Sentenze recenti prescrizione ICI

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1626 del 2023, proposto da Ac. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Pa. e Lo. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso il loro studio in Milano, corso (...); contro Comune di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Co., An. Ma., Al. Mo. Am., An. Ma. Pa., Ma. Lo. Bo., Ma. Gi. Sc., El. Ma. Fe. e Sa. Sm., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso gli uffici dell'Avvocatura Comunale in Milano, via (...); per l'annullamento - del provvedimento n. prot. 0342175 di diniego della richiesta di permesso di costruire in sanatoria in ATTI PG 1218783/2004 relativamente all''unità immobiliare sita in Viale (omissis), notificato in data 22 giugno 2023 (doc. n. 1); - di ogni altro atto preliminare, concomitante e successivo. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2024 il dott. Giovanni Zucchini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La società Ac. Srl presentava al Comune di Milano domanda di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 32 del decreto legge (DL) n. 269 del 2003 convertito con legge n. 326 del 2003 (c.d. terzo condono). La domanda concerneva l'ampliamento commerciale al piano terra e al primo piano per locali adibiti a palestra dell'immobile sito in viale (omissis). Al termine del procedimento così avviato, l'istanza di titolo in sanatoria era respinta con provvedimento comunale del 22.6.2023. Contro il diniego suindicato era proposto il ricorso in epigrafe, con domanda di sospensiva. Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto del gravame. In esito all'udienza in camera di consiglio dell'8.9.2023 l'istanza cautelare era accolta con ordinanza della scrivente Sezione n. 792 del 2023, seppure per il prevalente profilo del periculum in mora e salva ogni decisione in sede di merito. Alla successiva pubblica udienza del 1° ottobre 2024 la causa era discussa e spedita in decisione. DIRITTO 1. La società esponente è proprietaria dell'unità immobiliare sita in viale (omissis) a Milano, concessa in locazione alla società sportiva dilettantistica (SSD) Ci. Srl, che gestisce un centro natatorio con annesse attività sportive. Ac. presentava domanda di permesso in sanatoria secondo il DL n. 269 del 2003 (c.d. terzo condono) per un abuso consistente nell'ampliamento commerciale al piano terra e al piano primo per locali adibiti a palestra. In particolare, nell'istanza di sanatoria erano descritti tre distinti tipi di opere: trasformazione di locale deposito in servizi spogliatoi e docce, formazione di locale ingresso e da ultimo formazione di tettoia in policarbonato. Nella domanda di condono (cfr. il doc. 1 del resistente ed anche il successivo doc. 2, vale a dire l'integrazione documentale del 2006) erano indicate due tipologie di abuso secondo la tabella costituente l'Allegato 1 al DL n. 269 del 2003: la Tipologia 1 (opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche) e la Tipologia 6, vale a dire le opere di manutenzione straordinaria come definite dall'art. 3, comma 1, lettera b) del DPR n. 380 del 2001 (Testo Unico dell'edilizia o anche solo "TUE") realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio. Il provvedimento finale di diniego di sanatoria ivi gravato (cfr. il doc. 1 della ricorrente ed il doc. 13 del resistente), era adottato al termine di un fitto scambio di corrispondenza fra le parti, iniziato nel 2011 con una prima richiesta di integrazione documentale (cfr. il doc. 7 della ricorrente ed il doc. 3 del resistente). 1.1 Ciò premesso, nel primo mezzo di gravame l'esponente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990 (articoli 7, 10 e 10bis), oltre che l'eccesso di potere per carenza di motivazione e per errore sui presupposti. A detta dell'esponente, l'Amministrazione avrebbe modificato sempre le proprie richieste istruttorie ed il provvedimento finale di diniego non terrebbe conto degli apporti procedimentali della società istante. La censura, per quanto suggestiva e ben argomentata, non convince il Collegio. Con la prima richiesta di integrazione del 28.3.2011, il Comune evidenziava l'assenza di documentazione essenziale ai sensi del comma 37 dell'art. 32 del DL n. 269 del 2023 ed invitava la società al deposito della stessa. A tale richiesta faceva seguito un riscontro di Ac. del 3.11.2011 (cfr. il doc. 8 della ricorrente ed il doc. 4 del resistente). Con successiva nota del 21/22.5.2020 gli Uffici comunali evidenziavano l'erroneità dei calcoli dell'oblazione e degli oneri concessori in quanto tutta la superficie realizzata senza titolo doveva ricomprendersi nella Tipologia 1 di abuso, oltre a ribadire la necessità del deposito della documentazione prevista dalla legge (cfr. il doc. 9 della ricorrente ed il doc. 5 del resistente). Ac. confermava invece la correttezza della propria posizione con nota del 21.10.2020 (cfr. il doc. 6 del resistente), alla quale faceva seguito la ulteriore comunicazione dell'Amministrazione dell'1.2.2022 (cfr. il doc. 10 della ricorrente ed il doc. 7 del resistente), anch'essa di conferma della pretesa degli Uffici. Ac. si rivolgeva al suo attuale difensore, che inviava tre distinte ed analitiche lettere al Comune, dove ribadiva la correttezza della condotta della sua assistita e la conseguente illegittimità della pretesa comunale (cfr. i documenti n. 11, n. 13 e n. 15 della ricorrente). La società inviava altresì una ulteriore PEC al Comune il 20.10.2020 (cfr. il doc. 16 della ricorrente). Nel frattempo era trasmesso alla società istante l'avviso di avvio del procedimento di rigetto della domanda di condono, avviso adottato dal Comune in data 11.7.2022 (cfr. per quest'ultimo il doc. 12 del resistente). Nell'avviso di avvio erano confermati gli argomenti del Comune circa la mancanza di documentazione essenziale ai fini del condono e l'erroneità del versamento dell'oblazione e degli oneri concessori. Ciò premesso, dalla lettura della corrispondenza suindicata non appare configurabile una concreta lesione delle garanzie procedimentali a favore della società, che ha potuto interloquire con il Comune di Milano, il quale ha più volte rappresentato alla società stessa la propria posizione in merito all'asserita erroneità ed incompletezza della originaria domanda di condono, invitando all'integrazione della medesima ai fini del suo accoglimento e ciò nel rispetto della generale previsione dell'art. 6 comma 1 lettera b) della legge n. 241 del 1990, che consente al responsabile del procedimento di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete. Se è pur vero che il provvedimento finale ivi impugnato non richiama espressamente l'intera pregressa corrispondenza intercorsa (si veda ancora il doc. 1 della ricorrente), parimenti nello stesso sono indicate con chiarezza le motivazioni del diniego (omesso versamento integrale degli oneri e dell'oblazione e mancanza di documenti essenziali), che erano peraltro già state esplicitate in precedenza. Si tratta di una motivazione comprensibile, ancorché sintetica, che ha in ogni modo posto la società nelle condizioni di ben comprendere le ragioni della pretesa dell'Amministrazione. Si conferma, di conseguenza, il rigetto del primo motivo. 1.2 Nel secondo mezzo di gravame viene lamentata una presunta violazione di legge (art. 32, commi 35, 36 e 37 del DL n. 269 del 2003) per l'intervenuta prescrizione del diritto al conguaglio, oltre che l'eccesso di potere per vari profili. Ai fini della decisione di tale motivo ed in genere dell'intero ricorso giova ricordare, seppure per sommi capi, le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza amministrativa formatasi sul c.d. terzo condono del 2003, con riferimento al più volte citato DL n. 269/2003 ed alla legge regionale della Lombardia n. 31/2004 relativa al condono medesimo. Tale giurisprudenza è concorde nel sostenere che la misura degli oneri urbanizzativi deve determinarsi al momento del rilascio del titolo in sanatoria, vale a dire quello di conclusione del procedimento amministrativo di condono (cfr. fra le tante, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenze n. 4825 e n. 4826 del 2012 e TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sentenze n. 708/2023 e n. 250/2022). Quanto al rilascio del titolo in sanatoria per silenzio assenso, quest'ultimo presuppone (si veda il comma 37 dell'art. 32 suindicato) che il richiedente produca tutta la documentazione richiesta dalla legge e provveda al saldo integrale del contributo e dell'oblazione (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 4825/2012 e TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sentenza n. 6955/2010). Inoltre, il termine prescrizionale del credito comunale conseguente al condono di cui al citato DL n. 269/2003 è quello ordinario decennale (art. 2946 del codice civile e, in giurisprudenza, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 5417/2011), decorrente dal momento del rilascio del titolo in sanatoria, vale a dire dalla conclusione del procedimento amministrativo avviato ad istanza di parte con la richiesta di condono (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sezione II, sentenza n. 2918/2022). L'onere della prova dei presupposti per il condono è a carico del richiedente, che deve altresì produrre all'Amministrazione tutta la documentazione richiesta dalla legge, in particolare quella dei commi 35 e 37 del menzionato art. 32. Tale documentazione deve essere allegata alla domanda di condono e non - come pare sostenere la pur abile difesa della ricorrente - prodotta successivamente al rilascio del titolo in sanatoria. La formulazione del comma 35 dell'art. 32 è sul punto molto chiara ("La domanda di cui al comma 32 deve essere corredata dalla seguente documentazione..."), senza contare che sarebbe illogico adottare un provvedimento di condono di un illecito edilizio senza l'esame della necessaria documentazione di legge. Del resto il precedente comma 32 è altrettanto chiaro nello stabilire che la domanda di condono è presentata, a pena di decadenza, "...unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato e alla documentazione di cui al comma 35". Ciò premesso, appare evidente che nella presente fattispecie non può trovare applicazione la norma del comma 36 sulla prescrizione del diritto al conguaglio o al rimborso; tale disposizione presuppone la completezza della domanda per il rilascio del titolo edilizio e riguarda l'eventuale rimborso o l'eventuale conguaglio delle somme dovute al Comune, ma non può trovare applicazione in caso di omesso perfezionamento del condono per insufficienza o inidoneità della documentazione allegata all'istanza di sanatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VII, sentenza n. 2345/2022). Il secondo motivo deve quindi rigettarsi. 1.3 Nel terzo mezzo sono lamentati la violazione di legge (art. 32 comma 38 del DL n. 269 del 2003 e art. 4 della legge regionale n. 31 del 2004) e l'eccesso di potere sotto vari profili e viene confermata la correttezza del calcolo dell'oblazione e degli oneri così come effettuato dalla società esponente. Anche tale censura, per quanto ben argomentata, non merita condivisione. Nella determinazione dell'oblazione e degli oneri concessori (cfr. il doc. 1 del resistente, pag. 3) la società ha tenuto conto della superficie utile di 141,65 metri quadrati (mq) e di un valore di oblazione di 150,00 euro al mq, sicché il valore complessivo dell'oblazione sarebbe pari a 141,65 X 150 = 21.247,50 euro. Quanto agli oneri concessori, il valore per la destinazione industriale è di 63,00 euro/mq (cfr. il doc. 1 del resistente, pag. 4) ed è sulla base di quest'ultimo che l'esponente ha determinato la misura degli oneri stessi. In realtà la destinazione d'uso di una struttura utilizzata come palestra è correttamente quella terziaria e non quella industriale, giacché la gestione della palestra con le annesse attività sportive configura una prestazione di servizi e non un'attività produttiva/artigianale in senso stretto (cfr. il doc. 8 del resistente). Nella determinazione degli oneri concessori, di conseguenza, il valore per il terziario è di 225,00 euro/mq e non di 63,00 euro/mq (cfr. ancora il doc. 1 del resistente, pag. 4 di 7). Nella superficie complessiva devono però computarsi non soltanto i 130,34 mq di superficie utile ma anche l'intera superficie di 18,85 mq che l'esponente classifica come "non residenziale" e che è costituita dalle scale e dal corridoio del piano terra e del primo piano. Inoltre la collocazione della tettoia in policarbonato non rappresenta una mera manutenzione straordinaria ma una nuova edificazione. La superficie complessiva è quindi pari a 149,19 mq (cfr. le planimetrie doc. 17 del resistente) e sulla base di quest'ultima devono determinarsi sia l'oblazione sia gli oneri concessori per un'attività nel settore terziario. La società esponente richiama il regime di favore previsto dalla legge per le SSD senza scopo di lucro, quale dovrebbe essere la conduttrice dell'immobile. Nel caso di specie, tuttavia, la domanda di condono è stata presentata dal proprietario dell'immobile, che è poi il beneficiario dell'eventuale sanatoria e la società Ac. è un'impresa con scopo di lucro operante nel settore immobiliare (cfr. la visura del registro delle imprese di Ac., doc. 15 del resistente). Inoltre, la classificazione catastale del bene, indicata dalla stessa ricorrente, è quella D6, vale a dire quella dei fabbricati per esercizi sportivi con scopo di lucro (cfr. la scheda di variazione catastale, doc. 2 del resistente, pag. 4 di 5 ed anche il doc. 16 di quest'ultimo, cioè il prospetto delle categorie catastali). Quanto all'omessa produzione della documentazione, la stessa riguarda le dichiarazioni ai fini ICI e TARSU (art. 32 comma 37 del DL n. 269 del 2003) e la mancanza di una perizia giurata sulle dimensioni dell'opera, posto che l'art. 32 comma 35 lettera b) impone, in caso di opera abusiva superiore a 450 metri cubi, il deposito di una perizia giurata e di una certificazione di un tecnico abilitato attestante l'idoneità statica delle opere. La società istante si è limitata semplicemente a dichiarare che le opere non eccedono i limiti di legge, senza però produrre documentazione probante, come sarebbe stato invece necessario, posto che l'onere della prova dei presupposti della sanatoria è a carico dell'istante stessa. In mancanza della documentazione necessaria ed a fronte dell'omesso pagamento degli oneri e dell'oblazione nella corretta misura di legge, la domanda di sanatoria non può trovare accoglimento, il che implica la reiezione anche del terzo mezzo di ricorso. 1.4 In ordine al quarto motivo, si rileva che il provvedimento impugnato comprende sia il diniego di condono di cui sopra sia l'ordine di demolizione delle opere abusive nel termine di novanta giorni, pena le sanzioni previste dal TUE (cfr. ancora il doc. 1 della ricorrente). L'ordine di demolizione, a fronte dell'intervenuto diniego di sanatoria, costituisce però un atto vincolato per l'Amministrazione, senza alcun margine di discrezionalità in capo a quest'ultima, atteso l'intervenuto abuso edilizio e non rilevando il tempo trascorso dalla realizzazione dell'illecito (si veda sul punto la nota sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 9 del 2017, oltre a Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 7948 del 2024). In conclusione, l'intero ricorso deve rigettarsi. 2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la società ricorrente al pagamento a favore del Comune di Milano delle spese di lite, che liquida in euro 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori di legge (spese generali nella misura del 15% ed oneri riflessi, cfr. Cassazione Civile, Sezioni Unite, ordinanza n. 3592/2023). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2024 con l'intervento dei magistrati: Maria Ada Russo - Presidente Giovanni Zucchini - Consigliere, Estensore Luigi Rossetti - Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1627 del 2023, proposto da Ac. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Pa. e Lo. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso il loro studio in Milano, corso (...); contro Comune di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Co., An. Ma., Al. Mo. Am., An. Ma. Pa., Ma. Lo. Bo., Ma. Gi. Sc., El. Ma. Fe. e Sa. Sm., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico presso gli uffici dell'Avvocatura Comunale in Milano, via (...); per l'annullamento - del provvedimento n. prot. 0342186 di diniego della richiesta di permesso di costruire in sanatoria PG 1218786/2004 relativamente all''unità immobiliare sita in Viale (omissis), notificato in data 22 giugno 2023 (doc. n. 1); - di ogni altro atto preliminare, concomitante successivo. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2024 il dott. Giovanni Zucchini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La società Ac. Srl presentava al Comune di Milano domanda di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 32 del decreto legge (DL) n. 269 del 2003 convertito con legge n. 326 del 2003 (c.d. terzo condono). La domanda concerneva la trasformazione di box auto in locali ad uso palestra al piano terra dell'immobile sito in viale (omissis). Al termine del procedimento così avviato, l'istanza di titolo in sanatoria era respinta con provvedimento comunale del 22.6.2023. Contro il diniego suindicato era proposto il ricorso in epigrafe, con domanda di sospensiva. Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto del gravame. In esito all'udienza in camera di consiglio dell'8.9.2023 l'istanza cautelare era accolta con ordinanza della scrivente Sezione n. 793 del 2023, seppure per il prevalente profilo del periculum in mora e salva ogni decisione in sede di merito. Alla successiva pubblica udienza del 1° ottobre 2024 la causa era discussa e spedita in decisione. DIRITTO 1. La società esponente è proprietaria dell'unità immobiliare sita in viale (omissis) a Milano, concessa in locazione alla società sportiva dilettantistica (SSD) Ci. Srl, che gestisce un centro natatorio con annesse attività sportive. Ac. presentava domanda di permesso in sanatoria secondo il DL n. 269 del 2003 (c.d. terzo condono) per un abuso consistente nella trasformazione di box auto al piano terra in locali palestra per una superficie utile di 64 metri quadrati (mq). Nella domanda di condono (cfr. il doc. 1 del resistente ed anche il successivo doc. 2, vale a dire l'integrazione documentale del 2006) la tipologia di abuso indicata era la "Tipologia 3" secondo la tabella costituente l'Allegato 1 al DL n. 269 del 2003, vale a dire le opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'art. 3, comma 1, lettera d) del DPR n. 380 del 2001 (Testo Unico dell'edilizia o anche solo "TUE") realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio. Il provvedimento finale di diniego di sanatoria ivi gravato (cfr. il doc. 1 della ricorrente ed il doc. 12 del resistente), era adottato al termine di un fitto scambio di corrispondenza fra le parti, iniziato nel 2010 con una prima richiesta di integrazione documentale (cfr. il doc. 7 della ricorrente ed il doc. 3 del resistente). 1.1 Ciò premesso, nel primo mezzo di gravame l'esponente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990 (articoli 7, 10 e 10bis), oltre che l'eccesso di potere per carenza di motivazione e per errore sui presupposti. A detta dell'esponente, l'Amministrazione avrebbe modificato sempre le proprie richieste istruttorie ed il provvedimento finale di diniego non terrebbe conto degli apporti procedimentali della società istante. La censura, per quanto suggestiva e ben argomentata, non convince il Collegio. Con la prima richiesta di integrazione del 24.3.2010 il Comune evidenziava dapprima l'erroneità della classificazione dell'abuso nella Tipologia 3, ritenendo invece che si trattasse della Tipologia 1 della medesima tabella Allegato 1, vale a dire le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo e non conformi alle norme urbanistiche. L'Amministrazione chiedeva quindi di rettificare l'importo dell'oblazione e degli oneri concessori, oltre che il deposito della documentazione necessaria per il condono ai sensi dei commi 35 e 37 dell'art. 32 del DL n. 269 del 2003, vale a dire, ad esempio, le denunce aggiornate ai fini ICI (imposta comunale sugli immobili) e TARSU (tassa rifiuti solidi urbani). Con successiva nota del 19/22.5.2020 gli Uffici comunali confermavano la configurabilità della Tipologia 1, con conseguente necessità di calcolo dell'oblazione e degli oneri concessori in misura differente e maggiore rispetto a quella effettuata, oltre all'esigenze del deposito della documentazione prevista dalla legge (cfr. il doc. 8 della ricorrente ed il doc. 5 del resistente). Ac. ribadiva invece la correttezza della propria posizione con nota del 20.10.2020 (cfr. il doc. 9 della ricorrente), alla quale faceva seguito la ulteriore comunicazione dell'Amministrazione dell'1.2.2022 (cfr. il doc. 10 della ricorrente), anch'essa di conferma della pretesa degli Uffici. Ac. si rivolgeva al suo attuale difensore, che inviava due distinte ed analitiche lettere al Comune, dove ribadiva la correttezza della condotta della sua assistita e la conseguente illegittimità della pretesa comunale (cfr. i documenti n. 11 e n. 13 della ricorrente). Nel frattempo era trasmesso alla società istante l'avviso di avvio del procedimento di rigetto della domanda di condono, avviso adottato dal Comune in data 16.5.2022 (cfr. per quest'ultimo il doc. 12 della ricorrente ed il doc. 10 del resistente). Nell'avviso di avvio erano confermati gli argomenti del Comune circa la mancanza di documentazione essenziale ai fini del condono e l'erroneità del versamento dell'oblazione e degli oneri concessori. Ciò premesso, dalla lettura della corrispondenza suindicata non appare configurabile una concreta lesione delle garanzie procedimentali a favore della società, che ha potuto interloquire con il Comune di Milano, il quale ha più volte rappresentato alla società stessa la propria posizione in merito all'asserita erroneità ed incompletezza della originaria domanda di condono, invitando all'integrazione della medesima ai fini del suo accoglimento e ciò nel rispetto della generale previsione dell'art. 6 comma 1 lettera b) della legge n. 241 del 1990, che consente al responsabile del procedimento di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete. Inoltre, se è pur vero che il provvedimento finale ivi impugnato non richiama espressamente l'intera pregressa corrispondenza intercorsa (si veda ancora il doc. 1 della ricorrente), parimenti nello stesso sono indicate con chiarezza le motivazioni del diniego (omesso versamento integrale degli oneri e dell'oblazione e mancanza di documenti essenziali), che erano peraltro già state esplicitate in precedenza. Si tratta di una motivazione comprensibile, ancorché sintetica, che ha in ogni modo posto la società nelle condizioni di ben comprendere le ragioni della pretesa dell'Amministrazione. Si conferma, di conseguenza, il rigetto del primo motivo. 1.2 Nel secondo mezzo di gravame viene lamentata una presunta violazione di legge (art. 32, commi 35, 36 e 37 del DL n. 269 del 2003) per l'intervenuta prescrizione del diritto al conguaglio, oltre che l'eccesso di potere per vari profili. Ai fini della decisione di tale motivo ed in genere dell'intero ricorso giova ricordare, seppure per sommi capi, le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza amministrativa formatasi sul c.d. terzo condono del 2003, con riferimento al più volte citato DL n. 269/2003 ed alla legge regionale della Lombardia n. 31/2004 relativa al condono medesimo. Tale giurisprudenza è concorde nel sostenere che la misura degli oneri urbanizzativi deve determinarsi al momento del rilascio del titolo in sanatoria, vale a dire quello di conclusione del procedimento amministrativo di condono (cfr. fra le tante, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenze n. 4825 e n. 4826 del 2012 e TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sentenze n. 708/2023 e n. 250/2022). Quanto al rilascio del titolo in sanatoria per silenzio assenso, quest'ultimo presuppone (si veda il comma 37 dell'art. 32 suindicato) che il richiedente produca tutta la documentazione richiesta dalla legge e provveda al saldo integrale del contributo e dell'oblazione (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 4825/2012 e TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sentenza n. 6955/2010). Inoltre, il termine prescrizionale del credito comunale conseguente al condono di cui al citato DL n. 269/2003 è quello ordinario decennale (art. 2946 del codice civile e, in giurisprudenza, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 5417/2011), decorrente dal momento del rilascio del titolo in sanatoria, vale a dire dalla conclusione del procedimento amministrativo avviato ad istanza di parte con la richiesta di condono (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sezione II, sentenza n. 2918/2022). L'onere della prova dei presupposti per il condono è a carico del richiedente, che deve altresì produrre all'Amministrazione tutta la documentazione richiesta dalla legge, in particolare quella dei commi 35 e 37 del menzionato art. 32. Tale documentazione deve essere allegata alla domanda di condono e non - come pare sostenere la pur abile difesa della ricorrente - prodotta successivamente al rilascio del titolo in sanatoria. La formulazione del comma 35 dell'art. 32 è sul punto molto chiara ("La domanda di cui al comma 32 deve essere corredata dalla seguente documentazione..."), senza contare che sarebbe illogico adottare un provvedimento di condono di un illecito edilizio senza l'esame della necessaria documentazione di legge. Del resto il precedente comma 32 è altrettanto chiaro nello stabilire che la domanda di condono è presentata, a pena di decadenza, "...unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato e alla documentazione di cui al comma 35". Ciò premesso, appare evidente che nella presente fattispecie non può trovare applicazione la norma del comma 36 sulla prescrizione del diritto al conguaglio o al rimborso; tale disposizione presuppone la completezza della domanda per il rilascio del titolo edilizio e riguarda l'eventuale rimborso o l'eventuale conguaglio delle somme dovute al Comune, ma non può trovare applicazione in caso di omesso perfezionamento del condono per insufficienza o inidoneità della documentazione allegata all'istanza di sanatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VII, sentenza n. 2345/2022). Il secondo motivo deve quindi rigettarsi. 1.3 Nel terzo ed articolato mezzo di gravame le contestazioni attengono alla questione della corretta qualificazione dell'abuso, che l'Amministrazione riconduce alla Tipologia 1 dell'Allegato al DL n. 269 del 2003, anziché alla Tipologia 3 come vorrebbe la ricorrente. Nel caso di specie taluni locali aventi una superficie di 64 mq adibiti a box auto - pertanto senza permanenza di persone - sono stati adibiti a palestra, quindi a locali con permanenza di persone e con inevitabile aggravio del carico urbanistico. Si è pertanto realizzato un mutamento di destinazione d'uso con variazione degli "standard" edilizi, che la giurisprudenza amministrativa riconduce alla Tipologia 1 di cui sopra. Si vedano sul punto TAR Lombardia, Milano, Sezione II, sentenza n. 1069 del 2011: "...il concetto di "nuova costruzione" non riguarda soltanto la realizzazione di un manufatto su area libera, ma include, altresì, ogni intervento di ristrutturazione che renda un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente. Con la precisazione che, tale oggettiva diversità, sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento di destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard, poiché detta destinazione d'uso rappresenta un elemento determinante della tipologia del manufatto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 8 settembre 2008, n. 4256; T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 10 giugno 2010, n. 1787; T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 15 febbraio 2010, n. 940)", oltre a Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 4499 del 2021. A fronte della qualificazione dell'abuso nell'ambito della Tipologia 1, non appaiono corretti i calcoli effettuati dalla ricorrente circa le somme dovute a titolo di oblazione e di oneri concessori, come del resto evidenziato dal Comune nel corso del procedimento (si veda ancora, ad esempio, il doc. 5 del resistente). La società esponente richiama il regime di favore previsto dalla legge per le SSD senza scopo di lucro, quale dovrebbe essere la conduttrice dell'immobile. Nel caso di specie, tuttavia, la domanda di condono è stata presentata dal proprietario dell'immobile, che è poi il beneficiario dell'eventuale sanatoria e la società Ac. è un'impresa con scopo di lucro operante nel settore immobiliare (cfr. la visura del registro delle imprese di Ac., doc. 14 del resistente). Inoltre, la classificazione catastale del bene, indicata dalla stessa ricorrente, è quella D8, vale a dire quella dei fabbricati per attività commerciali (cfr. la scheda di variazione catastale, doc. 2 del resistente, pag. 2 di 2 ed anche il doc. 15 di quest'ultimo, cioè il prospetto delle categorie catastali). Appaiono quindi provati gli argomenti addotti dal Comune nel diniego impugnato, vale a dire il mancato versamento dell'oblazione e degli oneri nella misura di legge oltre che l'omessa produzione delle dichiarazioni ICI e TARSU previste espressamente dal comma 37 dell'art. 32. Anche il terzo motivo deve quindi rigettarsi. 1.4 In ordine al quarto motivo, si rileva che il provvedimento impugnato comprende sia il diniego di condono di cui sopra sia l'ordine di demolizione delle opere abusive nel termine di novanta giorni, pena le sanzioni previste dal TUE (cfr. ancora il doc. 1 della ricorrente). L'ordine di demolizione, a fronte dell'intervenuto diniego di sanatoria, costituisce però un atto vincolato per l'Amministrazione, senza alcun margine di discrezionalità in capo a quest'ultima, atteso l'intervenuto abuso edilizio e non rilevando il tempo trascorso dalla realizzazione dell'illecito (si veda sul punto la nota sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 9 del 2017, oltre a Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 7948 del 2024). In conclusione, l'intero ricorso deve rigettarsi. 2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la società ricorrente al pagamento a favore del Comune di Milano delle spese di lite, che liquida in euro 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori di legge (spese generali nella misura del 15% ed oneri riflessi, cfr. Cassazione Civile, Sezioni Unite, ordinanza n. 3592/2023). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2024 con l'intervento dei magistrati: Maria Ada Russo - Presidente Giovanni Zucchini - Consigliere, Estensore Luigi Rossetti - Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE composta dai seguenti magistrati Dott. PAOLITTO Liberato - Presidente Dott. CANDIA Ugo - Relatore Dott. DI PISA Fabio - Consigliere Dott. LO SARDO Giuseppe - Consigliere Dott. PENTA Andrea - Consigliere ha deliberato di pronunciare la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27020/2021 del ruolo generale, proposto DA (...) Srl in liquidazione (codice fiscale Omissis), con sede in A, alla Via (Omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rag. Tr.Vi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale e nomina poste in calce al ricorso, dall'avv. An.Co. (codice fiscale Omissis), del Foro di Avellino, elettivamente domiciliata in Roma, alla Via (...) presso l'avv. Do.Sa. - RICORRENTE - CONTRO il COMUNE DI AVELLINO (codice fiscale Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, dr. Fe.Gi., rappresentato e difeso, in ragione di procura speciale nomina rilasciate in calce alcontroricorso, dall'avv. Fe.Da. (codice fiscale Omissis), con studio in Roma, alla Via (...). - CONTRORICORRENTE - per la cassazione della sentenza n. 2532/12/2021 della Commissione tributaria regionale della Campania - Sezione distaccata di Salerno - depositata il 22 marzo 2021, non notificata. UDITA la relazione svolta all'udienza pubblica del 30 maggio 2024 dal Consigliere Ugo Candia. UDITO il Sostituto Procuratore Generale, Mario Fresa, che si è riportato alle motivate conclusioni scritte depositate il 29 aprile 2024, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso. FATTI DI CAUSA 1. Oggetto di controversia è la pretesa di 19.199,52 Euro di cui all'avviso di accertamento indicato in atti, rivendicata dal Comune di Avellino, a titolo di ICI, per gli anni di imposta 2010/2011, per omessa dichiarazione e versamento dell'imposta in relazione al possesso da parte della società di un'area edificabile censita al catasto terreni al folio 8, particella 1198. 2. Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Campania - Sezione distaccata di Salerno - rigettava l'appello proposto dalla contribuente contro la sentenza n. 1478/2/2017 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Avellino, ritenendo, in relazione alle medesime censure riproposte dalla contribuente in sede di appello rispetto a quelle avanzate con il ricorso originario, del tutte condivisibili le valutazioni sviluppate dal primo Giudice per negare la prescrizione del diritto e la decadenza dall'esercizio del potere impositivo, nonché il difetto di motivazione dell'atto impugnato e l'asserita erroneità della determinazione del valore dell'area, ribadendo che - "il calcolo dei termini di prescrizione proposta dal ricorrente appellante è chiaramente errato come ha dimostrato la CTP nella sentenza impugnata"; - "Parimenti errata è la contestazione relativa all'asserito difetto di motivazione. Anche su questo punto la sentenza di primo grado fornisce una motivazione del tutto condivisibile e fondata su dati normativi dai quali emerge che la motivazione degli avvisi di accertamento va ancorata ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che li hanno determinati, elementi motivazionali presenti nell'avviso impugnato. Nel caso di specie l'avviso di accertamento, come rilevato nella sentenza impugnata, contiene tutte le circostanze ed i parametri necessari (cfr. allegati A e B) per consentire al contribuente di rendersi conto della causale e delle modalità di calcolo"; - "come esattamente rilevato nella decisione gravata, la ricorrente non ha fornito alcuna prova in ordine alla asseritamente errata determinazione del valore dell'area, venendo meno all'onere della prova che incombe alla parte che sostiene una diversa valutazione, com'è ormai ius receptum e giurisprudenza consolidata"; - 'L'appello è pertanto infondato e va rigettato per le assorbenti considerazioni esposte, conformi anche al principio della cd. "ragione più liquida" per la risoluzione della controversia...' (così la sentenza impugnata); 3. La (...) Srl impugnava detta pronuncia con ricorso notificato tramite posta elettronica certificata il 21 ottobre 2021, formulando dieci motivi di impugnazione; 4. Il Comune di Avellino resisteva con controricorso notificato, sempre mediante posta elettronica certificata, in data 29 novembre 2021. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso la società ha eccepito, con riferimento all'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per l'omessa pronuncia "... in relazione alla domanda, ritualmente formulata in atti dall'odierna parte ricorrente di (ri)qualificazione dei fatti di causa per come integranti al più un'ipotesi di infedele dichiarazione. nonché legittimante in via subordinata una riduzione degli importi pretesi in riscossione" (v. pagina n. 9 del ricorso). 2. Con la seconda censura la ricorrente ha dedotto, in relazione al parametro di cui all'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la nullità della pronuncia in rassegna per mancanza di motivazione, lamentando che la dichiarata motivazione per relationem della stessa non conteneva alcun riferimento alle motivazioni del primo Giudice, limitandosi ad una mera condivisione delle stesse, senza farsi carico di confutare le ragioni dell'appello circa la qualificazione della fattispecie come omessa dichiarazione e dell'importo preteso dal Comune, nonché in merito alla richiesta riduzione dell'imposta, in ragione del rapporto di pertinenzialità del bene e del "... vincolo di inedificabilità in fatto..." (v. pagina n. 13 del ricorso). 3. Con la terza doglianza la contribuente ha rimproverato al Giudice regionale, sempre con riguardo all'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per aver assegnato valore probante ed assorbente al rilievo ed alla contestazione contenuti nell'avviso di accertamento circa l'omessa dichiarazione, senza tener conto delle eccezioni doglianze formulate dalla società e delle prove prodotte, che dimostravano la natura pertinenziale dell'area rispetto al capannone industriale ed il pagamento dell'imposta in relazione al bene principale. 4. Con la quarta ragione di impugnazione l'istante ha lamentato, in relazione al canone censorio di cui all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2967 cod. civ. e 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, rappresentando che l'area oggetto di pretesa era occupata sin dall'anno 1983 da un capannone industriale e che nessuna variazione dello stato dei luoghi era intervenuta che potesse giustificare l'obbligo della relativa dichiarazione, censurando quindi la valutazione della Commissione nella parte in cui aveva assegnato valore preminente all'atto impositivo, che non indicava variazione dello stato dei luoghi, in contrasto con le risultanze istruttorie, ponendo a carico della contribuente l'onere di dimostrare i fatti estintivi e modificativi della pretesa, senza considerare che il Comune non aveva offerto prova del fatti costitutivo dell'imposizione fiscale, tenuto conto dell'eccepita e comprovata pertinenzialità dell'area tassata e del pagamento dell'imposta per il capannone industriale. 5. Con il quinto motivo di ricorso la società ha denunciato, con riferimento all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 10, comma 4, dlg. 30 dicembre 1992, n. 546, 37, comma 53, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e 1, comma 175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ponendo in evidenza che l'area oggetto di imposizione era già edificata e parzialmente occupata dal capannone industriale sin dal 1983 e che la restante parte della medesima particella costituiva pertinenza della predetta fabbrica, in relazione alla quale l'Ici era stata versata, come non disconosciuto dallo stesso Comune, mentre "... la (eventualmente) soprav(v)enuta qualificazione dell'area ricadente in zona ASI era da considerarsi quale fatto al più incidente sul valore di stima dell'area e giammai quale presupposto determinativo di un obbligo ex art. 10 D.Lgs. 504/1992" (così a pagina n. 19 del ricorso). Per tale via - a dire della contribuente - non sussisteva alcuna violazione dell'obbligo dichiarativo, in quanto "L'area oggetto di pretesa tributaria era già utilizzata a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali e ovvero non interveniva un elemento di variazione idoneo a giustificare un obbligo di dichiarazione ex art. 10 comma 4 dlg in combinato disposto 37, comma 53, del D.L. n. 223/2006, convertito nella legge n. 248/2006" (così a pagina n. 20 del ricorso). 6. Con la sesta censura la ricorrente ha eccepito, in relazione al parametro di cui all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 161 e 117, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, 2948, primo comma, num. 4, cod. civ. e 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, sostenendo che il Giudice regionale, per effetto dell'errata qualificazione della fattispecie in termini di omessa dichiarazione Ici, in luogo di una infedele dichiarazione, aveva escluso, per l'anno 2010, sia la decadenza che la prescrizione, nonostante che la notifica dell'avviso di accertamento fosse stata eseguita il 23 dicembre 2016, giacchè, trattandosi, al più, di infedele dichiarazione, il primo dei cinque anni prevosti dall'art. 1, comma 161, della citata legge, era "... quello successivo a quello oggetto di accertamento e nel corso del quale il maggior tributo avrebbe dovuto essere pagato ovverossia 2011, con intervenuta decadenza entro il 31 dicembre 2015" (così a pagina n. 24 del ricorso). 7. Con la settima doglianza la contribuente ha dedotto, con riguardo all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, lett. a), 10, comma 4, 14, commi 1 e 3, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, 817 cod. civ., 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, 6, comma 5-bis, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, lamentando che l'erronea conferma della pretesa anche nel suo ammontare, ignorando la dimostrata (tramite perizia) natura pertinenziale dell'area oggetto di imposizione tributaria ed i versamenti ICI prodotti in atti dalla odierna ricorrente. 8. Con l'ottava ragione di impugnazione l'istante ha contestato, in relazione al canone censorio di cui all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1 lettera a), art. 5, comma 5, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 504, 53 Cost, 2967 cod. civ., 115 cod. proc. civ. 345, secondo comma cod. proc. civ., ricordando che in primo grado non era stata disconosciuta e/o contestata puntualmente dal Comune l'inedificabilità dell'area oggetto di imposizione, la sua natura pertinenziale e la sussistenza di vincoli e di fasce di rispetto ivi insistenti, duolendosi l'istante che, a fronte di ciò, la Commissione regionale aveva posto a carico della ricorrente un onere di provare l'esatta e differente determinazione del valore dell'area oggetto di pretesa, così sovvertendo l'onere probatorio. 9. Con il nono motivo di ricorso la società ha dedotto, con riferimento all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 e 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, ribadendo il difetto di motivazione dell'avviso impugnato, limitatosi "... ad una mera allegazione di una planimetria catastale da cui evincere che la particella n. 1198 al foglio 8 fosse inquadrata all'attualità della imposizione in zona ASI e alla dichiarazione che l'area oggetto di accertamento fosse da ritenersi fabbricabile nel 2010 e nel 2011 mediante l'indicazione di alcuni documenti non allegati né riprodotti nel loro contenuto essenziale..." (così a pagina n. 31 del ricorso), senza che fosse possibile comprendere il valore assegnato al bene tassato. 10. Con la decima censura la ricorrente ha eccepito, in relazione al parametro di cui all'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., l'omessa pronuncia sul motivo di appello concernente la richiesta di disapplicazione o la riduzione delle sanzioni per l'obiettiva incertezza della norma tributaria. 11. Il ricorso va accolto nei limiti che seguono, subito avvertendo che l'impugnazione non può considerarsi integralmente inammissibile, come sostiene la difesa del Comune perché tendente a conseguire un riesame di merito, risultando tale censura appropriata solo con riguardo a talune doglianze, come si avrà cura di chiarire in seguito. In ordine alla contestazione concernente la dedotta commistione di vizi di motivazione e di violazione di legge e, quindi, la proposizione di motivi cd. misti si osserva, invece, che la loro formulazione permette di cogliere le doglianze prospettate onde consentirne l'esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati, per cui va esclusa l'eccepita inammissibilità degli stessi (cfr., sul principio, tra le tante, Cass., Sez. U. civ., 6 maggio 2015, n. 9100;Cass., Sez. II civ., 23 ottobre 2018, n. 26790 e Cass., Sez. I civ., 9 dicembre 2021, n. 39169 e la giurisprudenza ivi citata). 12. Occorre premettere, per l'implicazione che tale rilievo assumerà nell'esame dei motivi di ricorso (segnatamente in relazione al sesto motivo in tema di decadenza dall'esercizio del potere impositivo), che - come chiarito da questa Corte - in relazione agli anni in contestazione (2010/2011), operava la previsione dell'art. 37, comma 53, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248), che ha disposto, con decorrenza dall'anno 2007, la soppressione degli obblighi della dichiarazione o comunicazione ICI di cui all'art. 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nonché la disposizione dell'art. 1, comma 174, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che ha aggiunto al menzionato art. 37, comma 53, del citato D.L. 4 luglio 2006, n. 223 il seguente periodo "Resta fermo l'obbligo di presentazione della dichiarazione nei casi in cui gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta dipendano da atti per i quali non sono applicabili le procedure telematiche previste del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, art. 3-bis, concernente la disciplina del modello unico informatico". L'efficacia della soppressione dell'obbligo di dichiarazione o comunicazione era collegata dal menzionato art. 37, comma 53, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e successive modifiche alla data di effettiva operatività del sistema di circolazione e fruizione dei dati catastali, da accertare con provvedimento del direttore dell'allora Agenzia del Territorio, al fine di consentire ai Comuni di usufruire delle informazioni necessarie per l'effettuazione dei controlli relativi agli accertamenti ICI, che altrimenti avrebbero potuto essere noti agli enti locali solo attraverso la dichiarazione o comunicazione di cui all'art. 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Il provvedimento direttoriale in questione è intervenuto in data 18 dicembre 2007, epoca dalla quale è stata, quindi, accertata l'effettiva operatività del sistema di circolazione e fruizione dei dati catastali per il Comune (cfr., su tali principi, ex multis, Cass. Sez. T., 25 gennaio 2023, n. 2321). Consegue a tanto che negli anni in contestazioni non gravava sulla contribuente alcun obbligo di dichiarazione ICI, giacchè le uniche eccezioni previste alla soppressione generale dell'obbligo dichiarativo, ai fini ICI, sono quelle previste dal secondo ed ultimo periodo dell'art. 37, comma 53, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, riferite alla sussistenza di elementi da cui deriva una riduzione dell'imposta, nonché agli elementi, rilevanti ai fini dell'imposta, che dipendano da atti per i quali non sono applicabili le procedure telematiche previste dall'articolo 3-bis D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 463 concernente la disciplina del modello unico informatico, vale a dire (non i dati che automaticamente confluiscono nel catasto, a cui i Comuni hanno accesso, ma) esclusivamente quegli elementi derivanti da atti che nel sistema catastale non confluiscono per l'inapplicabilità delle procedure telematiche di cui all'art. 3-bis D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 463 (cfr. Cass., Sez. T., 22 dicembre 2022, n. 31505, nonché Cass., Sez. VI/V, 2 marzo 2017, n. 5362 e Cass., Sez. VI/V, 2 novembre 2018, n. 28043). Nella specie - diversamente da quanto opinato dalla difesa della ricorrente - non risulta dalla sentenza impugnata che la Commissione regionale abbia ritenuto l'obbligo di dichiarazione di variazione per la sopravvenuta collocazione dell'area in zona ASI, né dalle difese del Comune emerge l'allegazione di elementi (variazioni soggettive ed oggettive incidenti sulla determinazione dell'imposta e tali da comportare l'obbligo della denuncia in quanto non conoscibili dal Comune), giustificativi di un obbligo dichiarativo, assumendo, invece, la sussistenza tout court di "... un obbligo di dichiarazione ICI giammai presentata" (v. pagina n. 8 del controricorso). Dalle superiori considerazioni discende che le argomentazioni svolte dalla contribuente per sostenere la riconducibilità dell'addebito, al più, ad un infedele dichiarazione consentono alla Corte di considerare, a monte, detto adempimento non più richiesto per effetto delle richiamate disposizioni, con effetti ricadenti, però, solo sul tema dell'eccepita decadenza (motivo sesto), tenuto conto delle giuridiche conseguenze che ne derivano in ordine al calcolo del relativo periodo e che vanno, quindi, esaminate di ufficio, come si avrà cura di chiarire nel prosieguo. Si tratta, in sostanza, di questione compresa nel tema dell'eccepita decadenza e che va, quindi, esaminata di ufficio per la corretta individuazione del dies a quo del termine decadenziale, ferma restando - come si avrà cura di precisare - la novità della domanda proposta con il quinto motivo di impugnazione nella parte in cui è stata, per la prima volta, dedotta la violazione dell'art. 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 in relazione agli artt. 37, comma 53, e 1, comma 175, D.L. 27 dicembre 2006, n. 296. Tanto premesso, si passa all'esame dei singoli motivi di impugnazione. 13. Non è fondato il primo motivo di ricorso, basato sulla contestata omessa pronuncia sulla domanda, avente ad oggetto la riqualificazione dei fatti di causa per come integranti al più un'ipotesi di infedele dichiarazione, la "... mancata considerazione della situazione reale..., al pari dell'errata determinazione della base imponibile...", legittimante, in via subordinata, una riduzione degli importi pretesi in riscossione per intervenuta decadenza della prescrizione del credito di imposta relativo all'anno 2010 pari a 32.344,36 Euro..." (v. pagina n. 9 del ricorso).. Ribadita, preliminarmente, l'irrilevanza del tema dell'infedele dichiarazione, va, in ogni caso, osservato che il vizio di omessa pronuncia postula che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, il che non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (cfr. Cass., Sez. T., 29 maggio 2023, n. 15015, che richiama Cass., 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass., 20 settembre 2013, n. 21612; Cass., 11 settembre 2015, n. 17956), dovendo, piuttosto, ravvisarsi - come detto - una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamene esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr. Cass., Sez. T., 29 maggio 2023, n. 15015 cit., che richiama Cass., 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass., 8 marzo 2007, n. 5351; Cass., 10 maggio 2007, n. 10696; Cass., 21 luglio 2006, n. 16788; nello stesso senso, tra le tante, Cass., Sez. II, 12 giugno 2023, n. 16516, Cass., Sez. T., 17 febbraio 2023, n. 5113). 13.1. Nella specie, la decisione della Commissione, nel rigettare il ricorso in appello nella dichiarata, piena, condivisione delle ragioni addotte dal primo Giudice, ha espressamente rigettato l'eccezione di prescrizione della pretesa (rectius di decadenza dall'esercizio del potere impositivo) ed ha poi ritenuto non dimostrata la dedotta erroneità del valore dell'area, con valutazione, quindi, implicitamente reiettiva di tutti gli altri suindicati argomenti difensivi, che ha considerato assorbiti in applicazione del criterio della "... cd. ragione più liquida" (così a pagina n. 4 della sentenza impugnata). 14. Pure la seconda censura, attinente al deficit della motivazione per relationem della sentenza impugnata non può essere accolta. 14.1. Giova rammentare, sul piano dei principi, che costituisce orientamento ampiamente consolidato di questa Corte ritenere che l'ipotesi di motivazione apparente ricorra allorché essa, pur graficamente e, quindi, materialmente esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non renda tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché costituita da argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento, non consentendo, in tal modo, alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice, lasciando all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. Siffatta motivazione si considera- come suol dirsi - non attingere la soglia del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, sesto comma, Cost., il che rende nulla la sentenza per violazione (censurabile ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.) anche dell'art. 132, secondo comma, num. 4, cod. proc. civ. o, nel processo tributario, ex 36, comma 2, n. 4, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Va esclusa, invece, (in seguito alla riformulazione dell'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54, comma 1, lett. b) del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ratione temporis applicabile) qualunque rilevanza al semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (cfr., su tali principi, tra le tante, a partire da Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053, Cass., Sez. T, 31 gennaio 2023, n. 2689; Cass., Sez. Trib., 19 gennaio 2023, n. 1615; Cass., 1 marzo 2022, n. 6626; Cass., Sez. T., 8 agosto 2022 n 24449; Cass., Sez. U., 19 giugno 2018, n. 16159 (p. 7.2.), che menziona Cass., Sez. U., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass., Sez. U., nn. 22229, 22230, 22231 del 2016, Cass., Sez. U, 24 marzo 2017, n. 766; Cass., Sez. U., 9 giugno 2017, n. 14430 (p. 2.4.); Cass., Sez. U., 18 aprile 2018, n. 9557 (p. 3.5.); Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476 (che cita, in motivazione, Cass., Sez. U., 18 aprile 2018, n. 9558 e Cass., Sez. U., 31 dicembre 2018, n. 33679). 14.2. È stato altresì chiarito che 'In linea generale - come precisato dalle Sezioni unite - la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte, di altri atti processuali o di provvedimenti giudiziari, senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive (cfr. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2015, n. 642). In particolare, la motivazione di una sentenza può essere redatta "per relationem" rispetto ad altra sentenza non ancora passata in giudicato, purché resti "autosufficiente", riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico - giuridica. La sentenza è, invece, nulla, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, qualora si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo' (così Cass., VI/II, 10 gennaio 2022, n. 459). 14.3. Ancor più nello specifico, questa Corte ha precisato che '... in tema di processo tributario è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del D.Lgs. n. 546 del 1992, nonché dell'art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente priva dell'illustrazione delle censure mosse dall'appellante alla decisione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare "per relationem" alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, poiché, in tal modo, resta impossibile l'individuazione del "thema decidendum" e delle ragioni poste a fondamento della decisione e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l'esame e la valutazione dell'infondatezza dei motivi di gravame. (vedi Sez. 5, Sentenza n. 24452 del 05/10/2018, Rv. 650527 - 01)' (così Cass., Sez. T., 11 aprile 2024, n. 9830). 14.4. Nella specie tale vizio non sussiste, avendo il Giudice regionale esposto la vicenda processuale, riepilogato le ragioni poste a base della sentenza di primo grado, precisando che la contribuente aveva reiterato in appello le medesime censure poste in primo grado, affermando di condividere le valutazioni espresse dal primo Giudice, richiamando il principio espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la citata pronuncia del 16 gennaio 2015 n. 642 in tema di motivazione per relationem, esponendo poi le proprie valutazioni in tema di prescrizione, di motivazione dell'atto ed in punto di determinazione del valore del bene. Per tali ragioni, la sentenza impugnata non può considerarsi nulla. 15. Risulta, invece, inammissibile il terzo motivo di impugnazione, con cui il Comune ha lamentato la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. 15.1. Anche in tale caso, va premesso, sul piano dei principi, che la Corte ha più volte precisato e poi ribadito che in tema di ricorso per cassazione può essere dedotta la violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un'informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo, ipotesi questa diversa dall'errore nella valutazione dei mezzi di prova - non censurabile in sede di legittimità - che attiene, invece, alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto; il tutto, a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l'assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza (cfr. Cass, Sez. III, 26 aprile 2022, n. 12971; Cass., Sez. III, 21 dicembre 2022, n. 37382). Ed ancora, sempre in relazione alla previsione dell'art. 115 cod. proc. civ., è stato chiarito che '... per dedurre la sua violazione "è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma", ossia che abbia "giudicato o contraddicendo espressamente la regola, dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio", mentre "detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre", trattandosi di attività consentita dall'art. 116 c.p.c. (v. Cass. n. 11892 del 10/06/2016)"' (così, Cass., Sez. T., 4 giugno 2019, n. 15195 e, nello stesso senso, Cass., Sez. II, 7 gennaio 2019, n. 129 e Cass., Sez. T, 23 settembre 2019, n. 27983 e le altre ivi citate, nonché Cass., Sez. U., 30 settembre 2020, n. 20867 e Cass., Sez. VI-I, 23 novembre 2022, n. 34472 ed ancora Cass., Sez. III, 22 marzo 2022, n. 9225, che richiama Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598 e Cass., Sez. VI-II, 23 ottobre 2018, n. 26769 del 2018, nonché Cass., Sez. VI/T, 25 gennaio 2022, n. 2242, che richiama pure Cass., Sez. 6°-5, 19 ottobre 2021, n. 28894; Cass., Sez. 6°-5, 28 ottobre 2021, n. 30535). 15.2. Quanto alla dedotta violazione dell'art. 116 cod. proc. civ., va, poi, ricordato che secondo la lezione delle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass., Sez. U, 30 settembre 2020, n. 20867) la relativa doglianza è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova non abbia operato - in assenza di una diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", attribuendo al risultato di prova il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, quelle aventi valore di prova legale), oppure quando il giudice abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, laddove la prova sia, invece, soggetta ad una specifica regola di valutazione. Diversamente, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (cfr., sul principio, tra le tante, Cass., Sez. VI-I, 23 novembre 2022, n. 34472). 15.3. Alla luce di tali principi, il motivo si palesa - come anticipato - inammissibile, avendo la ricorrente lamentato che 'Il Giudice di appello... tralasciava, comunque, di vagliare e di assegnare, secondo il suo apprezzamento, valore alle prove prodotte da parte ricorrente/ appellante ovvero (probabilmente) assegnava valore probante ed assorbente alla "denominazione" usata dal Comune di Avellino in sede di avviso di accertamento, senza tenere conto delle eccezioni e doglianze formulate in atti dalla società ricorrente, che invece in conformità degli artt. 115 e 116 cpc dovevano determinare il Giudice del merito al prudente apprezzamento delle prove e dei fatti dedotti a fondamento della pretesa tributaria in contestazione (v. pagina n. 14 del ricorso), così finendo con il contestare, al fondo, non la violazione delle predette regole processuali, ma la valutazione di merito compiuta dalla Commissione, in termini, quindi, inammissibili nella presente sede. Come si diceva, infatti, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass., Sez. I, 1 marzo 2022, n. 6774; Cass., Sez. II, 24 maggio 2022, n. 16736). 16. Infondata è pure la quarta ragione di impugnazione, basata sull'eccepita violazione degli artt. 2967 cod. civ. e 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, per avere il Giudice a quo attribuito valore preminente alle risultanze indicate dall'Ufficio rispetto a quelle offerte dalla contribuente, addossandole un irrituale onere probatorio, in ragione dell'eccepita e comprovata pertinenzialità dell'area tassata e del pagamento dell'imposta per il capannone industriale. 16.1. Anche in relazione alla dedotta violazione dell'art. 2697 cod. civ., richiamando quanto sopra osservato, va ribadito, sul piano dei principi, che 'In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre - lo si ripete - per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall'art. 116 c.p.c.' (così Cass., Sez. III, 22 marzo 2022, n. 9225, che richiama Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598 e Cass., Sez. VI-II, 23 ottobre 2018, n. 26769 del 2018 e, nello stesso senso, Cass., Sez. II, 7 gennaio 2019, n. 1229 cit. ed anche Cass., Sez. VI/T, 25 gennaio 2022, n. 2242, che richiama pure Cass., Sez. 6°-5, 19 ottobre 2021, n. 28894; Cass., Sez. 6°-5, 28 ottobre 2021, n. 30535). 16.2. Nella fattispecie in rassegna, la Commissione, nel ritenere che la contribuente non avesse fornito prova di una diversa valutazione dei beni, ha considerato attendibile la stima posta a base dell'atto impugnato, reputando compiuta la relativa motivazione, avendo indicato, tramite il riferimento agli allegati A) e B), 'i parametri necessari per consentire al contribuente di rendersi conto della causale e delle modalità di calcolo' (così nella sentenza impugnata), concludendo nel senso che la relativa valutazione non risultava contraddetta efficacemente dalle difese svolte dalla contribuente. Non vi è stata, quindi, alcuna inversione della prova, avendo il Giudice regionale applicato il principio più volte affermato da questa Corte, che ha considerato il valore venale del bene posto come base imponibile dell'imposta ICI, nei termini determinati, per zone omogenee, dalle delibere comunali, adottate ai sensi dell'art. 49 D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 del 1997, una fonte di presunzione hominis, vale a dire supporti razionali offerti dall'amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti (Cass., 3 maggio 2019, n. 11643; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27572; Cass., 12 giugno 2018, n. 15312; Cass., 13 marzo 2015, n. 5068; Cass., 24 gennaio 2013, n. 1661; Cass., 30 giugno 2010, n. 15555; Cass., 27 luglio 2007, n. 16702; Cass., 3 maggio 2005, n. 9137, ed anche Cass., Sez. T, 15 febbraio 2023, n, 4814 Cass., Sez. T, 1 dicembre 2022, n. 35452, Cass. Sez. T, 25 novembre 2022, n. 34879 e Cass., 4 agosto 2022, n. 24297), chiarendo, sul punto che spetta al contribuente "l'onere di fornire elementi oggettivi sul minor valore dell'area edificabile rispetto a quello accertato dall'ufficio (Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 16620 del 05/07/2017)" (così, Cass., Sez. T, 11 giugno 2021, n. 16681 ed anche, tra le tante, Cass., Sez. T., 11 agosto 2023, nn. 24589, 24554). 17. Il quinto motivo di ricorso va esaminato unitamente al settimo, in quanto connessi in relazione al tema delle condizioni fattuali dell'area tassata (asseritamente già edificata e parzialmente occupata dal capannone industriale sin dal 1983 e, per la restante parte, di fatto inedificabile e comunque costituente pertinenza della predetta fabbrica, in relazione alla quale l'Ici era stata versata), nonché in ordine all'inesistenza di un obbligo dichiarativo in assenza di elementi di variazione. 17.1. Essi vanno dichiarati inammissibili. Quanto alla dedotta (con il quinto motivo) violazione degli artt. 10, comma 4, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 546, 37, comma 53, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e 1, comma 175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 circa il venir meno dell'obbligo dichiarativo, non può, in primo luogo, non riconoscersi che esso si pone quale motivo di impugnazione nuovo, non essendovi traccia nella sentenza impugnata e nel resoconto degli originari motivi di impugnazione e di appello di tale ragione di contestazione (nemmeno nel paragrafo 5 e 7 del ricorso in appello, come indicato dalla ricorrente a pagina n. 19 del ricorso, che avevano avuto riguardo ai temi concernenti l'eccezione di decadenza, la considerazione della situazione reale dell'area come non edificabile e la sussistenza, al più di, una infedele dichiarazione), risultando, come tale, inammissibile. Per altro verso, esso risulta, altresì, inammissibile anche nella parte in cui intende giustificare l'assenza dei presupposti dell'obbligo dichiarativo sul rilievo secondo cui "L'area oggetto di pretesa tributaria era già utilizzata a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali e ovvero non interveniva un elemento di variazione idoneo a giustificare un obbligo di dichiarazione ex art. 10 comma 4 dlg in combinato disposto 37, comma 53, del D.L. n. 223/2006, convertito nella legge n. 248/2006" (v. pagina n. 20 del ricorso), trattandosi di profili fattuali che non possono esaminati dalla Corte e che manifestano un utilizzo non appropriato del parametro d'impugnazione (art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ.) utilizzato dalla contribuente. Allo stesso modo, il settimo motivo, incentrato sulla natura pertinenziale dell'area e sui versamenti eseguiti dalla contribuente, pure coinvolgono la Corte in questioni di merito sulle predette condizioni di fatto dell'area, che non sono non proponibili nella presente sede, così disvelando i motivi un uso improprio del canone censorio prescelto (art. 360, primo comma, num. 3 cod. proc. civ.). 