Sentenze recenti procreazione medicalmente assistita

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CURZIO Pietro - Primo Presidente Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente di Sez. Dott. MANNA Antonio - Presidente di Sez. Dott. DE MASI Oronzo - Consigliere Dott. SESTINI Danilo - Consigliere Dott. MANZON Enrico - Consigliere Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere ha pronunciato la seguente:   SENTENZA sul ricorso iscritto al N. R.G. 30401/2018 proposto da: MINISTERO DELL'INTERNO e SINDACO DEL COMUNE DI VERONA, quest'ultimo nella qualita' di ufficiale di Governo, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; - ricorrenti - contro (OMISSIS), e (OMISSIS), in proprio e quali genitori del minore (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'Avvocato (OMISSIS); - controricorrenti e ricorrenti in via incidentale - e nei confronti di: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI VENEZIA; - intimato - per la cassazione dell'ordinanza della Corte d'appello di Venezia n. 6775/2018, depositata il 16 luglio 2018. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell'8 novembre 2022 dal Consigliere Alberto Giusti; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Finocchi Ghersi Renato, che ha concluso per il rigetto del primo, del secondo e del terzo motivo del ricorso principale e dell'unico motivo del ricorso incidentale nonche' per l'accoglimento del quarto motivo del ricorso principale. FATTI DI CAUSA 1. - Il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato all'estero da maternita' surrogata. In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l'ovocita di una donatrice. L'embrione e' stato poi trasferito nell'utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino. I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l'atto e' stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino, di nome (OMISSIS), e' nato nel (OMISSIS). Quando il bambino e' venuto alla luce, le autorita' canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, (OMISSIS), mentre non sono stati menzionati ne' il padre intenzionale, (OMISSIS), ne' la madre surrogata, ne' la donatrice dell'ovocita. Accogliendo il ricorso della coppia, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia ha dichiarato che entrambi i ricorrenti devono figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell'atto di nascita in Canada. Costoro, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia, hanno chiesto all'ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l'atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico. L'ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta, sia perche' esisteva gia' un atto di nascita trascritto, sia per l'assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimita'. 2. - In seguito al rifiuto opposto alla loro richiesta, (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso ex articolo 702-bis c.p.c. alla Corte d'appello di Venezia. Con tale atto i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. n. 218 del 1995, articolo 67 il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia. Essi hanno sottolineato la non contrarieta' all'ordine pubblico del suddetto provvedimento canadese, gia' passato in giudicato, e la liceita' delle condotte che hanno determinato la nascita del bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere. L'Avvocatura dello Stato si e' costituita per il Sindaco del Comune di Verona, nella qualita' di ufficiale del Governo, e per il Ministero dell'interno, sollevando l'eccezione preliminare d'inammissibilita' della domanda per contrarieta' all'ordine pubblico. Il Pubblico Ministero e' intervenuto opponendosi all'accoglimento del ricorso. 3. - Con ordinanza del 16 luglio 2018, la Corte d'appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8 settembre 2017 - che ha dichiarato (OMISSIS) e (OMISSIS) quali genitori di (OMISSIS), nato il (OMISSIS) - possiede i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, articolo 67. Secondo la Corte territoriale veneziana, la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente ad entrambi la responsabilita' genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell'evidenza di una diversita' di discipline sostanziali, ma non e' di per se' indice dell'esistenza di un principio superiore, fondante e irrinunciabile, dell'assetto costituzionale italiano o dell'ordinamento dell'Unione Europea. La Corte d'appello ha rilevato che rientra tra i diritti fondamentali la tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale, come sancita dalle convenzioni internazionali. L'ordine pubblico internazionale - ha sottolineato la Corte di Venezia - impone di assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui egli possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della responsabilita' genitoriale. Ne' - ha proseguito la Corte lagunare - puo' ricondursi all'ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento e' contemplata la possibilita' che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell'attribuzione del sesso. Quanto al divieto di ricorrere alla pratica della surrogazione di maternita', di cui alla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, la Corte d'appello ha osservato che le scelte del legislatore italiano sono frutto di discrezionalita' e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Non potrebbe ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dal citato articolo 12, comma 6, che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la maternita' surrogata, dato che il divieto e la sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del minore concepito all'estero con tali tecniche, il quale non potrebbe essere privato dello status legittimamente acquisito nel Paese in cui e' nato. 4. - Per la cassazione dell'ordinanza della Corte d'appello hanno proposto ricorso, con atto notificato il 15 ottobre 2018, il Ministero dell'interno e il Sindaco di Verona, nella qualita' di ufficiale del Governo, sulla base di quattro motivi. (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la responsabilita' genitoriale sul minore (OMISSIS), hanno resistito con controricorso. I controricorrenti hanno proposto altresi' ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, condizionato all'accoglimento di uno o piu' motivi del ricorso principale. 5. - Con il primo motivo del ricorso principale, il Ministero e il Sindaco deducono il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 1, in quanto nell'ordinamento giuridico nazionale non esisterebbe una norma che legittimi una piena bigenitorialita' omosessuale. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 95 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, essendo competente in materia il Tribunale in primo grado. La Corte d'appello - sostiene la difesa erariale - avrebbe erroneamente ritenuto oggetto del procedimento il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero nell'ordinamento italiano, laddove i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell'atto di nascita straniero ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 28, comma 2, lettera e), impugnando il provvedimento con cui l'ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere il provvedimento giurisdizionale canadese. Verrebbe dunque in rilievo un'opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato articolo 95, e' proponibile con ricorso innanzi al Tribunale. Il terzo motivo censura la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 112 c.p.c., per avere la Corte d'appello omesso di pronunciare sull'eccezione di difetto di legittimazione del padre intenzionale, (OMISSIS), a rappresentare il minore. Con il quarto motivo il Ministero e il Sindaco di Verona denunciano la violazione e la falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, articoli 16 e 65, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18, della L. n. 40 del 2004, articolo 5 e articolo 12, commi 2 e 6, in quanto l'ordinanza impugnata confliggerebbe con vari principi fondanti l'ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa nell'ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa, nonche' con il divieto di maternita' surrogata, fattispecie costituente reato secondo la legge italiana. 6. - L'unico motivo del ricorso incidentale condizionato denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 100 c.p.c. e della L. n. 218 del 1995, articolo 67 per avere erroneamente la Corte d'appello considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi. Ad avviso dei ricorrenti in via incidentale condizionata, il Ministero non avrebbe competenze in materia di stato civile, mentre il Sindaco non sarebbe titolare di un interesse proprio rispetto all'istanza di trascrizione. 7. - Investita di tali ricorsi, la Prima Sezione civile ha preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, la quale ha affermato il principio secondo cui non puo' essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialita' tra un bambino nato in seguito a maternita' surrogata e il genitore d'intenzione. Secondo le Sezioni Unite, tale riconoscimento trova infatti ostacolo insuperabile nel divieto di surrogazione di maternita', previsto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignita' della gestante e l'istituto dell'adozione. Secondo le Sezioni Unite, la tutela del nato non si realizza attraverso l'automatica trascrizione dei provvedimenti stranieri che riconoscono lo stato di filiazione, ma mediante il ricorso del genitore d'intenzione all'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). Tuttavia, la Prima Sezione di questa Corte ha dubitato della compatibilita' di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralita' di parametri costituzionali; pertanto, con ordinanza 29 aprile 2020, n. 8325, ha sollevato - in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU), agli articoli 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, e all'articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE) - questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, della L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 nella parte in cui non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento, nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalita' della gestazione per altri, del genitore d'intenzione non biologico. A sostegno dell'incidente di costituzionalita', l'ordinanza di rimessione ha richiamato, in particolare, il parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo, reso su richiesta della Corte di Cassazione francese il 10 aprile 2019. Con esso la Grande Camera ha ricondotto al principio del rispetto della vita privata e familiare, e dunque all'articolo 8 della CEDU, il diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione, precisando ulteriormente che il margine di apprezzamento spettante alle autorita' nazionali che in questi casi si oppongano alla trascrizione del provvedimento straniero, imponga comunque l'alternativa attivazione di strumenti giuridici diversi ma egualmente garantistici nei confronti del bambino, quale e' stata ritenuta l'adozione da parte del genitore d'intenzione. 8. - La Corte costituzionale, con sentenza n. 33 del 2021, ha dichiarato inammissibile la questione. Premesso che l'interesse del minore deve essere bilanciato, alla luce del criterio di proporzionalita', con lo scopo legittimo perseguito dall'ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita', penalmente sanzionato dal legislatore, la Corte costituzionale ha sottolineato che il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU (che ha riconosciuto agli Stati ampi margini di discrezionalita' nell'individuare i modi attraverso i quali formalizzare il rapporto di genitorialita' intenzionale, ferma restando la necessita' di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto si prende cura del bambino) e' corrispondente all'insieme dei principi della Costituzione italiana. Tali principi, se per un verso non ostano alla soluzione della non trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero di riconoscimento della doppia genitorialita' ai componenti della coppia (eterosessuale od omosessuale) che abbia fatto ricorso all'estero alla maternita' surrogata, per l'altro verso impongono che, in tali casi, sia comunque assicurata tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilita' genitoriale. L'adozione in casi particolari non appare ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, dal momento che essa non attribuisce la genitorialita' all'adottante e richiede il necessario assenso del genitore biologico, che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia. Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternita' surrogata - ha rilevato la Corte - non puo' che spettare, in prima battuta, al legislatore. A tal fine, quest'ultimo - quale titolare di un significativo margine di manovra, a fronte di un ventaglio di opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessita' sistematica - deve farsi carico di una disciplina che assicuri una piena tutela degli interessi del minore, in modo piu' aderente alle peculiarita' della situazione, che sono assai diverse da quelle dell'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). 9. - Ripreso il giudizio dinanzi a questa Corte, la Prima Sezione civile, con ordinanza 21 gennaio 2022, n. 1842, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. L'ordinanza della Sezione sostiene che, in assenza di un intervento innovativo del legislatore, e' necessario partire da una rivalutazione degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto di maternita' surrogata. Tale ostacolo, ad avviso della Sezione rimettente, non sussisterebbe, a condizione che siffatti strumenti non operino automaticamente e che la compatibilita' della delibazione o della trascrizione con i valori sottesi al divieto di surrogazione sia compiuto non in astratto, ma con riferimento ad ogni singolo caso concreto, sia pure alla luce di criteri che abbiano validita' generale ed in base ad un bilanciamento dei valori in conflitto ispirato a principi di proporzionalita' e ragionevolezza, senza che vi sia un'aprioristica definizione di prevalenza di un interesse in gioco. L'ordinanza di rimessione ha posto, in particolare, i seguenti quesiti, afferenti al quarto motivo del ricorso principale: - se la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando l'inidoneita' del ricorso in questa materia all'adozione in casi particolari, abbia determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni Unite; - se la non attuazione del monito rivolto al legislatore dalla stessa sentenza n. 33 del 2021 abbia determinato di conseguenza un vuoto normativo; - se, ed eventualmente come, sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo, non potendosi piu' il giudice, sia di merito che di legittimita', riferire al preesistente diritto vivente che, in base alla motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, non sarebbe idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del generale mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d'intenzione e nello stesso tempo per l'inadeguatezza della soluzione offerta dall'istituto di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d); - se una possibile interpretazione adeguatrice, consentita alle Corti, possa consistere nel configurare la valutazione del conflitto del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione con l'ordine pubblico internazionale, spettante al giudice investito della richiesta di delibazione, come valutazione legata al singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalita' e ragionevolezza per come affermati dalla giurisprudenza costituzionale, specificamente nell'ottica della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l'interesse del minore; - se in tale valutazione il giudice debba mettere a confronto, in concreto, l'interesse del minore a che vengano rispettati i suoi diritti fondamentali alla identita' personale e alla vita familiare con la tutela della dignita' della donna coinvolta nel processo procreativo mediante gestazione per altri, con la prevenzione di qualsiasi attentato che, sempre in concreto, possa derivare dal riconoscimento all'istituto dell'adozione, con la legittima aspirazione dello Stato a scoraggiare pratiche elusive del divieto di surrogazione di maternita'; - se i criteri generali indicati nella ordinanza di rimessione (adesione libera consapevole e non determinata da necessita' economiche da parte della donna alla gestazione; revocabilita' del consenso alla rinuncia all'instaurazione del rapporto di filiazione sino alla nascita del bambino; necessita' di un apporto genetico alla procreazione da parte di uno dei due genitori intenzionali; valutazione in concreto degli effetti dell'eventuale diniego del riconoscimento sugli interessi in conflitto), eventualmente in aggiunta o combinazione con altri criteri generali, debbano o possano assumere il ruolo di una direttiva nell'interpretazione cui debba attenersi il giudice del merito; - se infine derivi anche dal diritto dell'Unione Europea un limite alla possibilita' di non riconoscere lo status filiationis acquisito all'estero da un minore cittadino italiano nato da gestazione per altri legalmente praticata nello Stato di nascita nella misura in cui tale disconoscimento comporti la perdita dello status e limiti la sua liberta' di circolazione e di esplicazione dei suoi legami familiari nel territorio dell'Unione. 10. - Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione dei ricorsi alle Sezioni Unite e ha fissato per la discussione l'udienza pubblica dell'8 novembre 2022. Non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale, i ricorsi sono stati trattati in camera di consiglio, senza l'intervento del Procuratore Generale e delle parti, in base alla disciplina dettata dal Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020, e dal Decreto Legge n. 228 del 2021, articolo 16, comma 1, convertito dalla L. n. 15 del 2022. 11. - In prossimita' della camera di consiglio il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte. L'Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto che la questione proposta dalla Prima Sezione venga risolta escludendo la sussistenza di un vuoto normativo come prefigurato nell'ordinanza interlocutoria e riaffermando il principio statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, con l'ulteriore espressa indicazione delle modifiche derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 in relazione alla disciplina dell'adozione in casi particolari. 12. - Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ex articolo 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - L'ordinamento italiano non consente il ricorso ad operazioni di maternita' surrogata. L'accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a "reclamare diritti" sul bambino che nascera', non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Tale pratica e' vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6. Il divieto e' presidiato dalla reclusione e dalla multa per "chiunque, in qualsiasi forma", la "realizza, organizza o pubblicizza". Le istanze di genitorialita', nondimeno, si rivelano difficilmente comprimibili. Il divieto di gestazione per altri non argina il progetto di diventare genitori. L'esistenza del divieto in Italia induce molti cittadini, quando supportati da una adeguata disponibilita' economica, a ricorrere alla surrogazione di maternita' all'estero, nei Paesi che hanno regolamentato e consentito questa tecnica di procreazione. Il contesto internazionale e' alquanto frastagliato sulla legittimita' del ricorso alla gestazione per altri. Il panorama comparato offre indicazioni non omogenee sia sui limiti di liceita' di questa pratica sia, dove essa e' vietata, sulle scelte sanzionatorie, che possono andare dall'ampia criminalizzazione, alla limitazione della rilevanza penale alle forme di surrogazione di tipo commerciale, alla previsione di sole sanzioni amministrative. La regolamentazione permissiva presente in alcuni Paesi stranieri favorisce, appunto, il turismo procreativo di cittadini italiani che si recano all'estero al fine di ottenere, nel rispetto della lex loci, cio' che in Italia e' vietato. Coppie con problemi di sterilita' femminile o coppie omosessuali che intendono accedere alla filiazione vanno all'estero per realizzare la' dove e' consentito il progetto procreativo proibito nel nostro Paese. Ogni qualvolta la surrogazione di maternita' e' praticata all'estero, la questione dello status del nato da maternita' surrogata fuoriesce dal perimetro dell'ordinamento interno e si traduce nel problema del riconoscimento in Italia della genitorialita' acquisita al di fuori dei confini nazionali. Si pone il problema del riconoscimento dello status genitoriale ottenuto all'estero in virtu' di norme piu' liberali di quelle italiane in materia di procreazione medicalmente assistita. Entra in campo il limite dell'ordine pubblico internazionale. 2. - Rispondere al quesito se possa essere riconosciuto lo stato di figlio nei confronti del genitore intenzionale non genetico, e' un problema complesso per una pluralita' di ragioni. Innanzitutto, perche' alla configurazione della surrogazione di maternita' come reato non si accompagna alcuna espressa disposizione normativa sullo status del minore comunque nato da detta pratica (in Italia o) all'estero. La legge non regola la sorte del nato malgrado il divieto. Secondariamente, perche' la surrogazione all'estero in conformita' della legge ivi vigente da parte di cittadini italiani non puo' essere ricondotta all'illecito penale di cui al citato articolo 12, comma 6. La norma incriminatrice non intercetta le condotte commesse fuori dal territorio dello Stato, essendo il fatto tipico di surrogazione di maternita' contrassegnato da un forte radicamento al territorio nazionale. In terzo luogo, perche' vengono in rilievo e si confrontano diversi interessi. Da un lato, si pone l'esigenza di salvaguardare i principi ispiratori dell'ordinamento giuridico italiano in una materia di rilevante sensibilita' sul piano etico, che mette in gioco il valore fondamentale della dignita' umana, alla quale e' preordinato il divieto di ricorso alla maternita' surrogata posto da una legge della Repubblica. Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialita', le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identita' nella societa'. L'esigenza di salvaguardare i valori ispiratori dell'ordinamento italiano si traduce in una finalita' general-preventiva: scoraggiare i cittadini dal ricorso all'estero ad un metodo di procreazione che l'Italia vieta nel suo territorio, perche' ritenuto lesivo di valori primari. Dall'altro lato, si profila, una volta che il bambino e' nato, l'esigenza di proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuita' del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalita' procreativa. Il bambino avrebbe certamente il diritto di essere allevato dalla madre che lo ha partorito; ma e' constatazione diffusa che la donna che porta una gravidanza solo per adempiere un obbligo contrattuale assunto verso i committenti spesso non ha alcuna reale intenzione di svolgere la funzione materna. Potrebbe sempre cambiare idea, e proprio per disincentivare cio' e' prassi comune che l'embrione sia formato con l'ovocita di un'altra donna. Ma se non ci ripensa, non e' nell'interesse del nato far valere nei confronti della madre gestante il suddetto diritto per ottenerne una qualche esecuzione specifica. Questo spiega perche' l'interesse del minore che vive e cresce in una determinata comunita' di affetti con entrambi i committenti puo' essere quello del riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico di tale legame. Allorche' il progetto procreativo sia seguito dalla concretezza ed attualita' dell'accudimento del minore e sia caratterizzato dall'esercizio in via di fatto della responsabilita' genitoriale attraverso la cura costante del bambino, la mancata attribuzione di una veste giuridica a tale rapporto non si limiterebbe alla condizione del genitore d'intenzione, che ha scelto un metodo di procreazione che l'ordinamento italiano disapprova, ma finirebbe con il pregiudicare il bambino stesso, il cui diritto al rispetto della vita privata si troverebbe significativamente leso. C'e' una parte debole del rapporto che potrebbe risultare fortemente danneggiata pur senza alcuna responsabilita'. Una discriminazione del bambino, fatta derivare dallo stigma verso la decisione dell'adulto di aver fatto ricorso a una tecnica procreativa vietata nel nostro ordinamento, si risolverebbe in una violazione del principio di eguaglianza e di pari dignita' sociale, ponendo a carico del nato conseguenze riconducibili unicamente alle scelte di chi ha concepito la sua nascita. Il nato non e' mai un disvalore e la sua dignita' di persona non puo' essere strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono. Il nato non ha colpa della violazione del divieto di surrogazione di maternita' ed e' bisognoso di tutela come e piu' di ogni altro. Non c'e' spazio per piegare la tutela del bambino alla finalita' dissuasiva di una pratica penalmente sanzionata. Il disvalore della pratica di procreazione seguita all'estero non puo' ripercuotersi sul destino del nato. Occorre separare la fattispecie illecita (il ricorso alla maternita' surrogata) dagli effetti che possono derivarne sul rapporto di filiazione e in particolare su chi ne sia stato in qualche modo vittima. Del resto, quando si ha a che fare con i diritti delle persone, l'interpretazione deve essere improntata ad un senso di umanita'. La Costituzione "non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti" (Corte Cost., sentenza n. 494 del 2002) e non consente una capitis deminutio perpetua e irrimediabile dei diritti del bambino, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti. Da tempo la Corte costituzionale reputa costituzionalmente necessario non condizionare negativamente, men che mai in termini automatici e presuntivi, la condizione giuridica del figlio in ragione del disvalore che la legge attribuisce alla condotta dei genitori, come in caso di incesto (sentenza n. 494 del 2002, cit.) o di alterazione o soppressione di stato (sentenza n. 102 del 2020). 3. - La questione di massima di particolare importanza rimessa all'esame delle Sezioni Unite si colloca in quest'ambito: riguarda lo stato civile di un bambino nato in Canada attraverso la pratica della maternita' surrogata, alla quale ha fatto ricorso una coppia di uomini, cittadini italiani, uniti in matrimonio in Canada, con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino, frutto di un disegno genitoriale comune, ha gia' conseguito nel Paese di nascita lo stato giuridico di figlio di entrambi i suoi genitori. Si controverte se sia possibile dare effetto nell'ordinamento italiano al provvedimento giurisdizionale straniero - della Supreme Court della British Columbia - che ha riconosciuto come genitore del bambino non solo il padre biologico, che ha fornito i propri gameti, ma anche l'altra persona, il genitore d'intenzione, che ha condiviso con il partner il percorso che ha portato al concepimento e alla nascita pur senza fornire il proprio apporto genetico. E', quindi, in discussione il legame di filiazione con il componente della coppia omoaffettiva che non ha con il bambino un rapporto di sangue ma che, avendo condiviso con il padre biologico il disegno di genitorialita', risulta comunque genitore sulla base di un atto legittimamente formato da un'autorita' giurisdizionale straniera. L'interrogativo riguarda, pertanto, la possibilita' di riconoscere o meno il provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che ha concorso nella scelta di ricorrere alla surrogazione di maternita', senza fornire i propri gameti, in un caso nel quale la gestante ha confermato, dopo il parto, la volonta' di non voler divenire madre e di riconoscere altri come genitori del nato. In altri termini, non e' in discussione il rapporto di filiazione con il padre biologico. Difatti, nel caso di specie, l'originario atto di nascita canadese, che riportava un solo genitore - il padre che ha fornito i propri gameti ai fini della maternita' surrogata -, e' stato trascritto nei registri di stato civile italiani. E' invece controversa la trascrizione della co-genitorialita' del padre d'intenzione, che insieme al padre biologico ha voluto la nascita del bambino, ricorrendo alla surrogazione di maternita' nel Paese estero in conformita' della lex loci. Si tratta di stabilire se il divieto di ricorrere alla gestazione per altri, previsto dalla legislazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita, precluda o meno la possibilita' di estendere il riconoscimento della genitorialita' anche al partner che, pur privo di un legame genetico con il minore, ha condiviso il percorso che ha condotto al concepimento e alla nascita nel territorio di uno Stato dove la maternita' surrogata non e' contraria alla legge, e che ha quindi portato il bambino in Italia, per poi qui prendersene quotidianamente cura. La questione rimessa alle Sezioni Unite consiste nel precisare se sia o meno contrario all'ordine pubblico internazionale il provvedimento giurisdizionale straniero; se sia trasferibile nell'ordinamento interno la formalizzazione del legame con il genitore intenzionale sancita nel provvedimento straniero; ancora, se l'adozione in casi particolari costituisca o meno l'unico strumento compatibile con l'ordine pubblico e idoneo ad instaurare un legame giuridico tra il nato all'estero da gestazione per altri e il genitore intenzionale. 4. - La questione di massima riguarda un tema che e' gia' stato affrontato, di recente, dalle Sezioni Unite. 4.1. - Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12193 del 2019, hanno giudicato contrario all'ordine pubblico internazionale il provvedimento che riconosce il rapporto filiale con il genitore intenzionale del bambino nato da maternita' surrogata. La Corte, nella sua composizione allargata, ha stabilito che, per inquadrare giuridicamente il rapporto affettivo e sociale sussistente tra il minore e il genitore intenzionale, considerato padre a pieno titolo sin dalla nascita del bambino nel Paese in cui le pratiche procreative sono state poste in essere, l'ordinamento italiano offre la possibilita' del ricorso all'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d): una soluzione che non opera fin dalla nascita, ma solo dal momento in cui l'adozione e' pronunciata. Cio' implica, in concreto, che il padre genetico viene riconosciuto come tale, mentre l'altro componente della coppia puo' ricorrere all'adozione in casi particolari. Il rifiuto del riconoscimento per quest'ultimo e' stato fondato sul rilievo che il divieto di surrogazione di maternita', sancito dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, integra un principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignita' umana della gestante e l'istituto dell'adozione, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non puo' sostituire la propria valutazione. Le Sezioni Unite hanno escluso che esista, nell'ordinamento italiano, un modello di genitorialita', diverso dall'adozione, alternativo a quello fondato sul legame biologico tra genitore e figlio. Hanno affermato che la tutela del concreto ed effettivo interesse del minore si realizza mediante la possibilita' dell'adozione in casi particolari da parte del genitore d'intenzione. Attraverso l'adozione si salvaguarda la continuita' della relazione affettiva ed educativa eventualmente instauratasi. Con tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno quindi individuato le modalita' attraverso le quali l'ordinamento italiano consente di soddisfare l'interesse confliggente che viene ad essere compresso per effetto del diniego di riconoscimento della situazione costituita all'estero in violazione di un divieto che deve ritenersi presentare carattere di ordine pubblico. L'adozione in casi particolari rappresenta il mezzo attraverso il quale il rapporto di filiazione costituito all'estero tra il minore e il padre di intenzione potrebbe ricevere continuita' nel nostro ordinamento. 4.2. - Sul diritto vivente formatosi a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite e' intervenuta, in questo stesso giudizio, la Corte costituzionale, chiamata a verificare la costituzionalita' delle norme che impediscono al partner del genitore biologico del minore concepito all'estero con metodiche di maternita' surrogata di acquisirne la geni-torialita' legale sin dalla nascita. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2021, ha ammesso che il ricorso alla adozione particolare puo' non essere completamente adeguato rispetto alla piena tutela degli interessi del minore; ha sottolineato che, comunque, l'interesse del bambino non puo' essere considerato automaticamente prevalente rispetto ad ogni altro controinteresse in gioco, quale lo scopo legittimo perseguito dal legislatore di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita'; ha sottolineato che e' "indiscutibile" l'interesse del bambino al "riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico" del legame con il genitore intenzionale "a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso", escludendo che tale interesse possa ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore biologico. Il Giudice delle leggi ha ritenuto che il possibile ricorso all'adozione in casi particolari "costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali". La Corte costituzionale ha elencato le insufficienze che la disciplina dell'adozione in casi particolari presenta nella tutela dei diritti fondamentali del bambino. "L'adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialita' all'adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell'articolo 74 c.c., (...) e' ancora controverso (...) se anche l'adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l'adottante abbia gia' altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore biologico (...), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere cosi' definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall'inizio condiviso il progetto genitoriale, e si e' di fatto preso cura di lui sin dal momento della nascita". Nello stesso tempo, la Corte costituzionale ha riconosciuto che spetta, "in prima battuta", al legislatore "il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternita' surrogata", "nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori". Al legislatore "deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco". "Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessita' sistematica", la Corte costituzionale - si legge nella sentenza n. 33 del 2021 - "non puo', allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalita' del legislatore". 5. - L'ordinanza di rimessione della questione di massima pone un problema di effettivita' della tutela. La Prima Sezione ha riscontrato un deficit di tutela a seguito della pronuncia della Corte costituzionale che, avendo rilevato l'inadeguatezza dello strumento dell'adozione in casi particolari, ha sollecitato il legislatore ad intervenire. In mancanza di un intervento del Parlamento, il Collegio rimettente si e' rivolto a questa composizione allargata della Corte di cassazione per sollecitare una rimeditazione della soluzione elaborata dalle Sezioni Unite con la sentenza del 2019. Secondo l'ordinanza di rimessione, si sarebbe aperto, dopo la sentenza della Corte costituzionale, un vuoto normativo. Non sarebbe piu' in linea con la pronuncia del Giudice costituzionale la lettura della clausola di ordine pubblico come precostituita da una valutazione generale e aprioristica del legislatore tale da comportare, con la prevalenza della finalita' antielusiva sull'interesse del minore, il diniego del riconoscimento dello status filiationis. Il Collegio della Prima Sezione propone una nuova interpretazione del sistema normativo, che consenta una tutela adeguata dei diritti del minore e, nel contempo, salvaguardi i valori sottesi al divieto penale di surrogazione di maternita'. L'ordinanza interlocutoria auspica una riconsiderazione del limite dell'ordine pubblico delineato dalle Sezioni Unite: una rimeditazione dell'approdo a cui questa Corte e' pervenuta al fine di garantire nei giudizi di delibazione, nel contesto di dialogo tra le Corti, una valutazione del singolo caso intesa a non incidere sui diritti inviolabili del minore. Nell'ordinanza di rimessione si sostiene che con la delibazione del provvedimento giurisdizionale canadese si recepisce nel nostro ordinamento non l'accordo di maternita' surrogata e tanto meno la legittimita' di una pratica procreativa assistita dal divieto penale. Ad essere riconosciuto efficace sarebbe, piuttosto, l'atto di assunzione di responsabilita' genitoriale da parte del soggetto che ha deciso di essere coinvolto, prestando il suo consenso, nella decisione del partner di ricorrere alla tecnica di procreazione medicalmente assistita in questione. Ad avviso del Collegio remittente, non e' in discussione un preteso diritto alla genitorialita', ma l'interesse del minore a che sia affermata la titolarita' giuridica di quel fascio di doveri che l'ordinamento considera inscindibilmente legati all'esercizio della responsabilita' genitoriale. Si tratterebbe di dare efficacia in Italia a un riconoscimento del rapporto di filiazione che e' gia' avvenuto nell'ordinamento in cui il minore e' nato per dare continuita' al suo status e ai suoi diritti nei confronti dei soggetti responsabili della sua nascita, evitando cosi' i gravi pregiudizi che deriverebbero dalla rimodulazione della sua identita' e dalla eliminazione di una figura genitoriale. Il bilanciamento tra i diritti del bambino e la tutela della dignita' della donna, secondo l'interpretazione proposta dalla Prima Sezione, non andrebbe fatto in astratto, ma dovrebbe tener conto del singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalita' e ragionevolezza, considerando anche la multiforme realta' della surrogazione. In quest'ambito, anche la natura dell'accordo di surrogazione dovrebbe essere soggetta a specifica verifica, dovendosi accertare se la gestazione per altri sia frutto di scelta libera e consapevole e non di necessita' economiche, se l'accordo sia stato realizzato nel rispetto delle prescrizioni legali del Paese estero, se ci sia un legame genetico con uno dei genitori. In particolare, l'ordinanza sottolinea che la donna che accetta di portare a termine una gravidanza anche nella prospettiva di non diventare la madre del bambino che partorira' sarebbe in una condizione che puo' essere considerata non lesiva della sua dignita' quando alla base vi sia una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino. Secondo l'ordinanza interlocutoria, per un verso la centralita' nel riconoscimento dello status filiationis del diritto all'identita' del minore e al godimento pieno della vita familiare, desumibile dalla sentenza "monitoria" n. 33 del 2021 della Corte costituzionale, porrebbe questi diritti in posizione di preminenza rispetto al disvalore per la gestazione per altri e consentirebbe, a determinate condizioni, di superare il carattere invalicabile di limite di ordine pubblico cosi' come disegnato nel 2019 dalle Sezioni Unite, valutando caso per caso anche la tipologia di accordo gestazionale. Per l'altro verso, l'ordinanza interlocutoria ritiene che l'attentato all'istituto dell'adozione sia scongiurato quando manca la prova di una mercificazione. Si richiama, al riguardo, la sentenza delle Sezioni Unite n. 9006 del 2021, che ha ritenuto compatibile con l'ordine pubblico internazionale la domanda di trascrizione di un atto di nascita proveniente da una sentenza estera di adozione ancorche' fondata sul consenso dei genitori biologici. L'ordinanza di rimessione affida alle Sezioni Unite la ricerca di un nuovo punto di equilibrio fra la ribadita contrarieta' all'ordine pubblico internazionale del recepimento nel nostro ordinamento degli accordi di maternita' surrogata e la tutela dei diritti fondamentali del minore affermati dalle Corti Europee, in armonia con la giurisprudenza della Corte costituzionale. 6. - Queste Sezioni Unite ritengono che la sentenza della Corte costituzionale non abbia determinato alcun vuoto normativo. La Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale delle norme che non consentono, rispetto al genitore non biologico, la trascrizione dell'atto di nascita del bambino nato all'estero a seguito di un contratto di maternita' surrogata, ha invitato il legislatore - per garantire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione con il bambino - a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare il superiore interesse del minore e ad instaurare quel legame di filiazione anche con il genitore non biologico all'interno di una coppia omoaffettiva. La Corte costituzionale ha riscontrato una situazione di insufficiente tutela del preminente interesse del minore e ha invitato il legislatore a disciplinare l'adozione del bambino nato da maternita' surrogata in modo piu' aderente alle peculiarita' della situazione. Nello specifico, la sentenza n. 33 del 2021 ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l'adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44 in quanto questa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell'adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l'assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia. La citata sentenza n. 33 del 2021 e' una decisione di inammissibilita', non di illegittimita' costituzionale. E' accompagnata da un forte invito al legislatore a trovare soluzioni migliori di quelle oggi esistenti per la tutela dell'interesse del bambino. Il Collegio concorda con l'osservazione del Pubblico Ministero secondo cui "dal testo della sentenza n. 33 del 2021 non emergono i caratteri propri delle sentenze di illegittimita' accertata e non dichiarata: la Corte non ha disposto alcun rinvio ad altra udienza, ne' ha indicato un termine al legislatore per intervenire; e non ha affermato l'incostituzionalita', esprimendo invece l'invito al legislatore ad "adeguare" la specifica normativa vigente in materia di adozione in casi particolari (...) al fine di assicurare una migliore garanzia dell'interesse del minore". E' una pronuncia di inammissibilita'-monito, in quanto la Corte, pur avendo rilevato aspetti di criticita', ha ritenuto di non poter intervenire direttamente in una materia che richiede necessariamente una valutazione discrezionale del legislatore. Il possibile ricorso all'adozione in casi particolari "costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovra-nazionali". La Corte costituzionale evidenzia l'"insufficiente tutela degli interessi del minore", ma rimette al circuito degli organi attraverso i quali si esprime la sovranita' popolare il "difficile bilanciamento" tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita' e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori. La Corte ha dato cosi' al legislatore la prima parola, esortandolo a individuare lo strumento maggiormente idoneo per salvaguardare tutti gli interessi in gioco, orientando la propria scelta verso forme possibilmente piu' celeri ed effettive. Si tratta di materia di particolare rilevanza etico-sociale: e' dunque il legislatore rappresentativo a doversi porre quale interprete della coscienza sociale, ad avere le antenne per intercettarla e tradurla in atti normativi. E' il legislatore in prima battuta a dover effettuare il bilanciamento dei valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati nel momento dato nella coscienza sociale. Il procedimento adottivo prefigurato dalla sentenza n. 33 del 2021 deve essere caratterizzato da una maggiore speditezza, dalla parificazione degli effetti a quelli dell'adozione legittimante e dall'abbandono dell'assenso condizionante del genitore biologico dell'adottando. La Corte chiama in causa il legislatore perche' la decisione sulla direzione di marcia, in un terreno denso di implicazioni etiche, antropologiche, sociali, prima ancora che giuridiche, non puo' essere devoluta alla giurisprudenza. Per le riforme, occorre la discussione in sede politica, affidando al confronto democratico, e per esso all'intera comunita', scelte di cosi' rilevante significato. 7. - Il legislatore e' rimasto finora inerte. Il monito giace inascoltato. Nell'attesa dell'intervento, sempre possibile ed auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non puo' lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l'interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale. Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma e' investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l'ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l'ordinamento si confronta con la pluralita' degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell'ordinamento, il giudice non detta ne' introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non puo' spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l'assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non e' fonte del diritto. Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l'investire il significato della genitorialita', al giudice e' richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessita' dell'esperienza e della connessione tra questa e il sistema. Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell'evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non puo' prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore. Cio' vale soprattutto in una vicenda, come l'attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalita' del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla maternita' surrogata e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori. Una pluralita' di ragioni giustifica l'indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell'equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perche' la ricerca dell'effettivita' deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore. La presa d'atto che talora la ricerca dell'effettivita' richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perche' la gradualita' concorre a far assorbire il cambiamento e le novita' nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l'evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale. La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacche' le nuove frontiere dell'interpretazione che aspirino a offrire stabilita' e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica. Non c'e' spazio, in altri termini, ne' per una penetrazione diretta - attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello gia' operato dal Giudice delle leggi - di quell'ambito di discrezionalita' legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, ne' per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato. 8. - La Corte costituzionale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, ha riconosciuto il ruolo primario del legislatore e della sua discrezionalita' a fronte del ventaglio delle opzioni possibili. Cio' nondimeno, al giudice compete pur sempre di valutare la situazione rimasta in attesa di una migliore disciplina per via legislativa. La giurisprudenza, nell'interpretazione e nell'applicazione della legge, da' vita al testo normativo e da' contenuto alle clausole generali, elaborando la regola del caso concreto e poi reiterando la regola del caso nelle successive decisioni. La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioe' delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell'equilibrio dei valori gia' indicato con chiarezza dalla Corte costituzionale. 