.proc.civ., la violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 6, del D.Lgs. n. 23 del 2011, per avere la CTR erroneamente equiparato, ai fini qui considerati, i conduttori ai locatori, atteso che soltanto questi ultimi, per poter usufruire del regime della cedolare secca, non devono agire nell'esercizio di un'impresa, arte o professione. Deduce, altresì, che la formulazione del testo normativo non offre alcun argomento a supporto della restrittiva interpretazione fornita dall'Amministrazione finanziaria nella Circolare del 1/6/2011 n. 26/E, essendo tale limite soggettivo, al regime opzionale della "cedolare secca" sugli affitti, riferibile unicamente ai locatori. 2.La censura è fondata. Il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento di unità immobiliari abitative, e relative pertinenze, locate ad uso abitativo, che abbia optato per il regime della "cedolare secca", assolve il proprio obbligo tributario mediante versamento, in acconto e a saldo, della "cedolare secca", secondo le modalità definite con il Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate del 7 aprile 2011, emesso in forza di quanto previsto dall'art. 3, comma 4, del decreto legislativo citato. La base imponibile è determinata sulla scorta del canone di locazione annuo stabilito dalle parti ed in ragione di una aliquota del 21% (o, in caso di contratti a canone concordato, di quella ridotta: v. da ultimo D.L. n. 47 del 2014). Il locatore, che opta per tale regime tributario agevolato, non può chiedere l'aggiornamento del canone. Ai sensi dell'art. 3, sesto comma, del D.Lgs. n. 23 del 2011 le disposizioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5 del presente articolo, che prevedono il descritto regime della cedolare secca, non si applicano alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate nell'esercizio di una attività d'impresa o di arti e professioni. Stante la necessità di coordinare la disposizione in esame con quelle richiamate, di cui ai precedenti commi, che attribuiscono esclusivamente al locatore la possibilità di optare per il regime tributario della cedolare secca, senza che il conduttore possa in alcun modo incidere su tale scelta, l'esclusione logicamente deve essere riferita, esclusivamente, alle locazioni di unità immobiliari effettuate dal locatore nell'esercizio della sua attività di impresa o della sua arte/professione, restando, invece, irrilevante la qualità del conduttore e la riconducibilità della locazione, laddove ad uso abitativo, alla attività professionale del conduttore (ad esempio, come avvenuto nel caso di specie, per esigenze di alloggio dei suoi dipendenti). In questo senso depone non solo la lettera, ma anche la ratio della legge, che non è solo quella di contrastare l'evasione fiscale, ma anche quella di facilitare il reperimento di immobili ad uso abitativo (esigenza che può sorgere anche nell'esercizio delle attività imprenditoriali, arti o professioni, che sempre più spesso avvengono lontano dal luogo di residenza/sede o sono dislocate in plurimi contesti territoriali) e quella di sostenere la conservazione del patrimonio immobiliare, che richiede periodiche spese di manutenzione straordinaria. La circostanza che il regime tributario in esame avvantaggia anche il conduttore (in considerazione dell'esclusione dell'imposta di registro e dell'aggiornamento del canone) non può certo giustificare un'interpretazione dell'art. 3, comma 6, del D.Lgs. n. 23 del 2011, da cui derivi una riduzione dell'ambito applicativo della cedolare secca in danno del locatore, a cui è riservata la relativa scelta e che è il beneficiario principale di tale regime. Né possono desumersi contrari argomenti interpretativi dall'art. 3, comma 6-bis, D.Lgs. n. 23 del 2011, ai sensi del quale l'opzione di cui al comma 1 può essere esercitata anche per le unità immobiliari abitative locate nei confronti di cooperative edilizie per la locazione o enti senza scopo di lucro di cui al libro I, titolo II del cod. civ., purché sublocate a studenti universitari e date a disposizione dei comuni con rinuncia all'aggiornamento del canone di locazione o assegnazione. In primo luogo, il comma 6-bis non esclude affatto che, in base ai commi precedenti, il locatore possa esercitare l'opzione per la cedolare secca con riferimento ad un contratto di locazione ad uso abitativo concluso con un imprenditore/professionista e riconducibile all'attività di quest'ultimo. Inoltre, non può certo ritenersi che, posta questa premessa, il comma 6-bis dell'art. 3 del D.Lgs. n. 23 del 2011 sia privo di effetti. Difatti, tale disposizione disciplina la possibilità per il locatore di optare per la cedolare secca in ragione non del contratto di locazione concluso con conduttori cooperative edilizie per la locazione/enti senza scopo di lucro, ma piuttosto di quello di sub-locazione con studenti universitari: possibilità che, da un lato, prescinde dal tipo di contratto "madre" concluso (che potrebbe anche non essere una locazione ad uso abitativo), ma che, dall'altro lato, esige, al fine di evitare abusi o distorsioni della cedolare secca, la successiva stipula di un contratto di sub-locazione ad uso abitativo, con rinuncia all'aggiornamento i.s.t.at., a favore di studenti universitari e la messa a disposizione dei Comuni. Solo per completezza deve sottolinearsi che l'Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte: di fronte alle norme tributarie, essa ed il contribuente si trovano su un piano di parità, per cui la cosiddetta interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o risoluzioni, non costituisce mai fonte di diritto (Cass. n. 3598/2022; n. 14619/2000; Cass., Sez. U, n. 23031/2007). Conseguentemente, la Circolare del 1/6/2011 n. 26/E, in quanto non manifesta attività normativa, essendo atto interno della stessa Amministrazione, è destinata ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti ed è, altresì, inidonea ad incidere sugli elementi costitutivi del rapporto tributario. 3. In conclusione, il ricorso merita accoglimento in virtù del seguente principio di diritto: in tema di redditi da locazione, il locatore può optare per la cedolare secca anche nell'ipotesi in cui il conduttore concluda il contratto di locazione ad uso abitativo nell'esercizio della sua attività professionale, atteso che l'esclusione di cui all'art. 3, sesto comma, D.Lgs. n. 23 del 2011 si riferisce esclusivamente alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate dal locatore nell'esercizio di una attività d'impresa o di arti e professioni. Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con accoglimento dell'originario ricorso. L'assenza di precedenti giurisprudenziali giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie l'originario ricorso introduttivo del giudizio; dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, 12 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8838 del 2021, proposto da Ra. Di Da., rappresentato e difeso dall'avvocato Ra. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Napoli in persona del Legale Rapp.Te P.T, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., An. Ca., Ga. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Le. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta n. 01140/2021, resa tra le parti, della sentenza del 22.02.2021 del T.A.R. Campania - Napoli sez. IV - n. 1140/2021, non notificata, resa in relazione al ricorso iscritto al n. r.g. 677/2019 avverso e per l'annullamento dell'Ordinanza di demolizione n. 136/A del 29/06/2018 con la quale si contestava la realizzazione di opere abusive in Napoli, Corso (omissis) e notificata in data 22.11.2018 recante ingiunzione di demolizione, ai sensi dell'art. 33 del d.P.R. n. 380/2001; e di tutti gli altri atti preordinati, connessi e conseguenziali, comunque lesivi della posizione giuridica dei ricorrenti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli in persona del Legale Rapp.Te P.T; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Ni. La. in dichiarata delega dell'avvocato Ga. Ro.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l'appello in esame l'odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 1140 del 2021 con cui il Tar Napoli ha respinto l'originario gravame, proposto dalla stessa parte al fine di ottenere l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 136/A del 29/06/2018 con la quale si contestava la realizzazione di opere abusive in Napoli, Corso (omissis) e notificata in data 22.11.2018 recante ingiunzione di demolizione, ai sensi dell'art. 33 del d.P.R. n 380 del 2001. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - vizio di istruttoria, carenza di motivazione e assenza di contraddittorio; - violazione dell'art. 31 d.P.R. 380 cit. in ordine alla qualificazione dell'opera; - difetto di motivazione. L'amministrazione comunale appellata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. Alla pubblica udienza del 23 aprile 2024 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. L'appello è destituito di fondamento. 2. In linea di fatto è pacifica la consistenza delle opere nei termini oggetto di contestazione, risultando sanzionata la realizzazione delle seguenti opere abusive in Napoli, Corso (omissis): sul terrazzo a livello della propria unità immobiliare, manufatto in muratura e copertura in lamiere isotermiche occupante una superficie di 60 mq con altezza di m. 3 (esternamente si rileva sporto balcone di m 23 x 0,90). 3. In linea di diritto assumono dirimente rilievo gli orientamenti consolidati di questo Consiglio di Stato. 4. In relazione alla violazione del giusto procedimento va ribadito l'orientamento consolidato a mente del quale l'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordine di demolizione costituisce attività di natura vincolata, dove la stessa non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento agli interessati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 05/04/2022, n. 2523). 5. In relazione alla qualificazione dell'abuso, la nozione di manutenzione straordinaria invocata appare fuori luogo. 5.1 La chiusura di un terrazzo comporta la creazione di un nuovo volume soggetto ad autonomo ed innovativo utilizzo, rispetto allo stato lecito pregresso, di un vano così creato di 60 mq. di estensione. Va pertanto ribadita la legittimità di un'ordinanza di demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi avente ad oggetto la realizzazione di un nuovo vano, realizzato senza alcun titolo abilitativo mediante la chiusura di un balcone (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 09/08/2022, n. 7024). 5.2 Né miglior sorte ottiene il richiamo alla nozione di pertinenza: la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche ad opere che, come nel caso di specie, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto a quella principale e non siano coessenziali alla stessa, per cui non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica; l'assenza di uno specifico titolo edilizio per tali opere dà origine pertanto ad un corpo di fabbrica totalmente differente da quello principale assentito Consiglio di Stato, sez. VI, 04/10/2021, n. 6613 In generale, occorre il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze. La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica. Nell'ordinamento statale, infatti, vi è il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un manufatto edilizio: salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera autonoma che ne alteri la sagoma e ne ampli anche dal punto di vista dell'ingombro volumetrico, l'utilizzabilità (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 13/03/2017, n. 1155). 6. In relazione al presunto difetto di motivazione di cui al terzo motivo di appello, va ribadito che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino; a maggior ragione quindi l'Amministrazione, in sede di irrogazione della sanzione demolitoria, non deve ritenersi onerata di valutare preventivamente la possibilità che l'abuso sia sanabile, anche perché la sanatoria richiede la domanda dell'interessato, la quale, se proposta (come nella specie), produce l'effetto di sospendere l'efficacia dell'ordine di demolizione fino a definizione della istanza di sanatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 27/04/2022, n. 3337). 7. Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore di parte appellata, liquidate in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori dovuti per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10207 del 2021, proposto da Ministero della Cultura - Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); contro I.C. - Impresa Co. Sa. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di Salerno, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Seconda n. 02152/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di I.C. - Impresa Co. Sa. S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il Cons. Stefano Lorenzo Vitale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il ricorso di primo grado I.C. - Impresa Co. Sa. S.r.l. (di seguito "I.C."), odierna appellata, ha impugnato il provvedimento prot. n. 24995 dell'8 febbraio 2021, successivamente notificato, con il quale la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino ha reso parere contrario al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per la definizione di un procedimento di condono di cui all'istanza prot. n. 31496/1986, avente ad oggetto "realizzazione di n. 3 immobili nell'area di pertinenza al fabbricato già esistente (casa del custode) in Via (omissis)". 2. Con la sentenza appellata il Tar ha accolto il ricorso ritenendo fondati i primi due motivi con il medesimo articolati e con i quali I.C. ha domandato l'accertamento dell'intervenuto silenzio-assenso in ordine al parere paesaggistico ai sensi dell'art. 17-bis, L. n. 241/1990, in quanto reso oltre il termine di 45 giorni prescritto dall'art. 146, comma 8, D.lgs. n. 42/2004, nonché l'illegittimità del parere per violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990, per non essere state prese in considerazione le deduzioni difensive prodotte in sede procedimentale dalla società . Il Tar ha, invece, assorbito le ulteriori censure con cui l'odierna appellante ha contestato per violazione di legge ed eccesso di potere il parere impugnato. 3. Il Ministero della Cultura ha proposto appello avverso detta sentenza affidato ad un unico motivo ("Error in iudicando: illegittimità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 146 d.lgs. n. 42/2004 e dell'art 17 bis l. n. 241/1990"), con cui si lamenta l'erronea applicazione alla fattispecie per cui è causa della regola del silenzio-assenso tra amministrazioni, di cui all'art. 17-bis, L. n. 241/1990. Secondo la difesa erariale, nel caso di specie non sussisterebbero i presupposti per l'applicazione del detto istituto del silenzio-assenso perché il parere paesaggistico della Soprintendenza ha natura "verticale", venendo attivato da un'istanza del privato, e "monostrutturata", poiché la Soprintendenza partecipa alla funzione decisoria. 4. I.C. si è costituita in giudizio riproponendo tempestivamente, ai sensi dell'art. 101 c.p.a., il terzo ed il quarto motivo del ricorso di primo grado rimasti assorbiti nella pronuncia del Tar e rubricati come segue: "III. Violazione di legge (art. 146 del d.l.g. n. 42/2004; art. 35 della l. n. 47/1985 in relazione all'art. 10 bis e 17-bis della l. n. 241/1990) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità ) - violazione del giusto procedimento (art. 97 Cost.)"; "IV. Violazione di legge (art. 146 del d.l.g. n. 42/2004 in relazione all'art. 35 della l. n. 47/1985) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità )". La società appellata ha altresì dedotto, con successiva memoria, l'inammissibilità dell'avverso appello, per mancata impugnazione del capo della sentenza di prime cure che ha accolto la censura con cui si lamentava la violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990, nonché l'infondatezza del medesimo, ritenendo che il meccanismo del silenzio-assenso tra amministrazioni sia applicabile anche alla fattispecie de qua. 5. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. L'eccezione di inammissibilità del gravame dedotta dall'appellata è infondata. Come già osservato dalla Sezione con l'ordinanza cautelare n. 350/2022, pur non essendo stato impugnato il capo della sentenza che ha riscontrato la violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990 - ed essendosi, pertanto, formato il giudicato in ordine all'annullamento, per detto vizio, del parere gravato - permane l'interesse del Ministero a chiedere la riforma dell'altro capo della medesima sentenza, ove si è accertata l'intervenuta formazione del silenzio-assenso, ex art. 17-bis, L. n. 241/1990, al fine di individuare la regula iuris da applicare nella eventuale fase di riedizione del potere. L'eccezione, pertanto, deve essere rigettata. 2. Il Collegio può, quindi, passare ad esaminare il motivo di appello proposto dal Ministero con cui si censura la sentenza laddove ha fatto applicazione dell'art. 17-bis cit. Il motivo è fondato. 2.1. La disciplina del silenzio-assenso tra amministrazioni, di cui all'art. 17-bis cit., non può trovare applicazione al procedimento amministrativo oggetto del presente giudizio che, essendo regolato da una disciplina avente carattere speciale, sfugge al perimetro di applicazione di tale istituto. Nel caso di specie, il parere della Soprintendenza è stato richiesto dal Comune nell'ambito del procedimento, avviato dal precedente proprietario dell'immobile, di concessione del titolo abilitativo in sanatoria ai sensi della L. n. 47/1985 e, pertanto, è anzitutto in tale legge che occorre rinvenire la disciplina del procedimento de quo, nonostante il Comune, nella propria richiesta di parere, abbia fatto riferimento anche all'art. 146, D.lgs. n. 42/2004. L'art. 32, comma 1, L. n. 47/1985, nel disciplinare il condono per immobili sottoposti a vincolo, prevede che "...il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto". Pertanto, è in tal caso direttamente la legge a qualificare il silenzio dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo quale "silenzio-rifiuto" avverso il quale il privato può proporre immediata impugnazione. Il decorso del detto termine di centottanta giorni, di cui all'art. 32 cit., non comporta, quindi, la formazione di un silenzio-assenso, non incide sul dovere dell'amministrazione di pronunciarsi né ne esaurisce il potere e abilita l'interessato a impugnare il silenzio-rifiuto al fine di ottenere un parere espresso (cfr. Cons. St., sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5366 e Id., sez. VI, 8 agosto 2014, n. 4226; sulla differenza tra il procedimento di cui all'art. 146, D.lgs. n. 42/2004 e quello di cui all'art. 32, L. n. 47/1985 