18. Va, invece, accolta la sesta censura relativa all'eccezione di decadenza dall'esercizio del potere impositivo per l'anno 2010, in ragione del fatto che la notifica dell'avviso di accertamento venne eseguita il 23 dicembre 2016. Vanno richiamate sul punto le considerazioni sopra svolte al par. 12 sull'inesistenza dell'obbligo dichiarativo per l'anno in esame (2010), con la conseguenza che la decadenza dall'esercizio della pretesa impositiva deve essere riferita, in virtù dell'art. 1, comma 161, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui il tributo avrebbe dovuto essere versato (cfr. Cass., Sez. T., 25 gennaio 2023, n. 2321, Cass., Sez. VI/V, 2 marzo 2017, n. 5362 e Cass., Sez. VI/V, 2 novembre 2018, n. 28043), dovendo, quindi, la decadenza dell'Amministrazione comunale dalla pretesa impositiva intendersi compiuta al 31 dicembre 2015, mentre l'avviso di accertamento è stato notificato alla destinataria solo in data 23 dicembre 2016, come è incontroverso tra le parti. 19. Va dichiarata, invece, inammissibile l'ottava censura, concernente, anche in tal caso, le contestazioni sulla edificabilità dell'area oggetto di imposizione, sulla natura pertinenziale e sulla sussistenza di vincoli e di fasce di rispetto ivi insistenti e sul relativo onere probatorio, in relazione alle quali vanno ribadite le superiori valutazioni circa l'inappropriato uso del canone censorio di cui all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., per coinvolgere la Corte in questioni fattuali non proponibili in questa sede, nonché sulla corretta distribuzione dell'onere probatorio assicurata dal Giudie regionale. 20. Infondato è il nono motivo di impugnazione, con cui è stato riproposto il rilievo del difetto di motivazione dell'avviso impugnato. Anche a voler ritenere la censura ammissibile, sotto il profilo dell'autosufficienza del ricorso, va riconosciuto che le ragioni della contestazione risultano infondate, dovendo - sul piano generale, ricordarsi che 'In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l'obbligo motivazionale dell'accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l'"an" ed il "quantum" dell'imposta. In particolare, il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l'indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l'ambito delle ragioni adducibili dall'ente impositore nell'eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell'atto le questioni riguardanti l'effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (Cass. 26431/2017)' (così Cass., Sez, T, 2 maggio 2023, n, 11449 e 11443 e, nello stesso senso Cass., Sez. T., 27 luglio 2023, n. 22702, che richiama Cass., 24 agosto 2021, n. 23386; Cass., 30 gennaio 2019, n. 2555; Cass., 8 novembre 2017, n. 26431; Cass., 10 novembre 2010, n. 22841; Cass., 15 novembre 2004, n. 21571) ed ancora, tra le tante, Cass., Sez. V., 29 ottobre 2021, n. 30887); - per altro verso, ribadirsi che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, l'obbligo di allegazione all'avviso di accertamento, degli atti cui si faccia riferimento nella motivazione, previsto dall'art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, riguarda necessariamente, come precisato dall'art. 1 del D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, gli atti non conosciuti e non altrimenti conoscibili dal contribuente, ma non gli atti generali come le delibere del consiglio comunale, le quali, essendo soggette a pubblicità legale, si presumono conoscibili.(cfr. Cass., Sez. 18 maggio 2021, n. 13420, che richiama Cass. n. 5755 del 2005; Cass. n. 21511 del 2006; Cass. n. 9601 del 2012; Cass. n. 26644 del 2017'; nel medesimo senso, tra le tante, Cass., Sez. V, 21 novembre 2018, n. 30052 e Cass. Sez. T, 21 gennaio 2023, n. 2140, Cass., Sez. T., 2 maggio 2023, n, 11443 cit. e le altre ivi citate). A tali principi si è uniformato il Giudice dell'appello nella parte in cui ha ritenuto l'avviso motivato con la motivazione sopra riportata. 21. Non può essere accolta decima censura circa la richiesta di disapplicazione o la riduzione delle sanzioni per l'obiettiva incertezza della norma tributaria. All'omessa pronuncia da parte del Giudice regionale può in questa sede porsi rimedio ai sensi dell'art. 384 secondo comma, cod. proc. civ., non potendo - all'evidenza - detto deficit essere superato tramite il criterio della ragione più liquidata, essendo stato l'appello della contribuente rigettato senza che detta domanda, riproposta nel motivo di appello, sia stata esaminata. Non ricorre, tuttavia, alcuna incertezza normativa ai sensi degli art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 e 6, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. 21.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, '... in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l'incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua dell'art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e dell'art. 8 del D.L.gs 31 dicembre 1992, n. 546, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, né all'amministrazione finanziaria, ma al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui è attribuito il potere - dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (tra le tante Cass., Sez. 6°, 11 febbraio 2013, n. 3254; Cass., Sez. 5°, 22 febbraio 2013, n. 4522; Cass., Sez. 5°, 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., Sez. 5°, 4 maggio 2018, n. 10662; Cass., Sez. 5°, 1 febbraio 2019, n. 3108; Cass., Sez. 6°, 9 dicembre 2019, n. 32082; Cass., Sez. 5°, 20 luglio 2021, nn. 20670, 20671, 20672 e 20673; Cass., Sez. 5°, 17 febbraio 2022, nn. 5162, 5164, 5165, 5166 e 5167; Cass., Sez. 6°-5, 22 febbraio 2023, n. 5530). Più in particolare, in tema di sanzioni amministrative tributarie, l'incertezza normativa oggettiva - che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole del diritto, come si evince dall'art. 6 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 - è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni "indici", quali, ad esempio 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) l'assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) l'esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l'adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente (tra le altre Cass., Sez. 5°, 13 giugno 2018, n. 15452; Cass., Sez. 5°, 18 gennaio 2021, n. 1893)' (così, Cass. T, 15 maggio 2023, n. 13289). 21.2. Nella specie, non ricorre nessuna delle suindicate condizioni, sol considerando che nemmeno è stata dedotta in cosa sia consistita l'obiettiva incertezza normativa, tenuto conto che essa è stata correlata alla specificità del caso concreto (sussistenza della natura pertinenziale dell'area e sua inedificabilità), che non hanno nessuna attinenza con l'esonero richiesto. 22. Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto solo in relazione al sesto motivo. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, non occorrendo sul punto accertamento in fatto, la causa va decisa nel merito, accogliendo il ricorso originario della contribuente in relazione alla somma richiesta per l'anno di imposta 2010, essendo il Comune decaduto dall'esercizio del relativo potere impositivo. 23. L'accoglimento parziale (di una delle due domande relative ai due anni di imposta), giustifica l'integrale compensazione delle spese dell'intero giudizio. P.Q.M. la Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente limitatamente alla somma richiesta, a titolo di ICI ed accessori, per l'anno di imposta 2010. Compensa integralmente tra le parti le spese dell'intero giudizio. Così deciso in Roma il 30 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOIl Consiglio di Statoin sede giurisdizionale Sezione Sestaha pronunciato la presenteSENTENZAsul ricorso numero di registro generale 293 del 2023, proposto da: Ce. Bi. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Do. So., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; controMinistero della Cultura, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria, Commissione regionale per il patrimonio culturale della Calabria, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma:della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione Prima n. 01909/2022, resa tra le parti.Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Cultura, della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e per la Provincia di Vibo Valentia, e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Catanzaro, Cosenza e Crotone;Visto il decreto presidenziale n. 6/2023, con il quale è stata accolta l'istanza di superamento dei limiti dimensionali previsti dai decreti del Presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 22 dicembre 2016 e n. 127 del 16 ottobre 2017Visti tutti gli atti della causa;Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 luglio 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e udito, per parte appellante, l'avvocato Do. So.;Lette le conclusioni rassegnate dalle parti.Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.FATTO e DIRITTO1. I sig.ri Ce. Bi. ed altri hanno appellato la sentenza n. 1909/2022, con la quale il T.A.R. per la Calabria Sezione Prima ha respinto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto dagli odierni appellanti.1.1. Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado i signori Bi. ed altri avevano chiesto:i) di accertare e dichiarare la sussistenza dei presupposti del danno da ritardo e da disturbo, nonché da illecito omissivo permanente da parte dell'Amministrazione;ii) di dichiarare l'illegittimità della mancata definizione del procedimento avviato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e per la Provincia di Vibo Valentia, in ottemperanza alla sentenza n. 1847/2017 del T.A.R. per la Calabria;iii) di dichiarare l'illegittimità del silenzio serbato dal Commissario ad Acta sull'istanza dell'1.7.2018;iv) di condannare l'Amministrazione ad emanare il provvedimento di rimozione del vincolo apposto con D.M. del 20.11.1996, in coerenza con le risultanze istruttorie e la proposta formulata dalla Soprintendenza territorialmente competente in data 9.2.2018 (nota prot. n. 1348).1.2. Con il successivo ricorso per motivi aggiunti i sig.ri Bi. ed altri avevano chiesto l'annullamento:i) della nota prot. n. 834 del 15.2.2019, con cui la Commissione regionale per il Patrimonio Culturale presso il Segretariato Regionale per la Calabria aveva deliberato, all'unanimità, il mantenimento del provvedimento di tutela previsto dal D.M. del 20.11.1986;ii) del verbale n. 3 del 12.3.2018 e della relativa deliberazione;iii) del D.M. 20.11.1996 ivi richiamato, e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali.2. Le domande articolate dagli odierni appellanti sono riferite ad una complessa vicenda fattuale che occorre procedere a ricostruire. A tal fine si osserva che gli appellanti sono proprietari - pro indiviso ed in uguale misura - di un terreno edificabile di estensione pari a 1000 mq., sito in località (omissis) del Comune di Vibo Valentia (foglio (omissis), particella n. (omissis)). Tale immobile era stato ricompreso in "zona semintensiva" del P.R.G. comunale del 1966 e il Comune aveva rilasciato il permesso di costruire n. 4436 del 18.10.1995, per la realizzazione di un fabbricato da adibire a civile abitazione. Gli appellanti avevano, quindi, stipulato un contratto di appalto con la ditta Pa. Co. s.a.s., versando - a titolo di acconto - l'importo pari a euro 5.165,00. Dopo il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la stipula di una polizza fideiussoria, si era dato avvio ai lavori in data 25.1.1996. Tuttavia, in data 26.1.1996, la Soprintendenza archeologica della Calabria aveva intimato la sospensione dei lavori (provvedimento prot. n. 563), emanando, di seguito, due decreti di occupazione temporanea, finalizzati a consentire - tra il 21.2.1996 e il 22.7.1996 e tra il 23.7.1996 e il 22.11.1996 - lo svolgimento di indagini archeologiche. Successivamente, l'Amministrazione aveva adottato il D.M. del 20.11.1996, dichiarando il terreno di interesse archeologico e sottoponendolo al relativo regime di protezione.2.1. Tale provvedimento era stato impugnato dinanzi al T.A.R. per la Calabria che aveva, però, respinto il ricorso con sentenza n. 309/1998, confermata dalla sentenza n. 1026/2007 di questa Sezione del Consiglio di Stato. Nel respingere il ricorso in appello, la Sezione aveva evidenziato, ex aliis, come la valorizzazione degli elementi fattuali sopravvenuti al vincolo avrebbe potuto rilevare solo ai fini del riesame in sede di autotutela, ove ne fossero ricorsi i presupposti.2.2. Le odierne parti appellanti avevano, quindi, chiesto al Ministero di esercitare i poteri di riesame, con istanza del 19.2.2008. Con nota del 7.5.2008, prot. n. 2275, la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Calabria aveva respinto tale istanza, ritenendo non sussistenti i presupposti per l'esercizio di tale potere. Tale decisione era stata confermata dal successivo provvedimento emesso all'esito del ricorso gerarchico proposto dai sig.ri Bi. ed altri.2.3. Le parti appellanti avevano, quindi, impugnato la decisione dinanzi al T.A.R. evidenziando, in sintesi, l'insussistenza dei presupposti per il mantenimento del vincolo, anche in ragione dell'intervenuto rilascio da parte del Comune di un ulteriore permesso di costruire per l'edificazione di una "imponente struttura" sul terreno contiguo. Con ordinanza n. 86/2009 il T.A.R. aveva disposto una verificazione sullo stato dei luoghi, da effettuarsi a cura della Direzione regionale paesaggistica della Calabria, la quale aveva, poi, incaricato - per l'espletamento delle attività - la dott.ssa Za., archeologa presso la Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio. Dopo lo svolgimento di alcune attività istruttorie, la funzionaria incaricata della verificazione non aveva depositato il proprio elaborato, e il T.A.R. aveva sollecitato l'adempimento con ordinanza n. 108/2010. Con la successiva sentenza n. 29/2011 il T.A.R. aveva annullato il Decreto del Direttore generale per i Beni Archeologici dell'allora Ministero per i beni e le attività culturali del 22.9.2008, con cui era stato respinto il ricorso gerarchico avverso la nota della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Calabria n. 2275 del 7.5.2008, recante il rigetto dell'istanza del 19.2.2008 di revisione del vincolo ex art. 128, comma 3, D.Lgs. n. 42/2004. Il T.A.R. aveva, quindi, ordinato all'Amministrazione di provvedere a riesaminare il ricorso gerarchico.2.4. In ottemperanza alla sentenza l'Amministrazione aveva incaricato il dott. Ar. di verificare le condizioni per il riesame del vincolo con nota prot. 3253 del 5.4.2011, entro il termine di trenta giorni dal conferimento dell'incarico. Gli appellanti hanno dedotto che tali adempimenti non erano stati, tuttavia, eseguiti e, pertanto, avevano chiesto di ottenere il rilascio di copia della relazione scientifica redatta dalla dott.ssa Za., in precedenza incaricata della verificazione (v., supra, punto 2.3). L'istanza di accesso agli atti non era stata, tuttavia, accolta e, per tale ragione, le parti avevano adito il T.A.R. che, con sentenza n. 1645/2011 aveva ordinato all'Amministrazione di rilasciare copia della relazione, reiterando tale ordine con la successiva sentenza n. 241/2013, con la quale era stato nominato come Commissario ad Acta per tale adempimento il Prefetto di Catanzaro. Dopo la sentenza l'Amministrazione aveva, tuttavia, comunicato al Prefetto di non essere in possesso della relazione della dott.ssa Za. e, a seguito di un nuovo sollecito, aveva comunicato l'impossibilità di effettuare l'accesso ai luoghi per eventuali visite ispettive.2.5. In data 15.12.2014 la Soprintendenza aveva autorizzato - su istanza e a spese degli odierni appellanti - l'esecuzione di una campagna di scavi con metodo stratificato anche al fine di verificare la persistenza di un interesse archeologico attivo e di accertare la sussistenza di elementi di fatto sopravvenuti rispetto all'istruttoria che aveva condotto all'emanazione del vincolo. A seguito di tali verifiche erano stati rinvenuti alcuni reperti (embrici, coppe, frammenti ceramici, frammenti di anfore e pithos, nonché una struttura muraria) (doc. n. 11 del fascicolo di primo grado degli appellanti). I sig.ri Bi. ed altri avevano, quindi, chiesto nuovamente alla Soprintendenza di avviare il procedimento di riesame e rimozione del vincolo archeologico (nota del 19.9.2016). La Soprintendenza aveva comunicato di aver avviato il procedimento per l'eventuale riesame, di competenza della Commissione regionale (prot. 2223 del 27.9.2016). I sig.ri Bi. ed altri avevano, successivamente, adito nuovamente il T.A.R. per far dichiarare il perdurante inadempimento dell'Amministrazione e il Giudice aveva accolto tale domanda con la sentenza n. 1847/2017, con la quale aveva ordinato all'Amministrazione di concludere i provvedimenti avviati entro il termine di 180 giorni dal deposito della sentenza.2.6. Con nota prot. n. 7485 dell'11.8.2017 la Soprintendenza aveva evidenziato che:i) il saggio n. 1 degli scavi eseguiti si era dimostrato privo di strutture e negli strati di terreno scavati erano stati rinvenuti pochi materiali archeologici;ii) il saggio n. 2 aveva consentito di rinvenire frammenti ceramici e laterizi;iii) il saggio n. 3 aveva consentito di rinvenire numerosi frammenti e una struttura muraria costituita da un doppio paramento di laterizi disposti di taglio, con riempimento interno di pietrame e laterizi fratti.2.6.1. La Soprintendenza aveva, quindi, proposto la revisione del vincolo, limitando il vincolo diretto alla superficie del muro (comprensivo di una fascia di rispetto di un metro in tutte le direzioni) e modificando il vincolo da diretto ad indiretto per la restante parte della particella in esame. In data 7.12.2017 la Soprintendenza aveva comunicato l'avvio del procedimento per la revisione del vincolo. Le parti avevano formulato osservazioni, proponendo la rimozione integrale del vincolo, con impegno ad asportare in unico blocco la struttura muraria e a curarne il trasferimento presso il Museo di Vibo Valentia o altro museo, senza oneri per l'Amministrazione. Con nota del 9.2.2018 la Soprintendenza aveva comunicato di ritenere suscettibile di accoglimento la proposta, rimettendo, comunque, la valutazione finale alla Commissione regionale per il Patrimonio Culturale, e facendo presente come fosse necessario coinvolgere il Segretariato Regionale per individuare la collocazione della struttura muraria, stante le competenze assegnate dal Regolamento di organizzazione del Ministero del 2014. Gli odierni appellanti avevano, quindi, formalizzato il loro impegno con atto notarile, trasmesso alla Commissione regionale per il Patrimonio Culturale della Calabria.2.7. In data 1.7.2018 le parti avevano, comunque, sollecitato l'intervento sostitutivo del Commissario ad Acta, stante una nuova stasi nell'azione amministrativa. Successivamente, avevano adito il T.A.R. (che si è, poi, pronunciato con la sentenza oggetto del presente giudizio di appello) per ottenere la declaratoria di illegittimità del silenzio-inadempimento rispetto all'istanza di revisione/rimozione del vincolo, il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per i comportamenti posti in essere dall'Amministrazione, e la condanna della stessa ad adottare il provvedimento richiesto. Dopo la proposizione del ricorso, l'Amministrazione aveva inviato alle parti la nota del 6.4.2018 con la quale la Commissione Regionale aveva, tuttavia, statuito il mantenimento del vincolo. Gli odierni appellanti avevano, quindi, proposto ricorso per motivi aggiunti chiedendo l'annullamento del provvedimento confermativo del vincolo.3. Esaurita la ricostruzione della vicenda fattuale, si osserva come il T.A.R. per la Calabria abbia dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo del giudizio (nella parte relativa al dedotto inadempimento dell'Amministrazione) e abbia rigettato la domanda di risarcimento del danno. Inoltre, il T.A.R. ha respinto la domanda di annullamento formulata con il ricorso per motivi aggiunti.4. I sig.ri Bi. ed altri hanno, quindi, proposto ricorso in appello, suddiviso in vari "capitoli" che saranno di seguito esaminati. Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni in epigrafe chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica dell'11.7.2024 le sole Amministrazioni hanno depositato memoria conclusionale. Gli appellanti hanno, invece, depositato istanza di rinvio della trattazione del merito del ricorso in appello, esponendo che, in data 20.3.2024, la Soprintendenza aveva invitato le stesse a incaricare una ditta per il trasporto della struttura muraria rinvenuta nel terreno di proprietà e che, all'esito di tale operazione, si sarebbe verificata la sussistenza dei presupposti per la rivalutazione del vincolo. All'udienza dell'11.7.2024 la causa è stata trattenuta in decisione.5. Preliminarmente il Collegio ritiene non sussistenti i presupposti per accordare il rinvio della trattazione del merito della controversia, richiesto dagli appellanti con l'istanza depositata in data 5.7.2024.5.1. In termini generali si osserva che, come evidenziato da questo Consiglio di Stato, "nell'ordinamento afferente al processo amministrativo non esiste norma giuridica o principio ordinamentale che attribuisca alle parti in causa il diritto al rinvio della discussione del ricorso o alla cancellazione della causa dal ruolo, atteso che le stesse hanno solo la facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare il differimento dell'udienza o la cancellazione della causa dal ruolo, ma la decisione finale in ordine ai concreti tempi della decisione spetta comunque al giudice". E "ciò, in quanto la richiesta di cancellazione della causa dal ruolo ovvero di rinvio della trattazione di una causa deve trovare il suo fondamento giuridico in gravi ragioni idonee ad incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo sia regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti" (cfr., Consiglio di Stato, Sez. V, 29 dicembre 2014, n. 6414; Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 ottobre 2015, n. 3911; Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 aprile 2023, n. 3901). Inoltre, va considerato come risponda "all'esigenza di ordinato svolgimento della giustizia che i ricorsi, una volta fissati, siano decisi, poiché la fissazione di un ricorso preclude, con la saturazione del ruolo di udienza, la conoscenza di altra controversia" (Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 1997, n. 696, il cui principio - affermato nella vigenza del previgente ordinamento processuale - deve ritenersi valevole anche per il codice del processo amministrativo, stante il medesimo meccanismo di fissazione dei ricorsi).5.2. Deve, altresì, notarsi come la previsione di cui all'art. 73, comma 1-bis, c.p.a. non consenta di disporre, su istanza di parte, la cancellazione della causa dal ruolo, e il rinvio della trattazione della causa possa essere disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che lo dispone.5.3. Nel caso di specie, non si ravvisano i casi eccezionali ai quali fa riferimento il disposto normativo sopra indicato. Infatti, deve considerarsi, in primo luogo, come l'istanza risulta fondata su una nota della Soprintendenza che non ha, invero, comunicato, con certezza, l'apertura di un procedimento di revisione del vincolo, ma ha invitato le parti ad incaricare una ditta per la rimozione della struttura muraria, indicando, che, all'esito, avrebbe valutato la sussistenza dei presupposti per la rimozione del vincolo, ferme restando le valutazioni, sul punto, dell'Ente superiore preposto alla revisione. In questo contesto, non è pronosticabile una definizione a breve del procedimento amministrativo, tenuto conto anche delle pregresse vicende, in relazione alle quali gli stessi appellanti hanno stigmatizzato il verificarsi di numerosi periodi di stasi dell'azione amministrativa. Inoltre, l'eventuale revisione del vincolo non esaurirebbe il dovere decisorio del Collegio sul merito della controversia, rendendo, in ipotesi, improcedibile la sola domanda articolata originariamente con il ricorso per motivi aggiunti o comportando, in caso di integrale riconoscimento del bene della vita, la cessazione in parte qua della materia del contendere; permarrebbe, tuttavia, la necessità di decidere le domande risarcitorie formulate dalla parte; pertanto, il differimento della trattazione della controversia (in difetto, anche, di ipotesi di rinuncia alle ulteriori domande) non garantirebbe un'integrale chiusura della controversia, che andrebbe, comunque, decisa quanto meno nella parte relativa alla domanda risarcitoria, e, anche per tale ragione, non risulta necessario né opportuno procrastinare la decisione.6. Entrando, quindi, in medias res può seguirsi l'ordine dei motivi allestito dagli appellanti, prendendo l'abbrivio dal "capitolo 1" del ricorso in appello, relativo al capo 4 della sentenza, con il quale il T.A.R. ha dichiarato in parte inammissibile e, in altra parte, ha respinto il ricorso per motivi aggiunti, relativo alla riconferma integrale del vincolo apposto nel 1996.6.1. Prima di procedere alla disamina delle censure articolare, giova illustrare i contenuti del capo di sentenza impugnato dagli appellanti. A tal fine si osserva come il Giudice di primo grado abbia statuito che:i) il T.A.R. aveva respinto, con sentenza n. 309/1998, il ricorso proposto avverso il D.M. 20.11.1996, dichiarativo dell'interesse particolarmente importante, ai sensi della legge n. 1089/1939, di numerose aree site in località (omissis) di Vibo Valentia, fra le quali quelle comprese nella particella (omissis) del foglio (omissis), di proprietà dei sig.ri Bi. ed altri;ii) tale pronuncia era stata confermata dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 1026/2007;iii) di conseguenza, il Giudice Amministrativo aveva ritenuto legittimo il D.M. del 1996, e tale legittimità non poteva essere messa, ulteriormente, in discussione, con conseguente inammissibilità delle censure avverso tale decreto, contenute nel ricorso per motivi aggiunti.6.2. Il T.A.R. ha, poi, respinto le ulteriori censure richiamando la sentenza n. 1026/2007 di questo Consiglio, secondo la quale:i) "nella particella in esame (...) indagini archeologiche, condotte attraverso carotaggi, (avevano) messo a nudo la presenza di uno strato archeologico spesso da 60 cm. ad 1 mt., da riconnettersi all'area sacra di (omissis), una delle aree sacre più vaste e monumentali della colonia greca di Hipponion; area che (aveva) restituito, insieme ad importanti strutture di edifici, tre favisse contenenti un'enorme quantità di materiale di grande pregio, oggi in massima parte esposto presso il museo di Vibo Valentia. Sempre in detta particella (erano) stati individuati, oltre al materiale ceramico, al carbone ed alle ossa, tutti attestanti la presenza di strati archeologici, anche, e in misura consistente, laterizi non usurati, misti a calcarenite (a dimostrazione della presenza di edifici di culto). La particella (omissis) (era) poi interessata alla presenza di una via Sacra - accertata mediante lo studio della fotografia aerea- (di particolare) valore documentario";ii) "la ragionevolezza della motivazione e la completezza dell'istruttoria (resistevano) all'esito del controllo di mera legittimità riservato al Giudice amministrativo, mentre la valorizzazione degli elementi fattuali al vincolo (poteva) rilevare solo ai fini del riesame in sede di tutela, (qualora ne fossero ricorsi i presupposti)".6.2.1. Inoltre, il T.A.R. ha osservato che, dalla motivazione del provvedimento di conferma del vincolo, erano, comunque, evincibili le ragioni a sostegno del mancato venir meno delle esigenze di tutela che ne avevano giustificato l'imposizione, dandosi atto delle varie sentenze del Giudice amministrativo che avevano riconosciuto la sussistenza dell'interesse archeologico all'interno delle cinta murarie delle città greche e romane. Il T.A.R. ha, altresì, evidenziato che:i) l'area oggetto di vincolo rientra all'interno della cinta muraria dell'antica Hipponion, e si trova a pochissima distanza da un importante tempio, scoperto nel Novecento dall'archeo Paolo Orsi;ii) i saggi effettuati avevano consentito di rinvenire un tratto di muro antico, una tubazione antica in terracotta, strati archeologici e frammenti ceramici di varia natura;iii) non aveva rilievo la circostanza relativa alla dedotta sterilità del terreno, atteso che la tutela vincolistica archeologica può fondarsi anche su mere presunzioni, e il vincolo tutela non solo i reperti in sé, ma la complessiva superficie destinata illo tempore all'insediamento umano;iv) era, pertanto, da considerarsi legittimo l'operato dell'Amministrazione, anche in ragione del fatto che il vincolo archeologico ha come obiettivo primario quello di tutelare il patrimonio archeologico dello Stato ed essendo l'attività dell'Amministrazione diretta a tutelare il patrimonio nella sua interezza, comprendendo anche il contesto naturale in cui si trova.7. Passando ad esaminare i motivi di ricorso in appello si deve riscontrare, in primo luogo, come gli appellanti abbiano ritenuto corretta la decisione del Giudice di primo grado nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il ricorso per motivi aggiunti, in relazione alle censure articolare avverso il D.M. 20.11.1996, la cui impugnazione sarebbe stata finalizzata esclusivamente a "pronosticare la rimozione/emendazione dell'atto a seguito del corretto scrutinio dell'istanza di riesame, sorretta da univoche evidenze istruttorie e valutative, promananti dalla medesima Amministrazione resistente" (capitolo "A.1", f. 19 del ricorso in appello). Gli appellanti hanno, comunque, esposto di ritenere il punto "non utile ai fini del giudizio finale", e hanno, quindi, ritenuto di non censurarlo. Di conseguenza, il Collegio deve prendere atto della circostanza che la pronuncia del T.A.R. per la Calabria è transitata in parte qua in rem iudicatam, e la statuizione di inammissibilità è, quindi, estranea al dovere decisorio di questo Giudice.8. Nei successivi capitoli A.2-A.8, gli appellanti hanno articolato plurime censure avverso il capo di sentenza impugnato, evidenziando, in sintesi, che:i) la domanda di riesame del vincolo era stata sorretta dalla sopraggiunta urbanizzazione ed edificazione dell'area e dalle indagini scientifiche effettuate sotto la direzione scientifica della stessa Soprintendenza;ii) la Soprintendenza aveva ipotizzato la revisione del vincolo (diretto nella sola parte ove era stato ritrovato il muretto e indiretto per la restante parte) o la sua integrale derubricazione a indiretto;iii) dal verbale n. 3 del 12.3.2018 risultava che il dott. Pa. e la dott.ssa Gu. avevano espresso parere favorevole alla revisione del vincolo, mentre parere contrario era stato espresso dal dott. Pa.;iv) nonostante le differenti idee sul punto la Commissione non aveva indicato le ragioni a sostegno della decisione finale, né aveva preso posizione sulle sopravvenienze urbanistiche ed edilizie e sul parere favorevole della Soprintendenza, con conseguente difetto di motivazione (punti A.2-A.3 del ricorso in appello);v) il T.A.R. aveva respinto il ricorso per motivi aggiunti non tenendo conto di tali elementi ma richiamando la sentenza n. 1026/2007 di questo Consiglio che non si era, tuttavia, pronunciata sugli elementi sopravvenuti, oggetto dell'istanza di revisione e, quindi, del successivo giudizio avverso il diniego di riesame (punto A.4 del ricorso in appello);vi) il T.A.R. non aveva tenuto conto di quanto affermato dalla stessa Soprintendenza e aveva fatto riferimento alla possibilità di ancorare la tutela archeologica a prove presuntive, senza, tuttavia, considerare le evidenze già presenti in atti (punto A.5. del ricorso in appello);vii) il T.A.R. non aveva tenuto conto, altresì, del tema delle sopravvenienze, sulla base delle quali era stata richiesta la revisione del vincolo, non decidendo, quindi, sul nucleo fondamentale della domanda di annullamento articolata (punto A.6 del ricorso in appello);viii) il parere della Soprintendenza non poteva qualificarsi come non vincolante e, in ogni caso, doveva essere oggetto di puntuale disamina da parte della Commissione Regionale;ix) lo scrutinio della sentenza era stato, quindi, parziale e non aveva colto il valore e la portata del tema delle sopravvenienze.8.1. Le censure sono fondate in parte e, in particolare, in relazione al denunciato difetto di motivazione del verbale della Commissione regionale e per quanto di ragione.8.2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la domanda di annullamento articolata con il ricorso per motivi aggiunti aveva come oggetto il provvedimento di conferma del vincolo del 1996, che gli odierni appellanti avevano ritenuto illegittimo nella parte in cui non avrebbe tenuto conto delle sopravvenienze, costituite, da un lato, dall'urbanizzazione ed edificazione ulteriore dell'area, e, dall'altro, dalle indagini scientifiche medio tempore compiute. In ragione della tipologia di provvedimento impugnato, la verifica di legittimità del Collegio deve prendere l'abbrivio dalle ragioni a sostegno dell'originario vincolo, verificando se vi sia stata un'effettiva disamina delle dedotte sopravvenienze e, in particolare, se di tali aspetti sia data compiuta indicazione nella trama motivazionale che sorregge la conferma del vincolo.8.3. A tal fine si osserva che il D.M. del 1996 aveva esteso il vincolo già esistente sulle particelle n. 42 e 57, apposto con D.M. del 1977. Quest'ultimo provvedimento era stato emesso dopo le campagne di scavo nell'inizio del Novecento (curate dall'archeo Paolo Orsi) e degli anni 1971-1975, che avevano consentito di rinvenire una delle aree sacre più vaste e monumentali dall'antica città di Hipponion, sub-colonia di Locri Epizefiri, e, successivamente, Municipium romano. In quell'area erano stati rinvenuti un tempio di ordine ionico, tre favisse ricchissime di ex voto, un pozzo connesso ai riti sacri e alcuni edifici culturali. Il santuario era dedicato alla dea Persefone e alla madre Demetra, come dimostrato dagli ex voto rinvenuti, i "pinakes" tipici del culto della Kore-Persefone e le statuette rappresentanti Demetra. L'estensione del vincolo alle ulteriori particelle (tra cui la n. (omissis)) era stata giustificata in ragione della presenza di strati archeologici, "talvolta più consistenti", da riconnettersi all'area sacra e nei quali erano state rinvenute diverse testimonianze. In particolare, nella particella n. (omissis) era stata accertata la presenza di uno strato archeologico spesso da 60 cm. ad 1 mt., da riconnettersi all'area sacra di (omissis), e, inoltre, era stato rinvenuto materiale ceramico, carbone e ossa, attestanti la presenza di strati archeologici, e, in misura consistente, laterizi non usurati, misti a calcarenite, che dimostravano la presenza di strutture murarie di edifici di culto. Inoltre, la particella n. (omissis) era ritenuta interessata dalla presenza di una via Sacra, di particolare rilievo in quanto una delle rare vie Sacre presenti in Calabria. Il Ministero aveva, quindi, ritenuto necessario mantenere la particella n. (omissis) sgombra da edifici moderni, in quanto i resti rinvenuti erano in continuità con quelli monumentali già tutelati.8.4. Rispetto alla situazione fattuale indicata nel vincolo gli appellanti hanno dedotto, come spiegato, la sussistenza di due tipi di sopravvenienze: i) l'ulteriore urbanizzazione ed edificazione dell'area; ii) gli esiti delle successive indagini di carattere archeologico che avrebbero segnalato la sterilità archeologica dell'area.8.5. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la ritenuta sussistenza di sopravvenienze rispetto agli elementi posti a fondamento del vincolo sia circostanza segnante l'intera vicenda amministrativa sub observatione. Infatti, sin da pochi anni dopo l'impugnazione del provvedimento di vincolo del 1996 gli odierni appellanti avevano dedotto l'esistenza di ulteriori elementi che avrebbero imposto la rimozione o, comunque, la revisione del vincolo. Lo si evince dalla stessa sentenza n. 1026/2017, da un cui obiter dictum hanno, probabilmente, tratto linfa le successive iniziative dei sig.ri Bi. ed altri, nonché le ulteriori pronunce emesse dal T.A.R. per la Calabria. Invero, va, però, osservato come la sentenza di questo Consiglio aveva, esclusivamente, evidenziato come le questioni sopravvenute non potessero costituire ragioni di illegittimità del vincolo, in sostanziale applicazione del principio tempus regit actum, che impone di valutare la legittimità del provvedimento alla luce delle situazione di fatto (nonché della disciplina di diritto) vigente al momento della sua adozione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 10 maggio 2024, n. 4227; Id., Sez. V, 12 febbraio 2024, n. 1369). Infatti, la sentenza della Sezione si era limitata ad affermare che le sopravvenienze dedotte non potevano condurre a decretarne l'illegittimità, ma, piuttosto, tutt'al più, avrebbero potuto avere rilievo, in ipotesi, come elementi da valutare in sede di riesame. Nella logica della sentenza della Sezione, le sopravvenienze non erano, quindi, elementi sui quali sorreggere il giudizio, ma, al contrario, aspetti ad esso estranei. Di conseguenza, la portata dell'inciso contenuto nella decisione della Sezione deve essere ridimensionata sul piano logico e giuridico, non trattandosi di una statuizione munita di alcun vincolo precettivo, né tanto meno di un accertamento - anche meramente incidentale - della sussistenza di sopravvenienze tali da imporre la rimozione o la revisione del vincolo.8.6. Operata tale necessaria precisazione il Collegio osserva come un preciso vincolo precettivo ad una analitica disamina delle circostanze fattuali sopravvenuta sia, invece, disceso dalla sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria, la quale, nell'annullare il decreto del Direttore Generale per i Beni Archeologici del Ministero del 22.9.2008 (con cui era stato respinto il ricorso gerarchico proposto avverso l'istanza di riesame del vincolo), aveva evidenziato come tale provvedimento si era soffermato sulla valenza archeologica dell'area ma non anche sugli aspetti relativi all'estensione spaziale dell'area interessata (e alla conseguente giustificazione dell'ampiezza orizzontale del vincolo di tutela), e, quindi, sulla possibilità di procedere ad una delimitazione del vincolo, che era aspetto logicamente successivo a quello relativo alla rilevanza archeologica dei beni rinvenuti e del complesso interessato. Secondo il T.A.R., in sostanza, già tale provvedimento non aveva preso in considerazione gli elementi sopravvenuti rispetto al momento di imposizione del vincolo di tutela, "avuto anche riguardo alle campagne di scavo succedutesi negli anni, nonché ad eventuali accessi ispettivi".8.7. La sentenza del T.A.R. n. 29/2011 aveva, quindi, evidenziato la sussistenza di un deficit della motivazione del provvedimento allora impugnato, imponendo all'Amministrazione di riesaminare la situazione, "ferma ed impregiudicata ogni questione di merito, non avendo (il) Giudice elementi per formulare la benché minima valutazione in relazione alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, considerata, peraltro, l'ampia potestà discrezionale attribuita in materia alla P.A., ai fini del perseguimento degli interessi pubblici" (f. 7 della sentenza).8.8. Questo inciso ha rilievo per il presente giudizio per due ordini di ragioni.8.8.1. In primo luogo, consente di delineare il vincolo precettivo di quella sentenza, rilevante anche per la disamina della domanda risarcitoria. Come affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, "per la delimitazione dell'ambito dell'effetto conformativo del giudicato amministrativo, la giurisprudenza afferma che occorre avere riguardo alla tipologia e al numero dei motivi accolti e distinguere le sentenze a effetto vincolante pieno, con le quali l'atto viene annullato per difetto dei presupposti soggettivi o oggettivi o per violazione di termini perentori relativi all'esercizio del potere, da quelle a effetto vincolante strumentale, con le quali l'annullamento per vizi formali (come quelli procedimentali o di mero difetto di motivazione) impone soltanto all'amministrazione di eliminare il vizio dall'atto senza vincolarla in alcun modo nei contenuti. La portata effettiva del giudicato va ricostruita sulla base di una lettura congiunta del dispositivo della sentenza e della parte motiva, che vanno inoltre correlate ai dati oggettivi di identificazione delle domande (causa petendi e petitum) proposte dalla parte ricorrente, considerando che il potere residuo dell'amministrazione in sede di riedizione del potere dopo una pronuncia di annullamento va delimitato con riferimento al tipo di vizio riscontrato e che, in ogni caso, l'effetto conformativo si estende all'obbligo di porre in essere una attività successiva conforme ai canoni di legittimità individuati dalla pronuncia da eseguire" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 aprile 2024, n. 3641; Id., 23 giugno 2023, n. 6187, Id., Sez. VI, 19 maggio 2023, n. 5002; Id., Sez. VI, 12 luglio 2022, n. 5880). Nel caso di specie, il vincolo precettivo della sentenza si era esaurito nel mero dovere di riesaminare la situazione alla luce degli elementi indicati dal T.A.R., senza, quindi, affermare l'insussistenza - anche parziale - di ragioni per il mantenimento del vincolo, che il Giudice aveva, comunque, integralmente rimesso all'Amministrazione.8.8.2. In secondo luogo, deve osservarsi come tale inciso, nell'escludere espressamente una valutazione sul merito della pretesa, privi di rilievo i segmenti della decisione in cui il T.A.R. ha richiamato la disposizione dell'art. 116, comma 2, c.p.a., che, invero, non ha avuto sostanziale applicazione nel caso di specie. Infatti, se è vero che il T.A.R. ha stigmatizzato il contegno omissivo dell'Amministrazione, è, altresì, vero che tale contegno non ha però rappresentato per il Giudice un argomento di prova, non avendo il T.A.R. valutato - come spiegato - il merito della pretesa, ma essendosi limitato ad ordinare di rinnovare la valutazione. Questa constatazione ha rilievo, come si esporrà, anche in relazione alla domanda risarcitoria formulata dagli appellanti, che hanno valorizzato il passaggio contenuto nella sentenza del T.A.R. senza, tuttavia, considerare né il mancato sviluppo logico-giuridico di tale affermazione nella sentenza n. 29/2011, né l'impossibilità di configurare, comunque, un'inerzia in capo all'Amministrazione, atteso che il contegno omissivo stigmatizzato dal Giudice è stato relativo alla condotta del verificatore e non dell'Amministrazione.8.9. Pur non entrando nel merito della pretesa la sentenza del T.A.R. per la Calabria aveva, comunque, imposto all'Amministrazione di riesaminare la situazione, indicando - come rappresentato - le tematiche che la stessa avrebbe dovuto approfondire in sede istruttoria, dandone, poi, contezza nella propria decisione. I contenuti di tale approfondimento si sono, successivamente, estesi in ragione dell'attività delle nuove campagne di scavo, richieste dagli appellanti nel 2014 e terminate con la relazione scientifica dell'archeologa dott.ssa Pr. del 2016 (doc. n. 11 del fascicolo di primo grado degli odierni appellanti). In ragione anche degli esiti di tali campagne i signori Bi. ed altri avevano, infatti, richiesto alla Soprintendenza di riesaminare il vincolo apposto nel 2016 (v. doc. n. 41 del fascicolo di primo grado degli odierni appellanti). L'ordine di definire il procedimento di eventuale revisione del vincolo (già affermato dalla sentenza n. 29/2011 del T.A.R.) era stato, inoltre, ribadito dal T.A.R. per la Calabria con la sentenza n. 1847/2017, la quale aveva accertato l'illegittimità del silenzio dell'Amministrazione, senza - anche in questo caso - valutare il merito della pretesa.8.10. In data 11.8.2017 la Soprintendenza aveva, quindi, sottoposto al Segretariato Regionale e alla Commissione regionale la possibile revisione del vincolo, consistente nel mantenimento del vincolo diretto nella parte di superficie del solo muretto rinvenuto durante le campagne di scavi avviate nel 2014 (con relativa fascia di rispetto) e nel mutamento in vincolo indiretto per la rimanente parte. Con successiva nota prot. n. 10785 del 7.12.2017, la Soprintendenza aveva comunicato l'avvio del procedimento di riesame del vincolo ex art. 128, comma 3, del D.Lgs. n. 42/2004. Tale procedimento è stato definito con la determinazione della Commissione regionale, impugnata con ricorso per motivi aggiunti e oggetto principale della domanda di annullamento in esame. Necessario, pertanto, procedere ad esaminare i contenuti di tale decisione alla luce delle vicende sin qui descritte e dei motivi articolati dalla parte.8.11. Procedendo nei termini sopra indicati osserva il Collegio come, dalla motivazione contenuta nel verbale, non si evinca l'avvenuta disamina (con conseguente valutazione) della tematica relativa alla sopravvenuta urbanizzazione ed edificazione dell'area. Si tratta, come esposto in precedenza, di uno dei temi sui quali le sentenze del Giudice amministrativo avevano imposto di prendere posizione. Nonostante le chiare statuizioni del Giudice amministrativo sul punto, la Commissione non ha, quindi, motivato in ordine alla rilevanza o irrilevanza della sopravvenuta edificazione dell'area. Né lo ha fatto richiamando per relationem le precedenti affermazioni rese sul punto e, in particolare, nella nota del 29.4.2009 (doc. n. 11 del fascicolo di primo grado delle Amministrazioni), ove, invero, la tematica era stata, compiutamente, affrontata. Le valutazioni ivi espresse non sono state, infatti, riprese e/o ulteriormente articolate nel provvedimento finale della Commissione che, quindi, ha omesso di motivare in ordine ad uno degli aspetti relativi alle dedotte sopravvenienze invocate dagli odierni appellanti. In parte qua, sussiste, quindi, il denunciato difetto di motivazione del provvedimento, con la conseguenza che è obbligo dell'Amministrazione - in sede di riesame della vicenda - verificare quale sia la reale consistenza di queste nuove edificazioni e quale la loro eventuale incidenza sul vincolo, adottando le conseguenti determinazioni. Va precisato - in considerazione anche dei precedenti equivoci sulla portata delle sentenze del Giudice amministrativo che si sono registrate u trimque - che questa statuizione non accerta in questa la fondatezza del merito della pretesa ma stigmatizza esclusivamente la carenza di motivazione sul punto. Spetta, quindi, all'Amministrazione operare le verifiche sopra indicate, non potendovi provvedere il Collegio anche per carenza di elementi su tale tematica che, non essendo stati oggetto dell'istruttoria e della motivazione dell'Amministrazione, non sono stati accertati. Dagli atti del giudizio emerge, infatti, esclusivamente che vi è stata una edificazione che gli appellanti hanno definito "imponente" ma non vi sono precise indicazioni sulla legittimità e sulla data e luogo di realizzazione, né soprattutto sul nesso tra tale edificazione e la tutela archeologica imposta dal vincolo e sull'incidenza di questa edificazione sull'area di proprietà degli appellanti. Spetta, quindi, all'Amministrazione operare le necessarie verifiche e, in particolare, accertare se le deduzioni degli appellanti sia sorrette da evidenze e siano, comunque, effettivamente idonee ad incidere sul vincolo e sulla sua natura ed estensione.8.12. Omologhe valutazioni devono essere espresse in relazione all'ulteriore aspetto, costituito dalle nuove campagne eseguite e, quindi, dagli elementi istruttori che sono successivamente emersi. Osserva, infatti, il Collegio come la motivazione della Commissione non affronti ab imis le tematiche che era, invece, necessario esaminare ed esternare anche alla luce del lungo contenzioso tra le parti e delle statuizioni già rese dal Giudice amministrativo. Infatti, la Commissione non ha motivato sulle ragioni di mantenimento del vincolo rispetto alla diversa posizione espressa dalla locale Soprintendenza, la quale aveva, invece, proposto una revisione parziale del vincolo. Dalla lettura del verbale emerge, infatti, come:i) il Segretario regionale avesse illustrato la situazione storica del vincolo e le risultanze delle recenti indagini archeologiche;ii) la dott.ssa Gu. avesse chiarito che, anche a seguito dei saggi effettuati, la Soprintendenza aveva ritenuto di prendere in considerazione "l'ipotesi di riesame delle motivazioni che avevano portato all'emanazione del D.M. del 20.11.1996";iii) il dott. Pa. si era, invece, dichiarato contrario alla revisione del vincolo, per ragioni che saranno di seguito esaminate.8.12.1. La motivazione dell'organo collegiale si è poi esaurita in un'unica proposizione, con la quale si è affermato che, "dopo ampia discussione", la Commissione aveva deciso, all'unanimità per il mantenimento del provvedimento di tutela così come previsto dal D.M. del 20.11.1996.8.13. La motivazione espressa dalla Commissione non ha, quindi, indicato le ragioni per le quali le valutazioni della Soprintendenza non erano condivisibili e il vincolo andava integralmente mantenuto nella sua interezza. Nel provvedimento impugnato difettano, quindi, indicazioni precise in ordine alle ragioni che hanno condotto la Commissione alla decisione presa. Né possono "imputarsi" all'intero organo collegiale le posizioni espresse dai singoli componenti, due dei quali non hanno neppure propriamente espresso delle valutazioni. Infatti, dalla verbalizzazione effettuata risulta che il Segretario Regionale e la dott.ssa Gu. si erano limitati ad esporre mere circostanze di fatto (la situazione storica del vincolo, le risultanze degli scavi, la posizione della Soprintendenza), ma non avevano esposto valutazioni dalle quali evincersi le ragioni del loro voto a favore del mantenimento del vincolo. Né, per converso, può, ovviamente, condividersi la tesi degli appellanti, secondo i quali questi due componenti si sarebbero, invece, espressi a favore della rimozione del vincolo, non essendovi alcuna indicazione sul punto neppure in tal senso. Come spiegato, dal verbale non emergono valutazioni puntuali di questi due componenti, neppure in relazione alla posizione espressa dalla Soprintendenza.8.14. Ora, sebbene tale valutazione non possa ritenersi vincolante (trattandosi di una mera proposta resa all'esito dell'istruttoria compiuta), la stessa costituiva, comunque, un elemento di particolare rilevanza, proprio perché si trattava di una valutazione espressa da un organo interno all'Amministrazione, che aveva, altresì, compiuto l'attività istruttoria. In ragione di ciò, era, certamente, necessaria una puntuale disamina e, soprattutto, una chiara motivazione sul punto. Come chiarito da questo Consiglio, "la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo ai sensi dell'art. 3 della legge n. 241/1990 e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti, non potendo pertanto il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma" (Consiglio di Stato, Sez. II, 6 settembre 2023, n. 8193; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 dicembre 2021, n. 8449; Consiglio di Stato, Sez. V, 10 settembre 2018, n. 5291; Consiglio di Stato, Sez. III, 7 aprile 2014, n. 1629). Inoltre, la motivazione del provvedimento non costituisce un adempimento standardizzato ma, al contrario, deve essere modulata a seconda delle circostanze del caso di concreto. Nella vicenda in esame, la sussistenza di una valutazione come quella espressa dalla Soprintendenza imponeva alla Commissione di illustrare con estrema accuratezza le ragioni a sostegno della decisione, esaminando le risultanze istruttorie della Soprintendenza ed esternando le circostanze ritenute rilevanti per mantenere, comunque, il vincolo riesaminando il tema del suo esatto dimensionamento in adempimento delle pronunce intervenute. In sostanza, la Commissione non era, certamente, vincolata ad aderire alla posizione espressa dalla Soprintendenza ma doveva, comunque, chiarire ed indicare le ragioni della propria decisione, così da consentire ai privati di conoscere le circostanze poste a fondamento della stessa e anche a questo Giudice di poter valutare la legittimità del proprio operato. Una formula come quella utilizzata dalla Commissione ha lasciato, invece, inevaso l'obbligo di motivazione e imperscrutabili le ragioni a sostegno della decisione.8.15. Il deficit motivazionale riscontrato non può, poi, ritenersi colmato ipotizzando un'adesione dell'intera Commissione alla posizione espressa dal dott. Pa.. Infatti, va considerato come difetti un rinvio a tale valutazione che possa consentire di imputare all'intera Commissione il giudizio espresso dal dott. Pa.. In ogni caso, deve osservarsi come tale giudizio sia stato incentrato sugli aspetti relativi all'interesse archeologico dell'intera area, ma non abbia preso analiticamente posizione sugli elementi istruttori forniti dalla Soprintendenza e sul parere dalla stessa formulato. Sul punto il Collegio osserva come l'interesse archeologico relativo all'antica città di Hipponion non sia, invero, revocabile in dubbio, né sia contestabile la necessità di articolare la tutela archeologica tenendo conto della valenza della tracce rinvenute anche per successive ed eventuali campagne di scavo, che potrebbero mettere alla luce ulteriori reperti, imponendosi, quindi, particolare attenzione e cautela nell'adozione di scelte che potrebbero compromettere le stesse ricerche future delle testimonianze delle civiltà del passato. Il dato che non è, tuttavia, esaminato è quello relativo all'estensione e alla tipologia del vincolo alla luce delle concrete campagne che sono state svolte. Infatti, il dott. Pa. ha, correttamente, richiamato gli esiti di tale campagne che hanno consentito il rinvenimento di diverso materiale, il quale - diversamente da quanto dedotto dagli appellanti - risulta di particolare valenza per quantità e qualità . Lo si evince dalla lettura integrale della relazione della dott.ssa Pr. (doc. 11 del fascicolo di primo grado degli odierni appellanti), ove sono ricostruiti in modo analitico gli esiti delle campagne di scavo e le risultanze in relazione ai tre saggi eseguiti. Ora, alla luce di questo rilevante apporto istruttorio, il compito della Commissione era, in sostanza, valutare se l'insieme del materiale rinvenuto nelle varie aree dove erano stati eseguiti i saggi fosse tale da dover necessariamente imporre il mantenimento integrale di un vincolo di carattere diretto (ad esempio in vista di successive campagne di scavo e per esigenze conoscitive ulteriori) o, se, al contrario, la tutela archeologica potesse diversamente modularsi (ad esempio essendo l'area sufficientemente indagata ed ormai di importanza trascurabile). La valutazione del dott. Pa. - immune da vizi nelle sue affermazioni di carattere generale - risulta deficitaria solo in relazione a questo punto, che è, comunque, l'aspetto centrale che si sarebbe dovuto approfondire, anche alla luce della sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria, che aveva chiarito come quello dell'estensione del vincolo fosse il tema centrale della controversia e fosse anche, dal punto di vista logico, un "posterius" rispetto a quello della rilevanza archeologica dei beni rinvenuti.8.16. In ragione di quanto sin qui esposto devono, quindi, condividersi - nei termini sopra indicati - le censure degli appellanti in ordine al difetto di motivazione del verbale della Commissione regionale. Al pari di quanto già affermato in precedenza, il Collegio intende ribadire come l'annullamento del provvedimento comporta l'obbligo per l'Amministrazione di provvedere ad un nuovo esame della fattispecie - tenendo conto delle indicazioni sin qui fornite - e di adottare un nuovo provvedimento, stabilendo, in sostanza, se alla luce dell'istruttoria compiuta dalla Soprintendenza e del materiale rinvenuto nelle campagne di scavo, il vincolo imposto dal D.M. del 1996 debba essere integralmente mantenuto o, al contrario, possa essere rimodulato. La Commissione è, quindi, chiamata ad una nuova valutazione nell'esercizio del sapere che presiede le valutazioni di interesse culturale (cfr., su tale valutazione e sulle caratteristiche epistemologiche della stessa, Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 luglio 2024, n. 6817; Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 agosto 2023, n. 8074). L'esito di tale valutazione è, inoltre, "libero" negli esiti - nel senso che non vi è alcun vincolo per la Commissione di modulare necessariamente il vincolo o rimuoverlo, ben potendo la stessa confermarlo - ma vincolato nella valutazione da compiere e nell'apparato motivazionale da esporre e su cui fondare tale decisione, dovendosi chiarire ed esternare le ragioni per le quali il vincolo debba, in ipotesi, permanere nella sua attuale configurazione ed istruttoria o possa, invece, diversamente modularsi. E ciò anche in considerazione del diverso parere della Soprintendenza, il quale, come spiegato, non è vincolante, ma costituisce, comunque, un aspetto che va necessariamente preso in considerazione nelle valutazioni collegiali della Commissione.8.17. Ciò che, quindi, si impone alla Commissione è di adottare una decisione sorretta da una trama motivazionale compiuta e attenta a tutti gli aspetti della presente vicenda, al fine di definirla in modo chiaro e suscettibile, in ipotesi, di un controllo giurisdizionale effettivo. Infatti, il mancato esame degli aspetti centrali della vicenda preclude al Collegio un esercizio effettivo della verifica di legittimità del provvedimento, che sfocerebbe, in sostanza, in una inammissibile sostituzione del Giudice rispetto alle decisioni dell'Amministrazione, sovvertendo, altresì, il proprium del sindacato giurisdizionale sulle valutazione di interesse culturale, che, come spiegato dalla Sezione, impongono una verifica di congruenza e proporzionalità della decisione, nonché del corretto esercizio del sapere che permea le valutazioni, postulando, quindi, il preventivo esercizio di tale sapere da parte dell'Amministrazione deputata alla tutela.8.18. Alla luce di quanto esposto, le censure esaminate devono essere accolte per quanto di ragione e, pertanto, in riforma in parte qua della decisione di primo grado, il ricorso per motivi aggiunti deve essere parzialmente accolto nei sensi e nei limiti sin qui indicati e per quanto di ragione9. Passando al secondo "capitolo" del ricorso in appello, il Collegio osserva come, con esso, la parte abbia dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo del giudizio, con il quale era stata censurata l'illegittimità del silenzio serbato dall'Amministrazione. Sul punto gli appellanti hanno dedotto, in particolare, che:i) il provvedimento della Commissione era stato comunicato alle parti private dopo l'instaurazione del giudizio e, quindi, non era conosciuto al momento della domanda;ii) la domanda originaria era, pertanto, da ritenersi fondata e, inoltre, "trattandosi di improcedibilità per fatto sopravvenuto e tardivo della P.A., la sentenza doveva darne atto e determinare" la declaratoria di fondatezza della stessa e la condanna alle spese di giudizio, sulla base del principio di soccombenza virtuale.9.1. Il motivo è infondato in quanto la sentenza di primo grado ha fatto corretta applicazione del principio, secondo il quale "nel processo amministrativo, presupposto, ai sensi dell'art. 117 c.p.a., della condanna dell'Amministrazione per il silenzio dalla stessa illegittimamente serbato sull'istanza dell'interessato, è che al momento della pronuncia del giudice perduri l'inerzia dell'Amministrazione inadempiente e che dunque non sia venuto meno il relativo interesse ad agire; di conseguenza, l'adozione da parte della stessa di un provvedimento esplicito, in risposta all'istanza dell'interessato o in ossequio all'obbligo di legge, rende il ricorso o inammissibile per carenza originaria dell'interesse ad agire (se il provvedimento intervenga prima della proposizione del ricorso) o improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (se il provvedimento intervenga nel corso del giudizio all'uopo instaurato)" (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 273; Consiglio di Stato, Sez. V, 14 aprile 2016, n. 1502). Il T.A.R. ha, infatti, tenuto conto della comunicazione del provvedimento dopo l'introduzione del giudizio, dichiarando, pertanto, il ricorso improcedibile e non inammissibile. Inoltre, l'avvenuta adozione del provvedimento ha eliso l'interesse della parte alla domanda ex art. 117 c.p.a., essendo tale ricorso diretto proprio ad ottenere l'adozione dell'atto da parte dell'Amministrazione, con conseguente venire meno dell'interesse a ricorrere ove tale circostanza si verifichi nel corso del giudizio. In ultimo, è infondata la deduzione relativa alla liquidazione delle spese di lite, considerato che, secondo costante giurisprudenza, la determinazione del Giudice in ordine al riparto delle spese deve essere adottata tenendo in considerazione l'esito complessivo e globale della controversia (cfr., ex multis, Cassazione civile, Sez. III, 13 giugno 2024, n. 16526).10. Con il terzo "capitolo" del ricorso in appello i signori Bi. ed altri hanno dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso i presupposti per accogliere la domanda risarcitoria articolata in primo grado.10.1. Il T.A.R. ha respinto la domanda osservando come gli appellanti avessero chiesto il risarcimento dei danni "da ritardo e da disturbo". Il Giudice di primo grado ha evidenziato che:i) la vicenda aveva registrato "senz'altro intervalli caratterizzati da atteggiamenti perplessi dell'Amministrazione, o anche connotati in termini di inerzia", ma, tuttavia, nessun danno risarcibile era configurabile nel caso di specie, in ragione dell'adozione del provvedimento di mantenimento del vincolo emesso dall'Amministrazione, oggetto di impugnazione per motivi aggiunti, e, quindi, dell'insussistenza della c.d. spettanza del bene della vita anelato;ii) in ogni caso, difettava il nesso di causalità tra i danni di cui si era chiesto il ristoro e la condotta dell'Amministrazione;iii) in particolare, quanto al danno patrimoniale, occorreva considerare che alcune voci di danno erano collegate all'apposizione del vincolo del 1996, e, come tali, non erano ristorabili, avendo il Giudice amministrativo escluso l'illegittimità di tale provvedimento; altre voci di danno patrimoniale non erano, invece, ristorabili, tenendo conto che l'investimento posto in essere dagli appellanti nelle more del procedimento di riesame non poteva costituire danno imputabile all'Amministrazione in applicazione del criterio di cui all'art. 1227 c.c., trattandosi di un investimento imprudente in quanto effettuato prima di conoscere l'esito del riesame;iv) il danno non patrimoniale non era supportato da evidenze, e non poteva ricorrersi ad una valutazione equitativa, che consente solo di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, senza poter avere valenza surrogatoria della prova;v) non vi era prova del nesso di causalità tra il danno biologico dedotto dalla dott.ssa Ca. e l'azione amministrativa, atteso che le gravi patologie diagnosticate alla stessa negli anni 2015/2016 (che avevano determinato l'accertamento da parte degli organi competenti dell'inidoneità assoluta e permanente al servizio), erano antecedenti al sorgere dello stato ansioso-depressivo; né era predicabile la sussistenza di un nesso di causalità tra il silenzio dell'Amministrazione e il danno da perdita di chance, dovuto allo stato di salute della dott.ssa Ca. (punto 2 della parte in diritto della sentenza di primo grado).10.2. Gli appellanti hanno contestato il capo di sentenza sopra riassunto con plurime censure, osservando, in particolare, che:i) la sentenza aveva, erroneamente, ritenuto che l'emanazione del provvedimento di conferma del vincolo poteva "chiudere la vicenda", non considerando che la domanda risarcitoria aveva stigmatizzato inerzie e omissioni poste in essere da molto tempo;ii) la sentenza non aveva considerato la statuizione contenuta nella sentenza n. 29/2011 del medesimo Tribunale e le valutazioni dello stesso Ministero in ordine alla condotta delle proprie articolazioni territoriale;iii) la sentenza aveva ancorato il giudizio alla ritardata conclusione del procedimento, senza tener conto della più ampia domanda risarcitoria, connessa alle perplessità e inerzie che avevano caratterizzato la vicenda amministrativa (capitolo "C1" del ricorso in appello);iv) il T.A.R. aveva omesso di considerare l'avvenuta lesione della sfera giuridica degli appellanti discendente dall'omesso adempimento alle ripetute istanze, dall'elusione di plurimi giudicati, dalla dissimulazione di stati inesistenti, dalla legittima aspettativa alla positiva soluzione della vicenda, indotta dalla stessa condotta dell'Amministrazione (capitolo "C2" del ricorso in appello);v) il nesso di causalità doveva ritenersi in re ipsa, o, comunque, ravvisarsi in applicazione della regola del "più probabile che non" (capitolo "C3" del ricorso in appello);vi) la sentenza aveva escluso la risarcibilità di alcuni danni in quanto connessi al vincolo, ma, in realtà, riferiti all'omesso riesame dello stesso;vii) era errato escludere dalle voci di danno i costi per gli investimenti, avendo la parte concluso l'affare dopo aver letto la relazione della dott.ssa Pr. e aver interloquito con la Soprintendenza in ordine alla possibilità di spostare il muretto ed eliminare, successivamente, il vincolo (capitolo "C4" del ricorso in appello).10.3. Gli appellanti hanno, quindi, riproposto l'esposizione delle voci di danno escluse dal T.A.R. (ff. 47-57 del ricorso in appello). Aspetti che, afferendo alla causalità giuridica, devono esaminarsi solo dopo aver verificato la sussistenza di comportamenti illeciti nell'operato dell'Amministrazione, la lesione di eventuali interessi giuridicamente protetti e la sussistenza di un nesso di causalità tra condotta ed evento lesivo, nonché, prima ancora, di aver chiarito la portata e l'oggetto delle domande risarcitorie articolate dalle parti.10.4. Prendendo l'abbrivio da quest'ultima preliminare tematica il Collegio ritiene necessario precisare come la cognizione della domanda giudiziaria presuppone la sua preventiva interpretazione, da effettuarsi individuando, mediante l'analisi delle allegazioni e delle affermazioni della parte, i suoi elementi costitutivi che, secondo una tripartizione tradizionale della dottrina processualcivilistica, sono le personae, il petitum e la causa petendi. Questa operazione deve essere effettuata prescindendo dalle espressioni letterali impiegate e verificando il contenuto sostanziale della domanda con riguardo al contenuto sostanziale della stessa e alle finalità perseguite nel giudizio della parte, senza che assumano alcun valore condizionante le formule adottate (Cassazione civile, 21 maggio 2019, n. 13602; Cassazione civile, 13 dicembre 2013, n. 27940, Cassazione civile, 28 agosto 2009, n. 18783, Cassazione civile, 17 settembre 2007, n. 19331). Contenuto sostanziale e finalità della domanda sono ricavabili dalle argomentazioni (in fatto e in diritto), contenute dell'atto introduttivo o negli atti defensionali successivi, dai mezzi istruttori offerti e dalle precisazioni compiute nel corso del giudizio (Cassazione civile, 21 luglio 2006, n. 16783; Cassazione civile, Sezioni Unite, 27 febbraio 2000, n. 27). In sostanza, secondo la condivisibile giurisprudenza della Corte di Cassazione, la domanda deve essere interpretata tenendo conto del contenuto sostanziale della pretesa, desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio, nonché del provvedimento richiesto in concreto, senza altri limiti che quello di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d'ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta (Cassazione civile, 18 marzo 2014, n. 6226; Cassazione civile, 20 giugno 2011, n. 13459; Cassazione civile, 27 febbraio 2001, n. 2908). La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha evidenziato che il giudice può incorrere nel vizio di omessa decisione ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale; ovvero nel vizio di ultra o extrapetizione, ove arrivi a sostituire d'ufficio domande non esperite a quelle normalmente proposte, abusando del potere interpretativo; l'interpretazione, infatti, non può spingersi tanto sino a configurare una domanda radicalmente difforme, nel petitum o nella causa petendi, da quanto espressamente allegato e dedotto dalle parti (Cassazione civile, 23 ottobre 2018, n. 26733; Cassazione civile, 12 aprile 2006, n. 8519; Cassazione civile, 28 luglio 2005, n. 15802).10.5. Nel caso di specie, la domanda risarcitoria articolata dagli odierni appellanti ha avuto un contenuto duplice: da un lato, si è, infatti, chiesto, il ristoro per il danno da ritardo connesso all'inerzia dell'Amministrazione nel concludere il procedimento di riesame del vincolo del 1996 avviato con l'istanza del 19 settembre 2016, e concluso solo con l'emanazione del provvedimento di conferma della Commissione regionale; dall'altro, si è chiesto il risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dei principi che presiedono l'azione amministrativa, e, quindi, per la complessiva condotta negligente, caratterizzata da ritardi e inerzie da parte dell'Amministrazione.10.6. In relazione alla prima domanda deve condividersi la decisione di primo grado che, in sostanza, ha declinato al caso di specie i principi affermati dalla giurisprudenza di questo Consiglio in ordine alla risarcibilità del danno da ritardo nel compimento di attività provvedimentale. Infatti, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, la pretesa risarcitoria per attività amministrativa illegittima - e dunque per lesione di interesse legittimo - è ancorata alla dimostrata spettanza del bene della vita, giacché solo in questo caso il danno invocato può ritenersi ingiusto e meritevole di riparazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 giugno 2024, n. 5360; Consiglio di Stato, Sez. V, 5 aprile 2024, n. 3155; Consiglio di Stato, Sez. V, 2 febbraio 2024, n. 1087; Consiglio di Stato, Sez. V, 21 aprile 2023, n. 4050). Questa affermazioni implica alcuni corollari e specifiche declinazioni:i) da un lato, "la domanda di risarcimento non può trovare accoglimento (...) per vizi tralatiziamente definiti formali, quali il difetto di istruttoria o di motivazione, o procedimentali (come il vizio di incompetenza), in quanto non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato, non consente di accogliere la domanda finalizzata al perseguimento della pretesa sostanziale, quale è il risarcimento del danno" (Consiglio di Stato, Sez. V, 21 aprile 2020, n. 2534; Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2021, n. 4573; Consiglio di Stato, Sez. III, 6 dicembre 2023, n. 10564; Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2023, n. 449; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 23 aprile 2021, n. 7, che richiama anche Id., 3 dicembre 2008, n. 13);ii) dall'altro, anche il danno da ritardo correlato a interesse legittimo pretensivo non può essere riconosciuto se non in ipotesi appunto di accertamento della spettanza del bene della vita, giammai, con il suddetto titolo, per il solo c.d. "mero ritardo" (Consiglio di Stato, Sez. V, 16 aprile 2024, n. 3446; Consiglio di Stato, Sez. III, 15 gennaio 2024, n. 514; Consiglio di Stato, Sez. 17 agosto 2023, n. 7797).10.6.1. D'altra parte, in generale, "il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo (...) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, con accertamento in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'agire illegittimo della pubblica amministrazione" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 settembre 2023, n. 8282; Consiglio di Stato, Sez. III, 3 giugno 2022, n. 4536); con la conseguenza della necessità "per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico" (Consiglio di Stato, n. 8282 del 2023, cit.; Consiglio di Stato, Sez. III, 9 marzo 2023, n. 2492; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 aprile 2023, n. 4135).10.7. Da quanto suesposto consegue, altresì, che non può essere accolta la domanda risarcitoria se l'annullamento del provvedimento implica una riedizione del potere dell'amministrazione, solo all'esito della quale potrà apprezzarsi la sussistenza o meno di concreti profili di pregiudizio, anche in relazione all'effettiva spettanza del bene della vita (Consiglio di Stato, Sez. III, 23 marzo 2023, n. 1869; Id., 21 aprile 2023, n. 3047). Nel caso di specie, il provvedimento della Commissione regionale è stato annullato dal Collegio, ma, per vizio di motivazione e con l'obbligo per l'Amministrazione di provvedere a riesaminare la vicenda e di adottare un nuovo provvedimento, che, come sopra esposto, potrà anche confermare il precedente vincolo, pur dovendo indicare puntualmente le ragioni di tale decisione alla luce, in particolare, dell'attività istruttoria compiuta dalla Soprintendenza e delle dedotte sopravvenienze.10.7. Un diverso discorso vale, invece, per l'ulteriore domanda articolata che, come già anticipato, ha una differente latitudine temporale e si fonda, in sostanza, sulla condotta perplessa e contraria ai principi che regolano l'attività amministrativa da parte dell'Amministrazione, e, in particolare, su un operato che sarebbe stato caratterizzato da costanti inerzie, ritardi, decisioni perplesse, contegni contrari, in estrema sintesi, al canone di buona fede e correttezza, che, come osservato di recente dalla Sezione, assume valore assiologico fondamentale nei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione. Del resto, la stessa Sezione ha evidenziato come, secondo autorevole dottrina degli anni Sessanta del secolo scorso, la buona fede doveva ritenersi principio costituzionale non scritto, al pari di quanto affermato, già all'epoca, dal Bundesverfassungsgericht che aveva riconosciuto alla Vertrauensschutz il carattere di norma caratterizzante il Rechtsstaat (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791, punto 18.6). Le complessive deduzioni degli odierni appellanti hanno, in sostanza, inteso stigmatizzare la complessiva condotta dell'Amministrazione serbata nel corso di un periodo temporale che va dalla presentazione della prima istanza di autorizzazione alla prosecuzione dei lavori (1999) fino al momento di introduzione del giudizio.10.7.1. Inoltre, il fatto illecito addebitato all'Amministrazione non è un provvedimento illegittimo ma un comportamento contrario ai principi che governano l'azione amministrativa e - nella prospettiva degli appellanti - integrano la previsione di cui all'art. 2043 c.c. Simile domanda prescinde, propriamente, dalla legittimità dei provvedimenti adottati, trattandosi di una responsabilità da comportamento non improntato a buona fede e correttezza. Come osservato, infatti, dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio, "in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale" (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 4 maggio 2018, n. 5).10.8. Inquadrata la domanda risarcitoria formulata dagli appellanti, il Collegio ritiene necessario osservare come la disamina della stessa postuli una disamina della complessiva vicenda, così come articolatasi nel corso del tempo e sin dalla prima istanza del 1999, stante anche la mancata formulazione dell'eccezione di prescrizione da parte dell'Amministrazione appellata. Inoltre, si impone di verificare quale siano - nella prospettazione delle parti appellanti - le condotte ritenute lesive, nonché di stabilire se e in che misura le stesse siano imputabili alle Amministrazioni appellate, nonché di verificare la sussistenza di un interesse giuridicamente protetto leso da tali condotte.10.9. Procedendo nei termini indicati si osserva, in primo luogo, come non sia asseribile la sussistenza di un contegno illecito dell'Amministrazione nella mancata autorizzazione alla prosecuzione dei lavori per l'edificazione dell'immobile, pur con le cautele necessarie e la vigilanza del personale della Soprintendenza (istanza del 15.2.1999; documento n. 36 del fascicolo di primo grado degli appellanti). Infatti, questa richiesta non era volta ad effettuare approfondimenti archeologici sul sito ma a proseguire l'edificazione dell'immobile, pur con la precisazione che, in caso di rinvenimento dei reperti, l'attività sarebbe stata sospesa. Una simile richiesta era, tuttavia, chiaramente constatante con le ragioni di tutela che avevano condotto al vincolo emesso appena tre anni prima e che aveva inteso, tra l'altro, preservare l'area propria dall'edificazione. Pertanto, il mancato accoglimento di tale istanza non può ritenersi una condotta ingiusta, trattandosi, al contrario, di comportamento pienamente conseguente all'applicazione delle disposizioni di tutela discendenti dal riconoscimento dell'interesse culturale dell'area.10.10. Un diverso discorso vale, invece, per altre istanze formulate dagli odierni appellanti. In primo luogo, l'istanza di revisione del vincolo del 1997, che, da quanto emerge dagli atti del giudizio, è rimasta priva di riscontro. In relazione a questa istanza si registra, quindi, un primo contegno omissivo dell'Amministrazione, la quale avrebbe dovuto prendere posizione sull'istanza dei privati, anche esternando, in ipotesi (come ragionevole dedurre), la contrarietà alla revisione del vincolo stante anche la pendenza del giudizio amministrativo instaurato contro il decreto del 1996. Allo stesso modo, non risulta che vi sia stato riscontro alla richiesta di approvazione di un diverso progetto edilizio, formulata in data 16.8.2001 (documento n. 51 del fascicolo di primo grado degli odierni appellanti). Ora, diversamente dall'istanza del 15.2.1999 che, in sostanza, poneva una questione incompatibile con il vincolo trattandosi della prosecuzione di un progetto edilizio che lo stesso decreto di vincolo aveva, in sostanza, ritenuto incompatibile (v., supra, punto 10.9), questa richiesta muoveva proprio dalla modificazione del precedente progetto, reso - secondo le parti - compatibili con le esigenze di tutela. Dinanzi a questa istanza, era obbligo dell'Amministrazione fornire un riscontro al privato, spiegando se tale modificazione fosse assentibile o, al contrario, se le esigenze di tutela imponessero l'esclusione di ogni attività edificatoria o ulteriori modifiche al progetto. In sostanza, rispetto a queste due istanze si registra un contegno inerte dell'Amministrazione che non trova (anche per la carenza di difese sul punto) giustificazioni e che, come si esporrà, risulta contrario a correttezza e lealtà nell'agire amministrativo, lasciando il privato nella impossibilità di determinarsi nelle proprie scelte negoziali.10.11. Non ha, invece, integrato una condotta illecita l'operato dell'Amministrazione rispetto all'istanza di revisione del vincolo presentata dalle parti in data 19.2.2008, e, quindi, dopo la sentenza di questo Consiglio che aveva ritenuto legittimo il provvedimento di cui al D.M. del 20.11.1996. Deve, infatti, osservarsi come l'Amministrazione abbia dato riscontro - pur negativo - all'istanza (nota del 7.5.2008; documento n. 17 del fascicolo di primo grado degli odierni appellanti). Questo provvedimento è stato, dapprima, impugnato con ricorso gerarchico e, successivamente, entrambi i provvedimenti sono stati impugnati al T.A.R. che ha accolto il ricorso, ma - come già esposto - solo per un difetto di motivazione e con espressa esclusione della sussistenza di elementi per affermare la fondatezza della pretesa. Rispetto a questa fase della vicenda amministrativa, non si ravvisa, quindi, alcun comportamento illecito dell'Amministrazione che ha esercitato le proprie prerogative adottando provvedimenti - pur ritenuti dal Giudice illegittimi - ma senza incorrere in condotte che possano integrare i presupposti di cui all'art. 2043 c.c. Del resto, dall'illegittimità dei provvedimenti per vizio di motivazione non può farsi derivare de plano l'illiceità dell'operato dell'Amministrazione (Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 7 aprile 2021, n. 295). Inoltre, una condotta illecita non può essere affermata neppure evidenziando che l'Amministrazione avrebbe erroneamente ritenuto le edificazioni precedenti all'apposizione del vincolo, fondando, quindi, il provvedimento di diniego su un dato non veritiero. Va, infatti, considerato, come non vi siano elementi per affermare che la valutazione della Soprintendenza sia stata consequenziale ad una istruttoria fallace o colpevolmente superficiale o, tanto meno, ad una dolosa erronea rappresentazione delle vicende fattuali. In ultimo, tali elementi non possono, certamente, trarsi dalla sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria, che si è limitata a constatare un vizio di motivazione senza affermare, in alcun modo, la sussistenza dei presupposti per la revisione del vincolo in ragione dei "nova" costituiti dall'urbanizzazione dell'area.10.12. In relazione a questa fase della vicenda deve poi evidenziarsi come non possa imputarsi all'Amministrazione un contegno omissivo ingiusto in relazione alla condotta serbata dalla dott.ssa Za., la quale ha agito come verificatore e, quindi, quale ausiliario del Giudice e non quale funzionario della locale Soprintendenza o, comunque, di ufficio amministrativo munito di competenze in ordine alla vicenda amministrativa oggetto di quel giudizio. Infatti, sebbene il T.A.R. avesse incaricato della verificazione la stessa Direzione regionale (non vigendo, all'epoca, la disposizione di cui all'art. 19, comma 2, c.p.a.), il funzionario che ha è stato deputato all'espletamento dell'attività istruttoria (non appartenente neppure a tale struttura amministrativa) ha, comunque, agito quale organo ausiliario del T.A.R., per compiere l'attività istruttoria ad esso demandata dal Giudice. Pertanto, la condotta serbata dalla dott.ssa Za. non può giuridicamente riferirsi all'Amministrazione. Né possono mutare la natura giuridica di ausiliario del Giudice le considerazioni espresse dal T.A.R. in ordine alla violazione dell'Amministrazione dell'obbligo di cooperazione che, oltre a non aver avuto concreti riverberi sulla decisione assunta (v., retro, punto 8.8.2 della presente sentenza), non possono, comunque, mutare le regole di imputazione dell'operato del verificatore, mutando un'attività istruttoria compiuta su ordine del Giudice in attività di carattere amministrativo riferibile all'Amministrazione.10.12.1. In ragione di quanto esposto e prescindendo da ogni ulteriore ragione di inammissibilità è, quindi, irrilevante la prova per testimoni richiesta dagli appellanti, i quali hanno formulato istanza di escutere la dott.ssa Za., allo scopo di chiarire:i) se la stessa si fosse recata sui luoghi di causa, in attuazione dell'incarico ricevuto;ii) se l'accesso ai luoghi fosse avvenuto in contraddittorio con le parti private;iii) se le condizioni morfologiche del sito avessero consentito l'accesso e l'ispezione;iv) se, in sede di verificazione, avesse richiesto alle parti private il conferimento di documenti e se gli stessi fossero stati rilasciati, anche via mail;v) se la relazione a lei richiesta fosse stata redatta e trasmessa ed a quale ufficio;vi) se le conclusioni della relazione fossero conformi o contrarie alla proposta di rimodulazione del vincolo.10.12.2. Si tratta, infatti, di circostanze relative in gran parte all'operato della stessa dott.ssa Za., che non è riferibile all'Amministrazione, con conseguente non necessità di effettuare un adempimento istruttorio relativo ad un dato non riferibile alla dedotta responsabilità dell'Amministrazione. Le circostanze di cui ai punti iii) e iv) sono, invece, irrilevanti considerato che, come verrà esposto, il mancato successivo accesso ai luoghi da parte dell'Amministrazione è stato imputato alla mancanza di fondi e le conclusioni dell'eventuale relazione sono divenute non rilevanti, avendo, comunque, l'Amministrazione provveduto al necessario approfondimento istruttorio per il tramite della Soprintendenza.10.13. Dalle considerazioni sopra esposte discende, altresì, la non rilevanza - ai fini del presente giudizio - delle considerazioni esposte dalla Direzione Generale per le Antichità (Servizio II) in ordine all'operato della dott.ssa Za., che, come spiegato, non ha agito quale organo dell'Amministrazione (nota prot. 3253 del 5.4.2011; documento n. 25 del fascicolo di primo grado degli appellanti). Del resto, si tratta di considerazioni con le quali è stato stigmatizzato l'operato di tale funzionaria (che non risulta avere ultimato l'attività istruttoria della quale era stata incaricata dal T.A.R), ma che non possono - neppure queste - imputare all'Amministrazione un contegno assunto nell'espletamento della funzione di ausiliario del Giudice amministrativo.10.14. Al contrario, è, certamente, imputabile all'Amministrazione la condotta del funzionario incaricato dalla Direzione Generale con la nota prot. 3253 del 5.4.2011. Infatti, con tale nota la Direzione Generale aveva ritenuto di dover espletare attività istruttoria - nel contraddittorio con la parte - al fine di verificare la sussistenza di sopravvenienze e l'eventuale rimozione o rimodulazione del vincolo. Dagli atti del giudizio non risulta che tale attività sia mai stata ultimata, né la memoria difensiva dell'Amministrazione ha dedotto circostanze contrarie a quanto esposto sin dal primo grado dagli odierni appellanti o ha fornito evidenze in ordine al completamente di un'attività amministrativa imposta dalla sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria. Si è, quindi, determinata una situazione di inerzia da parte dell'Amministrazione, rispetto alla quale non sono state dedotte dalla stessa ragioni o giustificazioni che potessero spiegare le ragioni della mancata definizione di un procedimento che le parti private aveva già allora ripetutamente richiesto, ritenendo sussistenti i presupposti per l'eliminazione o, comunque, la rimodulazione del vincolo. Né, possono, in ogni caso valere le ragioni indicate nella nota n. 3948/2013, laddove si è fatto riferimento ad una mancanza di copertura finanziaria. Si tratta, infatti, di un'affermazione generica e contrastante con quanto la stessa Amministrazione aveva disposto; inoltre, non sono state neppure indicati i costi che l'Amministrazione avrebbe dovuto sostenere, non consentendo, quindi, di accertare l'eventuale inesigibilità sopravvenuta dell'impegno assunto in ragione, in ipotesi, del costo particolarmente eccessivo di tali verifiche. Costo particolarmente eccessivo che, invero, può ragionevolmente escludersi, trattandosi, comunque, di un'area circoscritta e relativamente piccola. Del resto, non può non osservarsi come la stessa Direzione Generale aveva ritenuto, prima facie, insussistenti i presupposti per rimuovere il vincolo e solo per ragioni di completezza istruttoria aveva deciso di effettuare tali approfondimenti. Di conseguenza, se l'Amministrazione si fosse davvero resa conto solo successivamente di non avere le risorse per svolgere tali indagini, avrebbe dovuto, comunque, operare un esame della situazione alla luce del materiale istruttorio che già aveva a disposizione e, ove davvero insufficiente, cercare di reperire le risorse, persino richiedendo ai privati (che tale disponibilità avevano già manifestato) di farsi carico delle spese.10.15. Proseguendo nella disamina della vicenda si osserva come non possa ritenersi una condotta ingiusta ex art. 2043 c.c. la mancata ostensione da parte dell'Amministrazione della relazione allora redatta dalla dott.ssa Za.. Infatti, va osservato, in primo luogo, come in questa fase le parti private abbiano adottato un'iniziativa non riconducibile al tracciato che la vicenda amministrativa aveva iniziato a percorrere. Come spiegato, con la nota prot. 3252 l'Amministrazione aveva deciso di assegnare i compiti istruttori ad un proprio funzionario, e, ciò in considerazione del mancato adempimento degli ordini istruttori formulati dal T.A.R. al verificatore. In sostanza, la decisione muoveva proprio dall'inerzia del verificatore e mirava ad ottenere, per altra via, l'approfondimento istruttorio necessario per assumere una decisione sull'istanza di riesame del vincolo. Le successive iniziative sostanziali e processuali della parte sono state, invece, dirette ad ottenere una relazione istruttoria che non era stata depositata nel giudizio dinanzi al T.A.R. per la Calabria. Se è, quindi, vero che il T.A.R. ha accolto il ricorso per l'accesso agli atti (senza, invero, prendere espressa posizione sul tema sopra indicato), va, comunque, considerato che questo segmento della vicenda - che il Collegio esamina sotto la diversa lente della previsione di cui all'art. 2043 c.c. - non può integrare una condotta colpevolmente inerte dell'Amministrazione, non potendosi ritenere un contegno ingiusto il non produrre una relazione che:i) non doveva essere formata, come spiegato, nell'ambito di attività amministrativa ma nell'adempimento del compito assegnato dal T.A.R.;ii) non era stata ragionevolmente terminata, come si deduce anche dalle successive vicende, non essendo tale documento mai comparso;iii) era, comunque, divenuta - anche qualora esistente - priva di utilità, avendo il T.A.R. già deciso la controversia senza la predetta relazione e avendo, soprattutto, l'Amministrazione deciso di compiere un'autonoma e diversa attività istruttoria.10.15.1. Sulla base di quanto esposto il dedotto contegno inerte dell'Amministrazione risulta privo del carattere di illiceità ex art. 2043 c.c., dalla cui specola - come spiegato - si esamina la vicenda. Né è predicabile una condotta ingiusta per le ragioni ha indicato per giustificare l'insussistenza della relazione, essendosi la stessa limitata a riportare quanto affermato dalla funzionaria incaricata della verificazione. Pertanto, non può ritenersi un "falso ideologico" quanto rappresentato dalla Direzione Regionale, avendo la stessa solo riportato le affermazioni della dott.ssa Za. in ordine ad un'attività che non aveva, comunque, natura amministrativa. Inoltre, non può omettersi di considerare come la nota della Direzione Regionale costituiva un mero riscontro ad un'istanza di accesso e non era atto destinato a provare la verità, per cui la condotta non può neppure astrattamente ricondursi alle previsioni di cui agli artt. 48 e 479 c.p., atteso che il funzionario redigente la nota non può ritenersi autore immediato di un falso per l'errore determinato dall'inganno del terzo autore mediato, non essendo la nota atto fidefacente (cfr., Cassazione penale, Sez. V, 17 aprile 2019, n. 22839). Allo stesso modo non può, poi, imputarsi all'Amministrazione la mancata rappresentazione - all'epoca dell'inizio delle operazioni peritali - della presenza di folta vegetazione che avrebbe precluso tali attività, trattandosi, anche in questo caso, di omissioni riconducibili al verificatore incaricato e non all'Amministrazione (sulla rilevanza delle ulteriori affermazioni contenute nella nota indicata si vedano, invece, i punti 10.14 e 10.16 della presente sentenza).10.16. Si riscontra, invece, una condotta contraria ai principi che regolano l'attività amministrativa e lesiva della sfera giuridica degli odierni appellanti nel successivo operato dell'Amministrazione, la quale, sin dal deposito della sentenza n. 29/2011 del T.A.R., avrebbe dovuto completare l'attività istruttoria o, comunque, decidere in ordine all'istanza di riesame del vincolo. A questo adempimento l'Amministrazione era stata sollecitata ancora con la nota del 15.10.2014. Adempimento che l'Amministrazione doveva da tempo porre in essere, non potendo neppure addurre a giustificazione dell'inerzia la generica mancanza di fondi (v. supra, punto 10.14 della presente sentenza). L'approfondimento istruttorio o, comunque, l'avvio del procedimento decisorio è avvenuto, tuttavia, solo in data 15.12.2014, autorizzando nuove campagne di scavo e riservandosi, all'esito, di valutare la compatibilità della realizzazione dell'abitazione. Aspetto che, come già esposto, l'Amministrazione aveva, comunque, già il dovere di verificare in forza dell'istanza presentata nel 2001 (v., retro, punto 10.10 della presente sentenza). Dopo lo svolgimento di tale istruttoria, la Soprintendenza ha omesso di concludere il procedimento ed è stata condannata a definirlo dal T.A.R. con la sentenza n. 1847/2017. L'avvio del procedimento è stato, quindi, effettuato solo in data 7.12.2017 e, come già rappresentato, si è concluso solo nel 2018, con la deliberazione della Commissione regionale competente. Anche in quest'ultima fase si è, quindi, registrata una condotta che, a prescindere dall'esclusione del danno da ritardo sopra affermata, ha, comunque, integrato un contegno illecito in quanto caratterizzato da stasi dell'azione amministrativa non giustificate, da incertezze e perplessità nell'agire che, al di là del richiamo formale alle decisioni giudiziarie medio tempore emesse, ne ha procrastinato l'esecuzione, senza tener conto del lungo lasso temporale già trascorso e del relativo stato di incertezza nel quale gli odierni privati continuavano a versare.10.17. Le condotte evidenziate dal Collegio non possono essere, quindi, derubricate a inerzie e perplessità prive di rilievo o, comunque, non foriere di una lesione alla sfera giuridica degli odierni appellanti e, in particolare, alla loro libertà di autodeterminazione negoziale. Al contrario, i comportamenti dell'Amministrazione indicati dal Collegio costituiscono condotte contrarie ai principi che devono muovere l'azione amministrativa e, in particolare, a quel dovere di buona fede e correttezza già in precedenza richiamato.10.17.1. Osserva il Collegio come la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, abbia, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'Amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), ma anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 4 maggio 2018, n. 5; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 5 settembre 2005, n. 6; Cassazione civile, Sezioni unite, 12 maggio 2008, n. 11656; Cassazione civile, Sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cassazione civile, Sezione I, 3 luglio 2014, n. 15250).10.17.2. Inoltre, la giurisprudenza di questo Consiglio ha enfatizzato il modello di Pubblica Amministrazione richiesto dal diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall'art. 97 della Costituzione; in modello in cui, "alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell'interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l'intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell'attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dia tra P.A. e cittadino"; in altri termini, precisa questo Consiglio, "l'evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l'attività amministrativa produce sempre un "impatto" sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l'emersione del principio di accountability)" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457).10.18. La vicenda all'attenzione del Collegio è stata, invece, caratterizzata da una serie di condotte non rispondenti ai canoni sopra indicati, avendo l'Amministrazione tergiversato in molti casi prima di dare riscontro alle istanze del privato, adottato solo dopo molto tempo una decisione che desse esecuzione alla sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria, stigmatizzato l'inerzia della funzionaria incaricata della verificazione senza, poi, concludere l'istruttoria e il procedimento avviato proprio per accertare l'eventuale sussistenza dei presupposti per il mantenimento del vincolo, e, in ultimo, assunto un comportamento caratterizzato da stasi e inerzie non giustificate neppure quando il quadro istruttorio si era completato in ragione dell'istruttoria svolta con le campagne di scavo. Le condotte poste in essere sono state, quindi, illecite, contravvenendo ai doveri di lealtà, correttezza e salvaguardia delle posizioni giuridiche dei privati. Inoltre, si è trattato di condotte violative della libertà di autodeterminazione negoziale dei privati, avendo l'Amministrazione condotto un procedimento segnato - come riconosciuto anche dal Giudice di primo grado - da stasi ingiustificate e da inerzie e perplessità in un'azione amministrativa che, invero, la stessa Direzione Generale aveva definito relativa ad una vicenda "semplice", nella quale occorreva, semplicemente, verificare - come richiesto dal T.A.R. sin dalla sentenza n. 29/2011 - la conformazione e l'estensione del vincolo apposto, senza neppure dover mettere in discussione le generali ragioni di interesse archeologico dell'area, ma dovendole, semplicemente, declinare alla specifica situazione. Questo colpevole atteggiamento dell'Amministrazione non trova, quindi, giustificazione nella complessità della vicenda da esaminare, tenuto conto anche le sentenze del Giudice amministrativo avevano lasciato "libera" l'Amministrazione nell'applicazione del proprio sapere tecnico, richiedendo, esclusivamente, una maggior attenzione istruttoria e una puntuale esternazione nei provvedimenti delle ragioni a fondamento della decisione.10.19. In questo scenario, non è, neppure, condivisibile l'affermazione del T.A.R., secondo il quale non vi sarebbe stata prova del nesso di causalità tra l'agire amministrativo e la sfera giuridica dei privati.10.19.1. Osserva il Collegio come, secondo costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, l'accoglimento di una domanda di risarcimento del danno richiede l'accertamento di due nessi di causalità : i) il nesso tra la condotta e l'evento di danno - inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato -, o nesso di causalità materiale; ii) il nesso tra l'evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di causalità giuridica (Cassazione civile, Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28986). L'accertamento del primo dei due nessi suddetti è necessario per stabilire se vi sia responsabilità ed a chi vada imputata; l'accertamento del secondo nesso serve a stabilire la misura del risarcimento. Il nesso di causalità materiale è dunque un criterio oggettivo di imputazione della responsabilità ; il nesso di causalità giuridica consente di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell'evento. La distinzione tra causalità materiale e giuridica, contestata dalle teorie c.d. unitarie della causalità, deve essere, invece, condivisa per le ragioni esposte da tempo dalla Cassazione civile alle cui pronunce può, quindi, rinviarsi (v. Cassazione civile, Sez. III. 21 luglio 2011, n. 15991; Id., 11 novembre 2019, n. 28986).10.19.2. Incentrando l'attenzione sul primo dei due nessi si osserva, infatti, come le condotte esaminate sono state poste in essere nell'ambito della specifica "relazione" tra l'Amministrazione destinataria delle istanze e i privati richiedenti. La vicenda di specie non presenta, quindi, difficoltà nell'imputazione della responsabilità, trattandosi di lesioni derivanti da condotte riferite al comportamento serbato dall'Amministrazione nel rapporto con i privati, e, quindi, di una situazione rispetto alla quale non si riscontrato quei problemi di accertamento della causalità materiale, che, al contrario, si verificano in altre ipotesi, riconducibili, per utilizzare l'esemplificazione alla quale ricorre la dottrina, alle situazioni di responsabilità del "passante", mutuando quella figura volta a descrivere i casi di insussistenza di una relazione preesistente al fatto illecito che una nota dottrina di lingua tedesca ha consegnato alla storia del diritto moderno. In sostanza, non sembra potersi revocare in dubbio la sussistenza di un nesso di causalità materiale tra la lesione dell'interesse giuridicamente protetto degli odierni appellanti e le condotte dell'Amministrazione poste in essere nell'ambito della relazione con gli stessi; relazione che andava condotta secondo canoni di buona fede e correttezza, preservando, certamente, le ragioni di interesse pubblico presidiate dall'Amministrazione, ma agendo, comunque, in modo da non ledere la sfera giuridica dei privati con decisioni non chiare né tempestive, inerzie, stasi e perplessità che, nonostante il tempo trascorso, non hanno consentito ancora di approdare ad una definizione della vicenda.10.20. In considerazione di quanto esposto, le censure contenute nel "capitolo" esaminato devono, parzialmente, accogliersi nei sensi e nei limiti sin qui indicati.11. L'affermata sussistenza di una condotta ingiusta, lesiva della libertà di autodeterminazione negoziale dei privati, impone, quindi, di verificare la sussistenza del nesso di causalità giuridica rispetto ai danni dedotti dalle parti, nonché la prova di tali danni. Occorre, quindi, verificare tale nesso per individuare e selezionare, come spiegato, le conseguenze dannose risarcibili dell'evento11.1. A tal fine, il Collegio osserva come gli appellanti abbiano richiesto, in primo luogo, il danno connesso all'indisponibilità ultraventennale del bene, "muovendo dalla data di proposizione della domanda di riesame (15.2.1999)" nonché "tenendo conto della sua destinazione naturale, ab origine edificatoria".11.1.1. A supporto di tale domanda gli appellanti hanno osservato che "il mancato esame della domanda di revisione del vincolo, a fronte di plurimi pronunciamenti di segno contrario da parte delle Autorità preposte, ha gravemente leso l'interesse (degli stessi) al pieno godimento del diritto di proprietà, vanificando le facoltà dominicali, quelle negoziali e, a seguire, lo ius edificandi, rispetto a cui le consecutive evidenze istruttorie e scientifiche avevano determinato un legittimo affidamento". Secondo gli appellanti la campagna di scavi condotta nel luglio del 2015 aveva, incontrovertibilmente, accertato l'inesistenza di elementi di interesse archeologico, e, all'esito di questa campagna, la Soprintendenza aveva proposto la rimodulazione del vincolo. I signori Bi. ed altri hanno, quindi, richiesto il ristoro del danno pari a 35.000,00, corrispondente all'interesse legale applicato al controvalore del terreno edificabile determinato sulla base del valore stimato in sede di acquisto (£ 110.000.000), "da convertirsi in valuta attuale e tenendo conto degli scuotimenti al rialzo determinati dal passaggio dalla lira all'euro e dalle evoluzioni del successivo ventennio" (capitolo "C5a" del ricorso in appello).11.1.2. Il Collegio evidenzia come simile voce di danno non possa ritenersi causalmente connessa ad un contegno non corretto né leale dell'Amministrazione (come sopra accertato), ma postuli l'accertamento della fondatezza - sin dall'origine -della pretesa. Ma tale pretesa non può ritenersi fondata alla luce delle considerazioni svolte nella disamina del primo motivo. Del resto, come già evidenziato, sia le precedenti sentenze del T.A.R. che questa stessa decisione si sono limitate a riscontrare difetti nella motivazione del provvedimento, senza dichiarare la fondatezza della pretesa. In relazione alla presente controversia è stato spiegato in precedenza come questo Giudice non possa sostituirsi all'Amministrazione nella valutazione dei presupposti del riesame del vincolo o nella rimodulazione dello stesso, avendo accertato un deficit nella motivazione che non consente neppure di esercitare il sindacato sull'uso del sapere tecnico da parte dell'Amministrazione. In questo contesto sostanziale e processuale non vi sono, quindi, elementi per poter accogliere una domanda di danno che postula l'illegittimità sostanziale della negata revisione del vincolo e la fondatezza della pretesa alla sua rimozione.11.2. Stesse considerazioni valgono per le ulteriori voce di danno patrimoniale richieste dagli appellanti, per il "progetto di vita precluso dal mancato esame dell'istanza di riesame" (capitolo "C5b"). Si tratta, infatti, anche in tal caso di danni (spese notarili per l'acquisto del terreno, oneri di urbanizzazione, premi per la polizza fideiussoria, acconto per l'impresa costruttrice, spese per la progettazione del fabbricato) che postulano la fondatezza della pretesa alla rimozione del vincolo sin dal 1999 e, che, come tali, non sono ristorabili per le ragioni sopra indicate.11.3. Non sono, inoltre, ristorabili da questo Giudice le spese di lite sostenute per l'introduzione delle varie controversie dinanzi al Giudice amministrativo, trattandosi di somme da liquidarsi da parte del Giudice che ha deciso tali controversie, in applicazione delle regole processuali relative alla regolazione delle spese di lite (capitolo "C5c" del ricorso in appello).11.4. Non sono, altresì, ristorabili le spese per l'esecuzione delle campagne di scavo (capitolo "C5d" del ricorso in appello)., per la dirimente ragione che sono stati gli stessi appellanti a dichiarare espressamente di volersi accollare tali spese, senza, quindi, provvedere ad una mera anticipazione delle stesse e assumendo, quindi, volontariamente tale onere economico (cfr.: nota del 15.10.2014; doc. n. 35 del fascicolo di parte di primo grado degli appellanti).11.5. Inoltre, non possono essere ristorate le spese sostenute per il soddisfacimento delle esigenze abitative e per il dedotto deprezzamento del terreno degli appellanti, trattandosi, anche in tal caso, di un danno che postula la fondatezza della pretesa ad ottenere la revisione del vincolo, e, quindi, la possibilità di edificare nell'area. Di conseguenza, le somme richieste ai capitoli "C5e" e "C5f" del ricorso in appello non possono ritenersi consequenziali ad una mera condotta contraria a buona fede e correttezza, postulando, come spiegato, l'illegittimità ed ingiustizia della mancata rimozione del vincolo e, inoltre, la fondatezza della pretesa degli appellanti.11.6. Omologhe considerazioni valgono per le somme versate a titolo di ICI/IMU, fermo restando che, ove sussistesse un indebito pagamento, gli appellanti dovrebbero formulare richiesta di ripetizione all'Ente impositore.11.7. Non è, inoltre, risarcibile il danno da mancato guadagno o da lucro cessante ex art. 1223 c.c., ritenuto patito in ragione della risoluzione del contratto di compravendita del 12.3.2018, in cui era stato indicato - quale termine ultimo di rimozione del vincolo e di stipula del contratto definitivo - la data del 30.10.2018 (capitolo "C5h" del ricorso in appello). Simile voce di danno è stata richiesta sulla base dell'assunto che se la Commissione regionale "avesse adottato il provvedimento finale di rimozione entro i prescritti termini di conclusione del procedimento - in coerenza con l'istruttoria svolta dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e provincia di Vibo Valentia e con la proposta di rimozione del vincolo dalla stessa formulata con Nota Prot. N. 1348 del 9.2.2018 - (gli appellanti) avrebbero potuto vendere il terreno traendo dallo stesso l'utilità patrimoniale spettante in relazione al valore di mercato del bene medesimo". Questa prospettazione si fonda, quindi, sull'assunto che il vincolo sarebbe stato, certamente, rimosso entro il termine di conclusione del procedimento. Ciò che viene posta a fondamento della richiesta non è la condotta inerte e perplessa dell'Amministrazione, ma - ancora una volta - la mancata rimozione del vincolo in ragione della ritenuta fondatezza della pretesa, che, tuttavia, non è stata affermata da questo Giudice, con conseguente impossibilità di liquidare la voce di danno richiesta.11.8. E', invece, fondata in parte la domanda di risarcimento di voci di danno non patrimoniale afferenti alla lesione della "sfera esistenziale, psicologia e morale" degli appellanti (f. 55 del ricorso in appello), seppur nei limiti e con le precisazioni di seguito effettuate. Il danno non patrimoniale identifica i pregiudizi che derivano da lesione dei diritti della persona e non hanno rilievo economico (art. 2059 cod. civ.). Giurisprudenza e dottrina hanno compiuto un lungo percorso evolutivo che ha condotto, oggi, ad elaborare le seguenti categorie di danno non patrimoniale: danno morale, quale turbamento transeunte dello stato d'animo; danno biologico, cioè la lesione psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che incide sul suo quotidiano e sulle sue relazioni, ma che prescinde dalla sua capacità reddituale; danno relazionale-esistenziale, che, ledendo altri diritti costituzionalmente tutelati, compromette la possibilità di svolgere le attività che realizzano la persona umana. La Suprema Corte, inoltre, con le storiche "sentenze di San Martino", ha stabilito che il danno non patrimoniale costituisce un modello unitario del quale le singole categorie hanno solo valenza descrittiva (Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974, 26975). Né vi è ragione logica o giuridica per negare il risarcimento del danno morale al danneggiato che non sia anche persona offesa dal reato, non essendo tale limitazione giustificata: i) dall'art. 185, comma secondo, cod. pen. che, nel prevedere che "ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui", postula solo l'esistenza di un nesso causale tra il reato e il danno, patrimoniale o non patrí moniale che sia, ma non individua i soggetti danneggiati risarcibili; ii) dall'art. 74 cod. proc. pen. che espressamente riconosce ad ogni "soggetto al quale il reato ha recato danno" (dunque non solo alla persona offesa), il diritto di esercitare l'azione civile nel processo penale (attraverso la costituzione di parte civile) "per le restí tuzioni e per il risarcimento del danno dì cui all'articolo 185 del codice penale" (il "danno di cui all'art. 185 cod. pen. " è anche quello non patrimoniale) (cfr Cass. n. 4040 del 1999). Le Sezioni Unite, con i citati arresti dell'11/11/2008, nn. 26972, 26793, 26794, 26795, indicarono che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge", e cioè, secondo un'í nterpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.: i) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rí levanza costituzionale; ii) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, nei casi suindicati, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); iii) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice.11.8.1. Osserva, in primo luogo, il Collegio come non vi sia, invero, prova di un danno alla sfera esistenziale, inteso più propriamente come danno alla sfera dinamico-relazionale degli appellanti. Infatti, non vi sono evidenze in ordine alla sussistenza di significative alterazione della vita quotidiana degli appellanti, alle quali si riferisce la voce di danno sopra indicata (cfr., per una ricostruzione del sistema del danno alla persona, Cassazione civile, Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901; Cassazione civile, sezione lavoro, 24 agosto 2023, n. 25191).11.8.2. Parimenti privo di evidenze è il dedotto danno psicologico, non essendovi, invero, neppure puntuali allegazioni e relative prove su tale tipologia di danno, che è stato, quindi, meramente asserito in modo generico e non supportato dalle prove richieste per il suo accertamento e la consequenziale liquidazione.11.8.3. Un diverso discorso vale per il danno morale patito dagli appellanti che è categoria differente e autonomamente liquidabile. Infatti, il danno morale, all'interno della categoria unitaria del danno non patrimoniale, dà rilievo ai pregiudizi del danno alla persona che attengono alla dignità ed al dolore soggettivo ovvero a quei pregiudizi interiori, che sono differenti ed autonomamente apprezzabili sul piano risarcitorio rispetto agli effetti dell'illecito incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano cioè nell'ambito delle relazioni di vita esterne; cfr., Cassazione civile, Sez. III, 28 settembre 2018, n. 23469). Pertanto, occorre considerare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile - alla luce dell'insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) - è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, in quanto provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (cfr., Cassazione civile, Sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901).11.8.4. Inoltre, secondo la giurisprudenza, ai fini liquidatori, si deve procedere a una compiuta istruttoria finalizzata all'accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, sub specie della sofferenza, del patimento, della frustrazione, nonché, in termini generali, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell'ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili (Cassazione civile, sezione lavoro, 24 agosto 2023, n. 25191).11.8.5. Applicando tali consolidati principi al caso di specie, il Collegio osserva come sia difficile negare che gli appellanti non abbiano patito alcuna sofferenza, frustrazione o, almeno, turbamento da un'azione amministrativa - durata anni - come quella che è stata in precedenza esaminata e che, almeno in parte, è stata caratterizzata da immotivate stasi ed inerzia, nonché dalla tardiva e neppure puntuale attuazione del giudicato costituito dalla sentenza n. 29/2011 del T.A.R. per la Calabria (il cui ordine di esecuzione era stato reiterato con l'ulteriore sentenza n. 1847/2017 del medesimo Tribunale), nonché dall'incapacità dell'Amministrazione di mettere a fuoco ed approfondire le tematiche che il Giudice amministrativo aveva individuato, consistenti nel verificare se vi fossero o meno i presupposti per una possibile revisione o rimodulazione del vincolo e se fosse necessario mantenere l'estensione e la configurazione risalente al decreto del 1996 anche alla luce dell'ulteriore attività istruttoria compiuta. Gli elementi fattuali che sono stati esaminati dal Collegio costituiscono, pertanto, elementi in base ai quali è possibile affermare l'esistenza e l'entità del pregiudizio lamentato (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. III, 1 settembre 2020, n. 5330; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2022, n. 10346).11.8.6. Nella concreta liquidazione del danno non può, poi, che ricorrersi ad una valutazione equitativa stante la natura stessa del danno accertato, e considerando, inoltre, come tale liquidazione sia relativa solo ai pregiudizi derivanti dalle condotte in precedenza individuate ed imputabili all'Amministrazione, non potendosi, come evidente, porre in capo alla stessa un onere risarcitorio per condotte prive del requisito dell'illeceità o, comunque, non imputabili alla stessa Amministrazione. Operando, quindi, in tal senso, il Collegio ritiene congruo condannare l'Amministrazione al risarcimento dei danni morali patiti dagli appellanti, quantificati in euro 10.000,00 (diecimila/00) per ciascuno di essi. Tale somma, essendo determinata in via equitativa, può liquidarsi all'attualità e ritenersi perciò onnicomprensiva anche di eventuali pretese di rivalutazione e interessi anteriori alla data di pubblicazione della presente sentenza (cfr.: Consiglio di Giustizia Amministrazione per la Regione siciliana, 22 agosto 2022, n. 934; Id., 25 maggio 2023, n. 367).11.9. Non è, invece, risarcibile il danno biologico dedotto dalla dott.ssa Ca., non potendosi ritenere raggiunta la prova del nesso di causalità giuridica tra la condotta dell'Amministrazione e la sindrome ansioso-depressiva illustrata dall'appellante. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, in subiecta materia è, comunque, necessaria la prova rigorosa dell'esistenza del danno da parte del danneggiato (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 23 aprile 2021, n. 7; Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092, i cui principi possono richiamarsi anche in relazione al tipo di responsabilità affermata dalla presente sentenza, che è, comunque, riconducibile all'alveo della previsione di cui all'art. 2043 c.c.). Si è, infatti, osservato che:i) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell'interesse giuridicamente protetto, e, dunque, di imputare all'evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze "dirette e immediate" dell'evento sul piano della causalità giuridica;ii) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell'art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.;iii) ai sensi dell'art. 1223 cod. civ., richiamato dall'art. 2056 cod. civ., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) "in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta", con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi;iv) in questo ambito, resta fermo l'onere di allegazione e prova da parte del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.).11.9.1. Nel caso di specie, è condivisibile l'affermazione del T.A.R. che ha osservato che "le gravi patologie diagnosticate alla stessa negli anni 2015/2016, che hanno determinato l'accertamento da parte degli organi competenti dell'inidoneità assoluta e permanente al servizio, per come risulta dalla documentazione clinica richiamata dalla stessa perizia di parte depositata dai ricorrenti, sono antecedenti al sorgere dello stato ansioso-depressivo". Anche a prescindere da tale rilievo, va, comunque, evidenziato come non vi sia una prova rigorosa della derivazione della "sindrome ansioso-depressiva" (f. 56 del ricorso in appello) dalle condotte poste in essere dall'Amministrazione. Lo conferma anche la lettura della consulenza di parte depositata nel fascicolo di primo grado che non ha supportato le affermazioni ivi contenute con precisi e puntuali riscontri scientifici, risultando del tutto generica nell'affermazione di un nesso di causalità tra le condotte dell'Amministrazione e il danno-evento, costituito dalla lesione del diritto alla salute della sig.ra Ca.. In questo contesto, non è neppure possibile ricorrere ad una verificazione o ad una consulenza tecnica, non essendo stato assolto l'onere probatorio gravante sulla parte (Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092). In ultimo, si precisa che non costituisce oggetto del dovere decisorio del Collegio la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, articolata in primo grado e non riproposta con il ricorso in appello.12. In definitiva il ricorso in appello deve essere parzialmente accolto nei sensi e nei limiti indicati nella presente sentenza. In particolare, in parziale riforma della sentenza di primo grado, deve essere accolto il ricorso per motivi aggiunti articolato, con conseguente annullamento, per quanto di ragione, dei provvedimenti impugnati, fatto salvo il riesercizio del potere da parte dell'Amministrazione nel rispetto delle statuizioni della presente sentenza. Inoltre, sempre in parziale riforma della sentenza di primo grado, deve essere parzialmente accolta la domanda risarcitoria articolata con il ricorso introduttivo del giudizio e, per l'effetto, devono condannarsi le Amministrazioni appellate a risarcire agli appellanti la somma pari a euro 10.000,00 (diecimila/00) ciascuno, già onnicomprensiva anche di eventuali pretese di rivalutazione e interessi anteriori alla data di pubblicazione della presente sentenza, oltre interessi dal deposito della presente sentenza al soddisfo.13. Si precisa che le questioni esaminate esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.14. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate ai sensi degli articoli 26 del codice del processo amministrativo e 92 del codice di procedura civile, come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale 19 aprile 2018, n. 77, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, da individuarsi nella complessità delle questioni esaminate, nonché nell'accoglimento solo parziale delle domande articolate dagli odierni appellanti.P.Q.M.Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte e per quanto di ragione e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado: i) annulla i provvedimenti impugnati con il ricorso per motivi aggiunti articolato in primo grado, fatti salvi i successivi provvedimenti dell'Amministrazione da adottarsi nel rispetto delle statuizioni contenute nella presente sentenza; ii) accoglie in parte la domanda di risarcimento del danno articolata con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e, per l'effetto, condanna le Amministrazioni appellate al pagamento della somma pari a euro 10.000,00 (diecimila/00), comprensiva di rivalutazione ed interessi fino alla data del deposito della presente sentenza, nonché agli ulteriori interessi da tale deposito al soddisfo, in favore di ognuno dei tre appellanti. Compensa le spese del doppio grado di giudizio.Ordina la trasmissione di copia della presente sentenza alla Procura della Corte dei Conti per il seguito di eventuale competenza.Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 luglio 2024 con l'intervento dei magistrati:Giancarlo Montedoro - PresidenteGiordano Lamberti - ConsigliereDavide Ponte - ConsigliereLorenzo Cordà - Consigliere, EstensoreMarco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ANGELINA MARIA PERRINO Presidente GIACOMO MARIA STALLA Consigliere-Rel. ANGELO MATTEO SOCCI Consigliere LIBERATO PAOLITTO Consigliere FABIO DI PISA Consigliere Oggetto: *TARSU TIA TARES ACCERTAMENTO Ud.12/06/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 445/2021 R.G. proposto da: METRO ITALIA CASH AND CARRY SPA, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA VENEZIA 11, presso lo studio dell’avvocato SALVINI LIVIA (SLVLVI57H67H501M) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati MENEGON LINA (MNGLNI66E53F205U), SARDELLA ALFREDO (SRDLRD40C27L682A) -ricorrente- contro COMUNE CASTELLANZA, in persona del Sindaco p.t., elettivamente domiciliato in ROMA VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO FRANCESCO (RMNGDU54L19H501G) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato FOGAGNOLO MAURIZIO (FGGMRZ67P24C139L) -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. MILANO n. 839/2020 depositata il 01/06/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/06/2024 dal Consigliere GIACOMO MARIA STALLA. udito il Procuratore Generale che ha concluso per il rigetto del ricorso. Uditi i difensori delle parti presenti. Fatti rilevanti di causa. § 1. Metro Italia Cash and Carry spapropone otto motivi di ricorso per la cassazione della su indicata sentenza, con la quale la Commissione Tributaria Regionale, in rigetto degli appelli riuniti proposti dalla società, ha ritenuto legittimi gli avvisi di accertamento Tarsu 2011-2012, Tares 2013 e Tari 2014-2017, notificatile dal Comune di Castellanza con riguardo al punto-vendita all’ingrosso ivi situato in Via Borri, 36. La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, ha rilevato che: -l’oggetto del contendere concerneva l’imponibilità dell’area di circa 8.600 mq. destinata a parcheggio gratuito del punto-vendita, ritenuta non tassabile dalla società perché improduttiva di rifiuti e di natura pertinenziale (come da relativa dichiarazione); -la questione era tuttavia già stata risolta tra le stesse parti dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 18500/17, avente riguardo alla Tarsu 2006- 2010, nel senso della effettiva imponibilità, così come sostenuto dal Comune; -la S.C., segnatamente, aveva ritenuto che si trattasse di area almeno presuntivamente produttiva di rifiuti, in quanto connotata da presenza umana, sicché sarebbe stato onere della società contribuente provare con apposita denuncia ed idonea documentazione la sussistenza dei presupposti per l'esenzione ex articolo 62, secondo comma, d.lvo 507/93; -la decisione di legittimità in esame recava identità di parti, causa petendi e petitum rispetto alla presente controversia e, pur se relativa ad altre annualità d’imposta, esplicava effetto preclusivo di giudicato esterno anche nel presente giudizio ex art. 2909 cod.civ., con conseguente superamento di ogni altra questione. Il Comune di Castellanza ha depositato controricorso. Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso evidenziando come, all’esito dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia, le aree scoperte adibite a parcheggio debbano considerarsi, in quanto frequentate da persone, almeno presuntivamente produttive di rifiuti, con esclusione del loro carattere di pertinenzialità se operative e funzionali all’espletamento dell’attività produttiva. La società ricorrente ha presentato memoria anche in replica a quanto così sostenuto dal Procuratore Generale. Ragioni della decisione. § 2.1 Con il primo motivo di ricorso si deduce – ex art.360, co. 1^ n.4, cod.proc.civ. – nullità della sentenza per mancata pronuncia (art.112 cod.proc.civ.)sull’eccezione mossa dalla società fin dal primo grado di giudizio in ordine all'avvenuta decadenza (o, in subordine, prescrizione quinquennale) nella quale era incorso il Comune sugli avvisi di accertamento Tarsu 2011-2012; in quanto notificati soltanto il 22 dicembre 2017 a fronte di una dichiarazione della società presentata il 4 febbraio 1999. Con riguardo a quest'ultima data - e non potendosi estendere al di là del solo ambito sanzionatorio il principio del rinnovarsi anno per anno dell'obbligo dichiarativo - il termine decadenziale doveva ritenersi spirato, al più tardi, entro il 31 dicembre 2004 ex artt.1 co. 161, l.296/06 e 21 Regolamento Tarsu del Comune (tre anni dalla denuncia infedele, ovvero quattro anni dalla denuncia omessa). § 2.2 Va premesso che il motivo pone correttamente in evidenza una effettiva omissione di pronuncia, da parte della Commissione Tributaria Regionale, in punto eccezione di decadenza del Comune dal potere accertativo, senza che tale omissione possa qualificarsi, sulla scorta della pur consolidata giurisprudenza invocata dal controricorrente e dal Procuratore Generale, in termini di ‘rigetto implicito’ della eccezione. Si trattava infatti di questione di natura chiaramente preliminare che in nessun modo veniva toccata dal giudicato esterno di cui in Cass.n. 18500/17 cit., del resto relativo ad annualità differenti ed avulse da qualsivoglia profilo di possibile decadenza. E questa omissione può essere ovviata direttamente in questa sede di legittimità, involgendo profili di puro diritto in relazione a risvolti fattuali di causa del tutto acclarati. Ad ogni buon conto, è dirimente osservare come il motivo in esame, pur rubricato ed in parte formulato proprio nel senso della omessa pronuncia, ex art.360, co. 1^ n.4, cod.proc.civ., contenga in realtà anche un cospicuo nucleo censorio ed argomentativo volto ad inequivocamente denunciare in via subordinata, ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ., la violazione e falsa applicazione, in sentenza, del regime decadenziale di riferimento, sicchè esso certamente si presta – per più vie - ad una rivisitazione globale, in diritto, della relativa questione, quand’anche sia intorno ad essa in ipotesi predicabile, non un’omessa decisione, ma appunto un rigetto implicito. Ciò posto, il motivo è fondato limitatamente all’annualità 2011, dovendosi per il resto rigettare. I termini decadenziali di accertamento originariamente previsti dall’art. 71 d.lvo 507/93, recepiti dall’art. 21 del Regolamento Comunale qui dedotto, sono stati superati dal sopravvenire della disciplina generale ed uniforme della decadenza accertativa per i tributi locali ex art. 1 co. 161 l.296/06, secondo cui: “Gli avvisi di accertamento in rettifica e d'ufficio devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati. Entro gli stessi termini devono essere contestate o irrogate le sanzioni amministrative tributarie, a norma degli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni”. In materia di Tarsu, questa previsione va coordinata con l’art. 70 d.lvo 507/93 cit., in base al quale: “I soggetti di cui all'art. 63 presentano al Comune, entro il 20 gennaio successivo all'inizio dell'occupazione o detenzione, denuncia unica dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune. (…). 