9. - In materia di maternita' surrogata, la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando le insufficienze dell'adozione in casi particolari ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), non ha determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019. La Corte costituzionale ha affermato che gli orientamenti espressi dalla Corte EDU e i principi costituzionali non ostano alla soluzione della non trascrivibilita' del provvedimento giurisdizionale straniero e ha ribadito che la maternita' surrogata e' lesiva della dignita' della donna. La pronuncia del Giudice delle leggi ha inciso nella parte relativa alla tutela dei diritti del minore, ritenendo l'adozione in casi particolari strumento non del tutto adeguato. La Corte costituzionale ha evidenziato l'insufficienza della tutela del nato realizzata per il tramite dell'adozione in casi particolari, ma non ha avallato la tesi di un accertamento ab initio di una genitorialita' puramente intenzionale in tutti o in taluni casi di nascita da una madre surrogata. Se avesse considerato praticabile questa soluzione al fine di garantire l'interesse alla stabilita' affettiva del nato da maternita' surrogata, la Corte costituzionale si sarebbe espressa diversamente, accogliendo le questioni di legittimita' prospettate o pronunciando una sentenza di rigetto interpretativa. 10. - Preme evidenziare che, se il legislatore non ha finora raccolto l'invito ad adeguare l'adozione in casi particolari al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, e' tuttavia sopraggiunta una pronuncia della Corte costituzionale che ha eliminato una delle criticita' sottolineate dallo stesso Giudice delle leggi. Con la sentenza n. 79 del 2022, depositata il 28 marzo 2022, quindi successivamente all'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte costituzionale ha rimosso l'impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell'adottante (L. n. 184 del 1983, articolo 55 in relazione all'articolo 300 c.c., comma 2), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell'adozione in casi particolari all'insegna della piena attuazione del principio di unita' dello stato di figlio. In seguito alla sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale, anche l'adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell'adottante. Al pari dell'adozione "ordinaria" del minore di cui alla L. n. 184 del 1983, articoli 6 e ss. l'adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l'adottante, ma fa entrare l'adottato nella famiglia dell'adottante. L'adottato acquista lo stato di figlio dell'adottante. La sentenza riconosce i legami familiari anche per l'adottato in casi particolari e cosi' realizza il suo inserimento nell'ambiente familiare dell'adottante, in applicazione del principio di unita' dello stato di figlio e secondo un approccio teso a considerare unitariamente filiazione e adozione. La pronuncia della Corte costituzionale si riferisce proprio ad una procedura di adozione conseguente ad una pratica di maternita' surrogata da parte di una coppia dello stesso sesso unita civilmente, in relazione alla quale l'adottante aveva richiesto espressamente al tribunale per i minorenni di dichiarare la sussistenza di rapporti giuridici tra l'adottato e i parenti dell'adottante. La sentenza ha fatto venir meno il piu' importante elemento di inadeguatezza della soluzione dell'adozione particolare. La declaratoria di illegittimita' costituzionale rimuove dunque un ostacolo all'effettivita' della tutela offerta dall'adozione in casi particolari. 11. - Un altro aspetto di inadeguatezza messo in luce dalla sentenza n. 33 del 2021 risiede nell'impossibilita' di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell'assenso del genitore biologico. Si tratta di un aspetto di criticita' perche' l'interesse del minore reclama che siano garantite stabilita' e certezza al rapporto di cura e affetto, in assenza di un legame di discendenza biologica ma in una cornice di vita familiare, superando un sistema di tutela parziale ed esposto alle sopravvenienze nei rapporti tra adulti. In effetti, la disciplina dell'adozione in casi particolari, alla L. n. 184 del 1983, articolo 46 richiede, ai fini del perfezionamento della procedura, l'assenso del genitore biologico, il quale potrebbe non prestarlo in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia. L'adozione diverrebbe cosi' impraticabile proprio nelle situazioni piu' delicate per il benessere del minore. Se e' negato l'assenso, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell'adottante puo', ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, pronunciare ugualmente l'adozione, salvo che l'assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilita' genitoriale. La lettera del citato articolo 46 sembra considerare preclusivo il mancato assenso in tutti i casi in cui i genitori non siano decaduti dall'esercizio della responsabilita' genitoriale. In realta', la giurisprudenza e' gia' pervenuta ad una lettura restrittiva della disposizione, ritenendo che per genitori esercenti la responsabilita' genitoriale, il cui dissenso impedisce l'adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilita' stessa, ma ne abbiano altresi' il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore. Seguendo quest'ordine di idee, si e' considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all'adozione manifestato dal genitore dell'adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilita' genitoriale sul figlio, con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo (Cass., Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18575; Cass., Sez. I, 16 luglio 2018, n. 18827). Il Collegio delle Sezioni Unite osserva che alla base della domanda di adozione particolare da parte del genitore sociale, ai sensi dell'articolo 44, comma 1, lettera d), c'e' la condivisione, con il genitore biologico, della responsabilita' conseguente alla scelta di aver dato vita al progetto procreativo in un Paese estero in conformita' della lex loci; c'e', inoltre, il rapporto costante di affetto e di cura all'interno dell'unica famiglia nella quale il bambino e' cresciuto. In altri termini, alla condivisione, da parte della coppia, della decisione di far venire al mondo il bambino, liberamente impegnandosi ad accoglierlo assumendone le relative responsabilita', fanno seguito e si associano l'accudimento, l'allevamento e la cura del minore. Essendo l'adozione particolare, nel particolare caso della lettera d), destinata ad offrire un riconoscimento giuridico al rapporto intessuto con il genitore sociale all'interno dell'unica famiglia di accoglienza, il dissenso alla costituzione del legame di filiazione adottiva da parte del genitore biologico esercente la responsabilita' genitoriale non puo' essere espressione di un volere meramente potestativo, ma va collocato in una dimensione funzionale. L'effetto ostativo del dissenso dell'unico genitore biologico all'adozione del genitore sociale, allora, puo' e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformita' all'interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. In altri termini, e' possibile superare la rilevanza ostativa del dissenso all'adozione in casi particolari ai sensi della lettera d), tenendo conto che il contrasto rischia, non di vanificare l'acquisto di un legame ulteriore rispetto a quello che il minore ha con la famiglia di origine, ma proprio di sacrificare uno dei rapporti sorti all'interno della famiglia nella quale il bambino e' cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo. Nella medesima prospettiva ermeneutica si pone la dottrina, la quale sottolinea che il dissenso all'adozione da parte del genitore biologico del bambino nato mediante maternita' surrogata, in tanto e' suscettibile di impedire la costituzione del legame di filiazione, in quanto passi attraverso la negazione in radice del progetto genitoriale o di quel rapporto costante di affetto e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l'adozione in casi particolari, anche nell'ipotesi in cui vi sia stata separazione. In altri termini, il genitore biologico potrebbe negare l'assenso all'adozione del partner solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore. Mettendo in collegamento l'articolo 46 con l'articolo 57 della L. n. 184 del 1983, che impone al giudice di valutare se l'adozione particolare realizzi in concreto il preminente interesse del minore, il rifiuto dell'assenso all'adozione, da parte del genitore biologico, appare ragionevole soltanto se espresso nell'interesse del minore, ossia quando non si sia realizzato tra quest'ultimo ed il genitore d'intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell'adozione. Se tale relazione sussiste, il rifiuto non sarebbe certamente giustificato dalla crisi della coppia committente ne' potrebbe essere rimesso alla pura discrezionalita' del genitore biologico. Il Collegio delle Sezioni Unite, rimanendo nel solco del bilanciamento tracciato dalla Corte costituzionale, ritiene di dover in questa sede evidenziare le potenzialita' dell'interpretazione costituzionalmente conforme, in vista del superamento della criticita' legata al dissenso dell'unico genitore biologico, senza che occorra sollevare, persistendo l'omissione da parte del legislatore, una questione di legittimita' costituzionale. 12. - La soluzione dell'adozione da parte del genitore d'intenzione privo di legame biologico presenta altri aspetti problematici. L'adozione e', ancora, non pienamente adeguata nella prospettiva di una tutela piena del generato nei confronti di chi, partecipando al progetto procreativo, ha assunto la responsabilita' di farlo venire al mondo, perche' l'istituto dell'adozione, in tutte le sue forme, presuppone che il genitore assuma l'iniziativa. L'iniziativa ai fini della costituzione dello status non compete mai all'adottando. Il minore non puo' rivendicare la costituzione del rapporto genito-riale per il tramite dell'adozione. Qualora il partecipante al progetto procreativo, che non abbia legami genetici con il minore, cambi idea e non voglia piu' instaurare alcun rapporto giuridico con il nato, il minore non ha alcun diritto alla costituzione, attraverso l'adozione, di un rapporto con il genitore d'intenzione privo di legame genetico. Sicche' l'adozione puo' risultare, in concreto, di fronte al rifiuto del committente, strutturalmente inidonea ad offrire una garanzia completa nella prospettiva della tutela del generato. La constatazione di questa evenienza particolare non conduce, tuttavia, ad ammettere o a giustificare l'automatismo della trascrizione. L'automatico riconoscimento della genitorialita' intenzionale gia' accertata all'estero non realizza la pienezza di tutela del minore, che richiede invece una particolare conformazione, con i caratteri della effettivita' e della stabilita', impressa dalla concomitante e acclarata situazione di fatto. Quella constatazione impone, invece, ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinche' siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformita' al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest'ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilita' e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati "lecitamente". L'adeguatezza dell'istituto dell'adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerita' del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo. Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte Europea dei diritti dell'uomo (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al piu' tardi quando, secondo l'apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d'intenzione si e' concretizzato. La Corte EDU considera cioe' l'adozione un rimedio possibile se ed in quanto consegua con celerita' il risultato del riconoscimento dei legami tra il minore e il genitore d'intenzione. La Corte costituzionale, a sua volta, nella sentenza n. 33 del 2021, ha affermato che i principi costituzionali impongono che la tutela dell'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con il genitore d'intenzione sia "assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorche' ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino". 13. - Per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 e prospettandosi la possibilita' di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, l'adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternita' surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilita' per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora piu' aderente alle peculiarita' della situazione. 14. - Si tratta, a questo punto, di affrontare piu' da vicino l'interrogativo, sollevato dall'ordinanza di rimessione, se, essendo nel caso di specie stato chiesto il riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale, il rifiuto sia giustificato dal contrasto con l'ordine pubblico internazionale, l'adozione rappresentando l'unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale. 15. - A tale riguardo, occorre premettere che, ai sensi della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, il riconoscimento della sentenza straniera e' subordinato al fatto che le sue disposizioni non producano effetti contrari all'ordine pubblico. La L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), focalizza l'attenzione sugli effetti che la pronuncia straniera e' destinata a produrre nel nostro ordinamento. Volto alla salvaguardia dei fondamentali principi sui quali si fonda l'ordinamento e che ne assicurano la complessiva coerenza, il limite dell'ordine pubblico opera non tanto con riferimento alle disposizioni applicate dal giudice straniero ai fini della soluzione della controversia, ma con riguardo alle conseguenze che la pronuncia straniera resa sulla base di quelle disposizioni e' in grado di produrre nel nostro ordinamento. A questo proposito, e' pacifico che la mera diversita' delle soluzioni legislative nazionali in merito ad una determinata questione non puo' di per se' considerarsi dar luogo ad un problema di compatibilita' con l'ordine pubblico, giacche', ove si accogliesse una simile lettura estensiva del limite in questione, le regole di diritto internazionale privato verrebbero private della loro ragione d'essere, insita nella diversita' degli ordinamenti giuridici nazionali e nell'opportunita' di realizzare tra di loro un profilo di coordinamento, funzionale ad agevolare la vita internazionale delle persone. Tuttavia, nemmeno puo' presumersi, all'inverso, una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l'attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando ad un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilita' con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico del foro. L'ordine pubblico nel diritto internazionale privato svolge una funzione di meccanismo di salvaguardia dell'armonia interna dell'ordinamento giuridico statale di fronte all'ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, di argine contro la compromissione dei valori irrinunciabili dell'ordinamento del foro: una vocazione, tuttavia, in parte ridimensionata per effetto della progressiva integrazione tra ordinamenti, realizzata al fine di soddisfare le esigenze di tutela dei diritti fondamentali. Alla funzione originaria dell'ordine pubblico internazionale, tesa a salvaguardare la coerenza interna dell'ordinamento italiano, si e' via via affiancata una funzione promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, nonche' la loro armonizzazione fra gli ordinamenti. Quanto ai formanti dell'ordine pubblico, i principi propri dell'ordinamento giuridico statale possono trovare espressione non soltanto in disposizioni di rango costituzionale bensi' anche in norme di legge ordinaria che siano significative del modo di essere dell'ordinamento giuridico statale in un dato momento storico nei diversi ambiti materiali suscettibili di venire in considerazione. Nella nozione di ordine pubblico internazionale rientrano, quindi, anzitutto quei principi fondamentali, quei valori della nostra Costituzione che esprimono la fisionomia inconfondibile della comunita' nazionale. L'ordine pubblico internazionale comprende anche quelle altre regole che, pur non collocate nella Costituzione, danno concreta attuazione ai principi costituzionali o esprimono un principio generale di sistema. Il concetto di ordine pubblico internazionale si allarga ai valori condivisi dalla comunita' internazionale e, in particolare, alla tutela dei diritti umani risultanti dal diritto dell'Unione Europea, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, avente lo stesso valore vincolante dei trattati istitutivi, nonche' dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, dato il fenomeno di osmosi che interessa i diritti fondamentali, garantiti in particolare dall'articolo 2 Cost., e quelli che risultano dalle fonti internazionali. I diritti di liberta' e i diritti della persona hanno infatti, per loro natura, una vocazione aperta all'implementazione e all'arricchimento del loro contenuto. L'ordine pubblico internazionale si pone nel punto di intersezione di tendenze diverse: clausola generale per eccellenza, naturalmente portata a recepire le evoluzioni socio-culturali, anche sotto l'influenza della giurisprudenza della CEDU, ma anche a non dimenticare la propria radice identitaria in una cornice costituzionale. L'apertura all'altro non e' perdita del se'. E il se' di un ordinamento - la sua identita', appunto - e' quanto risulta tanto dalla Costituzione quanto dalle fondamentali e consolidate opzioni che tracciano le grandi linee della legislazione. Il Collegio intende ribadire l'approdo al quale sono pervenute le Sezioni Unite. La sentenza straniera deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale. Costituzioni e tradizioni giuridiche, con le loro diversita', costituiscono un limite ancora vivo, privato di venature egoistiche, che davano loro "fiato corto", ma reso piu' complesso dall'intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. Non vi potra' essere percio' arretramento del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica. Nel contempo, non ci si potra' attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani (cosi' Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601). La compatibilita' con l'ordine pubblico, ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), deve essere valutata non solo alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione da' forma a quel diritto vivente, dal quale non puo' prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019, cit.). L'operazione che il giudice deve svolgere ha ad oggetto, non la coerenza della normazione interna di uno o piu' istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilita' degli effetti che l'atto produce con i limiti non oltrepassabili. Essi sono costituiti: dai principi fondanti l'autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori; dal principio del preminente interesse del minore, di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione; dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparita' di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all'identita' ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonche' relazionale, sia a non limitare la genitorialita' esclusivamente sulla base dell'orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che fonda la genitorialita' sociale sulla base del quale la legge interna ed il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralita' di modelli di genitorialita' adottiva, unificati dall'obiettivo di conservare la continuita' affettiva e relazionale ove gia' stabilizzatasi nella comunita' familiare (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.). 16. - Ad avviso di questo Collegio, la L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternita' surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali, e' norma di ordine pubblico internazionale. Costituisce indice univoco della rilevanza del divieto, quale limite di ordine pubblico, la natura penale della sanzione posta dalla disposizione di legge a presidio del valore fondamentale della dignita' della persona umana. Nel quadro delle metodiche di procreazione medicalmente assistita, la maternita' surrogata riveste una posizione del tutto peculiare rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale, omologa o eterologa, postulando la collaborazione di una donna estranea alla coppia, che presta il proprio corpo per condurre a termine una gravidanza e partorire un bambino non per se' ma per un'altra persona. La sanzione penale di cui alla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, esprime l'elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento attribuisce alla surrogazione di maternita'. L'operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e cosi' smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignita' della donna. La gestazione per altri lede la dignita' della donna e la sua liberta' anche perche' durante la gravidanza essa e' sottoposta ad una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall'alcol e subito dopo il parto e' oggetto di limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell'allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino. La L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, esprime l'esigenza di porre un confine al desiderio di genitorialita' ad ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un'altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile. In termini analoghi si e' espressa la Corte costituzionale, sottolineando che la pratica della maternita' surrogata "offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane" (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenze n. 33 del 2021 e n. 79 del 2022). La Corte costituzionale ha inoltre rilevato che "gli accordi di maternita' surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilita' di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell'esclusivo interesse di terzi, ai quali il bambino dovra' essere consegnato subito dopo la nascita" (sentenza n. 33 del 2021). La condanna di "qualsiasi forma di maternita' surrogata a fini commerciali" e' stata espressa anche dal Parlamento Europeo nella propria risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell'Unione Europea nel 2015. Alla medesima conclusione e' pervenuto, di recente, il Tribunal Supremo spagnolo, sottolineando, con la sentenza n. 277 del 2022, che il contratto di maternita' surrogata comporta uno sfruttamento della donna e non puo' accettarsi per principio: il desiderio di una persona di avere un figlio, per quanto nobile, non puo' realizzarsi al costo dei diritti di altre persone. 17. - Secondo l'ordinanza di rimessione la maternita' surrogata non sarebbe un fenomeno unitario da disconoscere in ogni situazione. Nella valutazione complessiva dovrebbe tenersi conto delle peculiarita' delle singole situazioni, distinguendo in concreto tra surrogazione totale o parziale, tra gestazione gratuita o a pagamento, e considerare che in Paesi come il Canada la surrogazione e' disciplinata in modo da permettere l'attuazione della libera autodeterminazione della donna, consentendole di compiere un gesto di altruismo nei confronti di chi desidera realizzare una delle funzioni piu' importanti della famiglia. Nell'ordinanza di rimessione si mette in dubbio che sia lesiva della dignita' della donna una pratica considerata lecita nell'ordinamento di origine quando sia frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile fino alla nascita del bambino e soprattutto indipendente da contropartite economiche. In questa prospettiva, la trascrizione di atti di nascita o la delibazione di sentenze provenienti da ordinamenti che consentono la surrogazione di maternita' - si osserva nell'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione - sarebbe possibile, e non si porrebbe in contrasto con limiti di ordine pubblico, al ricorrere di talune circostanze, quali lo spirito di solidarieta' per altri, la presenza del diritto della gestante al ripensamento e la sussistenza del legame genetico del nato con almeno uno dei partner della coppia committente. In particolare, secondo l'interpretazione suggerita dall'ordinanza di rimessione, l'aspirante madre surrogata andrebbe tutelata nella misura in cui possa essere ritenuta soggetto vulnerabile, tipicamente versante in condizioni di bisogno, e quindi indotta a stipulare l'accordo di gestazione per altri dall'offerta o dalla dazione di un corrispettivo in denaro o comunque economicamente valutabile. Diversa considerazione - si sostiene - dovrebbe essere riservata alle ipotesi in cui la gestante su commissione si sottoponga alle tecniche senza chiedere ne' ottenere nulla in cambio dai genitori di intenzione. 18. - Il Collegio delle Sezioni Unite ritiene che non possa essere seguita la proposta interpretativa della Sezione rimettente di escludere il contrasto con l'ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, la' dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell'ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche. Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternita' surrogata, ha inteso tutelare la dignita' della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui versa la madre gestante (eventuale stato di bisogno), la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri, ne offende la dignita', anche in assenza di una condizione di bisogno della stessa e a prescindere dal concreto accertamento dell'autonoma e incondizionata formazione del suo processo decisionale. Nella maternita' surrogata il bene tutelato e' la dignita' di ogni essere umano, con evidente preclusione di qualsiasi possibilita' di rinuncia da parte della persona coinvolta. Nel nostro sistema costituzionale la dignita' ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilita', alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona. La dignita' ferita dalla pratica di surrogazione chiama in gioco la sua dimensione oggettiva. Il Collegio e' consapevole che il panorama internazionale offre indicazioni non omogenee sui limiti di liceita' della pratica della surrogazione di maternita' e che l'opzione per il divieto interno risulta maggioritaria ma non unanime, anche rispetto a ordinamenti saldamente inseriti nella tradizione liberaldemocratica occidentale, come, appunto, quello canadese, da cui origina la vicenda in esame. Le Sezioni Unite non ignorano che la lettura suggerita dall'ordinanza di rimessione trova sostegno in una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del nostro Paese, che prende le distanze dall'idea dei valori della persona che si impongono alla persona medesima, anche oltre quanto da questa voluto in maniera assolutamente libera, consapevole, integra e non condizionata. In questa prospettiva, il limite dell'ordine pubblico internazionale non sarebbe destinato ad operare quando la lex loci salvaguardi il diritto alla liberta' e all'autodeterminazione della donna, alla quale soltanto sarebbe rimesso, in ultima istanza, il potere di individuare i tempi e i modi di realizzazione della sua personalita', sicche' anche la scelta di accogliere l'embrione per aiutare altri a realizzare il loro progetto di genitoria-lita' potrebbe rappresentare per la gestante un modo per realizzare la propria personalita'. Il Collegio ha presente che l'approdo interpretativo suggerito dall'ordinanza di rimessione e' gia' stato raggiunto nella giurisprudenza di legittimita' di Paesi vicini al nostro. La giurisprudenza del Bundesge-richtshof (sentenze 10 dicembre 2014 e 5 settembre 2018), ad esempio, in tema di stato dei nati all'estero da gestazione per altri, assegna rilievo dirimente alla circostanza che il vincolo di filiazione di cui si chiede il riconoscimento risulti fondato su un provvedimento giurisdizionale, e dunque su un atto idoneo, per sua natura, a fornire un'adeguata attestazione della conformita' della vicenda procreativa alle regole e alle procedure del diritto straniero. Una lesione della dignita' della gestante e' infatti ravvisata solo qualora emergano fattori che lascino dubitare della sua libera partecipazione alla surrogazione, o la' dove risultino oscure circostanze essenziali come i dati personali della donna, le condizioni del suo impegno o l'esistenza stessa di un accordo, o, ancora, quando nel procedimento giudiziale straniero non siano osservate le fondamentali garanzie procedurali, senza che rilevi, invece, l'avvenuto pagamento di un corrispettivo, non integrando l'attribuzione economica un elemento di costrizione di volonta' della gestante. Il Collegio osserva, al riguardo, che il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternita', sul presupposto che solo un divieto cosi' ampio e' in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilita'. Di fronte a una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non e' consentito all'interprete ritagliare dalla fattispecie normativa, per escluderle dal raggio di operativita' dell'ordine pubblico internazionale, forme di surrogazione che, sebbene in Italia vietate, non sarebbero in grado di vulnerare, per le modalita' della condotta o per gli scopi perseguiti, il nucleo essenziale del bene giuridico protetto. Invero, punendo la surrogazione di maternita' in via assoluta, cioe' a prescindere dalle modalita' della condotta o dagli scopi perseguiti, da una parte si tutela in via immediata la dignita' della gestante su commissione, dall'altra si tende a prevenire, secondo la logica della china scivolosa, eventuali derive estreme di manifestazione del fenomeno, espresse da deprecabili forme di sfruttamento di donne in condizioni di bisogno economico, vulnerabili e presuntivamente prive di apprezzabili margini di autonomia decisionale. Non e' pertanto consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere la lesivita' della dignita' della persona umana e, con essa, il contrasto con l'ordine pubblico internazionale, la' dove la pratica della surrogazione della maternita' sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino. D'altra parte, la soluzione interpretativa ipotizzata dall'ordinanza di rimessione presenta un'altra criticita', puntualmente evidenziata dal Pubblico Ministero nelle conclusioni scritte. La valutazione caso per caso finirebbe per essere attribuita, in prima battuta, non al giudice, bensi' all'ufficiale di stato civile, il quale sarebbe cosi' chiamato ad "operare la scelta relativa al riconoscimento della genitorialita' intenzionale sulla base dei criteri generali ‘normati'" dalla pronuncia di queste Sezioni Unite. Ma vi sarebbe la "pratica impossibilita'", con i poteri conferiti all'ufficiale di stato civile, "di procedere alla verifica se vi sia stato un corrispettivo economico a favore della donna che in un lontano Stato estero ha gestito per altri la maternita', e valutare la sua concreta condizione di soggezione ed il reale grado di liberta' e consapevolezza della scelta effettuata, nonche' le modalita' di partecipazione alla scelta da parte del genitore intenzionale". 19. - Concorre a formare l'ordine pubblico internazionale anche il best interest of the child. E' un principio, questo, riconducibile agli articoli 2, 30 e 31 Cost. e proclamato da molteplici fonti internazionali ed Europee, a cominciare dall'articolo 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, ai cui sensi "In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorita' amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente", nonche' dall'articolo 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L'interesse del minore non puo' certo rappresentare un diritto tiranno rispetto alle altre situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute o protette, che costituiscono nel loro insieme espressione della dignita' della persona. Nondimeno, esso ha un ruolo centrale e preminente. Non legittima comportamenti disapprovati dall'ordinamento, ma esige ed impone che sia assicurata tutela all'interesse al riconoscimento giuridico del rapporto con il genitore d'intenzione. Corte costituzionale e Corte Europea dei diritti dell'uomo convergono nel tracciare questa linea di fondo del sistema. E' "imprescindibile" - afferma la Corte costituzionale - la necessita' di assicurare tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con chi ne abbia voluto la nascita in un Paese estero in conformita' della lex loci e lo abbia poi accudito esercitando di fatto la responsabilita' genitoriale (sentenza n. 33 del 2021, cit.). A sua volta, la Corte Europea dei diritti dell'uomo declama che, dal punto di vista della Convenzione, occorre fare "abstraction du comportement eventuellement critiquable des parents de maniere a' permettre la recherche de l'interet superieur de l'enfant, critere suprême dans de telles situations" (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera). L'inserimento, nell'ordine pubblico internazionale, dell'interesse del minore apre uno scenario nuovo. L'ordine pubblico internazionale, tradizionalmente concepito con funzione meramente preclusiva od oppositiva, viene infatti ad assumere una funzione positiva, consistente nel favorire l'ingresso di nuove relazioni genitoriali. Ne deriva un temperamento, una mitigazione (non gia', beninteso, un superamento) della aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino. 20. - Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell'originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d'intenzione. L'ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternita' surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse e' assicurata attraverso l'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita. 21. - Il provvedimento giudiziario straniero non e' trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni. 21.1. - In primo luogo, perche' nella non trascrivibilita' si esprime la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla pratica della maternita' surrogata, che offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un'inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale. Il riconoscimento ab initio, mediante trascrizione o delibazione del provvedimento straniero di accertamento della genitorialita', dello status filiationis del nato da surrogazione di maternita' anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realta' per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante. L'automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternita' surrogata e degli atti di autorita' straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non e' funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi. L'interesse superiore del minore e' uno dei valori in cui si sostanzia l'ordine pubblico internazionale. Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l'indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata. Il fatto che l'interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all'estero. 21.2. - In secondo luogo, perche' va escluso che il desiderio di genitorialita', attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialita' comprensivo non solo dell'an e del quando, ma anche del quomodo (Corte Cost., sentenza n. 79 del 2022). Non v'e' nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volonta' degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico. E' esatto che l'accertamento della filiazione prescinde, oggi, dalla rigida dicotomia, che in passato costituiva il fondamento del sistema, tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sulla affettivita' e sulla necessita' per il minore di crescere in un ambiente familiare idoneo all'accoglienza. L'ordinamento - e' vero - gia' conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base della "scelta", e quindi dell'assunzione di responsabilita', di dar vita a un progetto genitoriale comune. La L. n. 40 del 2004 ha dato ingresso alla possibilita' di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione. La scelta di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita eterologa non consente ripensamenti rispetto alla creazione del rapporto di filiazione (articoli 8 e 9 della legge citata). Il consenso e' integralmente sostitutivo della mancanza di discendenza genetica. La disciplina del fenomeno procreativo ormai si compone di modelli fondati sul legame biologico realizzato attraverso il rapporto sessuale e modelli affidati all'intervento in via assistita di tecniche mediche, anche con il contributo genetico di un soggetto terzo rispetto alla coppia, la quale si assume la responsabilita' dell'evento procreativo. La genitorialita' del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita e' legata anche al consenso prestato e alla responsabilita' conseguentemente assunta. Con la L. n. 40 del 2004, articoli 8 e 9 il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da procreazione medicalmente assistita anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014). Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all'interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, abbiano consensualmente fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004, articolo 5), divengono, per cio' stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico. Dalla disciplina della L. 40 del 2004, articoli 8 e 9 tuttavia, non possono trarsi argomenti per sostenere l'idoneita' del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternita'. Lo spazio entro il quale il consenso risulta idoneo ad attribuire lo stato di figlio in difetto di legame genetico e' circoscritto ad una specifica fattispecie - la fecondazione eterologa - ben diversa e ben distinta dalla surrogazione di maternita'. In caso di maternita' surrogata, la genitorialita' giuridica non puo' fondarsi sulla volonta' della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, cosi' come avviene per la fecondazione assistita. 21.3. - In terzo luogo, perche' il riconoscimento della genitorialita' non puo' essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L'instaurazione della genitorialita' e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l'automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettivita' che, gia' nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale. Una diversa soluzione porterebbe a fondare l'acquisto della genitorialita' sulla sola scelta degli adulti, anziche' su una relazione affettiva gia' di fatto instaurata e consolidata. La Corte costituzionale ha indicato la strada, che non e' quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un piu' o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialita' degli adulti che ricorrono all'estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento. 22. - L'esclusione della automatica trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero non cancella, ne' affievolisce l'interesse superiore del minore. Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell'accoglienza o dell'impegno in un condiviso disegno di genitorialita' sociale. Appartiene all'istituto dell'adozione particolare la valutazione in concreto dell'interesse alla identita' filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. L'adozione in casi particolari non da' rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitoriali-ta'; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilita' della cura e dell'educazione, ha altresi' concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalita' che e' la famiglia. L'adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneita' dell'adottante. Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all'interesse del minore. Il riconoscimento della genitorialita' e' quindi ancorato a una verifica in concreto dell'attualita' del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino. La filiazione riguarda un profilo basilare dell'identita' stessa del minore. Proprio in ragione di cio' e' essenziale la ricerca, anche nel caso della maternita' surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore. Esattamente si e' sostenuto che il superiore interesse del minore - non astrattamente considerato bensi' concretamente valutato anche nell'assorbente e decisiva ottica del rapporto e del connesso principio di responsabilita', e come tale, quindi, anche realisticamente interpretato in funzione dell'eventuale necessita' di preservare, pure in prospettiva, comprovate effettive relazioni familiari instauratesi tra lo stesso minore e il genitore d'intenzione - non puo' non rappresentare l'irrinunciabile parametro di commisurazione da cui muovere per la costruzione anche dello stato giuridico del figlio nato da maternita' surrogata. L'interesse superiore del minore puo' risultare anche fondativo di un vero e proprio rapporto di filiazione, ma deve basarsi su un corrispondente legame affettivo di tipo familiare dotato dei caratteri della effettivita' e della stabilita'. 23. - Va da se' che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell'interesse del minore non puo' fondarsi sull'orientamento sessuale del richiedente l'adozione e del suo partner. L'orientamento sessuale della coppia non incide sull'idoneita' dell'individuo all'assunzione della responsabilita' genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte Cost., sentenza n. 230 del 2020). La giurisprudenza ha in piu' occasioni chiaramente respinto la tesi che l'omosessualita' sia una condizione in se' ostativa all'assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali. Lo ha fatto, in particolare, negando che l'orientamento sessuale abbia una qualche incidenza sulle decisioni in merito all'affidamento dei figli (Cass., Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601) o sulla valutazione dell'idoneita' affettiva e della capacita' educativa di chi abbia presentato domanda di adozione del figlio del proprio o della propria partner (Cass., Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962, cit.), nonche' nel confutare che contrasti con l'ordine pubblico internazionale un provvedimento giurisdizionale straniero che dichiari l'adozione piena di un minore da parte di una coppia formata da due uomini (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.). Lo ha ribadito ammettendo il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l'ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto (Cass., Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599). Piu' nello specifico, estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilita', di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), che viene riferita all'impedimento giuridico, oltre che a quello di fatto, la giurisprudenza ordinaria ha valorizzato alcune specificita' dell'adozione in casi particolari, ampliandone il raggio applicativo. Facendo leva sulle due finalita' sottese all'istituto - quella volta a tutelare l'interesse del minore a preservare rapporti gia' instaurati e quella diretta a risolvere situazioni di giuridica impossibilita' di accedere all'adozione "ordinaria" -, la giurisprudenza ha utilizzato l'adozione in casi particolari anche nel caso del minore frutto di progetti gestazionali dell'unione civile realizzati all'estero. E' questo il caso da cui ha preso, appunto, le mosse la sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale: quello di una coppia di uomini che ha contratto matrimonio all'estero, matrimonio trascritto in Italia con effetti di unione civile, ed ha avuto, grazie a una gravidanza per altri effettuata sempre all'estero, una bambina, della quale il genitore intenzionale ha chiesto al giudice italiano l'adozione in casi particolari. Anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo risulta che l'esistenza di una vita familiare e' una questione di fatto dipendente dalla realta' pratica di stretti legami personali e che la possibilita' per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare (Corte EDU, 12 luglio 2001, K. e T. c. Finlandia). Il principio e' ribadito dalla recente, e gia' citata, sentenza della Corte di Strasburgo D.B. e altri c. Svizzera: "La Cour rappelle d'emblee que l'interet superieur de l'enfant comprend inter alia l'identification en droit des personnes qui ont la responsabilite' de l'elever, de satisfaire a' ses besoins et d'assurer son bien-etre, ainsi que la possibilite' de vivre et d'evoluer dans un milieu stable (...). Pour cette raison, le droit au respect de la vie prive'e de l'enfant requiert que le droit interne offre une possibilite' de reconnaissance d'un lien de filiation entre l'enfant et le parent d'intention (...). Des lors, la marge d'appreciation des Etats est limitee s'agissant du principe meme de l'etablissement ou de la reconnaissance de la filiation (...). La Cour estime egalement que l'interet de l'enfant ne peut pas dependre de la seule orientation sexuelle des parents". Con tale pronuncia la Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto alla vita privata, tutelato dall'articolo 8 CEDU, da parte dello Stato svizzero nei confronti di un minore - nato attraverso tecniche di surrogazione di maternita', proibite in Svizzera, gia' legalmente riconosciuto figlio dei ricorrenti da provvedimento giudiziale della California - per averlo lasciato, per sette anni ed otto mesi, a causa dell'assenza di previsioni specifiche nella legislazione svizzera (che, solo nel 2018, aveva consentito alle persone dello stesso sesso legate da un'unione registrata, di procedere all'adozione), privo della possibilita' di ottenere il riconoscimento del rapporto con il proprio genitore d'intenzione, dovendosi ritenere tale significativo periodo di tempo, per aver posto il minore in una condizione di incertezza giuridica relativa alla sua identita' sociale, incompatibile con i principi gia' affermati dalla Corte e con il principio del best interest of the child. La Corte ha, invece, escluso la violazione del diritto alla vita familiare dei due genitori, sottolineando come l'accordo di maternita' surrogata fosse contrario all'ordine pubblico svizzero e che le difficolta' pratiche incontrate dalla coppia a causa delle previsioni della legislazione svizzera dovessero ritenersi, comunque, conformi alle condizioni di cui all'articolo 8 CEDU. Anche secondo la Corte di giustizia la relazione intrattenuta da una coppia omosessuale puo' rientrare nel concetto di "vita privata" cosi' come in quello di "vita familiare" allo stesso modo di una coppia di sesso opposto nella stessa situazione (v. sentenza del 5 giugno 2018, Coman e a., C-673/2016). Partendo dal principio di non discriminazione - il quale esige che i diritti enunciati nella Convenzione sui diritti del fanciullo, tra cui il diritto di essere registrato dalla nascita, di avere un nome e di acquisire una cittadinanza, siano garantiti al minore senza che quest'ultimo subisca discriminazioni al riguardo, "comprese quelle basate sull'orientamento sessuale dei suoi genitori" - la Corte di Lussemburgo (Grande Sezione, sentenza 14 dicembre 2021, V.-.-. c. Stolichna obshtina, rayon "Pancharevo", causa C-490/2020) ha precisato che "sarebbe contrario ai diritti fondamentali che gli articoli 7 e 24 della Carta garantiscono a tale minore privarlo del rapporto con uno dei suoi genitori nell'ambito dell'esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri o rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso". Si assiste, cioe', a quello che la dottrina italiana, attenta a cogliere i grandi mutamenti del diritto di famiglia, ha descritto come il passaggio da una famiglia "isola" ad un "arcipelago" di famiglie. Alla famiglia, rispettosa dell'immagine offerta dalla Costituzione, "fondata" sul matrimonio, si sono aggiunte altre famiglie. E la filiazione e' divenuta il collante di diverse comunioni di affetti. All'unita' dello stato di figlio corrisponde la pluralita' dei modelli familiari: lo stato di figlio e' unico, mentre sono ormai numerosi i modelli normativi o sociali dei rapporti di coppia. 