si veda anche Cass. pen., sez. III, 17 maggio 2023, n. 36580). Detta disciplina condonistica ha evidentemente natura speciale sia rispetto alla disciplina di cui all'art. 17-bis cit., che rispetto alla disciplina "ordinaria" che regola il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146, D.lgs. n. 42/2004, la quale, peraltro - si soggiunge per mera completezza espositiva - a sua volta presenta profili di specialità che, ad avviso della Sezione, non consentono di ricondurre nemmeno tale procedimento all'interno del perimetro applicativo del silenzio-assenso tra amministrazioni (la giurisprudenza ha più volte affermato che, decorso il termine di 45 giorni previsto dall'art. 146 cit., il parere della Soprintendenza perde il proprio valore vincolante e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall'amministrazione preposta al rilascio del titolo. Cfr. in tal senso le seguenti pronunce di questo Consiglio: sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2136; sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 4927; sez. VI, 18 dicembre 2019, n. 8538; sez. IV, 2 febbraio 2021, n. 941; sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640; sez. IV, 7 aprile 2022, n. 2584; sez. VI, 24 maggio 2022, n. 4098; sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836; contra sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610, che ha ritenuto applicabile il silenzio-assenso ex art. 17-bis cit. al parere della Soprintendenza, sebbene con riguardo alla diversa fattispecie del parere paesaggistico da rendere nell'ambito della conferenza dei servizi; a tale ultima tesi hanno successivamente aderito sez. IV, 29 dicembre 2023, n. 11341, sempre con riguardo al parere da rendere in sede di conferenza di servizi, e sez. VII, 2 febbraio 2024, n. 1093, con riferimento alla disciplina del parere di compatibilità paesaggistica di cui all'art. 167, D.lgs. n. 42/2004). 2.2. Nel caso di specie, il termine di centottanta giorni fissato dall'art. 32, comma 1, L. n. 47/1985 non è decorso. La Soprintendenza ha ricevuto dal Comune la richiesta di parere il 20 aprile 2020 e, con nota del 3 luglio 2020, ha chiesto delle integrazioni documentali che ha ricevuto dal Comune il 19 ottobre 2020. Successivamente, la Soprintendenza ha trasmesso il preavviso di rigetto (nota del 14 dicembre 2020, notificata al privato il 28 dicembre 2020) ed ha adottato il parere negativo, oggetto dell'odierno giudizio, l'8 febbraio 2021. Pertanto, considerati gli effetti sospensivi determinati dalla richiesta di integrazioni documentali e dal preavviso di rigetto, il termine di centottanta giorni non era decorso al momento dell'adozione del parere conclusivo del subprocedimento di competenza dell'amministrazione statale (la stessa odierna appellata ha ritenuto, nel ricorso di primo grado, che la Soprintendenza abbia reso il proprio parere nel termine di 166 giorni). Il Tar è, pertanto, incorso in una non corretta applicazione dell'art. 17-bis, L. n. 241/1990, e il motivo di appello del Ministero deve essere accolto con conseguente riforma in parte qua della sentenza gravata. 3. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso di primo grado, rimasti assorbiti nella pronuncia del Tar e riproposti dall'appellata, possono essere esaminati congiuntamente stante la loro connessione. Con detti mezzi il privato contesta il parere della Soprintendenza, deducendo che le opere realizzate consisterebbero solamente in delle piccole pertinenze che non avrebbero alcun reale ed effettivo impatto negativo per il paesaggio circostante ed il loro stato di abbandono, valorizzato nel parere dell'amministrazione, sarebbe dovuto alla pendenza, da tempo protrattasi, della procedura di condono che non ha consentito di apportare le migliorie che verranno invece realizzate una volta ottenuto il titolo abilitativo in sanatoria. In ogni caso, l'amministrazione avrebbe dovuto attenersi al principio del "dissenso costruttivo" in quanto, a detta dell'odierna appellata, le opere, a tutto voler concedere, sarebbero comunque conformabili sulla base di eventuali prescrizioni che l'amministrazione potrebbe a tal fine dettare. I motivi sono infondati. La Soprintendenza, con il proprio parere, ha dettagliatamente descritto le opere abusive e indicato puntualmente le ragioni per le quali le medesime non sono compatibili con gli interessi paesaggistici trattandosi di "vari corpi di fabbrica realizzati abusivamente, con originaria tipologia costruttiva, forma e dimensioni irregolari, costituiti con elementi e materiali molto precari in ferro, lamiere grecate, legno e vetro, allo stato attuale molto fatiscenti e provvisori... che conferiscono un'immagine caotica, confusa, disordinata e, fra l'altro, addossati tra loro, compromettono l'immagine dell'altro manufatto, anch'esso oggetto di condono. Gli interventi proposti modificano in maniera sostanziale, evidente ed irreversibile l'attuale stato dei luoghi ed il contesto paesaggistico circostante; inoltre le opere, così come realizzate, risultano di considerevole impatto per le loro caratteristiche progettuali". Le deduzioni dell'odierna appellata, peraltro genericamente formulate, non sono tali da far ritenere inattendibili le valutazioni tecniche espresse dall'autorità preposta, da cui si evince anche l'impossibilità di superare la lesione agli interessi paesaggistici sulla base di mere prescrizioni conformative. I motivi riproposti dall'appellata ai sensi dell'art. 101 c.p.a., pertanto, devono essere rigettati. 4. In conclusione, fermo restando il passaggio in giudicato del capo della sentenza del Tar che, in accoglimento del secondo motivo del ricorso di primo grado, ha annullato il parere oggetto di giudizio per violazione dell'art. 10-bis, L. n. 241/1990, l'appello del Ministero deve essere accolto e, per l'effetto, in riforma del capo della sentenza del Tar che ha accertato l'intervenuta formazione del silenzio-assenso, deve essere rigettato il primo motivo del ricorso di primo grado. Altresì, devono essere respinti il terzo ed il quarto motivo del ricorso di primo grado, riproposti in appello dalla parte appellata ex art. 101 c.p.a. Stante la complessità delle questioni, le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: - accoglie l'appello e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigetta il primo motivo del ricorso di primo grado; - rigetta il terzo ed il quarto motivo del ricorso di primo grado, riproposti in appello dalla parte appellata. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Roberto Caponigro - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Stefano Lorenzo Vitale - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1833 del 2021, proposto dai signori Gi. Al. Go. e Fe. Go., rappresentati e difesi dall'avvocato Lo. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); nei confronti della Soprintendenza archeologica belle arti e paesaggio delle Marche, della Soprintendenza archivistica e bibliografica Umbria e Marche, della C.C. s.n. c. di Ca. Lu. e Cu. Ro., non costituite in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche Sezione Prima n. 00483/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il consigliere Giuseppe Rotondo e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il presente giudizio - instaurato dai signori Gi. Al. Go. e Fe. Go. - ha ad oggetto: a) la domanda di annullamento dei seguenti atti: - deliberazione della Giunta Comunale del Comune di (omissis) n. 98, del 29 novembre 2016, con la quale è stata approvata "la perizia redatta dal Servizio Lavori Pubblici in data 22/11/2016 per l'esecuzione dell'intervento di riqualificazione urbana del giardino pubblico "Il Ch...."; - deliberazione della Giunta Comunale del Comune di (omissis) n. 16, del 21 febbraio 2017, con la quale sono state stabilite "le linee di indirizzo per la concessione per la realizzazione e gestione pluriennale del chiosco nel giardino comunale distinto catastalmente al foglio (omissis) mappale (omissis)"; - determinazioni del Responsabile del Settore Tecnico del Comune di (omissis) datata 8 marzo 2017, n. 14, avente ad oggetto l'approvazione del bando e i moduli di gara "per la concessione per la realizzazione e gestione pluriennale del chiosco nel giardino comunale distinto catastalmente al foglio (omissis) mappale (omissis)..." e n. 32 del 16 maggio 2017 che con la quale si provvedeva ad "aggiudicare definitivamente la concessione per la realizzazione e gestione pluriennale del chiosco nel giardino comunale distinto catastalmente al foglio (omissis) mappale (omissis)..."; - deliberazione della Giunta comunale n. 57 del 12 giugno 2017, avente ad oggetto "Lavori di riqualificazione urbana giardino pubblico "Il Ch." - cup (omissis) - Approvazione variante al progetto"; - bando di gara del Settore tecnico del Comune di (omissis) "per la concessione di un'area pubblica per la realizzazione e la gestione di un chiosco-bar per l'attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e del servizio di pulizia e manutenzione delle aree ad esso pertinenziali presso il giardino "Il Ch." di cui al C.T. Foglio (omissis)/A Particella (omissis)"; b) la domanda di condanna del Comune di (omissis) al risarcimento dei danni "in ragione della ridotta fruibilità ed accessibilità " al proprio bene immobile nonché da "inopinata alterazione del contesto urbano", prudenzialmente indicati in Euro 500.000,00. 2. Questi gli aspetti essenziali della vicenda: a) i sig.ri Go. sono proprietari della unità immobiliare sita in (omissis) censita al catasto al Foglio M.U. n° (omissis) part. (omissis), denominata Palazzo Du., dichiarata di particolare valore culturale, storico e monumentale ai sensi della Legge n. 1089/1939, confinante con le particelle n° (omissis); b) l'area compresa fra la part. n. (omissis) e la strada SS 73 bis (part. n. (omissis)) è disciplinata dal Piano particolareggiato del Centro storico del Comune di (omissis), ed in particolare dalla UMI n. 1 ove sono consentiti interventi fino alla ristrutturazione edilizia, così come previsto dall'art. 43 n. 4 delle n. t.a.; c) su tale particella (omissis) gli istanti espongono che grava "una servitù di passo ben individuata anche nella relazione storico-artistica e nella planimetria allegata al decreto del Direttore generale dell'Ufficio Centrale dei Beni Archeologici, Artistici e Storici del 11/07/1998": la strada che insisteva sul luogo di esercizio di tale servitù realizzava un collegamento diretto fra la part. (omissis), la strada SS 73 bis e il Palazzo Du.; d) con deliberazione della Giunta Comunale n. 98 del 29 novembre 2016, il Comune appellato ha approvato la "perizia esecutiva redatta dal Servizio Lavori Pubblici in data 22/11/2016 per l'esecuzione dell'intervento di riqualificazione urbana del giardino pubblico "Il Ch."..."; e) con deliberazione della Giunta Comunale n. 16 del 21 febbraio 2017 sono state stabilite "le linee di indirizzo per la concessione per la realizzazione e gestione pluriennale del chiosco nel giardino comunale distinto catastalmente al foglio (omissis) mappale (omissis)"; f) con la determina n. 32 del 16 maggio 2017 il Comune ha provveduto ad "aggiudicare definitivamente la concessione per la realizzazione e gestione pluriennale del chiosco nel giardino comunale distinto catastalmente al foglio (omissis) mappale (omissis)..."; g) con deliberazione n. 57 del 12 giugno 2017, la Giunta comunale ha approvato "apposita perizia di variante comportante modifiche al contratto d'appalto ai sensi dell'art. 106 del D.Lgvo 18/04/2016 n° 50 riguardanti modifiche non sostanziali..."; h) con istanza del 28 aprile 2017 il sig. Gi. Al. Go. ha chiesto di "visionare il progetto relativo all'area in oggetto..."; i) con nota datata 1 giugno 2017, prot. n° 2657, il Comune di (omissis) ha riscontrato la predetta richiesta trasmettendo "particolari planimetrici - cordolature e marciapiedi". 3. Con ricorso nrg 464/2017, i signori Go. hanno impugnato i suindicati atti innanzi al T.a.r. per le Marche, mediante ricorso introduttivo e successivi motivi aggiunti. 