2. La denuncia ha effetto anche per gli anni successivi, qualora le condizioni di tassabilità siano rimaste invariate. In caso contrario l'utente è tenuto a denunciare, nelle medesime forme, ogni variazione relativa ai locali ed aree, alla loro superficie e destinazione che comporti un maggior ammontare della tassa o comunque influisca sull'applicazione e riscossione del tributo in relazione ai dati da indicare nella denuncia”. A detta della società ricorrente, questo termine sarebbe nella specie ampiamente spirato, dal momento che gli avvisi opposti sono stati notificati dal Comune il 22 dicembre 2017 e, quindi, ben diciotto anni dopo la dichiarazione presentata dalla società stessa il 4 febbraio 1999. Questa argomentazione va senz’altro disattesa, dal momento che la pretesa impositiva muove qui proprio dalla infedeltà di questa dichiarazione originaria (su una parte non dichiarata di superficie e sulla pertinenzialità esonerativa di circa 8.000 mq), la quale non venne successivamente ripresentata con l’esposizione della reale situazione impositiva, anche quanto a superficie tassabile e destinazione delle aree. Ciò ha determinato la reiterazione dell’illecito, anno per anno, fino alla presentazione della dovuta dichiarazione rettificativa ex art. 70 cit., e tale reiterazione, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, influisce non solo sul regime sanzionatorio (connotato dall’applicazione di tante sanzioni quante sono le annualità di reiterazione della condotta omissiva, sebbene avvinte da cumulo giuridico), ma anche su quello della decadenza accertativa, dovendosi sul punto ulteriormente ribadire (v. Cass.n. 25063/19; Cass.n. 18122/09) che: “In tema di Tarsu, il d.lgs. n. 507 del 1993 consente al contribuente di limitarsi a denunciare le sole variazioni intervenute successivamente alla presentazione della dichiarazione originaria, senza dover rinnovare la propria dichiarazione anno per anno. Tuttavia, qualora l'originaria denunzia sia stata incompleta, infedele oppure omessa, l'obbligo di formularla si rinnova annualmente, in quanto ad ogni anno solare corrisponde un'obbligazione tributaria, con la conseguenza che l'inottemperanza a tale obbligo, sanzionata dall'art. 76 del cit. decreto, comporta l'applicazione della sanzione anche per gli anni successivi al primo. D'altro canto, la protratta inottemperanza all'obbligo di presentare la denuncia non provoca la decadenza, per decorso del tempo, del potere del Comune di accertare le superfici non dichiarate che continuino ad essere occupate o detenute, ovvero gli altri elementi costituenti il presupposto della tassa”. Dunque, tirando le fila del discorso nella concretezza del caso, gli avvisi di accertamento Tarsu opposti risultano rispettosi dell’indicato termine decadenziale quinquennale (31 dicembre del quinto anno successivo) con riguardo all’annualità 2012. Diversa è invece la conclusione per l’annualità 2011. A superamento di un diverso e minoritario orientamento (v. Cass.n. 22900/20), si è infatti più recentemente stabilito (Cass.n. 19531/22) che: “In tema di Tarsu, il tenore letterale della disposizione sull'obbligo di denuncia contenuta nell'art. 70, comma 1, d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui la denuncia dei locali ed aree tassabili va presentata al Comune entro il 20 gennaio successivo all'inizio dell'occupazione o detenzione, impone di differenziare la detenzione o occupazione dei locali che sia in corso fin dall'inizio del periodo di imposta e, comunque, prima del 20 gennaio, dal caso in cui tale situazione si sia verificata in epoca successiva; nel primo caso, il termine di decadenza di cui all'art. 1, comma 161, l. n. 296 del 2006 decorre dall'anno corrente, nel secondo caso dal 20 gennaio dell'anno successivo”. Si tratta di un indirizzo interpretativo che adeguatamente valorizza, nell’art. 70 cit., il dato sia letterale, il quale ricollega testualmente l’osservanza della data del 20 gennaio, per la presentazione della dichiarazione, all’inizio dell’occupazione o detenzione dei locali, sia quello funzionale, non essendovi ragione di differire ulteriormente (oltre il 20 gennaio) la scadenza della presentazione della dichiarazione se relativa ad un’occupazione a quella data già in corso e che, come tale, doveva appunto essere dichiarata entro il 20 gennaio dell’anno corrente, e non di quello (ancora) successivo. Né l’ultima giurisprudenza citata manca di osservare come la soluzione che discrimina in base alla data di inizio dell’occupazione (prima o dopo il 20 gennaio) si avvalori anche sul piano sistematico, posto che quando il legislatore ha inteso far riferimento all’annualità successiva a quella di dovuta presentazione della dichiarazione, lo ha espressamente indicato, così (sempre in ambito di imposizione locale) in tema di dichiarazione Ici ex art. 10, co. 4^ d.lgs. 504/92. Del resto, che lo scostamento dal precedente indirizzo sia ormai consolidato si evince da quelle recentissime pronunce (v. Cass.n. 6932/24; Cass.n. 7824/24) che tale discrimine temporale hanno recepito ed applicato con piena uniformità di argomenti; argomenti che qui non possono che essere ulteriormente ribaditi. Orbene, nel caso in esame costituisce dato incontroverso di causa che l’inizio dell’occupazione delle aree da parte della società contribuente fosse anteriore al 20 gennaio 2011 (come del resto reso evidente proprio dalla, pur difforme, dichiarazione inizialmente presentata), con la conseguenza che il termine quinquennale spirava per il 2011 (criterio dell’anno corrente) al 31 dicembre 2016, a fronte di avviso notificato soltanto nel dicembre successivo. Del tutto inconferente, infine, si palesa il richiamo al regime della prescrizione, pure incidentalmente e subordinatamente svolto dalla ricorrente; solo sul punto osservandosi come nella specie si verta di regime decadenziale e non di prescrizione, e come la doglianza sul punto neppure si faccia carico né di precisare in che termini avrebbe qui operato il termine prescrizionale successivamente alla fase accertativa, né di indicare - a monte di tutto - se ed in quali sedi processuali la questione estintiva (di cui non vi è traccia nella sentenza impugnata) sia stata prima d’ora eccepita. § 3.1 Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso si lamenta – ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 cod.civ., nonché della disciplina sopravvenuta Tarsu, Tares e Tari. Per avere la Commissione Tributaria Regionale imperniato la decisione esclusivamente sulla natura di giudicato erroneamente attribuita alla ordinanza della S.C. n. 18500/17, nonostante che quest'ultima fosse priva di qualsivoglia forza preclusiva nel presente giudizio, in quanto: - non passata in giudicato neppure in senso formale, perché fatta oggetto di giudizio di revocazione pendente, ex articolo 395 n.4) cod.proc.civ. (mancato rilievo dell'assenza di delibera di Giunta in capo al Sindaco ricorrente; supposizione dell'inesistenza della denuncia della società, invece debitamente presentata e versata in atti); - esclusivamente basata (nella sola considerazione dell'area di parcheggio, non anche dell'area di manovra per i veicoli commerciali invece considerata negli avvisi di accertamento qui dedotti) sull'applicazione nella specie dell'articolo 62 d.lvo 507/93, mentre la presente fattispecie era segnata dal sopravvenire di diverse disposizioni legislative e regolamentari (recanti il passaggio nel 2013 alla Tares e nel 2014 alla Tari) che espressamente escludevano la tassabilità delle ‘aree scoperte pertinenziali o accessorie’ alle attività economiche, ammettendola soltanto per quelle operative (art.14, co. 3^ legge Tares n.214/11; art.1 co. 641 legge Tari n. 147/13); - non estendibile ad annualità e tributi diversi da quelli espressamente considerati (Tarsu 2006-2010), anche ed appunto in ragione del mutato quadro normativo sulle aree scoperte accessorie. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine ad annualità qui dedotte (2013-17) che, di certo, non potevano rientrare nell'asserito ‘giudicato esterno’ di cui alla citata ordinanza della S.C.; se, poi, si fosse invece ravvisata l'estensione da parte della Commissione Tributaria Regionale di quest’ultima decisione anche alle annualità in esame, la sentenza sarebbe stata comunque nulla per totale assenza di motivazione in ordine alle ragioni di tale, insostenibile, estensione. § 3.2 Questi tre motivi di ricorso - suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle censure sollevate, tutte incentrate sulla erronea affermazione di una preclusione da giudicato esterno – sono in linea di principio fondati, anche se va subito detto che dalla loro condivisione non potranno derivare, come si dirà nella disamina in diritto delle censure successive, la cassazione della sentenza e l’invocata dichiarazione di illegittimità della pretesa tributaria rivolta alle aree scoperte in questione. Ricorre in proposito il consolidato orientamento di legittimità – originatosi da Cass.SSUU n. 13916/06 e poi innumerevoli volte richiamato, anche nella specifica materia della tassa rifiuti – secondo cui l’efficacia espansiva del giudicato formatosi tra le stesse parti può in effetti investire anche annualità diverse da quelle in esso contemplate, ma a condizione che si verta di accertamenti fattuali o qualificazioni giuridiche del rapporto segnate sia da costanza normativa, sia da durevolezza e tendenziale invarianza nel tempo: “nel processo tributario, l'effetto vincolante del giudicato esterno in relazione alle imposte periodiche concerne i fatti integranti elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di annualità, abbiano carattere stabile o tendenzialmente permanente, mentre non riguarda gli elementi variabili, destinati a modificarsi nel tempo” (così, tra le moltissime: Cass.n. 25516/19; Cass.n. 38950/21; Cass.n. 16684/22; Cass.n. 2305/24). Ora, nel caso di specie la ragione decisoria della Commissione Tributaria Regionale si sostanzia ed esaurisce, in maniera praticamente esclusiva (sent.pagg.5-6), proprio nella meccanica applicazione del giudicato esterno rinveniente da Cass.n. 18500/17 cit. (che ha ritenuto tassabili le aree in questione); ma, questo, solo sul rilievo che si trattava di decisione tra le stesse parti e con identità di petitum e causa petendi, nonché “sulle circostanze fattuali comuni ad entrambi i giudizi”. Doveva invece il collegio regionale, sulla base del fermo indirizzo appena richiamato, farsi carico proprio di quel vaglio di costanza e durevolezza pluriennale, così da escludere ogni efficacia espansiva ex art. 2909 cod.civ. sul solo presupposto che il giudicato rinveniente da Cass.n. 18500/17 aveva avuto riguardo, non solo ad annualità Tarsu (2006-2010) mentre qui si discuteva pure di annualità Tares (2013) e Tari (2014-2017), ma anche e soprattutto ad un elemento fattuale del rapporto impositivo (la natura e destinazione delle aree scoperte) per sua natura suscettibile di mutare negli anni e quindi – richiamando la giurisprudenza – privo di quel “carattere stabile o tendenzialmente permanente” che si è visto giustificare l’espansione preclusiva nel tempo. Il che si mostra di per sé necessario e sufficiente (anche indipendentemente dall’incidenza ex art. 324 cpc dell’attuale pendenza di un giudizio di revocazione sulla ordinanza asseritamente pregiudicante) a negare quell’effetto espansivo esterno sul quale la Commissione Tributaria Regionale ha basato per intero il proprio ragionamento. Ciò non toglie però che, sgombrato il campo dall’errore in cui è incorso il giudice di appello, possa - e debba - questa Corte di legittimità riesaminare ex novo (cioè senza pregiudizialità esterna alcuna) la questione della tassabilità Tares, Tarsu e Tari delle aree scoperte qui dedotte, dal momento che essa non implica la necessità di ulteriori accertamenti fattuali e risulta risolvibile, in puro diritto, secondo un procedimento tipico di sussunzione della fattispecie concreta (già ben delineata in atti) in quella astratta o legale di imponibilità. § 4.1 Con il quinto ed il sesto motivo di ricorso si ripercorre - nella disamina altresì di dottrina e giurisprudenza, anche di merito, in materia - l'evoluzione normativa in ordine alla non-imponibilità delle aree scoperte accessorie o pertinenziali ad edifici tassati. In modo tale che, diversamente da quanto erroneamente affermato dalla S.C. nella citata ordinanza sulla base dell'articolo 62, co. 2^, d.lvo 507/93, l'esenzione di tali aree costituiva una regola ormai acquisita dall'Ordinamento, sicché nessun onere probatorio poteva essere posto a carico del contribuente in ordine alla non idoneità dell'area stessa alla produzione di rifiuti (pena la sostanziale obliterazione di qualsiasi differenza tra le aree scoperte accessorie e quelle operative). Tutto ciò a riprova del fatto che la decisione qui impugnata, nel recepire puramente e semplicemente quanto deciso dalla S.C., si poneva in violazione e falsa applicazione della relativa disciplina, ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ.. Con il settimo motivo di ricorso si deduce violazione dell'articolo 115, co. 2^, cod.proc.civ., essendo nozione di fatto rientrante nella comune esperienza (come anche riconosciuto in talune fonti ministeriali in materia, quali la risoluzione n. 38997 del 2014) che le aree destinate a parcheggio non sono in grado di produrre rifiuti, se non in misura del tutto insignificante, con conseguente arbitraria e ‘cervellotica’ tariffazione dei relativi spazi (non a caso non rientranti tra le categorie di attività di cui al d.P.R. 158/99). § 4.2 Anche questi tre motivi di ricorso sono suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle censure con essi sollevate, tutte basate sulla non tassabilità ex lege delle aree scoperte destinate a parcheggio. Si tratta di motivi infondati. Va intanto premesso che il presupposto del tributo è dato dall’occupazione o conduzione di locali ed aree produttive di rifiuti, in modo tale che se è vero, in linea generale, che è l'Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell'obbligazione tributaria (a cominciare dall’attivazione del servizio di raccolta sul territorio comunale), altrettanto indubbio è che è invece “onere del contribuente dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione della superficie tassabile ovvero dell'esenzione, trattandosi di eccezione rispetto alla regola generale del pagamento dell'imposta sui rifiuti urbani nelle zone del territorio comunale” (Cass.n. 21335/22; Cass.n. 12979/19; Cass.n. 22130/17 ed innumerevoli altre). Questi principi si attagliano appieno tanto alla Tari quanto alla Tarsu ed alla Tares, in quanto tributi avvinti da una sostanziale corrispondenza di disciplina, il che ha indotto questa Corte a varie volte osservare (Cass.n. 22130/17 cit. e molte altre) che: “La Tassa rifiuti (TARI) ha sostituito, a decorrere dal 1 gennaio 2014, i preesistenti tributi dovuti ai comuni dai cittadini, enti ed imprese quale pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (noti in precedenza con gli acronimi di TARSU e, successivamente, di TIA e TARES), conservandone, peraltro, la medesima natura tributaria. L'imposta è dovuta, ai sensi della legge 27 dicembre 2013 n. 147, per la disponibilità dell'area produttrice di rifiuti e, dunque, unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, mentre le deroghe indicate e le riduzioni delle tariffe non operano in via automatica in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti”. Il che ha trovato ulteriore recente conferma in Cass.n. 13455/24 in cui, con ulteriori numerosi richiami ai quali si rinvia, si è anche ribadito (con affermazione valevole tanto per la Tarsu quanto per la Tari) che “la disponibilità dell'area produttrice di rifiuti determina una presunzione, iuris tantum, di produttività degli stessi, che può essere superata solo dalla prova contraria del detentore dell'area”. Ciò premesso, si controverte qui di un’estesa area scoperta (tale ai fini di causa restando quand’anche segnata, come dedotto dal Comune, dalla presenza di pensiline o tettoie di protezione da sole e pioggia) annessa al centro-vendita gestito da Metro Italia, ed adibita a parcheggio gratuito della clientela ed a spazio di movimentazione dei veicoli operanti il carico-scarico delle merci all’ingrosso (così l’accertamento svolto in primo grado e recepito come tale dalla Commissione Tributaria Regionale; v. anche ricorso, pag.20 e controricorso, pag.6). Queste aree, in quanto operative e suscettibili di produzione di rifiuti per la loro connaturata destinazione alla frequentazione antropica e veicolare, debbono ritenersi tassabili. E questa conclusione tanto più si avvalora nella considerazione dell’evoluzione normativa sul punto specifico, dalla quale emerge la chiara e continuativa volontà legislativa (a partire dal d.P.R. 915/82) di sottoporre ad imposizione anche le aree scoperte variamente utilizzate, con la sola eccezione delle aree pertinenziali improduttive di rifiuti perché non operative: - art.62 co. 1 d.lvo 507/93 (Tarsu): “Presupposto della tassa ed esclusioni. 1. La tassa è dovuta per l'occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, (…) 2. Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione. (…)”; - art. 14 co. 3-4 d.l. 201/11 conv.l. 214/11 (Tares): 3. “Il tributo è dovuto da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. 4. Sono escluse dalla tassazione le aree scoperte pertinenziali o accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali di cui all'articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva”. – art.1 co. 641 legge 147/13 (Tari): “Il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse dalla TARI le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all'articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva.(…)”. La giurisprudenza di legittimità che si è formata sul punto specifico è del tutto costante ed uniforme nell’affermare la tassabilità delle aree scoperte destinate a parcheggio, in quanto almeno presuntivamente produttive di rifiuti. Già Cass.n. 5047/15 ebbe a stabilire che: “In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, l'art. 62, comma 2, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, nell'escludere dall'assoggettamento al tributo i locali e le aree che non possono produrre rifiuti ‘per il particolare uso cui sono stabilmente destinati’, chiaramente esige che sia provata dal contribuente non solo la stabile destinazione dell'area ad un determinato uso, ma anche la circostanza che tale uso non comporta produzione di rifiuti”. La norma esige quindi che sia provata dal contribuente non solo la stabile destinazione dell'area ad un determinato uso (quale, nel caso di specie, il parcheggio), ma anche la circostanza che tale uso non comporta produzione di rifiuti. Ne deriva che la tassa sui rifiuti è dovuta anche per i parcheggi, trattandosi di aree frequentate da persone e quindi produttive di rifiuti in via quantomeno presuntiva, rimanendo a carico dell’utente l'onere di provare con apposita denuncia ed idonea documentazione la sussistenza dei presupposti per l'esenzione; così Cass.n. 21335/22 cit. e Cass.n. 8753/23. Ha stabilito Cass.n. 8908/18 (in fattispecie Tarsu su parcheggio scoperto annesso a centro commerciale): “Né, d'altro canto, assume rilievo conclusivo la circostanza che ‘il Comune non esige il pagamento della TARSU’ in relazione alle superfici scoperte destinate a parcheggio del centro commerciale, poiché l'argomentazione si pone in palese contraddizione con la normativa primaria innanzi esaminata, in forza della quale anche per le aree scoperte il contribuente è tenuto a pagare la tassa, quando si tratta di aree frequentate da persone e, quindi, produttive in via presuntiva di rifiuti, rimanendo a suo carico l'onere di provare con apposita denuncia, ed idonea documentazione, la sussistenza dei presupposti per l'esenzione della quale più volte si è detto in precedenza (…).” Non è inutile precisare, in proposito, che i precedenti citati da Metro come espressione di un orientamento difforme, tali affatto non sono; così Cass. n.22643/04, riferita ad un “cortile piastrellato adiacente al locale”, tiene conto del fatto che la Commissione Tributaria Regionale non aveva svolto alcuna considerazione sul regime delle aree scoperte; Cass. n. 2814/05 ribadisce che le aree scoperte, per essere sottratte alla tassazione, devono appunto essere non operative; Cass. n.10796/10, diversamente da quanto assume Metro, si pone invece pienamente in linea con la giurisprudenza successiva. Nel senso che “i parcheggi sono aree frequentate da persone e, quindi, presuntivamente produttive di rifiuti”, di recente si è espressa anche Cass. n. 12265/24, con ampi richiami. La società rimarca il non perfetto allineamento tra la, su riportata, disciplina Tarsu (“ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali (…)”) e quella Tari (“le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative (…)”), concludendo per la non tassabilità in ragione del carattere pertinenziale ed accessorio (al centro-vendita) delle aree di parcheggio in questione. Il susseguirsi della disciplina delle aree scoperte, tuttavia, non fa che confermare la loro ordinaria tassabilità proprio perché rientranti nel presupposto impositivo generale e comune ad entrambi i tributi (occupazione e detenzione di aree produttive di rifiuti), in tanto escludendo quelle pertinenziali ed accessorie (rispetto ad altro immobile produttivo) in quanto comprovatamente “non operative” e, come tali, non autonomamente produttive di rifiuti. Ancorchè espressamente specificato solo dal legislatore Tari, il requisito della non-operatività deve ritenersi insito anche nella nozione di pertinenzialità propria della Tarsu, e ciò proprio per la natura ambientale del tributo e, non ultimo, per i noti principi unionali in materia che legano l’imposizione alla eziologia inquinante. D’altra parte, sempre con riguardo alla tassabilità delle aree destinate a parcheggio, si è sviluppata (pur nella oggettiva peculiarità della fattispecie) un’ampia casistica giurisprudenziale relativa alle autorimesse pubbliche e soprattutto ai parcheggi pubblici comunali (tra le molte: Cass.n. 16287/24; Cass.n. 14404/24; Cass.n. 18612/23; Cass.n. 34392/21; Cass.n. 19739/21; Cass.n. 18124/21), nella quale si è molto discusso della titolarità della legittimazione tributaria passiva (a seconda che il Comune mantenga il pieno controllo sostanziale ed organizzativo dell’area, ovvero l’affidi alla società concessionaria in una con la riscossione della tariffa di sosta), ma mai si è dubitato – per quello che anche qui deve valere – del fatto che le aree di parcheggio siano di per sé pienamente idonee alla produzione di rifiuti in ragione del flusso antropico su di esse, talora anche massiccio. Idoneità che, nella sua rilevanza puramente obiettiva, certo prescinde a fini impositivi dal carattere gratuito ovvero oneroso della fruizione del parcheggio. Ha osservato Cass.n. 25632/22 (in materia di Tarsu) che: “(…) ai fini della tassabilità delle aree scoperte rileva esclusivamente la natura operativa delle stesse, intesa quale idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all'area principale già tassata e di cui, tenuto conto della destinazione funzionale, non rappresentano una mera estensione. Per tutti i prelievi sui rifiuti opera poi la presunzione di produttività che costituisce una condizione oggettiva fondata sulla mera disponibilità di un locale o area scoperta operativa idonea all'uso; ai fini dell'assoggettabilità a tributo conta la mera idoneità di locali ed aree alla produzione di rifiuti, piuttosto che l'effettivo utilizzo del servizio. La presunzione di potenzialità o attitudine a produrre rifiuti non costituisce poi una presunzione assoluta iuris et de iure, in quanto opera fino a prova contraria, fondata non sulla volontà del soggetto passivo di utilizzare o meno il bene, bensì sulla inidoneità per motivi strutturali o per la carenza di servizi minimi che ne consentano oggettivamente l'utilizzo” In linea si pone anche Cass.n. 14718/23 (in materia di Tares su area scoperta adiacente ad un immobile adibito ad autosalone e destinata alla sosta dei veicoli dei clienti, ma in forza di principi applicabili anche nella specie) secondo cui: “la tassazione è esclusa solo per le aree scoperte che, ai sensi del codice civile, presentano la condizione della pertinenza soggettiva e oggettiva rispetto al locale o all'area principale e purché non siano operative; l'operatività consiste nell'idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all'area principale che già versa il tributo e non rappresenta dunque un'ulteriore estensione dell'attività svolta”. Nella specie, poi, la conclusione in termini di operatività ed autonoma capacità produttiva si avvalora a fortiori, trattandosi pacificamente di parcheggio frequentato sia da clientela business sia da operatori dediti alla movimentazione di ingenti quantità di merce, come è connaturato ad un centro-vendita rivolto per lo più ad un pubblico professionale e di grossisti. Sicchè, in difetto del requisito di non-operatività come si è finora inteso, non possono che venir meno – ai fini della tassazione dei rifiuti – anche i parametri esonerativi della pertinenzialità e della accessorietà; del resto, anche logicamente irrealistici se rapportati, com’è d’obbligo, ad un tipo di attività commerciale come quella in esame il cui espletamento e la cui organizzazione, in assenza di quelle aree funzionali, neppure potrebbero concepirsi. § 5.1 Con l’ottavo motivo di ricorso si deduce – ex art.360, co. 1^ n.5, cod.proc.civ. – omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla insussistenza dei presupposti per l'applicazione delle sanzioni e degli interessi. La questione, fatta oggetto specifico di diversi motivi di appello, era stata dalla Commissione Tributaria Regionale erroneamente ritenuta anch'essa assorbita sulla base dell'asserito giudicato di legittimità, nonostante che quest'ultimo non facesse parola alcuna dell'argomento. Viene quindi testualmente riportato in questa sede quanto già argomentato avanti al giudice di appello, segnatamente in ordine al fatto che non di dichiarazione infedele si trattava, ma puramente recettiva del comportamento impositivo serbato nel tempo dal Comune il quale (anche per vari anni dopo la dichiarazione del 1999) non aveva mai preteso di tassare la superficie esterna; il che, da un lato, escludeva la consapevolezza dell'illecito e quindi l'elemento di colpevolezza e, dall'altro, ingenerava un affidamento tutelato nella società contribuente, rilevante ex art. 10 l. 212/00. § 5.2 Il motivo è infondato. Soccorrono anche in proposito le già svolte considerazioni (sopra, § 3.2) in ordine al fatto che – fermo l’erroneo richiamo, da parte della Commissione Tributaria Regionale, al giudicato esterno di cui in Cass.n. 18500/17 – la questione è tuttavia suscettibile di essere direttamente vagliata da questa Corte in linea di diritto, e sulla scorta di elementi fattuali di causa del tutto assodati. Infatti la società lamenta in sostanza – sebbene attraverso il prisma dell’omesso esame di fatto decisivo e controverso ex art. 360, co. 1^, n. 5) cod.proc.civ. – la mancata esclusione di sanzioni ed interessi in ragione della previsione di cui all’art. 10, 1^ co. (principio di collaborazione e buona fede) e 2^ co. (comportamento decettivo dell’amministrazione); e ciò sul presupposto che, pur a seguito della dichiarazione del febbraio 1999 – poi ritenuta infedele – mai il Comune aveva preteso alcunchè, fino agli avvisi 2006-2010, a titolo di tassa rifiuti sulle aree scoperte. Ad esimente sanzionatoria vengono quindi addotti i due elementi tipici della mancata attivazione (non solo riscossiva ma anche accertativa) da parte dell’ente impositore, e della protrazione per tempo significante di questo contegno abdicativo. Ricorre però anche in proposito il costante indirizzo di legittimità (tra le molte, Cass.n.34067/19 nonché, con argomentazione a contrario, Cass.n.13237/24) secondo cui il mero decorso del tempo ed un correlato comportamento meramente passivo-omissivo dell'amministrazione rappresentano elementi inidonei ad integrare l'esimente di cui all'art. 10, comma 2, legge n. 212 del 2000, invece integrata da un contegno attivo volto a positivamente ingenerare nel contribuente un effettivo e ragionevole convincimento di non debenza. Dunque, la mancata attivazione del Comune, pur prolungatasi per alcuni anni, non poteva giustificare alcun affidamento tutelabile in capo alla società contribuente circa la effettiva esenzione dall’imposta; tanto più considerato che, con riguardo alle annualità qui dedotte (2011-2017) quell’inerzia era comunque già cessata mediante la notificazione, nel 2011, di quegli stessi avvisi (2006-2010), poi dedotti nel supposto giudicato esterno di cui si è fatto molte volte cenno. § 6. Ne segue, in definitiva, la cassazione della sentenza e la decisione nel merito con l’accoglimento del ricorso originario della società limitatamente all’annualità 2011, rigettato ogni altro motivo. La decisione nel merito si giustifica, ex art. 384 cod.proc.civ., perché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto e perché la società ricorrente non ebbe ad introdurre in giudizio questioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle qui esaminate: ininfluenza del citato giudicato esterno; intassabilità in diritto delle aree scoperte; insussistenza dei presupposti per le sanzioni, stante l’inopinato mutamento di contegno del Comune rispetto agli anni pregressi. In ragione del solo parziale e limitato accoglimento, le spese del presente giudizio di legittimità (liquidate come in dispositivo) vanno compensate in ragione del 30%, ponendosi il residuo a carico della società contribuente in ragione della ben maggiore soccombenza. Le spese dei gradi di merito vengono compensate in considerazione del consolidarsi in corso di causa di alcuni dei su riportati orientamenti interpretativi. P.Q.M. La Corte -accoglie il primo motivo di ricorso limitatamente all’annualità Tarsu 2011, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata e decisione nel merito mediante accoglimento del ricorso originario della società limitatamente a tale annualità; -rigetta per il resto; -condanna parte ricorrente alla rifusione per il 70 % delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida, in importo già proporzionalmente ridotto, in euro 3.900,00 oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario ed accessori di legge; compensa il residuo; compensa il merito. Così deciso nella camera di consiglio della Sezione Tributaria, riunitasi in data 12 giugno 2024 . Il Consigliere est. Giacomo Stalla Il Presidente Angelina Perrino

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ORONZO DE MASIPresidente LIBERATO PAOLITTOConsigliere UGO CANDIAConsigliere STEFANIA BILLIConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: *ICI IMU ACCERTAMENTO Ud.28/06/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 1818/2021 R.G. proposto da: BINICOCCHI DUE SRL, rappresentato e difeso dall'avvocato MARCHISIO RINUCCIA (MRCRCC63B68B573F)- [email protected], -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. TOSCANA n. 339/2020 depositata il 25/05/2020, udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/06/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1.La Binocchi due s.r.l. ha presentato un atto di aggiornamento della rendita catastale dell’immobile sito in Prato, via dei Fossi (folio 80, part. 27, sub. 525), ai sensi dell’art. 1, commi 21 e 22, della legge n. 208 del 2015, proponendo la rideterminazione della rendita catastale da euro 7.296,00 ad euro 3.868,00. 2.L’Agenzia delle Entrate ha notificato un avviso di accertamento, con cui ha determinato la rendita catastale in euro 6.530,00. 3. La Binocchi due s.r.l. ha proposto ricorso avverso tale avviso di accertamento, che è stato rigettato in primo grado, con sentenza confermata in appello. 4.Nella sentenza della Commissione regionale tributaria si legge che 1) la denuncia di variazione di cui all’art. 1, comma 22, della legge n. 208 del 2015 può essere giustificata solo dalla presenza nell’immobile degli imbullonati, presenza che, con riferimento all’immobile in esame, non è stata né affermata, né provata; 2) in ordine alla facoltà del contribuente di chiedere in ogni momento la correzione di errori di fatto o di diritto, la contribuente non ha indicato le ragioni per cui la stima dell’Ufficio, che è stima diretta, redatta secondo le previsioni di legge, sarebbe erronea. 3. Avverso tale sentenza la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo la cassazione della sentenza impugnata e l’annullamento dell’avviso di accertamento. 4. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso, chiedendo dichiararsi inammissibile o, in subordine, infondato il ricorso. 5.La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, confermate alla pubblica udienza, con cui ha chiesto accogliersi il secondo motivo di ricorso e cassarsi con rinvio la sentenza impugnata. 6. La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 28 giugno 2024. CONSIDERATO 1.La ricorrente ha dedotto: 1) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 1, commi 21 e 22, legge n. 208 del 2015, in combinato disposto con gli artt. 4 d.m. 701/1994 e 17 r.d.l. n. 652 del 1939, atteso che il comma 21, nell’individuare l’ambito di applicazione soggettivo del procedimento previsto, fa riferimento a tutti gli intestatari di immobili censiti nelle categorie catastali del gruppo D ed E (e, cioè, immobili a destinazione speciale o particolare), offrendo agli stessi la possibilità di un aggiornamento, in linea con il principio desumibile dall’art. 17 del r.d.l. n. 652 del 1939, al fine di adeguare la rendita ai nuovi criteri di stima indicati, che non sono limitati alla individuazione degli elementi da includere o escludere nella valutazione, mentre, al contrario, l’interpretazione seguita dai giudici di merito presuppone un inesistente principio di immodificabilità della rendita; 2) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 e 5, cod.proc.civ., degli artt. 112 e 115 cod.proc.civ., essendo stata valutata solo la stima allegata all’avviso di accertamento, ritenuta, con una motivazione apodittica, diretta e conforme ai criteri legali; 3) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 1, commi 21 e 22, legge n. 208 del 2015, in combinato disposto con l’art. 10 del r.d.l. n. 652 del 1939, 37 del d.P.R. n. 917 del 1986 e 8 del d.P.R. n. 1142 del 1949, atteso che la stima operata dall’Ufficio non integra una stima diretta, non essendo avvenuta con riferimento all’immobile in esame, ma con riferimento alla categoria a cui esso appartiene, in base al prezzario DEI. 2. Il primo motivo, con cui è stata denunciata la violazione dell’art. 1, commi 21 e 22, della legge n. 208 del 2015, è infondato. Come noto, la legge n. 208 del 2015, all’art. 1, commi 21 e 22, ha disposto che, a decorrere dal 1° gennaio 2016, da un lato, la determinazione della rendita catastale degli immobili a destinazione speciale e particolare, censibili nelle categorie catastali dei gruppi D ed E, è effettuata, tramite stima diretta, tenendo conto del suolo e delle costruzioni, nonché degli elementi ad essi strutturalmente connessi che ne accrescono la qualità e l'utilità, nei limiti dell'ordinario apprezzamento, con esclusione dalla stessa stima diretta di macchinari, congegni, attrezzature ed altri impianti, funzionali allo specifico processo produttivo (comma 21) e, dall’altro lato, che gli intestatari catastali degli immobili di cui al comma 21 possono presentare atti di aggiornamento ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze 19 aprile 1994, n. 701, per la rideterminazione della rendita catastale degli immobili già censiti nel rispetto dei criteri di cui al medesimo comma 21 (comma 22). Il citato comma 22, nell’individuazione dei soggetti legittimati alla presentazione dell’atto di aggiornamento catastale ivi previsto, fa riferimento a tutti gli intestatari catastali degli immobili di cui al comma 21 e, dunque, degli immobili a destinazione speciale, di cui alle categorie D ed E, ma, nel contempo, chiarisce che la nuova procedura introdotta è funzionale all’adeguamento della rendita castale ai criteri di cui al comma 21, che si presenta come innovativo rispetto al passato limitatamente alla esclusione dalla stima catastale di macchinari, congegni, attrezzature ed altri impianti, funzionali allo specifico processo produttivo. In proposito è opportuno ricordare che già l’art. 10 del r.d.l. n. 652 del 1939 prevedeva la determinazione con stima diretta degli opifici, dei fabbricati di cui all’art. 28 della legge n. 1231 del 1936, costruiti per le speciali esigenze di un’attività industriale o commerciale e non suscettibili di una destinazione estranea a tali esigenze senza radicali trasformazioni, e delle unità immobiliari non raggruppabili in categorie e classi per la singolarità delle loro caratteristiche. Da tale premessa deriva che, in virtù del criterio di interpretazione letterale e di quello sistematico, la presentazione di un atto di aggiornamento catastale in base alla legge n. 208 del 2015 è consentita agli intestatari catastali degli immobili a destinazione speciale, di cui alle categorie D ed E, al solo fine di ottenere la rideterminazione della rendita catastale degli immobili già censiti nel rispetto dei criteri di cui al medesimo comma 21. Si tratta, difatti, di una rideterminazione preordinata al fine di realizzare l’uniformità nei riferimenti estimativi catastali tra le unità immobiliari già iscritte in catasto e quelle oggetto di dichiarazione di nuova costruzione o di variazione, come ha correttamente chiarito la Circolare 2/E del Ministero delle Finanze del 1° febbraio 2016. L’aggiornamento catastale per la rideterminazione della rendita degli immobili già censiti nel rispetto dei nuovi criteri deve avvenire, pertanto, attraverso lo scorporo di quegli elementi che, in base alla nuova previsione normativa, non costituiscono più oggetto di stima catastale. Questa Corte (Cass., Sez. 5, 20 giugno 2024, n. 17045) ha, del resto, già affermato che, in tema di classamento catastale, ove il contribuente presenti, successivamente ad una prima Docfa, una nuova dichiarazione, ai sensi dell’art. 1, comma 22, della legge n. 208 del 2015, e l'Amministrazione provveda alla rettifica della rendita proposta, nella controversia riguardante la verifica dell’attendibilità del provvedimento di classamento, incombe sul contribuente l'onere di indicare i componenti produttivi da non ricomprendere nella nuova rideterminazione che erano stati, invece, originariamente ricompresi. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato in base al seguente principio di diritto: in tema di rendita catastale, l’atto di aggiornamento castale, ai sensi dell'art. 1, comma 22, della legge n. 208 del 2015, può essere presentato dagli intestatari catastali di immobili a destinazione speciale e particolare, censibili nelle categorie catastali dei gruppi D ed E, solo al fine dell’adeguamento della rendita castale alla nuova disciplina introdotta dal precedente comma 21 e, quindi, al fine di escludere dalla rendita eventuali componenti impiantistiche, che non sono più oggetto di stima. Solo per completezza deve rilevarsi che l’avviso, che ha ridotto la rendita esistente prima della d.o.c.f.a., non avrebbe potuto essere annullato perché adottato nell’ambito di un procedimento illegittimamente instaurato, visto che la ricorrente non ha, con il ricorso introduttivo, eccepito tale illegittimità, rispetto alla quale non aveva interesse. 3. Il secondo motivo, con cui è stata denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., la violazione degli artt. 112 e 115 cod.proc.civ. e, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio (individuato nella propria perizia di parte), è in parte inammissibile ed in parte infondato. 3.1. Per quanto concerne la parte della doglianza riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., deve rilevarsi che nell'ipotesi di doppia conforme (che ricorre nel caso di specie), il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell'art. 360 cod.proc.civ. è inammissibile, ai sensi dell’art. 348- ter, ultimo comma, cod.proc.civ., se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., 28 febbraio 2023, n. 5947; v. anche Cass., Sez. 1, 22 dicembre 2016, n. 26774, secondo cui nell’ipotesi di doppia conforme, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, cod.proc.civ., il ricorrente in cassazione - per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, cod.proc.civ. deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse). A ciò si aggiunga che, in tema di ricorso per cassazione non può essere dedotto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il vizio di omesso esame di un fatto decisivo della controversia per la mancata considerazione di una perizia stragiudiziale, in quanto la stessa costituisce un mero argomento di prova (Cass., Sez. 6, 9 aprile 2018, n. 8621). 3.2.Per quanto concerne la dedotta violazione dell’art. 115 cod.proc.civ., deve evidenziarsi che, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio (cfr. Cass. SU. n. 20867 del 30/09/2020, SU n. 15486 del 22/6/2017 in motiv.; Cass. n. 11892 del 10/5/2016). Più precisamente l’art. 115 cod.proc.civ. impone di porre a fondamento della decisione del giudice le prove dedotte ed i fatti pacifici. Tuttavia, la conformità della sentenza al modello di cui all'art. 132, n. 4, cod. proc. civ. e l'osservanza degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non richiedono che il giudice del merito dia conto di tutte le prove dedotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente e necessario che egli esponga in maniera concisa gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione (Cass., Sez. 3, 28/10/2009, n. 22801; cfr. anche Cass. n. 13485 del 13/06/2014, Cass. n. 16499 del 15/07/2009, secondo cui, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni). Peraltro, la perizia invocata non costituisce una prova in senso tecnico, ma piuttosto il veicolo di una serie di argomentazioni tecniche per contrastare la quantificazione fatta dall’Ufficio (v. in proposito Cass., 9/04/2021, n. 9483, secondo cui la consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili). 3.3. Neppure può ravvisarsi una violazione dell’art. 112 cod.proc.civ., essendosi i giudici di appello pronunciati sulla domanda proposta e sulle censure di appello formulate. 3.4. Infine, per quanto concerne l’art. 132 cod.proc.civ. (che sebbene non richiamato in rubrica, viene evocato lamentando «una motivazione assiomatica e tautologica» in ordine alla correttezza della stima dell’Agenzia), occorre chiarire che la sentenza, avendo escluso, nel caso di specie, la possibilità di presentare la dichiarazione di aggiornamento catastale ai sensi dell’art. 1, comma 22, della legge n. 208 del 2015, si è limitata a negare l’allegazione e la dimostrazione di un errore di fatto o di diritto, effettuato nella precedente valutazione catastale, tale da autorizzare la contribuente a chiederne una correzione. Alla luce dell’individuazione del corretto significato della sentenza, la motivazione risulta esaustiva, tenuto conto, peraltro, che parte ricorrente non ha neppure chiarito quale sarebbe l’errore (allegato e dimostrato nella propria perizia di parte) riferito alla originaria valutazione catastale (su cui i giudici di merito avrebbero dovuto soffermarsi con argomentazioni concrete). 4. Il terzo motivo è inammissibile, in quanto, da un lato, non risulta aggredire la ratio decidendi della sentenza (omessa allegazione e dimostrazione dell’errore della precedente valutazione catastale) e, dall’altro, pur denunciando una violazione di legge, mira a chiedere a questa Corte una inammissibile valutazione di merito in ordine al carattere diretto della stima, effettuata dall’Amministrazione, ed alla minore attendibilità del prezzario usato dalla stessa rispetto a quello usato dal proprio perito. 5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13, comma-1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale. Così deciso in Roma, il 28/06/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI ORONZO DE MASI

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5993 del 2017, proposto da Gi. Fr. ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Pa. Br. e Gi. No., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ma. At. Lo. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Provincia di Brescia, Pa. Ac. ed altri, Qu. C Im. s.a.s. di Ca. Co. e C In. Ni. Im. s.r.l., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia Sezione Prima n. 43/2017, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giovanni Pascuzzi. Nessuno è comparso per le parti costituite; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso del 2015 i signori Gi. Fr. ed altri, Co. Ca. (quale legale rappresentante della società Ni. Im. s.r.l.) hanno chiesto al Tar per la Lombardia l'annullamento: - dell'ordinanza del 31 marzo 2015, prot. n. 1560, con la quale il Responsabile dell'Area tecnica del Comune di (omissis) ha contestato ai proprietari delle singole unità immobiliari ivi indicate, site in detto Comune e facenti parte del P.E. Sa. Gi., la lottizzazione abusiva ai sensi dell'art. 30 d.p.r. 380/2001 e ordinato di non utilizzare le unità immobiliari ad uso residenziale esclusivo, facendo obbligo agli stessi di garantirne l'uso turistico-alberghiero con affidamento a soggetto gestore, con l'avvertenza che, decorsi novanta giorni dalla notifica qualora non fossero maturate le condizioni per la revoca del provvedimento in esame, si sarebbe proceduto alla acquisizione al patrimonio disponibile del Comune; - del provvedimento del Comune prot. 1561 del 31 marzo 2015, con cui è stato ordinato a taluni ricorrenti di provvedere al deposito delle chiavi; - in parte qua, della deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 55 del 31 ottobre 2014, di approvazione del nuovo P.G.T., con la quale è stata assegnata al comparto la destinazione urbanistica a residenza turistica-alberghiera; - della deliberazione della Giunta Comunale di (omissis) del 9.3.1993 avente ad oggetto "Piano di lottizzazione (omissis) - P.E. (omissis) - presentato da Fi. An. - vincolo di destinazione turistico alberghiera - integrazione Deliberazione C.C. n. 55/90"; - di ogni altro atto o provvedimento, presupposto, consequenziale o comunque connesso. 2. Così la sentenza impugnata in questa sede sintetizza le premesse in fatto: - i ricorrenti sono proprietari di appartamenti ricompresi nel complesso residenziale e turistico denominato Sa. Gi., composto, oltre che da una superficie ad uso commerciale pari al cinque per cento dell'area complessiva, da centinaia di appartamenti terra-tetto, di cui il trenta per cento con destinazione residenziale e il restante sessantacinque per cento (in cui ricadono le proprietà degli stessi ricorrenti) con destinazione a scopo turistico ricettivo; - il Comune ha contestato loro il mancato rispetto della prescrizione urbanistica e l'utilizzo degli immobili ad uso esclusivo, principalmente come seconda casa; - con il ricorso di primo grado sono stati impugnati gli atti preordinati alla cessazione dell'uso residenziale, anche attraverso l'attività di "Casa Appartamenti Vacanze" (CAV) e al ripristino della destinazione d'uso "turistico alberghiera" impressa all'immobile dalla strumentazione urbanistica e dalla convenzione di lottizzazione rep. n. 44363 del 25.6.1993. 3. A fondamento dell'impugnativa venivano dedotti i seguenti vizi: I. Incompetenza della Giunta comunale all'approvazione (nel 1990) del nuovo piano di lottizzazione e, conseguentemente, dello schema della seconda convezione di lottizzazione, che ha previsto la frazionabilità degli immobili. II. Violazione degli artt. 17 e 28 della legge 1150/1942 e conseguente decadenza degli obblighi discendenti dal Piano di Lottizzazione e estinzione del vincolo a R.T.A. per validità quinquennale del suo termine. Secondo parte ricorrente, data la efficacia quinquennale della convenzione, quanto in essa previsto doveva essere attuato entro cinque anni dalla sua sottoscrizione e, scaduto tale termine, da tale data avrebbe iniziato a decorrere il termine prescrizionale di dieci anni per ottenere l'esecuzione delle obbligazioni assunte dal sottoscrittore della convenzione stessa. Tali termini sarebbero entrambi infruttuosamente decorsi, con riferimento all'attuazione dell'obbligo della destinazione alberghiera unitaria e, dunque, essa non potrebbe più essere pretesa. III. Violazione e falsa applicazione dell'art. 30 d.p.r. 380/2001, motivazione carente e insufficiente in ordine ai caratteri della pretesa lottizzazione abusiva e alla disparità di trattamento operata nei confronti dei proprietari cui è stata richiesta la consegna delle chiavi. IV. Violazione e falsa applicazione dell'art. 30 d.p.r. 380/2001, per violazione del principio dell'affidamento a seguito dell'inerzia protrattasi per ventidue anni. V. Violazione dei principi che garantiscono la partecipazione al procedimento. VI. Violazione e falsa applicazione dell'art. 30 e dell'art. 23-ter del d.p.r. 380/2001, poiché non potrebbe sussistere la lottizzazione abusiva in assenza di opere e, dunque, illegittima sarebbe la confisca disposta dal Comune. VII. Violazione e falsa applicazione dell'art. 30 d.p.r. 380/2001, per difetto dei presupposti, in quanto la gestione unitaria non avrebbe mai potuto essere realizzata a causa della parcellizzazione e della vendita frazionata assentite dal Comune. VIII. Violazione degli artt. 32, 44 e 23, comma 2, della l.r. 15/2007 e dell'art. 23-ter d.p.r. 380/2001, come modificato dal d.l. 12 settembre 2014, n. 133 e illogicità dell'introduzione, nel nuovo PGT, della distinzione, nell'ambito delle aree a destinazione turistica, tra alberghi (hotel), residenze turistico-alberghiere, motel, villaggi turistici, campeggi, aree di sosta e attività ricettive non alberghiere. IX. Violazione di legge per contrasto con gli artt. 7, 6.2 CEDU e 1 del Protocollo 1, in quanto il reato si sarebbe prescritto e, dunque, la confisca non potrebbe essere disposta. 4. Nel giudizio di primo grado si è costituito il Comune di (omissis) chiedendo il rigetto del ricorso. 5. Con sentenza n. 43/2017 il Tar per la Lombardia, Sezione di Brescia, ha rigettato il ricorso. 5.1 Il Tar ha ritenuto tardiva la dedotta incompetenza della Giunta comunale ad approvare in via definitiva il progetto e il relativo schema di convenzione: a dire del primo giudice i ricorrenti hanno prestato acquiescenza, non contestando la efficacia e vincolatività delle prescrizioni contenute nella convezione di lottizzazione, che obbligava alla realizzazione della destinazione alberghiera secondo le modalità oggi avversate e, quindi, ammettendo il frazionamento della proprietà (deliberazione della Giunta municipale dell'11 febbraio 1993), ma confermando in modo inequivocabile la destinazione alberghiera (e il conseguente vincolo, derivante sin dalla approvazione della zonizzazione e, dunque, dall'approvazione del PGT prima e, poi, del piano attuativo, che ha riservato a tale utilizzo il 65 % della volumetria) e, dunque, l'obbligo di gestione unitaria. 5.1.1 L'attuazione della destinazione impressa, peraltro, risulta essere intervenuta entro il termine fissato, dal momento che già nel 1998 è stata rilasciata, alla società (omissis) s.a.s, la licenza di pubblico esercizio per l'albergo residenziale costituito da 97 unità abitative costituenti il complesso (omissis). Contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, tale destinazione non risulta essere mai venuta meno, sin dal 1993, non essendo intervenuta alcuna variazione urbanistica interessante l'area in questione. 5.1.2 La semplice circostanza di fatto per cui il Comune non parrebbe aver precedentemente indagato circa le reali modalità d'utilizzo dell'immobile, non è idonea a far venire meno una destinazione urbanistica che, una volta attuata, non può essere modificata, in via di fatto: al contrario, ciò implica proprio quell'illegittima modifica della destinazione d'uso che è stata contestata ai ricorrenti, pur a distanza di anni, in quanto il suo protrarsi integra un'ipotesi di violazione urbanistica permanente, che esclude la decadenza della potestà di imporne la cessazione. 5.2 Secondo il primo giudice appare priva di ogni fondamento giuridico la tesi secondo cui la convenzione urbanistica del 1993 sarebbe scaduta. 5.2.1 Nel fare questa affermazione si opera una confusione tra obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione e gli effetti della destinazione urbanistica dell'area e dell'edificio realizzato sulla scorta della stessa, per mezzo di apposita concessione edilizia conforme alla convenzione sottoscritta, che rimangono immutati fino a che non intervenga un nuovo atto di programmazione urbanistica. 5.2.2 Vi è una perfetta coincidenza tra le conseguenze giuridiche derivanti dall'applicazione dei principi generali e quelle puntualmente derivanti dagli obblighi contrattualmente assunti all'atto della costruzione del complesso immobiliare, con la sottoscrizione di una convenzione regolarmente trascritta e, quindi, efficace anche nei confronti dei terzi aventi causa. 5.2.3 Né può attribuirsi alcun rilievo al fatto che lo stesso Comune abbia previsto il frazionamento delle proprietà . Ciò, da sempre previsto nel piano attuativo, non è stato mai censurato, né è stato ritenuto ostativo alla realizzazione della destinazione urbanistica di cui alla succitata convenzione urbanistica. Ne discende che non può oggi essere considerato in qualche modo incompatibile con una gestione unitaria delle singole proprietà in chiave turistico-alberghiera. 5.2.4 La stessa parte ricorrente ha affermato che, nella fattispecie in esame "L'unica gestione unitaria possibile è stata ed è quella condominiale: oltre non è mai stato possibile andare". Che vi sarebbe stata la parcellizzazione, però, era circostanza ben nota e di per sé non preclusiva della gestione unitaria; quanto affermato, lungi dal risultare un'accettabile giustificazione, produce il solo effetto di dimostrare la fondatezza di quanto rilevato dal Comune in ordine all'utilizzo dell'edificio. 5.2.5 Né appare rilevante il fatto che i singoli acquirenti abbiano ritenuto che l'approvazione del regolamento condominiale, che facoltizzava i singoli a locare o meno le proprie abitazioni, potesse essere significativa del superamento di una destinazione urbanistica facilmente accertabile, confermata nel tempo e inequivocabile, al di là dell'utilizzo di fatto. 5.2.6 Il Tar non ha ravvisato nemmeno l'asserita situazione discriminatoria laddove la consegna delle chiavi sia stata richiesta e, a monte, la confisca disposta, nei soli confronti dei soggetti che, in base agli accertamenti compiuti, hanno impresso agli immobili di loro proprietà un uso diverso da quello turistico-alberghiero: parte ricorrente non ha prodotto alcun principio di prova del fatto che i proprietari che non sono stati colpiti dal censurato atto di confisca versino nelle medesime condizioni di chi, invece, ne è stato destinatario. Al contrario, nello stesso provvedimento impugnato si dà atto che i proprietari cui non è stato intimato il rispristino sono coloro che hanno confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a un utilizzo turistico-alberghiero. Nessun comportamento discriminatorio, dunque, risulta essere stato provato. 5.3 Il Tar ha escluso l'esistenza di una situazione di affidamento tutelabile rispetto a un uso diverso da quello autorizzato con le apposite licenze di esercizio pubblico staccate dal Comune, attuato senza il ricorso alla realizzazione di opere e, dunque, per questo, più difficilmente rilevabile. 5.4 Trattandosi di un comportamento illecito (quello del mutamento di destinazione non autorizzato) non sussisteva alcun obbligo di garantire ai ricorrenti la partecipazione al procedimento di adozione degli atti censurati. 5.5 Il comportamento illecito è stato integrato dal semplice fatto di aver impresso agli immobili, legittimamente frazionati nella proprietà, un utilizzo diverso da quello imposto, così, di fatto, trasformando un complesso alberghiero (a proprietà frazionata, ma reso unitario dalla gestione comune) in un complesso di unità abitative separate, adibite ad uso abitativo esclusivo dei proprietari. 5.5.1 Nemmeno la destinazione a Case ed Appartamenti Vacanza (c.d. CAV), richiesta da alcuni proprietari diversi dagli odierni ricorrenti può ritenersi compatibile con la destinazione impressa dagli strumenti urbanistici, come appare confermato dal fatto stesso che un gruppo di proprietari aveva formulato istanza per la trasformazione in tal senso (rigettata dal Comune, nonostante ciò avrebbe potuto, secondo i ricorrenti, regolarizzare una situazione nata distorta). 5.5.2 È la stessa parte ricorrente, peraltro, a ricordare, come la legge regionale distingua le strutture ricettive non alberghiere da quelle alberghiere, inserendo nelle seconde (lettera e) del primo comma dell'art. 32) anche case e appartamenti per vacanze. La "casa vacanza", da un punto di vista urbanistico, è quella realizzata in un immobile di tipo residenziale (non alberghiero), la cui destinazione urbanistica non muta per effetto della peculiarità rappresentata dal fatto di poter essere dato in locazione per fini turistici. Conseguentemente la destinazione urbanistica a zona alberghiera non contempla anche la tipizzazione a residenze - casa vacanze, atteso che le due destinazioni comportano dei livelli quantitativi e qualitativi di standard urbanistici diversi, concernendo, la zona alberghiera, attività commerciali direzionali e, la seconda, soluzioni equiparate a quelle residenziali abitative. 5.5.3 Non è stato prodotto alcun elemento o documento utile a dimostrare l'effettiva destinazione a CAV dell'immobile che, dunque, deve ritenersi meramente asserita. I sopralluoghi del Comune provano, contrariamente a quanto affermato dalla difesa dei ricorrenti, che sono stati i proprietari o i familiari di essi ad essere rinvenuti negli appartamenti. 5.5.4 Il fatto che parte ricorrente non abbia prodotto alcun principio di prova del fatto che gli immobili di proprietà siano mai stati adibiti anche solo a casa-vacanze (essendo a tal fine insufficiente la produzione di copia della ricevuta relativa al versamento della tassa di soggiorno per circa un centinaio di presenze), appare del tutto irrilevante, in quanto ciò non potrebbe che confermare una destinazione ad uso residenziale, ancorché con la particolarità del ricorso alla locazione breve per rispondere a scopi turistici. Destinazione che sarebbe comunque incompatibile con quella, ben diversa, a struttura ricettivo-alberghiera. 5.5.5 La conduzione come CAV deve ritenersi vietata in immobili aventi destinazione urbanistica turistico-alberghiera, in quanto l'utilizzo degli stessi attraverso tale "forma di gestione" non potrebbe che presupporre un implicito, quanto inammissibile cambiamento della destinazione d'uso in "residenziale". 5.6 Secondo il primo giudice essendo indimostrato l'utilizzo degli immobili in questione come CAV e accertato come ciò, comunque, non integrerebbe il rispetto della destinazione urbanistica dell'area, ancor oggi turistico-alberghiera, il ricorso deve essere respinto. 5.7 Il Tar non ha condiviso la tesi secondo cui la legittimità della destinazione attuale degli immobili deriverebbe dall'impossibilità di realizzare quella impressa in sede urbanistica a causa del frazionamento della proprietà : è notorio che anche in situazione di maggiore parcellizzazione, come quelle derivanti dal frazionamento della proprietà non solo per unità immobiliare, ma anche per limitati periodi di ogni anno (come quella propria della multiproprietà ) non solo è possibile, ma, anzi, auspicata una gestione dell'attività unitaria per l'esercizio dell'attività alberghiera. 5.8 Il Tar non ha condiviso neanche la tesi secondo cui la destinazione alberghiera sarebbe assimilabile a quella residenziale, atteso che non solo la Regione ha operato una distinzione tra "a) residenziale" e "a-bis) turistico-ricettiva", ma lo stesso art. 23-ter del d.p.r. 380/2001 distingue ora tra le due destinazioni originariamente assimilate nella lettera a) citata. 5.9 La natura permanente dell'illecito e la ravvisabilità dell'elemento soggettivo, rappresentato dalla piena conoscenza e/o conoscibilità della destinazione urbanistica dell'area (derivante dallo stesso PGT e, dunque, facilmente conoscibile anche dagli acquirenti terzi rispetto alla sottoscrizione della convenzione urbanistica) inducono, altresì, ad escludere l'illegittimità delle misure sanzionatorie imposte e cioè il ripristino dell'utilizzo conforme alla strumentazione urbanistica ovvero, in caso di mancata ottemperanza, la confisca, a prescindere dai diversi profili penalistici. 6. Avverso la sentenza del Tar per la Lombardia, Sezione di Brescia, n. 43/2017 hanno proposto appello i signori Gi. Fr. ed altri per i motivi che saranno più avanti esaminati. 7. Si è costituito in giudizio il Comune di (omissis) chiedendo il rigetto dell'appello. 8. Con ordinanza n. 9027/2023 la Sezione ha disposto incombenti istruttori che le parti hanno adempiuto. 9. All'udienza del 16 maggio 2024 l'appello è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 1. Gli appellanti hanno proposto i seguenti motivi di appello. I. Violazione e falsa applicazione dell'art. 34 c.p.a. Violazione e falsa applicazione di legge. Artt. 112, 113, 116 e 277 c.p.c. Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia. VIII motivo di ricorso (Violazione di legge. Destinazioni d'uso. Artt. 32, 44 e 23 comma 2 l.r. 15/2007. Art. 23-ter D.P.R. 380/2001. Introdotto in sede di conversione del D.L. 12 settembre 2014, n. 133 c.d. "Sblocca Italia" dalla L. 164 dell'11.11.2014. Approvazione del P.G.T. comunale. Art. 2.6. NTA del Piano delle Regole. Illogicità della classificazione. Eccesso di potere. Sviamento. Sproporzionalità . Manifesta ingiustizia. Disparità di trattamento). Si contesta l'omesso pronunciamento in merito al motivo n. VIII del ricorso di primo grado (pagg. 29-32) diretto avverso lo strumento urbanistico di pianificazione comunale, nella parte in cui la destinazione "turismo" è stata, in maniera del tutto opinabile, scissa in ulteriori sottocategorie, ovvero: "alberghi (hotel)", "residenze turistico-alberghiere (RTA)", "motel", "villaggi turistici", "campeggi", "aree di sosta", "attività ricettive non alberghiere", in violazione del quadro normativo di riferimento vigente, nazionale e regionale, così non consentendo un utilizzo della struttura capace di adattarsi alla sua conformazione, e discriminando il comparto rispetto ad altri: il Comune di (omissis) ha infatti (nuovamente) impresso al complesso immobiliare Sa. Gi. un'esclusiva destinazione d'uso a Residenza Turistica Alberghiera, mentre a simili comparti viene riconosciuta come assentibile la destinazione a C.A.V. o quella residenziale, o comunque l'equipollenza tra tali soluzioni; con conseguente ingiustificata disparità di trattamento tra situazioni analoghe. II. Violazione e falsa applicazione dell'art. 34 c.p.a. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 116 e 277 c.p.c. Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia. IX motivo di ricorso (Confisca per asserita lottizzazione abusiva. Rimessione alla Grande Chambre (C.E.D.U., art. 7; Prot. C.E.D.U. n. 1, art. 1; l. 28 febbraio 1985, n. 47, artt. 19, 20; d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, co. 2). Si censura la sentenza gravata per l'omessa pronuncia in merito al IX motivo di ricorso proposto, per quanto attiene alle censure mosse in tema di rapporti tra procedimento penale e confisca nelle ipotesi di lottizzazione abusiva (motivo IX, pag. 32-34 del ricorso). III. Error in iudicando. Travisamento. Eccesso di potere per difetto di motivazione. Violazione di legge. Artt. 17 e 28 L. 1150/1942. Decadenza degli obblighi discendenti dal Piano di Lottizzazione. Estinzione del vincolo a R.T.A. della convenzione di lottizzazione. Termine quinquennale di validità . Intervenuta prescrizione dell'obbligazione di facere. Eccesso di potere. Travisamento dei presupposti in fatto e in diritto. Carenza di istruttoria. Illogicità manifesta. Si contesta la pronuncia di primo grado ove essa ritiene ancora pienamente valida ed efficace la convenzione sottoscritta nel 1993, senza tuttavia fornire adeguata motivazione sul punto. IV. Error in iudicando. Omessa pronuncia. In ogni caso. Difetto di motivazione. Travisamento. Violazione e falsa applicazione art. 30 DPR 380/2001. Eccesso di potere per sviamento. Illogicità . Contraddittorietà . Erronea rappresentazione della situazione. Violazione dei principi di legalità, buon andamento e proporzionalità dell'azione amministrativa. Violazione del principio di affidamento. Si afferma che la sentenza appellata ha affrontato in maniera superficiale il tema dell'affidamento, omettendo di pronunciarsi nel merito della censura sollevata nel ricorso di primo grado, che evidenzia anche il difetto di proporzionalità, adeguatezza, coerenza, non contraddizione tra i provvedimenti paventati nell'ordinanza e quelli alternativi disponibili, di mera natura pecuniaria. V. Error in iudicando. Travisamento. Difetto di motivazione. Violazione e falsa applicazione art. 30 DPR 380/2001. Erronea rappresentazione della situazione. Violazione dei principi di legalità, buon andamento e proporzionalità dell'azione amministrativa. Misura repressiva non adottata nei confronti dell'intero complesso immobiliare. Notifica solo ad alcuni proprietari. Disparità di trattamento. Si sostiene che è parimenti errato, tautologico, oltre che contraddittorio e privo di qualsivoglia motivazione il passaggio della sentenza appellata con il quale è stato respinto il terzo motivo di ricorso, concernente la disparità di trattamento perpetrata dal Comune di (omissis) nei confronti dei proprietari delle unità immobiliari, posto che solo ad alcuni di essi (non a tutti) è stata notificata l'ordinanza impugnata con contestuale obbligo di riconsegna delle chiavi, pena la confisca dell'immobile (ad alcuni, che vi hanno ottenuto la residenza anagrafica, non è stato richiesto od ordinato nulla); da cui l'impossibilità di prospettare, sia pure pro futuro, l'inquadramento della fattispecie come lottizzazione abusiva, che postula una necessaria unitarietà, anche in punto trattamento sanzionatorio. VI. Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 34 c.p.a. Violazione e falsa applicazione degli artt. 113, 116 e 227 cpc. Difetto di motivazione. Travisamento. Obbligo di partecipazione procedimentale anche in caso di provvedimento sanzionatorio e vincolato. Vengono dedotte plurime violazioni dei principi partecipativi e di contraddittorio, non prese in considerazione dal giudice di primo grado. VII. Omessa pronuncia. Violazione e falsa applicazione dell'art. 34 c.p.a. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113 116 e 277 c.p.c. Difetto di motivazione. Contraddittorietà . (Incompetenza. Eccesso di potere. Sviamento. art. 28 l. 1150/1942 - artt. 3 e ss. l.r 14/84; art. 32 l. 142/90. Convenzione di lottizzazione approvata con delibera di Giunta Comunale. Attribuzione Consiglio comunale. Illegittimità ). Si sostiene che è rimasta priva di trattazione la censura del vizio di incompetenza sollevato dagli odierni appellanti con il I motivo di ricorso, con il quale è stata censurata l'illegittimità dell'iter procedimentale, in quanto la seconda bozza di convenzione di lottizzazione è stata approvata dalla Giunta comunale, in aperto contrasto con un quadro normativo chiaro ed inequivocabile che demanda al Consiglio Comunale siffatta attribuzione, talché si deduce qui anche un profilo di nullità della deliberazione in questione. Sul punto la sentenza si appalesa contraddittoria laddove, da un lato, afferma che la convenzione di lottizzazione deve ritenersi ancora valida ed efficace; dall'altro respinge il motivo di ricorso per tardività dell'impugnativa. VIII. Omessa pronuncia. Difetto di motivazione. Travisamento. Violazione e falsa applicazione di legge dell'art. 34 c.p.a. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 116 e 277 c.p.c. (Violazione di legge. Insussistenza dei requisiti per la gestione unitaria della R.T.A. Convenzione. Parcellizzazione e vendita frazionata assentite dal Comune. Art. 30 DPR n. 380/01. Difetto dei presupposti. L.R. 12/1997. L.R. 15/2007. D.g.r. 22 dicembre 2010 n. 9/1062. Eccesso di potere. Macroscopico travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Contraddittorietà . Illogicità manifesta. Classificazione provinciale. Impossibilità R.T.A.) (Insussistenza dei requisiti per la gestione unitaria della R.T.A. Convenzione. Parcellizzazione e vendita frazionata assentite dal Comune. Art. 30 DPR n. 380/01. Difetto dei presupposti. L.R. 12/1997. L.R. 15/2007. D.g.r. 22 dicembre 2010 n. 9/1062. Eccesso di potere. Macroscopico travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Contraddittorietà . Illogicità manifesta. Classificazione provinciale. Impossibilità R.T.A.). Si contesta l'argomentare del giudice di primo grado che ha liquidato i motivi n. VI e VII del ricorso di primo grado con il mero richiamo a pronunce relative a casi solo apparentemente simili, inferendone conclusioni del tutto incompatibili con la specifica vicenda in esame, in cui si deduce che proprio gli atti di provenienza delle unità immobiliari di proprietà degli odierni appellanti, nonché la conformazione e la strutturazione del comparto immobiliare Sa. Gi. sono ex se e per conformazione a provvedimenti comunali illegittimi, incompatibili con una gestione unitaria. Si sostiene inoltre che il Tar ha omesso di pronunciarsi in merito all'istanza istruttoria avente ad oggetto proprio una verificazione "volta ad accertare le caratteristiche obiettive del comparto immobiliare interessato dai provvedimenti impugnati, la compatibilità dello stesso e della relativa struttura ed assetto proprietario con una gestione unitaria, nonché, se possibile, quali sarebbero gli interventi da effettuarsi, e i relativi costi per garantire una gestione unitaria del complesso". Ciò inficia ulteriormente la sentenza, priva di motivazione anche quanto alla mancata ammissione dell'istruttoria richiesta, la quale avrebbe sicuramente evidenziato che lo stato dei luoghi come disceso dalla convenzione e dalla conformazione giuridica delle servitù e diritti reali sul sito e sulle parti comuni a RTA e residenze in villini, a tacer d'altro, rende impossibile l'accesso all'accreditamento come struttura ricettiva con una destinazione turistico-alberghiera. 2. Con sentenza n. 4863/2024, deliberata all'esito della stessa udienza alla quale ai fini di una trattazione congiunta era chiamato il presente appello, la Sezione (accogliendo l'appello proposto da altri proprietari di appartamenti presenti all'interno del complesso residenziale e turistico denominato "Sa. Gi.", posto nel territorio comunale di (omissis)) ha annullato il provvedimento n. 1560/2015 che forma oggetto anche del presente giudizio. Il Collegio aderisce alle statuizioni espresse in detta pronuncia nei termini di seguito specificati. 3. Occorre preliminarmente esaminare il terzo motivo di appello con il quale si contesta la pronuncia di primo grado ove essa ritiene ancora pienamente valida ed efficace la convenzione sottoscritta nel 1993. Il motivo è infondato. Come statuito nella citata pronuncia della Sezione n. 4863/2024: "Nel 1993 veniva definitivamente approvato il piano attuativo relativo al comparto sito in (omissis) ed azzonato come D4, meglio individuato come P.L. n. 25, in località Sa. Gi.. Nella zona in esame era ammessa, previa approvazione di piano esecutivo, la realizzazione di strutture per complessivi 20.000 mc. a volumetria definita, dei quali il 65% con destinazione alberghiera, il 30% con destinazione residenziale ed il 5% con destinazione commerciale. In esecuzione dei provvedimenti approvativi del piano attuativo veniva stipulata Convenzione urbanistica 25 maggio 1993 n. 44363 (rep. Notaio Pa.) tra il Comune di (omissis) ed i lottizzanti Soc. An. To. Li. Im. & Tu. s.r.l., Soc. Tu. del Ga. s.r.l., Gi. On. e Al. Pa.. L'art. 12/a della convenzione urbanistica contemplava un vincolo di destinazione sugli edifici con destinazione alberghiera ed in particolarestatuiva che "i lottizzanti si impegnano a mantenere a destinazione turistico- alberghiera gli immobili edificandi nel comparto ed evidenziati con la simbologia "X" (contornata in rosso) nella planimetria 1-A allegata alla presente convenzione sub "F", debitamente controfirmata dalle parti" e statuiva altresì che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale". In esecuzione della Convenzione urbanistica veniva rilasciata concessione edilizia, avente ad oggetto l'edificazione di "albergo residenziale", e veniva rilasciata la licenza di pubblico esercizio con classificazione "categoria 4 stelle" alla Immobiliare Sa. Gi. s.r.l., relativa ad "albergo residenziale di 97 unità abitative". Negli anni sono stati perfezionati svariati atti traslativi della proprietà con intestazione a vari soggetti di unità immobiliari all'interno delle strutture, aventi destinazione di residenza turistica alberghiera. Tutti gli atti traslativi hanno sempre contemplato il richiamo alla convenzione urbanistica di cui all'atto 25.05.93 n. 44363 rep. notaio Pa., rendendo pertanto edotti i singoli acquirenti della esistenza del vincolo di destinazione turistico-alberghiera. Anzi, gli atti traslativi richiamavano il "Regolamento del Villaggio Turistico", qualificando la struttura come "Albergo residenziale", con ogni onere connesso alla specifica destinazione della struttura. I predetti atti traslativi hanno dunque sistematicamente individuato le unità immobiliari oggetto di compravendita quali unità "facenti parte del complesso denominato Villaggio Turistico Albergo Residenziale Sa. Gi.", con contestuale indicazione anche dell'obbligo di rispettare l'annesso Regolamento del Villaggio Turistico Albergo Residenziale Sa. Gi., che ribadiva la natura dell'immobile quale residenza turistico-alberghiera. L'art. 27 del Regolamento precisava che "il condominio (omissis) nasce come albergo residenziale e come tale è strutturato per la locazione degli appartamenti. I proprietari che volessero utilizzare tale servizio dovranno concordarne di volta in volta il costo con la società digestione". Riassumendo, è stato pacificamente dimostrato che: a) l'edificazione del complesso Sa. Gi. venne autorizzato nel 1993 solo ed in quanto veniva edificata una struttura destinata come RTA (residenza turistica alberghiera) con un indice edificatorio assai superiore rispetto a quello previsto per l'edificazione ad uso residenziale; b) la convenzione urbanistica del 1993, collegata al piano di lottizzazione, richiamava la disciplina propria delle RTA, imponeva tale destinazione e faceva obbligo ai lottizzanti (e ai loro aventi causa) di destinare le strutture a quello scopo; c) la concessione edilizia rilasciata nel 1994 confermava tale destinazione funzionale; d) tutti gli atti di acquisto (originari o successivi delle unità immobiliari) confermavano la destinazione turistico ricettiva delle unità immobiliari e richiamavano il contenuto della convenzione urbanistica e della concessione edilizia. Ne deriva che la modifica della destinazione da alberghiera in residenziale deve ritenersi illegittima. ...la destinazione turistica ricettiva è categoria funzionale del tutto diversa ed autonoma rispetto alla destinazione residenziale. La giurisprudenza ha precisato che "la possibilità di vincolare in tal modo la destinazione d'uso di un immobile emerge anche dall'art 23 ter n. 1-bis del D.P.R.380/01, che prevede la destinazione la turistico-ricettiva distinguendola da quella residenziale, così disciplinandola quale destinazione urbanistica avente funzionalità differente da quella residenziale" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 agosto 2022, n. 6824). .... nel caso in esame, non viene in rilievo alcun obbligo soggetto ad un termine di adempimento, bensì la destinazione impressa all'area, la quale resta attuale e vigente sino alla sua modifica da parte di un nuovo strumento urbanistico che la regoli diversamente. In giurisprudenza si afferma che "il piano particolareggiato (a voler ritenere ascrivibile a tale genus anche il Piano di lottizzazione) diventa sì inefficace decorso il termine di dieci anni, ma rimane fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zonastabiliti dal piano stesso (art. 17 l. n. 1150 del 1942). La disposizione esprime il principio secondo cui la maglia pianificatoria delineata dal Piano...rimane comunque efficace sino all'adozione di un diverso strumento urbanistico attuativo, quand'anche il piano che la prevede non possa più trovare attuazione per decorso del tempo. In altra prospettiva, la scadenza decennale di un piano riguarda le sole previsioni vincolistiche, ferma restando l'efficacia delle previsioni propriamente pianificatorie" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 aprile 2021, n. 3257). In conformità ai principi innanzi ricordati, nello specifico, la convenzione urbanistica prevedeva che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale" (art. 12/a). ....la presenza del vincolo di destinazione era conosciuta, o poteva essere conosciuta utilizzando l'ordinaria diligenza, anche dagli aventi causa dei costruttori, che risultano aver sempre rispettato l'obbligo di richiamare gli effetti della convenzione in ogni atto di vendita. Non rileva, poi, che il mutamento della destinazione d'uso sia stato realizzato con o senza l'esecuzione di opere. Sul punto, come più volte statuito in giurisprudenza, va ricordato che "il mutamento della destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, ove realizzato senza permesso di costruire, è sanzionabile con la misura ripristinatoria. (Consiglio di Stato, sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). La circostanza che la modifica non abbia comportato la realizzazione di opere edilizie è dunque irrilevante, in quanto l'art. 23-ter D.P.R. 380/01 definisce come mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale(Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). Ai sensi dell'art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, inoltre, il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, costituisce una variazione essenziale rispetto al titolo edilizio" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6823)". 4. Occorre, quindi, esaminare il quarto, il quinto e l'ottavo motivo di appello con i quali si lamenta la violazione dell'art. 30 del d.p.r. 380/2001. I motivi possono trovare accoglimento nei termini di seguito esposti. Come statuito nella citata pronuncia della Sezione n. 4863/2024: "L'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che: "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio". La norma disciplina due diverse ipotesi di lottizzazione abusiva. Ricorre la lottizzazione abusiva cd. "materiale" con la realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione. Si ha invece lottizzazione abusiva "formale" o "cartolare" quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne sono già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita - o altri atti equiparati - del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l'ubicazione e la previsione di opere urbanistiche, o per altri elementi, evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio. L'interesse protetto dalla norma è quello di garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell'amministrazione. Avuto riguardo al caso di specie, si osserva che la giurisprudenza ha ritenuto che configura il reato di lottizzazione abusiva anche la modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il frazionamento di un complesso immobiliare, di modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione (cfr. Corte Cass. n. 38799 del 16/9/2015). Tenuto conto della specificità del presente giudizio deve anche precisarsi che ciò che qualifica la lottizzazione abusiva è la trasformazione complessiva di un determinato lotto in violazione della destinazione a suo tempo impressa dall'amministrazione; invero, l'art. 30 cit. sanziona la trasformazione globale di un'area e non il singolo intervento edilizio, differenziandosi dagli artt. 31 e ss. che riguardano, invece, l'abuso relativo alla singola opera abusiva; ne deriva che la lottizzazione abusiva dovrebbe ragionevolmente essere contestata a tutti i proprietari dell'area interessata dall'illegittima trasformazione e non solo ad alcuni di essi, proprio perché ciò che viene in rilievo è l'illegittima destinazione impressa all'intera area - o, nel caso di specie, all'intera struttura originariamente destinata ad albergo residenziale - in spregio agli strumenti urbanistici. Alla luce di tale precisazione emerge una prima criticità del provvedimento impugnato nel momento in cui vi si prospetta, per la medesima struttura di cui si contesta la modifica dell'originaria destinazione d'uso, una violazione diretta solo a taluni proprietari e non ad altri, pur titolari di unità abitative facenti parte dell'originaria struttura turistica. Al riguardo, non appare convincente il rilievo del Comune volto a differenziare la posizione di coloro che avrebbero "confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a destinazione turistico-alberghiera conferendone la gestione a soggetto qualificato". Invero, tale discrimine, che tra l'altro non oblitera l'originaria violazione posta in essere da coloro che hanno fruito delle unità immobiliare a scopo abitativo in violazione della disciplina dell'area, non appare idoneo a giustificare l'evidenziata anomalia. La contestazione, diretta solo ad alcuni proprietari, si rivela invece contraddittoria, riflettendosi, per l'effetto, sulla tenuta dei presupposti del provvedimento, che avrebbe dovuto interessare - nel momento in cui si accerta la violazione di cui all'art. 30 cit., da ritenersi riferita alla struttura globalmente intesa, e non un singolo abuso relativo a ciascuna unità abitativa - tutti i soggetti proprietari delle unità immobiliari del complesso turistico nelle medesime condizioni degli appellanti. Anche la considerazione globale dei fatti che caratterizzano la fattispecie in esame e di seguito illustrati portano ad incrinare in modo decisivo la prospettazione comunale facente leva sull'art. 30 cit, ferma l'eventuale integrazione di singole violazioni alla stregua degli art. 31e ss. del TU Edilizia. In particolare, deve essere posto in evidenza che la stessa amministrazione negli anni 2000, 2005 e 2010 ha rilasciato ai soggetti gestori dell'albergo licenze alberghiere incompatibili con la gestione unitaria a RTA di tutto il complesso, segnatamente per otto camere doppie, sedici suites e diciotto appartamenti, a fronte di una pretesa destinazione alberghiera che avrebbe dovuto coinvolgere la totalità delle novantasette unità (vedasi al riguardo anche la relazione comunale da ultimo depositata in giudizio, che confermatale circostanza e dove si dà atto del fatto che le licenze sono state "rimodulate" dalla medesima Amministrazione Comunale, con il rilascio di titoli per 8 camere doppie, 16 suite e 18 appartamenti). In definitiva, risulta confermato che, da anni, il complesso Sa. Gi. non è stato gestito come RTA unitaria. Non solo, risulta che il Comune di (omissis) ha percepito per anni ICI e IMU sul presupposto della natura di "appartamenti residenziali" delle unità abitative; ha applicato la tassa per lo smaltimento dei rifiuti come "residenze"; ha addirittura concesso la residenza a taluni proprietari negli appartamenti. Tali circostanze stridono in modo insuperabile con la successiva contestazione per cui l'utilizzo residenziale di talune unità immobiliare - ma, inspiegabilmente, non di tutte, come innanzi già sottolineato - integrerebbe un'ipotesi di lottizzazione abusiva. Non solo, in base alle circostanze innanzi riferite è possibile finanche ipotizzare che il mancato funzionamento della struttura turistica nella sua consistenza originaria sia stato, negli anni, indirettamente incoraggiato dalla stessa amministrazione. In tale prospettiva deve anche osservarsi che, a monte delle predette circostanze, non appare in sintonia con la destinazione recettiva del complesso, unitariamente considerato, l'avvenuto frazionamento in singole unità intestate a distinti proprietari, anche in tal caso avallato dal Comune, tenuto conto della giurisprudenza per cui "l'unitarietà della struttura e dell'attività gestionale delle residenze turistico-alberghiere appare del tutto incompatibile con qualsiasi ipotesi di frazionamento della proprietà del complesso immobiliare in cui esse operano (cfr.Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29 maggio 2008, n. 2584)" (Cons. St. 998 del7.2.2020). Le circostanze che precedono fanno emergere, sotto i diversi profili innanzi delineati, l'ambiguità dell'atteggiamento comunale in riferimento alla struttura per cui è causa, minando i presupposti della contestazione portata dal provvedimento impugnato. Come anticipato, questa appare invece contraddittoria e, in ogni caso, sorretta da una motivazione deficitaria, siccome non spiega, in concreto, le ragioni della contestazione mossa ai sensi dell'art. 30 cit., non potendosi a tal fine ritenere sufficiente il mero richiamo a precedenti giurisprudenziali, stanti le peculiarità del caso di specie innanzi evidenziate". 5. L'accoglimento dell'appello sotto il profilo che precede rende superfluo l'esame delle ulteriori censure dedotte con l'appello. Per quanto si è sopra rilevato, scrutinando il terzo motivo di appello, resta non di meno confermato il carattere abusivo, e quindi illecito, delle avvenute modifiche alla destinazione d'uso prevista, da ciò conseguendone la necessità che, all'indomani della presente decisione, il Comune ponga in essere un'attività amministrativa che valga a rimuovere l'illecito ovvero i suoi presupposti, in ogni caso ripristinando la legalità . Ad una valutazione complessiva della vicenda le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, accoglie l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, annullando l'atto impugnato. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Pascuzzi - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4817 del 2019, proposto da L'U. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Be. Gr., Gi. Gr., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro Comune di Rimini, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fe. Gu., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Prima n. 996/2018. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Rimini; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2024 il consigliere Paolo Marotta e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale; Viste le conclusioni delle parti. 1. La società L'U. s.r.l. (di seguito nel presente provvedimento, anche società appellante o società ) ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il T.a.r. per l'Emilia-Romagna, sez. I, ha dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo del giudizio, avente ad oggetto la domanda di accertamento della congruità delle somme richieste dal Comune di Rimini (Euro 91.531,67), a titolo di monetizzazione delle aree da destinare a standard (parcheggio). 2. La società appellante ha realizzato un intervento edilizio nel territorio del Comune di Rimini, in via (omissis) (angolo via (omissis)), in forza del permesso di costruire del 2 novembre 2009 prot. 170935. In relazione all'intervento edilizio in questione, il Comune di Rimini ha chiesto il pagamento di un contributo di costruzione quantificato in Euro 65.890,29 (di cui Euro 11.209,85 per oneri di urbanizzazione primaria, Euro 22.417,53 per oneri di urbanizzazione secondaria ed Euro 32.262,91 per costo di costruzione). 2.1. La legge regionale n. 47/1978 (art. 37) e l'art. 23.1.2 delle N.T.A. del PRG prevedono per gli interventi diretti di nuova edificazione uno standard minimo di aree da cedere per i parcheggi pubblici di 5 mq. per abitante; in luogo della cessione, è possibile la c.d. "monetizzazione" delle aree da cedere. Secondo la prospettazione dell'appellante, nell'intervento edilizio in questione, la superficie delle aree da cedere per standard (parcheggi pubblici) era di mq. 72,49. 2.2. Nel permesso di costruire era indicato l'importo, pari ad Euro 91.531,67, richiesto dal Comune di Rimini, a titolo di monetizzazione delle aree destinate a parcheggio (standard), in caso di mancata cessione delle stesse. Con nota del 25 novembre 2010, la società aveva contestato la ragionevolezza della pretesa, evidenziando che la cessione ha ad oggetto aree già sfruttate dall'intervento edificatorio e come tali prive di residua capacità edificatoria. Il Comune di Rimini, con la nota del Direttore dell'Ufficio Patrimonio del 22 dicembre 2010, aveva giustificato il fondamento giuridico della pretesa della Amministrazione, richiamando l'art. 37 del T.U. n. 327/2001, a mente del quale l'indennità di espropriazione di un'area edificabile è calcolata in base al valore venale, tenendo conto delle possibilità legali ed effettive di edificazione. 2.3. Con ricorso notificato il 3 ottobre 2011 e depositato il 12 ottobre successivo, la società L'U. s.r.l. ha adito il T.a.r. per l'Emilia Romagna, chiedendo di accertare e dichiarare che la monetizzazione delle aree destinate a parcheggio, effettuata dalla Amministrazione comunale, era erronea e che la somma richiesta a tale titolo (Euro 91.531,07) era illegittima e doveva essere rideterminata in relazione al valore di mercato di terreni non edificabili. 2.4. In via istruttoria, la società aveva chiesto (nel giudizio di primo grado) l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio, finalizzata a determinare il valore di mercato delle aree da cedere. 2.5. In particolare, nel ricorso di primo grado, la società aveva dedotto: violazione del principio di equivalenza tra obbligazioni reali e obbligazioni pecuniarie alternative; eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità e del giusto mezzo; manifesta ingiustizia. In sintesi, la società, pur non contestando l'astratta doverosità della prestazione pecuniaria, aveva evidenziato che le superfici da cedere sono porzioni di terreno individuate nel lotto oggetto dell'intervento edilizio; esse concernono quindi un terreno la cui capacità edificatoria è stata già conteggiata nel calcolo del volume assentibile; dette porzioni di terreno, essendo asservite all'edificazione, sarebbero divenute prive di capacità edificatoria. Rispetto alla obbligazione del privato costruttore di cessione delle aree destinate a standard, la monetizzazione delle aree costituirebbe giuridicamente una prestazione alternativa, in cui la facoltà di scelta è rimessa dal creditore (il Comune) al debitore (il costruttore). In altri termini, nella "monetizzazione" delle aree da cedere, il Comune avrebbe dovuto tener conto del fatto che le aree in questione avevano perduto la relativa capacità edificatoria. La società aveva contestato l'argomentazione indicata dall'Amministrazione (l'onere economico che il Comune dovrebbe affrontare in una procedura espropriativa per realizzare i parcheggi, sarebbe pari al valore venale dei terreni edificabili da acquisire nella medesima zona), evidenziando che la destinazione di un'area a parcheggi o alla viabilità pubblica è una tipica prescrizione urbanistica conformativa; la espropriazione di aree per la realizzazione di parcheggi non comporterebbe, quindi, la necessità di pagare indennità di espropriazione corrispondenti al valore venale di terreni edificabili. 2.6. Il giudice di primo grado, in accoglimento della eccezione sollevata dal Comune di Rimini, ha dichiarato il ricorso inammissibile, per mancata impugnazione del permesso di costruire, nel quale erano specificamente indicati gli importi relativi alla contestata monetizzazione; il giudice di primo grado ha condannato la ricorrente anche al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in Euro 3.000,00. 3. Con il primo motivo dell'atto di appello, la società appellante deduce: violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 30 c.p.a. e dei principi generali in materia di atipicità delle azioni e dell'azione di accertamento. 3.1. La società appellante richiama il principio di atipicità delle azioni giudiziarie nel processo amministrativo; a supporto della sua tesi, fa rilevare che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 253/2014 si è pronunciato a favore della ammissibilità dell'azione di accertamento in materia di monetizzazione degli standard urbanistici (in realtà, nella predetta sentenza, il Consiglio di Stato ha reputato ammissibile l'azione di accertamento, in quanto presentata contestualmente all'azione di annullamento; non vi era dunque un aggiramento del termine decadenziale previsto per la domanda di annullamento). 3.2. La società appellante ritiene che la monetizzazione degli standard non sia esercizio di potestà pubblica e che il relativo atto non abbia natura provvedimentale stricto iure; a suo giudizio, l'esercizio del potere discrezionale della p.a. concerne l'an della monetizzazione, ma non il quantum. 3.3. A sostegno di quanto dedotto, fa rilevare che nessuno degli organi del Comune è intervenuto nella monetizzazione degli standard. La monetizzazione sarebbe stata effettuata dall'Ufficio Acquisti del Comune di Rimini e sarebbe un'esternazione atipica del funzionario comunale, che rinvia semplicemente alle stime dei valori dei terreni edificabili ai fini ICI. A sostegno della ammissibilità dell'azione di accertamento, richiama i principi enunciati dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, nella sentenza n. 15/2011. 4. Con il secondo motivo di appello, la società appellante contesta le conclusioni della sentenza Consiglio n. 253/2014 (che pure aveva richiamato, ai fini della ammissibilità dell'azione di accertamento). 4.1. In primo luogo, ribadisce quanto sostenuto in primo grado, ossia che il terreno da cedere, in quanto facente parte di un lotto totalmente sfruttato sotto il profilo edificatorio, non può considerarsi edificabile. Sostiene che non è mai stato contestato ex art. 64, 2° c., c.p.a. che il rilascio del titolo edilizio abbia "consumato" la dotazione edificatoria, cosicché l'area da cedere avrebbe perduto la (originaria) capacità edificatoria. 4.2. La società appellante fa rilevare che, a norma della legge regionale n. 47/1978 (artt. 46, 9° c.; 13, 2° c.) i cespiti finanziari derivanti dalle monetizzazioni debbono essere utilizzati per attuare le previsioni generali del PRG/Piano dei Servizi, le quali sono previsioni urbanistiche effettuate in sede di zonizzazione dell'intero territorio comunale. Secondo la tesi della società appellante, in base alla legge regionale, la monetizzazione delle aree da cedere non implicherebbe la costituzione di un vincolo espropriativo "lenticolare", ossia nella medesima zona nella quale è stato realizzato l'intervento edilizio. In buona sostanza, sostiene che il vincolo in questione non abbia natura espropriativa, ma natura conformativa, con la conseguenza che sarebbe errato far riferimento, ai fini del quantum dovuto a titolo di monetizzazione degli standard, al valore venale delle aree nella medesima zona nella quale è stato realizzato l'intervento edilizio. 5. Si è costituito in giudizio il Comune di Rimini, contestando sia in rito che in merito le deduzioni di parte appellante. 6. Con memoria di replica, depositata in giudizio in data 1° febbraio 2024, la società appellante ha insistito nell'accoglimento delle conclusioni formulate nell'atto di appello. 7. All'udienza pubblica del 22 febbraio 2024 il ricorso è stato trattenuto in decisione. 8. L'atto di appello è infondato sia in rito, che nel merito. 9. Preliminarmente va ricordato che l'art. 31 c.p.a. contempla due diverse azioni di accertamento, individuate dal legislatore nel giudizio sul silenzio-inadempimento (che poi si conclude con la condanna dell'amministrazione a provvedere) e nell'azione volta a dichiarare la nullità del provvedimento amministrativo ai sensi dell'art. 21 septies l. 241/1990 (art. 31, comma 4, c.p.a.). La giurisprudenza amministrativa, a partire dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, 29/7/2011, n. 15, si è evoluta nel senso di ammettere l'azione generale di accertamento anche a tutela di posizioni di interesse legittimo e anche in ipotesi diverse da quelle espressamente contemplate (c.d. atipicità delle azioni), ma ciò a patto che la stessa risulti "... necessaria al fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate". Ed ivero ciò emerge chiaramente da quanto previsto all'art. 34 c.p.a. ove si fa riferimento alla necessità di adottare le "misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio". In altre parole, nel processo amministrativo, l'azione di accertamento è ammessa, in diretta applicazione del principio di effettività della tutela, là dove manchino, nel sistema, azioni tipizzate e e strumenti giurisdizionali a protezione di interessi certamente riconosciuti dall'ordinamento (Consiglio di Stato, sez. V, 15 marzo 2024 n. 2508; sez. III, 26/5/2023, n. 5207; 7/4/2021, n. 2804; sez. IV, 7/1/2019, n. 113). L'azione di accertamento non può tuttavia essere strumentalmente utilizzata per eludere il termine decadenziale previsto per la domanda di annullamento. 9.1. Recentemente, questa Sezione (sentenza 19 gennaio 2023 n. 659) ha enunciato alcuni principi in materia di monetizzazione degli standard, che il Collegio ritiene di dover confermare anche in questa sede; nella predetta decisione è stato condivisibilmente evidenziato quanto segue: "In ogni caso fanno parte integrante del titolo edilizio non solo le previsioni delle opere a scomputo ma anche quelle pertinenti alla monetizzazione. Secondo l'orientamento prevalente del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1436 del 27 febbraio 2020, n. 557 del 18 gennaio 2021, n. 32 8 gennaio 2013 § 6, n. 1013 del 16 febbraio 2011), "...esiste una differenza ontologica tra l'istituto giuridico della monetizzazione e quello relativo al contributo di costruzione (cfr. Cons Stato, sez. V, n. 4417 del 2016; sez. IV, n. 1820 del 2014 e n. 6211 del 2013)." Il primo attiene, infatti, alla disciplina del territorio e dunque può essere attratto nelle previsioni di cui all'art. 12, comma 3, T.U. edilizia e della corrispondente normativa regionale. In sostanza, la monetizzazione è un elemento essenziale del perfezionamento e dunque della validità del titolo edilizio, mentre il contributo di costruzione opera sul piano dell'efficacia all'interno del rapporto paritetico fra Amministrazione e contribuente. Viceversa, in relazione al secondo, si rileva che gli atti con i quali l'Amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione di cui all'art. 16 t.u. edilizia, hanno natura privatistica (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2018), con la conseguenza che l'obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità dello stesso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 6202 del 2019; n. 5412 del 2015). La monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce, invece, al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all'interno della specifica zona di intervento e deve considerare la vicenda edilizia così come concretamente si è manifestata. Pertanto le disposizioni contenuto nel titolo edilizio relative alla monetizzazione implicano un apprezzamento discrezionale da parte dell'amministrazione sicché sono attratte nell'ambito del regime impugnatorio dei provvedimenti amministrativi". Ancora più di recente, Consiglio di Stato, sez. IV, 17 maggio 2023, n. 4908, ha affermato che la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard urbanistici non ha la medesima natura giuridica del contributo di costruzione, atteso che non è una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell'art. 23 Cost.; inoltre, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l'area interessata all'imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all'interno della specifica zona di intervento; pertanto, l'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione non esclude che sia dovuta anche la cessione di aree a standard. 9.2. Coerentemente con le coordinate ermeneutiche sopra richiamate, il Collegio deve, in primo luogo, rilevare che, nel caso di specie, l'importo dovuto dalla società, a titolo di monetizzazione degli standard, era stato indicato nel permesso di costruire, con la conseguenza che la società avrebbe dovuto impugnare il predetto titolo edilizio e sotto tale, e già dirimente, aspetto la sentenza impugnata merita conferma. Nel permesso di costruire del 2 novembre 2009 (prot. 173905) era infatti specificamente disposto quanto segue: "Contestualmente alla comunicazione di fine dei lavori o alla richiesta di abitabilità /agibilità, e comunque entro il termine di validità del Permesso di Costruire, andrà corrisposto il versamento di Euro 91.531,67 pari all'intero importo, corrispondente alla monetizzazione dei parcheggi pubblici (art. 37 della LR 47/78 e successive modifiche ed integrazioni), come garantito dalla fidejussione bancaria della Banca Malatestiana C.C. n° 6202 del 01/10/09". 9.3. Non avendo impugnato il permesso di costruire nel prescritto termine decadenziale, la società appellante non può censurare il contenuto dispositivo del predetto provvedimento ricorrendo all'azione di accertamento. 9.4. Per le ragioni prima esposte, inoltre, non può trovare accoglimento l'affermazione per cui si tratterebbe di "una entrata patrimoniale ordinaria" (pagina 14 dell'appello); invero la monetizzazione sostitutiva deve rimanere distinta dal contributo di costruzione più volte richiamato nell'atto di appello e oggetto della decisione 12/2018 dell'adunanza plenaria di questo Consiglio. 10. Alla luce di quanto sino ad ora affermato non è necessario - perché il motivo è inammissibile essendo mancata l'impugnazione del provvedimento - passare all'esame del secondo motivo, motivo quest'ultimo che comunque è infondato nel merito. 10.1. Come evidenziato dal Comune di Rimini, le aree da cedere hanno perduto la capacità edificatoria, in quanto essa è stata utilizzata nell'ambito del lotto di cui fanno parte, con la conseguenza che originariamente avevano natura edificabile. 10.2. Le deduzioni di parte appellante in ordine alla possibilità per l'amministrazione comunale di realizzare "altrove" i parcheggi non sono condivisibili, oltre che sul piano giuridico, anche su quello logico; non avrebbe alcun senso prevedere l'espropriazione di aree in altre zone della città (diverse da quella nella quale è stato realizzato l'intervento edilizio), al fine di realizzare "altrove" i parcheggi di cui la società ha chiesto la monetizzazione. 10.3. Dovendo reperire le aree in questione nella medesima zona, l'amministrazione sarà tenuta a corrispondere ai soggetti espropriati un importo parametrato al valore venale dei terreni da acquisire (trattandosi di zona edificabile), in conformità a quanto disposto dall'art. 37 del T.U. n. 327/2001. 10.5. In ogni caso, non vengono indicati dalla società appellante ulteriori elementi che consentano di ritenere non congrui i valori stimati dal Comune di Rimini per l'acquisizione nella medesima zona di aree edificabili. 11. In conclusione, l'atto di appello è infondato e va respinto. 12. Le spese di giudizio, liquidate nel dispositivo sono poste a carico della società appellante secondo l'ordinario criterio della soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la società appellante al pagamento in favore del Comune di Rimini delle spese del presente grado di giudizio, liquidate in Euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. DE MASI Oronzo - Presidente Dott. STALLA Giacomo Maria - Consigliere Dott. SOCCI Matteo - Consigliere Dott. DI PISA Fabio - Consigliere Dott. BILLI Stefania - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 7175/2018 R.G. proposto da Ba.Em. , rappresentata e difesa dall'Avv. Fr.Ve. di Cesana, presso il cui studio è elettivamente domiciliata, in Roma, via (...) - ricorrente - contro Agenzia delle Entrate, in persona del procuratore speciale, rappresentata e difesa dall'Avv. Di.Fi., elettivamente domiciliata presso (...) Srl , in Roma, via (...) - controricorrente - e Regione Lazio - Direzione Ragioneria Generale Area 4 Contenzioso - intimata - e Roma Capitale - intimata - avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 4954/17/17 depositata il 9 agosto 2017; udita la relazione svolta nell'udienza pubblica del 27 marzo 2024 dal Consigliere Stefania Billi udito il P.M. , nella persona del Sostituto Procuratore Generale FATTI DI CAUSA La controversia ha ad oggetto il ricorso avverso diverse cartelle di pagamento (nn. Omissis, Omissis, Omissis, Omissis, Omissis, Omissis), riguardanti il bollo automobilistico per gli anni rispettivamente 2009, 2010, 2007, 2011, 2005 e 2006, emesse da Equitalia sud Spa (d'ora in poi intimata) nei confronti di Ba.Em. (d'ora in poi ricorrente), per le quali era stato inviato un avviso di iscrizione ipotecaria (n. Omissis), comprensiva anche del pagamento di tasse automobilistiche relative agli anni dal 2002 al 2004 e all'anno 2008, nonché il versamento dell'ICI per gli anni dal 2002 al 2011. La CTP ha accolto parzialmente il ricorso di opposizione all'iscrizione ipotecaria, con riguardo a due cartelle per le quali risultava omessa la notifica (n. Omissis e Omissis). La CTR ha confermato la pronuncia di primo grado, rigettando l'appello proposto dall'attuale ricorrente, sulla base delle seguenti ragioni: - l'ente impositore ha prodotto la copia degli avvisi di ricevimento delle cartelle di pagamento sottese all'atto di intervento nella procedura esecutiva, presso l'indirizzo dell'appellante con ricezione da parte dell'interessata e dal fratello della stessa; - la notifica è stata effettuata ai sensi dell'art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 ed essa si perfeziona con la semplice consegna, a condizione che l'avviso di ricevimento contenga la data e la sottoscrizione della persona che ha ricevuto l'atto; - nessun obbligo di allegazione delle cartelle di pagamento alle intimazioni è posto a carico dell'agente di riscossione, essendo sufficiente l'indicazione degli estremi del documento, ipotesi che si è verificata nel caso di specie; - dalla rituale notifica delle cartelle consegue l'inammissibilità delle censure riguardanti le eccezioni di prescrizione e/o di decadenza; - con riferimento alla dedotta nullità dell'iscrizione ipotecaria, dalla documentazione risulta che l'agente di riscossione è intervenuto in una procedura esecutiva immobiliare pendente innanzi al Tribunale civile di Roma per fare valere il credito in via chirografaria e derivante dal mancato pagamento delle cartelle, ma tale credito non è assistito da alcuna ipoteca. La ricorrente propone ricorso fondato su cinque motivi, la controricorrente si costituisce con controricorso, il P.G. con conclusioni scritte si è espresso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. , la violazione o falsa applicazione dell'art. 140 cod. proc. civ. e degli artt. 26, ultimo comma, e 60, lett. e) del d.P.R. n. 600 del 1973, dell'art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. , nonché in relazione all'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. , l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Si duole la ricorrente che la sentenza abbia completamente travisato il materiale probatorio in atti, in quanto le cartelle di pagamento non sono state notificate a mezzo posta, bensì con il messo comunale e, inoltre, non sono state consegnate a mani di alcuno, ma notificate per compiuta giacenza. Reclama la ricorrente che la procedura di notificazione avrebbe dovuto essere perfezionata con l'inoltro al destinatario dell'effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito presso la Casa comunale. Precisa che per le cartelle nn. Omissis, Omissis, il concessionario si è limitato a produrre la comunicazione di avvenuto deposito, ma non della sua spedizione, né della sua ricezione, mentre per la cartella n. Omissis non vi è stata alcuna produzione. Il motivo è inammissibile. Pur volendo ritenere sufficientemente perspicuo il motivo di impugnazione che include una pluralità di censure rientranti in diversi paradigmi dell'art. 360, primo comma, cod. proc. civ. senza distinguere le singole violazioni denunciate, con riferimento alla prima doglianza relativa al travisamento dei mezzi istruttori, consistente nella circostanza che le cartelle, sarebbero state notificate attraverso il messo comunale e non, come viene affermato nella sentenza impugnata, con il servizio postale, si osserva che, la ricorrente non ha provveduto a specificare quando sia stata sollevata tale eccezione, né tantomeno ad indicare se e dove la relativa documentazione sia stata prodotta in giudizio. Dalla sentenza risulta, infatti, che la ricorrente, ha contestato solamente l'omessa notifica delle cartelle e la ricorrente, oltre a quanto appena osservato, in questa sede non ha neppure provveduto a trascrivere o riprodurre il testo delle relate di notifica in contestazione. La censura, così genericamente formulata non consente, dunque, al Collegio di effettuare alcun tipo di controllo e sembra, piuttosto, volere indurre ad una rivisitazione delle valutazioni istruttorie effettuate dal giudice del merito, preclusa in sede di legittimità. Una maggiore specificità si imponeva ancor più nella specie in cui, in entrambi i gradi del merito le cartelle per cui è causa, fatte salve quelle annullate in primo grado, sono state ritenute ritualmente notificate. Buona parte della motivazione della sentenza impugnata si sviluppa, infatti, sulla validità ed efficacia della notifica effettuata dal concessionario a mezzo posta. I medesimi rilievi valgono anche per le cartelle di pagamento analiticamente richiamate nel motivo. Il motivo è inammissibile anche sotto l'ulteriore profilo che la doglianza si incentra su un'erronea percezione del fatto riguardante la notifica, il quale, al più avrebbe dovuto formare oggetto di impugnazione della sentenza per revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ. E', infine, da respingere la censura, formulata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. , sull'apparenza e contraddittorietà della motivazione. La doglianza, per come formulata sembrerebbe più essere riconducibile ad una violazione ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. , ma essa è in ogni caso da ritenere infondata, in quanto la sentenza, per come anche sopra riportato, ha fornito una motivazione adeguata e coerente con le richieste formulate nell'atto introduttivo. Giova, in ogni caso, ricordare che in tema di scrutinio di legittimità del ragionamento sulle prove adottato del giudice di merito, la valutazione del materiale probatorio - in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all'osservazione e alla valutazione del giudicante - costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della S.C. (con la conseguenza che, a seguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. , non è denunciabile col ricorso per cassazione come vizio della decisione di merito), restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (Cass. Sez. 3, n. 37382/2022, Rv. 666679 - 05). 2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. , la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 60, lett. b), del d.P.R n. 600 del 1973 e dell'art. 139, comma 2, cod. proc. civ. , nonché dell'art. 2697 cod. civ. , e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. Nello stesso motivo lamenta in relazione all'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. , l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Si duole la ricorrente che la sentenza impugnata abbia ritenuto regolarmente notificate le cartelle notificate a mani del fratello della stessa (n. Omissis, Omissis). Sostiene in proposito che anche tali cartelle siano state notificate dal messo comunale e non siano state notificate a mezzo posta con raccomandata. Il motivo è infondato. L'agenzia delle Entrate e Riscossione, odierna controricorrente, ha confermato che le cartelle da ultimo indicate sono state notificate dal messo notificatore presso la residenza della ricorrente e consegnate a Ba.Ni. che si è qualificato, fratello della stessa. Ha precisato, inoltre, che per tali cartelle è stata inviata una successiva raccomandata, come rileva dalla distinta di spedizione in atti. L'art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, così, dispone "La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: a) la notificazione è eseguita dai messi comunali ovvero dai messi speciali autorizzati dall'ufficio; b) il messo deve fare sottoscrivere dal consegnatario l'atto o l'avviso ovvero indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto; b - bis) se il consegnatario non è il destinatario dell'atto o dell'avviso, il messo consegna o deposita la copia dell'atto da notificare in busta che provvede a sigillare e su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all'originale e alla copia dell'atto stesso. Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell'atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo dà notizia dell'avvenuta notificazione dell'atto o dell'avviso, a mezzo di lettera raccomandata". Deve in proposito essere ricordato, quanto già affermato in sede di legittimità, ovvero che la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, eseguita dai messi comunali ovvero dai messi speciali autorizzati dall'ufficio, ai sensi dell'art. 60, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 600 del 1973, mediante consegna al portiere, deve essere seguita dalla spedizione della raccomandata informativa "semplice", e non con avviso di ricevimento, atteso che la lett. b-bis) dello stesso comma 1 fa riferimento alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni, trovando giustificazione tale procedura semplificata nella ragionevole aspettativa che l'atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (familiari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) che hanno con lo stesso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a tale fine (Cass. Sez. 5, n. 2377/2022, Rv. 663662 - 01). Il motivo, per le ulteriori censure, è, poi, inammissibile per le medesime ragioni svolte al punto 1 della presente motivazione, cui si fa rinvio. 3 Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. , la violazione e falsa applicazione degli artt. 76 e 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, nonché dell'art. 2697 cod. civ. , degli artt. 115, 116 cod. proc. civ. Nello stesso motivo lamenta in relazione all'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. , l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Contesta anche in questo motivo il travisamento del materiale probatorio in atti, sostenendo che nell'atto di intervento depositato dall'appellata, odierna controricorrente, risultava che il credito fosse assistito da ipoteca. Si duole dell'illegittimità dell'iscrizione ipotecaria avvenuta per Euro 5.326,26; di non avere ricevuto la preventiva comunicazione prevista dall'art. 77, comma 2 bis, del d. P.R. n. 602 del 1973, ma di avere ricevuto solo una mera intimazione di pagamento. Il motivo è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato. La sentenza impugnata, come anche sopra sinteticamente riportata, afferma che sulla dedotta nullità dell'iscrizione ipotecaria, dalla documentazione risulta che l'agente di riscossione è intervenuto in una procedura esecutiva immobiliare pendente innanzi al Tribunale civile di Roma per fare valere il credito in via chirografaria e derivante dal mancato pagamento delle cartelle, ma tale credito non è assistito da alcuna ipoteca. La ricorrente a fronte di tale precisa motivazione, per sostenere il lamentato travisamento istruttorio e consentire al Collegio un controllo circa l'esistenza di un'ipoteca, avrebbe dovuto trascrivere o riprodurre il testo dell'atto di intervento agli atti su cui è stata fondata la decisione. La doglianza circa l'illegittimità dell'iscrizione ipotecaria in quanto avvenuta per un importo inferiore a Euro 8000,00 e quella connessa relativa alla mancanza di preventiva comunicazione sono inammissibili, a fronte della sentenza impugnata che ha espressamente negato l'esistenza di un'ipoteca, poiché la ricorrente avrebbe dovuto indicare se e dove ha sollevato tale eccezione nei precedenti gradi di giudizio. Deve, poi, essere ribadito che la violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all'apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (Cass. Sez. 1, n. 4699/2018, Rv. 647432 -01, Sez. 3, n. 30173/2021, Rv. 662643 - 01). Tali ultimi profili, per quanto finora esposto, esulano dal caso di specie e, pertanto, anche tale doglianza è inammissibile. E', infine, da respingere la censura, formulata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. , sull'apparenza e contraddittorietà della motivazione. La doglianza, per come formulata sembrerebbe più essere riconducibile ad una violazione ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. , ma essa è in ogni caso da ritenere infondata, in quanto la sentenza, per come anche sopra riportato ha fornito una motivazione adeguata e coerente con le richieste formulate nell'atto introduttivo. Si rilevano, in ogni caso profili di inammissibilità di tale ultima doglianza per la quale si richiamano le osservazioni già svolte al punto 1 della presente motivazione. 4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. , la violazione e falsa applicazione dell'art. 11 della l. 30 dicembre 1992, n. 504, dell'art. 1, comma 161, della l. 27 dicembre 2007, n. 296 e dell'art. 2948, n. 4, cod. civ. Nello stesso motivo lamenta in relazione all'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. , l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto come tardive le eccezioni sollevate in merito alla decadenza o prescrizione della pretesa impositiva relativa alla cartella n. (Omissis). 5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta, in relazione all'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. , la violazione e falsa applicazione dell'art. 5, comma 51, del D.L. 30 dicembre 1982, n 953, convertito dalla l. 18 febbraio 1983, n. 53. Nello stesso motivo lamenta in relazione all'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. , l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto come tardive le eccezioni sollevate in merito alla decadenza o prescrizione della pretesa impositiva relativa alle cartelle portanti i nn. (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis). 6. I motivi, stante la loro connessione, possono essere trattati congiuntamente, involgendo la questione della decadenza o prescrizione eccepita in conseguenza della nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento di cui ai punti che precedono. Essi restano assorbiti a seguito dell'accertamento dell'inammissibilità e infondatezza delle eccezioni sollevate con i primi due motivi di impugnazione. 7. Segue il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo. Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore della controricorrente, liquidandole nella misura di Euro 2000, 00 per compensi, oltre a Euro 200,00 per esborsi, a rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad ulteriori accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma il 27 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4304 del 2019, proposto da -OMISSIS-S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pi. Ve. Gr., Ni. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell'avvocato Ni. Ma. in Roma, piazza (...); contro Comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ia., Ni. On., Ni. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell'avvocato Ni. Pa. in Roma, via (...); Regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Prima n. 00980/2018, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Venezia e di Regione Veneto; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 10 gennaio 2024 il Cons. Roberta Ravasio e uditi per le parti gli avvocati; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L'appellante società nel 1994 acquistava il compendio immobiliare sito nel (omissis) di Venezia Mestre, censito in catasto al NCEU fg. (omissis) mapp. (omissis) e al CT mapp. (omissis), sul quale esisteva una costruzione di circa 15.000 mc con destinazione commerciale. 2. Con delibere di Consiglio Comunale n. 445/1991 e n. 133/1992 veniva adottata una "variante di dettaglio" allo strumento urbanistico approvato nel 1962, circoscritta al (omissis) di Mestre; la variante prevedeva la possibilità di recuperare tutta la volumetria esistente, ma esigeva la preventiva presentazione di un piano di recupero estesa all'area dell'intero comparto edificatorio, nel cui ambito il compendio immobiliare si situava. 3. In sede di esame delle osservazioni alla variante adottata, il Consiglio Comunale accoglieva una osservazione (la n. 42) relativa alla edificabilità per sub-comparti, nonché l'osservazione di un terzo (la n. 58), estraneo alla proprietà, che limitava l'edificabilità a 10.000 mc. Seguivano i conformi pareri della Commissione Tecnica Regionale, della Commissione di salvaguardia della Città di Venezia, nonché l'approvazione regionale, con D.G.R. n. 2572 del 15 luglio 1997. 4. Va precisato che sin dal 30 novembre 1992 la precedente proprietà - peraltro dopo aver già stipulato un preliminare di vendita alla -OMISSIS-s.r.l. - presentava un progetto di ristrutturazione edilizia, che però veniva respinto con provvedimento del 7 dicembre 1994, sul presupposto della necessità della preventiva approvazione di un piano attuativo: a tale proposito il firmatario dell'atto richiamava anche la variante tecnica approvata D.G.R. n. 28/1993 nonché la variante al P.R.G. per la terraferma adottata con delibera di C.C. n. 60/1993, le quali richiedevano, entrambe, la preventiva approvazione di uno strumento attuativo. 4.1. Tale diniego veniva impugnato innanzi al Tribunale Amministravo Regionale, ma il gravame non veniva coltivato, e il giudizio era dichiarato perento con decreto n. 1335/2006. 4.2. Agli atti di causa risulta anche 5. Avverso la variante di cui sopra, approvata con D.G.R. n. 2572 del 15 luglio 1997, proponeva impugnazione la società appellante: con sentenza n. 1515/98 il TAR per il Veneto accoglieva e per l'effetto annullava gli atti impugnati "nella parte in cui, in conseguenza della modifica apportata alla variante al P. R. G. per il "(omissis) di Mestre", riducono da mc. 15.000 a mc. 10.000 la volumetria ammessa sugli immobili di proprietà della ricorrente, e riducono l'altezza a m. 9.5. Come ulteriore effetto, rivivono le prescrizioni risultanti dalla variante adottata, prima dell'accoglimento dell'osservazione C.". Non risulta che detto pronunciamento sia stato impugnato. 5. Dopo tale pronuncia: - nel 1999 la società presentava istanza di modifica delle previsioni del previgente PRG, in modo da poter edificare il comparto per stralci: il Comune non valutava positivamente tale istanza per mancanza di utilità aggiuntiva; - nel 2001 la Società avviava una interlocuzione per addivenire alla approvazione di un programma integrato di interventi: il Comune si mostrava interessato, la società presentava un progetto, il Comune chiedeva integrazioni, ma la società poi non coltivava ulteriormente l'iniziativa; - nel gennaio 2008 il Comune d'ufficio approvava una variante che suddivideva il comparto in 5 sub-comparti; - nell'agosto 2008 l'appellante presentava un piano di recupero per un subcomparto: tale Piano è stato definitivamente approvato con delibera di Consiglio Comunale n. 32/2011: ciò nonostante la società non dava corso all'intervento; - solo nel 2017 la Società presentava una proposta propedeutica alla formazione del Piano degli Interventi; - nel corso del 2023 la società otteneva un permesso di costruire in deroga. 6. Con ricorso notificato il 25 gennaio 2002 la Società, rappresentando di aver sollecitato più volte il Comune, all'indomani del pronunciamento del TAR per il Veneto, a "procedere all'adozione degli atti volti a consentire la effettiva realizzazione di quanto previsto dal PRG....operando uno stralcio dell'area interessata dal PdR......e comunque la necessità di procedere alla predisposizione a approvazione dello strumento urbanistico attuativo, onde consentire la demolizione e riedificazione nell'ambito considerato dal Piano", evocava in giudizio il Comune di Venezia e la Regione Veneto, per sentir condannare il Comune di Venezia a risarcire il danno patito dalla Società in relazione alla circostanza che non aveva potuto ancora procedure al recupero dell'area. In particolare la Società prospettava: - un danno conseguente al diniego di concessione edilizie opposto con il provvedimento del 7 dicembre 1994, danno da correlarsi alla immobilizzazione del capitale erogato per l'acquisto dell'immobile, le spese di progettazione e il mancato utile: secondo l'appellante tale danno dovrebbe quantificarsi nel 10% del valore che l'immobile avrebbe acquisito se eseguiti i lavori negati, valore che secondo una perizia di parte era - al momento della notifica del ricorso- pari a Euro. 1.032.900,00; - danno conseguente alla inerzia del Comune di Venezia nella approvazione del piano di recupero: secondo l'appellante spettava al Comune di Venezia la predisposizione a approvazione del piano di recupero, che avrebbe dovuto avvenire entro il termine quinquennale di cui all'art. 2 della L. n. 1187/68; oltre a ciò il Comune di Venezia ha anche respinto la domanda in tal senso presentata dalla Società, tra l'altro anche una domanda limitata alla realizzazione di una autorimessa sotterranea; l'Amministrazione, insomma, avrebbe in ogni modo impedito l'utilizzazione dell'area; anche tale danno dovrebbe correlarsi alla immobilizzazione del valore che il fabbricato avrebbe assunto dopo la ristrutturazione del fabbricato, dovendosi aggiungere le spese notarili e di registro, e quindi circa 139.000,00 euro l'anno, oltre alle spese di gestione della società e all'ICI; il tutto con decorrenza dalla approvazione dello strumento urbanistico che imponeva lo strumento attuativo (avvenuta con D.G.R. n. 28 del 12 gennaio 1993), oppure dal diniego del 7 dicembre 1994; - in subordine la Società ha chiesto il risarcimento del danno correlato alla diminuzione della volumetria edificabile: anche tale danno dovrebbe correlarsi alla immobilizzazione del capitale secondo il rateo annuo già indicato, per tutto il periodo intercorso tra la introduzione della modifica in sede di controdeduzioni e l'annullamento della variante, per effetto della sentenza del TAR Venezia n. 1515/98; - in conclusione l'appellante ha chiesto un risarcimento del danno pari al 10% del valore dell'immobile acquisito all'esito della ristrutturazione, quantificato in Euro. 142.9950,00 annui, o il valore maggior o minore ritenuto di giustizia, oltre alla rivalutazione monetaria a decorrere dal 1990 e agli interessi; in via subordinata ha chiesto la condanna del Comune e della Regione Veneto, al risarcimento per equivalente in ragione dell'importo sopra indicato, con rivalutazione e interessi dal 13 febbraio 1995 al 10 settembre 1998 e condanna del Comune di Venezia a risarcire il danno correlato alle spese per ICI e progettazione dell'intevrento; - l'appellante ha chiesto l'ammissione di consulenza tecnica d'ufficio per la valutazione della proprietà attuale dell'immobile "anche ristrutturato". 7. Nel corso del giudizio intervenivano gli accadimenti menzionati al paragrafo che precede. 8. Il TAR per il Veneto, con sentenza n. 980 del 23 ottobre 2018, lo ha respinto. A motivo della decisione ha rilevato che: - il diniego di concessione edilizia opposto dal Comune di Venezia con provvedimento del 7 dicembre 1994 si era consolidato a seguito della perenzione del ricorso proposto avverso lo stesso; non poteva quindi ritenersi accertata l'illegittimità dell'atto impugnato, e correlativamente il contegno processuale tenuto dalla Società nell'occasione doveva apprezzarsi quale comportamento contrario alla diligenza che determinava la non risarcibilità del danno, che avrebbe potuto essere evitato; - quanto al danno conseguente alla inerzia mantenuta dal Comune nella approvazione di un piano attuativo, il TAR, precisato che l'avvenuta approvazione, con la delibera di C.C. n. 32/2011, del piano di recupero non determinava automaticamente il venir meno dell'interesse alla domanda risarcitoria, per il periodo pregresso; tale danno, tuttavia, non era risarcibile, ancorquì a cagione della mancanza di iniziative della Società volte a reagire a tale inerzia, segnatamente mediante ricorso avverso il silenzio; - circa il danno derivante dalla illegittimità della variante approvata con la DGR del 15 luglio 1997, poi annullata in sede giurisdizionale, il TAR ha ritenuto dirimente il fatto che "dopo la sentenza del 1998 la potenzialità edilizia era stata interamente ripristinata; quella riduzione era però meramente potenziale per aver la stessa parte ricorrente provato di essere stata sin dal 1992 nell'assoluta impossibilità (giuridica e/o fattuale) di ottenere il titolo edilizio", precisando che, l'inerzia del Comune nella approvazione del piano di recupero, integrerebbe solo l'evento dannoso, che non può da solo essere fonte di danno, non ammettendosi nel nostro ordinamento "danni punitivi"; - il TAR ha, infine, respinto la richiesta di consulenza tecnica d'ufficio in ragione della infondatezza delle domande proposte dalla ricorrente. 8. Avverso tale pronuncia ha proposto appello la -OMISSIS-s.r.l. 9. Il Comune di Venezia e la Regione Veneto si sono costituiti in giudizio per resistere al gravame. 