24. - Attraverso l'adozione in casi particolari, l'ordinamento italiano assicura tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d'intenzione. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinche' l'accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosita' tipica della responsabilita' genitoriale. 25. - La soluzione dell'adozione in casi particolari appare in linea con la giurisprudenza della Corte EDU. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, in un ordinamento che disapprova la gestazione per altri, non e' affatto necessario che il rapporto del nato da madre surrogata con il committente privo di legame genetico con esso sia formalizzato ab initio mediante trascrizione del provvedimento estero che ne accerti il carattere genitoriale. Il rispetto della vita privata e familiare del nato richiede, tuttavia, che la procedura alternativa a tal fine prevista dal singolo ordinamento - una procedura che, si ammette, puo' anche essere di tipo adottivo - consenta di conseguire quel risultato in una maniera agevole sempreche' risulti la corrispondenza del rapporto di cura in atto con l'interesse del minore. Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che - anche a fronte della grande varieta' di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternita' surrogata - ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, pero', la necessita' di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura. La Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia) afferma, in particolare, che gli Stati parte possono non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al genitore d'intenzione; e cio' proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben puo' considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignita' delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilita' del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il genitore d'intenzione, al piu' tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati; lasciando poi alla discrezionalita' di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all'adozione del minore. Rispetto, peraltro, a quest'ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria "filiazione" tra adottante e adottato, e a condizione che le modalita' previste dal diritto interno garantiscano l'effettivita' e la celerita' della sua messa in opera, conformemente all'interesse superiore del bambino. 26. - L'adozione in casi particolari rappresenta l'istituto che consente al bambino, nato a seguito di maternita' surrogata nell'ambito di un progetto procreativo di una coppia omoaffettiva, di mantenere, con il riconoscimento dello status di figlio, la relazione affettiva e di cura gia' di fatto instaurata e consolidata con il partner del genitore biologico. L'adozione in casi particolari rappresenta anche il modello rivolto a consolidare, con una veste giuridica, il rapporto con quello, dei due componenti della coppia, che non e' genitore biologico e quindi non risulta genitore secondo l'ordinamento italiano. Un modello di accoglienza non originato dalla genetica, ma dalla responsabilita' che consegue all'aver condiviso e attuato un progetto genitoriale comune. L'ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternita' surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato. Il titolo che giustifica la costituzione dello stato e' fondato, non sull'intenzione di essere genitore, ma sulla condivisione del progetto genitoriale seguita dalla cura e dal rapporto affettivo costanti; il provvedimento del giudice presuppone, inoltre, un giudizio sul miglior interesse del bambino e una verifica in concreto dell'idoneita' del genitore istante. 27. - La questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite, afferente al quarto motivo del ricorso principale del Sindaco e dell'Amministrazione dell'interno, puo' dunque essere risolta mediante l'enunciazione del seguente principio di diritto: "Poiche' la pratica della maternita' surrogata, quali che siano le modalita' della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non e' automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l'originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d'intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformita' della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternita' surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L'ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternita' surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse e' garantita attraverso l'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). Allo stato dell'evoluzione dell'ordinamento, l'adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita". 27. - Di conseguenza, il quarto motivo del ricorso proposto dal Sindaco e dal Ministero dell'interno va accolto. Ha, infatti, errato la Corte d'appello a ritenere che il divieto, posto dal legislatore italiano, di maternita' surrogata sia frutto di una scelta discrezionale e ad escludere che esso esprima principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Ha errato, altresi', l'ordinanza impugnata a giungere ad un riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale canadese dando rilievo alla mera volonta' ed intenzione di diventare genitore del partner del padre biologico, tra l'altro limitandosi ad una considerazione non individualizzata ne' contestualizzata dell'interesse del minore, misurato sull'astratta esigenza di assicurare al bambino la conservazione dello status acquisito all'estero in conformita' della lex loci. Cosi' decidendo, il giudice a quo e' pervenuto ad un, non consentito perche' contrario all'ordine pubblico internazionale, riconoscimento automatico del provvedimento giurisdizionale straniero nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia omoaffettiva che ha partecipato alla surrogazione di maternita' senza fornire i propri gameti. Il giudice del merito avrebbe dovuto considerare che il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra il minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternita' surrogata ed il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternita', qualificabile come principio di ordine pubblico, e che l'ordinamento italiano consente di conferire rilievo, attraverso l'adozione in casi particolari, alla socialita' del rapporto affettivo instaurato e vissuto anche con colui che ha condiviso il disegno genitoriale in un Paese estero in conformita' della lex loci. 28. - L'esame delle altre censure articolate con i primi tre motivi del ricorso principale resta, a questo punto, assorbito. 29. - L'unico motivo di ricorso incidentale, con cui si contesta che la Corte d'appello abbia considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi, e' privo di fondamento. Va ribadito che il Sindaco e' l'organo il cui rifiuto di trascrizione da' origine alla controversia e, come tale, e' direttamente interessato alle conseguenze e all'attuazione della pronuncia di delibazione. L'ordine di trascrizione (o di cancellazione della trascrizione gia' eseguita) riveste, infatti, un ruolo centrale e non accessorio nella decisione L. n. 218 del 1995, ex articolo 67. Dall'altro lato, nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di stato civile il Sindaco e' ufficiale del Governo, organo periferico dell'Amministrazione statale dell'interno, alla cui competenza il Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 ha trasferito le attribuzioni in materia di tenuta di registri dello stato civile. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle disposizioni sul servizio dello stato civile risponda ad un'esigenza obiettiva dell'ordinamento, nel cui perseguimento l'Amministrazione non agisce in qualita' di parte, non consente quindi di escludere la configurabilita' di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare la partecipazione del Ministero al giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019). 30. - Riassuntivamente, il quarto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco e' accolto, mentre gli altri motivi del medesimo ricorso restano assorbiti; e' rigettato il ricorso incidentale delle parti private. 31. - L'ordinanza impugnata e' cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 c.p.c., con il rigetto della domanda di riconoscimento del provvedimento straniero. La complessita' e l'importanza delle questioni trattate giustificano l'integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio. 32. - Va disposto che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti. P.Q.M. accoglie il quarto motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti i primi tre motivi del medesimo ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; cassa l'ordinanza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di riconoscimento del provvedimento straniero. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti

  • IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI L'AQUILA composto come segue: Dr. Cecilia ANGRISANO Presidente Dr. Flavia MARTINELLI Giudice Dr. Carmen FEDELI Giudice on. Dr. Marco PEZZOPANE Giudice on. Ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel procedimento n. 76 /2022 VG introdotto con ricorso depositato ai sensi dell'art. 44 lett. B) Legge n. 184/83 in data 3 maggio 2022 da (...) nata a (...) Sulmona il (...) difesa dall'avv.to Ba.Ra.. La ricorrente si è rivolta a questo Tribunale premettendo di essere la compagna di (...) a Sulmona il (...) madre della minore (...) nata a Sulmona (...) di convivere con la donna dall'anno 2014. La Sig.ra (...) rappresentava che la decisione di ricorrere alla PMA (procreazione medicalmente assistita) all'estero, affinché la partner potesse diventare madre biologica, nacque dall'esigenza di dare corso al progetto di formare una famiglia e di avere dei figli. Il giorno 2 febbraio 2021, dopo meno di due anni dalla nascita della minore, la ricorrente e la Sig.ra (...) costituivano unione civile ai sensi della Legge n. 76/16, regolarmente trascritta nei registri dello Stato civile (vedi certificazione presente in atti). Il G.D., Dr.ssa (...), ha quindi richiesto un'approfondita indagine psicosociale alla equipe adozioni del Comune di Sulmona e ha proceduto alla convocazione delle parti. La madre di (...) sentita all'udienza del 17 ottobre 2022, ha espresso il proprio consenso alla scelta adottiva della compagna e, insieme alla ricorrente, ha dichiarato di crescere e di occuparsi della minore unitamente a quest'ultima e di essere serenamente integrate come famiglia nel contesto sociale, non avendo mai subito alcuna forma di discriminazione, insistendo quindi nel dare forma e riconoscimento giuridico al legame che unisce la piccola (...) alla Sig.ra (...). Con relazione in data 3 ottobre u.s., l'Equipe adozioni ha riferito in ordine alla positività del contesto familiare e socio-ambientale della minore, alla fitta di rete di sostegno costituita dalle risorse parentali, che non solo hanno accettato la scelta della coppia, ma hanno altresì supportato il nucleo familiare sia nella ricerca della gravidanza che attualmente nell'accudimento della nipote, a cui sono fortemente legati; il rapporto tra le due donne è apparso forte e ben equilibrato, oltre che consolidato nel tempo; l'intero nucleo familiare è risultato ben inserito nel contesto socio-ambientale e la minore frequenta regolarmente la scuola dell'infanzia; le donne, con naturalezza e tranquillità, hanno spiegato alla bambina la composizione della loro famiglia allargata e quest'ultima è apparsa molto socievole, serena e adeguatamente accudita; l'abitazione è apparsa più che adeguata e durante la visita domiciliare è stato osservato come gli spazi abitativi sono stati organizzati in modo funzionale alle esigenze della bambina. L'equipe ha concluso ritenendo che la ricorrente "possiede le capacità economiche, morali ed educative che consentono un sano sviluppo psicofisico della bambina". Sotto il profilo prettamente giuridico occorre riqualificare il ricorso introduttivo nell'ipotesi prevista dalla lettera D dell'art. 44 L. n. 184 del 1983, atteso che l'entrata in vigore della L. 20 maggio 2016, n. 76, che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto, non ha modificato l'art. 44 lett. B L. n. 184 del 83, non estendendo all'unione civile quanto già disposto per le coppie unite in matrimonio, ovvero non prevedendo la possibilità (c.d. stepchild adoption) che il partner possa adottare il figlio dell'altro, diversamente da quanto ammesso per il coniuge. E' stato già condivisibilmente osservato (vedi, tra le altre, Tribunale per i Minorenni di Bologna n. 333/2016 8/6 - 6/7 - 2017) come il comma 20 dell'arti L. n. 76 del 2016 ha tuttavia disposto in termini generali, e ad eccezione della tematica delle adozioni, l'applicabilità alle unioni civili di tutte le disposizioni "che si riferiscono al matrimonio" o che contengono le parole "coniuge" o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi o nei contratti collettivi", specificando che "resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti". Il legislatore della L. n. 76 del 2016 dimostra, con tale inciso, esprimendosi favorevolmente al mantenimento di quanto già "consentito", e quindi già ammesso in via interpretativa, dalle norme vigenti, di conoscere e di tenere in massimo conto il dibattito e la giurisprudenza formatasi in tema di adozione da parte di coppie omosessuali (si veda per tutte Tribunale per i Minorenni di Roma 229/2014, confermata dalla Corte d'appello nel 2015 e, successivamente - dopo l'entrata in vigore della legge - dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 12962/2016). Come è noto, non essendo consentito dalla legge italiana alle coppie non unite in matrimonio di accedere alla c.d. adozione legittimante (che presuppone il positivo accertamento dello stato di abbandono del minore e determina la totale rescissione della relazione del minore adottato con i componenti della famiglia d'origine) né, come già detto, a chi si è "unito civilmente" di far valere ai sensi dell'art. 44 lett. B tale condizione di "unione" per adottare il figlio biologico del compagno, le coppie omosessuali hanno fatto ricorso al disposto della lettera D dell'art. 44 L. n. 184 del 1983 per chiedere l'adozione del figlio del compagno (Tribunale per i Minorenni di Milano Sent., 10/10/2018). Si ricorda che l'adozione speciale prevista dal citato art. 44 (come modificato dalla L. n. 149 del 2001) dispone che i minori possono essere adottati "anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell'art. 7 (in assenza dello stato di abbandono) in quattro casi espressamente indicati: lett. A) adozione dell'orfano da parte dei parenti o da parte di chi avesse già con lui un rapporto stabile e duraturo, maturato anche nel corso di un affidamento familiare, lett. B) adozione del figlio, anche adottivo, del coniuge; lett. C) minore affetto da handicap ai sensi della L. del 1992, che sia orfano di padre e di madre e lett. D) minore per cui risulti la "constatata impossibilità di affidamento preadottivo". Tale normativa è stata interpretata, ed utilizzata, come uno strumento di chiusura, destinato a salvaguardare il preminente interesse del minore ad essere accolto in una famiglia ove ricorrano determinate ipotesi specifiche, senza che sia però necessario provvedere all'accertamento della sussistenza dello "stato di abbandono", previo consenso del genitore ove in vita, e previo positivo accertamento ai sensi del successivo art. 57 L. n. 184 del 1983, che tale adozione risponda in concreto al preminente interesse del minore (vedi sul punto anche Cass. civ. Sez. I Ord., 26/06/2019, n. 17100). Osserva il Collegio che senza alcun dubbio ricorrono, nel caso in esame, i presupposti richiesti dall'art. 44 lett. D perché sia pronunciata sentenza di adozione di (...) da parte della Sir.ra (...) quale la bambina riconosce a tutti gli effetti una figura genitoriale di riferimento. Sussiste, infatti, il legame affettivo-genitoriale tra la ricorrente e la minore e sussiste, altresì, la necessità di preservare, anche giuridicamente, tale relazione nell'ambito di un nucleo familiare costituito da una coppia di persone dello stesso sesso. Il periodo successivo alla nascita della bambina è valso, infatti, a consolidare il legame affettivo tra la ricorrente e (...) in una cornice a tutti gli effetti bi-genitoriale e, quindi, la decisione di richiedere l'adozione appare come il completamento essenziale del progetto di genitorialità delle due donne; questa volontà è stata ribadita in udienza dalla ricorrente e dalla compagna, madre biologica della minore. Il Collegio ritiene che il presupposto di cui all'art. 44, co. 1, lett. d), cioè l'impossibilità dell'affidamento preadottivo, di fatto o di diritto, sia realizzato nel caso di specie, in quanto l'adottanda non si trova in una situazione di abbandono e mai potrebbe essere collocata in affidamento preadottivo. Non può ostare all'adozione della bambina da parte della ricorrente la circostanza che la donna non sia, ai sensi dell'ordinamento italiano, coniugata con la madre (...). Come già sopra esplicitato, un rapporto di coniugio tra il genitore dell'adottando e l'adottante è previsto solo dall'art. 44, co.i, lett. b), e non dall'art. 44, co. 1, lett. d), che trova applicazione alla fattispecie de qua. Se il Legislatore avesse voluto estendere tale presupposto anche all'art. 44, co. 1, lett. d), lo avrebbe fatto espressamente. Invero, la diversa formulazione letterale delle due ipotesi di cui alla lett. b) e alla lett. d) pone fuor di dubbio l'interpretazione qui seguita. La norma in esame non può, dunque, non applicarsi, ad avviso del Collegio, anche a conviventi del medesimo sesso, alla luce dell'inequivoco dato letterale di cui all'art. 44, co. 1, lett. d). Tale norma non discrimina tra coppie conviventi eterosessuali o omosessuali. Una lettura in senso diverso sarebbe, peraltro, contraria alla ratio legis, al dato costituzionale nonché ai principi di cui alla Convenzione Europea sui Diritti Umani e le Libertà Fondamentali ("CEDU"), di cui l'Italia è parte. A favore di tale conclusione si pone, infine, l'interpretazione evolutiva proposta dalla giurisprudenza ormai granitica formatasi sul punto che fa leva sul "preminente interesse del minore" ad essere stabilmente inserito nel nucleo familiare cui già appartiene, vedendo giuridicamente riconosciuti rapporti di genitorialità sociale, che sul piano reale si manifestano in modi diversi ed aventi come tratto comune la significatività della relazione del minore con l'aspirante adottante per l'adeguatezza delle cure ricevute e l'intensità del legame affettivo (vedi Cass. civ., 22/06/2016, n. 12962; Cass. civ. Sez. I Ord., 26/06/2019, n. 17100). Osserva il Collegio che, alla luce delle motivazioni svolte, sarebbe illegittimo respingere la domanda sottoposta dalla ricorrente all'esame di questo Tribunale solo ed esclusivamente a motivo del suo orientamento sessuale, in aperto contrasto con la lettera e la ratio della norma, nonché con i principi costituzionali e i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU. Fermo restando che, come sottolineato dalla Corte di Strasburgo, la possibilità di introdurre o meno il matrimonio per le coppie omosessuali, così come la decisione di ammetterle alla domanda di adozione, costituisce una scelta dei legislatori nazionali dei singoli Paesi, che dovranno operare il bilanciamento tra contrapposti interessi, la possibilità di evitare il pregiudizio di terzi, nel caso di specie di un bambino, ove l'interpretazione della legge già in vigore in uno Stato lo consenta, s'impone. Nel caso di specie, non si può non tenere conto delle situazioni che sono da tempo esistenti e cristallizzate: (...) è nata e cresciuta con la ricorrente e la sua compagna, madre biologica, instaurando con loro un legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi "classificazione giuridica", nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio vincolo genitoriale. Negare alla bambina i diritti e i vantaggi che derivano da questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non corrispondente all'interesse del minore, che, come indicato dalla Corte Costituzionale stessa, dalla Corte Europea dei Diritto dell'Uomo e dalla Corte di Cassazione occorre sempre valutare in concreto. Non si tratta, infatti, di concedere un diritto ex novo, creando una situazione prima inesistente, ma di garantire la copertura giuridica di una situazione di fatto già esistente da anni, nell'esclusivo interesse di una bambina che è da sempre cresciuta e allevata da due donne, che riconosce come riferimenti affettivi primari, instaurando con la ricorrente un legame non diverso da quello genitoriale e vivendo come del tutto normale la costituzione della sua famiglia, composta da persone che manifestano la capacità di svolgere il ruolo genitoriale assicurando alla bambina la positività dell'ambiente familiare. Oltre a ciò occorre sottolineare che le due donne hanno utilizzato tutti gli strumenti giuridici a loro disposizione per ufficializzare la forza e la stabilità del loro progetto di vita, mediante la costituzione di un'unione civile regolarmente iscritta nei Registri statali, unico strumento previsto allo stato in Italia. In conclusione il Collegio ritiene che il ricorso proposto dalla ricorrente, previa riqualificazione dello stesso nella fattispecie di cui alla lettera D della L. n. 184 del 1983 debba essere accolto in quanto ne sussistono tutti i presupposti di diritto e di fatto ed atteso che risponde all'interesse della minore essere adottata dalla sig.ra (...) la quale costituisce per (...) un riferimento stabile e significativo. Per l'effetto, l'adottata aggiungerà il cognome dell'adottante al proprio cognome di origine. P.Q.M. su conforme parere del P.M.M. letto l'art. art. 44 lettera d) L. 184/83 e successive modifiche; DISPONE farsi luogo all'adozione di (...), ora (...) nata (...) da parte di (...) nata a Sulmona il (...) ORDINA la comunicazione per esteso al P.M.M. in sede, alla ricorrente, elettivamente domiciliata presso l'avv. Ba.Ra. con studio in Sulmona, Via (...), alla sig.ra (...) una volta divenuta esecutiva, all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Sulmona, per la trascrizione di rito. Così deciso in L'Aquila il 2 novembre 2022. Depositata in Cancelleria il 9 novembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO Sezione IV CIVILE Il giudice dr.ssa Valeria Di Donato ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N.R.G. 15353 dell'anno 2018 TRA (...) (C.F. (...)) e (...) (C.F. (...)), in proprio e nella loro qualità di esercenti la responsabilità genitoriale su (...) e (...), con l'avv. DE.PA. e l'avv. BU.VA. ATTORI E (...) (C.F. (...)), con l'avv. CA.VI. e l'avv. CA.PA. CONVENUTO E (...) S.P.A. (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, con l'avv. FO.MA. TERZA CHIAMATA OGGETTO: responsabilità medico - sanitaria RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Con atto di citazione ritualmente notificato (...) e (...), in proprio e in qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale su (...) e (...), hanno evocato in giudizio (...) per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa del mancato accertamento e dell'omessa informazione delle malformazioni da cui era affetto il nascituro (...), apprese solo al momento del parto benchè diagnosticabili già in fase di gravidanza e che, ove rilevate e tempestivamente comunicate avrebbero indotto la partoriente a interrompere la gravidanza. Hanno esposto, in particolare, che: - alla nascita (6.8.2010) il neonato presentava brevità delle ossa e degli arti e la dimensione del cranio maggiore rispetto alla norma e che, all'esito delle indagini molecolari eseguite sul DNA, il piccolo risultò affetto dalla patologia denominata acondroplasia; - già dagli esami ecografici effettuati alla 17esima + 6 gg. e alla 21esima settimana (cd. morfologica), emergeva che la misura biparietale fosse oltre il limite di range e quella del femore poco al di sotto di tale limite e che ciò avrebbe dovuto insospettire il dr. (...) inducendolo a effettuare un esame di II livello che avrebbe senza dubbio, già all'epoca, confermato la malformazione del feto; - i segni della malformazione risultavano ancor più marcati nell'ecografia della 30esima settimana, soprattutto se associata la profilo nasale "a sella" del feto (tipico dell'acondroplasia); - all'ecografia della 35esima settimana + 5 giorni e a quella della 36esima settimana + 3 giorni la circonferenza cranica era ben oltre i limiti standard e il femore presentava una misurazione ben al di sotto del limite. Hanno, dunque, dedotto che l'esecuzione di accertamenti di II livello avrebbe consentito di diagnosticare la malformazione del nascituro e avrebbe permesso a (...) di esercitare il diritto a una procreazione cosciente e responsabile e di scegliere se interrompere o proseguire la gravidanza nel rispetto della L. n. 194 del 1978. La mancata diagnosi prenatale e il difetto di informazioni circa la presenza di malformazioni fetali avevano leso sia il diritto alla salute della gestante e del futuro padre e degli altri figli, sia il diritto all'autodeterminazione causando uno totale sconvolgimento della vita familiare. Hanno dedotto che ove la madre fosse stata opportunamente informata delle malformazioni da cui era affetto il figlio avrebbe optato per l'interruzione di gravidanza. Hanno allegato che l'evento traumatico aveva cagionato a tutti i membri della famiglia un danno psichico, quantificato nella misura del 10% per la madre, del 5% per il padre e del 3% per ciascuna delle due sorelle, oltre a un danno esistenziale per il totale stravolgimento della vita familiare e personale. (...) si è costituito in giudizio contestando integralmente la domanda attorea deducendo che: - la malformazione da cui era affetto il nascituro non poteva essere tecnicamente accertata prima del settimo mese di gravidanza, per cui non vi erano i presupposti per praticare l'interruzione di gravidanza in base a quanto previsto dalla L. n. 194 del 1978; - le prestazioni professionali rese erano state eseguite nel pieno rispetto delle Linee Guida all'epoca vigenti; - la paziente era stata informata sulle finalità dell'esame ecografico e sui limiti intrinseci dello stesso nell'individuazione delle malformazioni fetali. Ha chiesto, in ogni caso, l'autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia di assicurazione spiegando domanda di manleva. La (...) S.p.a. si è costituita in giudizio contestando la domanda attorea stante l'assenza totale di responsabilità del proprio assicurato. Ha, altresì, contestato l'operatività della polizza invocata in quanto stipulata a copertura dei danni derivanti dalla lesione del diritto alla salute o all'integrità fisica e non anche del diritto all'autodeterminazione, posta a fondamento della domanda risarcitoria. Ha eccepito il difetto di legittimazione attiva, sotto il profilo contrattuale, degli attori in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sulle figlie. Ha chiesto, pertanto, in via preliminare, dichiarare la carenza di legittimazione attiva a titolo contrattuale di (...) e (...); nel merito, in via principale, respingere la domanda attorea e la domanda di manleva; in via subordinata, dichiarare l'inoperatività della polizza e respingere la domanda del dr. (...); in via ulteriormente subordinata, contenere l'onere della manleva entro i limiti del contratto e del giusto e provato; con compensazione integrale delle spese di lite tra le parti. In via generale va rilevato che i fatti storici dedotti in citazione, e in particolare l'evoluzione della gravidanza di (...) e gli esami effettuati nel corso della stessa, non sono oggetto di contestazione tra le parti e risultano, comunque, provati dalla documentazione versata in atti e dalla ricostruzione esposta dai CCTTU nell'elaborato peritale. Quanto all'inquadramento giuridico dell'invocata responsabilità del medico operante, pare opportuno evidenziare che, posto che il fatto dannoso allegato si è verificato nel 2010 e il presente giudizio è stato instaurato nel 2018, le novità normative (di natura sostanziale) introdotte dal D.L. n. 158 del 2012, convertito nella L. n. 189 del 2012 (cd. decreto Balduzzi) e, successivamente, dalla cd. legge Gelli - Bianco non sono applicabili alla fattispecie in esame (nei termini che seguono). Con la recentissima pronuncia n. 28811 dell'8.11.2019 la S.C. ha affermato il principio della irretroattività delle norme (di carattere sostanziale) dettate dal decreto Balduzzi (oggi abrogato) e dalla successiva L. n. 24 del 2017 a fatti verificatisi antecedentemente alla loro entrata in vigore, in assenza di una norma ad hoc che deroghi al principio generale posto dall'art. 11 delle preleggi. La responsabilità del professionista convenuto va, pertanto, pacificamente qualificata di natura contrattuale e va inquadrata nell'ambito della disciplina dettata dagli artt. 1218, 1228 e 1176 cod. civ., non essendo in contestazione la sussistenza di un rapporto contrattuale medico - paziente tra la gestante in proprio e il dr. (...). Quanto alla posizione di (...), padre dell'allora nascituro, e delle figlie minori, ritiene questo Tribunale che, in adesione al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, la domanda risarcitoria vada del pari inquadrata nell'ambito della responsabilità contrattuale. "Col ricovero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita, evitandogli - nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) - qualsiasi possibile danno", dei quali, altrimenti, risponderà, una volta che il nascituro venga ad esistenza, sul piano contrattuale, sebbene il medesimo sia rimasto estraneo al contratto (così in motivazione, quale "leading case", Cass. Sez. 3, sent. 22 novembre 1993, n. 11503, Rv. 484431-01; nello stesso senso si vedano Cass. Sez. 3, sent. 9 maggio 2000, n. 5881, Rv. 536304-01; Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2004, n. 14488, Rv. 575702-01). Precisa la S.C. che "il presupposto comune, per lo più, a tali pronunce è la constatazione che il contratto intercorso tra la gestante ed il sanitario (o la struttura), "si atteggia come "contratto con effetti protettivi a favore di terzo" (figura individuata dalla dottrina tedesca, Vertrage mit Schutzwirkung fur Dritte) nei confronti del neonato", quantunque le prestazioni nei suoi confronti "debbano essere assolte in tutto o in parte, anteriormente alla nascita", la cui posizione risulta protetta in ragione dell'esistenza di norme - contenute non solo nella L. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), ma anche nella L. 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nel relativo regolamento di esecuzione, ovvero il D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, oltre che nella L. 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità tra uomini e donne in materia di lavoro) - "dalle quali si evince l'intenzione del legislatore di tutelare l'individuo sin dal suo concepimento" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, n. 14488 del 2004, cit.), o meglio, di farne "oggetto di tutela "progressiva" da parte dell'ordinamento, in tutte le sue espressioni normative e interpretative" (cfr., sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 16754 del 2012, cit.). E', pertanto, tale coesistenza di interessi - rispetto ai quali, quello all'esecuzione della prestazione sanitaria secondo le "leges artis" presenta carattere strumentale - che giustifica la tutela del concepito secondo lo schema del terzo protetto dal contratto, così come, del resto, è "l'incidenza della nascita di un bambino in condizioni menomate sul piano dell'esistenza dell'intera famiglia, e non più solo della coppia" (ancora una volta, Cass. Sez. 3, sent. n. 16754 del 2012, cit.), a determinare l'ulteriore estensione di tale figura a tutti i componenti della famiglia nucleare. In particolare, il "tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l'ordinamento si incentra sul fatto della procreazione" - quali si desumono "dalla L. n. 194 del 1978, sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e 147,261 e 279 c.c.)", nonchè, ovviamente, dalla L. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) - "vale poi a spiegare perchè anche il padre rientri tra i soggetti protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 maggio 2002, n. 6735, Rv. 554297-01; nello stesso senso Cass. Sez. 3, sent. n. 14887 del 2004, cit.), mentre quanto agli eventuali germani del nato disabile, il fondamento dell'effetto protettivo è stato ravvisato, nuovamente sulla scorta della normativa - innanzitutto di livello costituzionale (art. 29 Cost.), ma pure sovranazionale (art. 8 della Convenzione Europea per salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) - a tutela della famiglia, "nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione" (Cass. Sez. 3, sent. n. 16754 del 2012, cit.)." (cfr. Cass. n. 14258/2020). Alla luce dei richiamati principi giurisprudenziali, recentemente confermati dalla S.C. con la sentenza n. 11320/2022, e tenuto conto che anche i fratelli e le sorelle del neonato "rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta", l'eccezione di difetto di legittimazione attiva dell'azione risarcitoria a titolo contrattuale sollevata dalla terza chiamata deve essere respinta. Ciò premesso, la domanda non può essere accolta. In applicazione dei principi generali sul riparto dell'onere probatorio in materia contrattuale, grava sul paziente danneggiato la prova della fonte negoziale e dell'attività professionale svolta, del fatto dannoso (insorgenza o aggravamento della patologia) e del nesso causale, nonché l'allegazione dell'inadempimento quale comportamento astrattamente e causalmente idoneo alla produzione del danno, mentre compete al debitore la dimostrazione dell'esatto adempimento o della insussistenza del nesso di causalità tra la condotta tenuta e l'evento di danno (cfr. Cass. Sez. Un. 13533/2001). Più precisamente, superata la tradizionale dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 1218 e 1176 cod. civ., è onere del paziente provare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto della prestazione sanitaria (e quindi il nesso causale con essa), restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la citata prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile con l'uso dell'ordinaria diligenza da lui esigibile in base alle conoscenze tecnico - scientifiche del momento. (cfr. Cass. n. 28989/2019; n. 21177/ 2015; n. 17413/2012; n. 12274/2011; n. 4210/04). Il nesso causale tra la prestazione professionale eseguita e il danno lamentato, in quanto fatto costitutivo della domanda risarcitoria, deve essere provato dalla parte attrice. Sul punto è illuminante la pronuncia della S.C. n. 18392 del 2017 (i cui principi sono stati ribaditi con la già citata pronuncia n. 28811/2019 e ancora con la pronuncia n. 29501/2019) secondo cui nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea "un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all'evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)" (cfr. Cass. n. 18392/2017; n. 26700/2018). Parte attrice ha parzialmente adempiuto al proprio onere probatorio provando la fonte negoziale delle obbligazioni assunte dal medico convenuto (mai contestate) ed essendo pacifica la presa in cura della gestante nel corso dell'intera gravidanza fino alla nascita di (...), e allegando l'inesatto adempimento delle obbligazioni assunte (per omessa diagnosi della malformazione del feto, secondo le tempistiche indicate in atto di citazione). Più precisamente, gli attori hanno allegato che il dr. (...) omise di accertare e informare i genitori delle gravi malformazioni da cui era affetto il nascituro, così impedendo alla madre di esercitare il diritto di optare per l'interruzione di gravidanza e, comunque, non consentendo alla famiglia di prepararsi psicologicamente alla "crescita di un figlio menomato" (pag. 8 atto di citazione). Il risarcimento del danno lamentato, vertendosi in ipotesi di illecito omissivo, è dunque subordinato all'accertamento dell'inadempimento colposo del medico convenuto e, in particolare, alla possibilità, in base alle conoscenze scientifiche dell'epoca e alla gamma di esami diagnostici effettuabili, di rilevare la presenza delle malformazioni poi manifestatesi in tempo utile per consentire alla gestante di esercitare il diritto all'interruzione di gravidanza, secondo la normativa dettata dalla L. n. 194 del 1978. Ai fini dell'accertamento della dedotta violazione da parte dei sanitari operanti delle regole di diligenza, prudenza e perizia nelle attività di screening e diagnostiche finalizzate all'individuazione di eventuali malformazioni del nascituro nonché della riconducibilità eziologica della impossibilità per la gestante di esercitare il diritto all'interruzione della gravidanza per omesso accertamento delle stesse entro i termini di legge e, comunque, fino alla nascita di (...), si è reso necessario procedere alla nomina di un collegio peritale, formato dalla dr.ssa M.D. (medico legale) e dal dr. (...) (specialista in ginecologia). Il collegio peritale, dopo aver proceduto ad analitico esame della documentazione clinica prodotta, dopo attenta ricostruzione e descrizione dell'iter clinico della gravidanza, disamina e valutazione degli esiti degli esami eseguiti, con argomentazioni lineari e immuni da vizi logici che sono integralmente condivise da questa giudice, non ha sostanzialmente riscontrato condotte censurabili nell'operato del medico operante, nei termini che seguono. In particolare, premesso che: - (...), nata a T. il (...), UM (ultima mestruazione) 25.11.2009, EPP (epoca presunta del parto) 02.09.2010, in data 18.01.2010 si rivolgeva al Dr. (...) per il controllo della gravidanza, come era già successo per le due precedenti; - in seguito all'insorgenza di minaccia di aborto con inappetenza e nausea, la paziente veniva ricoverata presso il presidio Ospedaliero Sant'Anna in data 15.01.2010 alla 7ma settimana di gestazione ed il 16.02.2010 alla 12ma settimana di gestazione; - la gestante veniva sottoposta alla PRIMA ECOGRAFIA in data 18.01.2010, alla 7ma settimana e 5 giorni. L'esame veniva eseguito dal Dr. (...) presso il presidio ospedaliero Sant'Anna. La CRL (lunghezza cranio caudale, testa -sacro) di 14,6 mm, risultava nella norma; - la SECONDA ECOGRAFIA eseguita dal Dr. (...) in data 17.02.2010 (ospedale Sant'Anna) alla 12ma settimana, in occasione del ricovero della paziente per iperemesi gravidica, rilevava: - CRL 60,8 mm -BPD (diametro biparietale, misura della distanza fra le due orecchie): 20,40mm Valori nella norma; - la TERZA ECOGRAFIA eseguita dal Dr. (...) in data 23.02.2010 alla 12ma settimana e 6 gg. rilevava valori nella norma: CRL 65,2; NT (Spessore della plica nucale) 1,8 mm; BPD 24,0 mm. - in data 30.03.2010, alla 17ma settimana e 6 giorni, (...) veniva sottoposta all'ecografia per Amniocentesi, durante la quale era eseguita la QUARTA ECOGRAFIA. Venivano rilevati: - BPD: 42,5mm, diametro biparietale (valori 36,2 - 38,8 - 41,4). Il valore del 95 centile è 41,41. - Femore 26,9 mm (5 centile: 20,6 - 50 centile: 24,00 - 95 centile: 27,4 mm). L'analisi dei cromosomi fetali eseguita, in seguito all'amniocentesi del 30.03.2010, risultava nella norma; - il 21.04.2010 il Dr. (...) eseguiva una ulteriore (QUINTA) ecografia alla 21ma settimana con i seguenti rilievi: - BPD: 54,20 mm, - CA (circonferenza addominale): 17,4 - CC (circonferenza cranica):19,6, - Femore: 35,0,- Omero: 32,7,- Cervelletto: 22,3,- VL post. (ventricolo posteriore): 7,2mm: valori biometrici nella norma per l'epoca gestazionale. Il BPD e la CC risultavano poco al di sotto del 90 centile, ma sempre nella norma. - la SESTA ECOGRAFIA viene eseguita dal Dr. (...) alla 30 settimana in data 23.06.2010: - BPD: 83,6 mm (95 centile 81,9 mm) - CA: 27,3 mm (95 centile 28,6 mm) - CC: 29,7 mm (95 entile 29,9 mm) - Femore: 53,8 (52,5 - 56,6 - 60,7mm). Valore al 15 centile circa - Omero: 49,6 mm (46,5 -50,4 -54,4 mm); - alla 35ma settimana e 5 gg. (...) veniva sottoposta dal dr. (...) ad una ulteriore ecografia (SETTIMA), in data 02.08.2010, con i seguenti rilievi: pr- BPD: 101,1 mm (95 centile 92,8 mm) - CA: 34,9 mm (95 centile 33,4 mm) - CC: 35,0 mm (95 centile 33,9 mm) - Femore: 71,6 (95 centile 72,3 mm),- Omero: 55,9 (52,6 - 57,6 - 62,7 mm); - una ulteriore ecografia era effettuata in data 07.08.2010 (Dr.sa G.- Sant'Anna) per controllo del liquido amniotico in paziente ricoverata per contrazioni uterine e polidramnios; - il giorno 09.08.2010 (...), alla 36ma settimana, partoriva un feto di sesso maschile gr 3.660, lunghezza 49,9 cm, CC 36,8 cm; - le indagini molecolari eseguite sul DNA fetale evidenziavano sul gene FGFR3 la mutazione G380R in eterozigosi, con diagnosi di Acondroplasia; tanto premesso, il collegio ha svolto le seguenti considerazioni del percorso diagnostico ed ecografico su riportato: - alla 17ma settimana si evidenziava un BPD oltre il 95 percentile, ma il femore non era affatto corto, era poco al disotto del 95 percentile. Arduo quindi, dai valori rilevati, sospettare un'acondroplasia fetale; - l'ecografia morfologica, eseguita in data 21.04.2010, alla 21ma settimana, evidenziava il BPD di 54,2 mm, di poco inferiore al 90 percentile ed il femore di 35,0 mm al 50. Tali valori risultavano del tutto nella norma per l'epoca gestazionale; - l'ecografia della 30ma settimana, a cui è stata sottoposta in data 23.06.2010, evidenziava un BPD di 83,6 mm, valore oltre il 95 percentile, una CC (circonferenza cranica) di 29,7 mm, valore al 95 percentile ed un femore di 53,8 mm, corrispondente al 15 percentile, valore in range fisiologico; - l'ecografia della 35ma settimana e 5 gg, rilevava un BPD di 100,1 mm: ben oltre il 95 percentile (92,8 mm), una CC di 35 mm: valore superiore al 95 percentile (33,9) ed un femore di 71,6 mm: valore posizionabile fra il 90 ed il 95 percentile. Tale ultima misurazione non appare in linea con quelle riscontrate all'ecografia della 30ma settimana (15 percentile), soprattutto alla luce dell'immediato riscontro post natale (a distanza di una settimana) di "femore e omero di lunghezza ridotti" cfr. cart. Clinica n. 2010/028381 - esame obiettivo iniziale"; - i valori rilevati del BPD, della CC e del femore alla 30ma settimana, sebbene fossero orientati rispettivamente verso l'alto e verso il basso della scala biometrica, rientravano in range fisiologico. Solo la dimensione del BPD appariva francamente superiore al limite massimo e comunque tale anomalia è stata riportata nel referto; tuttavia, tale unico dato non poteva essere indicativo di acondroplasia. Il collegio peritale, pertanto, alla luce delle ripotate considerazioni, chiarita la difficoltà di pervenire a una diagnosi ecografica prenatale - atteso che la rizomelia (parte prossimale dell'omero e del femore più corta), spesso, si evidenzia in modo netto solo a 26 -28 settimane - ha ritenuto che i valori ecografici rilevati fino alla 35 settimana rientravano nel range fisiologico e non consentivano di pervenire a una diagnosi prenatale di acondroplasia. In particolare, il collegio si è soffermato sui valori biometrici emersi dall'ecografia morfologica eseguita alla 21 settimana e alla 30 settimana, escludendo che da essi potesse "porsi il sospetto diagnostico di acondroplasia": difatti, l'ecografia della 21 settimana rilevava valori biometrici fetali del tutto nella norma per l'epoca gestazionale e all'ecografia della 30 settimana l'unico valore oltre il range era il BPD (anomalia riportata nel referto ecografico) che, tuttavia, da sola non permetteva un'ipotesi diagnostica. Solo alla 35 + 5 settimana di gestazione, secondo il collegio, poteva forse porsi un sospetto diagnostico in quanto il BPD andava ben oltre il 95 percentile e il femore era probabilmente di misura ridotta (si richiamano sul punto le considerazioni dei CCTTU di cui a pagg. 15); tuttavia, ha precisato il collegio, che tale "presunto" errore di misurazione non ha avuto alcuna conseguenza in quanto anche nel caso in cui fosse stato correttamente posto il sospetto diagnostico, l'invio ad esame di II livello non avrebbe probabilmente potuto giungere a una diagnosi certa, considerato che il parto è avvenuto a distanza di una settimana. Il collegio ha, pertanto, escluso che vi siano stati errori nelle diagnosi formulate dal dr. (...) nel corso dei vari controlli effettuati fino alla 35sima settimana di gestazione e che, in realtà, anche con riguardo all'ecografia eseguita alla 35 settimana, quando i valori rilevati apparivano anomali, il medico aveva riportato nel referto ecografico "LGA" ovvero Large for Gestational Age, diagnosi compatibile con i rilievi biometrici effettuati. In ogni caso, l'errore presunto di misurazione del femore, unitamente al BPD oltre range, seppur avrebbe dovuto indurre un sospetto diagnostico con invio ad un esame ecografico di secondo livello, non ha avuto, di fatto, alcuna conseguenza sulle effettive probabili possibilità di diagnosi di acondroplasia, in quanto, data la ristrettezza dei tempi, poco probabilmente si sarebbe potuti giungere a una diagnosi certa di patologia anche ove tale esame fosse stato eseguito. In definitiva, gli esami effettuati da (...) furono adeguati e congrui rispetto alle conoscenze scientifiche, alle linee guida e alle procedure protocollate all'epoca dell'evento e solo a partire dalla 35+ 5 settimana alcuni valori biometrici evidenziavano delle anomalie che potevano indurre un sospetto diagnostico e, quindi, un invio a un esame di II livello che, peraltro, con una probabilità non elevata, secondo i dati di letteratura, avrebbe potuto formulare una diagnosi certa. Alla luce delle su esposte considerazioni, non sono ravvisabili profili di negligenza, imperizia o imprudenza professionale nella condotta tenuta dal medico convenuto che ha avuto in cura (...) nel corso della gravidanza. L'iter diagnostico percorso fu, difatti, corretto e conforme ai tempi e alle modalità previste dalle Linee Guida e alle conoscenze scientifiche in merito alla diagnosi ostetrica prenatale all'epoca dei fatti; gli esami effettuati furono adeguati e congrui e ulteriori accertamenti diagnostici avrebbero, al più, potuto essere effettuati solo a decorrere dalla 35 + 5 settimana, allorquando avrebbe forse potuto porsi un sospetto diagnostico della malformazione ma, anche in tal caso, la ristrettezza dei tempi non avrebbe probabilmente consentito di pervenire a una diagnosi certa, in quanto il parto avvenne a distanza di una settimana. Va, pertanto, esclusa la sussistenza dei presupposti per la risarcibilità dei danni non patrimoniali richiesti da lesione dell'integrità psico fisica e del diritto all'autodeterminazione, in quanto per il periodo che va dall'inizio del rapporto contrattuale fino alla 35 settimana non sono ravvisabili profili di colpa nella condotta del medico convenuto; mentre, quanto ai controlli eseguiti alla 35 settimana, anche a voler ipotizzare che vi sia stato un errore di misurazione, nei termini già descritti, e che, pertanto, vi sarebbe stata indicazione a eseguire esami di II livello, non vi era un'elevata probabilità che l'esecuzione di detto esame di secondo livello avrebbe condotto a una diagnosi prenatale di acondroplasia, che risulta, comunque, di difficile esecuzione. L'accertamento della responsabilità da nascita indesiderata per omessa informazione sulle malformazioni del feto presuppone, difatti, esattamente come per le altre ipotesi di responsabilità medico - sanitaria, l'accertamento degli elementi costitutivi della colpa e del nesso causale. Nel caso di specie, in base alle conclusioni cui sono pervenuti i CCTTUU, alle quali questa giudice ritiene di dover integralmente aderire in quanto supportate da analitica disamina del percorso gestazionale della paziente e dal richiamo delle Linee Guida applicabili all'epoca dei fatti, dagli esami e dagli accertamenti effettuati fino alla 35ma settimana di gravidanza non vi erano evidenze di malformazioni fetali o altri segnali che avrebbero dovuto indurre i sanitari a compiere ulteriori accertamenti, per cui alcuna ulteriore attività avrebbe potuto essere posta in essere per l'individuazione delle malformazioni poi manifestatesi. Sotto il profilo della tempistica di individuazione e diagnosi delle malformazioni del feto, il collegio peritale ha puntualizzato che fino alla 35ma settimana la gravidanza evolveva regolarmente e i valori ecografici risultavano nella norma; solo l'ecografia effettuate alla 35ma settimana evidenziava valori biometrici che ponevano sospetti per malformazioni fetali; ha, pertanto, escluso che (...) potesse fruire dell'interruzione terapeutica della gravidanza prevista dalla L. n. 194 del 1978, atteso che nel momento in cui gli esami evidenziavano sospetti di una malformazione il termine previsto dalla normativa era ampiamente decorso e, anzi, non vi sarebbe stato, probabilmente, neanche il tempo di eseguire esami di II livello. L'art. 6 della L. n. 194 del 1978 stabilisce che dopo il 90 giorno dall'inizio della gravidanza, l'interruzione volontaria della gravidanza possa essere praticata se sussistono le seguenti condizioni: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna sempre che non sussista la possibilità di vita autonoma del feto, nel qual caso l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 7 della citata legge). Con riguardo alla distribuzione dell'onere probatorio e in riferimento alla possibilità di interrompere la gravidanza la giurisprudenza di legittimità, con orientamento costante (cfr. Cass.6735/2002; Cass. Sez. Un. n. 25767/2015), ha affermato che grava sulla gestante l'onere di dimostrare i fatti costitutivi del diritto di interrompere la gravidanza e sul medico quello di provare i fatti impeditivi di tale diritto (la sussistenza di una vita autonoma del feto). Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall'ambiente materno. Pertanto, ove la gestante abbia allegato la lesione del proprio diritto a interrompere la gravidanza a causa dell'inadempimento del medico alla propria obbligazione professionale, una volta accertata la carenza informativa, "l'eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere" (cfr. Cass. n. 6735/2002; n. 13/2010) Nella fattispecie in esame, preposto che il collegio ha individuato nella 35ma settimana il momento in cui gli esami eseguiti evidenziavano dei sospetti di malformazione e ha chiarito che il feto aveva già la possibilità di vivere autonomamente fuori dall'utero, in quanto tale termine si fissa in genere alla 22ma settimana e 2-3 giorni, deve essere necessariamente condivisa la conclusione per cui per (...) non fosse più esercitabile il diritto a fruire dell'interruzione terapeutica della gravidanza. Né è stato dedotto o è emerso dal quadro probatorio formatosi in atti che a quella data la gravidanza o il parto comportassero un grave pericolo per la vita della donna, secondo quanto previsto dall'art. 7 della citata legge. Ne consegua che anche ove (...) fosse stata informata della possibile sussistenza di malformazioni del feto alla 35 settimana, ossia nel primo momento in cui il sospetto delle malformazioni avrebbe potuto formarsi in base ai valori biometrici risultanti dall'ecografia, la stessa non avrebbe in ogni caso potuto fruire dell'interruzione di gravidanza a scopo terapeutico in quanto il feto avrebbe già potuto vivere autonomamente fuori dall'utero e non vi era un grave pericolo di vita per la madre. Peraltro, neanche rispetto a tale momento i CCTTUU hanno ravvisato profili di colpa in capo al medico convenuto in quanto da un lato gli esiti degli esami potevano al più porre un "sospetto diagnostico" e, in ogni caso, l'esame di II livello, data la ristrettezza dei tempi, non avrebbe probabilmente potuto giungere a una diagnosi certa della patologia. La domanda risarcitoria deve, pertanto, essere respinta sia con riguardo alla lesione del diritto all'interruzione della gravidanza, sia con riguardo alla lesione del diritto a prepararsi psicologicamente alla crescita di un figlio affetto da gravi patologie. Difatti, posto che solo a decorrere dalla 35esima settimana si sarebbe forse potuto porre il sospetto diagnostico delle malformazioni, la ristrettezza dei tempi data dal fatto che il parto è avvenuto a distanza di una settimana, non avrebbe probabilmente consentito di pervenire a una diagnosi certa prenatale e, quindi, i genitori non avrebbero potuto comunque avere conoscenza della malformazione da cui era affetto il figlio prima della sua nascita, senza contare il fatto che, in ogni caso, il lasso temporale di appena 7 giorni non avrebbe evidentemente consentito agli attori di "prepararsi psicologicamente" all'evento indubbiamente traumatico da affrontare. Il rigetto della domanda attorea rende superfluo l'esame della domanda di manleva proposta dal convenuto nei confronti della (...) S.p.a.. Le spese di lite, incluse quelle di CTU, seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo sul valore della domanda e in base ai parametri medi di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55. Vanno poste a carico della parte attrice soccombente anche le spese di lite della terza chiamata in applicazione del principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui una volta respinta la domanda principale le spese vanno poste a carico della parte che rimasta soccombente abbia provocato e giustificato la chiamata in garanzia, secondo il principio di causalità e purchè la chiamata in causa non risulti arbitraria o manifestamente infondata (cfr. Cass. n. 9941/2022; n. 18710/2021; n. 23123/2019; n. 31889/2019; n.2492/2016; n.23552/2011). Nella fattispecie in esame, la chiamata in causa della compagnia di assicurazione era certamente legittima e non arbitraria, data la sussistenza di un valido contratto assicurativo rispetto all'evento di danno dedotto. Le suddette spese di lite sono liquidate come da dispositivo sul valore della domanda e in base ai parametri minimi di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, tenuto conto dell'attività difensiva svolta dalla compagnia maggiormente incentrata sulle condizioni di polizza. P.Q.M. Il Tribunale, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...) e (...), in proprio e nella qualità di esercenti la responsabilità genitoriale su (...) e (...), contro (...), con la chiamata in causa di (...) S.P.A., ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede: - Respinge la domanda. - Condanna (...) e (...) al pagamento in favore di (...) delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 7.254,00, oltre al rimborso sulle spese generali nella misura del 15%, nonché Iva e Cpa e successive occorrende. - Pone le spese di CTU definitivamente a carico di (...) e (...). - Condanna (...) e (...) al pagamento in favore di (...) S.p.a. delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 3.971,00, oltre al rimborso sulle spese generali nella misura del 15%, nonché Iva e Cpa e successive occorrende. Così deciso in Torino il 7 settembre 2022. Depositata in Cancelleria l'8 settembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA In Nome del Popolo Italiano La Corte d'Appello di Ancona sezione lavoro in persona dei magistrati: dott. Vincenzo Pio Baldi Presidente relatore dott.ssa Angela Quitadamo Consigliere dott.ssa Tania De Antoniis Giudice applicato a scioglimento della riserva assunta all'esito dell'udienza svoltasi in data 3.03.2022 attraverso il deposito telematico di note scritte contenenti le conclusioni delle parti, ai sensi dell'art.221, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 19.05.2020, convertito nella legge n.77 del 17.07.2020, nella causa iscritta al n. 207 del Ruolo Generale Lavoro dell'anno 2021, promossa con ricorso in appello depositato il 07.07.2021 da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE della PREVIDENZA SOCIALE, corrente in Roma, con l'avv. (...), parte APPELLANTE contro xxxxxxx, in proprio e quale esercente la potestà su xxxxxxx, con l'avv. (...), parte APPELLATA avverso la sentenza n.160/2021, pubblicata il 11.06.2021, del Tribunale di Ancona, in funzione di Giudice del lavoro; sulle conclusioni delle parti, come riportate nei rispettivi atti di parte, da intendersi qui integralmente trascritte, ha pronunciato la seguente SENTENZA Il Tribunale di Ancona, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto la domanda proposta nei confronti dell'INPS da xxxxxxx anche per conto della figlia minore xxxxxxx ed ha condannato l'ente previdenziale al pagamento in favore della minore della pensione ai superstiti conseguente al decesso del genitore della minore, Secondo il Tribunale la reiezione dell'INPS alla domanda amministrativa formulata dalla ixxxxxx non è legittima in quanto il decorso di un termine superiore a trecento giorni fra il decesso del genitore e la nascita della piccola HHm non impedisce la maturazione del diritto a percepire la pensione ai superstiti, essendo pacifico, alla luce dei documenti prodotti, il rapporto di filiazione, mentre l'indicato termine non ha carattere perentorio. Avverso la sentenza ha proposto appello l'INPS lamentando, con un unico, articolato motivo di impugnazione, l'erronea applicazione di legge da parte del giudice di prime cure, il quale, richiamando l'inciso "salvo prova contraria" contenuto nell'art. 462, comma 2, c.c., non avrebbe considerato che esso si riferisce all'autore del concepimento, nel senso che fa rientrare fra i capaci a succedere i nati entro i trecento giorni dalla morte del de cuius, mentre la questione dibattuta nel presente processo riguarderebbe l'efficacia nei confronti dell'INPS -efficacia esclusa dall'ente che non avrebbe avuto titolo per partecipare a quel giudizio- del decreto giudiziale che ha riconosciuto xxxxxxx figlia di xxxxxxx. Secondo l'appellante, poi, le richiamate pronunce della Suprema Corte non sarebbero applicabili al caso concreto. L'ente previdenziale ha concluso, quindi, chiedendo che, riformata la sentenza, la domanda attorea venga rigettata. Nel processo di secondo grado si è costituita xxxxxxx, in proprio e nella qualità indicata, contestando l'impugnazione avversaria in considerazione della sua infondatezza e concludendo, quindi, per l'integrale rigetto dell'appello. La Corte, fissata udienza di trattazione scritta ai sensi dell'art. 221, comma 4, cit., sulle conclusioni come in atti, si è riservata di decidere. Così riassunta la vicenda processuale, l'appello è infondato e va respinto. A giudizio della Collegio occorre prendere le mosse dalla legge n. 903 del 1965 che, al Capo 3°, disciplina l'ipotesi delle prestazioni previdenziali dovute in caso di decesso del pensionato o dell'assicurato. Nello specifico, e per quel che qui interessa, l'art. 22 della legge in questione prevede che, in tali casi, i figli superstiti di età inferiore ai diciott'anni hanno diritto a percepire la pensione, secondo una determinata percentuale, variabile in presenza o meno del coniuge superstite che abbia a sua volta diritto. La norma, in sostanza, prevede il generale diritto del figlio minore a godere della pensione, senza alcuna distinzione legata al momento della sua nascita, quindi, purché abbia lo status di figlio. La norma non aggiunge alcuna previsione contenente il limite dei trecento giorni indicato dall'INPS nei propri atti; anzi, il richiamo contenuto nella Circolare n. 185 del 18.11.2015, precisamente al paragrafo 2.3, secondo il quale il diritto va riconosciuto anche ai "figli postumi, nati entro il trecentesimo giorno dalla data di decesso del padre" si pone in contrasto con l'art.8 della legge n. 40 del 2004 che, in linea generale, riconosce lo stato di figli ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Nel caso in esame, poi, il decreto giudiziale della Corte d'Appello di Ancona n.4796/2019 del 3.12.2019, prodotto in atti, a differenza di quanto sostenuto dall'INPS, non ha unicamente l'effetto di incidere sui registri dello Stato Civile del Comune di Ostra Vetere, in quanto, al contempo, il provvedimento riconosce lo stato di xxxxxxx quale figlia di ixxxxi, costituendo, questo, un presupposto indispensabile per la correzione del registro medesimo; detta statuizione, peraltro, risulta espressamente indicata nella parte motivazionale del decreto della Corte d'Appello di Ancona. La pronuncia in questione, così come quella del giudice di legittimità che in quel giudizio ha disposto il rinvio alla Corte territoriale (Cass. civ., Sez.1A, Sentenza n. 13000 del 15.05.2019), produce i suoi effetti anche nei confronti dell'INPS, in quanto, come esattamente messo in rilievo dalla appellata, la Suprema Corte in più occasioni ha affermato che le azioni di stato hanno efficacia erga omnes, con la conseguenza che i loro effetti si estendono anche alle parti che non hanno partecipato al giudizio (Cass. civ., Sez. 6-1, Ordinanza 19956 del 13.07.2021). In definitiva, quindi, la sentenza di primo grado va integralmente confermata. Le spese processuali del grado, in ragione della media complessità della questione giuridica, vanno liquidate come da dispositivo secondo i valori medi dello scaglione di riferimento e poste per intero a carico dell'INPS in ossequio al principio di soccombenza, con distrazione al procuratore della Rastelli che, ai sensi dell'art. 93 c.p.c., ha dichiarato di averle anticipate. P.Q.M. La Corte d'Appello di Ancona, sezione lavoro, definitivamente decidendo sull'appello proposto con ricorso depositato il 7.07.2021 dall'INPS nei confronti di (...), avverso la sentenza n.160/2021, pubblicata l'11.06.2021, del Tribunale di Ancona, in funzione di Giudice del lavoro, così provvede: A. Respinge l'appello e conferma la sentenza di primo grado; B. Condanna l'INPS al pagamento in favore della parte appellata delle spese processuali del presente grado, liquidate in Euro. 6.620,00 per compenso professionale, oltre esborsi, spese forfetarie al 15%, iva e cap, con distrazione in favore dell'avv. (...); C. Dichiara, ex art.13, comma 1 quater, d.P.R. n.115 del 2002, la sussistenza in capo all'INPS dei presupposti oggettivi per il pagamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera f), 14, 36, 41, comma 3, 50 e da 53 a 57 della legge della Regione Siciliana 15 aprile 2021, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2021. Legge di stabilità regionale), e degli artt. 4, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 26 novembre 2021, n. 29 (Modifiche alla legge regionale 15 aprile 2021, n. 9. Disposizioni varie), promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi notificati il 21 giugno 2021 e il 31 gennaio 2022, depositati in cancelleria il 30 giugno 2021 e il 1° febbraio 2022, iscritti, rispettivamente, al n. 33 del registro ricorsi 2021 e al n. 8 del registro ricorsi 2022 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 32 dell’anno 2021 e n. 9 dell’anno 2022. Visti gli atti di costituzione della Regione Siciliana; udito nell’udienza pubblica del 7 giugno 2022 il Giudice relatore Angelo Buscema; uditi gli avvocati dello Stato Emanuele Feola e Beatrice Gaia Fiduccia per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Gianluigi Maurizio Amico per la Regione Siciliana, quest’ultimo in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021; deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato il 30 giugno 2021 e iscritto al registro ricorsi n. 33 del 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 32, 81, terzo comma, 117, commi secondo, lettere e), l) e m), e terzo, e 118, primo comma, della Costituzione, nonché agli artt. 14, lettera q), e 17, comma 1, lettera c), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera f), 14, 36, 41, comma 3, 50, 53, 54, commi 2 e 3, 55, 56 e 57 della legge della Regione Siciliana 15 aprile 2021, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2021. Legge di stabilità regionale). Con successivo ricorso, depositato il 1° febbraio 2022 e iscritto al registro ricorsi n. 8 del 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 26 novembre 2021, n. 29 (Modifiche alla legge regionale 15 aprile 2021, n. 9. Disposizioni varie). L’art. 4, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 modifica l’art. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 impugnato con il ricorso n. 33 del 2021. Con atto depositato in data 20 maggio 2022 il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri del 17 maggio 2022, ha presentato atto di rinuncia in parte qua, al ricorso n. 33 del 2021, limitatamente al motivo avente ad oggetto l’impugnativa dell’art. 41, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. La Regione Siciliana, con atto depositato il 26 maggio 2022, ha dichiarato di accettare la rinuncia parziale al ricorso. Con successivo atto del 27 maggio 2022 la difesa regionale – in relazione all’intenzione manifestata dal governo regionale di apportare modifiche alle norme impugnate in modo satisfattivo delle ragioni dell’impugnativa dello Stato, e prendendo atto della nota 25 maggio 2022, n. 15563 dell’Assessorato regionale della famiglia, delle politiche sociali e del lavoro con la quale è stato demandato alla Presidenza del Consiglio dei ministri il rinvio dell’udienza fissata per il 7 giugno 2022 limitatamente agli artt. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 e 4, comma l, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 – ha presentato istanza di rinvio dell’udienza fissata per il 7 giugno 2022, limitatamente ai predetti articoli. Il ricorrente, con atto depositato il 30 maggio 2022, ha aderito all’istanza di rinvio presentata dalla Regione e il Presidente della Corte, con decreto del 1° giugno 2022, ha rinviato a nuovo ruolo la discussione dei giudizi di cui all’art. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 (ricorso n. 33 del 2021) e dell’art. 4, comma l, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 (ricorso n. 8 del 2022). 2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 5, comma 1, lettera f), della legge reg. Sicilia n. 9 del 2021, che modifica l’art. 55 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale), aggiungendo, dopo il comma 7, il comma 7-bis, il quale dispone: «Al personale del comparto in servizio a tempo indeterminato e determinato presso l’ufficio speciale - C.U.C., oltre al trattamento accessorio di cui al comma 7 dell’articolo 16 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10 e successive modificazioni è riconosciuta, a valere sul Fondo istituito con Delib. G.R. n. 387 del 24 novembre 2004, una retribuzione annua sostitutiva dei premi di cui al comma 4 dell’articolo 90 del CCRL vigente, nelle misure riconosciute dall’articolo 94 del CCRL vigente al personale del comparto in servizio presso l’UREGA. Trova, altresì, applicazione il comma 2 dell’articolo 94 del CCRL vigente». Ad avviso del ricorrente la disposizione, nel derogare al principio che riserva alla contrattazione collettiva il trattamento economico del personale pubblico contrattualizzato, desumibile dagli artt. 2, comma 3, e 45, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina della materia «ordinamento civile». A supporto delle proprie argomentazioni l’Avvocatura generale richiama la sentenza di questa Corte n. 16 del 2020 con la quale è stato affermato che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici – ivi inclusi i profili del trattamento economico, inteso nel suo complesso, senza alcuna limitazione a quello fondamentale, e della relativa classificazione – rientra nella materia «ordinamento civile», spettante in via esclusiva al legislatore statale. Il ricorrente afferma che, a seguito della contrattualizzazione del pubblico impiego, i principi generali fissati dalla legge statale nella materia costituiscono limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati. Tali principi si imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (è richiamata, tra le altre, la sentenza di questa Corte n. 154 del 2019). In particolare, per quanto attiene alla Regione Siciliana, l’applicazione dei predetti principi non sarebbe preclusa dalla previsione contenuta nell’art. 14, lettera q), dello statuto speciale perché, pur attribuendo alla competenza legislativa esclusiva della Regione la disciplina dello stato giuridico ed economico dei dipendenti regionali, incontrerebbe – in virtù di quanto previsto dallo stesso statuto di autonomia – i limiti derivanti dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (è citata la sentenza di questa Corte n. 172 del 2018) che, in quanto tali, si impongono anche alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni autonome (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 93 del 2019, n. 201 e n. 178 del 2018). 2.1.– La Regione Siciliana, costituitasi in giudizio, sostiene la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera f), della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, in quanto lo statuto speciale, all’art. 14, lettera q), attribuirebbe espressamente alla Regione autonoma la competenza legislativa esclusiva in materia di stato giuridico ed economico dei dipendenti regionali. La disposizione impugnata non interverrebbe a disciplinare il trattamento economico del personale regionale, ma si limiterebbe a specificare i destinatari di una retribuzione accessoria omnicomprensiva annua già prevista dalla vigente contrattazione collettiva di comparto per alcuni lavoratori, in sostituzione dei premi e dei trattamenti accessori correlati all’attuazione di specifici progetti e alla performance organizzativa e individuale. L’art. 5, comma 1, lettera f), della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 si limiterebbe ad assimilare, con riguardo all’attribuzione di premi, il personale in servizio presso la Centrale unica di committenza per l’acquisto di beni e servizi (CUC) a quello in servizio presso l’Ufficio regionale per l’espletamento delle gare d’appalto (UREGA), in considerazione del fatto che tale personale svolgerebbe mansioni analoghe nell’espletamento delle procedure afferenti all’acquisto di servizi e forniture e di quelle relative all’appalto di lavori pubblici. 3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, il quale prevede che «1. Al personale già trasferito all’Agenzia regionale di cui all’articolo 7 della legge regionale 22 dicembre 2005, n. 19 e successive modificazioni, per mobilità e transitato nei ruoli dell’Amministrazione regionale in applicazione dell’articolo 9, comma 2, della legge regionale 16 dicembre 2008, n. 19 e successive modificazioni è riconosciuta, con effetti economici decorrenti dal 1° gennaio 2021, l’anzianità di servizio prestato presso le amministrazioni di provenienza. Tale servizio è equiparato a servizio prestato presso l’amministrazione regionale. 2. Per le finalità di cui al comma 1 è autorizzata, per gli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, la spesa annua di euro 497.242,00 (Missione 1, Programma 10, capitolo 10815 7). A decorrere dall’esercizio finanziario 2024 si provvede ai sensi del comma 1 dell’articolo 38 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118». Il ricorrente assume che la disposizione consentirebbe agli ex dipendenti dell’Agenzia regionale rifiuti e acque della Sicilia (ARRA) il riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata prima di essere assunti presso la predetta Agenzia, a prescindere dalla natura giuridica pubblica o privata dell’originario datore di lavoro e dai servizi concretamente prestati presso di esso. Così legiferando, il legislatore regionale avrebbe introdotto, rispetto alla disciplina generale della mobilità nel pubblico impiego, un regime di favore per il suddetto personale rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici, ivi inclusi gli altri dipendenti regionali. La disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., violando il principio di uguaglianza, principio direttamente applicabile anche alle Regioni ad autonomia speciale in quanto rientrante fra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico costituzionale. Sarebbe violato anche l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. in quanto la disposizione regionale produrrebbe l’effetto di un miglioramento del trattamento economico fondamentale e accessorio degli ex dipendenti dell’ARRA, derogando al principio di cui agli artt. 2, comma 3, e 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che riserva alla contrattazione collettiva la determinazione del trattamento economico del personale pubblico contrattualizzato. I principi ricavabili dal testo unico del pubblico impiego, infatti, rappresentano norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica e costituiscono limiti per la competenza legislativa della Regione Siciliana di cui all’art. 14, lettera q), dello statuto di autonomia in materia di «stato giuridico ed economico» del personale regionale. L’art. 14 della 1egge reg. Siciliana n. 9 del 2021 sarebbe altresì in contrasto con l’art. 38, comma 1, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), in quanto, in difformità da quanto disposto dal predetto art. 38, la disposizione regionale non provvederebbe ad indicare l’onere a regime derivante dall’applicazione del comma 1 dell’art. 14, ma rinvierebbe la quantificazione dell’onere annuo alla legge di bilancio. La violazione della norma interposta determinerebbe la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici». 3.1.– La difesa regionale afferma innanzitutto la non fondatezza delle censure in riferimento all’art. 3 Cost., sostenendo che la disposizione impugnata non opererebbe alcuna differenziazione di trattamento fra lavoratori pubblici ma, al contrario, offrirebbe le dovute garanzie per la salvaguardia dello status professionale del personale ex ARRA trasferito alla Regione. L’individuazione del termine del 1° gennaio 2021, quale dies a quo per la decorrenza degli effetti economici dell’anzianità di servizio, sarebbe motivato dal fatto che la sua concreta operatività scaturirebbe dall’applicazione dell’art. 22 del vigente contratto collettivo regionale di lavoro (CCRL), che disciplina l’ultima progressione economica orizzontale per tutto il personale di ruolo del comparto dell’amministrazione della Regione. La norma impugnata non opererebbe alcuna ricostruzione retroattiva dell’anzianità di servizio in quanto i suoi effetti economici si produrrebbero a partire dal 1° gennaio 2021 e discenderebbero dall’applicazione dell’art. 22 del vigente CCRL. Con riferimento alla asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., la disposizione impugnata costituirebbe espressione della competenza legislativa esclusiva statutariamente attribuita alla Regione in materia di «stato giuridico ed economico» del proprio personale. Infine, la Regione ritiene non sussistente neppure il contrasto con l’art. 38 del d.lgs. n. 118 del 2011 e, conseguentemente, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici», in quanto la disposizione regionale richiamerebbe espressamente l’art. 38 indicato. Tale richiamo sarebbe di per sé idoneo ad assicurare la quantificazione dell’onere a regime delle spese a carattere continuativo, mentre la quantificazione dell’onere annuale sarebbe prevista per ciascuno degli esercizi compresi nel bilancio di previsione. 4.– È poi impugnato il comma 3 dell’art. 41 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, rubricato «Progetti a favore degli studenti con disabilità», in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; all’art. 117, terzo comma, Cost., ai sensi del quale il legislatore statale ha la competenza ad individuare i principi fondamentali sia in materia di tutela della salute, sia in materia di coordinamento della finanza pubblica; all’art. 81, terzo comma, Cost. In particolare, l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata discenderebbe dal fatto che la Regione Siciliana sarebbe attualmente impegnata nel piano di rientro dal disavanzo sanitario e sarebbe, pertanto, assoggettata al divieto di spese non obbligatorie, ai sensi dell’art. 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)» e successive modificazioni e integrazioni. 4.1.– La Regione Siciliana sostiene la non fondatezza della questione relativa all’art. 41, comma 3. 4.2– Come già ricordato, il Consiglio dei ministri ha deliberato di rinunciare all’impugnativa dell’art. 41, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, ritenendo che la modifica intervenuta con la legge reg. Siciliana n. 20 del 2022 abbia carattere satisfattivo; la rinuncia è stata accettata dalla Regione. 5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, altresì, impugnato l’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, il quale dispone che: «1. Entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, le Aziende del Servizio Sanitario Regionale e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia procedono ad incrementare le ore di incarico a tempo indeterminato a ciascun medico veterinario specialista ambulatoriale interno, già titolare di incarico da almeno 5 anni, per il raggiungimento di almeno trenta ore di incarico settimanali per medico-veterinario. 2. Gli incrementi di orario eccedenti la quota di almeno trenta ore settimanali di cui al comma 1 devono essere motivati e autorizzati dall’Assessorato regionale della Salute, sulla base di una preventiva ricognizione del fabbisogno delle prestazioni e delle attività programmate o programmabili, relative alla specialistica ambulatoriale veterinaria, presso ciascuna Azienda sanitaria provinciale e presso la sede dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia e possono essere attribuiti nel rispetto del vincolo dell’equilibrio economico del bilancio aziendale. 3. I direttori generali delle Aziende sanitarie provinciali e dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale della Sicilia sulla base delle criticità riscontrate e della programmazione delle attività, compatibilmente con il titolo di specializzazione di cui all’allegato 2 dell’Accordo Collettivo Nazionale del 31 marzo 2020, in possesso di ogni medico veterinario specialista e sulla base dei criteri di valutazione, di cui all’articolo 21 comma 3, del citato Accordo Collettivo Nazionale, possono disporre una sola volta il passaggio dell’intero effettivo delle ore di incarico a branche diverse, allo scopo di ottimizzare e concentrare le risorse sulle attività prioritarie, previa formale accettazione degli interessati. 4. In caso di transito da una branca all’altra, allo specialista è riconosciuta l’anzianità di servizio già maturata. Al fine di garantire l’appropriatezza delle prestazioni, il transito ad altra branca potrà avvenire a seguito di un adeguato periodo di affiancamento. 5. Gli oneri derivanti dall’applicazione del presente articolo, quantificati in euro 7.883.103 su base annua, trovano copertura sui fondi del servizio sanitario regionale, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale. 6. L’articolo 46 della legge regionale 11 agosto 2017, n. 16 è abrogato». Sostiene l’Avvocatura generale che, con l’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, il legislatore regionale avrebbe esercitato una competenza riservata in via esclusiva al legislatore statale, ponendosi in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera 1), Cost., che attribuisce a quest’ultimo una competenza esclusiva nella materia «ordinamento civile». La disposizione impugnata introdurrebbe una disciplina incompatibile con l’Accordo collettivo nazionale, che – in attuazione dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) – disciplina puntualmente l’incremento orario degli specialisti ambulatoriali. Ciò comporterebbe anche la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., introducendo una irragionevole disparità di trattamento tra gli specialisti ambulatoriali che prestano servizio nella Regione Siciliana e coloro che invece operano nella restante parte del territorio nazionale. La disposizione impugnata, peraltro, non troverebbe alcuna giustificazione nelle norme statutarie della Regione Siciliana in quanto essa non rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 14, lettera q), intervenendo sul rapporto di lavoro di soggetti che non sono dipendenti della Regione. Neppure troverebbe giustificazione nell’art. 17, lettera f), dello statuto, il quale prevede che la disciplina dei rapporti di lavoro può essere regolata dalla legislazione regionale «[e]ntro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato». 5.1.– La difesa regionale sostiene che l’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 non configurerebbe alcuna disparità di trattamento, né disuguaglianza o difformità con quanto realizzato nel territorio nazionale. Sottolinea che, al contrario, la disposizione impugnata mira a conseguire livelli uniformi di assistenza sanitaria. Riguardo alla lamentata violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera 1), Cost., sostiene che il legislatore regionale avrebbe esercitato una competenza propria rientrante nella materia di cui alla lettera f) dell’art. 17 dello statuto, senza sconfinare nella competenza esclusiva dello Stato. L’incremento orario previsto dall’art. 50 della legge regionale n. 9 del 2021 non sarebbe riferito a quanto stabilito dall’art. 20 dell’Accordo collettivo nazionale, ma a quanto disposto dall’art. 21, comma 2, dell’Accordo medesimo, del quale avrebbe fatto applicazione. Afferma, inoltre, che la norma regionale sarebbe frutto di una attenta ricognizione sui fabbisogni prestazionali, obiettivi da raggiungere e risorse professionali delle aziende sanitarie e dell’Istituto zooprofilattico della Sicilia, oggetto di confronto con le sigle sindacali firmatarie dello stesso ACN. 6.– L’Avvocatura generale dello Stato impugna, altresì, l’art. 53 della medesima legge regionale, in riferimento agli artt. 81, terzo comma, 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., in riferimento alla materia coordinamento della finanza pubblica, in relazione all’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, ai sensi del quale alle Regioni in piano di rientro – come la Sicilia – non è consentito effettuare spese non obbligatorie; e in relazione all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996) convertito, con modificazioni, in legge 23 dicembre 1996, n. 648, che assegna all’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) il compito di individuare i medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale (SSN). Sarebbe altresì in contrasto con l’art. 17, comma 1, lettera c), dello statuto siciliano, ai sensi del quale l’esercizio della competenza della Regione Siciliana dovrebbe comunque avvenire nel rispetto dei principi e degli interessi generali stabiliti dalla legge dello Stato. L’art. 53, rubricato «Terapia genica Zolgensma», stabilisce, al comma 1, che «[i]n conformità alle indicazioni espresse dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA), nelle more dell’autorizzazione definitiva da parte dell’AIFA, è autorizzata la terapia genica “Zolgensma”, già inserita dall’AIFA nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del servizio sanitario nazionale ai sensi del decreto legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, per il trattamento dei lattanti e dei bambini affetti da atrofia muscolare spinale (SMA) fino a 21 chilogrammi di peso, anche oltre i sei mesi di età. Ai relativi oneri provvede a valere sulle risorse del capitolo 413374 nella misura di 4.200 migliaia di euro (Missione 13, Programma 1, capitolo 413374)». Secondo il ricorrente tale norma non risulterebbe in linea con la legislazione ed il regime regolatorio vigenti, in quanto richiamerebbe una disciplina non più applicabile alla fattispecie oggetto di impugnativa. In particolare, l’art. 1, comma 4-bis, del d.l. n. 536 del 1996, come convertito, prevede che, anche se sussista altra alternativa terapeutica nell’ambito dei medicinali autorizzati, previa valutazione dell’AIFA, siano inseriti nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del SSN, i medicinali che possono essere utilizzati per un’indicazione diversa da quella autorizzata, purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell’ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza. In tale caso l’AIFA attiva idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e assume tempestivamente le necessarie determinazioni. La norma denunciata non terrebbe conto, in violazione della richiamata norma interposta, dell’intervenuta determinazione dell’AIFA n. 277 del 10 marzo 2021, con la quale l’Agenzia ha definito il regime di rimborsabilità e prezzo del medicinale “Zolgensma” sulla base di puntuali previsioni e requisiti. Con determinazione n. 46485 del 16 aprile 2021, l’AIFA ha poi disposto l’esclusione del medicinale Zolgensma dall’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale ai sensi della legge n. 648 del 1996, per il trattamento entro i primi sei mesi di vita di pazienti con diagnosi genetica (mutazione bi-allelica nel gene SMN 1 e fino a 2 copie del gene SMN 2) o diagnosi clinica di atrofia muscolare spinale di tipo 1 (SMA 1), in quanto tale indicazione sarebbe stata inserita nella citata determinazione del 10 marzo 2021, n. 277. In conseguenza di tale determinazione, l’AIFA ha previsto la rimborsabilità del farmaco in questione a carico del SSN esclusivamente per il trattamento di pazienti con peso massimo di 13,5 kg. L’Avvocatura generale dello Stato, peraltro, riferisce di un accordo tra AIFA e l’azienda farmaceutica Novartis che avrebbe incluso l’impegno della società a mettere a disposizione il farmaco a titolo gratuito all’interno di studi clinici per i bambini con un peso compreso tra i 13,5 e i 21 kg, allo scopo di acquisire su questi pazienti, in un setting controllato, dati ulteriori di efficacia e sicurezza. Secondo il ricorrente, la somministrazione della terapia a pazienti aventi un peso compreso tra i 13,5 kg e i 21 kg prevista dalla norma regionale costituirebbe un livello ulteriore di assistenza. La disposizione impugnata violerebbe, dunque, non soltanto la norma in precedenza richiamata, in applicazione della quale l’AIFA ha assunto, nell’esercizio del suo potere regolatorio, le anzidette determinazioni – art. 1, comma 4-bis, del d.l. n. 536 del 1996, come convertito, – ma anche l’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, ai sensi del quale le Regioni, come quella Siciliana, assoggettate a piano di rientro dal disavanzo sanitario non possono effettuare spese non obbligatorie. La norma si porrebbe pertanto in contrasto non solo con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., violando la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali di assistenza, ma altresì con l’art. 117, terzo comma, Cost., violando il principio di contenimento della spesa pubblica sanitaria, quale principio generale di coordinamento della finanza pubblica. Sostiene il ricorrente che la norma impugnata travalicherebbe altresì le competenze affidate alla Regione dallo statuto di autonomia, il quale, sebbene conferisca all’Assemblea regionale il potere di emanare leggi «al fine di soddisfare alle condizioni particolari ed agli interessi propri della regione» anche in materia di assistenza sanitaria (art. 17, comma 1, lettera c), prevedrebbe tuttavia che tale potere sia esercitato «entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato», in cui rientrerebbero i principi fondamentali stabiliti dallo Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento della spesa pubblica sanitaria. L’impugnato art. 53 violerebbe altresì l’art. 81, terzo comma, Cost., in quanto, in ragione della sua genericità, lederebbe i principi di certezza e attualità della copertura finanziaria. 6.1.– La difesa regionale sostiene che l’impugnato art. 53 sarebbe stato approvato al fine di consentire l’accesso alla terapia “Zolgensma” anche ai bambini che non sono in possesso dei più rigidi criteri di eleggibilità definiti dall’AIFA, nell’ottica della tutela del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. Osserva la Regione Siciliana, peraltro, che le condizioni poste dall’AIFA, giusta determinazione n. 277 del 10 marzo 2021, sarebbero maggiormente limitative rispetto a quelle approvate dall’EMA [European Medicines Agency], avendo precluso la possibilità di trattare in Italia i bambini di peso superiore ai 13,5 kg. In Italia, infatti, ad oggi, la terapia di cui trattasi sarebbe interamente a carico del SSN nei casi di pazienti affetti da atrofia muscolare spinale diagnosticata entro i primi 6 mesi di vita, ovvero fino a 13,5 kg di peso, impedendo, quindi, ai pazienti affetti da tale malattia genetica, ma con un peso fino ai 21 kg, di poter ricevere gratuitamente la cura farmacologica in questione. Sarebbero proprio le restrizioni poste dall’AIFA alla prescrivibilità del farmaco a livello nazionale, rispetto a quanto stabilito dall’EMA, ad aver messo le Regioni nella necessità di dovere avviare percorsi alternativi, finalizzati a garantire l’accesso alla cura per i bambini affetti da SMA di tipo l e con peso superiore ai 13,5 kg. La resistente sostiene, in proposito, che anche la Regione Veneto, al pari della Regione Siciliana, avrebbe predisposto un provvedimento ad hoc, al fine di potere avviare specifici trattamenti per i bambini con SMA di tipo l, non in possesso dei criteri di eleggibilità previsti dall’AIFA. La norma censurata garantirebbe, in sostanza, equità di accesso alle cure per i cittadini italiani residenti in Sicilia rispetto a quelli residenti in altre Regioni e, anzi, proprio l’assenza di una tale previsione striderebbe con il diritto universale alle cure, stante la gravità della patologia e l’aspettativa di vita molto bassa dei piccoli pazienti che ne sono affetti. La deroga introdotta intenderebbe garantire una risposta assistenziale anche ai pazienti che, per sfortunate coincidenze temporali, non hanno avuto accesso alla terapia in argomento quando erano entro i parametri oggi previsti dall’AIFA, in tempi antecedenti l’autorizzazione concessa in ambito nazionale (formalizzata soltanto dal mese di marzo del 2021). A tal proposito, la difesa regionale riporta che dei sette pazienti individuati dal direttore dell’Unità operativa complessa di neurologia dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico di Messina – unico centro regionale autorizzato all’impiego del farmaco – soltanto uno è risultato in possesso dei requisiti previsti dalla norma regionale (peso fino a 21 kg) ed è stato sottoposto con successo alla terapia, là dove il mancato trattamento avrebbe potuto ulteriormente compromettere lo stato di salute del bambino. A proposito dello studio clinico indicato nel ricorso (studio SMART), che avrebbe condotto al citato accordo tra l’AIFA e l’azienda Novartis, evidenzia la difesa regionale che esso riguarderebbe il trattamento di pazienti affetti da forme di SMA differenti dalla SMA di tipo l, da cui invece sarebbero affetti tutti gli altri pazienti presenti nella suddetta struttura regionale, candidabili al trattamento ed in possesso dei requisiti previsti dall’AIFA per la prescrizione a carico del SSN, ad esclusione di uno. Auspica, infine, la Regione, che in futuro, i pazienti affetti da SMA di tipo l possano ricevere i trattamenti già autorizzati in via condizionata dall’EMA, mediante una corrispondente autorizzazione anche da parte dell’AIFA, eventualmente all’esito di maggiori dati clinici, così da non rendere più necessario ricorrere alla deroga di cui alla norma censurata. In ogni caso, in merito alla capacità dell’amministrazione regionale di preservare i futuri bilanci di esercizio da possibili elementi che ne compromettano l’equilibrio, alla luce delle valutazioni esposte e in virtù delle continue modifiche a livello regolatorio introdotte dall’AIFA, anche sotto il profilo dei costi rinegoziati centralmente per singolo trattamento, sulla base delle evidenze acquisite in materia (effettiva efficacia anche in una popolazione di pazienti differente da quella attualmente individuata e/o ampliamento dei pazienti trattati con simmetrica riduzione del prezzo negoziato), la difesa regionale sostiene che l’estensione di trattamento prevista sarebbe limitata alla misura indicata dalla norma, ossia euro 4,2 milioni, corrispondenti, stante l’attuale costo della terapia, a tre trattamenti per il singolo paziente al momento individuato. La difesa regionale, in ordine alla ritenuta violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), osserva che il richiamo ad essi sarebbe inconferente, in considerazione della competenza delle Regioni ad incrementare il livello di tutela rispetto a quello fissato dal legislatore statale. La Regione sostiene che le disposizioni impugnate sarebbero riconducibili ad ambiti che lo statuto speciale di autonomia riserva alla Regione Siciliana nelle materie di «assistenza sanitaria» e «assistenza sociale» (art. 17, comma 1, lettera c), e lettera f), del medesimo Statuto); ad ogni modo la norma impugnata rientrerebbe nella competenza di natura concorrente che l’art. 117, terzo comma, Cost. assegna alle Regioni nella materia «tutela della salute». Di contro, la norma censurata non potrebbe essere ricondotta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di LEA, ex art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., così come ritenuto dall’Avvocatura generale dello Stato. Pertanto, tenuto conto che le prestazioni attualmente assicurate dal servizio sanitario nazionale presentano livelli sicuramente inferiori a quelli previsti dalle disposizioni impugnate, ritiene la Regione che debba ritenersi sussistente la competenza legislativa della Regione Siciliana nella materia de qua. 7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 54, commi 2 e 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, in riferimento agli artt. 81, terzo comma, 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., nonché all’art. 17, comma 1, lettera c), dello statuto di autonomia. L’art. 54, rubricato «Istituzione dei Centri regionali di riferimento NIPT (Non Invasive Prenatal Test)» prevede che: «1. Al fine della tutela della salute delle donne in stato di gravidanza, l’Assessore regionale per la salute, con proprio decreto individua tre centri regionali di riferimento per le indagini genetiche, tra le strutture in possesso, alla data di entrata in vigore della presente legge, dei seguenti requisiti strutturali: a) presenza di un’unità operativa complessa di laboratorio per analisi patologiche che abbia effettuato nell’anno 2020, in media, almeno un milione di analisi totali; b) presenza di almeno un biologo molecolare in pianta organica; c) dotazione di macchinari e attrezzature adeguati per la tipizzazione delle cellule cromosomiche; d) esistenza di un punto nascita e/o di un centro di procreazione medicalmente assistita (PMA). 2. Le donne residenti nella Regione sono escluse dalla partecipazione al costo per l’accertamento di eventuali rischi procreativi attraverso lo screening prenatale per la diagnosi delle trisomie 13, 18 e 21 “Non Invasive Prenatal Test”, test del DNA fetale circolante su sangue materno, effettuato presso i centri regionali di cui al comma 1. 