3.1. Il ricorso impugnatorio (introduttivo e motivi aggiunti) è stato affidato a complessivi 5 motivi, come di seguito compendiati. A) Quanto alle deliberazioni della Giunta Comunale n° 98 del 29/11/2016, n° 16 del 21/1/2017, alla determinazione del Responsabile del settore tecnico n° 14 del 8/3/2017, al bando di gara, alla deliberazione della Giunta comunale n° 57 del 12/06/2017 (ricorso introduttivo): A.I) eccesso di potere per travisamento, difetto dei presupposti - violazione artt. 3, comma 1, lett. f), e 7, comma 1, lett. c) del d.p.r. n. 380/2001 in relazione all'art. 47 del d.p.r. n. 554/1999 e all'art. 42, comma 2, lett. b) del d.lgs n. 267/2000 - eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto del presupposto, illogicità, contraddittorietà, sviamento di potere - violazione artt. 1, 3 e 11 della legge regionale Marche n° 22/2011 in relazione agli artt. 26 e segg. della legge regionale Marche n. 34/1992 e all'art. 14 della legge n. 241/1990 - incompetenza; A.II) violazione artt. 3 e 10 del d.p.r. n. 380/2001 in relazione agli artt. 2, 6, 11 e 11-bis della variante al Regolamento edilizio comunale e all'art. 18-bis e 31 del Piano particolareggiato per il Centro storico del Comune di (omissis) (P.P.C.S.) -violazione artt. 2, 5, 13, 16, 43, 47, 49 e 133 del P.P.C.S. -violazione art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 - eccesso di potere per sviamento di potere, elusione dalla causa tipica, illogicità e contraddittorietà, carenza di istruttoria, difetto dei presupposti, perplessità e difetto di motivazione - violazione art. 97 Cost. - violazione principi di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza dell'azione amministrativa - violazione artt. 21, 22, 25 del d.lgs n. 42/2004; A.III) violazione art. 8 del Regolamento opere edili minori e violazione artt. 67, 94, 104, 105, 126, 128, 129 e 130 del P.P.C.S. del Comune di (omissis). B) Quanto alla delibera di Giunta comunale n. 57 del 12 giugno 2017, per le parti non conosciute, e la S.C.I.A. del 5 agosto 2017 (impugnati con motivi aggiunti): B.I) illegittimità derivata - eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica, difetto dei presupposti, travisamento ed incompetenza - violazione degli artt. 1, da 7 a 10, 14-bis della legge n. 241/1990, artt. 26 e 27 del d.lgs n. 50/2016; B.II) eccesso di potere per violazione del principio del giusto procedimento - violazione ed elusione degli artt. 1, 3 e 11 della legge regionale Marche n. 22/2011 in relazione agli artt. 26 e segg. della legge regionale Marche n. 34/1992 - violazione ed elusione art. 47 del d.p.r. n. 554/1999 (poi art. 26 e 27 del d.lgs n. 50/2016) - violazione artt. 1, 3, da 7 a 10 e 14-bis della legge n. 241/1990. 3.2. Si sono costituiti, per resistere, il comune di (omissis) e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. 3.3. Il Comune di (omissis), oltre a chiedere il rigetto del ricorso, ne ha eccepito la sua irricevibilità e inammissibilità : a) per tardività del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti rispetto alla piena conoscenza legale degli atti impugnati; b) per carenza di interesse e difetto di legittimazione ad agire in relazione all'asserito, ma inesistente pregiudizio arrecato loro dalla eliminazione dell'accesso carrabile (part. (omissis)) diretto al Palazzo Du. dalla strada regionale per Bocca Trabaria. 4. Il T.a.r. per le Marche, con sentenza n. 483 del 24 luglio 2020 ha ritenuto di soprassedere dal trattare le eccezioni di irricevibilità del ricorso dedotte dall'amministrazione comunale, stante, in parte, l'infondatezza del gravame e, in parte, la sua inammissibilità per carenza di interesse, compensando le spese. 4.1. In particolare, il T.a.r. ha ritenuto: a) non fornita dai ricorrenti alcuna prova dell'attuale esistenza di una servitù di passaggio, in favore del Palazzo Du., quanto alla particella (omissis); b) che i "lavori non hanno modificato la destinazione urbanistica della particella (omissis)"; c) infondata "la pretesa riconducibilità dei lavori all'intervento di ristrutturazione urbanistica"; d) che "l'unica modifica alla viabilità (interna e pedonale) ha comportato la chiusura dell'accesso dalla Strada Statale (omissis) per comprensibili ragioni di sicurezza e l'allargamento dell'accesso da Corso (omissis)"; e) invariato il tessuto urbanistico-edilizio esistente nonché il disegno del lotto e dell'isolato (particella (omissis) e aree circostanti) oltre che della rete stradale esterna (Strada Statale (omissis), Corso (omissis) e via (omissis)), con la sola leggera e irrilevante modifica (in termini urbanistici) della viabilità pedonale interna al lotto nonché delle dimensioni e dell'area di sedime del chiosco-bar; f) inammissibili le restanti e molteplici censure (contenute essenzialmente nel secondo e terzo motivo del ricorso introduttivo e in parte nel quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti) riguardanti la pretesa assenza di titolo edilizio legittimante (eventualmente anche in sanatoria) la demolizione e ricostruzione del chiosco-bar per sostanziale carenza di interesse ad agire. 5. Hanno appellato i signori Go., che censurano la sentenza n. 483/2020 per i seguenti motivi: a) Errata valutazione delle risultanze documentali in ordine all'esistenza della servitù di passo - omesso esame dell'intenso rapporto di vicinitas fra la proprietà dei ricorrenti e il luogo dell'intervento: i) sarebbe stata data prova delle condizioni dell'azione nonché del pregiudizio specifico in relazione sia alla eliminazione fisica della strada di accesso al Palazzo Du. che alla realizzazione di una trasformazione così importante del centro storico e dei caratteri identitari consolidati nel tessuto culturale della comunità del Comune di (omissis), ciò in ragione della vicinanza delle pertinenze del Palazzo Du. con l'area di intervento, con la quale confinano, siccome esposta con la nuova qualificazione ad una fruizione commerciale; ii) il pregiudizio che ha determinato l'interesse al ricorso si fonda sia sulla eliminazione dell'accesso (gravante sulla part. (omissis)), che sulla realizzazione di una vera e propria trasformazione urbanistica del centro edificato, tale da incidere profondamente sui beni appartenenti ai ricorrenti. b) Eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità, omessa valutazione delle risultanze documentali ed istruttorie - violazione art. 34, comma 2, del d.lgs n. 104/201: il completamento della recinzione rappresenterebbe il principale strumento di inibizione dell'esercizio della servitù, che non aveva lo scopo di consentire l'accesso ai soli proprietari, ma anche ai visitatori, ai quali deve essere consentito l'accesso libero almeno il primo giovedì di ogni mese. c) eccesso di potere per violazione della fattispecie di cui all'art. 3 comma 1 lett. f) del D.P.R. n. 380/2001: l'intervento edilizio avrebbe i connotati della ristrutturazione urbanistica, in quanto ha modificato l'assetto viario, le aiuole e l'utilizzo della porzione territoriale, ciò in assenza di adeguato titolo abilitativo e della approvazione di una variante urbanistica di competenza del consiglio comunale. d) omesso esame dei motivi del ricorso principale e di quelli aggiunti in violazione degli artt. 34 comma 1 e 39 c.p.a., artt. 99 e 112 c.p.c.: il giudice di primo grado avrebbe concentrato la motivazione sulla ritenuta carenza delle condizioni dell'azione, sicché sarebbero rimasti inesplorati i motivi del ricorso principale e quelli aggiunti. 