10. La causa è stata chiamata all'udienza straordinaria dell'10 gennaio 2024, in occasione della quale è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 11. I motivi d'appello articolati dalla -OMISSIS-possono riassumersi come segue: (i) si contesta l'affermazione del TAR secondo cui la mancata presentazione della domanda di sospensione dell'esecutività avrebbe interrotto il nesso di causalità tra il provvedimento e l'evento dannoso, così come la mancata coltivazione del ricorso impedendone la perenzione avrebbe a sua volta rappresentato elemento causativo del danno reclamato. Osserva l'appellante che all'epoca di proposizione del ricorso avverso il diniego del 7 dicembre 1994 le domande cautelari non trovavano, normalmente, accoglimento; quanto alla perenzione, essa avrebbe potuto essere evitata dal Comune stesso; in ogni caso, posto che l'annullamento del provvedimento non è richiesto, ai fini del risarcimento, quest'ultima poteva essere promossa nonostante l'estinzione del procedimento giurisdizionale avente ad oggetto l'annullamento del diniego del 7 dicembre 1994; soggiunge l'appellante che se il Comune avesse avuto interesse a far dichiarare l'illegittimità del provvedimento, avrebbe potuto evitare la perenzione del ricorso. Il TAR, insomma, non avrebbe fatto corretta applicazione dell'art. 1227 c.c. (ii) si contesta il capo della sentenza che ha respinto la domanda risarcitoria connessa alla inerzia del Comune nell'approvare il piano attuativo di recupero, preliminare al rilascio della concessione edilizia. Deduce l'appellante che lo strumento attuativo richiesto dallo strumento urbanistico era un piano di recupero ex art. 28 L. n. 457/78, di iniziativa pubblica: la parte, quindi, non avrebbe potuto sostituirsi al Comune nella predisposizione e approvazione del piano di recupero, che non poteva essere di iniziativa privata né essere sostituito da altra tipologia di piano attuativo; nel caso di specie l'attuazione dello strumento urbanistico era reso particolarmente difficoltoso dalla circostanza che i fondi compresi nel comparto erano molteplici, quindi diventava essenziale l'approvazione di un piano attuativo a carattere coattivo; significativa è la circostanza che solo nel 2011 il Comune ha finalmente approvato un piano di recupero, con la delibera di Consiglio Comunale n. 32/2011. Secondo l'appellante, inoltre, il fatto che la Società non abbia efficacemente contrastato questa inerzia non potrebbe, di per sé, precludere il risarcimento: la mancata attivazione dell'azione prevista con l'inerzia del Comune, infatti, avrebbe potuto essere valutata, al limite, come concausa del danno ai sensi dell'art. 1227 c.c. L'appellante invoca, inoltre, l'art. 2 bis della L. n. 241/90 per sostenere che il ritardo nel provvedere costituisce un bene della vita che va risarcito indipendentemente dalla spettanza del bene della vita. Sostiene, ancora, che nella specie, non essendo previsti dei termini per l'Amministrazione, non avrebbe potuto essere attivato il rito del silenzio, tenendo presente che "all'epoca dei fatti e della introduzione del contenzioso non era codificato il principio secondo il quale all'interessato è data la possibilità di ricorrere avverso il silenzio dell'Amministrazione, mentre il richiamo alla elaborazione giurisprudenziale in materia non può valere ad integrare un obbligo (o anche solo onere) in capo al creditore ai sensi dell'art. 1227 cc, più volte ricordato dal Giudice di primo grado.". (iii) la Società impugna, ancora, il capo della sentenza che ha respinto la domanda subordinata volta ad ottenere il risarcimento del danno derivato dalla riduzione della volumetria realizzabile, a seguito della approvazione della variante poi annullata, per il periodo di tempo in cui essa è rimasta in vigore. Evidenzia l'appellante che la riduzione della volumetria, da 15.000 a 10.000 mc, determinata dalla approvazione di quella variante era così significativa da rendere antieconomico lo sviluppo di qualsiasi operazione, ragione per cui il solo fatto della intervenuta riduzione della capacità edificatoria avrebbe cagionato, per il periodo di tempo trascorso tra l'approvazione della variante e l'annullamento della stessa, un danno in termini di diminuzione del valore dell'investimento. Avrebbe pertanto errato, il primo giudice, a ritenere che la situazione non abbia costituito fonte di danno autonomo. Né si potrebbe seguire il ragionamento del primo giudice secondo cui la nessun danno autonomo era stato cagionato dalla variante illegittima, dal momento che in mancanza del piano di recupero nessun intervento avrebbe potuto essere autorizzato e realizzato: osserva l'appellante che "in tal modo si attribuisce alla predetta inerzia il valore e comunque l'effetto positivo di elidere la responsabilità dell'Amministrazione a fronte del danno derivante dal provvedimento da essa colpevolmente adottato. (iv) infine, l'appellante ha riproposto la domanda di risarcimento, con rinvio ai documenti che dimostrerebbero l'entità del danno subì to. 12. I primi tre motivi d'appello possono essere esaminati congiuntamente e richiedono una premessa. 13. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio la -OMISSIS-s.r.l. ha proposto tre distinte domande risarcitorie, correlate a tre distinte condotte: la prima domanda è correlata alla illegittimità del diniego di concessione edilizia del 7 dicembre 1994, la seconda domanda è correlata alla diminuzione della volumetria deliberata con la variante, sino a che questa non è stata annullata dal TAR Veneto con la sentenza n. 1515/1998; la terza domanda è correlata alla inerzia del Comune nel pervenire alla approvazione del necessario piano attuativo. 13.1. Proponendo le indicate tre distinte domande la Società appellante ha parcellizzato, sulla base di differenti cause, il danno-evento di cui chiede il risarcimento, danno-evento che in realtà, come meglio infra si dirà, è unico ed è riconducibile al mancato recupero del patrimonio edilizio. 13.2. Va, in primo luogo, rammentato che il danno conseguente alla illegittimità di atti amministrativi è ascrivibile, in conformità alla giurisprudenza consolidata, all'archetipo dell'illecito aquiliano ex art. 2043 c.c.: come ha chiarito la sentenza dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 7 del 2021, la natura extracontrattuale di tale responsabilità si collega al fatto che il rapporto tra privato e Pubblica Amministrazione, nell'ambito di un procedimento amministrativo, non è riconducibile ad un rapporto obbligatorio, che è caratterizzato dal rapporto paritario tra le parti: nel procedimento amministrativo, al contrario, non v'è parità tra le parti, in quanto la Pubblica Amministrazione è titolare del potere, e il privato è titolare dell'interesse a che detto potere sia esercitato in conformità alla legge. 13.3. Quanto sopra implica che è onere del danneggiato, ovvero di colui che pretende essere risarcito dalla Pubblica Amministrazione in relazione ad una fattispecie di responsabilità da provvedimento amministrativo illegittimo, dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi di detta responsabilità, ovvero: il danno, l'ingiustizia del danno, il nesso di causalità tra il danno e l'attività provvedimentale illegittima e la colpa della Pubblica Amministrazione. 13.4. Considerazioni del tutto identiche valgono con riferimento alla responsabilità della Pubblica Amministrazione per ritardo, ovvero per l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (ex multis, tra le più recenti: Cons. Stato, Sez. IV, n. 6958 del 17 luglio 2023; Adunanza Plenaria n. 7 del 2021,cit.). 13.5. Inoltre, va in generale tenuto presente che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. in particolare, Adunanza Plenaria n. 3 del 2011; Cons. Stato, Sez. VII, n. 6262 del 19 luglio 2022) segue, in materia di danni risarcibili, l'orientamento della Cassazione Civile ispirato alla teoria causale del danno, secondo cui il pregiudizio risarcibile non è determinato, in sé, dalla lesione della situazione giuridica, ma dal danno conseguenza derivato dall'evento di danno corrispondente alla detta lesione. 13.5.1. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica si può dire definitivamente acquisita dalle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 11 gennaio 2008, n. 576 e 11 novembre 2008, n. 26972, le quali hanno differenziato, nell'ambito dell'illecito aquiliano, a) la causalità materiale, rilevante ai fini dell'imputazione del danno-evento ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e b) la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056, la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno-evento ed il c.d. danno-conseguenza, quest'ultimo costituente l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. Anche nella giurisprudenza costituzionale, secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, a Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, è emersa la distinzione fra danno-evento e danno-conseguenza. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è stata da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205. 13.5.2. Occorre in particolare rammentare che la citata sentenza delle SS.UU. n. 576/2008 ha statuito che "Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria", intendendo con ciò affermare che se non verifica un danno-conseguenza non c'è danno ingiusto e quindi non si perfeziona l'illecito: causalità materiale e causalità giuridica non sono, quindi, le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista dell'unitario fenomeno del danno ingiusto, il quale non è identificabile se non alla luce di ambedue questi nessi causali, l'uno informato al criterio della regolarità causale, l'altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta. Cagionato l'evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale. Pertanto, il danno-conseguenza assume rilevanza giuridica solo in quanto cagionato da un evento lesivo di un interesse meritevole di tutela ad un determinato bene della vita, secondo la fondamentale definizione contenuta in Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500; reciprocamente, l'evento di danno è giuridicamente rilevante solo se produttivo del danno-conseguenza quale concreto pregiudizio al bene della vita. 13.5.3. Come è stato ulteriormente chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 33645 del 15 novembre 2022, "Quando l'azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l'evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell'ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell'evento dannoso. È quanto accade ad esempio nel caso del danno da c.d. fermo tecnico di veicolo incidentato, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (si vedano Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620, e le altre conformi fino alla recente Cass. 19 settembre 2022, n. 27389). Quando l'azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà ("il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo"), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell'ordine giuridico. L'ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell'ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso...." 14. Tenendo a mente questi principi è possibile procedere alla disamina dei motivi d'appello, principiando dal terzo, afferente la domanda di risarcimento del danno conseguente alla riduzione della volumetria sancita dalla variante, nel periodo in cui essa è stata in vigore. 14.1. Si tratta di una circostanza che in effetti potrebbe aver determinato una diminuzione di valore di mercato del compendio immobiliare, la quale può essere riguardata quale lesione al bene patrimonio e che, pertanto, si può qualificare quale evento-danno. 14.2. Per quanto sopra detto, la risarcibilità di tale danno-evento richiedeva la dimostrazione del danno-conseguenza, ovvero del concreto e irreversibile pregiudizio determinato dalla diminuzione di valore dell'immobile; con l'ulteriore precisazione che, essendo stata la variante annullata ed essendo stata ristabilita in seguito la potenzialità edificatoria di 15000 mc., il danno-conseguenza risarcibile doveva essersi manifestato, in maniera irreversibile, prima dell'annullamento della variante, poiché dopo quel momento il compendio immobiliare ha riacquistato automaticamente la precedente potenzialità edificatoria, e il correlativo valore di mercato. 14.3. Dunque, ad avviso del Collegio, nella vigenza della variante annullata danni-conseguenza si sarebbero apprezzati, per esempio: (i) se il compendio immobiliare fosse stato venduto, prima dell'annullamento della variante, a un prezzo ribassato proprio a causa della diminuita volumetria, e in tal caso il pregiudizio subì to sarebbe coinciso con la differenza di prezzo, non incassata; oppure (ii) se Finimmobiliare, avendo in corso trattative per la vendita del compendio, avesse dimostrato che queste erano naufragate proprio a causa della diminuzione della volumetria utilizzabile: e in tal caso il pregiudizio riparabile sarebbe stato da identificare nella perdita della chance di vendita; o, ancora, (iii) se, avendo portato a termine un progetto di recupero del compendio immobiliare, con soli 10.000 mc di volumetria utile, la Società avesse visto limitare l'utile sulla rivendita del compendio immobiliare o del relativo reddito locativo, ed in tal caso il pregiudizio sarebbe coinciso con il mancato guadagno, o con la perdita di chance del guadagno, ritraibile dalla collocazione sul mercato di 5.000 mc in più . 14.4. L'appellante non ha neppure provato a indicare di aver risentito i danni-conseguenza citati a titolo di esempio, o altri della medesima natura. Pertanto, in disparte la considerazione che anche dell'evento-danno -OMISSIS-non ha fornito alcun indizio concreto, il terzo motivo d'appello deve essere respinto perché non v'è evidenza del fatto che la presunta diminuzione di valore di mercato del complesso immobiliare si sia manifestata in maniera effettiva, nel suo patrimonio, prima dell'annullamento della variante e con effetti irreversibili, tali, cioè, da non poter essere vanificati dall'annullamento della variante e dal ripristino della potenzialità edificatoria relativa a 15.000 mc. 15. Possono invece essere esaminati congiuntamente i primi due motivi d'appello e il quarto, aventi ad oggetto, rispettivamente, il danno conseguente all'illegittimo diniego di concessione edilizia del 7 dicembre 1994 nonché alla condotta omissiva tenuta dal Comune di Venezia, e consistente nella mancata approvazione del piano di recupero necessario per il rilascio del titolo edilizio. 15.1. Questi tre motivi possono essere trattati congiuntamente perché l'appellante, confondendo il piano della causalità con quello dei danni risarcibili, ha moltiplicato le voci di danno di cui chiede il risarcimento: in realtà, sia il mancato rilascio della concessione edilizia, opposto con il provvedimento del 7 dicembre 1994, sia la mancata approvazione del piano di recupero portano ad un unico risultato, che costituisce l'unico danno-evento subì to dalla appellante, ovvero: la mancata ristrutturazione edilizia e/o urbanistica del complesso immobiliare dalla stessa acquistato, la quale costituisce lesione di un interesse tutelato afferente il diritto di proprietà, risolvendosi, anche in questo caso, nell'interesse al mantenimento dell'integrità del patrimonio; quindi, per le ragioni già evidenziate, tale danno-evento è risarcibile solo se declinato in danni-conseguenza. 15.3. L'appellante, con riferimento a entrambe le domande ha quantificato il danno subito facendo riferimento alla immobilizzazione dell'investimento, alle spese progettuali, notarili, di registro, ICI/IMU, e spese varie di gestione della proprietà e della società (l'appellante indica, infatti, tra le voci di danno, gli onorari del commercialista per la tenuta dei libri contabili). 15.4. Il Collegio rileva che tali spese non possono costituire di per sé oggetto di risarcimento del danno: la spesa per l'acquisto di un immobile, le spese di manutenzione e le imposte, sono naturalmente correlate alla proprietà ; lo stesso dicasi per le spese generali di gestione di una società, quali possono essere le spese di tenuta dei libri contabili. Dunque, affinché tutte le voci di danno menzionate possano assurgere a parametro per la individuazione e quantificazione di un danno-conseguenza, colui che reclama il risarcimento deve dimostrare che sarebbe stato in grado di evitare tali spese, o quantomeno dimostrare di aver avuto, e di aver perso per colpa del danneggiante, la chance di evitare le suddette spese. 15.5. Per quanto riguarda le spese di gestione della società, si può subito affermare che esse, nel caso di specie, debbono essere escluse dal compendio delle spese risarcibili poiché non risulta che la -OMISSIS-s.r.l. sia stata costituita per un'unica operazione immobiliare, ovvero per l'acquisto e la ristrutturazione del complesso immobiliare oggetto del giudizio. Si deve dunque presumere che la Società avrebbe continuato ad operare anche una volta portata a termine l'operazione immobiliare, e che le suddette spese di gestione sarebbero comunque state sostenute, in quanto spese generali. 15.6. Un discorso più articolato va fatto con riferimento alle spese relative alla gestione del complesso immobiliare, in sé considerato, alla immobilizzazione dell'investimento e alle spese di progettazione. 15.6.1. In linea teorica la -OMISSIS-avrebbe dovuto dimostrare, secondo quanto sopra precisato, che se non fosse stato per le condotte illecite addebitate al Comune di Venezia, essa avrebbe potuto a) evitare le spese di mantenimento degli immobili e b) rientrare del capitale erogato per l'acquisto, evitando così anche l'esborso dei relativi interessi; c) rientrare delle spese per la progettazione del recupero edilizio. Per arrivare a un simile risultato l'appellante avrebbe dovuto dimostrare che, dopo la ristrutturazione edilizia e/o urbanistica, essa avrebbe potuto vendere l'intero complesso immobiliare, rientrando (più o meno) immediatamente del capitale investito per l'acquisto e la ristrutturazione, oltre che delle spese nel frattempo sostenute per il mantenimento dell'immobile; oppure concederlo in affitto, rientrando in questo caso gradualmente del capitale investito e fruendo nel tempo di una rendita che avrebbe consentito di coprire le spese di gestione, e possibilmente garantire un utile. 15.6.2. L'appellante, tuttavia, a tale scopo avrebbe dovuto produrre una perizia tecnica che spiegasse, in funzione delle possibilità di sfruttamento garantite dallo strumento urbanistico, dell'andamento del mercato immobiliare di Mestre nonché della propria capacità economica, che tipologia di ristrutturazione edilizia e/o urbanistica intendeva e poteva, realizzare, e quindi che tipologia di operazione immobiliare (vendita o messa a rendita) avrebbe potuto portare a compimento. Una simile documentazione avrebbe quantomeno consentito al Collegio di valutare se e quali chance avesse l'appellante di portare a termine una operazione immobiliare, e quindi di stimare il danno da perdita di tale chance, danno che avrebbe dovuto tenere conto non solo delle spese già sostenute dalla Società, ma anche di quelle necessarie per portare a termine l'operazione immobiliare, che ovviamente incidono sull'utile complessivo della stessa. 15.6.3. L'appellante non ha fatto nulla di quanto sopra indicato, limitandosi a chiedere l'ammissione di una consulenza tecnica del tutto inammissibile, in quanto avente una finalità all'evidenza esplorativa: si rammenta, a tale proposito che la consulenza tecnica d'ufficio non é un mezzo di prova in senso stretto, e sebbene sia consentito al giudice fare ricorso a quest'ultima per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario (c.d. consulenza percipiente) è necessario che la parte abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda (Cass. Civ. Sez. I, n. 20695 del 10 settembre 2013). Nel caso di specie non può ritenersi sufficiente, a quantificare il danno, l'allegazione secondo cui, acquistato l'immobile, il recupero edilizio è stato bloccato dal Comune: era necessario, come già precisato, che l'appellante descrivesse la tipologia di recupero che intendeva portare avanti e producesse almeno un progetto di massima e la stima dei relativi costi: solo a partire da tali dati il consulente sarebbe stato in grado di valutare la fattibilità e la convenzione economica del progetto, i costi e gli utili. 15.6.4. Deve, conclusivamente, ritenersi che l'appellante non abbia compiutamente assolto all'onere di allegazione e all'onere probatorio relativo al danno-conseguenza, ragione per cui il danno-evento, come sopra individuato, non può essere risarcito. 15.7. Peraltro, non sono stati acquisiti, al fascicolo del giudizio neppure sufficienti elementi per ritenere illecite le condotte ascritte al Comune di Venezia, le quali si sono compendiate prima nel diniego di concessione edilizia del 7 dicembre 1994, e quindi nell'inerzia mantenuta nella approvazione di un piano di recupero. 15.7.1. La legittimità del piano di recupero, ancorché esteso all'intero comparto, non risulta sia mai stata contestata dall'appellante: al fascicolo di causa, infatti, non v'è prova del fatto che l'appellante abbia impugnato la variante adottata con le delibere di Consiglio Comunale n. 445/1991 e n. 133/1992 né le variante tecnica approvata con D.G.R. n. 28/1993, né, infine, la variante al P.R.G. per la terraferma adottata con delibera di C.C. n. 60/1993, le quali richiedevano, tutte, la preventiva approvazione di uno strumento attuativo ed erano state richiamate nel diniego del 7 dicembre 1994 15.7.3. Copia del ricorso proposto dalla appellante avverso il diniego del 7 dicembre 1994 è stata prodotta dal Comune di Venezia (doc. 2), e da essa si evince che non era oggetto di impugnazione la previsione - della variante in allora solo adottata - che imponeva la preventiva approvazione di un piano di recupero esteso all'intero comparto: oggetto di quel ricorso era, chiaramente, solo il diniego del 7 dicembre 1994 (comunicato alla -OMISSIS-il 20 dicembre 1994): di tale diniego si assumeva l'illegittimità in quanto - pare di capire - il progetto presentato doveva considerarsi anche Piano di Recupero di iniziativa privata, che a detta della ricorrente era conforme alle norme vigenti, sicché a fondamento del ricorso si deduceva il difetto di motivazione, circa le ragioni per cui il P.d.R. non era stato valutato. 15.7.4. V'è da dire, soprattutto, che la variante approvata in via definitiva il 15 luglio 1997 alla fine, per effetto del recepimento dell'osservazione presentata da un terzo, consentiva il recupero per sub-comparti. Ciò é quanto si desume dalla sentenza del TAR per il Veneto n. 1515/98, ove, a pag. 2, si dà atto del fatto che il Comune aveva accolto l'osservazione n. 42, proposta da tale Calzavara, circa l'edificabilità per sub-comparti. L'appellante, che peraltro non aveva presentato osservazioni, aveva poi impugnato la suddetta variante solo in ragione della riduzione della volumetria. Nello stesso senso é anche la previsione di cui all'art. 6, comma 5, delle NTA relative alla variante del (omissis) di Mestre, approvata il 15 luglio 1997: tale norma prevede che "i perimetri dei Piani di Recupero individuati nelle tav. 4.2. e nelle schede normative, potranno essere modificati o ampliati dal Consiglio Comunale ed eventualmente integrati con altri, senza che ciò costituisca Variante al P.R.G.", ed è stata richiamata dalla delibera del C.C. del 28 gennaio 2008 (doc. 21), tra le ragioni che spiegavano la situazione attuale e rendevano opportuna la scelta di suddividere l'ambito del recupero "in più ambiti soggetti all'obbligo dell'approvazione di Piano di Recupero di Iniziativa Privata". 15.7.5. Ad inizio dell'anno 1999, intervenuta la sentenza del TAR Venezia n. 1515/98, l'appellante sollecitava, tramite il proprio legale, l'approvazione di un piano di recupero; il Comune di Venezia, Ufficio Pianificazione e Gestione del territorio, con nota del 2/12/1999, prot. 1999.07900, riscontrava la missiva dell'avvocato Grimani del 10.11.99 affermando quanto segue: "In riferimento alla Vs. raccomandata A.R. del 10.1.1999...si ritene che il progetto relativo al P.d.R. n. 8, di cui alla variante in oggetto, dovrà, in ottemperanza alla sentenza del TAR veneto n. 151/98, rispettare le prescrizione della variante e, quindi, della scheda normativa di P.d.R. n. 8 adottata, così come risultavano prima della introduzione delle modifiche conseguenti all'accoglimento dell'osservazione n. 58........ne consegue che nel computo del nuovo volume edilizio "ne" si dovrà tener conto di tutti i volumi esistenti nell'area interna al perimetro di P.d.R., sottoposti alla demolizione. Si fa inoltre presente che non sussiste alcun impedimento a che gli aventi diritto richiedano l'approvazione di un progetto di P.d.R. - anche attuabile per distinti comparti - e le conseguenti concessioni edilizie, secondo quanto previsto dalla strumentazione urbanistica così come risulta a seguito dell'annullamento degli atti impugnati, operato dal TAR Veneto, e si precisa infine che non c'è alcuna scadenza a cui si debba rispondere per il ritardo nell'adozione di una Variante al PRG, se non prevista dalla legge". 15.7.6. E' dunque evidente che quantomeno a far tempo dall'approvazione della variante in questione non esisteva più il vincolo relativo alla preventiva approvazione di un piano di recupero esteso all'intero comparto. Ma anche a voler ritenere che fosse necessaria la preventiva approvazione di un piano di recupero esteso all'intero comparto, seppure attuabile anche per sub-comparti, va evidenziato che l'appellante non risulta aver impugnato tale specifica previsione della variante, previsione la cui intrinseca legittimità non viene posta in dubbio dall'appellante, che lamenta piuttosto l'inerzia del Comune di Venezia nella predisposizione e approvazione del piano di recupero. 15.7.7. Tale inerzia, tuttavia, non può ritenersi di per sé illecita, e idonea a cagionare un danno ingiusto: da una parte per la ragione che l'appellante avrebbe potuto farsi promotrice della presentazione di un piano di recupero ai sensi dell'art. 30, comma 1, della L. n. 457/78 (secondo cui "I proprietari di immobili e di aree compresi nelle zone di recupero, rappresentanti, in base all'imponibile catastale, almeno i tre quarti del valore degli immobili interessati, possono presentare proposte di piani di recupero", d'altra parte per la ragione che - in base al combinato disposto dell'art. 28 comma 2 e 27 comma 3, della L. n. 457/8 - la previsione che impone il piano di recupero, se questo non sia approvato entro il termine di tre anni dalla approvazione dello strumento urbanistico generale, "decade ad ogni effetto. In tal caso sono consentiti gli interventi edilizi previsti dal quarto e quinto comma del precedente art. 27". Si vuol cioè dire che, avendo il legislatore preveduto meccanismi idonei a superare l'eventuale inerzia dei comuni nella approvazione dei piani di recupero, tale inerzia non può ritenersi illecita: non per i primi tre anni, che evidentemente sono stati considerati dal legislatore un termine ragionevole, e non successivamente perché le previsioni urbanistiche che li prevedono decadono automaticamente; né può considerarsi illecito il fatto che il Comune non abbia approvato il piano di recupero prima della approvazione definitiva dello strumento urbanistico, trattandosi di previsione non ancora definitiva. 15.7.8. A partire dal 15 luglio 2000, quindi, l'appellante avrebbe potuto chiedere e ottenere un permesso "diretto" per realizzare uno degli interventi previsti all'art. 31, lett. a)-d), e quindi anche per effettuare interventi di ristrutturazione edilizia: a simili soluzioni devono, evidentemente, aver ricorso molti altri proprietari, come desumibile dal fatto che nella deliberazione del 2008, con cui il Comune di Venezia ha approvato la variante che ha suddiviso il comparto originario in 5 sub-comparti, si giustifica tale scelta, tra l'altro, con l'avvenuto rilascio di svariati titoli edilizi diretti riguardanti singoli edifici (cfr. doc. 21 prodotto dal Comune di Venezia). 15.7.8. In definitiva si deve ritenere che la condotta omissiva del Comune, insista nel non aver approvato un piano di recupero esteso all'intero comparto, non può ritenersi illecita: ove pure effettivamente sussistente un tale obbligo - il che è dubbio per le ragioni sopra indicate - il Comune per legge aveva, a tale scopo, fino a tre anni di tempo dalla approvazione definitiva della variante, dopo di che la previsione decadeva automaticamente per legge. Il vincolo è stato reintrodotto solo nel 2008, quando è stato introdotto l'obbligo di preventiva approvazione di piani di recupero per sub-comparti, a iniziativa privata. 15.7.9. Quanto al diniego opposto con il provvedimento del 7 dicembre 1994, non avendo l'appellante prodotto alcunché degli atti della pratica edilizia sfociata in quel diniego, risulta assolutamente impossibile, al Collegio, affermare l'illegittimità di tale atto ai fini risarcitori. 15.8. In definitiva, gli ulteriori tre motivi d'appello vanno respinti perché non si apprezza l'illiceità delle condotte addebitate al Comune di Venezia, che pertanto non possono aver cagionato alcun danno ingiusto. Peraltro l'appellante non ha neppure dato prova del danno subito, non avendo assolto all'onere probatorio di allegare e dimostrare il danno-conseguenza. 16. Da ultimo non si può far a meno di rammentare che nell'agosto 2008 l'appellante presentava un piano di recupero per un subcomparto, definitivamente approvato con delibera di Consiglio Comunale n. 32/2011: la Società non ha però coltivato tale progetto, il che suggerisce che non fosse economicamente in grado di portare a compimento una operazione immobiliare, o che essa fosse realmente interessata, e volesse portare a termine, solo un certo tipo di operazione immobiliare. Del resto, risulta dagli atti che anche nel 2001 la Società aveva avuto l'occasione di far approvare un Piano di Recupero Urbano, ma non ha coltivato l'iniziativa (cfr. docc. 17-19 del Comune) 17. In conclusione l'appello va respinto. 18. La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese tra tutte le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra tutte le parti le spese del presente grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2024, celebrata in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 87, comma 4 bis, c.p.a. e 13 quater disp. att. c.p.a., aggiunti dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, recante "Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia", convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 11, 3con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Raffaello Sestini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3323 del 2021, proposto da Im. Sa. Gi. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pi. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Sassari, viale (...); contro Comune di Sassari, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Ru., Ma. Id. Ri., An. Ma. An. Pi., Al. Se., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Autonoma della Sardegna, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda n. 597/2020. Per quanto riguarda il ricorso incidentale condizionato presentato da Comune di Sassari il 29/6/2021: della sentenza Tar Sardegna n. 597/2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Sassari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 novembre 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO S.A. S.p.a. era proprietaria di alcune aree urbane ubicate nella via (omissis) del comune di Sassari. Tali aree sono state oggetto di un Piano di Lottizzazione adottato ed approvato, rispettivamente, con le deliberazioni consiliari 18 dicembre 1992 n. 321 e 25 ottobre 1993 n. 169, che prevedeva una potenzialità edificatoria di mc. 111.491 circa, con destinazione commerciale (esercizi commerciali al minuto e grandi superfici di vendita), ricettiva e terziaria (uffici, studi professionali, ristoranti, circoli privati, etc.). La successiva convenzione non è stata stipulata. Fallita la S.A. S.p.a. e nella vigenza dello stesso PRG al quale il PdL era sempre conforme, con istanza 24 settembre 2003 il Curatore del Fallimento della S.A. Spa, previa autorizzazione del Giudice Delegato, ha formalmente invitato il comune di Sassari a stipulare la convenzione. In risposta, con atto 21 ottobre 2003 il Dirigente del Settore Gestione del Territorio - Servizio Urbanistica - ha respinto l'istanza dell'amministrazione fallimentare. Con sentenza 7 giugno 2013 n. 467 - passata in giudicato - il ricorso n. 52/2004 proposto dal Fallimento della S.A. S.p.a. è stato accolto e, per l'effetto, è stato annullato l'impugnato provvedimento del 21 ottobre 2003 col quale il comune aveva illegittimamente negato il convenzionamento del PdL. Fino alla pubblicazione della sentenza n. 467/2013, il comune ha chiesto ed ottenuto, a titolo di Ici, la complessiva somma di Euro 800.000,00 circa, sul presupposto della edificabilità delle aree secondo le previsioni del PdL. In seguito al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato e all'adempimento delle obbligazioni poste a carico dell'assuntore, con decreto 9 maggio 2007 il Giudice delegato ha trasferito alla Se. tutti i beni immobili già di proprietà della S.A. S.p.a. e, in particolare, le aree edificabili oggetto del citato PdL approvato con deliberazione consiliare n. 169/1993. Con atto pubblico rogato dal Notaio Ma. Pi. di Sassari il 22 dicembre 2008, la Se. S.r.l. ha venduto alla Im. Sa. Gi. S.r.l. le aree edificabili oggetto del citato PdL, originariamente di proprietà della S.A. Spa. Con deliberazione consiliare 27 luglio 2011 n. 52, il comune ha adottato il PUC (senza preventivi VAS, adeguamento al PAI e copianificazione, ex art. 49 NTA del vigente PPR del 2006). Il PUC adottato ha così classificato l'area di proprietà della ricorrente: - Sottozona B2 (PN4) mq. 11.170 - Sottozona S3p mq. 12.840 - Sottozona H1/H2.8 mq. 13.840 TOTALE mq. 37.850 Con la seguente potenzialità edificatoria: - Sottozona S3p (virtuale) 12.840 x 0,5= mc. 6.420 - Sottozona B2(PN4) 11.170 x 4.5= mc. 50.265 TOTALE mc. 56.685 dei quali mc. 27.643 (49%) da realizzarsi "altrove", con il meccanismo della cosiddetta "perequazione". Il 20 ottobre 2011 l'odierna appellante ha presentato un'osservazione al PUC adottato, che prevedeva anche la possibilità di utilizzare ulteriori aree di proprietà (limitrofe a quelle prese in considerazione dal PUC) di circa mq. 13.840 di superficie, idonee ad accogliere i "trasferimenti di volumetria" (in modo da mantenere nello stesso ambito urbanistico l'intera volumetria attribuita alle sottozone B2 e S3p) ed a formare così un comparto edificatorio unitario ed omogeneo, da destinare in buona parte a verde pubblico, anche mediante l'eliminazione dell'ingiustificato ed illegittimo vincolo di inedificabilità . L'osservazione è stata respinta ed è stata espressamente confermata la previsione del PUC adottato. Ad avviso della Im. Sa. Gi. S.r.l., il PUC approvato con la deliberazione consiliare 26 luglio 2012 n. 43 anziché confermare le previsioni del PUC adottato, ha così modificato la disciplina delle aree di proprietà della ricorrente: - sottozona B2a (PN4) mq. 1.635 - sottozona S3p mq. 23.900 - sottozona H2.8 mq. 12.315 Totale mq. 37.850 con la seguente potenzialità edificatoria: - sottozona B2a (PN4) 1.635 x 2.88 mc. 4.708 - sottozona S3p (virtuale) 23.900 x 0,5 mc. 11.950 - trasferimento di volumetria da ex D8 e S di PRG mc. 28.241 TOTALE mc. 44.899 dei quali mc. 40.187 (90%) da trasferire "altrove", anche con il meccanismo della cosiddetta "perequazione". La nuova volumetria complessiva sarebbe quindi non solo inferiore all'80% di quella prevista dal PUC adottato ma soprattutto quella edificabile "in loco" si ridurrebbe a meno di 1/6. Inoltre, la volumetria realizzabile "in loco" sarebbe pari al solo 5% di quella prevista nel PRG previgente ed oggetto di un piano di lottizzazione già approvato. La c.d. "copianificazione" tra comune, regione e MIBAC, ex art. 49 NTA del PPR, sarebbe avvenuta molto tempo dopo l'approvazione da parte del comune del PUC, del quale la regione, in sede di "verifica di coerenza", avrebbe omesso di censurare (nonostante le segnalazioni fatte dalla ricorrente) l'evidente illegittimità per violazione di legge. Il verbale conclusivo della prima "attività di copianificazione" porterebbe infatti la data del 7 novembre 2013, quindi molto successiva all'approvazione definitiva del PUC (26 luglio 2012). Tale verbale darebbe comunque atto che il bene "Chiesa e Parco di San Pietro in Silki" - compreso nell'allegato G del verbale - non è compreso nel "repertorio dei beni paesaggistici e identitari" (delibera 16 aprile 2008 n. 23/14 della Giunta regionale) ma deve ritenersi una semplice proposta di istituzione di nuovi beni paesaggistici o identitari, laddove possibile, secondo le procedure previste dalla normativa di settore. Risulta quindi confermata l'individuazione dei tematismi del PPR, dove l'area in esame è classificata in parte come "espansioni recenti" ed in parte come "edificato urbano diffuso", con esclusione della presenza di "beni architettonici e beni identitari" e di "beni archeologici". Il comune non avrebbe, pertanto, tenuto conto neppure di tale attività di copianificazione, pur affermando di esservisi adeguato. Prosegue ancora la ricorrente affermando che l'illegittimità del vincolo di inedificabilità apposto dal PUC è stata confermata dalla deliberazione 10 ottobre 2014 n. 39/1 con la quale la Giunta regionale, revisionando il PPR, ha approvato il "Repertorio del Mosaico dei beni paesaggistici ed identitari" dove "Chiesa e Parco di San Pietro in Silki" è classificato come "elementi con valenza storico culturale individuati dalla Regione, dai comuni e dalle Soprintendenze del MIBAC in sede di copianificazione, senza effetti costitutivi di vincolo paesaggistico, ai fini dell'eventuale successivo inserimento nel Piano Paesaggistico Regionale" e per il quale non è previsto il "Regime autorizzatorio ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 e s.m.i.". Tali accertamenti e valutazioni, a prescindere dalla sorte della delibera G.R. 10 ottobre 2014 n. 39/1, non sono state modificate dalla regione. L'attività di copianificazione (successiva all'approvazione del PUC) avrebbe quindi escluso dai beni identitari e paesaggistici "chiesa e parco di San Pietro in Silki" ed i collegati "perimetri di tutela". La conseguente mancanza del "vincolo di inedificabilità " (fin dall'origine illegittimo) avrebbe dovuto comportare quantomeno il ripristino delle previsioni del PUC/2011 (56.685 mc.), ma probabilmente quelle del previgente PRG - tenuto anche conto della assoluta mancanza di motivazione delle modifiche del PUC adottato rispetto alle specifiche previsioni del PRG, per giunta consolidate da uno strumento urbanistico attuativo approvato - volumi da ubicarsi, come previsto, nella porzione dell'area costituita da un terrapieno artificiale privo di ogni valore paesaggistico e/o ambientale e/o storico e/o archeologico. L'adeguamento alla copianificazione, che riguarda anche molte analoghe situazioni, secondo la ricorrente, avrebbe comportato la necessità di una puntuale e precisa attività di modifica di elaborati grafici, norme tecniche, dimensionamenti etc., da sommarsi a quella necessaria per adeguare il PUC alle più che corpose condizioni poste dalla R.A.S. in sede di "Verifica di coerenza". Con la determinazione 21 novembre 2013 n. 3857/DG, in sede di "verifica di coerenza", la Regione ha (tra l'altro) rilevato che "in relazione ai Beni riportati nell'allegato G del suddetto verbale, si richiede che tali situazioni che non costituiscono beni paesaggistici, vadano differenziate negli elaborati testuali e cartografici del PUC rispetto ai ben paesaggistici e che, laddove per tali situazioni, il PUC abbia dettato discipline di natura urbanistica, le stesse discipline siano integrate nelle NTA del PUC o che sia chiaro il rinvio operato dalle NTA alle discipline e alle tavole che rappresentano tali situazioni". Il Comune si è limitato a notare che, "stante la evidenziata valenza propositiva dei beni/oggetti di cui ai verbali di copianificazione del 7 novembre 2013 e del 16 maggio 2014, si ritiene non necessario procedere al riordino/sistematizzazione degli elaborati testuali e cartografici del PUC." Sono dunque rimaste invariate le illegittime indicazioni cartografiche prive di ogni efficacia prescrittiva. La relazione comunale predisposta al fine di recepire nel PUC gli esiti della "verifica di coerenza", a proposito del "PROGETTO NORMA CON TRASFERIMENTO DI VOLUME B2-PN4 VIA (omissis)" si esprime nei seguenti termini: Il trasferimento di volumetrie previsto per il progetto norma 5.8.2.4 trae origine dall'indirizzo politico-amministrativo di confermare per le aree ex D8 le quantità di volumi assegnate dal PRG/87, come ultimo caso di un processo trasformativo di allontanamento dalla zona urbana delle destinazioni non residenziali (D e G), che si è inteso mantenere in continuità con decisioni che hanno riguardato nel tempo diverse aree. Principio esplicitamente dichiarato e proposto nelle diverse versioni (2009-2012) del PUC. La soluzione adottata è stata la seguente: - stabilire l'entità della potenzialità edificatoria spettante in applicazione degli indici edificatori previsti dal PRG/87 per continuità amministrativa; - definire l'entità realizzabile "in situ" nel rispetto dei limiti edificatori previsti dal D.A. 2266/U/83 (c.d. decreto Floris); - definire l'entità di volumetria trasferibile e le modalità di trasferimento. Le schede del progetto norma danno conto delle quantità e delle modalità con cui si è quantificata l'edificabilità in situ nel rispetto del "decreto Floris". In pratica l'edificabilità è stata determinata prendendo atto che una parte della superficie è ricaduta sotto il vincolo di inedificabilità conseguente alla fascia di rispetto insorgente per la (presunta) presenza di un bene culturale; una parte della superficie è stata classificata come zona S3 per la quale si sono riscontrate le opportunità di utilizzazione dell'acquisizione tramite perequazione (S3/p). La superficie rimasta edificabile viene classificata come zona B. In definitiva il "perimetro di tutela condizionata" cancellato come bene identitario, paesaggistico e archeologico ai sensi del PPR, viene di fatto riproposto come prescrizione urbanistica ("fascia di rispetto... di un bene culturale"), automaticamente dotata di "vincolo di inedificabilità ". In questa nuova veste la classificazione non era contenuta nel PUC adottato e non è stata quindi oggetto di osservazioni. A giudizio della odierna appellante, i consiglieri comunali hanno approvato il PUC sul presupposto che esso fosse conforme ad una già avvenuta "copianificazione" che, in realtà, non esisteva e ad una altrettanto inesistente conformità al PAI. La "futura copianificazione" è stata poi conclusa (in due fasi, rispettivamente definite con verbali del 7 novembre 2013 e del 16 maggio 2014), in conformità (si presume) ad un PUC già da tempo approvato ed al quale, anche solo per questo, si sarebbe dovuta negare fin dall'inizio la "verifica di coerenza". Se invece il PUC a tale copianificazione si fosse adeguato dopo la sua definitiva approvazione, si sarebbe comunque trattato di un PUC soggetto a riadozione ed a ripubblicazione. Con determinazione 21 novembre 2013 n. 3857/DG (integrata con nota prot. 56134/2013) - adottata dal Direttore Generale della Pianificazione Urbanistica Territoriale della Sardegna a norma dell'art. 31 L.R. 7/2002 - la Regione ha stabilito che il PUC adottato con la deliberazione consiliare n. 43/2012 "risulta coerente col quadro normativo e pianificatorio sovraordinato", rilevando tuttavia che "la coerenza è subordinata al recepimento delle seguenti prescrizioni". Si trattava, secondo la società appellante, di "prescrizioni" che avrebbero comportato una completa, profonda ed organica modifica di tutto il PUC che, in caso di adeguamento a tali prescrizioni avrebbe comportato la necessaria ripubblicazione del PUC così profondamente modificato. Con deliberazione consiliare 14 gennaio 2014 n. 3, il Comune di Sassari ha dato mandato al dirigente del settore urbanistica ed edilizia privata di predisporre gli atti necessari ai fini dell'adeguamento dei contenuti tecnici del PUC alle prescrizioni della citata determinazione regionale 21 novembre 2013 n° 3857/DG. In definitiva, con la deliberazione 18 novembre 2014 n. 35, il Consiglio Comunale: a) ha approvato i contenuti della "relazione tecnica" dell'Ing. En. Co. e dell'Arch. El. Ce. (unitamente al settore urbanistica ed edilizia privata) contenenti le proposte necessarie ad adeguare il PUC approvato alle "prescrizioni" impartite dalla Regione con la citata determinazione del 21 novembre 2013; b) ha "approvato gli elaborati tecnici redatti in conformità alle singole soluzioni tecniche prospettate nella relazione tecnica sopra richiamata e sostitutivi, ovvero integrativi, dei corrispondenti elaborati del PUC adottato in via definitiva con deliberazione consiliare n. 43/2012, come riportato nella medesima relazione e nel seguente prospetto riepilogativo...". Segue un elenco di n. 63 Tavole aggiornate e di n. 8 Tavole di "nuovi elaborati". Non sarebbe allegata alla delibera la "relazione tecnica" alla quale si riferisce il punto 2) del dispositivo, contenente le proposte di adeguamento alle prescrizioni che la Regione ha dato con la più volte citata determinazione 21 novembre 2013. Il Consiglio comunale non ha approvato, e non ha quindi recepito nel PUC, i risultati della (tardiva) copianificazione definita con il verbale del 7 novembre 2013 e dell'ulteriore copianificazione definita con il verbale del 16 maggio 2014. Ad avviso della odierna appellante, secondo quanto appreso dal BURAS 11 dicembre 2014 n. 58, "con determinazione n. 3280/DG del 02.12.2014 il Direttore generale della pianificazione urbanistica territoriale e vigilanza edilizia della Regione Autonoma della Sardegna ha determinato che il Piano Urbanistico Comunale, in adeguamento al PPR ed al PAI del Comune di Sassari, di cui alle deliberazioni del Consiglio Comunale n. 43 del 26.07.2012 e n. 35 del 18.11.2014, risulta coerente con il quadro normativo e pianificatorio sovraordinato, stabilendo nel contempo che si può procedere alla pubblicazione sul BURAS". Avverso tutti gli atti indicati in epigrafe è insorta Im. Sa. Gi. S.r.l. in primo grado deducendo le seguenti censure: 1) violazione dell'art. 19 L.R. 45/1989 e dei criteri generali sulla formazione del PUC - eccesso di potere per falsità dei presupposti, difetto di istruttoria, illogicità, contraddittorietà e difetto di motivazione; 2) violazione dell'art. 20 L.R. 45/1989 - eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità, contraddittorietà, difetto di motivazione e sviamento; 3) violazione dell'art. 20 L.R. 45/1989 e del relativo procedimento - eccesso di potere per falsità dei presupposti, contraddittorietà, difetto di motivazione e sviamento; 4) violazione dell'art. 31 L.R. 7/2002 e del relativo procedimento - eccesso di potere per falsità dei presupposti, illogicità, contraddittorietà, difetto di motivazione e sviamento; 5) violazione degli artt. 19 e 20 L.R. 45/1989 e dell'art. 49 NTA del PPR - violazione dell'art. 31 L.R. 7/2002 - eccesso di potere per difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, travisamento dei fatti, illogicità, contraddittorietà, difetto di motivazione e sviamento; 6) violazione dell'art. 31 L.R. 7/2002 e dell'art. 20 L.R. 45/1989 - eccesso di potere per sua illogicità, difetto di motivazione e sviamento. 7) domanda di risarcimento danni. Affermava la ricorrente che si sono verificate due illegittime cause di danno, entrambe intenzionalmente convergenti sullo scopo (e comunque sul risultato) di non fare realizzare il PdL approvato e di privare di ogni potenzialità edificatoria le aree edificabili di proprietà della ricorrente. In particolare: a) il primo (o, meglio, quello iniziale) causato dal rifiuto di convenzionamento, illegittimo in termini tali da configurare, secondo la ricorrente, un'ipotesi dolosa o quantomeno affetta da colpa gravissima, sia da parte dell'autore materiale del rifiuto che da parte degli amministratori comunali che, dopo la notifica del ricorso al TAR, hanno deliberato (evidentemente dopo avere acquisito la consulenza dei competenti organi amministrativi) la resistenza in giudizio, anziché rimediare all'evidente errore commesso e facilmente riconoscibile, in base a nozioni elementari, e che anche attualmente mantengono lo stesso comportamento, senza prendere seriamente in considerazione una variante al PUC che possa almeno in parte limitare i danni ed il conseguente risarcimento; b) l'altro, causato dalla illegittima modifica delle previsioni del PRG relative alle aree di proprietà della ricorrente. Scelta anche questa, afferma la ricorrente, di natura probabilmente dolosa o quantomeno gravemente colposa, anche perché non ha tenuto conto né della sentenza n. 467/2013 né delle puntuali osservazioni della Società al PUC adottato né delle numerose soluzioni alternative che essa ha ripetutamente proposto (anche nell'interesse dell'Amministrazione), con l'evidente intento, manifestato platealmente anche dalla "modifica peggiorativa" delle previsioni edificatorie dalla fase di adozione a quella di approvazione, di privare di ogni potenzialità edificatoria le aree di proprietà della ricorrente. La fisionomia che il PUC ha assunto con la conclusiva deliberazione consiliare 18 novembre 2014 n. 35 e la conseguente pubblicazione nel BURAS n. 58 dell'11 dicembre 2014, ha definitivamente precluso, allo stato (salva la possibilità di una futura variante, ex nunc, in ottemperanza alla sentenza n. 467/2013), non solo la possibilità di realizzare nell'area di proprietà della ricorrente le previsioni del piano di lottizzazione che il Comune ha illegittimamente rifiutato di convenzionare ma qualsiasi intervento edilizio ragionevolmente conveniente. La Im. Sa. Gi. S.r.l. ha chiesto in primo grado l'annullamento del PUC e di condannare il Comune di Sassari al risarcimento dei danni da essa subiti e, segnatamente: - Per valore di mercato della quota di edifici (mq.17.110 = 30% di mq.57.333 complessivi) realizzabili nel PdL ottenibili "in permuta" dalla società proprietaria: Euro35.931.000,00 (= mq.17.110 x Euro 2.100,00); - Per valore di locazione degli edifici di proprietà dal 31.12.2006 al giugno 2019: Euro28.873.125,00 (= mq.17.110 x 135 Euro/mq. x anno x 12,5 anni). In totale: Euro 64.804.000,00, oltre al rimborso dell'ICI indebitamente pagata, con rivalutazione ed interessi sul capitale rivalutato da ogni periodo di maturazione al saldo. Il giudice di primo grado, con la decisione 3 novembre 2020, n. 5597, ha respinto il ricorso. Contro tale decisione ha proposto appello chiedendo la riforma della sentenza impugnata. Si è costituito nel presente giudizio il comune di Sassari, chiedendo il rigetto dell'appello e promuovendo a sua volta ricorso incidentale condizionato con il quale sono riproposte le eccezioni formulate in primo grado e rimaste assorbite nella decisione impugnata. In vista dell'udienza camerale del 9 novembre 2023 le parti hanno depositato memorie con le quali hanno chiarito e ulteriormente argomentato la fondatezza delle rispettive posizioni difensive. All'udienza camerale del 9 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. L'appello, affidato ad un unico articolato motivo, non è fondato. Nella prospettiva della parte appellante, la sentenza impugnata sarebbe in primo luogo da riformare nella parte in cui ha sostenuto in termini assoluti- che "il danno patito dalla ricorrente è derivato dall'illegittimo rifiuto di convenzionamento". In realtà, ad avviso dell'appellante, si sono verificate due illegittime cause di danno, entrambe intenzionalmente convergenti sullo scopo (raggiunto) di non fare realizzare il Piano di lottizzazione approvato e di privare di ogni potenzialità edificatoria concreta le aree edificabili che ne erano oggetto: 1) la prima costituita dal rifiuto di convenzionamento, platealmente illegittimo in termini tali da configurare, con molta probabilità, un'ipotesi dolosa o quantomeno affetta dal colpa gravissima, sia da parte dell'autore materiale del rifiuto che da parte degli amministratori comunali; 2) la seconda causa determinata dalla illegittima modifica (progressivamente sempre più dannosa, dalle prime fasi di adozione, anche di quelle poi autoannullate, ma frattanto preclusive in termini di salvaguardia, alle conclusive versioni definitive), mediante il PUC, delle previsioni del PRG relative alle aree di proprietà della ricorrente. La fisionomia che il PUC ha assunto con la conclusiva deliberazione consiliare 18 novembre 2014 n. 35 avrebbe, nella prospettiva in esame, definitivamente precluso non solo la possibilità di realizzare nell'area di proprietà della ricorrente le previsioni del piano di lottizzazione ma qualsiasi intervento edilizio ragionevolmente conveniente per il tramite di "nuove scelte di pianificazione" palesemente e gravemente illegittime, per le ragioni indicate con i motivi di ricorso di primo grado. La "volumetria virtuale" alla quale si riferisce la sentenza impugnata sarebbe, nella prospettiva della parte appellante, una volumetria inesistente, perché non potrebbe essere ragionevolmente utilizzata, in quanto dovrebbe essere realizzata "altrove" cioè in aree di proprietà di terzi (i quali, se d'accordo, ne chiederebbero almeno il 50%) ubicate nell'estrema periferia o in borghi lontani svariati chilometri dalla citta, luoghi dove, in pratica, non sarebbe economicamente conveniente realizzare un piano di lottizzazione.. Non sarebbe inoltre corretto l'assunto, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui le "osservazioni" ad uno strumento urbanistico adottato costituiscono un "mero apporto collaborativo" (pag. 18), in quanto non terrebbe conto del fatto che il caso in esame era meritevole di specifica motivazione in virtù dell'affidamento qualificato scaturente dal piano di lottizzazione approvato e illegittimamente non convenzionato. Infine, ad avviso della società appellante, l'illegittimità più grave (della quale il TAR non avrebbe tenuto conto) sarebbe quella derivante dal fatto che, dopo la reiezione dell'osservazione, le previsioni urbanistiche dell'area avrebbero dovuto conservare (come espressamente previsto dalla reiezione) l'assetto che esse avevano nel PUC adottato oggetto dell'osservazione. Si è invece verificato che - senza alcun procedimento intermedio - le previsioni del PUC approvato sono state drasticamente peggiorate (v. precedente pag. 6 - § "N"). Contrariamente a quanto ritenuto del TAR, il PUC avrebbe dovuto essere riadottato e riproposto alle osservazioni dei cittadini, tenuto conto che, per adeguarsi alle illegittimità denunciate dalla Regione in sede di "verifica di coerenza" ex art. 31 L.R. 7/2002 il PUC originario era stato completamente stravolto (v. precedente pag. 12 § "R"). l. "L'attività di "copianificazione" è stata effettuata", come scrive il TAR (pag. 20), ma soltanto dopo che il PUC era stato adottato ed approvato, cioè dopo che il Consiglio comunale lo aveva votato (e i cittadini lo avevano "osservato") sul falso presupposto e sul falso convincimento che la copianificazione fosse stata già fatta. L'articolato motivo di appello appena riassunto non è fondato. Va in primo luogo ribadito che la parte appellante non può lamentare nell'ambito del presente giudizio danni che casualmente derivano dal diniego di convenzionamento perché tale questione è ormai coperta dal giudicato formatosi per effetto della sentenza passata del Consiglio di Stato n. 7092/2021. Le censure muovono principalmente dal fatto che il nuovo piano ha attribuito all'area di proprietà della Im. Sa. Gi. S.r.l. una volumetria, di difficile, se non impossibile (specie sul piano della relativa profittabilità economica.), realizzazione. In via preliminare va ribadito che, secondo un costante indirizzo interpretativo, il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti di pianificazione urbanistica non può estendersi alle valutazioni di merito, a meno che esse non risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (Consiglio di Stato sez. II, 24 giugno 2020, n. 4040). In base a tale impostazione, largamente condivisa, il comune ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano regolatore (Cons. St., sez. IV, 26 gennaio 1999, n. 74). Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale, essa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano. Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono, pertanto, sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (cfr., tra le ultime, Consiglio di Stato, sez. IV, 12 maggio 2023). Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale, si è nel dettaglio chiarito che la modifica di un piano regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate, necessita di apposita motivazione esclusivamente quando le classificazioni esistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle, non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto" (ex pluribus C. Stato, sez. V, 2 marzo 2009, n. 1149). Nel caso in esame, in relazione alla pianificazione urbanistica del comune di Sassari, con particolare riferimento al contesto nel quale è ubicata la proprietà della società appellante, si è negli anni registrata una significativa evoluzione nella direzione del progressivo riduzione del consumo di suolo. Le scelte di pianificazione adottate dal comune tra il 1987 (vecchio PRG) e il 2014 (PUC vigente) sono del tutto coerenti con la necessità di limitare il consumo del suolo e preservare le aree situate al limite del tessuto urbano e gli beni immobili a carattere monumentale. Tale modus operandi si colloca armonicamente nel nuovo concetto di pianificazione urbanistica così come sviluppato dalla più recente giurisprudenza amministrativa. Secondo la moderna concezione della funzione di pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710), il potere conformativo del comune non può essere condizionato dalle caratteristiche oggettive dell'area o da precedenti determinazioni, pena la messa in discussione della potestà generale di piano. Nell'occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. L'esercizio del potere di pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela"(Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 1998, n. 1734). In tale ordine di idee, è stato ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica", per cui "l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto"(Cons. Stato, sez. IV, n. 1734 cit.; id. 6 marzo 1998, n. 382). Da tale innovativa impostazione discende che l'ambito di discrezionalità del comune nel determinare le scelte che incidono sull'assetto del territorio comunale è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo. È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell'ambito di tale discrezionalità l'amministrazione comunale, qualora il comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo piano regolatore generale, o di una sua variante generale, ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime la destinazione edificatoria. Si tratta in questi casi dell'esplicazione della discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di pianificare il territorio anche in senso restrittivo rispetto al passato, con i limiti della razionalità e dell'insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a favore della proprietà . In coerenza con tali coordinate di fondo della funzione di pianificazione, modernamente intesa, il comune di Sassari ha ripianificato quelle parti del territorio le cui destinazioni d'uso non sembravano essere più consone alle nuove scelte dell'amministrazione. L'attività di pianificazione, per quanto emerso nel giudizio di primo grado, senza che si registi nessun rilievo di oggettivo segno contrario nei motivi di appello, è stata coerentemente e ragionevolmente preordinata ad attuare la riduzione del consumo di suolo e ha conseguito questo risultato, avendo predisposto una nuova strumentazione finalizzata a raggiungere questo obiettivo. La circostanza, valorizzata a più riprese nell'atto di appello, per cui, nel caso in esame, sussistessero in favore della parte appellante ragioni di affidamento, scaturenti dalla convenzione di lottizzazione approvata, non priva l'amministrazione della possibilità di adottare, nel prosieguo, differenti scelte urbanistiche, a condizione che, come avvenuto nel caso in esame, siano esplicitate le ragioni del pubblico interesse che hanno indotto a ritenere superato il precedente assetto urbanistico. La nuova pianificazione, coerentemente con la significativa evoluzione registratasi sul piano della funziona pianificatoria prima ricordata, ha contemperato le esigenze della parte appellante con quelle pubbliche di riduzione del consumo di suolo, optando per una disciplina generale che non ha previsto la conferma di indici territoriali alti. Scelta opinabile, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, ma non illegittima. Peraltro, e in via autonomamente assorbente, nel caso di specie, il piano di lottizzazione era stato approvato nel 1993 (con pubblicazione nel febbraio 1994), ma all'approvazione non era seguita la stipulazione della relativa convenzione e, pertanto, nel febbraio 2004, trascorsi dieci anni dalla sua pubblicazione, siffatto piano era divenuto inefficace ai sensi degli articoli 16, comma 5 e 17 della legge 1150/1942. Del resto, come accertato dalla sentenza resa dal Consiglio di Stato n. 7092/2021 (in particolare paragrafi 15, 15.1, 15.2, 15.3, 15.4) di rigetto della istanza risarcitoria proposta dalla San Giacomo in relazione al diniego al convenzionamento ottenuto con la richiamata sentenza n. 467/2013, la società SALIS in realtà non aveva mai avanzato al comune alcuna richiesta di convenzionamento, quanto piuttosto aveva presentato una istanza per la proroga del Piano di lottizzazione a ridosso della scadenza. Deve pertanto nel caso in esame trovare applicazione il consolidato principio giurisprudenziale al metro del quale la scadenza del piano di lottizzazione fa ri-espandere la discrezionalità del Comune in ordine alle scelte pianificatorie sulle aree non trasformate. E' stato, infatti, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio secondo il quale:"In materia urbanistica, l'inefficacia collegata alla scadenza dei termini dei piani integrati o comunque attuativi (e degli strumenti urbanistici che ne condividono la natura quali, ad esempio, i piani di lottizzazione ed i piani di zona per l'edilizia economica e popolare) è un effetto di legge che si produce automaticamente, con la conseguenza che la convenzione di lottizzazione scaduta e rimasta in parte inattuata non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali." (cfr.,per tutti, Consiglio di Stato, sez. IV 19/07/2021 n. 5385). Non coglie nel segno neanche la censura che fa leva sulla mancata adeguata considerazione delle osservazioni presentate dalla immobiliare San Giacomo. In senso contrario il Collegio evidenzia che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale; d'altra parte le scelte effettuate dall'Amministrazione pubblica, nell'adozione degli strumenti urbanistici, costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (Consiglio di Stato sez. IV, 8 maggio 2017, n. 2089). Con un ulteriore sub motivo di appello la parte appellante lamenta la illegittimità degli atti di approvazione del PUC in quanto, specie nel passaggio della fase tra la adozione (delibera 52/2011) e la approvazione definitiva (delibera 43/2012), il Progetto Norma di Via (omissis) avrebbe subito modifiche rilevanti, come emergerebbe dal raffronto dei relativi elaborati (docc. 22 e 37), ragione per cui il Piano avrebbe dovuto essere sottoposto a nuova pubblicazione, nuove osservazioni e nuova verifica di coerenza regionale, ovverosia all'intero iter di ri-approvazione. Il motivo non è fondato. Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento giurisprudenziale (cfr. Suprema Corte di Cassazione, Sez. II, 9 giugno 1993, n. 6442), in caso di modifiche sostanziali da parte della regione, il comune interessato, con apposita deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere una volontà conforme al suggerimento dell'organo regionale, il quale dovrà poi approvare la nuova delibera. Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere introdotte dalla regione d'ufficio in sede di approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e dell'ambiente, che pertanto possono mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del piano. (C. Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 4984). Del resto costituisce altresì un principio consolidato che, in materia urbanistica, l'eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l'appunto, contempla, all'atto dell'approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell'accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l'eventuale necessità di "ripubblicazione" sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso. Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni presentate dopo l'adozione, vi sia stata una "rielaborazione complessiva" del piano stesso, e cioè un "mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione" (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11 novembre 2020, n. 6944; Sez. IV, 21 settembre 2011, n. 5343, id., 26 aprile 2006 n. 2297, id., 31 gennaio 2005, n. 259; id., 10 agosto 2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13 novembre 2020, n. 7027; Sez. IV, 4 dicembre 2013, n. 5769). Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo l'entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 - che, modificando l'art. 10 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ha ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a certe condizioni, di introdurre direttamente talune modifiche con lo stesso atto di approvazione - va riconosciuta la legittimità dell'approvazione "a stralcio con raccomandazioni" (cfr. C. Stato, sez. IV, 6 aprile 1999, n. 524). Ai sensi dell'art. 10, l. 17 agosto 1942, n. 1150, inoltre, alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale" (cfr. C. Stato, sez. IV: 17 settembre 2013, n. 4614). Le modifiche introdotte d'ufficio dalla regione in sede di approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione del piano" (C. Stato, sez. III, 24 marzo 2009, n. 617/09). A differenza dell'ipotesi delle modifiche d'ufficio, in relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente la propria volontà a quella del comune, nell'ipotesi del c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a restituire l'iniziativa all'ente locale, invitandolo a rinnovare l'esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte" (cfr. C. Stato, sez. IV, 6 settembre 2005, n. 4563). In linea con tale indirizzo interpretativo, Consiglio di Stato, Sez. II, 14 novembre 2019, n. 7839 ha chiarito che "proprio con specifico riferimento all'obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell'approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche "obbligatorie" (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche "facoltative" (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche "concordate" (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie" tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame". La giurisprudenza di questa Sezione (sez. IV, 19 novembre 2018, n. 6484) ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri precedenti, "la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono"(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1477; id., 25 novembre 2003, n. 7782). La piana applicazione di tali coordinate alla fattispecie in esame conduce a disattendere il motivo di gravame in disamina. Alla luce dei suesposti il Collegio evidenzia, infatti, che non risulta allegata e dimostrata una modifica di carattere sostanziale, tale da innovare profondamente le linee fondamentali della variante generale del Comune, da comportarne "una rielaborazione complessiva" o un "mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione". La sequenza procedimentale dell'approvazione del P.U.C è stata formalmente rispettata in quanto: a) il comune ha trasmesso gli elaborati del piano alla Regione il 9.8.2012; b) sono stati trasmessi gli elaborati approvati con deliberazione del consiglio comunale n. 43 del 26.7.2012; c) è vero (come afferma il Comune a pagina 26 della memoria depositata il giorno 11 gennaio 2020) che all'epoca dei fatti la legge non indicava il momento in cui doveva intervenire la copianificazione. Come anticipato, è affermazione largamente condivisa in giurisprudenza quella secondo cui, superata la fase dell'adozione definitiva del piano urbanistico, in seguito alle osservazioni, il comune deve procedere a nuova adozione del piano solamente quando ad esso vengano apportate correzioni o modifiche tali da cambiarne radicalmente l'impostazione. Nel caso in esame tale principio non può trovare applicazione. Le variazioni che riguardano le aree di proprietà della San Giacomo apportate mediante la modifica del Progetto Norma di Via (omissis) non possono definirsi essenziali in quanto certamente non incidono e non mutano gli assi portanti del PUC, riguardando semplicemente la riduzione della capacità edificatoria di una porzione limitatissima di territorio (qualche ettaro) ed anzi in tal modo riconfermando le principali linee guida dello stesso PUC caratterizzato dalla valorizzazione dei beni con vocazione paesaggistica e dall'intento di limitare il consumo del suolo e arrestare l'espansione cittadina, anche 9 mediante l'uso della perequazione urbanistica. Né a diverso esito può condurre la censura che evidenzia la mancata verifica di coerenza, in quanto, come ha correttamente evidenziato in il giudice di primo grado, la verifica di coerenza non si traduce in un atto di controllo. Del resto, nel caso in esame, i suggerimenti della Regione sono peraltro stati accolti dal Comune. Parimenti è a dirsi per l'attività di pianificazione che risulta essere stata effettuata, per quanto "annosa e particolarmente sofferta" (si possono leggere i verbali del 2.7.2013 e 7.11.2013 agli atti del giudizio di primo grado). La legittimità dei provvedimenti impugnati consente di disattendere anche la domanda di risarcimento del danno. Sul punto invero è sufficiente richiamare la decisione della Adunanza Plenaria n. 7/2021 che, nel solco della storica sentenza delle Sezioni Unite numero 500 del 1999, ha ribadito la riconducibilità della responsabilità dell'amministrazione per l'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa nel paradigma della responsabilità da fatto illecito, sia pure con alcuni adattamenti. In tale prospettiva, l'esercizio della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l'emanazione di atti illegittimi quanto con un'inerzia colpevole, può quindi essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale neminem laedere disciplinato dall'art. 2043 del codice civile - in cui è affermato un principio generale dell'ordinamento - secondo cui "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno". Elemento centrale nella fattispecie di responsabilità ora richiamato è quindi l'ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio. Declinata nel settore relativo al "risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi", di cui all'art. 7, comma 4, cod. proc. amm., il requisito dell'ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l'esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Alla stregua di tali condivisibili coordinate interpretative, manca nel caso all'esame del Collegio, il primo presupposto per configurare la responsabilità della pubblica amministrazione da attività provvedimentale, vale a dire sotto l'integrazione del danno ingiusto (c.d. danno evento), non ravvisando il Collegio, in radice, l'illegittimità dell'agire provvedimentale nell'operato dell'amministrazione resistente. Il respingimento dell'appello principale, con conseguente conferma della sentenza di primo grado, preclude lo scrutinio delle censure proposte in sede di appello incidentale condizionato, che, in quanto accessorio rispetto a quello principale ne segue le sorti (cfr. Consiglio di Stato, Sezione Settima, n. 6719/2022). In conclusione, per le ragioni esposte, l'appello principale va respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata, mentre l'appello incidentale deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse. Le spese seguono il principio della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello come in epigrafe proposto, così dispone: - respinge l'appello principale; - dichiara improcedibile l'appello incidentale. -condanna la parte appellante alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 6.000,00 (seimila), oltre accessori di legge in favore del comune di Sassari. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Silvia Martino - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Luigi Furno - Consigliere, Estensore Ofelia Fratamico - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DE MASI ORONZO - Presidente Dott. CANDIA UGO - Consigliere Dott. LO SARDO GIUSEPPE - Consigliere Dott. PENTA ANDREA - Consigliere Dott. PICARDI FRANCESCA - Consigliere - Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 10000/2016 R.G. proposto da: (...) Spa, elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell'avvocato GI.AN. (...), che la rappresenta e difende, - ricorrente - contro VENEZIANA ENERGIA RISORSE IDRICHE TERRITORIO AMBIENTE SERVIZI VERITAS Spa, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBERICO II N. 33, presso lo studio dell'avvocato MA.AN. (Omissis), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DO.VI. (Omissis), D.LU.CA. (Omissis) - contro ricorrente - nonché sul controricorso e ricorso incidentale proposto da COMUNE DI VENEZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA B. TORTOLINI 34, presso lo studio dell'avvocato PA.NI. (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati IA.AN. (Omissis), ON.NI. (Omissis), BA.MA. (Omissis) -controricorrente e ricorrente incidentale- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. VENETO n. 1557/2015 depositata il 15/10/2015, udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/01/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. (...) Spa ha impugnato l'avviso di accertamento ed irrogazione sanzioni n. (Omissis) del Comune di Venezia, avente ad oggetto i.c.i. 2005, relativo ad aree che ospitano il polo integrato di trattamento rifiuti di F, identificati al catasto del Comune di Venezia sezione MC, foglio 7, mappali n. 514, sub 1, n. 515, sub 1, sub 516, n. 1, deducendo il difetto di motivazione; la violazione del divieto di doppia imposizione, in considerazione dell'avviso uguale, per lo stesso immobile, emesso nei confronti di Veritas Spa; la propria carenza di soggettività passiva, in quanto titolare di un diritto di godimento derivante da contratto di locazione; l'errata classificazione catastale degli immobili in esame, che, essendo sede di svolgimento di attività di pubblico servizio, sono riconducibili alla classe E e, quindi, esenti; l'illegittimità delle sanzioni per difetto di colpevolezza; la carenza di sottoscrizione e l'inesistenza/nullità della notifica dell'atto impugnato. 2. Analoga impugnazione è stata proposta da Veritas avverso avviso di accertamento nei propri confronti riguardante la medesima annualita dell'i.c.i. per lo stesso complesso immobiliare. 3. La Commissione tributaria provinciale di Venezia, riuniti i ricorsi proposti da La. e Veritas avverso i due distinti avvisi di accertamento riguardanti la medesima annualità dell'i.c.i. per lo stesso complesso immobiliare, ha dichiarato l'illegittimità degli atti impugnati, evidenziando che negli avvisi non sono descritti gli immobili e non è indicato il diritto che giustifica la pretesa, per cui, di fondo, il Comune, esercitando la medesima pretesa tributaria nei confronti di due soggetti passivi, ha rinunciato alla propria funzione di accertamento, devolvendola al giudice tributario, a cui è precluso un ruolo di tipo consultivo. 4. All'esito dell'appello la Commissione tributaria regionale del Veneto ha confermato l'annullamento dell'avviso nei confronti di Veritas, mentre dichiarato la legittimità dell'avviso di accertamento nei confronti di La.. 5. Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione La.. 6. Si è costituito il Comune di Venezia con controricorso in cui ha proposto anche ricorso incidentale. 7. Si è costituita la Veritas che, rispetto alle difese comuni a L, ha aderito alle deduzioni della ricorrente principale e, in via subordinata, in caso di riforma della sentenza impugnata, ha concluso per l'infondatezza della pretesa nei propri confronti e conseguentemente per il rigetto del ricorso incidentale del Comune. 8. La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 17 gennaio 2024, in cui è stata decisa. 9. Risultano depositate memorie di La. e del Comune. 10.La Procura Generale della Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso. 1. Con i primi due motivi la ricorrente ha denunciato, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., la violazione degli artt. 329, secondo comma, cod.proc.civ., 53 e 56 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non avendo preso atto il giudice di appello della formazione del giudicato con riferimento alla statuizione del giudice di primo grado in ordine alla carenza motivazionale dell'avviso impugnato. I motivi sono infondati, in quanto, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, ove l'Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell'avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l'onere d'impugnazione specifica previsto dall'art. 53 del D.Lgs. n. 546 del 1992, secondo cui il ricorso in appello deve contenere "i motivi specifici dell'impugnazione" e non già "nuovi motivi", atteso il carattere devolutivo pieno dell'appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (così Cass., Sez. 5, 29 febbraio 2012, n. 3064, Cass., Sez. 5, 28 febbraio 2011, n. 4784, Cass., Sez. 5, 16 giugno 2006, n. 14031). Cass., Sez. 5, 27 maggio 2016, n. 11001 ha anche affermato che la Corte di cassazione "non è legittimata a sostituirsi alla commissione tributaria regionale negli apprezzamenti di fatto circa la sussistenza del requisito di specificità dei motivi di appello". Da tale premessa deriva che, ai fini dell'impugnazione della statuizione del giudice di primo grado sulla carenza motivazionale degli avvisi impugnati, come ha ritenuto la sentenza impugnata, è sufficiente quella parte dell'appello in cui il Comune ha ribadito che "gli atti contengono tutti i requisiti necessari ad esplicare l'an e quantum della pretesa tributaria", contrapponendosi così alla opposta valutazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale (vedi punto B dell'atto di appello, ultima pagina). 2.Con il terzo ed il quarto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 11, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 504 del 1990, 3, comma 1, della l. n. 241 del 1990 e 7 della l. n. 211 del 2000, e l'omesso esame, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le pari, essendo la sentenza incorsa in error in iudicando in ordine all'adeguatezza della motivazione, affermata con un mero rinvio alla nota 1 ed alla scheda tecnica allegate ad atto impositivo, e non essendosi soffermata sulla omessa indicazione del diritto reale dell'asserito soggetto passivo individuato, nonostante i dubbi esistenti, che hanno indotto all'adozione di due avvisi di accertamento nei confronti di soggetti diversi per lo stesso immobile. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, in quanto pongono la medesima questione, sono infondati. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di imposta comunale sugli immobili, l'obbligo motivazionale dell'accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l'an ed il quantum dell'imposta. In particolare, il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l'indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l'ambito delle ragioni adducibili dall'ente impositore nell'eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell'atto le questioni riguardanti l'effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (tra le tante, Cass., Sez. 5, 8 novembre 2017, n. 26431). Il giudice di merito si è conformato a tale principio, evidenziando, peraltro, che l'avviso di accertamento, che ha indicato chiaramente i riferimenti normativi e gli estremi catastali degli immobili, ha consentito alla parte di impostare la sua difesa, sicché non è ravvisabile alcun error in iudicando. In proposito deve rilevarsi che le deduzioni dalle parti confermano che la motivazione dell'avviso di accertamento ha consentito di individuare gli immobili oggetto di tassazione e di sviluppare le proprie difese in ordine alla debenza del tributo e fondamentalmente alla sussistenza di un diritto di superficie in capo a La. ed alla corretta classificazione catastale dei beni de quibus (questioni oggetto di contestazione). Del resto, in materia tributaria, la completezza della motivazione di un avviso di accertamento va valutata tenendo conto, oltre che della natura vincolata dell'atto tributario e dell'assenza di discrezionalità, del principio di buona fede che deve improntare i rapporti tra l'Amministrazione ed il contribuente. Solo per completezza deve aggiungersi che l'adozione di un altro avviso di accertamento, relativamente al medesimo immobile, nei confronti di altro soggetto passivo, non incide sulla completezza motivazionale dell'atto, ma al più sulla legittimità della pretesa tributaria. 3. Con il quinto, il sesto, settimo e ottavo motivo parte ricorrente ha lamentato, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, n. 5 e n. 1, cod.proc.civ., l'apparenza della motivazione della sentenza, che ha acriticamente aderito alla tesi del Comune senza prendere in minima considerazione le difese della contribuente in ordine all'impossibilità per l'Ufficio di devolvere al giudice tributario l'attività accertativa ed in particolare l'individuazione del soggetto passivo dell'imposta, oltre che la violazione degli artt. 2 e 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non potendo il giudice tributario svolgere una funzione di amministrazione attiva, consistente nell'individuazione del soggetto passivo dell'obbligazione tributaria. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, perché pongono la medesima questione, sono infondati, essendosi la sentenza tributaria soffermata sulle problematiche poste dal contribuente ed avendole superate in forza dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità relativo alla natura di impugnazione-merito del giudizio tributario (v., da ultimo, Cass., Sez. 5, 25 novembre 2022, n. 34723, secondo cui il processo tributario è annoverabile tra quelli di impugnazione -merito, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia, eventualmente, dell'avviso di accertamento o di rettifica dell'ufficio). In particolare il giudice di merito ha richiamato quell'orientamento delle Sezioni Unite, secondo cui la tutela giurisdizionale dei contribuenti, nella disciplina risultante già dall'art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.636, e quindi dall'art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (ancor più nel testo sostituito dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, ed integrato dall'art. 3-bis del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge 2 dicembre 2005, n. 248), è affidata in via esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie (ora Corti di giustizia), concepita come comprensiva di ogni questione afferente all'esistenza ed alla consistenza dell'obbligazione tributaria, e pertanto anche all'individuazione del soggetto tenuto a corrispondere l'imposta o ai limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato (Cass., Sez. U, 4 aprile 2006, n. 7805). In aggiunta alle argomentazioni già sviluppate nella sentenza impugnata, deve sottolinearsi che, nel caso di specie, il comune ha esercitato i suoi poteri con l'adozione di due avvisi di accertamento nei confronti di due soggetti e che, quindi, il giudice tributario è stato chiamato a verificare la legittimità degli avvisi di accertamento riguardo a profili formali (quali, ad esempio, la motivazione) ed a profili sostanziali (quali, ad esempio, la titolarità dell'obbligazione tributaria), in modo del tutto conforme al sistema delineato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, che configura il giudizio tributario come un giudizio di impugnazione. Invero, la richiesta da parte del Comune di accertare il soggetto passivo dell'obbligazione tributario non si è tradotta nella proposizione di un'autonoma azione di accertamento, ma piuttosto nella difesa dei provvedimenti adottati ed impugnati, rectius di almeno uno dei provvedimenti adottati ed impugnati dai contribuenti. Né può ravvisarsi alcuna violazione delle regole procedimentali o sostanziali nella condotta del Comune, che, in una situazione di obiettiva incertezza, di fronte alle contestazioni di entrambi i possibili soggetti passivi, ha formulato la pretesa tributaria nei confronti di entrambi, tenuto conto della necessità di evitare decadenze e prescrizioni. 4. Con il decimo motivo la ricorrente ha censurato, con riferimento al n. 4 dell'art. 360 cod. proc. civ. , la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che fosse titolare del diritto di superficie e, quindi, soggetto passivo d'imposta, atteso che la motivazione sul punto è meramente apparente, consistendo in un generico rinvio ai patti contrattuali tra i soggetti coinvolti (il cui contenuto non è neppure menzionato) ed ai principi di diritto in materia di i.c.i., senza alcun esame delle proprie difese sul punto e delle conclusioni del Comune, che aveva individuato in corso di giudizio quale obbligata la Veritas e solo in via subordinata la La.. Il decimo motivo è fondato. La motivazione della sentenza, in ordine alla titolarità passiva del rapporto obbligatorio in capo alla ricorrente (questione fondamentale del giudizio in esame, visto che l'incertezza circa la configurabilità di un diritto reale di superficie in capo a La. ha indotto il Comune all'adozione dell'avviso di accertamento anche nei confronti della proprietaria del suolo), consiste in tale passaggio motivazionale: "tenuto conto dei patti contrattuali siglati tra i vari soggetti pubblici e privati a vario titolo coinvolti nella realizzazione e gestione dei fabbricati cui si riferisce l'imposta in contestazione, questa Commissione ritiene che il soggetto passivo d'imposta va individuato in (...) Spa". La sentenza non si è, però, minimamente soffermata sul contenuto dei patti contrattuali intercorsi, che non viene neanche descritto. Neppure è chiarito a quali patti si è fatto riferimento, non essendone precisate né le date né le parti. Tale lacuna si traduce in una motivazione del tutto apparente, che non consente di individuare i presupposti di fatto dell'asserito diritto di superficie in capo alla ricorrente ed in relazione ai singoli cespiti immobiliari facenti parte del complesso in esame. In proposito deve ribadirsi che ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un'approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (tra le tante, Cass., Sez. 6-5, 7 aprile 2017, n. 9105). Si è anche precisato che la motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando pur se graficamente esistente ed, eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull'esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 comma 6 Cost (Cass., Sez. 1, 30 giugno 2020, n. 13248). Ciò è avvenuto nel caso in esame, in cui la sentenza impugnata si è diffusamente soffermata sulla soggettività passiva del proprietario superficiario, senza, però, chiarire in base a quali clausole contrattuali è stato attribuito un diritto reale in luogo di un diritto personale e senza neppure affrontare le problematiche connesse alla ripartizione dell'onere probatorio. Questa Corte ha già affermato, ancorché con riferimento ad altra questione, che stabilire se un determinato atto abbia ad oggetto la costituzione di un diritto di superficie ovvero una locazione (o altro atto a contenuto meramente obbligatorio) rappresenta una questione interpretativa, la cui soluzione richiede una valutazione analitica del complesso delle clausole e delle condizioni contrattuali da svolgersi sulla base dei canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. da parte del giudice di merito; di talché, al fine di sancire se una concessione ad aedificandum sia costitutiva di diritti di natura reale o meramente obbligatoria, è decisiva l'interpretazione complessiva del contratto e, in particolare, della disciplina relativa alla sorte delle opere costruite dal concessionario al momento della cessazione del rapporto concessorio (Cass., Sez. 5, 15 ottobre 2021, n. 28261, in materia di imposta di registro; ma v. anche Cass., Sez. 5, 16 aprile 2008, n. 9938, in materia di i.c.i., ai fini della soggezione all'imposta comunale sugli immobili, nel caso di concessione amministrativa su un bene appartenente al demanio marittimo, per stabilire se il provvedimento amministrativo sia costitutivo del diritto reale di superficie o di diritti aventi natura obbligatoria risulta decisiva la complessiva interpretazione dell'atto - di competenza del giudice di merito, trattandosi di apprezzamenti di fatto - che deve essere condotta alla stregua del suo contenuto e delle clausole in cui si articola). Prima della dell'art. 18 della l. n. 388 del 2000, che, modificando l'art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 504 del 1992, ha esteso espressamente la soggettività passiva dell'imposta ai concessionari di aree demaniali, rendendo di conseguenza irrilevante la questione afferente gli effetti reali o obbligatori della concessione, si è affermato che, ai fini della soggezione all'imposta comunale sugli immobili, nel caso di assegnazione di un'area demaniale per la costruzione di un opificio industriale, per stabilire se il provvedimento amministrativo, qualificabile come concessione "ad aedificandum", sia costitutivo di un diritto reale di superficie, con conseguente imponibilità, ovvero di un diritto avente natura meramente personale, assume rilievo decisivo la destinazione dell'opera costruita dal concessionario al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del concedente, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in proprietà del concessionario, il diritto in virtù del quale questi l'ha realizzata ha sicuramente la natura reale del diritto di superficie (Cass., Sez. 5, 21 giugno 2016, n. 12798). Alla luce di tali principi il giudice di merito deve risolvere la questione controversa, soffermandosi in modo puntuale, nella motivazione, sul contenuto dei patti contrattuali intercorsi tra le parti e sulla sorte degli immobili costruito al momento della cessazione del rapporto contrattuale. L'accoglimento del decimo motivo comporta, da un lato, l'assorbimento dell'undicesimo, con cui si è denunciato l'omesso esame di fatti decisivi sempre in merito alla ritenuta titolarità del diritto di superficie di La., e, dall'altro, il rinvio del giudizio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, che dovrà motivare in ordine alla eventuale titolarità passiva dell'obbligazione tributaria in esame in capo alla ricorrente, in base ad un'analisi complessiva dei patti contrattuali, soffermandosi e descrivendo il contenuto delle clausole su cui fonda la sua conclusione e tenendo conto della destinazione dell'opera costruita al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del proprietario del suolo, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in proprietà del soggetto che ha realizzato l'opera, il diritto ha la natura reale del diritto di superficie. 5. Con il dodicesimo ed il tredicesimo motivo la ricorrente ha dedotto, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. , la violazione del principio di doppia imposizione e conseguentemente di capacità contributiva. I motivi in esame devono essere rigettati. Invero, dal punto di vista normativo, l'i.c.i. in ordine ad un immobile grava su un unico soggetto passivo, per cui non vi è una doppia imposizione giuridica interna a livello normativo. Il problema del presente contenzioso attiene piuttosto all'individuazione dell'effettivo soggetto passivo del tributo. Neppure si può ritenere violato alcun principio di natura procedimentale, atteso che la Pubblica amministrazione si è limitata a rivolgere la sua pretesa tributaria, senza ricevere alcuna soddisfazione, in modo non ancora definitivo, in una situazione di obiettiva incertezza. In proposito questa Corte ha già chiarito che viola il divieto di doppia imposizione la richiesta dell'Amministrazione finanziaria di pagamento dell'imposta quando, rispetto allo stesso tributo, abbia già esercitato ed esaurito il potere impositivo in dipendenza del medesimo presupposto (Cass., Sez. 5, 18 dicembre 2015, n. 25498): ipotesi diversa da quella in esame, in cui la pretesa deve ancora realizzarsi ed è contestata. Deve, pertanto, affermarsi il principio: in tema di i.c.i., in assenza di uno specifico ed espresso divieto, in caso di incertezza o contestazioni, prima di un accertamento definitivo, l'Amministrazione può rivolgere la pretesa tributaria nei confronti dei possibili soggetti passivi, onde evitare di incorrere in decadenza o prescrizione, salvo il divieto, desumibile anche dalle regole generali in materia di indebito, di riscuotere lo stesso tributo più volte. 6. Con il quattordicesimo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza nella parte in cui ha escluso che, nella specie, potesse vantarsi l'esenzione per la classificazione catastale dell'area nella categoria E/9, come riconosciuto dalla Corte di cassazione con sentenza n. 3358 del 19.2.2015. Il motivo è infondato, atteso che, in tema di ICI, l'art. 7, lett. b), del D.Lgs. n. 504 del 1992, nella parte in cui prevede che sono esenti dal imposta i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9 deve essere inteso -secondo i criteri dell'interpretazione letterale, in coerenza con i principi generali dell'ordinamento e con l'art. 5, comma 3, dello stesso decreto - nel senso che l'esenzione si riferisce ai fabbricati così classificati oppure a quelli non ancora iscritti al catasto per i quali nel medesimo periodo sussistono i presupposti per l'iscrizione nelle categorie indicate, con esclusione, pertanto, degli immobili già iscritti in categorie diverse da quelle indicate con le sigle E/3 a E/9, ad iniziativa del contribuente, atteso che quest'ultimo non può, per beneficiare della suddetta esenzione, invocare a suo favore l'errore se non nei limiti e con gli effetti temporali propri della variazione della classificazione (Cass., Sez. 5, 30 settembre 2019, n. 24279). La sentenza impugnata ha correttamente applicato tale principio, sottolineando che solo successivamente all'anno di imposta in esame sono intervenute variazioni impulso di parte. catastali su impulso di parte. Premesso che la sentenza di questa Corte n. 3358 del 2015, a cui fanno riferimento La. e Veritas, menziona una d.o.c.f.a del 2008 e, pertanto, ad una variazione catastale intervenuta non su impulso dell'ufficio, ma del contribuente, successivamente all'annualità in esame, senza neppure chiarire i beni oggetto dell'avviso impugnato e senza alcun riferimento ad un errore originario della classificazione, parte ricorrente, con la proposizione della censura in esame, formulata quale violazione di legge, introduce, in modo, peraltro, non chiaro, circostanze di fatto (rilevanti ai fini di un orientamento giurisprudenziale diverso da quello applicato nella sentenza impugnata), che sono estranee all'accertamento del giudice di merito e che non sono suscettibili di verifica in questa sede di legittimità. 7. Con il quindicesimo motivo, la ricorrente ha censurato la sentenza nella parte in cui ha escluso che il Comune di Venezia (che nel giudizio di appello ha concluso in via principale per la conferma dell'avviso nei confronti di Veritas e solo in via subordinata per la conferma dell'avviso nei confronti di La.) avesse revocato in autotutela l'avviso di accertamento. Il motivo è infondato, atteso che, come ritenuto dal giudice di merito, le conclusioni processuali del Comune non si traducono in alcun atto di autotutela, tenuto conto, del resto, della circostanza che il Comune, nelle conclusioni del giudizio di appello, non ha rinunciato alla sua pretesa nei confronti della ricorrente, ma l'ha solo formulata in via subordinata rispetto a quella rivolta all'altra parte Veritas. 8. Con il sedicesimo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimo l'avviso di accertamento anche nella parte relativa alle sanzioni, dovendosi escludere un comportamento doloso della ricorrente in considerazione dell'incertezza circa la sussistenza dell'obbligazione tributaria, confermata dall'adozione di un avviso di accertamento nei confronti di due soggetti diversi. Il motivo è assorbito in conseguenza dell'accoglimento del decimo e della necessità di accertare la effettiva debenza del tributo, presupposto dell'applicazione delle sanzioni. 9. In conclusione, va accolto il decimo motivo di ricorso, assorbiti l'undicesimo ed il sedicesimo e rigettati tutti gli altri, e conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado, che dovrà motivare in ordine alla eventuale titolarità, in capo alla ricorrente, del rapporto tributario, in base ad un'analisi complessiva dei patti contrattuali, soffermandosi e descrivendo il contenuto delle clausole contrattuali su cui fonda la sua conclusione e tenendo conto della destinazione dell'opera costruita al momento della cessazione del rapporto, atteso che, se essa torna nella disponibilità del proprietario del suolo, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre, se essa passa in proprietà del soggetto che ha realizzato l'opera, il diritto ha la natura reale del diritto di superficie. La cassazione della statuizione della sentenza che accerta la legittimità dell'avviso di accertamento nei confronti della ricorrente ha effetto, ai sensi dell'art. 336 cod. proc. civ. , anche relativamente alla statuizione dipendente avente ad oggetto l'illegittimità dell'avviso di accertamento nei confronti di Veritas. Difatti, la legittimità della pretesa tributaria del Comune nei confronti di Veritas è stata esclusa in conseguenza dell'accertamento dell'obbligazione tributaria in capo a La.. Invero, in tema di i.c.i., posto che la sussistenza di un diritto reale di superficie esclude la soggettività passiva del proprietario, la decisione della causa avente ad oggetto la legittimità dell'avviso di accertamento nei confronti del proprietario è dipendente da quella avente ad oggetto la legittimità dell'avviso di accertamento nei confronti dell'asserito titolare di un diritto reale di superficie, in modo analogo a quanto avviene nelle controversie civili in cui il convenuto debitore chiama in causa un terzo indicandolo quale unico responsabile dell'obbligazione (Cass., Sez. 1, 28 febbraio 2018, n. 4722, in materia di procedimento civile, con la chiamata in causa del terzo quale unico responsabile si realizza un'ipotesi di dipendenza di cause, in quanto la decisione della controversia fra l'attore ed il convenuto, essendo alternativa rispetto a quella fra l'attore ed il terzo, si estende necessariamente a quest'ultima, sicché i diversi rapporti processuali diventano inscindibili, legati da un nesso di litisconsorzio necessario processuale per dipendenza di cause o litisconsorzio alternativo che, permanendo la contestazione in ordine all'individuazione dell'obbligato, non può essere sciolto neppure in sede d'impugnazione). Il rigetto del motivo di ricorso di La. in ordine alla titolarità passiva dell'obbligazione tributaria in esame è, difatti, alternativo a quello analogo formulato da Veritas. Da tale premessa deriva che tutte le questioni aventi ad oggetto l'individuazione del soggetto passivo del tributo in esame, che sono state riproposte anche delle controricorrenti e che riguardano pure Veritas, non possono essere affrontante in questa sede, ma devono essere decise dal giudice del rinvio, dipendendo dalla decisione del ricorso proposto da La.. Non vi è, dunque, pronuncia sul ricorso incidentale proposto dal Comune, che deve considerarsi assorbito (sia pur in senso atecnico) in conseguenza della caducazione ex art. 336 c.p.c. della statuizione avente ad oggetto l'illegittimità dell'avviso di accertamento nei confronti di Veritas. Per quanto concerne Veritas, le questioni comuni a La. e Veritas sono state affrontate, anche in questa sede, nel pieno contraddittorio di tutte le parti e rigettate, sicchè resta in discussione solo l'individuazione del soggetto passivo del tributo, rimessa al giudice del rinvio. 10. In conclusione, rigettati i primi nove motivi, oltre al dodicesimo, tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo, assorbiti l'undicesimo ed il sedicesimo motivo, va accolto il decimo motivo e conseguentemente cassata la sentenza in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, per la decisione, anche nei confronti di Veritas, di tutte le questioni relative all'individuazione del soggetto passivo del tributo, oltre che per la regolamentazione delle spese di lite. La Corte: accoglie il decimo motivo di ricorso, rigetta i primi nove motivi, il dodicesimo, tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo motivo; dichiara assorbiti l'undicesimo ed il sedicesimo motivo ed il ricorso incidentale del Comune; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di giustizia di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese di lite. Così deciso in Roma, 17 gennaio 2024. Depositato in cancelleria il 31 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10628 del 2019, proposto dalla società Tr. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Pa. Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma - in parte qua della sentenza del T.a.r. per il Veneto, n. 1069, pubblicata in data10 ottobre 2019, emessa nei giudizi riuniti R.G.1849/2013, 749/2015 e764/2015, non notificata, limitatamente alla parte in cui ha respinto il ricorso proposto dalla società Tr. a r.l., accertando "il diritto del Comune di (omissis) di pretendere la somma di Euro 88.028,00 (...)a titolo di oblazione e la somma di Euro 29.883,60 a titolo di oneri di urbanizzazione per le sopra menzionate domande di condono oltre interessi legali e rivalutazione monetaria", nonché condannando la società alla rifusione delle spese in favore del Comune di (omissis). Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 15 dicembre 2023 il consigliere Marina Perrelli e uditi per le parti gli avvocati Fr. Pa. Fr. e Al. Ve.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L'appellante società Tr. a r.l. ha esposto che: a) ha acquistato dalla Cl. S.p.A., con atto di compravendita rep. n. 83748, registrato l'11 dicembre 2014, per notaio Fr. Gi., il capannone sito in Comune di (omissis), via (omissis), catastalmente censito al foglio (omissis), mappale n. (omissis), sub. (omissis); b) il capannone è stato edificato in forza dei seguenti provvedimenti autorizzativi: 1) concessione edilizia n. 4999 del 31 gennaio 1977 con destinazione a "magazzino agricolo" per una superficie lorda di mq. 1053 (foglio (omissis), mappale n. (omissis)); 2) variante in sanatoria alla concessione edilizia n. 4.999 pratica n. C9900248 del 29 novembre 1999; 3) concessione edilizia in sanatoria n. 197 prot. n. 156/P dell'8 gennaio 1993, rilasciata per ampliamento del capannone di mq. 640 in assenza di titolo, con destinazione d'uso della parte ampliata a "commerciale", a seguito di istanza del 27 marzo 986 prot. n. 8420 (foglio (omissis), mappale n. (omissis), sub. 7); 4) concessione edilizia del 28 dicembre 1987 n. 31916/86, ai sensi della L.R. n. 1 del 1982, previa stipula della convenzione con il Comune rep. n. 91073 del 9 ottobre 1987 e vincolo di destinazione d'uso commerciale, ai sensi dell'art. 4 della medesima legge, per ampliamento di mq. 1010 e ristrutturazione di un fabbricato ad uso commerciale (foglio (omissis), mappale n. (omissis), sub. Fr. Gi.); 5) variante in corso d'opera in data 11 ottobre 1988 prot. n. 16987 alla concessione edilizia n. 31916 del 28 dicembre 1987 per la ristrutturazione e l'ampliamento, ai sensi della L.R. n. 1/82, di un fabbricato con destinazione commerciale; 6) provvedimento n. 8108 del 2 maggio 1989 di agibilità per l'uso commerciale per le porzioni ampliate di superficie di mq. 1650; 7) concessione dell'1 febbraio 2001 prot. n. 5664, pratica n. C000461, per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione di porzioni di un fabbricato ad uso produttivo-commerciale, da destinarsi al confezionamento di prodotti alimentari; 8) d.i.a. dell'8 giugno 2000, prot. n. 25665 per opere interne di singole unità immobiliari che non comportano modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile, avente destinazione d'uso artigianale/commerciale; 9) d.i.a in data 2 gennaio 2001, prot. n. 45, relativa all'esecuzione di opere interne, sull'immobile ricadente in zona agricola "E", classificata dal vigente P.R.G. "Variante generale artigianale impropria", con destinazione d'uso artigianale/commerciale; 10) d.i.a. del 28 dicembre 2001, prot. 59936 per opere interne di singole unità immobiliari che non comportano modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile, avente destinazione d'uso artigianale; c) con domanda prot. n. 20513 del 23 aprile 2004 la società It., proprietaria dell'immobile antecedentemente alla società dante causa dell'odierna appellante, ha chiesto il condono, ai sensi della legge n. 269/2003, per il "cambio di destinazione d'uso di una porzione di mq. 1061 circa di uno stabilimento produttivo che da agricolo è stata variata in artigianale-industriale, in difformità rispetto alla concessione n. 4999 del 31.08.1977" per la porzione di immobile corrispondente al foglio (omissis), mappale (omissis), sub. (omissis); d) con altra domanda prot. n. 20512 del 23 aprile 2004 sempre la società It. aveva chiesto il condono edilizio per degli interventi di manutenzione straordinaria in difformità consistenti in alcune partizioni interne e forometrie prospettiche eseguite all'interno dei due ampliamenti dell'immobile (foglio (omissis), mappale (omissis), sub. (omissis)); e) entrambe le dette domande erano state originariamente corredate dall'attestazione del versamento dell'oblazione, dalla dichiarazione ai sensi dell'art. 46 del d.P.R. n. 445 del 2000, dalla documentazione fotografica, nonché successivamente, nonché in data 9 novembre 2005 integrate dalla relazione illustrativa in triplice copia, dall'atto notarile di compravendita rep. n. 67521, racc. n. 35941 del 5 ottobre 2004, dalla denuncia ai fini ICI, dalla dichiarazione per la tassa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, dalla copia dell'accatastamento, dagli elaborati grafici di progetto in triplice copia (Tavola 1 estratto di mappa e P.R.G., planimetria dello stato dei luoghi, piano fotografico; Tavola 2 piante e prospetti); f) con le note prot. n. 8843 e n. 8840 del 28 febbraio 2013 il Comune ha comunicato che secondo "quanto stabilito dall'art. 4, comma 3, del LR 21/2004, in materia di condono edilizio, "nel caso di cambio d'uso con opere la misura dell'oblazione è quella prevista per la tipologia 3 dalla tabella C allegata alla legge su condono (ristrutturazione) e non la tipologia 6 (manutenzione straordinaria) come da Voi elencato e anticipato nell'oblazione(...) Quindi andrà ricompilato il modello della domanda di condono"; g) con la nota del 18 giugno 2013 l'amministrazione comunale ha ritenuto che per la parte riferibile alla porzione di immobile, corrispondente al mappale (omissis) sub 6, i lavori dichiarati fossero classificabili come opere edilizie con cambio di destinazione d'uso, "catalogabili come ristrutturazione quantomeno per i circa 300 mq della zona in cui sono state realizzate le opere" e ha applicato l'oblazione secondo la tabella C tipologia 3 (80 Euro/mq) e gli oneri concessori secondo la tabella D (27 Euro/mq); per la restante parte di circa 800 mq ha ritenuto che potesse "essere autorizzata applicando la sola tabella D", stabilendo infine che "per quanto riguarda il condono della porzione di immobile ad ovest, mappale (omissis) sub 7 e 8W04/005 per modifiche interne (senza cambio di destinazione d'uso) presentato in data 23.04.2004 p. 20512 (...) la domanda sarà definita unitamente a quella della porzione suddetta"; h) con le note prot. n. 12849 e n. 12850, entrambe del 31 marzo 2015 l'amministrazione comunale ha ribadito la predetta impostazione in relazione alla definizione delle domande di condono. 1.2. Con la sentenza appellata il T.a.r. per il Veneto, previa riunione dei ricorsi ha accolto i ricorsi r.g. n 1849 del 2013 e r.g. n. 749 del 2015 e, per l'effetto, ha annullato i provvedimenti impugnati nei limiti e nel senso precisati in motivazione, mentre ha respinto il ricorso r.g. n. 764 del 2015, accertando "il diritto del Comune di (omissis) di pretendere la somma di Euro 88.028,00 (da dividere in parti uguali in favore del Comune e dello Stato) a titolo di oblazione e la somma di Euro 29.883,60 a titolo di oneri di urbanizzazione per le sopra menzionate domande di condono oltre interessi legali e rivalutazione monetaria". 1.3. La società appellante, previa richiesta, in via istruttoria, dell'autorizzazione a depositare la Convenzione, ai sensi dell'art. 4 della L.R. 1/1982, stipulata il 9 ottobre 1987 dal sig. Dal Mo. con il Comune di (omissis) che, sebbene risalente nel tempo, è stata acquisita a seguito di istanza di accesso agli atti, depositata in data 4 novembre 2019 e parzialmente riscontrata solo il 6 dicembre 2019, ha dedotto l'erroneità della sentenza appellata articolando dieci motivi: 1) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, violazione dell'art. 3 c.p.a., carenza di motivazione, violazione dell'art. 32, comma 37, del d.l. n. 269/2003 nella parte in cui ritiene che non si sia formato il silenzio assenso sulle istanze di condono, nonostante il decorso del termine normativamente prescritto, affermando che "l'istante aveva versato delle somme irrisorie a titolo di oblazione (...) e nulla per gli oneri di urbanizzazione, allegando della documentazione che si è rivelata insufficiente e lacunosa sia al principio, sia a seguito della successiva spontanea produzione documentale, sia a seguito delle richieste di integrazioni istruttorie che non sono state soddisfatte". L'appellante ritiene che le somme versate a titolo di oblazione costituirebbero l'importo autoliquidato sulla base delle indicazioni dei tecnici, in accordo con le determinazioni comunali, rientrando entrambi gli abusi nella tipologia 6 (cambio di destinazione d'uso senza opere non valutabile in termini di superficie o di volume e opere di manutenzione straordinaria), mentre gli oneri di urbanizzazione non sarebbero dovuto in mancanza di un aumento del carico urbanistico. Con riguardo alla asserita carenza documentale delle domande di condono l'appellante afferma che se effettivamente, come ha affermato il giudice di prime cure, i documenti fossero stati solo menzionati ma non allegati, il Comune avrebbe dovuto adottare un provvedimento di richiesta d'integrazione documentale o quantomeno inoltrare una comunicazione all'istante e che non sarebbe stata dimostrata la notifica della nota prot. 2970 del 16 ottobre 2006 né all'odierna appellante né alle sue danti causa. Deduce, inoltre, l'appellante che il giudice di primo grado avrebbe omesso di considerare che la predetta nota sarebbe comunque inidonea a interrompere il decorso del termine per la formazione del silenzio assenso, atteso che, oltre a mancare la prova dell'avvenuta notifica, sarebbe errato l'indirizzo della It., già liquidata e cancellata dal Registro delle Imprese dal 10 gennaio 2006, nonché non più proprietaria a seguito della cessione alla società Cl.; 2) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 32, comma 36, del d.l. n. 269/2003, convertito nella legge n. 326/2003, dell'art. 3 della legge n. 241/1990 per difetto assoluto di motivazione, per violazione dell'art. 97 Cost.. Secondo l'appellante il diritto al conguaglio o al rimborso spettante al Comune sarebbe prescritto, ai sensi dell'art. 32, comma 36, del d.l. n. 269/2003 in quanto già dalla data in cui l'istante ha provveduto all'integrazione documentale del 2005 l'amministrazione sarebbe stata in grado di calcolare l'esatto ammontare dell'oblazione e di chiederne un conguaglio avendo utilizzato nel 2015 la stessa documentazione già prodotta dal 2004; 3) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a. per carenza assoluta e illogicità della motivazione. Ad avviso dell'appellante la sentenza di primo grado sarebbe erronea nella parte in cui non ha accolto la ricostruzione della qualificazione degli abusi come rientranti nella tipologia 6 - modifica della destinazione d'uso senza opere e senza aumento del carico urbanistico - sul presupposto che sarebbe stata artatamente frazionata la richiesta di sanatoria. Il giudice non avrebbe correttamente valutato la differente epoca di realizzazione degli abusi in quanto quello relativo al cambio di destinazione d'uso, di cui alla domanda di condono prot. n. 20513 del 23 aprile 2004, sarebbe stato commesso prima del 3 gennaio 1979 e riguarderebbe il solo fabbricato identificato al foglio (omissis), mappale (omissis), sub. (omissis), cioè quello condotto in locazione dalla ditta Al. per il commercio di generi alimentari all'ingrosso, mentre quello relativo alle opere interne, definito con la domanda di condono prot. n. 20512 del 23 aprile 2004, riguarderebbe lavori realizzati a partire dal 1993 e relativi ai fabbricati aggiunti al corpo originale di fabbrica. Secondo la prospettazione di parte appellante la sentenza sarebbe, pertanto, manifestamente illogica laddove afferma che opere realizzate a partire dal 1993 sarebbe "preordinate o connesse" ad un cambio di destinazione d'uso avvenuto sin dal 1979, cioè quattordici anni prima. Né, infine, la zona urbanistica in cui ricade il capannone rientrerebbe tra quelle all'interno delle quali era espressamente vietato il cambio di destinazione d'uso in artigianale-industriale non potendosi interpretare per analogia le disposizioni tassativamente contenute nello strumento urbanistico; 4) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a., per carenza assoluta di motivazione, per violazione dell'art. 1 della legge n. 241/1990, dei principi di efficacia ed economicità del procedimento. L'appellante lamenta che il giudice di primo grado avrebbe stringatamente liquidato la dedotta contraddittorietà dell'azione amministrativa senza considerare che le due note del 2015 smentirebbero in parte quelle precedenti del 2013, non sarebbe possibile diluire nel tempo i motivi per cui la P.A. ritiene un intervento non assentibile in palese violazione dei principi di economicità ed efficacia dell'azione amministrativa; 5) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a., per illogicità della motivazione, per violazione degli artt. 41 e 97 Cost., per inosservanza dei principii di buon andamento e di legittimo affidamento. Ad avviso dell'appellante la sentenza sarebbe laconica laddove afferma che non si sarebbe formato alcun legittimo affidamento nonostante il decorso di nove anni dal deposito delle domande di condono senza che fosse precedentemente intervenuto alcun atto a contestare la tempestività e completezza della domanda e la procedibilità della stessa; 6) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 10 bis della legge n. 241/1990, per violazione dell'art. 3 c.p.a.. La sentenza impugnata avrebbe invertito l'ordine di trattazione dei motivi e non avrebbe erroneamente rilevato come la comunicazione di preavviso di diniego, oltre a costituire un'obbligatoria instaurazione del contraddittorio con il privato, nonché un presidio della leale collaborazione tra pubblico e privato, preannuncia le motivazioni dei provvedimenti negativi successivamente adottati consentendo l'esercizio del diritto di difesa; 7) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione degli artt. 3 e 21 nonies della legge n. 241/1990 per omessa comparazione degli interessi pubblici coinvolti. La sentenza impugnata non avrebbe ritenuto configurabile alcun atto di secondo grado e, quindi, erroneamente non avrebbe ritenuto illegittimo il provvedimento emanato a distanza di molti anni dal rilascio della concessione tacita in sanatoria; 8) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a. per carenza e illogicità della motivazione. Ad avviso dell'appellante il T.a.r. non avrebbe erroneamente rilevato l'insanabile contraddittorietà tra le due richieste di integrazione istruttoria del 28 febbraio 2013 e del 18 giugno 2013, atteso che la prima riguardava solo una delle due domande, mentre la seconda riguardava entrambe con la richiesta di documenti diversi e la enunciazione di distinte normative asseritamente applicabili, respingendo la relativa censura sul presupposto dell'artificiosa frammentazione delle istanze di condono; 9) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a., per carenza assoluta di motivazione. La sentenza sarebbe erronea laddove ha ritenuto che il riferimento alla normativa regionale contenuto nella nota del 28 febbraio 2013 potesse "considerarsi un mero refuso privo di ogni conseguenza sul piano giuridico."; 10) error in iudicando in fatto e in diritto per manifesta illogicità, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per violazione dell'art. 3 c.p.a., per carenza assoluta di motivazione, per violazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 241/1990, per inosservanza del principio del contraddittorio. A differenza di quanto affermato nella sentenza appellata la legge non prevedrebbe un'automatica operatività della sanatoria ex art. 21 octies della legge n. 241/1990, ma subordinerebbe all'operatività della stessa la prova in giudizio, da parte dell'Amministrazione, sul fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto differire in alcun modo. 1.4. L'appellante deduce infine l'iniquità della condanna alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di (omissis) alla luce della contraddittorietà dell'azione amministrativa che connota la vicenda fattuale sottesa alla controversia. 2. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio ed ha eccepito l'inammissibilità della nuova produzione documentale da parte dell'appellante, consistente nella convenzione ex art. 4 della L.R. n. 1/1982, stipulata il 9 ottobre 1987 tra il Comune ed il sig. Dal Mo. in quanto nonostante la stessa fosse espressamente citata nella documentazione prodotta nel giudizio di primo grado il 19 maggio 2015, l'appellante si è adoperata a chiederne copia solo con l'istanza di accesso del 4 novembre 2019. 2.1. Nel merito il Comune ha concluso per la reiezione dell'appello sostenendo la correttezza delle conclusioni cui è giunto il giudice di primo grado e prima ancora dell'operato dell'Amministrazione appellata. 3. Con memorie e repliche ex art. 73 c.p.a. entrambe le parti hanno ribadito le rispettive posizioni, nonché l'appellante la sussistenza del proprio interesse alla definizione del presente giudizio, nonostante nelle more del giudizio siano stati rilasciati i titoli edilizi in sanatoria, al fine di ottenere dal Comune la restituzione della somma di Euro 88.028,00, versata a titolo di oblazione, e la somma di Euro 29.883,60, versata a titolo di oneri di urbanizzazione, per le sopra menzionate domande di condono oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. 4. All'udienza del 15 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 5. Il Collegio ritiene di dovere dare atto nelle more del giudizio d'appello il Comune di (omissis), in data 1 settembre 2022 ha rilasciato il condono edilizio relativamente alle istanze prot. 0020512 e prot. 0020513 oggetto di causa. A fronte delle deduzioni di parte appellante con riguardo alla ammissibilità della predetta produzione documentale, il Collegio rileva che si tratta di atti sopravvenuti all'instaurazione del giudizio e rilevanti ai fini della decisione essendo gli atti conclusivi delle istanze di condono di cui si controverte. 6. Deve, invece, essere respinta l'istanza volta a depositare nel presente giudizio la Convenzione, ai sensi dell'art. 4 della L.R. 1/1982, stipulata il 9 ottobre 1987 dal sig. Dal Mo. con il Comune di (omissis) sul presupposto che, sebbene risalente nel tempo, è stata acquisita solo a seguito di istanza di accesso agli atti, depositata in data 4 novembre 2019 ed esitata il 6 dicembre 2019. 6.1. Ai sensi dell'art. 104, comma 2, c.p.a. "Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile". Nessuna delle suddette condizioni ricorre nel caso all'esame, atteso che, per un verso, non ricorre l'ipotesi della mancata produzione per fatto non imputabile alla parte, dal momento che il suddetto documento preesisteva rispetto alla decisione della causa in primo grado e l'appellante, che ne aveva conoscenza, avrebbe potuto tempestivamente produrlo, e per altro verso la causa può essere decisa sulla base dei documenti e degli elementi di prova già ritualmente introdotti nel giudizio di primo grado. 7. Nel merito l'appello non è fondato e va respinto per le seguenti ragioni. 8. Il giudizio verte su due istanze di condono che afferiscono al medesimo compendio immobiliare, suddiviso in tre subalterni (6, 7 e 8), il cui fabbricato originario, corrispondente al subalterno 6, è stato assentito con concessione edilizia n. 4999 del 31 agosto 1977 e con destinazione a "magazzino agricolo" per una superficie lorda di 1.053 mq., successivamente ampliato e modificato nei prospetti, con opere legittimate con provvedimenti di sanatoria rilasciati nel corso degli anni e specificamente elencati nella parte in fatto. L'istanza prot. è stata presentata per il cambio di destinazione d'uso a stabilimento produttivo della porzione di 1061,00 mq circa - superficie definita successivamente, con integrazione del 29 novembre 2005 p. 0061131 in 1106,80 mq - che da destinazione agricola è stata variata alla destinazione artigianale-industriale, in difformità rispetto alla CE n. 4999 del 31 agosto 1977, relativa al subalterno 6 del mappale (omissis), foglio (omissis); l'istanza prot. 0020512 è stata presentata per la realizzazione in difformità rispetto alla CE n. 4999 del 31 agosto 1977 di alcune porzioni interne, nonché di alcune forometrie prospettiche delle unità del fabbricato mappale (omissis), foglio (omissis). 9. Sostiene parte appellante che la sentenza impugnata erroneamente avrebbe ritenuto che sulle due domande di condono non si sarebbe formato il silenzio assenso, come affermato dalla società Trentin. Al riguardo il giudice di primo grado ha affermato che "Nel caso di specie, come documentato dal Comune nelle proprie difese, l'istante aveva versato delle somme irrisorie a titolo di oblazione rispetto a quanto dovuto e nulla per gli oneri di urbanizzazione, allegando della documentazione che si è rivelata insufficiente e lacunosa sia al principio, sia a seguito della successiva spontanea produzione documentale, sia a seguito delle richieste di integrazioni istruttorie che non sono state soddisfatte (all'inizio è stato presentato solo il modulo contenente una generica descrizione dell'abuso senza il versamento degli oneri concessori connessi al cambio di destinazione d'uso; con la produzione spontanea è stata depositata una relazione illustrativa con delle tavole e copia dell'atto di compravendita, senza allegare la denuncia ICI, la denuncia ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti e la copia dell'accatastamento che sono state solo menzionate ma non allegate)". 9.1. Il Collegio, alla luce della documentazione presente agli atti del giudizio, ritiene la predetta conclusione esente da vizi e in linea con la giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 7 gennaio 2020, n. 98; Cons. Stato, sez. II 18 luglio 2019, n. 5061) secondo la quale il termine di 24 mesi, decorso il quale si forma il silenzio assenso su una domanda di condono edilizio, presuppone che la domanda stessa sia completa di tutta la documentazione necessaria a valutarla. Nel caso di specie l'appellante non ha assolto all'onere probatorio relativo alla dimostrazione della completezza della documentazione depositata unitamente alle domande di condono, né a fronte della reiterata contestazione della mancata effettiva produzione delle denunce ai fini ICI e della tassa rifiuti, dell'accatastamento e della dichiarazione sostitutiva con la descrizione delle opere, il cui deposito è stato solo affermato nella nota integrativa n. 61131/2005, mancando per contro la relativa protocollazione, è stata fornita la prova del contrario. Nel fascicolo di primo grado, infatti, non risultano presenti i predetti documenti, asseritamente allegati alle originarie istanze di condono, come si evince anche dalla documentazione prodotta dalla stessa Amministrazione (docc. 7, 8 e 10 del fascicolo di primo grado depositati in data 19 giugno 2015), né sono allegati alla nota del professionista dell'appellante che li cita nella nota del 9 novembre 2005 (doc. 10). 9.2. A comprova della necessità dell'integrazione documentale vi sono poi tutte le note impugnate con le quali l'amministrazione ha reiterato la propria richiesta di ulteriore documentazione sino ad ottenerla e a rilasciare infine i provvedimenti favorevoli, come si evince dalla lettura degli stessi. 10. E' infondata anche la censura con la quale l'appellante deduce che il diritto al conguaglio o al rimborso spettante al Comune sarebbe prescritto, ai sensi dell'art. 32, comma 36, del d.l. n. 269/2003 in quanto già dalla data in cui l'istante ha provveduto all'integrazione documentale del 2005 l'amministrazione sarebbe stata in grado di calcolare l'esatto ammontare dell'oblazione e di chiederne un conguaglio avendo utilizzato nel 2015 la stessa documentazione già prodotta dal 2004. 10.1. Il giudice di primo grado ha disatteso l'eccezione evidenziando che "ai sensi dell'art. 32, comma 36, del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, il termine di prescrizione di 36 mesi decorre solo se la domanda presentata è completa e l'oblazione sia stata interamente corrisposta e tali elementi non sussistono nel caso di specie, dove peraltro nulla è stato versato a titolo di oneri concessori, come rilevato in occasione dell'esame del primo motivo". 10.2. Anche tale conclusione è esente dai vizi di carenza e illogicità della motivazione dedotti da parte appellante ed è in linea con la costante giurisprudenza di questo Consiglio che ha in più occasioni avuto modo di precisare in relazione alle differenti normative che disciplinano i condoni che il decorso dei termini fissati - ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute - "presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento." (Cons. Stato, sez. IV, 10 novembre 2023, n. 9660; Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 314). E' stato, inoltre, chiarito che il termine di prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme versate decorre dal momento di formazione del titolo edilizio in sanatoria - in modo espresso o secondo il meccanismo dell'accoglimento tacito - e non dal momento di presentazione della domanda (Cons. Stato, sez. VI, 14 dicembre 2022, n. 10961; Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2014, n. 2264). Ne discende, pertanto, che non essendosi formato per le ragioni già esposte il silenzio assenso sulle istanze di condono, non sussisteva il presupposto per il decorso del termine di prescrizione, anche a prescindere dalla considerazione dell'efficacia interruttiva delle note provenienti dall'Amministrazione. 11. All'accertamento della mancata formazione del silenzio assenso consegue anche l'infondatezza di tutte le censure con le quali l'appellante si duole della violazione delle disposizioni procedimentali relative all'adozione di atti di autotutela non esistendo nessun provvedimento né espresso, né tacito da rimuovere. 12. Sono, inoltre, infondate anche le censure con le quali l'appellante lamenta che il giudice di primo grado avrebbe dequotato e deciso in modo sommario i motivi afferenti alla contraddittorietà dell'azione amministrativa, correlati alle indicazioni asseritamente contraddittorie presenti nelle interlocuzioni con il privato, nonché ai riferimenti a normative erronee, né avrebbe considerato il legittimo affidamento ingenerato dal protrarsi del procedimento per un lungo lasso di tempo. 12.1. Come condivisibilmente affermato dal giudice di primo grado "la questione centrale da sempre evidenziata dal Comune nel corso del procedimento attiene all'esatta qualificazione dell'abuso e alla corresponsione della corretta oblazione e del contributo concessorio", con la conseguenza che, seppure sono riscontrabili dei riferimenti normativi non corretti in alcune delle note del Comune, dalla lettura complessiva dell'interlocuzione tra privato e P.A. emerge con evidente chiarezza quali fossero i punti nodali della vicenda, su cui l'appellante e prima di lei le precedenti danti causa hanno potuto interloquire e difendersi. Da qui anche la mancanza dei presupposti per la formazione di un legittimo affidamento del privato, legittimo affidamento che, peraltro, nella fattispecie in esame riguarderebbe esclusivamente la quantificazione dell'ammontare dell'oblazione e degli oneri di urbanizzazione, non essendo mai stato affermato dal Comune che le opere in questione non fossero condonabili. 13. Sono infondate anche le censure con le quali l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non avrebbe tenuto conto di elementi peculiari della fattispecie che avrebbero comportato l'impossibilità di considerare unitariamente le due istanze in sanatoria presentate, sostenendo che nel caso concreto l'unitarietà dell'abuso non sussisterebbe attesa la diversa epoca di realizzazione degli abusi. Se si prescinde dalla considerazione unitaria degli abusi, infatti, entrambi rientrerebbero nella tipologia 6 (cambio di destinazione d'uso senza opere non valutabile in termini di superficie o di volume e opere di manutenzione straordinaria) e non determinerebbero la debenza di oneri di urbanizzazione in mancanza di un aumento del carico urbanistico. 13.1. Al riguardo il giudice di primo grado ha ritenuto che "Come ben chiarito dai provvedimenti impugnati non vi è infatti alcuna certezza che le opere realizzate non fossero preordinate o connesse alla modifica di destinazione d'uso, dato che l'unico argomento che in proposito viene speso dalla parte ricorrente si fonda esclusivamente sull'artificioso frazionamento in due domande di condono di un abuso sostanzialmente unitario ed insistente sul medesimo immobile. Questo aspetto comporta la reiezione del motivo, perché il cambio di destinazione d'uso con opere edilizie rientra pacificamente nella tipologia 3". Per completezza il T.a.r. chiarisce che "anche a voler qualificare l'intervento come modifica di destinazione funzionale, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici, comportando un aumento del carico urbanistico, comporterebbe comunque la qualificazione dell'intervento come ascrivibile alla tipologia 3, e non alla tipologia 6, nella quale rientra solamente il cambio di destinazione d'uso funzionale conforme agli strumenti urbanistici". 