3. Al fine dell’adeguamento delle strutture e degli impianti tecnologici, operativi e strumentali finalizzato ad assicurare l’offerta dello screening prenatale di cui al comma 2, è autorizzata la spesa di 4.000 migliaia di euro cui si provvede a valere sul fondo sanitario regionale». Più precisamente, è impugnata la norma di cui al comma 2 dell’art. 54, che prevede, a favore delle assistite residenti in ambito regionale, l’esenzione dalla partecipazione al costo correlato ai predetti screening. È altresì impugnata la norma di cui al successivo comma 3, per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto, perché dispone la copertura esclusivamente dei costi per l’aggiornamento dei macchinari e delle apparecchiature di cui al comma 1, prevedendo a tale scopo di impiegare le risorse del fondo sanitario destinato ai LEA; in secondo luogo, sarebbero privi di copertura gli oneri derivanti dall’estensione dei cosiddetti NIPT test, poiché la norma non indicherebbe alcun mezzo con cui farvi fronte. Sostiene il ricorrente, in proposito, che le indagini genetiche indicate dalla disposizione in esame non sarebbero attualmente incluse nei livelli essenziali di assistenza e, conseguentemente, non potrebbero essere garantite dal Servizio sanitario nazionale. L’Avvocatura generale dello Stato deduce altresì che, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992, sarebbero a carico del SSN le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate, disponendo che siano esclusi dai livelli di assistenza erogati a carico del SSN le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che: a) non rispondono a necessità assistenziali tutelate in base ai principi ispiratori del SSN di cui al comma 2; b) non soddisfano i principi dell’efficacia e dell’appropriatezza, ovvero la cui efficacia non è dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili o sono utilizzati per soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate; c) in presenza di altre forme di assistenza volte a soddisfare le medesime esigenze, non soddisfano il principio dell’economicità nell’impiego delle risorse, ovvero non garantiscono un uso efficiente delle risorse quanto a modalità di organizzazione ed erogazione dell’assistenza. La definizione e l’aggiornamento dei LEA di cui al richiamato art. 1, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992, sarebbero stati da ultimo disposti dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) che, nel Capo VI dedicato all’«Assistenza specifica a particolari categorie», individuerebbe, all’Allegato 10/C, le «Condizioni di accesso alla diagnosi prenatale invasiva, in esclusione dalla quota di partecipazione al costo». Ebbene, l’Allegato 10/C non contemplerebbe i Non Invasive Prenatal Test-NIP (NIPT) tra i livelli essenziali di assistenza sanitaria per i quali è prevista la relativa esenzione. La previsione contenuta nel comma 2 della norma denunciata, dunque, integrerebbe un livello ulteriore di assistenza rispetto alla normativa statale interposta. Anche in questo caso, la disposizione impugnata violerebbe non soltanto la norma in precedenza richiamata, che stabilisce i termini e le condizioni per l’accollo al SSN del costo di prestazioni sanitarie, ma pure l’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, il quale vieterebbe alle Regioni, assoggettate, come la Regione Siciliana, a piano di rientro dal disavanzo sanitario, di effettuare spese non obbligatorie. Sono pertanto riproposte le medesime argomentazioni esposte in relazione alla norma di cui all’art. 41 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 7.1.– La difesa regionale sostiene la non fondatezza delle censure appuntate sull’art. 54, commi 2 e 3, proponendo la medesima argomentazione difensiva formulata nei confronti delle censure riferite agli artt. 53 e 55 e che prospetta, per relationem, in riferimento alle diverse impugnative. 8.– È impugnato l’art. 55 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, nonché in riferimento all’art. 17, comma 1, lettera c), dello statuto reg. Siciliana. Ai sensi del richiamato art. 55 (Terapia pazienti affette da endometriosi) «1. Al fine di garantire maggiore accessibilità alla terapia antidolorifica nelle pazienti affette da endometriosi, in ottemperanza a quanto stabilito dalle società scientifiche del settore, l’Assessore per la salute è autorizzato a consentire la prescrivibilità dei farmaci antinfiammatori non steroidei in fascia A in deroga ai vincoli previsti dalla nota AIFA 66 per tutte le pazienti in possesso del codice di esenzione 063. Ai relativi oneri nei limiti di un milione di euro si provvede a valere sulle risorse del capitolo 413374 (Missione 13, Programma 1, capitolo 413374)». Afferma il ricorrente che le malattie e le condizioni che danno diritto all’esenzione sarebbero individuate in base ai criteri dettati dal decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124 (Ridefinizione del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e del regime delle esenzioni, a norma dell’articolo 59, comma 50, della L. 27 dicembre 1997, n. 449). L’elenco delle malattie croniche esenti dalla partecipazione al costo delle prestazioni è stato ridefinito e aggiornato dal già richiamato d.P.C.m. 12 gennaio 2017 sui nuovi LEA, ed in specie dall’Allegato 8 ove, per l’appunto, è ricompresa l’esenzione in questione (con codice 063), ma tale esenzione – prevista a favore degli assistiti affetti da patologie croniche – sarebbe riferita esclusivamente alle prestazioni di specialistica ambulatoriale correlate e non si estenderebbe anche ai farmaci. A livello nazionale, infatti, i farmaci sarebbero classificati in fascia A, gratuiti per tutti gli assistiti, o in fascia C, completamente a carico degli assistiti. La norma regionale contenuta nell’art. 55, comma 2, consentirebbe a favore delle assistite, con esenzione per endometriosi, la prescrivibilità di alcuni farmaci in Fascia A «in deroga ai vincoli previsti dalla nota AIFA 66», la quale, nel prevedere le condizioni in cui la prescrizione dei farmaci antinfiammatori non steroidei sia a carico del SSN, non contempla, tra le patologie ammesse a tale regime, la malattia cronica in questione. Il comma 3 del menzionato articolo, inoltre, porrebbe il relativo onere a carico del fondo sanitario, come emergerebbe dal riferimento alla Missione 13, Programma 1, e al capitolo relativo al cofinanziamento regionale farmaci innovativi. Sostiene il ricorrente che tale fattispecie integrerebbe un livello ulteriore di assistenza (extra-LEA) rispetto alla normativa statale di riferimento, che la Regione Siciliana non potrebbe erogare, stante il divieto di spese non obbligatorie, in quanto soggetta al piano di rientro dal disavanzo sanitario. La disposizione impugnata violerebbe dunque la normativa statale che individua le malattie e le condizioni che danno diritto all’esenzione dalla spesa sanitaria (d.lgs. n. 124 del 1998 e d.P.C.m. 12 gennaio 2017), nonché l’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, il quale vieta alle Regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario di effettuare spese non obbligatorie, come appunto quella di cui si discute. La norma si porrebbe dunque in contrasto sia con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. – violando la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei LEA – sia con l’art. 117, terzo comma, Cost, per violazione dei principi fondamentali in materia coordinamento della finanza pubblica. Anche in questo caso, l’Avvocatura generale dello Stato deduce altresì la violazione delle competenze affidate alla Regione dallo statuto di autonomia, il quale, pur conferendo all’Assemblea regionale il potere di emanare leggi «al fine di soddisfare alle condizioni particolari ed agli interessi propri della regione» anche in materia di assistenza sanitaria (art. 17, comma 1, lettera c), prevede tuttavia che tale potere debba essere esercitato «entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato», in cui si includerebbero i principi fondamentali stabiliti dallo Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento della spesa pubblica sanitaria. 8.1.– In proposito, la difesa regionale eccepisce la non fondatezza dei motivi di gravame, ritenendo che le norme regionali de quibus non sembrerebbero distrarre indebitamente risorse dal fondo sanitario regionale, e ribadisce quanto già affermato per la precedente censura in ordine alla competenza delle Regioni ad incrementare i livelli delle prestazioni. 9.– L’impugnativa statale si appunta anche sull’art. 56 della menzionata legge regionale, il quale violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., nelle materie «coordinamento della finanza pubblica» e «tutela della salute». Stabilisce l’impugnato art. 56 (Contributo REMESA per la prevenzione di malattie zoonotiche) che: «1. Al fine di adottare politiche di prevenzione dei rischi epidemici dovuti all’emergere nel territorio regionale di patologie animali e zoonotiche provenienti dall’area nordafricana ed al riemergere di patologie ritenute eradicate nel territorio regionale, è assegnato a REMESA (Rete Mediterranea per la Salute degli Animali), ufficio costituito presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità animale e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, un contributo pari a 250 migliaia di euro, per l’esercizio finanziario 2021, per lo svolgimento dell’attività istituzionale. Agli oneri derivanti dal presente articolo si provvede nell’ambito delle risorse destinate al finanziamento dell’Istituto zooprofilattico sperimentale. Il contributo va dettagliatamente rendicontato con la specifica individuazione della spesa e relativa tracciabilità». Il ricorrente lamenta che l’art. 56 della richiamata legge regionale riconoscerebbe un contributo alla sede di Palermo del REMESA, denominato Scientifìc and Technical Office of REMESA (STOR), impiegando risorse destinate all’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia. Il REMESA, ente istituito sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE) e dell’Organizzazione mondiale dell’alimentazione e dell’agricoltura (FAO), al fine di cooperare allo sviluppo e all’implementazione di progetti e programmi riguardanti terni relativi alla salute animale di comune interesse dei Paesi mediterranei aderenti, comprende i Capi dei servizi veterinari di 15 Paesi del Mediterraneo, con obiettivi e finalità che, però, sarebbero diverse da quelle perseguite dall’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia. Lo STOR di Palermo, istituito con una risoluzione votata nel corso della diciottesima riunione del Joint Permanent Commitee (JPC) del REMESA tenutasi nei giorni 26 e 27 giugno 2019 al Cairo, sarebbe nato per fornire supporto scientifico alla rete REMESA in coordinamento con il Segretariato OIE/FAO, con specifiche finalità, tra cui: operare come sede amministrativo-logistica della rete; agevolare la comunicazione e il contatto tra ricercatori ed esperti afferenti la rete REMESA; assistere i Paesi per ottenere fondi per lo sviluppo di progetti e attività analoghe di carattere internazionale. Per le richiamate attività istituzionali, nel marzo del 2021, l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia aveva già presentato un progetto all’OIE, con una richiesta di finanziamento per la stessa cifra (pari a euro 250.000,00) oggi indicata dalla norma regionale denunciata. Ai sensi dell’art. 12, comma 2, lettera a), punto 4), del d.lgs. n. 502 del 1992, «[u]na quota pari all’1% del Fondo sanitario nazionale complessivo, prelevata dalla quota iscritta nel bilancio del Ministero del tesoro e del Ministero del bilancio per le parti di rispettiva competenza, è trasferita nei capitoli da istituire nello stato di previsione del Ministero della sanità ed utilizzata per il finanziamento di a) attività di ricerca corrente e finalizzata svolta da: […] istituti zooprofilattici sperimentali per le problematiche relative all’igiene e sanità pubblica veterinaria». Ai sensi del successivo comma 3 «[i]l Fondo sanitario nazionale, al netto della quota individuata dal comma precedente, è ripartito con riferimento al triennio successivo entro il 15 ottobre di ciascun anno, in coerenza con le previsioni del disegno di legge finanziaria per l’anno successivo, dal CIPE, su proposta del Ministero della sanità, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome; la quota capitaria di finanziamento da assicurare alle regioni viene determinata sulla base di un sistema di coefficienti parametrici, in relazione ai livelli uniformi di prestazioni sanitarie in tutto il territorio nazionale, determinati ai sensi dell’articolo 1, con riferimento ai seguenti elementi». La Tabella B della delibera CIPE 14 maggio 2020, n. 20 prevede per il finanziamento dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Regione Siciliana l’importo di euro 22.236.637. L’Avvocatura generale dello Stato deduce, pertanto, che il finanziamento previsto dalla norma regionale impugnata non potrebbe essere decurtato dalle risorse del Fondo sanitario nazionale, già destinate, per la quota spettante, al funzionamento e alle funzioni istituzionali ordinarie dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia, così come individuate dalla delibera CIPE «Fondo sanitario nazionale - Riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale», ai sensi dell’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 (Tabella B - delibera CIPE 14 maggio 2020, n. 20). Afferma il ricorrente che la norma in esame, indebitamente distraendo risorse del Fondo sanitario nazionale, si porrebbe in contrasto con la norma interposta sopra richiamata e, di conseguenza, con l’art. 117, terzo comma, Cost., violando principi fondamentali stabiliti sia in materia di coordinamento della finanza pubblica, sia in materia di tutela della salute. 9.1.– La difesa regionale, al riguardo, eccepisce la non fondatezza dei motivi di ricorso, affermando che le norme regionali impugnate non distrarrebbero indebitamente risorse dal Fondo sanitario nazionale, in relazione alla norma interposta di cui all’articolo 12, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992. 10.– È, infine, impugnato l’art. 57 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, in riferimento agli artt. 118, primo comma, Cost. in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost. L’art. 57, rubricato «Avvio progetti per la fornitura di cannabis terapeutica» prevede al comma 1 che «[a]l fine di sopperire alle richieste derivanti dal rapporto di fabbisogno accertato dalle autorità sanitarie nazionali di produzione di “cannabis terapeutica”, l’Assessorato regionale dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea è autorizzato, anche tramite i propri enti strumentali, all’avvio di progetti innovativi pure nelle forme del partenariato con le società presenti sul territorio nazionale, finalizzati ad avviare le procedure previste dall’articolo 17, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90». Riporta il ricorrente che ai sensi dell’art. 17, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) «[c]hiunque intenda coltivare, produrre, fabbricare, impiegare, importare, esportare, ricevere per transito, commerciare a qualsiasi titolo o comunque detenere per il commercio sostanze stupefacenti o psicotrope, comprese nelle tabelle di cui all’articolo 14 deve munirsi dell’autorizzazione del Ministero della sanità». Il successivo art. 26 dispone che «è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nella tabella I e II di cui all’articolo 14» tuttavia «il Ministro della Sanità può autorizzare istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, alla coltivazione delle piante sopra indicate per scopi scientifici, sperimentali o didattici». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le competenze amministrative del Ministero della salute nella materia sarebbero state ulteriormente precisate dal decreto del ministro della salute 9 novembre 2015 (Funzioni di Organismo statale per la cannabis previsto dagli articoli 23 e 28 della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, come modificata nel 1972). In particolare, l’art. 1, nell’indicare le funzioni del Ministero della salute in qualità di Organismo statale per la cannabis, prevede che esso «a) autorizza la coltivazione delle piante di cannabis da utilizzare per la produzione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis […]; b) individua le aree destinate alla suddetta coltivazione […]; c) importa, esporta e distribuisce sul territorio nazionale, ovvero autorizza l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale a base di cannabis […]; d) provvede alla determinazione delle quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di cannabis sulla base delle richieste delle Regioni e delle Province Autonome e ne informa l’International Narcotics Control Board (INCB) presso le Nazioni Unite». Sostiene il ricorrente che le autorizzazioni alla sperimentazione, nell’ambito di progetti che comportino anche indirettamente un utilizzo delle piante sopra richiamate, devono essere rilasciate preventivamente dal Ministero della salute. La norma regionale impugnata, nel prevedere che l’Assessorato regionale è autorizzato all’avvio di progetti innovativi a loro volta finalizzati ad avviare le procedure per l’esercizio – che dovrebbe essere necessariamente autorizzato dal Ministero della salute – delle attività di cui all’art. 17, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, determinerebbe una commistione tra le funzioni dell’Assessorato regionale dell’agricoltura siciliano e quelle amministrative proprie del Ministero della salute, con possibili ripercussioni sull’effettiva capacità del sistema di assicurare un adeguato ed uniforme livello di garanzie al fondamentale diritto alla tutela della salute presidiato dall’art. 32 Cost. Ed invero, l’attribuzione al livello statale delle descritte funzioni amministrative troverebbe giustificazione in precise esigenze di tutela della salute che, per loro natura e perché siano assicurate uniformemente su tutto il territorio nazionale, richiedono un esercizio unitario secondo il principio di adeguatezza di cui all’art. 118 Cost. (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 12 del 2004 e n. 303 del 2003). La norma denunciata si porrebbe, pertanto, in contrasto con l’art. 118, primo comma, Cost. in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost. 10.1.– La difesa regionale sostiene la non fondatezza del motivo di impugnazione, sostenendo che la norma regionale non determinerebbe alcuna commistione tra le funzioni dell’Assessorato regionale siciliano dell’agricoltura e quelle amministrative proprie del Ministero della salute, senza ripercussioni sul fronte degli adeguati ed uniformi livelli di garanzia del diritto della tutela della salute, di cui all’art. 32 Cost. 11.– Con ricorso iscritto al registro generale n. 8 del 2022 il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 il quale stabilisce «1. Per il rilancio dell’economia della Sicilia mediante il ripristino dei flussi turistici post pandemia Covid, al fine di assicurare la fruizione dei luoghi della cultura, ai sensi dell’articolo 9, comma 7, lettera e) del CCRL vigente è autorizzata per l’esercizio finanziario 2021 l’ulteriore spesa per il trattamento accessorio del personale a tempo indeterminato utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pari a complessivi euro 1.061.600,00, di cui euro 193.600,00 quali oneri sociali a carico dell’amministrazione regionale ed euro 68.000,00 quale imposta regionale sulle attività produttive (I.R.A.P.) da versare (Missione 5, programma 2). 2. Agli oneri di cui al presente articolo si fa fronte mediante corrispondente riduzione della Missione 9, programma 5, capitolo 150032». Afferma il ricorrente che la norma impugnata autorizzando, per l’esercizio finanziario 2021, un’ulteriore spesa per il trattamento accessorio del personale utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura ponendosi, in primo luogo, si porrebbe in contrasto con il divieto previsto dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», in ordine al superamento del limite dell’ammontare complessivo, riferito all’anno 2016, delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche. Rappresenta il ricorrente che la riduzione del trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, costituisce una delle condizioni contenute nel «Piano di rientro della Regione Siciliana del disavanzo in attuazione dell’Accordo Stato-Regione sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Siciliana il 14 gennaio 2021» (quest’ultimo denominato «Accordo tra Stato e Regione Siciliana per il Ripiano decennale del disavanzo»). La disposizione regionale in esame, prevedendo di destinare un maggiore importo per il trattamento accessorio del personale a tempo indeterminato utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pari a complessivi euro 1.061.600,00, oltre a costituire un’ingiustificata violazione del precetto normativo imposto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, pregiudicherebbe il raggiungimento dell’obiettivo di rientro previsto nel Piano che, ai sensi dell’art. 6 della legge reg. Siciliana n. 10 del 2021, in attuazione dell’art. 7 del decreto legislativo 27 dicembre 2019, n. 158 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Siciliana in materia di armonizzazione dei sistemi contabili, dei conti giudiziali e dei controlli), costituisce allegato alla legge di approvazione del bilancio di previsione. Conseguentemente, asserisce il ricorrente, la norma regionale si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentai nella materia «coordinamento della finanza pubblica», proprio in relazione alla norma interposta di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2019, confliggendo anche con l’art. 81 Cost. e con le norme fondamentali e i criteri stabiliti dalla legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), in particolare con l’art. 9 di detta legge, considerato anch’esso quale principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (sono citate le sentenze di questa Corte n. 221 del 2013, n. 217 e n. 215 del 2012). Peraltro, afferma l’Avvocatura generale, qualora i maggiori oneri previsti dalla norma impugnata si riferissero a un aumento della retribuzione di posizione e di risultato del personale con qualifica dirigenziale, essa si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia «ordinamento civile», disponendo in una materia – quella del trattamento economico accessorio del personale, anche dirigenziale, alle dipendenze di pubbliche amministrazioni – che, in base alle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, è demandata alla contrattazione collettiva. 11.1.– La difesa regionale ritiene le censure inammissibili e, comunque, non fondate. Sostiene la Regione che il legislatore regionale, al fine di assicurare la fruizione dei luoghi della cultura e per consentire la ripresa economica locale dopo la crisi determinata dalla pandemia da COVID-19, avrebbe autorizzato per l’esercizio finanziario 2021 l’ulteriore spesa per la remunerazione di lavoratori che, su base volontaria, si fossero resi disponibili a fornire la propria prestazione lavorativa nell’ambito di quanto previsto dalla contrattazione collettiva decentrata integrativa. La norma censurata non sarebbe in contrasto con i principi di coordinamento della finanza pubblica in quanto per le autonomie speciali la definizione dell’importo annuo del concorso agli obiettivi della finanza pubblica renderebbe non direttamente applicabili alla Regione le disposizioni statali integranti principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017. Evidenzia altresì che la norma impugnata non riguarderebbe il trattamento economico del personale dirigenziale, pertanto, sarebbe inammissibile la censura inerente alla violazione della riserva di potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile» lamentata nel ricorso. La norma censurata non eccederebbe dalle competenze legislative attribuite alla Regione Siciliana dallo statuto speciale, in quanto si limiterebbe a finanziare la spesa per una specifica categoria del personale regionale secondo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva di comparto. Considerato in diritto 1.– Con ricorso depositato il 30 giugno 2021 e iscritto al registro ricorsi n. 33 del 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 32, 81, terzo comma, 117, commi secondo, lettere e), l) e m), e terzo, e 118, primo comma, della Costituzione, nonché agli artt. 14, lettera q), e 17, comma 1, lettera c), di cui al regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera f), 14, 36, 41, comma 3, 50, 53, 54, commi 2 e 3, 55, 56 e 57 della legge della Regione Siciliana 15 aprile 2021, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2021. Legge di stabilità regionale). Con ricorso depositato il 1° febbraio 2022 e iscritto al registro ricorsi n. 8 del 2022 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 26 novembre 2021, n. 29 (Modifiche alla legge regionale 15 aprile 2021, n. 9. Disposizioni varie). L’art. 4, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 modifica l’art. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 impugnato con il ricorso n. 33 del 2021. Con atto del 27 maggio 2022 la difesa regionale, prendendo atto della nota 25 maggio 2022, n. 15563, con la quale l’Assessorato regionale della famiglia, delle politiche sociali e del lavoro ha chiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento affari regionali (DAR), il rinvio delle udienze fissate per il 7 giugno 2022, limitatamente agli artt. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 e 4, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021, in quanto è intendimento del Governo regionale apportare modifiche alle norme impugnate – di raccordo con lo stesso Dipartimento statale – che siano satisfattive delle ragioni del Governo nazionale, ha presentato istanza di rinvio dell’udienza fissata per il 7 giugno 2022, limitatamente ai predetti articoli. Il ricorrente, con atto depositato il 30 maggio 2022, ha aderito all’istanza di rinvio presentata dalla Regione e il Presidente della Corte costituzionale, con decreto del 1° giugno 2022, ha disposto il rinvio a nuovo ruolo la discussione dei giudizi di cui all’art. 36 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 (ricorso iscritto al n. 33 del reg. ric. 2021) e dell’art. 4, comma l, della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 (ricorso iscritto al n. 8 del reg. ric. 2022). Alla luce di quanto esposto, considerata l’evidente connessione, vanno pertanto riuniti i giudizi inerenti ai ricorsi presentati dal Presidente del Consiglio dei ministri. 2.– Preliminarmente, occorre evidenziare che, con atto depositato il 20 maggio 2022, lo Stato ha annunciato la rinuncia al ricorso limitatamente all’impugnazione dell’art. 41, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, giusta delibera adottata dal Consiglio dei Ministri in data 17 maggio 2022. La difesa regionale ha accettato la rinuncia con atto depositato il successivo 26 maggio. Pertanto, in armonia con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale, va dichiarata l’estinzione del processo relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, ai sensi dell’art. 23 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis (ex plurimis, sentenze n. 123 e n. 114 del 2022, n. 199 e n. 63 del 2020; ordinanza n. 23 del 2020). 3.– Occorre dunque esaminare in questa sede le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera f), 14, 50, 53, 54, commi 2 e 3, 55, 56 e 57 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 e 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021. 4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 5, comma 1, lettera f), della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, che modifica l’art. 55 della legge della Regione Siciliana 7 maggio 2015, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale) e successive modificazioni, aggiungendo, dopo il comma 7, il comma 7-bis. La disposizione impugnata stabilisce: «[a]l personale del comparto in servizio a tempo indeterminato e determinato presso l’ufficio speciale - C.U.C., oltre al trattamento accessorio di cui al comma 7 dell’articolo 16 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10 e successive modificazioni è riconosciuta, a valere sul Fondo istituito con Delib. G.R. n. 387 del 24 novembre 2004, una retribuzione annua sostitutiva dei premi di cui al comma 4 dell’articolo 90 del CCRL vigente, nelle misure riconosciute dall’articolo 94 del CCRL vigente al personale del comparto in servizio presso l’UREGA. Trova, altresì, applicazione il comma 2 dell’articolo 94 del CCRL vigente». Ad avviso del ricorrente tale disposizione, nel derogare al principio che riserva alla contrattazione collettiva il trattamento economico del personale pubblico contrattualizzato, desumibile dagli artt. 2, comma 3, e 45, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina della materia «ordinamento civile». Il ricorrente afferma che, a seguito della contrattualizzazione del pubblico impiego, i principi generali fissati dalla legge statale nella materia costituiscono limiti di diritto privato fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati. Tali principi si imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 16 del 2020 e n. 154 del 2019). In particolare, per quanto attiene alla Regione Siciliana, l’applicazione dei predetti principi non sarebbe preclusa dalla previsione contenuta nell’art. 14, lettera q), dello statuto speciale che, pur attribuendo alla competenza legislativa esclusiva della Regione la disciplina dello stato giuridico ed economico dei dipendenti regionali, incontrerebbe – in virtù di quanto previsto dallo stesso statuto di autonomia – i limiti derivanti dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (è citata la sentenza di questa Corte n. 172 del 2018) che, in quanto tali, si impongono anche alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni autonome (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 93 del 2019, n. 201 e n. 178 del 2018). 4.1.– La questione è fondata per i motivi di seguito indicati. La disciplina del pubblico impiego, originariamente contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1957, n. 3 (Testo unico degli impiegati civili dello Stato), stabiliva che il rapporto di lavoro pubblico era costituito e gestito per atto unilaterale della pubblica amministrazione quale esercizio di un potere pubblico. In seguito, il legislatore ha avviato una profonda riforma del pubblico impiego finalizzata ad accrescere l’efficienza delle amministrazioni anche in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea, a razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, a realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, assicurando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato e garantendo pari opportunità alle lavoratrici e ai lavoratori. L’art 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che il trattamento economico fondamentale e accessorio è definito dai contratti collettivi, i quali stabiliscono, in coerenza con le disposizioni legislative vigenti, trattamenti economici accessori collegati: a) alla performance individuale; b) alla performance organizzativa con riferimento all’amministrazione nel suo complesso e alle unità organizzative o aree di responsabilità in cui si articola l’amministrazione; c) all’effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per la salute. Il predetto art. 45 stabilisce, in sostanza, che per l’erogazione del salario accessorio, al fine di premiare il merito e la performance dei dipendenti, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, sono destinate apposite risorse nell’ambito di quelle previste per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro. La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici rientra nella materia «ordinamento civile», attribuita in via esclusiva al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sentenze n. 146, n. 138 e n. 10 del 2019). Ciò comporta che le Regioni non possono alterare le regole che disciplinano tali rapporti privati (ex multis, sentenza n. 282 del 2004). Questa Corte ha inoltre ribadito, anche recentemente, che «“[l]a materia dell’ordinamento civile, riservata in via esclusiva al legislatore statale, investe la disciplina del trattamento economico e giuridico dei dipendenti pubblici e ricomprende tutte le disposizioni che incidono sulla regolazione del rapporto di lavoro (ex plurimis, sentenze n. 175 e n. 72 del 2017, n. 257 del 2016, n. 180 del 2015, n. 269, n. 211 e n. 17 del 2014)” (sentenza n. 257 del 2020)» (sentenza n. 25 del 2021). La giurisprudenza costituzionale è, altresì, costante nell’affermare che i principi desumibili dal d.lgs. n. 165 del 2001 costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica. I principi desumibili da tali norme si impongono, proprio in ragione della loro rilevanza economico-sociale, anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano (in tal senso, sentenze n. 93 del 2019, n. 201 e n. 178 del 2018). Con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro pubblico e alla loro contrattualizzazione, è stato affermato da questa Corte che «i principi fissati dalla legge statale in materia “costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si impongono anche alle Regioni a statuto speciale […]”» (sentenza n. 154 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 232 e n. 81 del 2019, n. 234 del 2017, n. 225 e n. 77 del 2013). Sul punto non può essere condivisa la tesi secondo cui, in forza dell’art. 14, lettera q), dello statuto, che le attribuisce la competenza legislativa esclusiva in materia di stato giuridico ed economico del proprio personale, la Regione Siciliana sarebbe legittimata ad adottare la disposizione impugnata. Al contrario, la competenza regionale incontra, secondo quanto previsto dallo stesso statuto siciliano, i limiti assimilati a quelli derivanti dalle norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica (così, tra l’altro, sentenza n. 172 del 2018) e, conseguentemente, quelli specificati dalle norme interposte. La disposizione regionale, contrariamente a quanto ritiene la Regione Siciliana, interviene attribuendo indebitamente in via unilaterale al personale regionale, in servizio a tempo indeterminato e determinato presso l’ufficio speciale Centrale unica di committenza (CUC), una competenza economica in sostituzione dei premi previsti dal comma 4 dell’art. 90 del contratto collettivo regionale di lavoro (CCRL) vigente. Viene in tal modo sottratta la relativa regolamentazione alla negoziazione con le parti interessate, prerogativa riservata dalla legge statale alla contrattazione collettiva. Ne consegue l’invasione della competenza legislativa dello Stato nella materia «ordinamento civile». Anche le provvidenze accessorie – previste dall’articolo 94 del CCRL per il personale del comparto in servizio presso l’Ufficio regionale per l’espletamento di gara per l’appalto di lavori pubblici (UREGA) – che la Regione attribuisce con disposizione legislativa al personale in servizio presso l’Ufficio CUC sono riservate alla contrattazione tra le parti e, pertanto, esse non possono essere oggetto di normazione regionale. Dal che l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera f), della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, altresì, impugnato l’art. 14 della 1egge reg. Siciliana n. 9 del 2021. L’art. 14 della 1egge reg. Siciliana n. 9 del 2021 stabilisce che «1. Al personale già trasferito all’Agenzia regionale di cui all’articolo 7 della legge regionale 22 dicembre 2005, n. 19 e successive modificazioni, per mobilità e transitato nei ruoli dell’Amministrazione regionale in applicazione dell’articolo 9, comma 2, della legge regionale 16 dicembre 2008, n. 19 e successive modificazioni è riconosciuta, con effetti economici decorrenti dal 1° gennaio 2021, l’anzianità di servizio prestato presso le amministrazioni di provenienza. Tale servizio è equiparato a servizio prestato presso l’amministrazione regionale. 2. Per le finalità di cui al comma 1 è autorizzata, per gli esercizi finanziari 2021, 2022 e 2023, la spesa annua di euro 497.242,00 (Missione 1, Programma 10, capitolo 10815 7). A decorrere dall’esercizio finanziario 2024 si provvede ai sensi del comma 1 dell’articolo 38 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118». La disposizione in esame contrasterebbe con l’art. 38, comma 1, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42) in quanto, in difformità dal disposto del predetto art. 38, non provvederebbe ad indicare l’onere a regime derivante dall’applicazione del comma 1 dell’art. 14 ma rinvierebbe la quantificazione dell’onere annuo alla legge di bilancio. La violazione della norma interposta determinerebbe la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici». La normativa impugnata violerebbe, inoltre, il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., principio direttamente applicabile anche alle Regioni autonome in quanto rientrante fra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico costituzionale. Difatti, essa consentirebbe agli ex dipendenti dell’Agenzia regionale rifiuti e acque della Sicilia (ARRA) il riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata prima di essere assunti presso la predetta Agenzia, a prescindere dalla natura giuridica pubblica o privata dell’originario datore di lavoro e dai servizi concretamente prestati presso di esso e anche ai fini delle progressioni economiche orizzontali, introducendo, rispetto alla disciplina generale della mobilità nel pubblico impiego, un regime di favore per il suddetto personale rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici, ivi inclusi gli altri dipendenti regionali. Infine, la disposizione impugnata violerebbe il principio di cui agli artt. 2, comma 3, e 45, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che riserva alla contrattazione collettiva il trattamento economico del personale pubblico contrattualizzato, riconoscendo agli ex dipendenti dell’ARRA un miglioramento del trattamento economico fondamentale e accessorio non contemplato dalla contrattazione collettiva. Il contrasto con le norme interposte produrrebbe la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Il rimettente ritiene che l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata non possa essere esclusa dalla previsione di cui all’art. 14, lettera q), dello statuto di autonomia, giacché la competenza legislativa esclusiva ivi prevista in materia di stato giuridico ed economico del personale regionale incontrerebbe i limiti derivanti dalle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, quali sono, appunto, i principi ricavabili dal testo unico del pubblico impiego. 5.1. – La questione è fondata per i motivi di seguito indicati. La disposizione in esame è in contrasto con l’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 118 del 2011 perché, in difformità da quanto previsto dalla predetta norma, non indica l’onere a regime derivante dall’impugnato art. 14, rinviandone invece la quantificazione alla legge di bilancio. La violazione della norma interposta determina la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici». Essa, infatti prevede, per il personale già trasferito all’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque e transitato nei ruoli dell’Amministrazione regionale, il riconoscimento dell’anzianità di servizio prestato presso le amministrazioni di provenienza. Tale servizio viene così equiparato a quello prestato presso l’amministrazione regionale con effetti economici decorrenti dal 1° gennaio 2021. In violazione del principio di copertura della spesa, il comma 2 – per gli anni dal 2021 al 2023 – autorizza una spesa annuale di euro 497.242,00 e, con decorrenza dall’esercizio finanziario 2024, stabilisce che «si provvede ai sensi del comma 1 dell’articolo 38 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118». Così disponendo, la norma entra in contraddizione con il richiamato art. 38 del d.lgs. n. 118 del 2011. Questa Corte è ferma nel ritenere che il parametro dell’armonizzazione dei bilanci «per effetto delle strette interrelazioni tra i principi costituzionali […] è servente al coordinamento della finanza pubblica, dal momento che la sincronia delle procedure di bilancio è collegata alla programmazione finanziaria statale e alla redazione della manovra di stabilità, operazioni che presuppongono da parte dello Stato la previa conoscenza di tutti i fattori che incidono sugli equilibri complessivi e sul rispetto dei vincoli nazionali ed europei» (sentenza n. 184 del 2016). Secondo la richiamata giurisprudenza costituzionale, la mancata considerazione degli oneri a regime vale a rendere la legge costituzionalmente illegittima per mancanza di copertura non soltanto se si tratta di spese obbligatorie, ma anche se si tratta di oneri solo “ipotetici”. In proposito, questa Corte ha osservato che «ogniqualvolta si introduca una previsione legislativa che possa, anche solo in via ipotetica, determinare nuove spese, occorr[e] sempre indicare i mezzi per farvi fronte» (ex multis, sentenze n. 163 del 2020 e n. 307 del 2013). In tal senso, già l’art. 19 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) stabilisce che le leggi e i provvedimenti che comportano oneri, anche sotto forma di minori entrate, a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche devono contenere la previsione dell’onere stesso e l’indicazione della copertura finanziaria riferita ai relativi bilanci, annuali e pluriennali. Anche le autonomie speciali sono tenute, difatti, a indicare la copertura finanziaria delle leggi che prevedono nuovi o maggiori oneri a carico della loro finanza e della finanza di altre amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 81, terzo comma, Cost. 5.2.– Restano assorbiti gli ulteriori motivi proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri. 6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, inoltre, impugnato l’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 in riferimento agli artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva statale nella materia «ordinamento civile» e agli artt. 14, lettera q), e 17, comma 1, lettera f), dello statuto della Regione Siciliana. La disposizione impugnata prevede che «1. Entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, le Aziende del Servizio Sanitario Regionale e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia procedono ad incrementare le ore di incarico a tempo indeterminato a ciascun medico veterinario specialista ambulatoriale interno, già titolare di incarico da almeno 5 anni, per il raggiungimento di almeno trenta ore di incarico settimanali per medico-veterinario. 2. Gli incrementi di orario eccedenti la quota di almeno trenta ore settimanali di cui al comma 1 devono essere motivati e autorizzati dall’Assessorato regionale della Salute, sulla base di una preventiva ricognizione del fabbisogno delle prestazioni e delle attività programmate o programmabili, relative alla specialistica ambulatoriale veterinaria, presso ciascuna Azienda sanitaria provinciale e presso la sede dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia e possono essere attribuiti nel rispetto del vincolo dell’equilibrio economico del bilancio aziendale.3. I direttori generali delle Aziende sanitarie provinciali e dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale della Sicilia sulla base delle criticità riscontrate e della programmazione delle attività, compatibilmente con il titolo di specializzazione di cui all’allegato 2 dell’Accordo Collettivo Nazionale del 31 marzo 2020, in possesso di ogni medico veterinario specialista e sulla base dei criteri di valutazione, di cui all’articolo 21 comma 3, del citato Accordo Collettivo Nazionale, possono disporre una sola volta il passaggio dell’intero effettivo delle ore di incarico a branche diverse, allo scopo di ottimizzare e concentrare le risorse sulle attività prioritarie, previa formale accettazione degli interessati. 4. In caso di transito da una branca all’altra, allo specialista è riconosciuta l’anzianità di servizio già maturata. Al fine di garantire l’appropriatezza delle prestazioni, il transito ad altra branca potrà avvenire a seguito di un adeguato periodo di affiancamento. 5. Gli oneri derivanti dall’applicazione del presente articolo, quantificati in euro 7.883.103 su base annua, trovano copertura sui fondi del servizio sanitario regionale, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale». Secondo il ricorrente, la disposizione in esame introdurrebbe una disciplina incompatibile con l’Accordo collettivo nazionale del 31 marzo 2020, che – in attuazione dell’art. 8 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) – disciplina puntualmente l’incremento orario degli specialisti ambulatoriali. Ciò comporterebbe anche la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una irragionevole disparità di trattamento tra gli specialisti ambulatoriali che prestano servizio nella Regione Siciliana e coloro che invece operano nella restante parte del territorio nazionale. La disposizione censurata, peraltro, non troverebbe alcuna giustificazione nelle norme statutarie della Regione Siciliana, in quanto essa non rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 14, lettera q), intervenendo sul rapporto di lavoro di soggetti che non sono dipendenti della Regione. Altresì non fondato sarebbe il riferimento all’art. 17, lettera f), dello statuto, il quale prevede che la disciplina dei rapporti di lavoro può essere regolata dalla legislazione regionale «[e]ntro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato». 6.1.– La questione è fondata per i motivi di seguito indicati. La disposizione regionale impugnata prevede opzioni incompatibili con l’Accordo collettivo nazionale 31 marzo 2020, il quale disciplina i rapporti con specialisti ambulatoriali interni, veterinari e altre professionalità sanitarie (biologi, chimici, psicologi) ambulatoriali, nel rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità che devono caratterizzare l’espletamento di questi servizi pubblici di rilevanza primaria. Dalla lettura della norma contrattuale si evince come, in relazione alle disponibilità, l’azienda deve individuare l’avente diritto all’incremento orario nel rigoroso rispetto dei soli criteri dell’Accordo, che non possono essere modificati con legge regionale. La disposizione impugnata prevede, invece, il requisito della previa titolarità di incarico quinquennale, del tutto assente nell’Accordo. Nel caso di specie, quindi, il legislatore regionale ha esercitato una competenza non propria, introducendo una norma incompatibile con l’art. 8 del d.lgs. n. 502 del 1992, che rimette all’Accordo collettivo nazionale la disciplina dell’incremento orario degli specialisti ambulatoriali. Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che «[l]a disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici rientra, infatti, nella materia “ordinamento civile” e spetta in via esclusiva al legislatore nazionale; invero, a seguito della privatizzazione, tale rapporto è disciplinato dalle disposizioni del codice civile e dalla specifica contrattazione collettiva, espressamente regolata dall’art. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) [... ] Pertanto, la legge impugnata vìola la sfera di competenza statale, che riserva alla contrattazione collettiva la disciplina del pubblico impiego» (sentenza n. 10 del 2019). Il legislatore regionale ha quindi esercitato una competenza nella materia «ordinamento civile» riservata in via esclusiva al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Non rileva, infatti, che l’art. 14, lettera q), dello statuto regionale assegni alla Regione Siciliana la competenza legislativa sullo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari regionali perché è evidente che tale prerogativa deve essere rispettosa del quadro normativo statale. Pertanto l’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 è costituzionalmente illegittimo. 