5.1. Si sono costituiti in giudizio il Comune di (omissis) e il Ministero per i beni culturali e per il turismo. 5.2. Il Comune appellato reitera le eccezioni di irricevibilità e inammissibilità del ricorso; nel merito, chiede il rigetto dell'appello. 5.3. In prossimità dell'udienza parte appellante e comune di (omissis) hanno depositato memorie conclusive e di replica. 6. All'udienza del 21 marzo 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 7. L'appello è infondato. La sua infondatezza consente di prescindere dall'esame delle eccezioni di irricevibilità e inammissibilità del ricorso di primo grado riprese e riproposte dal Comune di (omissis) nell'atto di costituzione in appello. 8. Con i primi due motivi di appello, i sig. Go. lamentano il pregiudizio ad essi arrecato dalla eliminazione dell'accesso, gravante sulla particella (omissis), alla propria unità immobiliare. 9. I motivi sono infondati. 9.1. Come correttamente osservato dal T.a.r., gli odierni appellanti non hanno fornito alcuna prova dell'attuale esistenza di una servitù di passaggio, in favore del Palazzo Du., sulla particella (omissis). 9.2. L'unico documento prodotto nel giudizio di primo grado a comprova della asserita servitù - e quindi utilizzabile ai fini del presente giudizio, giusta divieto dei nova (art. 104 c.p.a.) - consiste nella relazione storico-artistica redatta dalla Sovrintendenza per i beni ambientali e architettonici delle Marche-Ancona, datata 17 luglio 1998 (v. doc. all. 7 al ricorso di primo grado), più precisamente nella (sola) planimetria allegata alla relazione (sempre a firma dello stesso Sovrintendente e del Direttore generale) dove compare una linea tratteggiata sulla particella (omissis) che si congiunge alla particella (omissis). 9.3. Parte appellante non ha prodotto però alcun documento (contratto, testamento, determina o delibera comunale, certificato della conservatoria dei registri immobiliari del territorio) utile a introdurre un valido principio di prova circa l'identificazione del fondo servente, del fondo dominante e della servitù prediale, in grado, pertanto, di inferire un ragionevole dubbio sulla corretta gestione dell'istruttoria procedimentale o di ipotizzare un travisamento dei fatti. 9.4. La documentazione richiamata nell'atto d'appello (motivo 1°, pagina 44 - fotogramma 05 Ante, 06 Ante e 07 Ante che il Palazzo Du. era direttamente raggiungibile dalla strada statale (omissis), doc.ti n. ri 7.1, 7.2, 7.11, 11, 12.3 e 18 di controparte) nulla comprova al riguardo, anzi descrive e illustra la situazione dei luoghi ante e post intervento dando conto di modifiche sostanzialmente marginali. 9.5. Neppure vengono allegati elementi fattuali in grado di comprovare - sempre in punto di principio di prova - il possesso utile ad usucapionem della servitù che parte appellante asserisce gravante sulla particella (omissis). 9.6. Di contro, dalla versata documentazione (v. documenti 2 e seguenti allegati al ricorso di primo grado) emerge che il bene in questione è sempre stato utilizzato come giardino ad uso pubblico con pertinente ristoro-bar ed è sempre rimasto nella disponibilità del Comune, ovvero a beneficio della collettività, facendo parte di una più ampia area del centro urbano di uso collettivo, molto frequentata, sulla quale si era già intervenuto con un intervento di riqualificazione urbana, nello specifico il giardino pubblico denominato "Il Ch.". 9.7. Il Comune ha, altresì, comprovato che: i) l'accesso dalla strada statale poteva eventualmente avvenire solo attraversando l'area sterrata prospiciente il vecchio chiosco, con evidenti problematiche di sicurezza collegate anche alla immediata vicinanza con un incrocio tra quattro strade (allegato 11 alla documentazione depositata l'11 marzo 2020 nel giudizio di primo grado): ii) l'accesso dal giardino non costituisce un connotato storico del Palazzo, dato che il muro di cinta era originariamente privo di aperture verso il giardino (allegato 11.1. seguente). Le suddette circostanze sono rimaste inconfutate. 10. Con il terzo motivo di appello, i signori Go. censurano la sentenza nella parte in cui avrebbe erroneamente escluso che l'intervento edilizio abbia i connotati della ristrutturazione urbanistica. 10.1. La qualificazione dell'intervento in questi termini deriverebbe dalla circostanza che i divisati lavori avrebbero comportato: - la chiusura dell'accesso dalla S.S. (omissis); - la traslazione del chiosco; - la modifica della viabilità da via (omissis); - la costruzione di un fabbricato stabile che occupa circa 100 mq di terreno in sostituzione di un precedente manufatto precario che ne occupava otto; tutto ciò, in assenza di adeguato titolo abilitativo e di approvazione di una variante urbanistica di competenza del consiglio comunale. 11. Il motivo di appello è infondato. 11.1. Il Collegio osserva che la riqualificazione urbana, o riqualificazione urbanistica, può essere definita come l'insieme di interventi volti a recuperare il patrimonio edilizio di un territorio, tra cui ad esempio centri storici, aree urbane dismesse e vecchi quartieri residenziali. L'obiettivo di queste azioni di recupero e ricostruzione è quello di riqualificare il territorio intervenendo ad esempio su edifici, piazze e giardini pubblici che risultano essere degradati e/o usurati. Gli interventi di riqualificazione sono pensati con il fine ultimo di migliorare la qualità di vita e il benessere dei cittadini, trasformando aree urbane dimenticate e pericolose in spazi sicuri e funzionali, nel pieno rispetto dell'ambiente. 