13.2. Atteso che dalla documentazione depositata nulla depone per una valutazione disgiunta degli abusi e per la totale indipendenza delle opere interne, oggetto dell'istanza prot. 0020512, rispetto al cambio di destinazione d'uso a stabilimento produttivo della porzione di 1106,80 mq, oggetto dell'istanza prot. 0020513, il Collegio ritiene che nel caso di specie correttamente l'amministrazione ne ha dato una lettura unitaria e che come affermato dalla costante giurisprudenza "il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente" (Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2022 n. 9986). 13.3. Ne discende che la qualificazione operata dall'amministrazione degli abusi come rientranti nella tipologia 3 - "opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'art. 3, comma 1, lett. "d" del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio"- anziché nella tipologia 6 - "opere di manutenzione straordinaria, come definite dall'art. 3, comma 1, lett. "b" del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio; opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o volume" appare esente dai vizi dedotti dall'appellante nel giudizio di primo grado e riproposti in appello. 13.4. Infine, come osservato dal giudice di primo grado, anche laddove non si operasse una valutazione unitaria degli abusi oggetto delle due istanze di condono, occorrerebbe comunque considerare che il cambio di destinazione d'uso dell'immobile in controversia determina un passaggio tra diverse categorie, nella specie da agricola a commerciale. Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio sussiste una differenza netta tra mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale e cambio di destinazione d'uso che operi un passaggio tra diverse categorie funzionali (ad esempio: da rurale a commerciale). Quest'ultimo, infatti, anche se operato in assoluta carenza di opere, è riconducibile alla categoria degli "interventi di nuova costruzione" di cui alla lett. e) dell'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 (ovvero "interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti"), con necessario assoggettamento a permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso testo unico e al relativo regime contributivo e sanzionatorio (Cons. Stato, sez. VI, 5 luglio 2022, n. 5593). 14. Vanno, infine, disattese anche le doglianze relative alla violazione degli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/1990. E, infatti, ferma la necessità del preavviso di rigetto anche in materia di condono edilizio (Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2022, n. 7979), la regola contenuta dell'art. 21 octies della legge n. 241/1990, che esclude l'applicabilità della c.d. sanatoria processuale del provvedimento annullabile in caso di violazione delle garanzie partecipative offerte dall'art. 10 bis, si applica ai soli provvedimenti discrezionali, tra i quali non sono ricompresi quelli in controversia (Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790). 15. Per tali ragioni l'appello deve essere respinto. 16. Le spese di lite seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente grado in favore del Comune appellato, liquidate in complessivi euro 3.000,00 oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere, Estensore Ofelia Fratamico - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente - Dott. MASINI Tiziano - Consigliere - Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere - Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere - Dott. BRANCACCIO Matilde - Relatore - ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: Mi.Fa., nato a N, il (Omissis); avverso la sentenza del 6 maggio 2022 della Corte di appello di Perugia ; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Brancaccio Matilde; udito il Sostituto Procuratore Generale Odello Lucia; che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso con eventuale accoglimento del primo motivo di ricorso in relazione alla maturata prescrizione. uditi i difensori: L'avvocato Za. Da. che si associa alle richieste del PG riportandosi alle conclusioni che deposita unitamente alla nota spese. L'avvocato Di. Ca. Fe. che si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l'accoglimento dello stesso. RITENUTO IN FATTO 1. Mi.Fa. ricorre, tramite il difensore di fiducia, avverso la sentenza della Corte d'appello di Perugia che ha confermato la condanna, emessa in primo grado nei suoi confronti, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento del danno alla parte civile, revocando unicamente la statuizione con cui la sospensione condizionale della pena era stata condizionata al pagamento della stessa provvisionale. L'imputato è accusato del reato di atti persecutori nei confronti della sua ex compagna, Me.Fl., con la quale aveva avuto una relazione sentimentale durata circa quattro anni, caratterizzata da un costante atteggiamento di sopraffazione da parte sua, motivato da una gelosia ossessiva, che aveva spinto, infine, la vittima ad interrompere il rapporto con una decisione unilaterale, alla quale Mi.Fa. non si rassegnava, tanto da portare avanti una campagna persecutoria contro di lei, fatta di pedinamenti, aggressioni fisiche (in un caso sono state accertate lesioni vere e proprie), nonché gravi minacce di morte e pesanti insulti. 2. Il ricorrente propone otto motivi di ricorso. 2.1. Con il primo argomento di censura si denuncia violazione di legge per la mancata pronuncia di prescrizione del reato, maturata, calcolate la sospensioni, già prima della sentenza d'appello, come rappresentato dalla difesa alla Corte territoriale, che, tuttavia, avrebbe erroneamente computato i periodi di sospensione, sino ad arrivare ad un tempo complessivo di un anno e otto giorni, che, sommato al termine massimo prescrizionale, ha determinato i giudici a disattendere la richiesta di pronuncia di una sentenza di non doversi procedere. Sarebbe stata erroneamente ritenuta sussistente una sospensione pari a 60 giorni del termine di prescrizione per il deposito della motivazione della sentenza di primo grado, non prevista dalla legge nel caso di specie. Il reato, invece, eliminata tale indicazione erronea, si era già prescritto alla data del 20.2.2022, sicchè si chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con la precisazione, altresì, che, comunque, alla data dell'odierna udienza, il reato sarebbe estinto per prescrizione anche se si computassero i giorni di sospensione contestati. 2.2. Il secondo motivo di ricorso ha eccepito il vizio di violazione di legge e di carenza di motivazione della sentenza impugnata, che non ha ritenuto l'irregolarità della notifica all'imputato della citazione per il giudizio in appello, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di contraddittorio, nonostante vi sia incertezza sulla reale motivazione della dichiarazione di irreperibilità del ricorrente al momento della notifica della vocatio in ius: una volta, infatti, si fa riferimento alla dicitura "sconosciuto", un'altra volta a quella di "irreperibile" e, nel sito Poste Italiane, si evoca il mancato ritiro della raccomandata. Sarebbe erronea la dichiarata imperibilità poichè il ricorrente ha sempre vissuto ad An., alla via Re., ove aveva eletto domicilio, sicchè le notifiche effettuate al difensore della citazione in appello, ai sensi dell'art. 157, comma 8-bis, e dell'art. 161, comma 4, del codice di rito, sarebbero invalide, la prima perché erroneamente disposta precedentemente allo spirare dei termini per il perfezionamento della procedura; la seconda, poiché risulta, dal sistema informatico in uso agli uffici giudiziari, non essere stata mai consegnata alla pec del difensore. Si versa, quindi, secondo la difesa, in un'ipotesi di omessa notifica della citazione a giudizio dell'imputato, che genera una nullità assoluta e la necessità di annullare la sentenza d'appello. 2.3. La terza critica reitera il motivo d'appello con cui si contestava la competenza del Tribunale di Terni e si chiedeva l'annullamento della sentenza con trasmissione degli atti al Tribunale di Perugia, competente perché a Ca., in provincia di Perugia, si era realizzato l'ultimo atto della sequenza persecutoria che, secondo la giurisprudenza di legittimità, determina la consumazione del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., mentre la Corte d'appello (ma anche il giudice di primo grado) ha ritenuto competente il Tribunale di Terni, sulla base di un criterio di competenza territoriale contraddittorio, collegato all'evento ed alle conseguenze dannose (lo stato di prostrazione psicologica) provocate alla vittima dall'imputato, che - secondo la sentenza impugnata - si sarebbero manifestate nel domicilio della persona offesa a Città delle Pi., che tuttavia è comunque in provincia di Pe. 2.4. Il quarto motivo di ricorso eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione apparente in relazione alla contestazione difensiva dell'inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa del reato ed all'errata valutazione delle dichiarazioni degli altri testimoni ascoltati in giudizio, risolte con un apodittico riferimento alle argomentazioni della sentenza di primo grado, senza fornire reale risposta ai motivi d'appello. 2.5. Il quinto argomento difensivo eccepisce l'inutilizzabilità dell'annotazione di servizio del 3 novembre 2013 dei carabinieri di Castiglione del Lago, documento decisivo ed acquisito senza il consenso della difesa. La sentenza impugnata non ha dato risposta effettiva al motivo di identico contenuto proposto con l'atto di appello. 2.6. Con un sesto motivo si deduce vizio di motivazione carente riguardo alla richiesta di riqualificazione del reato nelle meno gravi fattispecie di molestie di minaccia, nonché alla possibilità di ritenere sussistente l'attenuante della provocazione. 2.7. Una settima ragione di ricorso eccepisce vizio di motivazione apparente quanto alla dosimetria della pena ed assenza di motivazione rispetto alla mancata concessione del beneficio della non menzione, nonostante le espresse richieste della difesa contenute nei motivi d'appello. 2.8. L'ultimo motivo di ricorso denuncia vizio di carenza di motivazione della sentenza impugnata, che non avrebbe risposto alle censure difensive relative alla mancanza di presupposti per il riconoscimento e la liquidazione della previsionale concessa alla persona offesa: non vi è certezza dei danni da lei subiti per effetto della condotta dell'imputato, tanto più che la vittima aveva già intrapreso in passato, prima di iniziare la relazione con il ricorrente, un percorso di terapia medico - psichiatrica. Si conclude, quindi per la revoca delle statuizioni civili e della provvisionale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso non è inammissibile, sicchè deve dichiararsi la prescrizione del reato, maturata sicuramente alla data della presente udienza dinanzi alla Corte di cassazione, visto che al termine finale massimo di prescrizione previsto ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., collocato al 03.05.2021, vanno aggiunti 287 giorni di sospensione del decorso del termine suddetto, che spostano la data ultima di estinzione del reato per prescrizione al 14.2.2022 (dunque, anche precedente alla pronuncia della sentenza d'Appello). Pertanto, in assenza di elementi che rendano evidenti i presupposti per un proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen. (secondo quanto è chiaramente evincibile dalla motivazione), deve accedersi ad una pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione. 2. La declaratoria di prescrizione, tuttavia, non esime il Collegio dall'esaminare il ricorso agli effetti civili, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., quanto alle sue ulteriori ragioni, essendo stato l'imputato condannato anche alle statuizioni civili in favore della persona offesa (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244273). Ed infatti, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale nei gradi di merito è intervenuta condanna, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., il giudice d'appello e la Corte di cassazione sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili ed, a tal fine, i motivi di ricorso proposti dall'imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi trovare conferma della condanna, anche solo generica, al risarcimento del danno dalla mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato secondo quanto previsto dall'art. 129 cod. proc. pen. (cfr., per il giudizio d'appello, negli stessi termini, Sez. 5, n. 28289 del 6/6/2013, Cologno, Rv. 256283; nonché, tra le tante, in ordine al giudizio di legittimità, in motivazione: Sez. 1, n. 14822 del 20/2/2020, Mlilanesi, Rv. 278943 e Sez. 5, n. 26217 del 13/7/2020, G., Rv. 279598 - 02, nonché Sez. 5, n. 2, 3848 del 21/9/2020, D'Alessandro, Rv. 279599. Vedi in precedenza, altresì, Sez. 5, n. 5764 del 7/12/2012, dep. 5/2/2013, Sarti, Rv. 254965 - 01; Sez. 5, n. 14522 del 24/3/2009, Petrilli, Rv. 243343 - 01; Sez. 6, n. 21102 del 9/3/2004, Zaccheo, Rv. 229023 - 01). 3. Il secondo motivo di censura è infondato, ai limiti dell'inammissibilità, visto anche il suo complessivo tono apodittico. Anzitutto, infatti, deve notarsi come l'annotazione postale secondo cui l'imputato è stato dichiarato in un caso "irreperibile" ed in un altro caso "sconosciuto" non è indice di erroneità nella verifica di accertamento della reperibilità del ricorrente presso il domicilio indicato, come invece ritiene assertivamente la difesa, la quale si è limitata a dichiarare che il suo assistito avrebbe sempre vissuto presso il domicilio di An., alla via Re., neppure preoccupandosi di smentire specificamente un tentativo di notifica domiciliare proveniente da un ufficiale giudiziario e racchiuso in atti pubblici. In ogni caso, la denuncia si rivela essere, al più, una critica alle modalità di accertamento e verifica dell'irreperibilità del ricorrente al domicilio pur eletto, poiché le si ritiene inefficienti e imprecise, sul presupposto, assertivo, che quello indicato dall'imputato come suo domicilio nel procedimento, fosse davvero il luogo in cui egli viveva al momento del tentativo di notifica. In altre parole, si contesta non già una ipotesi di irregolare notifica oppure di omessa notifica della citazione in giudizio, ma unicamente la non corrispondenza delle ricerche, pur effettuate dall'ufficiale notificatore, a canoni di efficacia e puntuale esecuzione, dando per scontato il dato di fatto principale, vale a dire che l'imputato realmente dimorasse nel luogo del domicilio dichiarato, al momento d,ella notifica della vocatio in ius. Le Sezioni Unite hanno chiarito, in tempi recenti che la mancata notifica a mezzo posta per irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato, eletto o determinato per legge, attestata dall'addetto al servizio postale, comporta, a norma dell'art. 170 cod. proc. pen., senza necessità di ulteriori adempimenti, la consegna dell'atto al difensore ex art.161, comma 4, cod. proc. pen., salvo che l'imputato, per caso fortuito o forza maggiore, non sia stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato od eletto, dovendosi, in tal caso, applicare le disposizioni dagli artt. 157 e lS9 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 14573 del 25/11/2021, dep. 2022, D., Rv. 282848). Il ricorrente lamenta la mancata consegna della citazione all'indirizzo pec del proprio difensore ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen., il quale difensore, tuttavia, da un lato non ha allegato documentazione al ricorso, sì da andare incontro ad obiezioni di inammissibilità per difetto di autosufficienza, non potendo ritenersi assolto l'onere difensivo dalla mera indicazione degli atti utili, senza altro richiamo che rimandi specificamente al fascicolo; dall'altro, ha dichiarato egli stesso, nel ricorso, di aver ricevuto, contestualmente, la notifica della medesima citazione in giudizio, invece andata a buon fine, sia pur adottata erroneamente ex art. 158, comma 8-bis, cod. proc. pen.: probabilmente un erroneo invio, risolto dal successivo, immediato inoltro della medesima citazione ex art. 161 cod. proc. pen. Non si è considerato, quindi, come le circostanze peculiari del caso non abbiano determinato alcun vulnus difensivo derivato da mancata conoscenza, anche in un'ottica sostanzialistica e di effettività delle garanzie processuali previste in favore dell'imputato. 4. Anche il terzo motivo di censura è inammissibile, precisamente perché del tutto infondato. Il delitto di atti persecutori previsto dall'art. 612-bis cod. pen. - diversamente da quanto erroneamente deduce il ricorrente in una parte delle sue ragioni - configura un reato abituale di danno che si consuma nel momento e nel luogo della realizzazione di uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice, quale conseguenza della condotta unitaria costituita dalle diverse azioni causalmente orientate, sicché la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica, in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dall'art. 612-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 16977 del 12/2/2020, S., Rv. 279178; Sez. 5, n. 3042 del 20/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278149). La Corte d'Appello ha ben chiarito, in adesione a tali principi, che lo stato di profonda prostrazione psicologica instillato nella vittima dal comportamento persecutorio dell'imputato si è realizzato nel luogo ove costei risiedeva al momento dell'acme della campagna persecutoria, vale a dire Città della Pieve. Detto comune, fino all'entrata in vigore della legge 29 dicembre 2017, n. 222, che ha apportato modifiche alla tabella A allegata all'ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), relativamente, tra l'altro, alle circoscrizioni dei tribunali di Perugia e di Terni, rientrava nel circondario del Tribunale di Terni, essendo transitato solo dopo l'entrata in vigore delle citate modifiche in quello di Perugia. La contestazione di reato in relazione alla quale è intervenuta condanna, nel caso di specie, fissa la linea di durata dell'abitualità della condotta nel termine "chiuso" del 3.11.2013; dunque, in un'epoca antecedente alla citata modifica ordinamentale, dalla quale, probabilmente, la difesa è stata indotta in errore, poiché, il1vece, non vi è dubbio che la determinazione del giudice territorialmente competente vada effettuata sulla scorta della normativa vigente al momento in cui il pubblico ministero esercita l'azione penale (Sez. 1, n. 2351 del 18/5/1994, Schioppo, Rv. 198191). 5. La quarta e la sesta ragione difensiva sono dedicate a contestare l'affermazione di colpevolezza del ricorrente, eccependo il deficit di credibilità della persona offesa, principale sua accusatrice, e chiedendo la riqualificazione delle condotte dell'imputato nelle meno gravi ipotesi di minaccia e molestie. Entrambi i motivi si rivelano, tuttavia. inammissibili, poiché, in parte, inediti; in parte, formulati secondo linee di censura sottratte al sindacato di legittimità, rivalutative e dirette a riscrivere i risultati delle prove analizzate dai giudici di merito in maniera coerente tra loro (in una doppia pronuncia conforme) e priva di lati logici. Il ricorrente, invero, nell'atto di appello aveva svalutato solo genericamente e implicitamente il dato probatorio dichiarativo, formato dalle testimonianze della persona offesa e di molti testimoni, che, per diversi e numerosi aspetti, hanno offerto un'ampia base di riscontro alle parole della vittima del reato che, pure, si rammenta, di per sé sole, possono essere sufficienti a fondare l'affermazione di responsabilità dell'autore del delitto di stalking (cfr. Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). La tesi difensiva, infatti, era stata quella, riproposta anche in fase di ricorso, dell'insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo per configurare il reato ascritto al ricorrente. La sentenza impugnata ha ricostruito, invece, con precisione, non soltanto i plurimi episodi descritti dalla vittima in modo credibile e dettagliato, dai quali si è tratta la linea di affermazione della colpevolezza per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen., ma li ha anche analizzati alla luce delle testimonianze di persone coinvolte, per avervi assistito o, loro malgrado, per esserne state vittime, e che hanno rafforzato ICI narrazione probatoria (si pensi all'aggressione subita dalla persona offesa e da un suo amico alla stazione ferroviaria, riferita dal teste Do. all'udienza del 15.2.2018). Da tali considerazioni discende anzitutto la novità del motivo di ricorso, nella parte in cui lamenta una carente analisi della credibilità della persona offesa, in realtà non dedotta specificamente nei motivi di appello; ma soprattutto emerge il tentativo di rivalutare le prove in chiave più favorevole al ricorrente, deducendo l'erronea valutazione delle dichiarazioni degli altri testimoni, senza che vi sia spazio per ritenere la sentenza impugnata manchevole sotto qualsiasi aspetto motivazionale riferito alla configurata sussistenza del reato. Ed è noto, invece, che sono precluse al giudice di legittimità - a meno che non si rivelino fattori di manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482). Tali principi valgono anche a determinare una valutazione di inammissibilità quanto alle ragioni specifiche della sesta censura, volte a chiedere la riqualificazione del reato nelle meno gravi fattispecie di molestie e minaccia, e ad invocare l'attenuante della provocazione. Sotto il primo profilo, depongono nel senso della configurabilità del reato di atti persecutori (per tutte, sulla sua definizione, cfr. Sez. 5, n. 3781 del 24/11/2020, dep. 2021, S., Rv. 280331): la pluralità degli episodi di vessazione e vera e propria persecuzione ossessiva subiti dalla persona offesa; il loro descritto verificarsi in linea temporale consecutiva ed in un arco di tempo rilevante di circa un anno, immediatamente successivo alla scelta della vittima di troncare la relazione sentimentale che aveva con il ricorrente; infine, la causazione di uno stato di ansia e paura, tale da integrare uno degli eventi alternativi della fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen. Uno stato definito in sentenza di vero e proprio terrore, significativamente provato anche dalla decisione della vittima di trasferirsi presso la casa dei genitori, al culmine della condotta vessatoria e minacciosa del ricorrente, animato da una logica di possesso e gelosia parossistici nei confronti della ex compagna, che aveva scelto di non soggiacere più alle dinamiche di quel rapporto prevaricatorio ed ossessivo in cui egli l'aveva fatta precipitare (e sulla distinzione tra le fattispecie di molestie e quella di atti persecutori, cfr. Sez. 5, n. 15625 del 9/2/2021, R., Rv. 281029). Quanto alla sussistenza dell'attenuante della provocazione, la difesa evoca una questione già risolta in modo definitivo dalla Corte d'Appello, che ha definito l'ipotesi del tutto priva di fondamento, tentando inammissibilmente di definire nel merito il precipitato delle prove. 6. Anche il quinto motivo di ricorso è inammissibile poiché generico. Non si comprende la decisività dell'eccezione relativa all'inutilizzabilità dell'annotazione di servizio dei carabinieri di Ca. (Sez. U, n. 238613 del 23/4/2009, Fruci, Rv. 243416), cui la Corte d'Appello non ha dato alcun peso probatorio. 7. Il settimo argomento proposto dalla difesa denuncia l'eccessiva dosimetria sanzionatoria e la mancata concessione dei benefici di legge, ma con un incedere di critica del tutto generico, così come solo accennati erano gli stessi motivi d'appello. La conseguenza di tale vaghezza contenutistica è l'inammissibilità del motivo di ricorso, tanto più che la sentenza impugnata ha evidenziato le ragioni in base alle quali, per la pluralità di episodi persecutori ed il loro ravvicinato succedersi, non era possibile collocarsi esattamente sul minimo edittale nella determinazione della pena, che, comunque è stata calcolata in una misura di poso superiore al minimo stesso. 8. Infine, l'ottava ragione di ricorso è manifestamente infondata poiché la Corte territoriale ha chiarito come la provvisionale serva a coprire le conseguenze dannose per la vita privata della vittima che derivano stabilmente, come noto, da un reato particolarmente odioso sulla sua sfera psico - fisica e che sono immediatamente desumibili dal contesto delle prove in atti, né sono necessarie documentazioni mediche riguardo ad eventuali malattie (Sez. S, n. 18999 del 19/2/2014, C, Rv. 260412). In altre parole, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori, non si richiede l'accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612-bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (in tal senso, si ribadisce il principio da ultimo affermato da Sez. 5, n. 18646 del 17/2/2017, c., Rv. 270020). In ogni caso, questa Corte regolatrice propone un orientamento interpretativo costante, secondo cui non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente deliberativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (ex multis, Sez. 2, n. 48859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 27773). 9. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione, mentre il ricorso va complessivamente rigettato agli effetti civili. Deve essere ordinata, altresì, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio dalla parte civile, intervenuta all'udienza dinanzi al Collegio, che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre accessori di legge, alla luce anche della nota spese prodotta. Infine, deve essere disposto che, in caso di diffusione del provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, perchè il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre accessori di legge. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 3 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SESTA SEZIONE PENALE Composta da Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Relatrice Dott. CALVANESE Ersilia - Relatrice Dott. APRILE Ercole Aprile - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Tr.pa., nato a Omissis il Omissis avverso la sentenza del 28/11/2022 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Emilia Anna Giordano; udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udite le conclusioni del difensore delle parti civili, Comune di Assago e Comune di Cantù, avvocato Ma.Ad., sostituto processuale dell'avvocato Gi. A. Br.Pi., che ha chiesto il rigetto del ricorso riportandosi alle conclusioni scritte; udito per il ricorrente il difensore, avvocato Cl.Sc., che si è riportato al ricorso insistendo per l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Milano, su appello dell'imputato e della parte civile Comune di Assago, ha confermato la condanna di Tr.pa. alla pena di anni quattro di reclusione, e, in riforma della sentenza di assoluzione, ai soli effetti civili, lo ha condannato al risarcimento del danno, da determinare in separata sede, in favore del Comune di Assago. Tr.pa., in qualità di amministratore della "s.p.a. (...)" ((...)), dichiarata fallita il 24 ottobre 2013, incaricata del pubblico servizio di riscossione delle imposte di numerosi Comuni lombardi, è stato ritenuto responsabile del reato di peculato (art. 314 cod. pen.), con condotte dal 2011 alla data del fallimento, per essersi appropriato, in tempi diversi, delle somme riscosse da riversare pro quota agli enti impositori e, in particolare, ai Comuni di Arena Po e Fontanigorda. E' stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed è stata disposta la confisca per equivalente della somma di euro 224.827,08 di cui si era appropriato in danno dei predetti Comuni. Il Tribunale di Milano aveva dichiarato prescritti i reati di appropriazione indebita (così riqualificato il delitto di peculato sub capo a) e bancarotta semplice contestato al capo b), in relazione ad altri Comuni lombardi (fra i quali, in primo grado, il Comune di Assago, poi appellante), per i quali non si era ritenuto provato che la società avesse agito quale addetto alla riscossione (piuttosto che sub affidataria di attività delegate dalle concessionarie degli Enti, "Equitalia" e "Creset"). 2.Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. atto cod. proc. peno nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione il ricorrente denuncia: 2.1. erronea applicazione della legge penale (art. 314 cod. pen.) con riferimento alla individuazione del momento consumativo del reato di peculato ed al momento di appropriazione delle somme che è stato fatto coincidere con il momento di riscossione delle somme e che, secondo le convenzioni con gli enti, sarebbe dovuto avvenire al più presto e al massimo entro il trimestre successivo. La Corte di appello ha individuato il momento consumativo del reato in contrasto con i principi affermati nella giurisprudenza che, invece, individuano, ai fini del perfezionamento del reato con l'appropriazione delle somme, il termine di rendicontazione che, nel caso in esame, costituiva il risultato di operazioni in contraddittorio tra le parti, come dichiarato dalla teste di parte civile Comune di Assago in dibattimento, rendicontazione che presupponeva il calcolo con l'aggio dovuto alla società "(...)" e con i crediti per altri servizi fatturati agli enti. Secondo la giurisprudenza di legittimità, il mero ritardo non è sufficiente ai fini della integrazione degli elementi strutturali del reato e dell'elemento psicologico del reato, anche tenuto conto che le somme di spettanza dell'ente venivano regolarmente annotate nelle scritture contabili della società. Né è sufficiente, a questo fine, la confusione (necessitata) che si viene a determinare, in conseguenza della natura fungibile del denaro, con i beni della società. Rileva, altresì, con riguardo al credito di spettanza del Comune di Fontanigorda (ascendente a euro 79.316(99) che il Comune, in sede di ammissione al passivo (cfr. verbale del 12 marzo 2014), non era stato in grado di determinare compiutamente il proprio credito, non essendo ancora conclusa l'attività di rendicontazione e che l'ammissione al chirografo nell'importo indicato era stata fatta "con riserva di procedere alla compensazione dell'aggio". Osserva, infine, che l'obbligo di versamento dei tributi riscossi direttamente su conti correnti dell'ente impositore è stato introdotto solo con la l. 160/2019 (in epoca successiva ai fatti per i quali si procede) e, quindi, ribadisce la legittimità della procedura di riscossione fino ad allora praticata con il versamento dei tributi sui conti dell'ente incaricato della riscossione; 2.2. cumulativi vizi di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, con riferimento al Comune di Assago, il versamento delle somme è stato fatto coincidere con la riscossione, o, contraddittoriamente, con il termine trimestrale dalla riscossione, in mancanza della individuazione di un termine contrattuale e trascurando (cfr. dichiarazioni della teste Compostella) che il riversamento era conseguente alla rendicontazione. Tanto la motivazione è contraddittoria che la sentenza impugnata ha rimesso in sede civile la determinazione delle somme di spettanza del Comune di Assago e, quindi, del danno; 2.3. erronea applicazione della legge penale (art. 322-ter cod. pen.) in relazione alla determinazione della somma oggetto di confisca (euro 224,827(08) derivante dalla somma algebrica degli importi non versati al Comune di Arena Po (euro 152.824(08) e Fontanigorda. La somma indicata, deriva dalla sommatoria dei crediti chirografari ammessi al passivo senza scomputare le competenze spettanti alla società "(...)", maturate per effetto dell'attività svolta e che, tenuto conto della natura del reato per cui si procede, in cui l'illecito si inserisce nella esecuzione come elemento accidentale (e non costituisce la causa tipica del contratto), il "profitto confiscabile deve essere concretamente determinato, al netto dell'effettiva utilità conseguita eventualmente dal danneggiato e dalla cui omissione conseguirebbe un ingiustificato arricchimento". A tal riguardo, il ricorrente (cfr. pago 1.6) sostiene che, scomputato l'aggio maturato e l'importo di fatture emesse e non pAg., la somma oggetto di profitto illecito ascende a euro 27.470,44, per il Comune di Fontanigorda e a importo nettamente inferiore, per quella determinata in sentenza come oggetto di profitto, per il Comune di Arena PO. 2.4. erronea applicazione della legge penale (art. 358 cod. pen.), con riguardo alla qualifica soggettiva del ricorrente quale incaricato di pubblico servizio con riferimento al Comune di Assago. La Corte non ha accertato se la società "(...)" fosse legata a detto Comune da rapporti diretti con l'Ente oppure con "Equitalia" o con "Creset". La dichiarazione resa dalla teste Compostella all'udienza del 26 maggio 2021 riconduce l'attività della predetta società a quella di manutenzione del "software" e supporto nell'attività accertativa, come da fatture emesse: attività che non ha comportato l'esercizio di attività pubblicistiche essendosi risolta in mera attività di consulenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Sono fondati, per le ragioni di seguito esplicitate, il primo e terzo motivo di ricorso con immediata incidenza, non vertendosi in tema di ricorso inammissibile, sulla decorrenza del termine di prescrizione del reato di peculato che, rispetto a condotta iniziata a partire dal gennaio 2011, in assenza di cause di sospensione, comporta la declaratoria di prescrizione delle condotte consumate fino al 19 aprile 2011. Il tema posto dal primo motivo di ricorso attiene alla individuazione del momento di perfezionamento e consumazione del reato con la individuazione della condotta appropriativa che la sentenza impugnata ha ritenuto coincidente con il momento della riscossione dei tributi, ritenendo irrilevanti le eventuali pattuizioni tra gli enti e la società "(...)" sul termine di versamento nonché, ai fini del computo del profitto confiscabile, la previsione del pagamento dell'aggio dovuto a "(...)". 2. Deve rilevarsi, quale necessaria premessa della ricostruzione dei rapporti tra la società "(...)" e i Comuni di Arena Po, Fontanigorda e Assago, che la sentenza di primo grado e quella impugnata sottolineano le carenze degli elementi conoscitivi allegati a fondamento della imputazione, e, in particolare, degli atti di affidamento in concessione del servizio di riscossione dei tributi che non sono stati prodotti né dal Pubblico Ministero, né dalle persone offese né dell'imputato. Da qui la difficoltà di individuare la tipologia dei rapporti della società "(...)" con gli enti comunali, il contenuto patrimoniale dei rapporti nonché i termini e le modalità del riversamento ai comuni delle somme riscosse, previa compensazione con le somme dovute alla società di riscossione stessa, tenuto conto, altresì, che, da un lato, la società "(...)" svolgeva, a favore dei Comuni, anche altri adempimenti non rientranti nella tipologia di riscossione dei tributi e, dall'altro lato, che la società "(...)" operava, sempre nel settore della riscossione dei tributi, come sub affidataria di attività delegate dalle concessionarie degli Enti, "Equitalia" e "Creset", settore, questo, che il Tribunale aveva escluso potesse rientrare, anche in senso lato, in quello pubblicistico della riscossione tributi, implicante la veste di incaricato di pubblico servizio della società (...). 4 Dalla sentenza impugnata si rileva (pag. 7) che l'imputato è stato ritenuto responsabile del reato di peculato, per l'appropriazione delle somme riscosse quale incaricato della riscossione dei tributi, in relazione ai Comuni di Arena Po e Fontanigorda, sulla scorta delle convergenti dichiarazioni rese dal curatore fallimentare, Fr.Pa.; dalla teste Cl.Ze., dipendente della società; dalle dichiarazioni rese dall'imputato e dalla documentazione versata agli atti del fallimento. Quanto al Comune di Assago, per il quale, in primo grado, non si era ritenuto accertato il rapporto pubblicistico, la Corte di appello (cfr. pag. 16 e ss.), in accoglimento dell'appello proposto dalla parte civile, ha, viceversa, ritenuto riconducibile all'attività di riscossione tributi le attività svolte dalla società "(...)" e, a questo fine, ha richiamato le dichiarazioni della teste, Ch.Co., responsabile dell'Ufficio Tributi del Comune di Assago e il contenuto delle determine comunali che, negli anni, avevano regolato il rapporto tra le parti, anche in mancanza della concessione che ne aveva disciplinato i rapporti. 3.Nonostante le descritte carenze documentali (cfr. pago 6 della sentenza di appello che riporta quella di primo grado), i giudici di merito hanno ritenuto di poter ricostruire sia i termini del riversamento dei tributi riscossi agli enti di riferimento che, con riferimento ai Comuni di Arena Po e Fontanigorda, gli importi dei tributi riscossi e non riversati. Sui tempi del riversa mento, dalle prove dichiarative, rivenienti sia dall'imputato che dai collaboratori della società che si occupavano della contabilità, era risultato che le convenzioni con gli enti prevedevano tempi e modalità elastiche (una volta al mese o ogni due o addirittura trimestralmente) e variegate modalità di computo previa compensazione con le somme spettanti alla società a titolo di aggio o per altri servizi, a seconda che la società "(...)" si occupasse o meno anche della notifica dell'avviso di accertamento: in generale, le modalità di liquidazione prevedevano l'invio della documentazione al Comune con la rendicontazione di tutti gli avvisi inviati e, quindi, il via libera del Comune per la rendicontazione del compenso "(...)", con termini di pagamento molto elastici. Il curatore fallimentare riferiva, in particolare, di aver rilevato la esistenza di tre diverse tipologie contrattuali che disciplinavano i rapporti "(...)" ed enti comunali una, che prevedeva che l'aggio maturasse in base alla definitività dell'accertamento; la seconda, che prevedeva che l'aggio maturasse al momento dell'incasso; la terza che prevedeva che l'aggio maturasse al momento del pagamento da parte contribuente. 4.La Corte di appello (pag. 12) ha dissentito dall'impostazione formalistica del Tribunale ai fini della qualificazione della società "(...)" come incaricata di pubblico servizio ai sensi dell'art. 358 cod. peno in relazione a tutte le attività di riscossione (cfr. pago 14) e per le attività svolte a favore di tutti i Comuni (di cui all'imputazione) e, sulla scorta delle pronunce di legittimità in materia, ha affermato che, anche in assenza di un atto di concessione relativo all'affidamento del servizio di riscossione, avrebbe dovuto essere privilegiato il dato sostanziale della avvenuta effettiva autorizzazione della società "(...)" a svolgere l'attività di riscossione o comunque gestione o maneggio di somme di denaro che ab origine debbono ritenersi spettanti alla pubblica amministrazione, con ciò integrandosi l'affidamento al privato di un'attività certamente pubblicistica. 5.La Corte di appello (cfr. pago 18) ha ritenuto, altresì, pacificamente entrate nella disponibilità della P.A. le somme riscosse, indipendentemente dalle previsioni recate dalla concessione che regolavano i rapporti dell'agente con la pubblica amministrazione. Ha richiamato, a tal riguardo, le dichiarazioni del curatore fallimentare e quelle della teste Ag.. Il curatore, in particolare, aveva riferito che le somme incassate da "(...)" sui conti dedicati alla percezione dei tributi destinati ai singoli comuni venivano indebitamente utilizzate dalla società per esigenze di cassa e di gestione dell'azienda oltre ad essere contabilizzate come poste attive e che erano impiegate secondo tali modalità le somme riscosse, tra gli altri comuni, quelle riscosse per conto del Comune di Assago. La teste Ag., braccio destro di Tr., aveva riferito che nell'anno 2010 la società aveva dovuto sottoscrivere un mutuo con il (...) per far fronte al riversa mento di somme dovute al Comune di Meda e che, per conseguire anticipi, la società aveva redatto false fatture, mai spedite ai Comuni e presentate per anticipi, poi stornati. Tutto ciò, secondo la Corte di appello, di mostra come la società e l'imputato si comportassero uti dominus nei confronti del denaro maneggiato/ con la conseguente consapevolezza della condotta in capo al Tr.. 5.l.Sul momento consumativo del reato la Corte di appello ha ritenuto che il denaro riveniente dal pagamento dei tributi è di spettanza della P.A. sin dal momento del suo versamento da parte del contribuente, donde la sostanziale indifferenza di eventuali pattuizioni tra privato ed ente in ordine alle modalità di riversamento, nel caso in cui se ne accerti la mancanza, ed è pervenuta alla conclusione che qualsivoglia caso di omesso riversa mento o di diversa destinazione delle somme concreta il delitto di peculato. La Corte di merito ha esaminato anche il tema della mancata prova della interversione del possesso, a cagione delle incertezze sulle date di scadenza del versamento delle somme esatte ai Comuni, ma ha ribadito la descritta impostazione. Quanto al Comune di Assago, ha rilevato che il termine di riversamento era, al più, trimestrale e che la condotta illecita si era cristallizzata, comunque, alla dichiarazione di fallimento, essendo integrata dal maneggio del denaro pubblico annesso al patrimonio sociale, imputato a posta attiva e destinato a finalità estranee a quelle dell'ente destinatario. 6.Va immediatamente evidenziato che i motivi di ricorso, tranne che con riferimento ai rapporti intrattenuti con il Comune di Assago (motivo 4), non contestano la qualifica pubblicistica dell'imputato in relazione alle attività di riscossione dei tributi. Ritiene la Corte che tale motivo di ricorso è infondato, ai limiti della inammissibilità. La Corte di appello di Milano ha fatto coerente applicazione delle regole che, secondo questa Corte, disciplinano l'attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo all'amministratore e legale rappresentante di una società privata incaricata della gestione del servizio di riscossione di tributi comunali, in considerazione della connotazione prettamente pubblicistica del servizio predetto (Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127). Correttamente, sulla base della documentazione costituita dalle determine comunali e delle dichiarazioni della teste Co., convergenti con quelle del curatore e della teste Ze., dipendente della "(...)", la sentenza impugnata ha ricostruito le attività svolte a favore del Comune di Assago dalla società "(...)": attività che, per quel che qui rileva, vedevano la predetta società incaricata della riscossione dei tributi (ICI e tassa sui rifiuti) che la concessionaria riversava su due conti cd. dedicati del Comune. E' compiutamente descritta nella sentenza impugnata l'attività preliminare svolta dalla società (cioè la predisposizione degli avvisi di accertamento in forma cartacea, girati al Comune), ma, soprattutto, la sentenza dà atto che è stata accertato lo svolgimento di attività connesse alla riscossione dei tributi che venivano versati alla concessionaria che poli avrebbero dovuto essere girati sui conti dedicati dell'ente, dopo la rendicontazione. L'incarico, ancorché non regolato da convenzione, era stato oggetto di determine comunali (queste sì prodotte) e di un risalente contratto (del 2000), in linea con il quale, nel corso degli anni, si erano sviluppati i rapporti tra Comune e società e, come si è detto, le modalità del rapporto tra il Comune e la società "(...)" sono confermate da un qualificato apporto dichiarativo. Ciò non esclude che la società svolgesse anche altri compiti, per conto del Comune di Assago, ma si tratta di compiti che non rilevano ai fini del servizio pubblicistico, anche se, verosimilmente, rientravano nel complesso dei rapporti dell'ente con la società e venivano svolti, come per altri comuni milanesi, in chiave di supporto delle società "Equitalia" e "Creset" e, quindi, la società operava quale delegata di questi ultimi (e non come incaricata del servizio di riscossione): certamente, però -ed è quel che qui rileva-la società operava come concessionaria del Comune per la riscossione dei tributi locali (ICI e tassa sui rifiuti) e le difficoltà di ricostruire il contenuto patrimoniale del rapporto convenzionale, con la individuazione delle imposte riscosse e non versate (il cui accertamento è stato devoluto al giudice civile), non comporta anche la inesistenza dell'incarico e del rapporto. 7.Come anticipato, il punto veramente controverso della presente vicenda processuale è costituito dalla individuazione del momento consumativo del reato in relazione all'appropriazione delle somme rivenienti dalla riscossione dei tributi ed alle operazioni di riversamento che, talvolta, come accertato attraverso le dichiarazioni del personale della società addetto alle operazioni di contabilizzazione e rendicontazione, rientravano in un complesso budget nel quale erano ricompresi sia il calcolo dell'aggio che compensazioni per il pagamento di fatture emesse dalla società "(...)", in altra veste, a favore del medesimo comune. Le conclusioni cui la Corte di appello è pervenuta (cfr. punto 2.3 del Considerato in diritto) non possono condividersi e richiamano principi che questa Corte ha precisato valorizzando, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, la disciplina pubblicistica di riferimento, che regola la materia dei rapporti dei concessionari con gli enti pubblici con riferimento alle cadenze temporali del versamento delle somme riscosse, al ritardato pagamento, in relazione al termine legale o contrattuale previsto, e le correlative sanzioni amministrative, fino alla revoca o decadenza dalla concessione. A tal riguardo si è rilevato come, in realtà, il reato di peculato si perfezioni allo spirare del termine previsto per il versamento dell'importo dovuto distinguendo, rispetto al versamento tardivo, la condotta appropriativa che si realizza con la interversione del titolo del possesso e, quan1jo sia raggiunta la prova della intervenuta interversione del titolo del possesso, cioè che il concessionario abbia agito "uti dominus". Si tratta di precedenti intervenuti in materia di versamento delle somme riscosse da parte del concessionario titolare dell'attività di raccolta delle giocate del lotto dell'Amministrazione Autonoma dei Monopoli in cui si è affermato che il delitto di peculato per ritardato versamento degli importi riscossi per conto dell'Azienda Autonoma Monopoli di Stato è configurabile quando la condotta omissiva si protragga oltre la scadenza del termine ultimo indicato nell'intimazione che l'amministrazione è tenuta ad inviare al concessionario sotto la comminatoria della decadenza dalla concessione, a condizione che sia altresì raggiunta la prova dell'interversione del titolo del possesso, evincibile dal protrarsi della sottrazione della "res" alla disponibilità dell'ente pubblico per un lasso di tempo ragionevolmente apprezzabile e comunque tale da denotare inequivocabilmente l'atteggiamento "appropriativo" dell'agente. (Sez. 6, n. 31167 del 13/04/2023, Mancini, Rv. 285082). Analogo principio è stato affermato in materia di imposte riscosse dal notaio, ove si è ribadito che la condotta di peculato è integrata non già per effetto del mero ritardo nell'adempimento, bensì allorquando si determina la certa interversione del titolo del possesso, che si realizza allorquando il pubblico agente compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa c implicita di tenere questa come propria, condotta che non necessariamente può essere ritenuta insita nella mancata osservanza del termine di adempimento (Sez. 6, n. 16786 del 02/02/2021, Conte, Rv. 281335). Sulla scorta di tali rilievi si è pervenuti alla conclusione -in relazione a procedimenti di liquidazione che prevedevano la diffida ad adempiere -che l'individuazione del momento in cui si realizza l'interversione del titolo del possesso, e dunque la condotta appropriativa, non coincide automaticamente con lo spirare del termine previsto dalla diffida, ma va accertata caso per caso sulla base dell'attenta considerazione delle circostanze di fatto, evitando semplificazioni probatorie che trasformerebbero la fattispecie di peculato, gravemente punita, in un reato formale. Occorre, cioè, che la sottrazione della "res" alla disponibilité3 dell'ente pubblico si sia pur sempre protratta per un lasso di tempo ragionevolmente apprezzabile e comunque tale da denotare inequivocabilmente l'atteggiamento "appropriativo" dell'agente. La sentenza impugnata, oltre alla più risalente giurisprudenza di questa Corte (che riteneva configurabile il delitto di peculato per effetto dell'omesso versamento, valorizzandone la natura di denaro pubblico), ha, in più passaggi, richiamato disposizioni specifiche in materia di tributi locali, in particolare gli artt. 22 e ss. del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, secondo cui il concessionario riversa all'ente creditore le somme riscosse entro il decimo giorno successivo alla riscossione, disposizioni che, tuttavia, non contrastano con la possibilità, in materia di tributi locali, di disciplinare sia il contenuto del rapporto di concessione con i soggetti incaricati della riscossione, sia i termini e le modalità di adempimento. La disciplina fondamentale (al momento dei fatti), in materia, era recata dall'art. 52, comma 1, d.lgs. n. 446/97 che attribuiva ai Comuni il potere di emanare regolamenti funzionali a disciplinare le proprie entrate e finalizzati, in attuazione dei principi in tema di federalismo fiscale, ad esaltare la loro autonomia finanziaria di entrata e spesa nei limiti dei principi costituzionali di cui all'art. 23 (principio della riserva di legge relativa) ed all'art. 119 (principio dell'autonomia tributaria degli enti locali) del decreto stesso. Tale potere regolamentare poteva essere utilizzato tanto con riguardo alla parte sostanziale della disciplina impositiva quanto e, soprattutto, con riguardo alla parte procedimentale (e dunque, in particolare, alla fase della liquidazione, accertamento e riscossione). Il sistema delineato nel risalente decreto aveva subito una sostanziale modifica a seguito della riforma contenuta nel d.1. 30 settembre 2005 n. 203, convertito dalla l. n. 248 del 2 dicembre 2005, la quale, valorizzando il carattere spiccatamente pubblicistico della funzione di riscossione, ne aveva affidato la gestione sostanzialmente agli stessi soggetti impositori, sebbene attraverso l'utilizzo di forme societarie idonee a garantire maggiore efficienza organizzativa ed operativa e, a seguire, nell'anno 2011, per effetto dell'entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, che rinviava alla riscossione attraverso "Equitalia Spa" (e le società da essa partecipate) in materia di accertamento, liquidazione e riscossione ­spontanea e coattiva -delle entrate, tributarie o patrimoniali, dei comuni e delle società da essi partecipate. Le vicende e i rapporti della società "(...)" si collocano su tale tessuto normativo di cui sono un esempio plastico le attività di consulenza svolte per "Equitalia". Va, altresì, rilevato che non ha subito modifiche, nel corso degli anni, la previsione recata dall'art. 180 del TUEL, "secondo cui gli incaricati della riscossione, interni ed esterni, versano al tesoriere le somme riscosse nei termini e nei modi fissati dalle disposizioni vigenti e da eventuali accordi convenzionali, salvo quelli a cui si applicano gli articoli 22 e seguenti del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112", disposizione secondo cui il concessionario riversa all'ente creditore le somme riscosse entro il decimo giorno successivo alla riscossione. Tali disposizioni riconoscono margini agli enti locali per la disciplina, in sede regolamentare ma anche convenzionale, del rapporto di riscossione dei tributi, anche con riferimento al versamento delle somme riscosse, disciplina che non è irrilevante ai fini della individuazione del momento di perfezionamento e consumazione del reato di peculato, che non può (automaticamente) identificarsi con quello della riscossione della somma dal privato, venendo in rilievo termini e modalità del versamento a favore dell'ente. 8.Conclusivamente, alla luce di tali principi, non può condividersi l'affermazione della Corte di appello secondo cui è indifferente, ai fini della ricostruzione delle condotte di peculato, l'acquisizione delle convenzioni intercorse con i privati: sono, infatti, le convenzioni che, nel quadro della potestà regolamentare attribuita all'ente, regolano i termini di adempimento del riversa mento. Cionondimeno, la puntuale ricostruzione compiuta nella sentenza impugnata, con riferimento alla proiezione dinamica nel tempo del rapporto fra enti comunali e società "(...)", non comporta, se non per la declaratoria di prescrizione delle condotte di peculato fino al 19 aprile 2011, una declaratoria cii insussistenza del fatto e del correlativo elemento psicologico ciel reato, essendo acquisita la prova della condotta appropriativa e della interversione del titolo di possesso sulla scorta degli accertamenti del curatore fallimentare e delle dichiarazioni, in particolare di quelle rese dalla teste Ag., stretta collaboratrice dell'imputato in azienda. Il curatore ha accertato (cfr. pago 18 della sentenza impugnata) l'importo delle somme totali transitate sui conti della società e l'importo di quanto corrisposto ai Comuni, verificando l'uso indebito, da parte della società, per esigenze di cassa e gestione della società, delle somme incassate che, impropriamente, venivano contabilizzate come poste attive. Non rileva, dunque, ai fini della responsabilità dell'imputato in relazione al delitto di peculato, che il denaro fosse fittiziamente entrato nella disponibilità e titolarità della pubblica amministrazione al momento della riscossione, ma la circostanza che, scaduti i termini convenzionali stabiliti (che lo stesso imputato ha contabilizzato in tre mesi al massimo), e, comunque alla data di dichiarazione del fallimento, le somme riscosse non erano mai state riversate ai comuni cui le stesse spettavano. Le dichiarazioni del curatore fallimentare consentono di riferire ai Comuni di Arena Po e Fontanigorda, per i quali è indiscutibilmente provato il mancato versamento delle somme incassate e contabilizzate in sede di fallimento, il reato di peculato né rileva che, invece, con riferimento al comune di Assago, la Corte di appello ne abbia rimesso la individuazione al giudice civile, trattandosi di determinazione che non incide sulla configurabilità del reato. Con riferimento al Comune di Assago va, inoltre, precisato, sempre ai fini del corretto inquadramento del tema inerente al momento consumativo del reato, che la sentenza impugnata (pag. 17), ricostruendo il rapporto della società "(...)", ha rilevato che la società provvedeva all'incasso su conti dedicati al Comune, benché intestati alla predetta società. Il difensore ha rilevato che le concrete modalità operative del cd. conto dedicato sono state disciplinate solo con legge n. 160 del 2019.che ha previsto che il conto è di pertinenza dell'amministrazione; che il saldo giornaliero finisce sul conto del tesoriere, cioè della banca, con la possibilità per l'affidatario di accedere al conto stesso solo per finalità di consultazione, modalità ben diverse da quelle descritte nella sentenza impugnata, con riferimento al Comune di Assago, e, più in generale (in quella di primo grado) con riferimento ai conti dedicati che "(...)" aveva istituito per i Comuni. La legittimazione della società "(...)" a operare sui conti non esclude, dunque, che le somme incassate rimanevano nella sua materiale e giuridica disponibilità e venivano utilizzate come se la società ne fosse proprietaria. 9.Non sono fondati, alla stregua di tali conclusioni, i rilievi del ricorrente a proposito della prova della interversione del possesso e dell'elemento psicologico del reato. Questa Corte ha più volte affermato in tema di peculato che, pur dovendosi convenire circa la necessità della concreta prova dell'interversione'1e, nondimeno tale prova possa essere desunta sul piano indiziario anche da situazioni altamente significative di una condotta appropriativa, come acclarato, sulla scorta delle evidenze illustrate, nel caso in esame. 10.Per completezza va rilevato che il momento finale della consumazione del reato è stato individuato alla data del 24 ottobre 2013, data della dichiarazione di fallimento. Il termine massimo di prescrizione per il reato di peculato, ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., è pari ad anni dodici e mesi sei, e deve essere calibrato sulle condotte consumate alle date di rispettiva appropriazione delle somme: ne consegue che, alla data odierna, deve dichiararsi la intervenuta prescrizione delle condotte commesse fino al 19 aprile 2011. 11. E' fondato anche il motivo di ricorso relativo alla determinazione della somma da assoggettare a confisca. Lapidaria deve ritenersi la motivazione della Corte di merito sul punto. I giudici di appello, in risposta alle deduzioni difensive che riguardavano la entità della confisca tenuto conto della compensabilità dei crediti asserita mente vantati dalla società nei confronti dei Comuni di Arena Po e Fontanigorda con riguardo all'aggio maturato e all'importo di fatture in compensazione, hanno ritenuto che le argomentazioni difensive non potevano essere esaminate; trattandosi, come già osservato dal curatore in giudizio, di posizioni creditorie che non avevano potuto essere azionate dalla procedura fallimentare poiché di assai dubbia esigibilità, in quanto mancanti di prova certa della loro esistenza e certezza: situazione, questa, non modificata né differentemente provata. L'inquadramento operato della Corte territoriale, riferito ella determinazione della somma da assoggettare a confisca, è erroneo perché le problematiche concernenti la determinazione della confisca sono strettamente connesse alla individuazione del profitto confiscabile e, dunque, alla legittimità e legalità della misura. Secondo le Sezioni Unite (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436), il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito e la relativa confisca ha la finalità di ripristinare lo status qua ante" così da sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore. La medesima funzione -sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito -viene ad assolvere anche la confisca per equivalente, pur connotata dal carattere afflittivo (e non preventivo che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza). Costante è infatti l'affermazione che l'obiettivo perseguito dal legislatore con la confisca del profitto del reato è quello di privare l'autore del reato dei vantaggi economici che da esso derivano. Il tema è stato approfondito in materia di responsabilità da reato degli enti collettivi, precisando che il profitto si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone. Pur non potendo farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, la nozione non può essere dilatata fino a determinare un'irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l'ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell'illecito, pone in essere un'attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato). (Sez. U, Sentenza n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924). Il principio ha orientato la giurisprudenza più recente di questa Corte, in materia di sequestro e confisca, anche in applicazione del criterio di proporzione della misura cautelare e ablatoria, in presenza di un contratto viziato da condotte illecite poste in essere nella fase delle trattative od in quella dell'esecuzione. Si è, pertanto, affermato che il profitto confiscabile deve essere determinato al netto del valore delle prestazioni lecite effettuate dall'autore del reato per adempiere al contratto, di cui la controparte si sia avvalsa o giovata (Sez. 2, n. 40765 del 21/10/2021, Carotenuto, Rv. 282:1.94). La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi con riferimento alla determinazione del profitto confiscabile avuto riguardo all'aggio spettante alla società "(...)", che rileva nella determinazione della somma da assoggettare a confisca, poiché costituisce una somma dovuta alla medesima società in ragione delle attività svolte a favore dei Comuni, in esecuzione delle convenzioni che disciplinavano il rapporto di concessione. A tale riguardo la sentenza di appello ha valorizzato i rilievi del curatore fallimentare che, tuttavia, fanno riferimento ai connotati della esigibilità in sede fallimentare dei crediti della società "(...)", cioè alla possibilità di azionarli in sede esecutiva. Tali requisiti non rilevano, invece, quando i crediti entrano n gioco quali poste che concorrono alla determinazione del profitto del reato, nozione nella quale non possono essere ricomprese anche le somme che sarebbero spettate alla società "(...)" per le attività svolte e che non sono immediatamente collegabili al reato di peculato, consumato nella fase di esecuzione della convenzione e in un momento in cui è possibile enucleare gli importi oggetto di appropriazione rispetto alle somme destinate a retribuire il concessionario per l'attività svolta. Ne consegue che il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) deve essere depurato dal corrispettivo dovuto per la prestazione lecita eseguita in favore della controparte. Nella sentenza di primo grado (pag. 2 e ss.) sono state illustrate le tipologie di contratti stipulati da "(...)" con i Comuni riconducibili a diverse modalità anche, a loro volta, determinavano diverse modalità di computo degli aggi dovuti. Il Tribunale (pag. 5) ha anche individuato, sulla scorta della ricostruzione del curatore fallimentare, poste attive della società (indicate come crediti verso clienti Italia e crediti per fatture da emettere) relative, le prime, alle fatture emesse per aggi già maturati alla data del 23 ottobre 2013 e, le seconde, per aggi in relazione a tutti gli atti di accertamento consegnati ai Comuni e, proprio con specifico riferimento a tali importi, il curatore ha contestato che potessero essere considerati liquidi. Non vi è, tuttavia, ragione, alla stregua dei principi innanzi affermati e con riferimento agli importi accertati come non versati a favore dei Comuni di Arena Po e Fontanigorda, per non scomputare, in sede di confisca, l'importo degli aggi maturati, sia che essi siano fatturati sia che si tratti di importi non fatturati ma corrispondenti, comunque, ad atti di accertamento consegnati ai Comuni sulla base dello stato di avanzamento dei progetti. Ne consegue che la Corte di merito, sulla scorta dei principi su indicati e nel pieno esercizio dei suoi poteri anche istruttori -sulla base delle schede contabili e di quant'altro utile - dovrà determinare l'importo della somma assoggettabile a confisca detraendo l'importo degli aggi maturati, sia che essi siano fatturati sia che si tratti di importi non fatturati, restando, invece, estranei all'operazione di scomputo i crediti estranei all'attività di riscossione delle imposte. Non rileva, invece, la intervenuta declaratoria di prescrizione di alcune delle condotte poiché il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1 cod. peno e dell'art. 322-ter cod. pen., la confisca "diretta" del profitto del reato a condizione che vi sia stata, come nel caso in esame, una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato e alla penale responsabilità dell'imputato sia rimasto inalterato. 12. Consegue alle ragioni fin qui svolte che la Corte di appello di Milano, in sede di rinvio, dovrà altresì rideterminare il trattamento punitivo irrogato all'imputato, comprese le pene accessorie e la durata della interdizione dai pubblici uffici che, sulla base della pena inflitta, saranno applicate avuto riguardo alle prescrizioni recate dall'art. 317-bis cod. pen., prima della modifica intervenuta con I. n. 3 del 9 gennaio 2019. La Corte di appello liquiderà, infine. le spese di costituzione e difesa sostenute nel presente grado, dalla parte civile, conformemente all'atto di costituzione in giudizio. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle condotte di peculato commesse fino alla data del 19 aprile 2011 perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla altresì la sentenza impugnata limitatamente alla confisca e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per nuovo giudizio sul punto e per la rideterminazione della pena. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso il 19 ottobre 2023 Depositato in Cancelleria 3 gennaio 2024.

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