6.2.– Restano assorbiti gli ulteriori motivi proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri. 7.– Le questioni sugli artt. 53, 54, commi 2 e 3, e 55 riguardano la lesione della competenza statale a determinare i livelli essenziali di assistenza (LEA) ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di coordinamento della finanza pubblica, in relazione all’art. 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», e successive modificazioni e integrazioni, che dispone il divieto di effettuare spese extra LEA per le Regioni in piano di rientro; dell’art. 81, terzo comma, Cost., posto che le spese in violazione dei richiamati parametri si riverbererebbero sulla copertura delle spese per le funzioni essenziali; nonché dell’art. 17, comma 1, lettera c), dello statuto siciliano, ai sensi del quale l’esercizio della competenza della Regione Siciliana dovrebbe comunque avvenire nel rispetto dei principi e degli interessi generali stabiliti dalla legge dello Stato. 7.1.– È, in via preliminare, opportuno ripercorrere, seppure in modo sintetico, le coordinate fondamentali in cui si esercitano le citate competenze. Questa Corte ha costantemente affermato che «l’intreccio tra profili costituzionali e organizzativi comporta che la funzione sanitaria pubblica venga esercitata su due livelli di governo: quello statale, il quale definisce le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire ai cittadini – cioè i livelli essenziali di assistenza – e l’ammontare complessivo delle risorse economiche necessarie al loro finanziamento; quello regionale, cui pertiene il compito di organizzare sul territorio il rispettivo servizio e garantire l’erogazione delle prestazioni nel rispetto degli standard costituzionalmente conformi. La presenza di due livelli di governo rende necessaria la definizione di un sistema di regole che ne disciplini i rapporti di collaborazione, nel rispetto delle reciproche competenze. Ciò al fine di realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini coerentemente con le regole di bilancio, le quali prevedono la separazione dei costi “necessari”, inerenti alla prestazione dei LEA, dalle altre spese sanitarie, assoggettate invece al principio della sostenibilità economica» (sentenza n. 62 del 2020), secondo quanto stabilito dall’art. 20 del d.lgs. n. 118 del 2011. Pertanto, se è vero che la determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, «la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività» (sentenza n. 62 del 2020). La competenza esclusiva dello Stato di determinazione dei livelli essenziali non preclude, dunque, alle Regioni di erogare livelli di tutela più elevati, ossia ulteriori, rispetto a quelli da esso stabiliti, purché le risorse a ciò destinate ricevano una evidenziazione distinta rispetto a quelle afferenti ai LEA. La facoltà di erogare livelli ulteriori rispetto ai LEA è, invece, preclusa alle Regioni sottoposte a piano di rientro, poiché – ai sensi dell’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004 – queste ultime non possono erogare prestazioni “non obbligatorie” (da ultimo, in questo senso, sentenza n. 161 del 2022). L’art. 2, comma 80, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)», stabilisce altresì che gli interventi individuati dal piano di rientro sono assolutamente obbligatori. Ne consegue che l’effettuazione di altre spese, in una condizione di risorse contingentate, pone anche il problema della congruità della copertura della spesa “necessaria” (art. 81, terzo comma, Cost.), posto che un impiego di risorse per prestazioni “non essenziali” verrebbe a ridurre corrispondentemente le risorse per quelle essenziali. È stato, altresì, ribadito che «i predetti vincoli in materia di contenimento della spesa pubblica sanitaria costituiscono espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica» (da ultimo, sentenza n. 161 del 2022). Ciò posto, è possibile affrontare nel merito le singole questioni di legittimità costituzionale. 7.2.– Lo Stato ha impugnato l’art. 53 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, che autorizza la spesa di euro 4,2 milioni per finanziare la terapia genica “Zolgensma” per il trattamento di bambini affetti da atrofia muscolare spinale (SMA) fino a 21 kg, impiegando risorse afferenti al capitolo dedicato al finanziamento dei farmaci innovativi (Missione 13, Programma 1, Capitolo 413374, finanziamento ordinario corrente per la garanzia dei LEA, cofinanziamento regionale farmaci innovativi). La disposizione impugnata sarebbe in contrasto: tanto con il già richiamato principio di coordinamento della finanza pubblica recato dall’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004; quanto con il principio di cui all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996) convertito, con modificazioni, in legge 23 dicembre 1996, n. 648, che assegna all’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) il compito di individuare i medicinali erogabili a totale carico del SSN; nonché con l’art. 17, comma 1, lettera c) dello statuto siciliano, ai sensi del quale l’esercizio della competenza della Regione Siciliana dovrebbe comunque avvenire nel rispetto dei principi e degli interessi generali stabiliti dalla legge dello Stato. 7.2.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 53 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, promossa in riferimento agli artt. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, e 81, terzo comma, Cost., è fondata per i motivi di seguito indicati. La norma impugnata, prevedendo l’erogazione del farmaco Zolgensma per bambini di peso compreso fra i 13,5 e i 21 kg, non rispetta la determinazione dell’AIFA n. 277 del 21 marzo 2021 che ha stabilito la totale rimborsabilità dello Zolgensma, esclusivamente per il trattamento di pazienti con peso massimo di 13,5 kg. Tale previsione assume carattere vincolante per le Regioni in materia di coordinamento della finanza pubblica, in quanto volto a individuare i criteri di rimborsabilità dei farmaci innovativi, ai sensi dell’art. 1, comma 4-bis, del d.l. n. 536 del 1996, come convertito. La Regione Siciliana, trovandosi in fase di “programma di consolidamento e sviluppo”, non può erogare prestazioni sanitarie “extra-LEA”, e la disposizione di cui all’art. 53, erodendo le risorse necessarie al finanziamento esclusivo delle prestazioni essenziali, determina conseguentemente e congiuntamente la violazione degli artt. 81, terzo comma, e 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost. Questa Corte ha affermato che la vincolatività del Programma operativo di consolidamento e sviluppo è da considerarsi espressione del principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e del correlato principio di coordinamento della finanza pubblica, poiché esso è adottato per la prosecuzione del piano di rientro (sentenza n. 130 del 2020). Deve peraltro osservarsi che, nella presente fattispecie, a fronte della peculiare natura del farmaco in questione, non può non valere quanto questa Corte ha chiarito, ossia che «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati» (sentenza n. 8 del 2011; nonché, in tal senso, sentenze n. 338 del 2003, n. 26 del 2002 e n. 185 del 1988). Tali considerazioni, unitamente a quanto già affermato, determinano l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 7.2.2.– Restano assorbiti gli ulteriori motivi di impugnazione. 7.3.– È poi impugnato l’art. 54, commi 2 e 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, il quale prevede, al comma 2, l’esclusione dalla partecipazione al costo dell’accertamento di «eventuali rischi procreativi attraverso lo screening prenatale per la diagnosi di trisomie 13, 18 e 21 “Non Invasive Prenatal Test”, test del DNA fetale circolante su sangue materno, effettuato presso i centri regionali» per le donne residenti nella Regione Siciliana. Il successivo comma 3 stabilisce che, al fine di adeguare le strutture e gli impianti tecnologici operativi e strumentali finalizzati ad assicurare l’offerta dello screening prenatale, è autorizzata una spesa a carico del sistema sanitario nazionale pari a euro quattro milioni. Il ricorrente sostiene che tali indagini diagnostiche, non essendo attualmente inserite nell’elenco di cui all’Allegato 10/C al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), rappresenterebbero un livello di assistenza ulteriore, che la Regione non potrebbe erogare, ai sensi degli accordi sottoscritti con il piano di rientro, dal che si determinerebbe la lesione dell’art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., in relazione al principio di coordinamento della finanza pubblica recato dall’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004; nonché dell’art. 17, comma 1, lettera c) dello statuto siciliano, ai sensi del quale l’esercizio della competenza della Regione Siciliana dovrebbe comunque avvenire nel rispetto dei principi e degli interessi generali stabiliti dalla legge dello Stato. Sarebbe altresì violato l’art. 81, terzo comma, Cost., non solo per sottrazione di risorse dal fondo per l’erogazione dei LEA, ma anche perché non vi sarebbe alcuna indicazione sulla copertura finanziaria di tali test, posto che le risorse stanziate nel comma 3 dell’art. 54 sarebbero funzionali al solo adeguamento degli impianti. 7.3.1.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, commi 2 e 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, sollevate in riferimento agli artt. 81, terzo comma, 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., in relazione all’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, sono fondate. Posto che l’Allegato 10/C – correttamente individuato dal ricorrente – rappresenta la fonte che determina le prestazioni specialistiche esenti rientranti nella diagnostica prenatale e che tale elenco non comprende il cosiddetto NIPT test, si deve ribadire che la prestazione individuata dalla norma impugnata rappresenta un livello ulteriore di prestazioni, erogabili dalle Regioni a carico del sistema sanitario regionale a condizione che non si trovino in piano di rientro o, comunque sia, non siano sottoposte a misure di monitoraggio equiparabili a tale piano (da ultimo, sentenza n. 161 del 2022). La fondatezza della questione in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., determina altresì la lesione degli artt. 81, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, in conseguenza dell’erosione delle risorse disponibili afferenti al capitolo relativo ai LEA, per il finanziamento dei macchinari; nonché per la copertura delle ulteriori prestazioni che comunque la Regione intenderebbe erogare, non essendo quantificato l’onere relativo. Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, commi 2 e 3, della legge reg. Siciliana n. 7 del 2021. 7.3.2.– Restano assorbiti gli ulteriori motivi del ricorso. 7.4.– È impugnato l’art. 55 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 in riferimento agli artt. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost. nonché in riferimento all’art. 17, lettera c), dello statuto di autonomia. L’art. 55 autorizza l’Assessore alla salute a consentire la prescrivibilità dei farmaci antinfiammatori non-steroidei in fascia A, in deroga ai vincoli previsti dalla nota AIFA 66, per tutte le pazienti della Regione Siciliana affette da endometriosi, in possesso del codice di esenzione 063; e pone l’onere di tale spesa a carico del fondo sanitario regionale relativo al finanziamento del sistema sanitario, missione 13, Programma 1, Capitolo 413374 (finanziamento ordinario corrente per la garanzia dei LEA, fondo farmaci innovativi). L’Avvocatura generale dello Stato afferma che la competenza a definire le malattie e le condizioni che danno diritto all’esenzione spetta al legislatore statale, che l’avrebbe esercitata con il decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124 (Ridefinizione del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e del regime delle esenzioni, a norma dell’articolo 59, comma 50, della L. 27 dicembre 1997, n. 449). L’elenco delle malattie croniche esenti sarebbe stato poi ridefinito e aggiornato dal già richiamato d.P.C.m. 12 gennaio 2017, che avrebbe ricompreso, nell’allegato 8, l’endometriosi, codice 063, ma tale esenzione si riferirebbe esclusivamente alle prestazioni di specialistica ambulatoriale e non si estenderebbe ai farmaci. Al contrario, i farmaci classificati in fascia A (ossia gratuiti per gli assistiti) sarebbero esclusivamente quelli definiti dalle note AIFA, nel caso di specie, «Nota 66», che non comprenderebbe la malattia cronica in questione fra quelle ammesse all’erogazione dei farmaci antinfiammatori non steroidei a carico del SSN. 7.4.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 è fondata per i motivi di seguito indicati. 7.4.1.2.– Occorre preliminarmente precisare – per quanto la memoria regionale non si soffermi sul punto – che la norma interposta evocata dallo Stato – il d.lgs. n. 124 del 1998 – deve ritenersi implicitamente abrogata. L’art. 5 del menzionato decreto legislativo, infatti, rimandava a distinti regolamenti del Ministero della sanità l’individuazione delle malattie croniche. In ossequio a tale norma, era stato adottato il decreto del Ministro della sanità 28 maggio 1999, n. 329, recante «Regolamento recante norme di individuazione delle malattie croniche e invalidanti ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 29 aprile 1998, n. 124», che rappresentava la fonte di individuazione di tali patologie prima del citato d.P.C.m. del 2017. Tale imprecisione, peraltro, non mina l’ammissibilità del ricorso, posto che, contestualmente, l’Avvocatura generale dello Stato ha correttamente individuato la nota 66 dell’AIFA come fonte vigente per la prescrizione a carico del SSN dei farmaci antinfiammatori non-steroidei, al cui interno non compare la malattia cronica in questione. Peraltro, l’Allegato 8 al d.P.C.m. 12 gennaio 2017, individuato dalla difesa regionale come la fonte per l’elenco vigente delle patologie croniche, è riferito alle prestazioni erogabili a carico del SSN e non ai farmaci, come rappresentato anche dall’Avvocatura generale. 7.4.2.– Ciò posto, la norma impugnata, nell’attribuire all’Assessore per la salute della Regione Siciliana il potere di autorizzare la prescrizione di farmaci antinfiammatori non-steroidei a carico del Servizio sanitario nazionale per patologie non incluse nell’elenco di cui alla richiamata nota AIFA, rappresenta un livello ulteriore di assistenza sanitaria, erogabile dalle Regioni con oneri a carico del bilancio regionale ad una duplice condizione: l’assenza del piano di rientro, la separata evidenziazione nel bilancio regionale. Trovandosi la Regione in vigenza del piano di monitoraggio, la sottrazione di risorse dal capitolo vincolato all’erogazione dei LEA per destinarle a prestazioni non rientranti nei relativi elenchi, determina la violazione della competenza esclusiva dello Stato a fissare i LEA, nonché dei principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica e di tutela della salute, adottati dallo Stato con le richiamate norme interposte, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Dal che consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 7.4.3. – Restano assorbiti gli ulteriori motivi del ricorso. 8.– Lo Stato ha impugnato altresì l’art. 56 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, laddove assegna all’ufficio della Rete mediterranea per la salute degli animali (REMESA) con sede in Palermo, presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia, un contributo pari a euro 250 mila, per l’esercizio finanziario 2021, per lo svolgimento di attività istituzionale, ponendo i relativi oneri a carico «delle risorse destinate al finanziamento dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale». Il ricorrente si duole della scelta di finanziare la sede palermitana del REMESA mediante la decurtazione di risorse del Fondo sanitario nazionale, già destinate, per la quota spettante, al funzionamento e alle funzioni istituzionali ordinarie dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia, giusta delibera CIPE 14 maggio 2020, n. 20 «Fondo sanitario nazionale - Riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale», ai sensi dell’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 (Tabella B - delibera CIPE). Dal che è dedotta la lesione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nelle materie della tutela della salute e del coordinamento della finanza pubblica, in relazione alla norma interposta di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, ai sensi del quale il Fondo sanitario nazionale è ripartito dal CIPE «su proposta del Ministro della sanità, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome». 8.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 56 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., nelle materie «coordinamento della finanza pubblica» e «tutela della salute», è fondata per i motivi di seguito indicati. Occorre preliminarmente ricostruire il contesto normativo di riferimento, tanto degli istituti zooprofilattici sperimentali (d’ora innanzi: IZS), quanto del REMESA, nonché i profili costituzionali del Fondo sanitario nazionale, nella quota vincolata agli IZS. Gli IZS sono enti che fanno parte del SSN e, per le funzioni che svolgono (si pensi a quelle di tutela igienico-sanitaria e di sicurezza veterinaria: sentenza n. 173 del 2014), intersecano diversi ambiti materiali, sui quali insistono, al contempo, competenze legislative esclusive statali e concorrenti (quali la profilassi internazionale, la tutela della salute, la prevenzione e la ricerca). Lo stesso riparto delle funzioni amministrative correlate al funzionamento degli IZS, peraltro, denota tale commistione di competenze, posto che non sono state oggetto di devoluzione completa alle Regioni, permanendo in capo al Governo quelle relative all’esercizio delle competenze legislative esclusive (da ultimo, sentenza n. 234 del 2021). Per quanto di interesse nel presente giudizio, il sistema di finanziamento degli IZS riflette tale concorrenza di competenze. In quanto quota vincolata del Fondo sanitario nazionale, anche il fondo per gli IZS viene istituito con legge statale, ma la sua quantificazione e, soprattutto, la sua ripartizione prevedono una fase concertativa con la partecipazione delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. La norma regionale impugnata prevede di destinare all’ufficio palermitano del REMESA la somma di euro 250 mila, mediante impiego delle risorse «destinate al finanziamento dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale». La delibera CIPE 14 maggio 2020, n. 20 (Fondo sanitario nazionale 2020 - Riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale) è stata adottata previa acquisizione di diverse intese in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, sancite rispettivamente nelle sedute del 31 marzo 2020 (rep. atti n. 55/CSR e 57/CSR) e dell’8 aprile 2020 (rep. atti n. 60/CSR), sulla proposta del Ministro della salute concernente il riparto delle risorse complessivamente disponibili per il finanziamento del SSN per l’anno 2020, nonché per la ripartizione delle quote premiali per il medesimo anno. Più precisamente, la Tabella B, contenuta nell’Allegato 2 alla menzionata delibera CIPE del 14 maggio 2020, titolata «FSN 2020 – riparto tra le Regioni di alcune poste a destinazione vincolata o per attività non rendicontate dalle aziende sanitarie delle disponibilità finanziarie per il servizio sanitario nazionale», individua, fra gli enti destinatari delle menzionate risorse vincolate, da un lato «Regioni e Province autonome», dall’altro gli «Istituti Zooprofilattici Sperimentali». La menzionata delibera CIPE del 14 maggio 2020 destina, dunque, complessivamente all’IZS della Sicilia la somma di euro 23.230.071, di cui euro 22.236.637 sono vincolati al funzionamento dell’IZS, come riportato anche nel ricorso statale (il restante, la minima parte, per gli oneri contrattuali del personale IZS degli anni precedenti). Va in proposito considerato che dai bilanci dell’IZS, come desumibile dalle memorie dell’Avvocatura generale dello Stato, emerge che le uniche risorse regionali (sia nel bilancio 2021, sia in quello 2022) sono costituite dal contributo di poco più di un milione di euro che, tuttavia, è qualificato come vincolato ai sensi dell’art. 8, comma 1, della legge della Regione Siciliana 13 gennaio 2015, n. 3 (Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio della Regione per l’anno 2015. Disposizioni finanziarie urgenti. Disposizioni in materia di armonizzazione dei bilanci). Per il resto, a parte la voce dei «contributi da altri soggetti pubblici», i contributi in conto esercizio provengono formalmente dal bilancio regionale, ma quale quota del FSN assegnata alla Sicilia per essere espressamente destinata al funzionamento dell’IZS (sentenza n. 156 del 2021). Il doppio vincolo di destinazione che la quota – definita, appunto, “vincolata” – del FSN imprime alle risorse volte al funzionamento degli IZS conferma che la norma impugnata – la quale destina tali risorse a un soggetto diverso – l’Ufficio palermitano del REMESA – e per uno scopo diverso – attività istituzionali di tale ente – si pone in contrasto con i vincoli di destinazione stabiliti dal legislatore statale e viola, pertanto, l’art. 117, terzo comma, Cost. Benché tale fondo insista su molteplici ambiti materiali di competenza anche regionale, l’esercizio della competenza da parte dello Stato a definire l’importo e la destinazione di tali risorse si impone anche alle Regioni, le cui attribuzioni costituzionali vengono comunque garantite e preservate mediante il loro diretto coinvolgimento con l’acquisizione dell’intesa in Conferenza Stato-Regioni. Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 56 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 9.– È, infine, impugnato l’art. 57, che autorizza l’Assessorato regionale dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea, anche tramite propri enti strumentali, ad avviare progetti innovativi, «pure nelle forme del partenariato con le società presenti sul territorio nazionale», al dichiarato fine di sopperire alle richieste derivanti dal rapporto di fabbisogno accertato dalle autorità sanitarie nazionali di produzione di “cannabis terapeutica”, finalizzati a loro volta ad avviare le procedure previste dall’art. 17, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Secondo il ricorrente tale disposizione, laddove autorizza l’Assessorato ragionale ad avviare progetti sulla cannabis terapeutica, violerebbe la competenza amministrativa assegnata allo Stato dall’art. 17, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, che avrebbe attribuito al livello centrale le funzioni amministrative in materia di autorizzazione alla coltivazione di cannabis a scopo terapeutico, al fine di garantire un adeguato livello unitario di tutela della salute su tutto il territorio nazionale. Sarebbero pertanto violati non solo il principio di adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, Cost., ma anche lo stesso diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., alla cui uniforme tutela è funzionale l’attribuzione delle competenze amministrative in materia di cannabis in capo allo Stato. 9.1– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 57 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021 è fondata per i motivi di seguito indicati. Ai sensi dell’art. 17 del richiamato d.P.R. n. 309 del 1990, «[c]hiunque intenda coltivare, produrre, fabbricare, impiegare, importare, esportare, ricevere per transito, commerciare a qualsiasi titolo o comunque detenere per il commercio sostanze stupefacenti o psicotrope, comprese nelle tabelle di cui all’articolo 14 deve munirsi dell’autorizzazione del Ministero della sanità». L’Ufficio centrale stupefacenti del Ministero della salute, dunque, esercita competenze amministrative relative all’impiego di sostanze stupefacenti a fini medici, posto che tali funzioni sono state espressamente escluse dalla devoluzione alle Regioni ai sensi dell’art. 112, comma 3, lettera a), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59). Ciò considerato, deve ricordarsi che questa Corte è già stata chiamata a valutare norme regionali assimilabili a quella odierna e ha chiarito che la disciplina autorizzatoria statale in materia di coltivazione di stupefacenti «rientra tra i principi fondamentali in materia di tutela della salute, essendo posta a garanzia di un diritto fondamentale della persona» (sentenza n. 141 del 2013). L’autorizzazione ex lege dell’Assessorato all’agricoltura per l’avvio di progetti sperimentali è assimilabile a una sorta di “autorizzazione preventiva”, che però, in questo ambito, esula dalle competenze regionali, come già affermato con la richiamata sentenza. A sostegno della fondatezza della questione, deve altresì osservarsi che ad oggi esistono numerose norme di altre Regioni, le quali autorizzano la Giunta a stipulare convenzioni con centri già autorizzati. La norma siciliana, invece, con una formulazione del tutto peculiare, autorizza la Giunta ad avviare progetti con istituti privi di autorizzazione, posto che tali progetti sarebbero poi funzionali all’ottenimento delle autorizzazioni statali previste dall’art. 17 del d.P.R. n. 390 del 1990. Dalla stessa formulazione della disposizione regionale impugnata, peraltro, si evince che tali progetti, una volta avviati, mediante il coinvolgimento dell’Assessorato per l’agricoltura, potrebbero non ricevere mai l’autorizzazione statale, eppure, ciononostante, potrebbero proseguire ad interim, di fatto eludendo o aggirando la competenza del Ministero della salute. Del resto, per presentare domanda di autorizzazione al Ministero della salute, occorre essere già in possesso dell’accordo di conferimento con una officina farmaceutica già autorizzata, e la mancanza di questo requisito determina, di per sé, l’esclusione dalla procedura autorizzativa. Tali considerazioni confermano il contrasto della norma siciliana impugnata con i parametri evocati, poiché la lesione della competenza amministrativa statale in materia autorizzatoria, determina la violazione dell’attribuzione allo Stato delle competenze amministrative per il diritto alla salute, funzionale ad assicurarne una migliore tutela (così, sentenza n. 141 del 2013). Dal che l’illegittimità costituzionale dell’art. 57 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021. 10.– Con successivo ricorso n. 8 del 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021. Tale articolo stabilisce «1. Per il rilancio dell’economia della Sicilia mediante il ripristino dei flussi turistici post pandemia Covid, al fine di assicurare la fruizione dei luoghi della cultura, ai sensi dell’articolo 9, comma 7, lettera e) del CCRL vigente è autorizzata per l’esercizio finanziario 2021 l’ulteriore spesa per il trattamento accessorio del personale a tempo indeterminato utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pari a complessivi euro 1.061.600,00, di cui euro 193.600,00 quali oneri sociali a carico dell’amministrazione regionale ed euro 68.000,00 quale imposta regionale sulle attività produttive (I.R.A.P.) da versare (Missione 5, programma 2). 2. Agli oneri di cui al presente articolo si fa fronte mediante corrispondente riduzione della Missione 9, programma 5, capitolo 150032». Afferma il ricorrente che la norma impugnata, autorizzando, per l’esercizio finanziario 2021, un’ulteriore spesa per il trattamento accessorio del personale utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, si porrebbe in contrasto con il divieto previsto dall’art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», in ordine al superamento del limite dell’ammontare complessivo, riferito all’anno 2016, delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche. La riduzione del trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, costituirebbe una delle condizioni contenute nel «Piano di rientro della Regione Siciliana del disavanzo in attuazione dell’Accordo Stato-Regione sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Siciliana il 14 gennaio 2021» (quest’ultimo denominato «Accordo tra Stato e Regione Siciliana per il Ripiano decennale del disavanzo»). La disposizione regionale in esame, prevedendo di destinare un maggiore importo per il trattamento accessorio del personale a tempo indeterminato utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pari a complessivi euro 1.061.600,00, oltre a costituire un’ingiustificata violazione del precetto normativo imposto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, pregiudicherebbe il raggiungimento dell’obiettivo di rientro previsto nel Piano che, ai sensi dell’art. 6 della legge della Regione Siciliana 15 aprile 2021, n. 10 (Bilancio di previsione della Regione siciliana per il triennio 2021-2023), in attuazione dell’art. 7 del decreto legislativo 27 dicembre 2019, n. 158 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Siciliana in materia di armonizzazione dei sistemi contabili, dei conti giudiziali e dei controlli), è allegato alla legge di approvazione del bilancio di previsione della Regione. Conseguentemente, asserisce il ricorrente, la norma regionale si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., per violazione dei principi fondamentali nella materia «coordinamento della finanza pubblica», proprio in relazione alla norma interposta di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2019, confliggendo anche con l’art. 81 Cost. e con le norme fondamentali e i criteri stabiliti dalla legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), in particolare con l’art. 9 di detta legge, vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (sono citate le sentenze di questa Corte n. 221 del 2013, n. 217 e n. 215 del 2012). 10.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021 è fondata per i motivi di seguito indicati. L’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 prevede che, al fine di perseguire la progressiva armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la contrattazione collettiva nazionale, per ogni comparto o area di contrattazione operi la graduale convergenza dei medesimi trattamenti anche mediante la differenziata distribuzione, distintamente per il personale dirigenziale e non dirigenziale, delle risorse finanziarie destinate all’incremento dei fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione. Il medesimo art. 23 del d.lgs. n. 75 del 2017 prevede altresì che, «al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, assicurando al contempo l’invarianza della spesa, a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016». La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 è norma che pone un limite generale al trattamento economico del personale pubblico e ha natura di principio di coordinamento della finanza pubblica, essendo tale spesa una delle più frequenti e rilevanti cause di disavanzo pubblico (sentenze n. 212 e n. 20 del 2021, n. 191 del 2017, n. 218 del 2015 e n. 215 del 2012). La Regione non può quindi effettuare integrazioni e incrementi che andrebbero in senso opposto all’armonizzazione che ispira la predetta norma interposta. La previsione di maggiori oneri da destinare ai trattamenti economici del personale a tempo indeterminato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pertanto, si pone in netto contrasto con gli obiettivi di finanza pubblica, oltre che con lo specifico obiettivo di riduzione della spesa per il personale, che la Regione si è prefissata in accordo con lo Stato, come recepito anche nel «Piano di rientro della Regione Siciliana del disavanzo in attuazione dell’Accordo Stato-Regione sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Siciliana il 14 gennaio 2021» (quest’ultimo denominato «Accordo tra Stato e Regione Siciliana per il Ripiano decennale del disavanzo»). Detto piano costituisce allegato alla legge di approvazione del bilancio di previsione della Regione, ai sensi dell’art. 6 della legge reg. Siciliana n. 10 del 2021, in attuazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2019. L’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021, autorizzando una spesa che supera il limite stabilito dall’indicato art. 23, comma 2, della normativa statale, si pone quindi in contrasto con le misure volte ad assicurare l’invarianza della spesa di personale e, di conseguenza, con l’art. 117, terzo comma, Cost., in particolare con i principi fondamentali nella materia «coordinamento della finanza pubblica». La riduzione del trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, rappresenta una delle condizioni contenute nel richiamato piano di rientro. La disposizione regionale, destinando, invece, un maggiore importo per il trattamento accessorio del personale a tempo indeterminato utilizzato per interventi di sicurezza e di vigilanza nei luoghi della cultura, pari a complessivi euro 1.061.600,00, si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., per violazione dei principi fondamentali nella materia «coordinamento della finanza pubblica», in relazione alle norme interposte. Alla luce delle esposte argomentazioni, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 14 della legge reg. Siciliana n. 29 del 2021. 10.2.– Restano assorbiti gli ulteriori motivi di impugnazione proposti dal Presidente del Consiglio. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale per le quali è stato disposto il rinvio a nuovo ruolo; 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera f), della legge della Regione Siciliana 15 aprile 2021, n. 9 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2021. Legge di stabilità regionale); 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della 1egge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 50 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, commi 2 e 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 6) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 7) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 56 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 8) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 57 della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021; 9) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della legge della Regione Siciliana 26 novembre 2021, n. 29 (Modifiche alla legge regionale 15 aprile 2021, n. 9. Disposizioni varie); 10) dichiara estinto il processo relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 9 del 2021, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 81, terzo comma, 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, della Costituzione, con il ricorso n. 33 del 2021. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Angelo BUSCEMA, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • TRIBUNALE ORDINARIO DI ORISTANO SEZIONE CIVILE Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: dott. Leopoldo Sciarrillo - Presidente dott.ssa Valentina Santa Cruz - Giudice dott.ssa Consuelo Mighela - Giudice rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al N. R.G. 1521/2019 promossa da: P.L., nata a C. (C.) il (...), C.F. (...), residente in T., nella via V. n. 65, scala b, nella sua qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale sulla minore P.M., nata a N. il (...), C.F. (...), residente in T., nella V. n. 65, scala b, rappresentata e difesa nel presente giudizio dall'Avv. ... del Foro di Torino ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. ..., in Oristano, nella ..., giusta procura speciale posta in calce all'atto di citazione, - parte attrice - nei confronti di A.P., nata a O. (O.) il (...), residente a M. nella via P. n. 13, C.F. (...), P.S., nato a A. (C.) il (...), residente a M. (N.) nella via P. n. 13, C.F. (...), P., nato a O. (S.) il (...), residente a M. nella via P. n. 13, C.F. (...) , e P.T., nata a M. (N.) il (...), residente a V. (C.) nella via A. n. 15/C, C.F. (...) , tutti nella loro qualità di eredi del sig. P.M., nato a M. il (...) e deceduto in Torino l'8 novembre 2016, - parte convenuta - La causa è stata rimessa al Collegio per la decisione sulle seguenti Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. Con atto di citazione ritualmente notificato, la sig.ra L.P., nella sua qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale sulla minore M.P., nata a N. il 24 ottobre 2017, ha convenuto in giudizio i signori S.P., P.A., P.P. e T.P., nella loro qualità di eredi del sig. M.P., nato a M. il 2 marzo 1977 e deceduto in Torino l'8 novembre 2016, esponendo in fatto: - che, in data 28 gennaio 2015, l'esponente L.P. aveva contratto matrimonio concordatario con il signor M.P.; - che, a causa di infertilità di coppia da fattore maschile, la coppia, nell'anno 2016, si era rivolta al Centro Sterilità Istituto di Ginecologia e Ostetricia - Cattedra A, con sede in Torino, via ..., per ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e specificamente alle tecniche di P.M.A. Fivet (fertilizzazione in vitro e trasferimento degli embrioni in utero), sottoscrivendo i vari moduli per il consenso informato; - che, presso il predetto Centro, i coniugi avevano iniziato a eseguire due trattamenti, il primo ad aprile 2016 e il secondo a luglio 2016, entrambi con esito negativo; - che, tuttavia, nel mese di agosto del 2016, al sig. M.P. erano stati riscontrati "blasti nel sangue periferico e non più solo a livello midollare", ma, ciononostante, finanche in considerazione del parere espresso dal Comitato Etico per la suddetta riscontrata patologia, la coppia, in data 26 ottobre 2016, si era determinata a un terzo tentativo di P.M.A.; - che, in data 7 novembre 2016, la coppia si era sottoposta a un trattamento di P.M.A. presso il laboratorio F., Responsabile Dott.ssa C.R., in seguito al quale erano stati crioconservati n. 2 embrioni, come da relazione finale del trattamento del 12 novembre 2016; - che, in data 8 novembre 2016, il signor M.P. era deceduto in Torino; - che, successivamente alla morte del marito, l'esponente si era rivolta all'Azienda O.U.C. -Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia, al fine di procedere con il trattamento di scongelamento embrionario e successivo impianto degli embrioni crioconservati; - che, in data 18 febbraio 2017, si era accertato che l'impianto degli embrioni aveva avuto esito positivo e quindi l'esponente era stata inviata al ginecologo per la gestione della gravidanza; - che, in data 24 ottobre 2017, era nata la minore M. e, in seguito alla nascita, l'esponente si era rivolta all'Ufficio dello Stato Civile di Nuoro per ottenere il riconoscimento della minore come figlia del signor P.M., ma le era stato riferito che avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale competente. L'attrice ha pertanto concluso domandando al Tribunale di voler: accertare e dichiarare che, ai sensi degli artt. 269 e ss. c.c., il signor P.M. è padre della minore M.P.; ordinare all'ufficiale di stato civile di provvedere alla trascrizione della emananda sentenza; disporre che la minore M., in conseguenza del riconoscimento quale figlia del sig. P.M., assuma il cognome del padre, posponendolo la quello della madre. 2. I convenuti non si sono costituiti in giudizio e, comparsi personalmente all'udienza del 5 ottobre 2020, A.P., P.P. e P.S. hanno dichiarato di non opporsi all'accoglimento della domanda attorea. 3. La causa è stata istruita con sole produzioni documentali e, all'udienza del 23 settembre 2021, il giudice istruttore ha trattenuto la causa a decisione, riservandosi di riferire al Collegio. 4. Occorre premettere che, prima dell'entrata in vigore della L. 19 febbraio 2004, n. 40 (recante "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita"), era controverso se, e in che limiti, fosse lecita la fecondazione artificiale di una donna dopo la morte del marito, mediante una delle diverse tecniche a questo scopo utilizzabili. La questione era stata affrontata anche dalla giurisprudenza, in relazione a un caso in cui la moglie aveva ottenuto un provvedimento cautelare d'urgenza per ottenere l'impianto degli embrioni crioconservati del marito (Trib. Palermo, 8 gennaio 1999). Dopo l'entrata in vigore della L. n. 40 del 2004, la fecondazione post mortem è stata vietata, in quanto l'art. 5 della medesima legge stabilisce che: "Fermo restando quanto stabilito dall'articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi". Inoltre, il successivo art. 12, al comma secondo, prevede che "Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell'articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro". Si è osservato che la ratio legis del requisito della sussistenza in vita dei componenti della coppia che accede alle tecniche di P.M.A. è quella di garantire che il diritto alla bigenitorialità del minore, dal legislatore ritenuto superiore rispetto all'interesse dell'uomo a lasciare una "traccia biologica" di sé dopo il decesso e a quello della donna a generare un figlio nonostante la scomparsa del proprio compagno. La norma di cui all'art. 5, peraltro, non precisa fino a quale momento del processo fecondativo deve ritenersi effettivamente necessario il requisito dell'esistenza in vita di entrambi i componenti la coppia. In proposito, dal lato paterno, per quanto qui maggiormente interessa, si possono distinguere tre differenti ipotesi: a) l'inseminazione artificiale della donna con il seme prelevato dal cadavere dell'uomo; b) l'inseminazione artificiale della donna con il seme prelevato dal partner prima del decesso nell'ambito di una procedura di P.M.A.; c) l'impianto intrauterino dell'embrione crioconservato proveniente dalla coppia, formato prima del decesso del coniuge o del convivente. Le prime due ipotesi attengono più propriamente a casi di fecondazione post mortem, verificandosi la fecondazione dell'ovulo in un momento successivo al decesso del partner, mentre la terza ipotesi attiene all'ipotesi di impianto post mortem, che si verifica laddove l'embrione si formi quando entrambi gli aspiranti genitori sono viventi e venga soltanto trasferito nell'utero della donna successivamente al decesso del partner. Secondo l'opinione di gran lunga prevalente, le prime due ipotesi sono vietate dal legislatore, mentre la terza si ritiene lecita in considerazione delle preminenti ragioni di tutela della vita dell'embrione, che, costituendo uno dei capisaldi della L. n. 40 del 2004, prevale sull'opportunità di evitare al nascituro i pregiudizi che egli potrebbe subire a causa della mancanza della figura paterna. Sicché, nell'ipotesi in cui l'applicazione della tecnica riproduttiva abbia già portato alla formazione degli embrioni, la disposizione contenuta nell'art. 5 della L. n. 40 del 2004, sopra richiamato, deve essere interpretata nel senso di consentire l'impianto dell'embrione, avuto riguardo al principio fondamentale, enunciato dall'art. 1 della medesima legge, che è quello di assicurare "i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito". In questo senso si è espressa una parte della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto accoglibile la richiesta di trasferimento intrauterino di embrioni crioconservati da parte della donna, successivamente alla morte del partner (v. Trib. Bologna, Sez. I, Ord. 16 gennaio 2015, che ha ritenuto accoglibile in via cautelare la richiesta di trasferimento intrauterino di embrioni crioconservati per più di un quindicennio, richiesto dalla donna dopo due anni dalla morte del marito; in questo stesso senso, più di recente, Trib. Lecce, Ord. 24 giugno 2019, che, accogliendo la richiesta della ricorrente, ha ordinato al centro medico di P.M.A. il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati provenienti dalla stessa ricorrente e dal marito deceduto). Pertanto, il presupposto della sussistenza in vita dei componenti la coppia che accede alle tecniche di P.M.A. di cui agli artt. 5 e 6 della L. n. 40 del 2004 deve sussistere al tempo della fecondazione e non già oltre. A sostegno di tale impostazione, che questo Tribunale condivide, depongono, oltre che il riconoscimento legislativo del diritto alla vita dell'embrione (art. 1 della L. n. 40 del 2004), anche il divieto di soppressione degli embrioni e di crioconservazione degli stessi oltre i limiti di legge (art. 14 della L. n. 40 del 2004), l'impossibilità per il partner di revocare il proprio consenso alla P.M.A. dopo la fecondazione (art. 6 della L. n. 40 del 2004), nonché il diritto della donna a ottenere sempre il trasferimento degli embrioni crioconservati, riconosciuto dalle "Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita" di cui al decreto del Ministro della Salute del 1 luglio 2015 (pubblicato nella G.U. Serie Generale n. 161 del 14 luglio 2015). Sulla scorta delle considerazioni sopra esposte, deve ritenersi lecito l'impianto dell'embrione formato con il consenso validamente espresso dai componenti della coppia di aspiranti genitori, entrambi viventi, a nulla rilevando il sopravvenuto decesso del partner. Venendo al caso concreto oggetto della vertenza qui scrutinata, sulla base di quanto allegato da parte attrice e di quanto suffragato dalla documentazione ritualmente depositata in giudizio, risulta che: - L.P. e M.P. hanno contratto matrimonio in Torino il 28.01.2015 (doc. 01); - la coppia, a causa di infertilità di coppia da fattore maschile, nell'anno 2016 ha fatto ricorso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita F./I. (fertilizzazione in vitro e trasferimento degli embrioni in utero) presso il Centro Fisiopatologia della Riproduzione e PMA del Presidio Ospedaliero Sant'Anna di Torino - Dipartimento di Ginecologia e Ostetrica, sottoscrivendo gli appositi moduli per il consenso informato, rispettivamente in data 31 marzo 2016, 3 giugno 2016 e 26 ottobre 2016 (doc. 15); - dopo i primi due trattamenti con esito negativo, in data 7 novembre 2016 la coppia si è sottoposta per la terza volta a un trattamento di P.M.A., dopo avere ottenuto il parere positivo dal Comitato Etico, in ragione della grave patologia da cui era affetto il sig. P. (doc. 02), all'esito del quale sono stati crioconservati n. 2 embrioni, come da relazione finale del trattamento del 12 novembre 2016 rilasciata dal laboratorio F., in persona della Responsabile Dott.ssa C.R. (doc. 05); - in data 8 novembre 2016, il signor M.P. è deceduto in Torino (doc. 04); - successivamente alla morte del marito, l'esponente si è rivolta all'Azienda O.U.C. - Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia, al fine di procedere con il trattamento di scongelamento embrionario e successivo impianto degli embrioni crioconservati (doc. 15, in fine); - poiché l'impianto degli embrioni ha avuto esito positivo (doc. 06), l'attrice è stata inviata al ginecologo per la gestione della gravidanza e, in data 24 ottobre 2017, è nata la piccola M., che nell'atto di nascita è indicata come figlia di L.P., con conseguente attribuzione del cognome materno (doc. 07). Conseguentemente, deve escludersi che, nel caso di specie, sia ravvisabile una violazione del divieto di cui all'art. 5 della L. n. 40 del 2004, in quanto la formazione dell'embrione risulta essere avvenuta prima del decesso del sig. P. e tenuto conto che entrambi i coniugi hanno validamente manifestato il consenso prescritto ex art. 6 della L. n. 40 del 2004, non revocato prima della fecondazione, secondo quanto emerge anche dal parere rilasciato dai medici che hanno acconsentito alla richiesta dell'odierna attrice L.P. di trasferimento in utero, in seguito al decesso del marito M.P., degli embrioni crioconservati, precedentemente ottenuti con tecniche di fecondazione in vitro. 