12. Il concetto di riqualificazione si attaglia correttamente alla tipologia dei lavori progettati e realizzati dal Comune, sia sotto l'aspetto strutturale che funzionale. 13. Dalla versata documentazione è emerso che l'area oggetto di intervento è di proprietà pubblica. Essa è stata sempre utilizzata come giardino pubblico, attrezzata con percorsi esclusivamente pedonali. Sulla stessa insiste da tempo un chiosco bar in muratura collocato in posizione centrale, che versava in condizioni fatiscenti e di degrado. Le medesime condizioni di degrado caratterizzavano le parti scoperte circostanti (v. stato dei luoghi ante intervento - documentazione fotografica). L'area in questione svolgeva, e tuttora svolge, una funzione di raccordo con il territorio attiguo al centro. 14. In ragione delle condizioni di degrado e della funzione svolta dall'area in questione (insistente nel perimetro del centro storico) il Comune di (omissis), tenuto conto anche delle prescrizioni della scheda UMI-1 e in conformità alle medesime, si è determinato nel senso di procedere ai lavori di riqualificazione del giardino e del chiosco preesistente allo scopo di rendere fruibile l'area in questione, restituendone l'uso alla collettività . 15. L'intervento in parola, pertanto, non appare riconducibile allo schema della ristrutturazione edilizia. 16. Con la ristrutturazione edilizia si indica generalmente, una serie di interventi rivolti a ripristinare il deterioramento a cui tutti gli edifici sono soggetti nel corso del tempo, migliorarne gli standard di sicurezza e comfort e adeguandoli a nuovi canoni estetici. 16.1. Sono considerati lavori di ristrutturazione, per esempio: demolizione e ricostruzione di un immobile anche se conforme per sagoma e volume; trasformazione di superfici accessorie (come sottotetti o scantinati) in superfici utili (abitazioni); ampliamenti, cambio di destinazione d'uso, frazionamento di unità immobiliari, modifica dei prospetti dell'edificio. 17. Nel caso di specie, invece, l'Amministrazione ha provveduto - giusta art. 1 della legge regionale Marche n. 22/2011 - al recupero di un'area urbana degradata, riconsiderando lo spazio del giardino e la struttura del chiosco, nella prospettiva unica e finale del benessere degli abitanti e di chi utilizzerà l'area, nonché del miglioramento generale della zona riqualificata sotto i profili estetici, culturali, igienici, di sicurezza, senza alcuna ristrutturazione di edifici (privati o pubblici) né modifica sostanziale dell'assetto del territorio, tale non potendosi considerare le modifiche della viabilità da via (omissis) siccome dettate da evidenziate e allegate esigenze di sicurezza pubblica e inerenti proprio la circolazione stradale. 18. La chiarita tipologia dell'intervento, in termini di riqualificazione urbana, fa ragione, pertanto, della infondatezza della dedotta violazione sia dell'art. 11 della l.r. n. 22/2011 (articolata sul presupposto che si tratterebbe di una variante urbanistica), sia dell'art. 26-bis e quater della legge regionale n. 34/1992 (articolata sul presupposto che non sarebbe stata richiesta al responsabile del SUAP la convocazione della conferenza dei servizi di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241). 19. Anche la mancanza del titolo abilitativo, dedotta come profilo di illegittimità, s'appalesa doglianza infondata. 19.1. Il vigente testo unico dell'edilizia (approvato con d.p.r. n. 380 del 2001) riserva all'attività costruttiva della pubblica Amministrazione un regime giuridico (relativamente) differenziato rispetto all'ordinaria disciplina stabilita e valevole per l'omologa attività privata. L'art. 7 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 sancisce, infatti, l'affrancamento dell'attività edilizia delle pubbliche amministrazioni dai "Titoli abilitativi". 19.2. Ciò che resta inderogabile è la conformità dell'intervento alle norme urbanistiche. Nel caso di specie, il Comune ha documentato che l'intervento in questione è coerente con le prescrizioni della scheda UMI-1 (art. 43, n. 4 delle n. t.a.). 20. Neppure si colgono sostanziali differenze tra il progetto approvato con la delibera giuntale n. 98/2016 e la variante approvata con la delibera n. 57/2017, se non nei limiti delle modifiche consentite a una variante progettuale. 21. La discrasia temporale posta in evidenza dalla appellante (variante intervenuta a lavori eseguiti), oltre a non essere meglio comprovata, non revoca in dubbio la praticabilità della variante c.d. in sanatoria, quante volte - in tesi - i lavori suppletivi siano stati autorizzati, ad esempio, dalla direzione dei lavori per ragioni contingenti, nei limiti normativamente consentiti. 22. La circostanza sopra chiarita in ordine alla insussistenza di una servitù prediale sulla particella (omissis) (siccome non provata dagli appellanti), costituisce ragione anche della infondatezza della censura (articolata sempre con il terzo motivo di appello) con cui la parte lamenta il mancato coinvolgimento procedimentale nella approvazione del progetto. 23. Per le medesime ragioni dianzi esposte, recedono anche le censure mosse avverso la Scia del 5 agosto 2017. 24. Con il quarto motivo di appello, i signori Go. lamentano infine il mancato esame, da parte del T.a.r., dei motivi di ricorso principale e quelli aggiunti. Segnatamente, parte appellante sostiene che sarebbero rimasti "inesplorati i motivi del ricorso principale e quelli aggiunti trascritti da pag. 8 a pag. 41" dell'atto di appello. 25. Il collegio osserva che i motivi cui fa riferimento parte appellante sono stati tutti esaminati ai precedenti paragrafi, riscontrandosene la loro infondatezza, e che comunque non sussistono altri profili rilevanti ai fini del decidere. 26. L'infondatezza dei motivi di gravame induce alla reiezione anche della domanda risarcitoria, in assenza di comprovato danno ingiusto. 27. L'appello, in definitiva, deve essere rigettato. 28. Le spese relative al presente grado di giudizio possono essere compensate tra le parti, tenuto conto della peculiare natura della controversia. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa fra le parti le spese di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Gerardo Mastrandrea - Presidente Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere

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