5. Occorre a questo punto chiedersi quale sia lo status giuridico del nato in seguito all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, nell'ipotesi di impianto post mortem, dovendosi stabilire, in particolare, se siano applicabili in via esclusiva i meccanismi presuntivi sulla prova della paternità previsti dal codice civile (artt. 231 - 234 c.c.), oppure si debba tenere conto della disciplina di cui alla L. n. 40 del 2004, circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita. Qualora si ritenga di risolvere la questione sulla scorta della normativa codicistica, ove l'embrione sia già stato ottenuto al momento del decesso dell'uomo, al neonato potrebbe essere riconosciuto lo stato di figlio nato nel matrimonio solamente nel caso di nascita avvenuta entro i 300 giorni dalla morte dell'uomo, ai sensi dell'art. 232 c.c., che, al primo comma, stabilisce una presunzione di concepimento durante il matrimonio quando la nascita del figlio avviene "quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell'annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio". Secondo tale impostazione, la nascita avvenuta in un periodo che non consente più l'operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, ovverosia dopo 300 giorni dallo scioglimento del matrimonio per morte del partner, potrebbe solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità. Tale impostazione parrebbe essere stata accolta anche dall'odierna attrice, che ha domandato al Tribunale di voler accertare e dichiarare che la piccola M. è "figlia naturale del signor P.M.", ai sensi dell'art. 269 c.c., evidentemente sul presupposto dell'operatività del disposto di cui all'art. 232 c.c. anche nel caso di procreazione avvenuta in seguito a fecondazione e a impianto di embrioni post mortem. Secondo un'altra opinione, invece, la nascita dopo trecento giorni dal decesso non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell'art. 234 c.c., che il concepimento è avvenuto in costanza di matrimonio; accedendo a un'interpretazione estensiva della norma, si è sostenuto che tale requisito dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell'ovulo (cioè, la creazione dell'embrione) è avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Sennonché, quest'ultima impostazione è stata di recente criticata dalla Suprema Corte, che, chiamata a risolvere la questione dello status da attribuire al figlio nato in seguito a fecondazione omologa post mortem effettuata all'estero (Spagna), ha innanzitutto evidenziato come quest'ultima tesi, oltre a fondarsi su una interpretazione del "concepimento" sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l'ovulo fecondato attecchisce nell'utero materno, introduce una distinzione immotivata della situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, dal momento che è possibile congelare e conservare a lungo non solo l'embrione ma anche il liquido seminale e, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell'ovulo avvenga solo dopo la morte del marito (Cass. civ., Sez. I, 15.05.2019, n. 13000). Nella medesima sentenza testé citata, i giudici di legittimità, dopo avere preso atto di come le regole codicistiche si rivelino inadeguate a risolvere le questioni sollevate dal fenomeno della fecondazione assistita post mortem, hanno affermato che in ogni caso deve trovare applicazione il disposto dell'art. 8 della L. n. 40 del 2004, che, nella sua formulazione applicabile ratione temporis (risultante dalle modifiche apportategli dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154), sotto la rubrica "Stato giuridico del nato", stabilisce che "I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'art. 6". Conseguentemente, al soggetto generato tramite tecniche di procreazione medicalmente assistita alle quali la donna abbia fatto ricorso successivamente alla morte del marito, deve essere attribuito senz'altro e in ogni caso (anche qualora la donna abbia fatto ricorso alla fecondazione post mortem, vietata nel nostro Paese) lo stato di figlio nato nel matrimonio della coppia coniugata, sempre che sussista il presupposto fondamentale previsto dal sopra richiamato art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall'art. 6 della medesima legge, mantenuto fermo dal marito fino alla data della sua morte. Venendo alla concreta fattispecie oggetto del presente giudizio, si è già evidenziato che dalla documentazione in atti risulta che il marito dell'attrice M.P. aveva validamente espresso e mantenuto fino al suo decesso la volontà di procedere, dopo due infruttuosi tentativi di impianto, a un'ulteriore procedura di fecondazione ai sensi dell'art. 6 della L. n. 40 del 2004, avvenuta quando egli era ancora in vita. Deve allora trovare applicazione la disciplina contenuta nella menzionata L. n. 40 del 2004, art. 8, senza che si possa fare riferimento alla presunzione stabilita dall'art. 232 c.c., sicché alla piccola M. deve essere riconosciuto lo status di figlia nata nel matrimonio dai coniugi L.P. e M.P., sebbene la nascita sia avvenuta il 24 ottobre 2017, successivamente al decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio, conseguente alla morte del P., avvenuta in data 8 novembre 2016. Poiché l'attribuzione dello stato di figlia nata nel matrimonio è scaturita direttamente dalla volontà dei componenti la coppia di ricorrere alle tecniche di P.M.A. ai sensi dell'art. 6 della L. n. 40 del 2004, non è configurabile alcun interesse dell'attrice a ottenere una sentenza ex art. 269 c.c., che dichiari che la minore è "figlia naturale" di M.P., secondo una dicitura peraltro oramai definitivamente abbandonata in seguito all'entrata in vigore (il 7 febbraio 2014) del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha modificato gli artt. 269, 270, 273, 276 e 277 c.c., seguendo un percorso già tracciato dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, diretto all'equiparazione di tutti i figli, siano essi nati nel matrimonio, o al di fuori di esso. Ne consegue l'inammissibilità della domanda diretta a ottenere una pronuncia che produca gli effetti del riconoscimento ex art. 277 c.c., per le ragioni sopra esposte 6. In forza delle argomentazioni e dei rilievi che precedono, deve essere ordinato all'ufficiale di stato civile competente di rettificare l'atto di nascita della minore M.P., nata a N. il (...), in modo tale da adeguarlo allo status attribuitole dalla legge. In proposito, occorre rilevare che la citata sentenza n. 13000 del 2019 della Corte di Cassazione ha riguardato una vertenza scaturita dal ricorso proposto da una donna ex art. 95 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, in proprio e nell'interesse della figlia minore, diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto oppostole dall'ufficiale di stato civile alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell'atto di nascita della bambina, l'ordine all'ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità del marito della donna (in quel caso deceduto prima della formazione dell'embrione) e del cognome paterno. La Corte ha avuto modo di chiarire che il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile è "volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall'atto dello stato civile, per un vizio comunque e da chiunque originato nel procedimento di formazione dell'atto stesso", precisando altresì che il giudice investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita, il cui procedimento si configura non come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis, bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione, dispone di una cognizione piena sull'accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell'atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest'ultimo. Orbene, nel caso in esame, l'attrice ha allegato di essersi rivolta all'Ufficio dello Stato Civile di Nuoro per ottenere il riconoscimento della minore come figlia del coniuge P.M., ma che le era stato riferito che avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale competente. È stato quindi introdotto il presente giudizio al fine di ottenere che venisse accertata e dichiarata la paternità di M.P. rispetto alla figlia M., sebbene, come si è già chiarito al punto dell'espositiva che precede, in realtà nel caso in esame non sussistessero i presupposti per agire ex art. 269 ss. c.c., al fine di ottenere una sentenza con gli effetti del riconoscimento, trattandosi di una minore cui va riconosciuto lo status di figlia nata nel matrimonio dei coniugi P. - P.. La circostanza per cui l'attrice, in luogo che opporsi al rifiuto dell'ufficiale giudiziario attraverso la proposizione al Tribunale di ricorso ex art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, da trattarsi con rito camerale ex artt. 737 c.p.c. ss., abbia deciso di agire introducendo un procedimento ordinario di cognizione diretto all'accertamento dello status filiationis, a parere del Collegio non può comunque tradursi in una minor tutela delle ragioni fatte valere dell'interessata, anche in considerazione della circostanza per cui, prima che intervenisse la Suprema Corte nel 2019, non sussistevano precedenti specifici in materia ed era effettivamente invalsa in una parte degli interpreti l'opinione che dovessero trovare applicazione, anche nella materia di cui si tratta, i criteri presuntivi di attribuzione della paternità previsti dal codice civile. 7. Deve essere infine accolta la domanda volta a ottenere che alla minore venga attribuito anche il cognome del padre, posponendolo a quello della madre. Difatti, con sentenza emessa nella camera di consiglio del 27 aprile 2022, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l'automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi, e, in particolare, della norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e di quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. L'Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale ha reso noto che "le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell'identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Nel solco del principio di eguaglianza e nell'interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell'identità personale. Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell'ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull'ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l'intervento del giudice in conformità con quanto dispone l'ordinamento giuridico". Pertanto, nella fattispecie qui esaminata, alla figlia nata dall'unione dei coniugi P. - P. deve essere attribuito il cognome di entrambi i genitori, non risultando allegato, né provato, il raggiungimento di un accordo nel senso dell'attribuzione del cognome di uno solo dei due. Per quanto riguarda l'ordine di attribuzione dei cognomi, deve essere ritenuto conforme all'interesse preminente della minore mantenere come primo cognome quello della madre, a cui deve essere aggiunto, posponendolo, quello del padre. Il cognome della madre è infatti quello che ha caratterizzato i primi anni di vita della bambina, che a ottobre compirà cinque anni, divenendo un segno della sua identità personale. 8. Sussistono giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio, anche avuto riguardo alla condotta processuale dei convenuti, i quali, nella loro qualità di eredi legittimi di M.P., hanno mostrato - i convenuti A.P., P.P. e P.S. anche comparendo personalmente all'udienza del 5.10.2020 - di non opporsi all'accoglimento delle domande di parte attrice. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) dichiara inammissibile, per carenza di interesse, la domanda proposta dall'attrice ai sensi degli artt. 269 e ss. c.c., essendo attribuito per legge alla minore M.P., nata a N. il (...), lo status di figlia nata nel matrimonio dei coniugi M.P., nato a M. il (...) e deceduto in Torino l'8 novembre 2016, e L.P., nata a C. il (...), ai sensi dell'art. 8 della L. n. 40 del 2004; 2) dispone che la minore M.P., nata a N. il 24 ottobre 2017, assuma anche il cognome del padre (P.), posponendolo a quello della madre; 3) ordina all'Ufficiale di Stato Civile competente di provvedere alla conseguente rettifica dell'atto di nascita della minore M.P., con attribuzione della paternità di M.P., sopra generalizzato, e anche del suo cognome, che verrà aggiunto a quello della madre; 4) compensa integralmente le spese del presente procedimento tra le parti. Conclusione Così deciso nella camera di consiglio della sezione civile del Tribunale di Oristano in data 17 maggio 2022. Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante, promosso dal Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, nel procedimento instaurato da M. M., con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021. Visti l’atto di costituzione di M. M. e S. V. e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; uditi l’avvocato Massimo Clara per M. M. e S. V. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 23 febbraio 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del relativo registro dell’anno 2021, il Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, stabilisce che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. 2.– Il rimettente riferisce che, con ricorso del 29 ottobre 2020, M. M. ha chiesto l’adozione della minore M. V. E., figlia biologica di S. V., ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, nonché il riconoscimento, quale effetto della sentenza di adozione, dei rapporti civili della minore con i propri parenti. L’ordinanza riporta che M. M. si è unito in matrimonio all’estero con S. V., ha conseguito la trascrizione in Italia del relativo atto come unione civile e, di seguito, ha condiviso, insieme al partner, un percorso di fecondazione assistita, effettuato sempre all’estero, che si è concluso con la nascita di M. V. E., legata biologicamente a S. V. Il rimettente aggiunge che, nel corso del procedimento, S. V., in qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale, ha prestato il proprio assenso all’adozione da parte di M. M. 2.1.– Il giudice a quo afferma di poter accogliere la domanda di adozione, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità che applica la fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983 anche alle ipotesi di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo, consentendo al componente di una coppia dello stesso sesso, privo di un legame biologico con il figlio del partner, di accedere all’adozione in casi particolari (è citata la giurisprudenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; sezione prima civile, 26 maggio 2016, n. 12962). Per converso, ritiene di non poter riconoscere, sulla base della legislazione vigente, i rapporti civili della minore con i parenti della parte ricorrente, quale effetto del vincolo adottivo in esame. Ravvisa, infatti, un elemento ostativo nel rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera alla disciplina codicistica sull’adozione delle persone maggiori di età e, specificamente, all’art. 300, secondo comma, cod. civ., che testualmente dispone: «[l]’adozione non induce alcun rapporto civile […] tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge». 2.2.– Il rimettente, d’altro canto, esclude che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983, nel suo univoco rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., lasci spazio a letture alternative. In particolare, rigetta l’ipotesi di una tacita abrogazione della disposizione censurata ad opera dell’art. 74 cod. civ., nella sua nuova formulazione introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), secondo cui: «[l]a parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti». Ad avviso del rimettente, l’abrogazione tacita presupporrebbe una incompatibilità tale da rendere impossibile la simultanea applicazione della vecchia e della nuova disposizione. Simile evenienza non sussisterebbe, nel caso di specie, poiché il legislatore, all’atto di regolare le unioni civili con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), avrebbe ribadito la distinzione fra l’adozione piena (o legittimante), preclusa alle coppie dello stesso sesso, e l’adozione in casi particolari, cui farebbe invece implicito riferimento l’art. 1, comma 20, ultimo periodo, della citata legge n. 76 del 2016, che fa salvo «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». 3.– Ritenendo di non potersi avvalere di tale soluzione ermeneutica, il giudice a quo solleva, con riferimento agli artt. 3, 31, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale del rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera all’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui esclude l’instaurarsi di rapporti civili tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Secondo il rimettente, la domanda avanzata dal ricorrente in merito al sorgere di tali vincoli parentali può trovare accoglimento solo all’esito di una declaratoria di illegittimità costituzionale, dal che inferisce la rilevanza delle questioni sollevate. 4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che l’esclusione, nella disciplina dell’adozione in casi particolari, di rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante arrechi un vulnus agli artt. 3 e 31 Cost., in quanto contrasterebbe «con il principio di parità di trattamento di tutti i figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio e adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. ed è stato inverato dalla riforma sulla filiazione (l. 219/2012) e dal rinnovato art. 74 cc che ha reso unico senza distinzioni il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne». Il rimettente aggiunge, con specifico riferimento alla vicenda oggetto del giudizio a quo, che «la possibilità di ricorrere all’adozione in casi particolari lett. d) [in] situazioni in cui non vi è alcun legame familiare preesistente da preservare» renderebbe discriminatorio il diniego di rapporti civili fra adottato e parenti dell’adottante e paleserebbe una «irragionevole disparità di trattamento tra i figli di coppie unite in matrimonio ed i figli adottivi di coppie unite civilmente». La norma censurata contrasterebbe, sempre limitatamente all’esclusione dei diritti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art 8 della CEDU, «in quanto impedi[rebbe] al minore inserito nella famiglia costituita dall’unione civile di godere pienamente della sua “vita privata e familiare” intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto alla identità dell’individuo». 5.– Si sono costituiti in giudizio con il medesimo atto M. M. e S. V., padre biologico della minore, che hanno condiviso le motivazioni dell’ordinanza di rimessione e hanno lamentato la lesione anche di ulteriori parametri costituzionali. In particolare, hanno denunciato la violazione degli artt. 3 e 30 Cost., in quanto la norma censurata contrasterebbe con il principio di unicità dello status di figlio, accolto con la riforma della disciplina sulla filiazione, di cui alla legge n. 219 del 2012 e al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219). Il vulnus ai parametri costituzionali viene ritenuto particolarmente evidente con riferimento allo status del minore adottato dal «partner omosessuale del genitore legale», in quanto l’adozione in casi particolari sarebbe «l’unico strumento che consente al minore di veder riconosciuto il proprio legame con il genitore d’intenzione». In subordine alla declaratoria di illegittimità costituzionale parziale, viene invocata l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, nel suo rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., in adesione alla tesi che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 74 cod. civ., ritiene possibile una interpretatio abrogans. In via ulteriormente gradata, viene espresso l’auspicio che questa Corte adotti un’ordinanza con rinvio a data certa del presente giudizio costituzionale, onde chiedere al legislatore di predisporre, nelle more, una regolamentazione conforme a Costituzione. 6.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili o, in subordine, non fondate. 6.1.– L’Avvocatura ha eccepito, innanzitutto, una carenza di motivazione in ordine alla competenza del tribunale per i minorenni a pronunciarsi sugli effetti inerenti alla parentela del provvedimento che decide l’adozione in casi particolari. L’atto di intervento muove dalla considerazione che la domanda, relativa ai rapporti civili tra l’adottato e i parenti del genitore adottante, riguardi lo status del minore e rientri, pertanto, nella competenza del tribunale, ai sensi dell’art. 9 del codice di procedura civile. Argomenti in senso contrario non sarebbero rinvenibili nella legislazione vigente, poiché la legge sulle adozioni non prevede che il tribunale per i minorenni debba pronunciarsi anche sugli effetti conseguenziali all’attribuzione della filiazione e l’art. 55 della stessa legge n. 184 del 1983 non opererebbe un rinvio all’art. 277 cod. civ., secondo cui «la sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento». Inoltre, l’art. 38 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, di recente novellato dalla legge n. 219 del 2012, non ascriverebbe quella in esame fra le attribuzioni del tribunale per i minorenni, stabilendo che debbano essere emessi dal tribunale «i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria». L’Avvocatura ne trae la conclusione che il giudice a quo, una volta dichiarata l’adozione, avrebbe dovuto declinare la competenza sulla domanda avente a oggetto la parentela, sicché il non averlo fatto e il non aver motivato a riguardo renderebbero le questioni sollevate inammissibili. 6.2.– Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri chiede che le questioni siano giudicate non fondate, sul presupposto che l’ordinamento giuridico vigente sia incentrato su due diversi modelli di adozione, tra di loro non omologabili. L’adozione piena e legittimante presuppone – si legge nell’atto di intervento – «lo stato di abbandono del minore e comporta la recisione di qualunque legame tra la famiglia di origine e l’adottato», che «entra a tutti gli effetti a far parte della famiglia dell’adottante». Per converso, l’adozione in casi particolari «conserva i legami dell’adottato con la famiglia d’origine e, allo stesso tempo, non comporta l’ingresso del primo nella famiglia dell’adottante». A ciò si aggiunge che l’adozione piena è consentita «alle sole coppie coniugate e non anche alle coppie unite civilmente», mentre l’accesso all’adozione in casi particolari è permesso anche a persone non coniugate e a coppie unite civilmente. L’Avvocatura, infine, sottolinea come «un ulteriore elemento da considerare nel caso in esame, che il Tribunale per i minorenni non ha preso in considerazione, è il fatto che il minore oggetto del procedimento è stato concepito tramite il ricorso alla surrogazione di maternità: pratica vietata e sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 e che il diritto vivente ha riconosciuto contraria all’ordine pubblico, in quanto lesiva di valori fondamentali quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione». L’insieme di questi fattori renderebbe ragionevole la disciplina differenziata della parentela che caratterizza i due regimi adottivi. 7.– Le parti hanno successivamente depositato una memoria integrativa di replica, vòlta a confutare le tesi della difesa erariale. Quanto all’eccezione di inammissibilità per omessa motivazione sulla competenza, ha osservato che i presupposti di ammissibilità del giudizio a quo sono sindacabili dalla Corte solo quando siano incontrovertibilmente carenti, mentre nella specie il rimettente avrebbe in realtà affrontato, sia pure in via implicita, il problema della competenza. Nel merito, è stato poi ribadito che un’applicazione indiscriminata dell’art. 55 della legge n. 184 del 1983 determinerebbe effetti fortemente e irragionevolmente penalizzanti per l’interesse del minore. 8.– Infine, sono state ammesse, con decreto presidenziale del 18 gennaio 2022, due opinioni scritte, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, che provengono da due associazioni di promozione sociale: “Famiglie arcobaleno: associazione genitori omosessuali” e “Rete Lenford Avvocatura per i diritti delle persone LGBTI+ Associazione di promozione sociale”. Gli amici curiae, oltre a rimarcare che un intervento del legislatore sia ormai improcrastinabile, auspicano una sentenza interpretativa di rigetto o una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge n. 184 del 1983, in combinato disposto con l’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui impedisce il sorgere di rapporti civili fra adottato e parenti dell’adottante. 9.– Nell’udienza del 23 febbraio 2022 le parti e l’Avvocatura hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del relativo registro dell’anno 2021, il Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, stabilisce che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. 2.– Il rimettente riferisce che il ricorrente nel giudizio a quo ha chiesto, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, di adottare una minore, che è figlia biologica del partner a cui è legato con un’unione civile e con il quale ha condiviso un percorso di fecondazione assistita, effettuato all’estero, che ha consentito la nascita della bambina. Il giudice a quo afferma di poter accogliere la domanda di adozione, ma non la richiesta di riconoscimento dei rapporti civili della minore con i parenti del ricorrente. Di ostacolo a tale accoglimento sarebbe il rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera all’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui stabilisce che «[l]’adozione non induce alcun rapporto civile […] tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge». Il rimettente, dopo aver escluso che il combinato disposto normativo sopra menzionato possa ritenersi parzialmente e tacitamente abrogato dall’art. 74 cod. civ., come novellato dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), solleva questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU. 2.1.– Constatata la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo passa a motivare la loro non manifesta infondatezza, osservando anzitutto che l’esclusione, nella disciplina dell’adozione in casi particolari, dei rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante arrecherebbe un vulnus agli artt. 3 e 31 Cost., in quanto contrasterebbe «con il principio di parità di trattamento di tutti i figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio e adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. ed è stato inverato dalla riforma sulla filiazione (l. 219/2012) e dal rinnovato art. 74 cc che ha reso unico senza distinzioni il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne». Aggiunge, inoltre, che la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art 8 CEDU, «in quanto impedi[rebbe] al minore inserito nella famiglia costituita dall’unione civile di godere pienamente della sua “vita privata e familiare” intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto alla identità dell’individuo». 3.– Preliminarmente, in rito, l’Avvocatura generale dello Stato ha ravvisato una carenza di motivazione, nell’ordinanza di rimessione, in ordine alla competenza del tribunale per i minorenni ad adottare la pronuncia relativa al riconoscimento dei rapporti civili tra l’adottato e i parenti del genitore adottivo. Tale richiesta – secondo l’Avvocatura – atterrebbe allo status del minore e dunque rientrerebbe nella competenza del tribunale, ai sensi dell’art. 9 del codice di procedura civile. L’Avvocatura ne inferisce che il giudice a quo, una volta dichiarata l’adozione, avrebbe dovuto declinare la propria competenza: il non averlo fatto e il non aver motivato sulle ragioni di tale scelta renderebbero le questioni sollevate inammissibili. 3.1– L’eccezione non è fondata. 3.1.1.– Come più volte affermato da questa Corte, per determinare l’inammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale il difetto di competenza del giudice a quo, così come quello di giurisdizione, deve essere macroscopico e, quindi, rilevabile ictu oculi (con specifico riferimento alla competenza, si vedano le sentenze n. 68 del 2021 e n. 136 del 2008, nonché le ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000, mentre con riguardo alla giurisdizione ex plurimis, sentenze n. 267, n. 99 e n. 24 del 2020, n. 189 del 2018, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999). Qualora sussista l’evidenza del vizio, o nel processo a quo siano state sollevate specifiche eccezioni a riguardo, è richiesta al rimettente una motivazione esplicita (sentenze n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020), rispetto alla quale il giudizio di questa Corte si ferma alla valutazione del suo carattere «non implausibile, ancorché opinabile» (sentenza n. 99 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 24 del 2020, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013, n. 179 del 1999). Qualora, invece, difetti l’evidenza ictu oculi del vizio, l’ammissibilità della questione non è inficiata dalla mancanza di una motivazione espressa, là dove possa inferirsi che il giudice abbia non implausibilmente ritenuto implicita la sussistenza della sua competenza o giurisdizione (sentenza n. 189 del 2018). 3.1.2.– Ebbene, nel caso di specie, occorre, innanzitutto, rilevare che l’art. 38 cod. proc. civ. prevede una rigida preclusione – costituita dalla prima udienza di trattazione – al rilievo, anche officioso, della competenza per materia. Lo scopo di tale previsione, più volte evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, è quello di accelerare i tempi di risoluzione delle controversie e di impedire che le basi per pervenire a una decisione sul merito della causa possano essere rimesse in discussione, a tempo indefinito, per ragioni di rito (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 16 novembre 2021, n. 34569, 21 novembre 2019, n. 30473 e 15 aprile 2019, n. 1051). In particolare, la giurisprudenza di legittimità considera tale barriera temporale, che ha natura preclusiva, applicabile non soltanto ai processi contenziosi di cognizione ordinaria, ma anche a quelli di volontaria giurisdizione da trattare in camera di consiglio (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 22 maggio 2003, n. 8115). Ne consegue che, nel giudizio a quo, dove non risulta che il giudice o le parti abbiano sollevato un rilievo sulla competenza, quest’ultima dovrebbe oramai reputarsi radicata e non dovrebbe essere rimessa in discussione con il giudizio di legittimità costituzionale. 3.2.– Occorre, inoltre, osservare che l’instaurarsi dei legami parentali è un effetto legale automatico della filiazione, come si evince, in materia di adozione piena, dagli artt. 27 e 35 della legge n. 184 del 1983, che si raccordano all’art. 74 cod. civ. Non a caso, nell’ipotesi dell’adozione in casi particolari, la legge interviene espressamente per escludere l’instaurarsi di un simile effetto (per l’appunto con l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 che rinvia all’art. 300, secondo comma, cod. civ.). Or dunque, se la competenza a decidere con riguardo all’adozione in casi particolari spetta al tribunale per i minorenni, non è implausibile ritenere che, sulla richiesta di pronunciarsi in merito alla produzione ex lege dei legami parentali dalla filiazione adottiva, debba decidere lo stesso giudice competente a riconoscere il vincolo adottivo. Non si palesa, pertanto, un vizio rilevabile ictu oculi. 3.3.– Tanto premesso, si deve ritenere che l’odierno rimettente, sollevando la questione di legittimità costituzionale, abbia non implausibilmente reputato implicita la propria competenza a pronunciarsi sul possibile effetto legale della pronuncia di adozione. L’eccezione di inammissibilità va, dunque, rigettata. 4.– Nel merito le questioni sono fondate. 5.– Al fine di esaminare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, si rende necessario, in via preliminare, richiamare i tratti distintivi dell’adozione in casi particolari, che emergono sia dall’originario disegno legislativo sia dal percorso evolutivo tracciato dal diritto vivente. 5.1.– L’istituto è stato introdotto dalla legge n. 184 del 1983 per fare fronte a situazioni particolari, nelle quali versa il minore, che inducono a consentire l’adozione a condizioni differenti rispetto a quelle richieste per l’adozione cosiddetta piena. L’adozione in esame aggrega una varietà di ipotesi particolari riconducibili a due fondamentali rationes. La prima consiste nel valorizzare l’effettività di un rapporto instauratosi con il minore. «La particolare adozione del[l’]art. 44» – ha rilevato questa Corte nella sentenza n. 383 del 1999 – offre al minore «la possibilità di rimanere nell’ambito della nuova famiglia che l’ha accolto, formalizzando il rapporto affettivo instauratosi con determinati soggetti che si stanno effettivamente occupando di lui». A tale esigenza risponde l’adozione del bambino, orfano di ambo i genitori, da parte di persone a lui unite o «da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento» (art. 44, comma 1, lettera a). Si ascrive, inoltre, alla medesima ratio l’adozione del bambino da parte del «coniuge nel caso in cui il minore sia figlio del genitore anche adottivo dell’altro coniuge» (art. 44, comma 1, lettera b), poiché il bambino vive in quel nucleo familiare. La seconda ragione giustificativa, che emerge dal dato normativo, risiede nella difficoltà o nella impossibilità per taluni minori di accedere all’adozione piena. Vi rientrano il caso dell’orfano di entrambi i genitori, che «si trovi nelle condizioni indicate dall’art. 3, comma 1, della l. 5 febbraio 1992, n. 104» (art. 44, comma 1, lettera c) – sia cioè persona «che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» – nonché l’ipotesi del minore non adottabile in ragione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» (art. 44, comma 1, lettera d). Le situazioni particolari richiamate e le motivazioni che sottendono giustificano l’accesso a questa adozione anche – o, nel caso della lettera b), solo – a persone singole, oltre che a persone coniugate (art. 44, comma 3). Al contempo, i suoi presupposti applicativi, avulsi dall’accertamento di uno stato di abbandono – che pure nel caso dell’art. 44, comma 1, lettera d), può di fatto sussistere – spiegano il necessario assenso dei genitori, ove questi vi siano, e il persistere di legami con la famiglia d’origine. Non si rinviene, infatti, nell’adozione in casi particolari una disposizione di tenore analogo all’art. 27, comma 3, della legge n. 184 del 1983, secondo cui, con l’adozione piena, «cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali». 5.2.– Al dato legislativo, che evoca i lineamenti di un istituto marginale e peculiare, è subentrata un’evoluzione del diritto vivente, che ha iniziato a valorizzare alcune specificità di tale adozione e ad ampliarne gradualmente il raggio applicativo. Estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilità, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983 – che viene riferita all’impedimento giuridico, oltre che a quello di fatto – la giurisprudenza ha aperto due nuovi itinerari interpretativi nel solco delle originarie rationes. 5.2.1.– Il primo è racchiuso nell’efficace immagine dell’adozione aperta o mite. Il minore non abbandonato, ma i cui genitori biologici versino in condizioni che impediscono in maniera permanente l’effettivo esercizio della responsabilità genitoriale (cosiddetto «semi-abbandono permanente»), può sfuggire al destino del ricovero in istituto o al succedersi di affidamenti temporanei, tramite l’adozione in casi particolari, che viene applicata sul presupposto dell’impossibilità di accedere all’adozione piena (art. 44, comma 1, lettera d), impossibilità dovuta proprio alla mancanza di un abbandono in senso stretto. L’adozione in casi particolari, che non recide i legami con la famiglia d’origine, consente, pertanto, di non forzare il ricorso all’adozione piena. Quest’ultima, in difetto di un vero e proprio abbandono, andrebbe a ledere il «diritto al rispetto della vita familiare» dei genitori biologici, come sottolinea la Corte EDU, la quale cautamente suggerisce proprio il percorso della «adozione semplice» (Corte EDU, sentenza 21 gennaio 2014, Zhou contro Italia, paragrafo 60; di seguito, in senso analogo, Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafi 202-213 e sentenza 13 ottobre 2015, S.H. contro Italia, paragrafi 48-50 e 57). Inizia, dunque, a rovesciarsi – come osserva la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanze 15 dicembre 2021, n. 40308, 22 novembre 2021, n. 35840, 25 gennaio 2021, n. 1476 e 13 febbraio 2020, n. 3643) – l’originaria raffigurazione dell’istituto in esame quale extrema ratio rispetto all’adozione piena. 5.2.2.– Il secondo itinerario introdotto dal diritto vivente, sempre nel solco dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, riguarda, invece, la situazione di minori che hanno una relazione affettiva con il partner del genitore biologico, quando il primo è giuridicamente impossibilitato ad adottare il minore. Si tratta, per un verso, del convivente di diverso sesso del genitore biologico, che non rientra nella lettera b) riferita al solo coniuge. Per un altro verso, vengono in considerazione il partner in un’unione civile o il convivente dello stesso sesso del genitore biologico, che hanno spesso condiviso con quest’ultimo un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero, posto che la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) consente l’accesso alla PMA alle sole coppie di diverso sesso. Il combinarsi delle due finalità sottese all’adozione in casi particolari – quella vòlta a tutelare l’interesse del minore a preservare rapporti già instaurati e quella diretta a risolvere situazioni di giuridica impossibilità ad accedere all’adozione piena – ha indotto la giurisprudenza a consentire, anche nelle citate ipotesi, l’accesso all’adozione in casi particolari. 5.2.3.– Rispetto a questo secondo percorso evolutivo del diritto vivente, che interseca questioni legate alla procreazione medicalmente assistita e al ricorso all’estero alla PMA e talora alla surrogazione di maternità, questa Corte ha già in passato evidenziato diverse sfaccettature del fenomeno tra di loro interconnesse. Innanzitutto, ha inteso escludere che il «desiderio di genitorialità», attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita «lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati», possa legittimare un presunto «diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo» (sentenza n. 221 del 2019). Inoltre, questa Corte ha, in particolare, ribadito le ragioni del divieto di surrogazione di maternità, che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenza n. 33 del 2021), assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale (in senso analogo, ancora, sentenza n. 33 del 2021). D’altro canto, lo sforzo di arginare tale pratica – sforzo che richiede impegni anche a livello internazionale – non consente di ignorare la realtà di minori che vivono di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. Anche questa Corte – confrontandosi con il diritto vivente – ha ritenuto che l’adozione in casi particolari, lungi dal dare rilevanza al solo consenso e dall’assecondare attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità, dimostri una precipua vocazione a tutelare «l’interesse del minore […] a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate» (sentenze n. 32 del 2021, n. 221 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 272 del 2017). L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del minore e un accertamento sull’idoneità dell’adottante, fermo restando che non può una valutazione negativa sull’idoneità all’assunzione della responsabilità genitoriale fondarsi sul mero «[“]orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)” (sentenza n. 221 del 2019)» (sentenza n. 230 del 2020). Il focus del diritto vivente e della giurisprudenza di questa Corte si è, dunque, concentrato sul primario interesse del minore, principio che è riconducibile agli artt. 2, 30 (sentenze n. 102 del 2020 e n. 11 del 1981) e 31 Cost. (sentenze n. 102 del 2020, n. 272, n. 76 e n. 17 del 2017, n. 205 del 2015, n. 239 del 2014) e che viene proclamato anche da molteplici fonti internazionali, indirettamente o direttamente vincolanti il nostro ordinamento (la Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Dichiarazione sui principi sociali e legali riguardo alla protezione e sicurezza sociale dei bambini, approvata a New York il 3 dicembre 1986; il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; la Convenzione di Strasburgo in materia di adozione, elaborata dal Consiglio d’Europa, entrata in vigore il 26 aprile 1968 e ratificata dall’Italia con la legge 22 maggio 1974, n. 357, nonché da fonti europee (l’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, CDFUE, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; gli artt. 8 e 14 CEDU), come rispettivamente interpretate dalla Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio l’attenzione rivolta all’interesse del minore ha indotto, pertanto, di recente, questa Corte ad allargare lo sguardo dai meri presupposti di accesso all’adozione in casi particolari alla condizione giuridica del minore adottato in tali casi. Simile più ampia prospettiva ha portato, dunque, a rilevare che, se l’istituto in esame offre «una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa», nondimeno esso non appare ancora «del tutto adeguat[o] al metro dei principi costituzionali e sovranazionali» (sentenza n. 33 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 32 del 2021 e n. 230 del 2020). Fra le criticità segnalate spicca quella oggetto del presente giudizio. L’adozione in casi particolari «non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante» (sentenza n. 32 del 2021), «stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 300 cod. civ.» (sentenza n. 33 del 2021). 6.– Il chiaro dato testuale della disposizione di rinvio e la sua incidenza su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari inducono questa Corte a escludere – come del resto già in precedenza rilevato (sentenze n. 33 e n. 32 del 2021) e come sostenuto anche dal giudice rimettente – che la norma censurata possa ritenersi tacitamente abrogata per effetto della modifica dell’art. 74 cod. civ., introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 219 del 2012. Vero è che il nuovo art. 74 cod. civ. prevede che «[l]a parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti». E non può negarsi che, stante il riconoscimento al minore adottato con l’adozione piena dello «stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti» (art. 27 della legge n. 184 del 1983), l’art. 74 cod. civ., dove evoca «la filiazione […] avvenuta nel matrimonio», dovrebbe già ricomprendere il figlio che è considerato «nato nel matrimonio» in virtù dell’adozione legittimante. Sembrerebbe, dunque, potersi inferire che il successivo richiamo al figlio «adottivo», con la sola esclusione dell’adozione di persone maggiori d’età, riguardi in effetti i minori adottati in casi particolari. Ciò nondimeno – come già anticipato – la presenza di un ostacolo chiaro e inequivoco, qual è il rinvio della disposizione censurata all’art. 300, secondo comma, cod. civ., la sua mancata inclusione nell’art. 106 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), che indica le disposizioni abrogate dalla riforma della filiazione, nonché il carattere fortemente innovativo della previsione di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante portano a escludere che un simile mutamento normativo possa ritenersi realizzato con una mera abrogazione tacita e che la via ermeneutica sia sufficiente a superare il dubbio di legittimità costituzionale. 7.– Escluso tale itinerario, questa Corte deve, pertanto, valutare se il diniego di relazioni familiari tra l’adottato e i parenti dell’adottante determini, in contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost., un trattamento discriminatorio del minore adottato rispetto all’unicità dello status di figlio e alla condizione giuridica del minore, avendo riguardo alla ratio della normativa che associa a tale status il sorgere dei rapporti parentali (sul giudizio che indaga il carattere discriminatorio di una disposizione si vedano, ex plurimis, le sentenze di questa Corte n. 276 del 2020, n. 241 del 2014, n. 5 del 2000 e n. 89 del 1996 e l’ordinanza n. 43 del 2021). 7.1.– L’attuale disciplina dei rapporti parentali è espressione della unicità dello status di figlio e, al contempo, risponde al bisogno di tutela dell’interesse del minore, vero principio ispiratore della riforma della filiazione, introdotta nel biennio 2012-2013 (legge n. 219 del 2012 e d.lgs. n. 154 del 2013). 7.1.1.– «Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico», recita il nuovo art. 315 cod. civ., e lo stato giuridico di figlio è il fulcro da cui si diramano i legami familiari, accomunati dal medesimo stipite (art. 74 cod. civ.). Il soggetto, divenuto figlio, entra nella rete parentale che fa capo allo stipite da cui discende ciascuno dei suoi genitori, senza che le linee parentali siano condizionate dalla relazione giuridica fra i genitori. Il figlio nato fuori dal matrimonio è partecipe di due rami familiari tra di loro giuridicamente non comunicanti. La spinta del principio di eguaglianza, alla luce dell’evoluzione della coscienza sociale, ha, dunque, inciso sulla concezione stessa dello status di figlio, che in sé attrae l’appartenenza a una comunità familiare, secondo una logica fondata sulle responsabilità che discendono dalla filiazione e sull’esigenza di perseguire il miglior interesse del minore. Il legislatore della riforma del 2012-2013, nel valorizzare i legami parentali attratti dalla filiazione, ha disegnato un complesso di diritti e di doveri facenti capo ai parenti, che accompagnano il percorso di crescita del minore, con l’apporto di relazioni personali e di tutele patrimoniali. Il figlio ha diritto «a mantenere rapporti significativi con i parenti» (art. 315-bis cod. civ.), a prescindere dal sussistere di legami fra i genitori (art. 337-ter cod. civ.). In particolare, i nonni sono tenuti a concorrere al mantenimento dei nipoti in via sussidiaria (art. 316-bis cod. civ.) e hanno «il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni», nel rispetto dell’«esclusivo interesse del minore» (art. 317-bis cod. civ.). A questo nucleo di previsioni riformate, che accentuano il rilievo personalistico delle relazioni familiari, si aggiungono, poi, gli ulteriori effetti che, a partire dalle relazioni parentali, si diramano nell’intero sistema giuridico e concorrono alla tutela del figlio e alla costruzione dell’identità del minore. 7.1.2.– La normativa appena richiamata è, dunque, espressione sia del principio di eguaglianza sia del principio di tutela dell’interesse del minore che – come più volte ha evidenziato questa Corte (sentenze n. 102 del 2020, n. 272, n. 76 e n. 17 del 2017, n. 205 del 2015, n. 239 del 2014) – si radica anche nell’art. 31, secondo comma, Cost., che impegna la Repubblica a proteggere «l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». Non vi è dubbio, infatti, che la riforma della disciplina della parentela e dei suoi effetti sul piano personale, prima ancora che patrimoniale, siano focalizzati proprio sulla protezione del minore e sull’esigenza che egli cresca con il sostegno di un adeguato ambiente familiare, fermo poi restando che lo stato di figlio perdura per l’intera esistenza del soggetto. La rete dei legami parentali incarna, dunque, uno dei possibili istituti che la Repubblica è chiamata a favorire al fine di proteggere, con una proiezione orizzontale dell’obiettivo costituzionale, l’interesse del minore. 8.– Chiariti i tratti della disciplina che opera quale tertium comparationis e la ratio della normativa sui legami parentali, con il suo ispirarsi a principi costituzionali, occorre ora verificare se la condizione giuridica del minore adottato in casi particolari possa essere equiparata allo status di figlio minore e se sussistano o meno ragioni che giustifichino il mancato instaurarsi di rapporti civili «tra l’adottato e i parenti dell’adottante», sì da escludere la irragionevolezza della disparità di trattamento. 8.1.– Innanzitutto, l’adozione in casi particolari riguarda i minori e si fonda sull’accertamento giudiziale che essa realizza il «preminente interesse del minore» (art. 57, comma 1, della legge n. 184 del 1983), obiettivo primario e principio ispiratore di tale istituto, come costantemente ribadito anche da questa Corte (sentenze n. 33 e 32 del 2021; n. 221 del 2019; n. 272 del 2017; n. 183 del 1994). Quanto agli effetti che l’adozione in casi particolari genera, numerosi indici legislativi depongono nel senso del riconoscimento dello stato di figlio. La condizione di figlio adottivo presenta, innanzitutto, i caratteri della tendenziale stabilità e permanenza, nonché dell’indisponibilità, come è tipico di uno status. Il legislatore, inoltre, si avvale di un lessico inequivoco nell’identificare il rapporto fra genitore e figlio; utilizza cioè un linguaggio ben diverso da quello che adopera per altri istituti anch’essi finalizzati a proteggere il minore, quali la nomina del tutore o l’affidamento temporaneo. L’adottante, ai sensi dell’art. 48, commi 1 e 2, della legge n. 184 del 1983, assume la «responsabilità genitoriale» e ha «l’obbligo di mantenere l’adottato, di istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’art. 147 del codice civile», vale a dire la norma che contempla i «doveri verso i figli». Si applicano, inoltre, gli artt. 330 e seguenti cod. civ. (art. 51, comma 4, e 52, comma 4, della legge n. 184 del 1983). In sostanza, si sommano la responsabilità genitoriale e i doveri verso i figli agli altri molteplici effetti dell’adozione di matrice codicistica: l’adottante trasmette il suo cognome all’adottato, che diviene suo erede non solo legittimo, ma legittimario; se il figlio adottivo non può o non vuole ereditare dall’adottante, opera la rappresentazione a beneficio dei suoi discendenti; l’adozione determina l’automatica revoca del testamento dell’adottante; sorgono fra adottato e adottante reciproci obblighi alimentari; il figlio adottivo è ricompreso nell’«ambito della famiglia» di cui all’art. 1023 cod. civ.; i vincoli parentali rilevano ai fini dei divieti matrimoniali. E ancora, se è vero che lo status è appartenenza a una comunità, non può tacersi che il legislatore, ancor prima che la novella di riforma dell’art. 74 cod. civ. alludesse al possibile sorgere di rapporti familiari, ha palesato, con l’art. 57, comma 2, della legge n. 184 del 1983, che l’adozione di un minore non può prescindere dal suo inserimento in un contesto familiare. Nel decidere sull’adozione in casi particolari, il giudice deve verificare non soltanto «l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il minore» dell’adottante, ma anche valutare «l’ambiente familiare degli adottanti». 8.2.– Il quadro normativo richiamato palesa, dunque, che il minore adottato ha lo status di figlio e nondimeno si vede privato del riconoscimento giuridico della sua appartenenza proprio a quell’ambiente familiare, che il giudice è chiamato, per legge (art. 57, comma 2, della legge n. 184 del 1983), a valutare, al fine di deliberare in merito all’adozione. Ne consegue che, a dispetto della unificazione dello status di figlio, al solo minore adottato in casi particolari vengono negati i legami parentali con la famiglia del genitore adottivo. Irragionevolmente un profilo così rilevante per la crescita e per la stabilità di un bambino viene regolato con la disciplina di un istituto, qual è l’adozione del maggiore d’età, plasmato su esigenze prettamente patrimoniali e successorie. La norma censurata priva, in tal modo, il minore della rete di tutele personali e patrimoniali scaturenti dal riconoscimento giuridico dei legami parentali, che il legislatore della riforma della filiazione, in attuazione degli artt. 3, 30 e 31 Cost., ha voluto garantire a tutti i figli a parità di condizioni, perché tutti i minori possano crescere in un ambiente solido e protetto da vincoli familiari, a partire da quelli più vicini, con i fratelli e con i nonni. Al contempo, la disciplina censurata lede il minore nell’identità che gli deriva dall’inserimento nell’ambiente familiare del genitore adottivo e, dunque, dall’appartenenza a quella nuova rete di relazioni, che di fatto vanno a costruire stabilmente la sua identità. 8.3.– La connotazione discriminatoria della norma censurata non può, d’altro canto, reputarsi superata adducendo, quale ragione giustificativa della diversità di trattamento del minore adottato in casi particolari, la circostanza che tale adozione non recide i legami con la famiglia d’origine. In realtà, l’aggiunta dei legami familiari accomunati dallo stipite, da cui deriva il genitore adottivo, a quelli accomunati dallo stipite, da cui discende il genitore biologico, non è che la naturale conseguenza di un tipo di adozione che può pronunciarsi anche in presenza dei genitori biologici e che vede, dunque, il genitore adottivo, che esercita la responsabilità genitoriale, affiancarsi a quello biologico. Come sottolinea la più recente giurisprudenza di legittimità, «l’adozione in casi particolari ex art. 44 l. adoz. crea un vincolo di filiazione giuridica che si sovrappone a quello di sangue, non estinguendo il rapporto con la famiglia di origine» (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 22 novembre 2021, n. 35840; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 13 maggio 2020, n. 8847). Deve, allora, ritenersi che, se l’unicità dello status di figlio si spiega dove serve a evitare il contrasto fra due diverse verità (art. 253 cod. civ.), viceversa, quando è lo stesso legislatore ad affiancare al genitore biologico il genitore adottivo e a sovrapporre due vincoli di filiazione, l’unicità della famiglia si tramuta in un dogma, che tradisce il retaggio di una logica di appartenenza in via esclusiva. Sennonché l’idea per cui si possa avere una sola famiglia appare smentita proprio dalla riforma della filiazione e da come il principio di eguaglianza si è riverberato sullo status filiationis. Il figlio nato fuori dal matrimonio ha, infatti, a ben vedere, due distinte famiglie giuridicamente tra di loro non comunicanti. Occorre, poi, ulteriormente precisare che la disciplina censurata non trova alcuna giustificazione nell’assunto di evitare una distonia nell’avere una famiglia adottiva, oltre a quella d’origine. Tale motivazione è, invero, contraddetta dall’esigenza di proteggere l’identità del minore, che è quella di un bambino che vive in un nuovo nucleo familiare, anche se talora continua ad avere dei rapporti con i parenti d’origine o con lo stesso genitore biologico. L’identità stessa del bambino è connotata da questa doppia appartenenza, e disconoscere i legami che scaturiscono dal vincolo adottivo, quasi fossero compensati dai rapporti familiari di sangue, equivale a disconoscere tale identità e, dunque, non è conforme ai principi costituzionali. Del resto, proprio l’esigenza di rispettare l’identità del minore spiega la necessità di riconoscere i nuovi legami familiari, anche nel caso in cui il bambino orfano venga adottato dai suoi stessi parenti. L’adozione già oggi incide giuridicamente sul rapporto dell’adottante con il minore, sicché nel caso in cui, ad esempio, la zia adotta il nipote, al suo precedente ruolo si sovrappone quello di madre adottiva, con tutti gli effetti giuridici che ne conseguono. Non si comprende, allora, perché questo non debba coinvolgere anche gli altri componenti del nucleo familiare. Ma, soprattutto, se si ripercorre la casistica che dà accesso all’adozione in casi particolari ci si avvede che si tratta di situazioni che richiedono di potenziare le tutele e non certo di ridurle. Vengono in considerazione minori orfani o orfani con disabilità, che sono adottati da terzi quando non vi sia la disponibilità dei parenti (art. 44, comma 1, lettere a e c); minori abbandonati (e dunque senza una famiglia che si prenda cura di loro), ma non adottabili (art. 44, comma 1, lettere d); minori semi-abbandonati, con genitori e famiglie inidonei ad occuparsi adeguatamente di loro (art. 44, comma 1, lettera d); minori che vivono in un nuovo nucleo familiare (art. 44, comma 1, lettera b); minori che hanno un solo genitore (art. 44, comma 1, lettera d). Si tratta, in sostanza, di bambini o ragazzi per i quali la nuova rete di rapporti familiari non è certo un privilegio, quanto piuttosto costituisce, oltre che un consolidamento della tutela rispetto a situazioni peculiari e delicate, il doveroso riconoscimento giuridico di relazioni, che hanno una notevole incidenza sulla crescita e sulla formazione di tali minori e che non possono essere negate, se non a costo di incidere sulla loro identità. 9.– Evidenziate le ragioni del contrasto con gli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost., la norma censurata palesa una violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La Corte EDU, oltre ad aver interpretato in senso ampio il concetto di vita familiare, di cui all’art. 8 CEDU, includendovi le relazioni adottive che devono creare vincoli non diversi da quelli biologici (Corte EDU, sentenza, 28 novembre 2011, Negrepontis-Giannisis contro Grecia; sentenza 15 dicembre 2004, Plau e Puncernau contro Andorra; sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio), ha anche precisato – in una risalente e storica sentenza relativa a una disciplina, che consentiva alla madre non coniugata di creare un legame con la figlia “illegittima” solo tramite l’adozione semplice – che simile istituto determinava una violazione dell’obbligo positivo a garantire la vita familiare. Tale adozione era, infatti, inidonea a far sorgere legami parentali, che – secondo la Corte EDU – rappresentano «una parte considerevole della vita familiare» (Corte EDU sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, paragrafo 45, secondo cui «[i]n the Court’s opinion, “family life” within the meaning of Article 8 includes the ties between near relatives, for instance those between grandparents and grandchildren, since such relatives may play a considerable part in family life. “Respect” for a family life so understood implies an obligation for the State to act in a manner calculated to allow these ties to develop normally»). Al contempo, la Corte EDU ha messo in luce come la filiazione riguardi un profilo basilare dell’identità stessa del minore, il che attrae tale concetto nella nozione di vita privata e familiare (Corte EDU, sentenza 26 settembre 2014, Mennesson contro Francia, paragrafi 96-101; sentenza 26 settembre 2014, Labassee contro Francia, paragrafi 75-80). Di recente, poi, la Corte EDU è intervenuta con specifico riferimento alla posizione dei minori nati a seguito del ricorso alla tecnica della surrogazione di maternità – la fattispecie oggetto del giudizio a quo – e ha fornito, a riguardo, una duplice indicazione ermeneutica. Da un lato, ha escluso che dall’art. 8 CEDU si possa inferire un diritto al riconoscimento dei rapporti di filiazione conseguiti all’estero, facendo ricorso alla surrogazione di maternità, e ha dato atto di un ampio margine di apprezzamento spettante agli Stati membri in merito alla possibilità di riconoscere tali rapporti di filiazione (Corte EDU, sentenza 18 agosto 2021, Valdìs Fjölnisdóttir e altri contro Islanda, paragrafi 66-70 e 75; sentenza 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafi 197-199; sentenza Mennesson, paragrafo 74; sentenza Labassee, paragrafo 58). Da un altro lato, ove emerga l’esigenza di tutelare l’interesse del minore a preservare un legame che de facto si sia venuto a consolidare con il genitore d’intenzione, la Corte EDU ha sottolineato che, in tal caso, debba essere riconosciuto un rapporto di filiazione anche a tutela della stessa identità del minore (Corte EDU, sentenza Mennesson, paragrafi 80, 87 e seguenti; sentenza Labassee, paragrafi 75-80; nonché, sulle circostanze che fanno emergere l’interesse del minore da preservare, si veda anche sentenza Paradiso e Campanelli, paragrafo 148). A fronte di tale interesse, la Corte EDU ha poi precisato che gli Stati membri, pur restando liberi di individuare l’istituto più consono a garantire la tutela del minore, nel bilanciamento con le varie esigenze implicate, incontrano nondimeno un limite al loro margine di apprezzamento nella «condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (sentenza di questa Corte n. 33 del 2021, che richiama il paragrafo 51, della sentenza della Corte EDU, 16 luglio 2020, D. contro Francia; in senso conforme si vedano anche la decisione 12 dicembre 2019, C. ed E. contro Francia, paragrafo 42, nonché Corte EDU, grande camera, parere consultivo 9 aprile 2019, paragrafo 54, reso ai sensi del Protocollo n. 16, non ratificato dall’Italia). Ebbene, poiché il riconoscimento al minore di legami familiari con i parenti del genitore, in conseguenza dell’acquisizione dello stato di figlio, riveste – come si è sopra evidenziato (Corte EDU, sentenza Marckx, paragrafo 45) – un significato pregnante e rilevante nella nozione di “vita familiare” e va a comporre la stessa identità del bambino (sentenza Mennesson, paragrafi 96-101; sentenza Labassee, paragrafi 75-80), si deve ritenere che la norma censurata, ponendosi in contrasto con l’art. 8 CEDU, violi gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, primo comma, Cost. La declaratoria di illegittimità costituzionale rimuove, dunque, un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari (Corte EDU, sentenza D. contro Francia, paragrafo 51; decisione C. ed E. contro Francia, paragrafo 42; nonché il parere del 9 aprile 2019, paragrafo 54) e consente a tale istituto, la cui disciplina tiene in equilibrio molteplici istanze implicate nella complessa vicenda, di garantire una piena protezione all’interesse del minore. 10.– In conclusione, l’art. 55 della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui esclude, attraverso il rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., l’instaurarsi di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante, vìola gli artt. 3, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU. La rimozione della disposizione censurata nel suo rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ non richiede coordinamenti sistematici, poiché, con riferimento alle relazioni parentali, è l’art. 74 cod. civ., come novellato nel 2012, che svolge tale precipua funzione. La declaratoria di parziale illegittimità costituzionale non fa che rimuovere l’ostacolo legislativo che impediva di riferire il richiamo al figlio adottivo, di cui all’art. 74 cod. civ., al minore adottato in casi particolari. Tale esito consente, pertanto, l’espansione dei legami parentali tra il figlio adottivo e i familiari del genitore adottante che condividono il medesimo stipite, mantenendo – grazie alla definizione adamantina dell’art. 74 cod. civ. – la distinzione fra i parenti della linea adottiva e quelli della linea biologica. La chiarezza del meccanismo disegnato dall’art. 74 cod. civ. permette, di riflesso, di applicare, in maniera del tutto lineare, le conseguenze e gli effetti giuridici che nel sistema normativo discendono dalla sussistenza dei legami familiari, sicché potranno applicarsi al figlio adottivo tutte le norme che hanno quale presupposto l’esistenza di rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4648 del 2021, proposto da Istituto Po. S. Ch. dr. di Bu. srl in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato An. Sc., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di giustizia; contro Regione Campania, non costituita in giudizio; Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Lu. Sa., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di giustizia; Asl Salerno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati Va. Ca. ed Em. To., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno Sezione seconda, n. 01641/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis) e dell'Asl Salerno; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2022 il Cons. Pier Luigi Tomaiuoli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.- La società appellante, esercente l'attività di medicina di laboratorio e centro erogatore di prestazioni di diabetologia, con istanza del 3 settembre 2015, richiedeva l'autorizzazione, in regime privatistico, "alla realizzazione di attività specialistiche ambulatoriali e chirurgiche (classe I), con B.M.R. (biologia e medicina della riproduzione), senza dotazione di posti letto". Con nota del 16 dicembre 2015 la Commissione istituita presso l'ASL di Salerno riscontrava positivamente, in capo all'istante, la sussistenza dei requisiti strutturali ed impiantistici necessari, trasmettendo tali risultanze al Comune di (omissis) e alla Commissione regionale. A fronte del silenzio di quest'ultima amministrazione, l'appellante, in data 31 marzo 2016, sollecitava il Comune di (omissis) al rilascio dell'autorizzazione richiesta, ritenendo formatosi il silenzio assenso, ai sensi dell'art. 17-bis legge n. 241 del 1990. Con provvedimento del 3 maggio 2016, il Comune di (omissis) autorizzava l'istante alla realizzazione di quanto previsto nel progetto relativo alle attività specialistiche richieste. Una volta ottenuta l'autorizzazione, la società odierna appellante realizzava tutti i lavori strutturali ed impiantistici necessari per lo svolgimento delle attività, procedendo anche all'acquisto delle relative attrezzature, affrontando costi per alcune centinaia di migliaia di euro. L'ASL di Salerno, con successiva nota del 10 gennaio 2017, comunicava, tuttavia, che la Commissione regionale, nella seduta del 20 dicembre 2016, aveva ritenuto non rispettato l'iter procedurale previsto dai decreti di giunta della Regione Campania regolanti la materia. Questa nota veniva impugnata dall'appellante innanzi al TAR Campania, Salerno (r.g. 420 del 2017). Indi, la Commissione regionale, con nota del 4 aprile 2017, esprimeva parere non favorevole all'autorizzazione alla realizzazione della attività specialistiche, poiché il fabbisogno di P.M.A. di 1° livello sarebbe già stato soddisfatto. Avverso tale atto la ricorrente proponeva un secondo ricorso innanzi al Tar Campania, Salerno (r.g. 2001/18). L'odierna appellante, non essendo comunque venuto meno il provvedimento comunale di autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per lo svolgimento delle attività specialistiche menzionate, una volta completate queste opere, in data 6 novembre 2018, richiedeva al Comune di (omissis) il rilascio dell'autorizzazione all'esercizio - sempre in regime privatistico - di quelle attività . Sollecitato alla definizione della pratica, il Comune, in data 29 agosto 2019, rigettava la domanda, in ragione del parere negativo dell'ASL dell'11 luglio 2019, incentrato, a sua volta, sul precedente parere negativo della Commissione regionale all'autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per le attività richieste. Anche tali ultimi atti venivano impugnati innanzi al TAR Campania, Salerno (r.g. n. 1413 del 2019). 2.- Con i tre ricorsi suddetti l'odierna appellante formulava diverse censure, con le quali faceva valere le seguenti circostanze ed argomentazioni: 1) essa, con provvedimento del 3 maggio 2016, era stata autorizzata alla realizzazione delle opere necessarie allo svolgimento dell'attività specialistiche oggetto di richiesta, sicché tale atto non poteva essere disapplicato, ma avrebbe dovuto essere, se del caso, impugnato dall'Asl o dalla Regione; 2) l'assenso delle autorità sanitarie e regionali doveva comunque ritenersi acquisito per silentium, ai sensi dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990; 3) in ogni caso, la delibera di Giunta regionale, cui aveva fatto riferimento la Commissione nel suo parere negativo, non solo era successiva all'istanza della ricorrente, ma riguardava, in via esclusiva, la procreazione medicalmente assistita, che costituiva solo una delle attività specialistiche oggetto dell'istanza; 4) trattandosi di attività da svolgere in regime privatistico, il rilascio dell'autorizzazione sarebbe stato doveroso, a pena di violazione degli artt. 3 e 41 Cost. e dei principi del diritto dell'Unione europea a tutela della libera concorrenza; 5) una volta ottenuta l'autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per lo svolgimento delle attività specialistiche, la successiva autorizzazione all'esercizio di tali attività avrebbe potuto essere denegata solo per ragioni che riguardavano l'esistenza di condizioni tecnico-strutturali; né gli atti impugnati avrebbero potuto essere considerati come atti di autotutela, non ricorrendo alcuno degli elementi voluti dalla legge per l'emanazione di atti di secondo grado. In tutti i giudizi si costituiva l'ASL, instando per il rigetto del ricorso avversario, mentre il Comune di (omissis) si costituiva nel solo giudizio iscritto al n. 1413/19 R.G., concludendo anch'esso per il rigetto del ricorso; la Regione Campania, per contro, non si costituiva in nessuno dei tre giudizi. Con la sentenza impugnata il TAR Campania, Salerno, riuniti i ricorsi, li rigettava nel merito, affermando che nel caso di specie, non trattandosi di attività co-decisoria ma consultiva, non poteva operare il meccanismo del silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e che non potevano essere considerati violati i principi costituzionali e comunitari invocati, dal momento che anche l'esercizio di attività mediche private è legittimamente sottoposto ad un regime autorizzatorio; compensava, altresì, le spese di lite. 3.- Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello la ricorrente in primo grado, lamentandone, in via principale, l'erroneità, per non avere considerato che, come dedotto in tutti i ricorsi, il provvedimento di autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie alle attività mediche specialistiche era già stato ottenuto, sicché la successiva istanza di autorizzazione all'esercizio di quelle attività non poteva basarsi sulla presunta illegittimità del primo provvedimento, per fare valere la quale esso avrebbe dovuto essere previamente rimosso, in autotutela o in via giurisdizionale, su iniziativa delle altre amministrazioni interessate (l'ASL e la Regione). In via subordinata, l'appellante ha spiegato ulteriori motivi di appello, lamentando: 1) la violazione dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, opererebbe per tutti gli assensi, concerti e nulla sosta "comunque denominati"; 2) la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, perché il primo giudice non si sarebbe pronunciato sui motivi di ricorso con cui si evidenziava che la delibera di Giunta sull'assenza di fabbisogno regionale, richiamata dagli atti impugnati, riguardava solo la procreazione medicalmente assistita e non le altre attività specialistiche pure oggetto di istanza, e perché, in ogni caso, la valutazione sul fabbisogno avrebbe dovuto essere condotta in concreto e previa adeguata istruttoria; 3) la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di libera concorrenza, male interpretati dal primo giudice, non potendo il limite del fabbisogno regionale impedire l'accesso al mercato ai soggetti che offrono privatamente migliori servizi, "restringendo così le possibilità di scelta del presidio di cura da parte del cittadino che abbia deciso di curarsi a proprie spese senza aggravio per l'erario"; 4) l'omesso esame dei motivi di ricorso con cui si faceva valere l'illegittima considerazione, quale motivo ostativo al diniego, della saturazione del fabbisogno regionale, estranea al procedimento in esame; 5) l'omessa pronuncia sul motivo di ricorso con cui si era dedotta la violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, non avendo l'amministrazione preso specifica posizione sulla memoria procedimentale dell'appellante. Si sono costituiti l'ASL e il Comune di (omissis), aderendo alle tesi del primo giudice e concludendo per il rigetto dell'appello. Tutte le parti costituite hanno depositato memorie nel corso del giudizio e all'udienza del 10 febbraio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.- Il primo motivo di appello, proposto in via principale, è fondato. 2.- Come correttamente osservato dall'appellante, la delibera di Giunta regionale n. 7301 del 31 dicembre 2001, che regola la materia per cui è causa, in conformità all'art. 8-ter del d.lgs. n. 229 del 1999, distingue logicamente e cronologicamente i due procedimenti di autorizzazione alla realizzazione di una struttura sanitaria, anche in ampliamento, e di successiva autorizzazione all'esercizio di quella struttura, entrambe di competenza comunale, con il coinvolgimento dell'ASL (in entrambi i procedimenti) e della Regione Campania (nel primo procedimento). Più in particolare, la prima autorizzazione è presupposto della seconda; nella prima è previsto il parere di una Commissione ASL, che confluisce nel parere di un Commissione regionale e che, nei termini procedimentali ivi indicati, accerta la compatibilità o meno del progetto rispetto al fabbisogno regionale (punto 1.2.); nella seconda, invece, è prevista l'acquisizione di un parere dell'ASL limitato al rispetto dei requisiti igienico-sanitari, di sicurezza sul lavoro e di quelli strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi (punti 2 e 2.1). Nel secondo procedimento, dunque, non è prevista alcuna valutazione della compatibilità con il fabbisogno regionale, e ciò per l'ovvia ragione che tale valutazione deve essere espressa nel primo procedimento, il quale, se esitato positivamente, autorizza il privato alla realizzazione di opere, che spesso presuppongono, come nel caso di specie, costosi investimenti per la realizzazione delle strutture e l'acquisto dei macchinari. Nel secondo procedimento, che può darsi solo una volta ottenuta l'autorizzazione alla realizzazione della struttura, l'unica verifica rimessa all'amministrazione è allora quella del rispetto dei menzionati requisiti igienico-sanitari, tecnici ed organizzativi. Nel caso di specie, come si è detto in fatto, l'appellante, con provvedimento del 3 maggio 2016, era stata autorizzata alla realizzazione delle opere necessarie allo svolgimento dell'attività specialistiche oggetto di richiesta, avendo il Comune ritenuto acquisito per silentium, ai sensi dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, il parere favorevole della Commissione regionale. Per quanto sia corretta l'osservazione del primo giudice secondo cui l'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 si applichi solo alle attività co-decisorie e non a quelle consultive (tra le tante, C.d.S., sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 445; C.d.S., sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559; C.d.S., sez. III, 20 giugno 2018, n. 3783; C.d.S., Commissione speciale, 13 luglio 2016, n. 1640), resta il fatto che un atto amministrativo illegittimo di natura non regolamentare può essere rimosso in autotutela, sussistendo i presupposti di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, ovvero annullato in giudizio a seguito di impugnazione nel termine decadenziale, ma non può essere disapplicato (C.d.S., sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1439; C.d.S., sez. V, 17 febbraio 2010, n. 934), a pena di vanificazione della fondamentale esigenza di consolidamento dell'attività amministrativa, esigenza preordinata alla stabilità della regolazione sia dell'interesse pubblico affidato all'amministrazione sia degli altri interessi pubblici e privati coinvolti nell'agere amministrativo. La compatibilità delle attività con il fabbisogno regionale, dunque, non poteva più essere messa in discussione nel successivo procedimento di autorizzazione all'esercizio delle attività, se non previa rimozione del primo provvedimento, nelle forme e nei limiti previsti dall'ordinamento. 3.- Avendo la parte appellante proposto gli altri motivi di gravame solo in via subordinata, essi non devono essere esaminati, in omaggio al principio dispositivo che sorregge anche il processo amministrativo (C.d.S., Adunanza plenaria, 27 aprile 2015, n. 5). 4.- Conclusivamente, l'appello deve essere accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza gravata, gli atti impugnati con i ricorsi in primo grado devono essere annullati. 5.- Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza delle amministrazioni resistenti e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione terza, definitivamente pronunciando, sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, annulla gli atti impugnati con i ricorsi in primo grado. Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, a rifondere alla parte ricorrente le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida in complessive euro 6.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022, con l'intervento dei magistrati: Giulio Veltri - Presidente FF Giovanni Pescatore - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE FAMIGLIA riunita in camera di consiglio nelle persone dei Signori Magistrati: Dott. Enrico Della Fina - Presidente rel. Dott.ssa Carmela Mascarello - Consigliere Dott.ssa Carla Beltramino - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Letto il ricorso in appello avverso la sentenza n. 3830/2018 del Tribunale di Torino, emessa in data 18 luglio 2018, proposto da AVV. (...), in qualità di curatore speciale del minore (...), elettivamente domiciliata presso il suo Studio in Torino, via (...) APPELLANTE contro (...), elettivamente domiciliato in Torino, via Luigi Cibrario 12, presso lo Studio degli avv. ti Vittorio CAMBONI e Arnaldo NARDUCCI, che lo rappresentano e difendono in forza di procura in atti APPELLATO e in contraddittorio con (...), elettivamente domiciliata in Torino, via (...), presso lo Studio degli avv.ti Ro.BI. e La.DU., che la rappresentano e difendono in forza di procura in atti APPELLATA nonché con il PROCURATORE GENERALE della Repubblica di Torino, in persona del Sostituto dott.ssa N.Q. INTERVENUTO IN CAUSA MOTIVAZIONE Con ricorso notificato in data 06.02.2015 il sig. (...) conveniva in giudizio il minore (...), rappresentato dalla madre, sig.ra (...), esponendo di aver avuto una relazione sentimentale con la sig.ra (...), durata dal marzo del 2008 al giugno del 2012, e di aver riconosciuto il minore con atto pubblico di riconoscimento di figlio naturale in data 30.07.2008, "pur nella consapevolezza che il bambino non fosse stato concepito nel corso della suddetta unione". Dichiarava inoltre che l'interruzione della relazione con la sig.ra faceva venir meno i presupposti del riconoscimento. Sulla base di tali premesse, il (...) chiedeva al Tribunale di Torino di dichiarare nullo per difetto di veridicità e, per l'effetto, di revocare il riconoscimento quale figlio naturale del minore. La (...) si costituiva tardivamente, contestava i fatti così come esposti dal ricorrente ed eccepiva la nullità del procedimento per mancata nomina di un curatore speciale. Con ordinanza del 29.01.2016 veniva, pertanto, nominata curatore del minore l'avv. (...). Con atto di citazione notificato in data 11.02.2016 il (...) conveniva in giudizio il curatore speciale, avv. (...), il quale, nel merito, in via principale, chiedeva di dichiarare che il sig. (...) non è legittimato a proporre l'azione ex. art. 263 c.c. e per l'effetto respingere la domanda; nel merito e in via subordinata, domandava di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; in via riconvenzionale di dichiarare che il minore ha diritto a mantenere il cognome (...); accertare e per l'effetto dichiarare l'illiceità del comportamento del sig. (...) e conseguentemente condannare quest'ultimo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nella misura di Euro 250000 o in quella maggiore o minore accertanda in corso di causa, da determinarsi in via equitativa. Preliminarmente il Collegio investito della decisione affrontava la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che non fosse "non manifestamente infondata e rilevante"; disponeva inoltre una CTU genetica volta ad accertare il rapporto di filiazione tra il minore e il sig. N.. In data 27.05.2018 il CTU depositava la relazione attestante l'esclusione della paternità biologica del (...) nei confronti del minore. Con sentenza del 18.07.2018 il Tribunale di Torino rigettava la domanda proposta dal curatore di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; dichiarava che il minore non è figlio di (...); disponeva che il cognome "N." del minore venisse mantenuto; ordinava all'Ufficiale di Stato Civile di Torino di provvedere alla trascrizione della sentenza nei registri di nascita del Comune di Torino; compensava le spese di lite e le spese di CTU. Avverso tale sentenza propone appello il Curatore speciale del minore. Ritiene parte appellante che la sentenza di primo grado sia viziata, poiché ha omesso di pronunciarsi su alcune domande, in particolare sulla richiesta di dichiarare il (...) non legittimato a proporre l'azione ex. art. 263 c.c., nonché sulla domanda in via riconvenzionale subordinata di risarcimento del danno; contesta inoltre la sentenza per non aver, a suo dire, preso in considerazione l'interesse del minore nella sua ampia esplicazione derivante dalle Convenzioni internazionali e dalla giurisprudenza costituzionale, anche in relazione alla questione di legittimità costituzionale proposta; da ultimo lamenta un vizio nell'iter argomentativo impiegato per il rigetto della questione di legittimità costituzionale. Con riguardo al primo motivo di appello, l'avv. (...) ritiene insufficiente la motivazione della sentenza in merito alla legittimazione attiva del sig. (...), poiché la questione in esame è stata assorbita a quella inerente l'esclusione dei profili di illegittimità costituzionale. Ribadisce inoltre che la linea evolutiva giurisprudenziale è pervenuta a considerare l'interesse del minore a conservare il proprio status prevalente rispetto alla concezione assoluta del favor veritatis nei rapporti di filiazione, ed evidenzia che l'interesse dello Stato alla verità biologica non è assoluto, come si evince dalla normativa in materia di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall'introduzione del termine quinquennale per l'esercizio dell'azione di impugnazione. Nel prosieguo sottolinea come in ipotesi di riconoscimenti consapevolmente non veritieri il diritto del padre alla verità biologica non possa essere tutelato, avendo egli consapevolmente determinato il falso rapporto di filiazione, mentre nel caso di specie il minore si è relazionato con il sig. (...) interiorizzando il rapporto di parentela al punto da chiamarlo "papà". Parte appellante insiste allora sull'importanza del mantenimento del rapporto di filiazione, dalla cui perdita discenderebbe anche la perdita dell'identità stessa del minore, nonché un grave danno psicologico, sociale ed economico per (...), che dall'età di 2 anni considera il (...) suo padre. Per ciò che concerne la questione sulla legittimità costituzionale, l'appellante contesta la decisione del giudice di prime cure laddove ha escluso profili di irragionevolezza del diverso trattamento dell'ipotesi riconducibile all'art. 263, rispetto all'ipotesi della procreazione medicalmente assistita. Sottolinea infatti come le due situazioni siano accomunate dalla consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione dichiarato e la relazione biologica, e quindi coincidano per ciò che riguarda l'elemento soggettivo dell'autore del riconoscimento e la sua assunzione di responsabilità, indipendentemente dal momento, ex post o ex ante rispetto alla nascita, in cui questa avviene. Sulla domanda subordinata di risarcimento del danno, l'avv. (...) sottolinea che in caso di conferma della sentenza di primo grado il minore subirebbe la perdita del sostegno economico paterno. Per questi motivi l'appellante chiede, in riforma della sentenza n. 3830/2018 emessa dal Tribunale di Torino in data 18 luglio 2018, nel merito in via principale di dichiarare che il sig. (...) non è legittimato a proporre l'azione ex art. 263 c.c., e per l'effetto respingere la domanda; nel merito in via subordinata di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; nel merito in via di ulteriore subordine, nella denegata ipotesi di conferma della sentenza, accertare e per l'effetto dichiarare l'illiceità del comportamento del sig. (...) e conseguentemente condannare quest'ultimo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nella misura di Euro 250000 o in quella maggiore o minore accertanda in corso di causa, da determinarsi in via equitativa; in ogni caso respingere ogni avversa domanda; con vittoria di spese e onorari di lite, per entrambi i gradi di giudizio, oltre rimborso forfettario, spese generali del 15%, CPA e IVA come per legge. Si costituisce in giudizio (...), madre del minore, dolendosi della decisione del giudice di prima istanza e richiamando le difese di primo grado. In particolare l'appellata contesta il mancato accoglimento delle istanze istruttorie formulate in primo grado, che dimostrerebbero la scorrettezza del comportamento del (...), il quale per 7 anni si sarebbe comportato come un padre per (...). Inoltre il sig. (...) avrebbe notificato l'atto di citazione alla sig.ra (...) all'indirizzo di via P. 105, a T., pur avendola da qui fatta allontanare fin dal 31.12.2014 e quindi sapendo che non avrebbe potuto averne conoscenza. La (...) lamenta altresì la mancanza di motivazione circa il rigetto delle istanze istruttorie e sostiene che il Tribunale avrebbe dimostrato di ignorare l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale favorevole all'abbandono della concezione assoluta di favor veritatis nei rapporti di filiazione. Parte appellata rileva poi che, nel caso di conferma della sentenza di primo grado, il minore perderebbe il diritto alla propria identità e alla propria famiglia, nonché la cittadinanza italiana, e quindi il diritto di continuare a vivere nell'ambiente e nel contesto sociale in cui è cresciuto. Sottolinea infine che (...) intrattiene tuttora con il (...) frequenti rapporti telefonici, e che la prosecuzione del rapporto di filiazione deve essere mantenuta nel suo interesse. Per questi motivi parte appellata chiede, in totale riforma della sentenza di primo grado, previa ammissione delle occorrende e dedotte prove, di dichiarare che (...) non è legittimato a proporre l'azione di cui all'art. 263 e per l'effetto respingere la domanda da lui proposta; con il favore degli onorari e delle spese. Si costituisce in giudizio (...), in qualità di parte appellata. Ritiene condivisibili le valutazioni dei fatti e le considerazioni in diritto riportate nella sentenza impugnata, così come suffragate dalle conclusioni del CTU e ribadisce che la sig.ra (...) avrebbe approfittato delle fragilità psicologiche del (...), inducendolo a riconoscere il minore senza pensare alla gravità e alle conseguenze di tale atto, ma bensì mosso dall'affetto per il bambino e dal bisogno di consolidare la relazione sentimentale appena cominciata. Ritiene inoltre parte appellata che alcun dolo possa essere riconosciuto per aver esercitato un proprio diritto, tale da giustificare la richiesta di risarcimento del danno posta in essere dalla curatela. Richiama infine i capitoli di prova già dedotti in primo grado e chiede in via principale e nel merito di respingere l'appello e per l'effetto confermare integralmente la sentenza del Tribunale di Torino n. 3830/2018 del 18.07.2018; in via istruttoria ammettere le prove già dedotte nel giudizio di primo grado come richiamate. All'udienza del 04.10.2019 il Consigliere relatore dott.ssa Melilli dichiarava che avrebbe presentato istanza di astensione, essendosi occupata del caso già in primo grado. In data 15.11.2019 le parti concordavano sulla necessità di fissare udienza di precisazione delle conclusioni in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale su questione attinente ad analogo procedimento sollevata da questa stessa Corte. Con Provv. del 26 maggio 2020 questa Corte disponeva la trattazione scritta dell'udienza già fissata per il 19.06.2020, assegnando alle parti termine di tre giorni anteriori all'udienza per il deposito di note scritte contenenti la precisazione delle proprie conclusioni. In data 19.06.2020 si dava atto che tutte le parti avevano depositato note scritte di trattazione e la Corte tratteneva una prima volta la causa a decisione. Con ordinanza del 23/10/2020 la Corte ammetteva parte della prova orale per testi dedotta dall'appellata D.J., e la prova veniva pertanto assunta dal relatore delegato, con i ritardi dovuti alla situazione pandemica insorta. Nuovamente assegnata e trattenuta a decisione, la causa veniva rimessa a nuova udienza di precisazione delle conclusioni, poiché del collegio che aveva trattenuto la causa a decisione risultava far parte la cons. (...), già in precedenza astenutasi. Nuovamente precisate le conclusioni, la causa è stata finalmente trattenuta a decisione. La decisione della Corte non può prescindere dall'intervenuto pronunciamento della Corte costituzionale con sentenza n. 127/2020, resa fra l'altro proprio su rimessione della medesima questione, in causa diversa, da questa stessa Corte d'appello. Investita della questione della eventuale illegittimità costituzionale dell'art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che a tale riconoscimento abbia proceduto nella consapevolezza della sua non veridicità, la Corte costituzionale ha dichiarato la questione non fondata. Ora, i rilievi di questa Corte si fondavano sulla diversa previsione normativa nel caso di riconoscimento di figlio nato da fecondazione eterologa, quindi con seme consapevolmente non di provenienza dell'autore del riconoscimento, e dunque sul contrasto con l'art. 3 Cost.; inoltre, la norma sarebbe stata irragionevole nel consentire di sacrificare l'interesse del minore per la mera riconsiderazione, da parte dell'autore del riconoscimento, dei propri interessi, e dunque contrastante con l'art. 2 Cost. Come detto, la Corte costituzionale ha rigettato la questione, peraltro affermando che essa non è fondata, sotto il secondo profilo, perché "la necessità di valutare l'interesse alla conservazione della condizione identitaria acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel giudizio di cui all'art. 263 cod. civ. ed è immanente ad esso". Peraltro, ha anche subito dopo affermato che "si tratta ... di una valutazione comparativa che attiene ai presupposti per l'accoglimento della domanda proposta ai sensi dell'art. 263 cod. civ. e non alla legittimazione dell'autore del riconoscimento inveridico". Una prima conseguenza, evidente, di tali affermazioni è che l'appello non può essere accolto laddove consiste nella richiesta di dichiarare il (...) privo di legittimazione all'azione di disconoscimento proposta. Una seconda conseguenza, al contrario, è che la domanda dev'essere respinta, con riforma della sentenza appellata, senza che a ciò osti il fatto che la domanda riguardasse letteralmente la carenza di legittimazione attiva, posto che è evidente come tale richiesta coincida con quella di rigetto della domanda proposta, a cui equivale negli effetti. Dall'istruttoria esperita, e dalla stessa considerazione cronologica degli eventi, in assenza di qualsivoglia nota caratteristica della persona del (...) che deponga in senso contrario, risulta evidente che il minore (...) ha interesse contrario all'accoglimento della domanda di disconoscimento del (...), e che questo interesse è prevalente con quello, del (...) e della collettività, a far prevalere la verità biologica delle relazioni di parentela sull'apparenza creatasi a seguito del riconoscimento non veridico. Tale conclusione discende sia dalla considerazione in astratto dell'interesse del minore, giacché lo status di figlio legittimo del (...), acquisito per effetto del riconoscimento, comporta una serie di conseguenze positive innegabili, quali la conservazione del nome con il quale è stato accolto nella scuola ed in genere nella vita sociale, la cittadinanza italiana iure sanguinis, il diritto al mantenimento da parte del genitore; sia dalla stessa considerazione in concreto, poiché dalle prove assunte, testimoniali e documentali, appare innegabile che il minore, proprio nell'età in cui si è formata la propria coscienza di sé ed è stata acquisita la coscienza e la conoscenza dei propri riferimenti adulti in quanto genitori, ha conosciuto il (...) quale padre e come tale è stato trattato, almeno fra i due e i sette anni di età: ricevendone così un indelebile impronta, tale da condizionarne tutta la vita futura e la stessa percezione di sé, quale figlio di (...). A fronte di una tale, innegabile situazione, è chiaro che l'interesse pubblico alla verità del riconoscimento, ed alla derivazione da tale verità degli effetti di pubblico rilievo, come la cittadinanza, vengono meno. Si potrebbe discutere, e scendere ancor più in profondità nella comparazione, qualora il falso riconoscimento fosse stato compiuto non, come invece è avvenuto nel caso di specie, per la naturale generosità derivante dalla recente instaurazione di un legame affettivo fra l'autore del riconoscimento e la madre del minore, e seguito poi dall'effettivo rapportarsi del "padre" con il minore in conformità al legame parentale così instauratosi, ma all'esclusivo scopo di far ottenere, al minore ed anche al padre, vantaggi pratici sotto il profilo dello status e delle sue conseguenze, senza alcuna conseguenza sul piano affettivo e della consuetudine di vita: ma, qualora al riconoscimento siano seguite tutte le implicazioni, anche affettive, del rapporto padre-figlio è chiaro che l'interesse alla veridicità del riconoscimento è senz'altro sottovalente rispetto a quello del minore a mantenere intatte le relazioni parentali che ne hanno caratterizzato i primi anni di vita e la percezione di sé, anche dal punto di vista del nome col quale è conosciuto ed accolto nella comunità. In tale quadro, il sottolineare, come fa l'appellato, una propria condizione di fragilità psicologica al momento del riconoscimento non veridico, è del tutto irrilevante, non potendo considerazioni attinenti a tale situazione incidere sull'interesse del minore, ovviamente del tutto incolpevole. La sentenza di primo grado non ha applicato tali principi e dev'essere pertanto integralmente riformata, con rigetto della domanda avanzata dal (...). Le istanze istruttorie ulteriori, avanzate dalle parti, sono ultronee, inammissibili poiché del tutto valutative, e anche genericamente richiamate, e debbono pertanto essere respinte. L'accoglimento dell'appello proposto in via principale esclude l'accoglibilità della domanda di risarcimento del danno in favore del minore, in quanto formulata dall'appellante principale soltanto in via subordinata, ovvero per il caso di mancato accoglimento dell'appello principale, circostanza che, per quanto sopra detto, non si verifica. Le spese dei due gradi del giudizio, liquidate in dispositivo secondo la tariffa contenziosa, fascia indeterminabile bassa, importo medio, seguono la soccombenza e, in virtù dell'ammissione del minore e della madre al patrocinio a spese dello Stato, dev'essere effettuata in favore dell'Erario. Le spese di CTU già liquidate in primo grado, in applicazione del medesimo criterio, debbono essere integralmente poste a carico dell'appellante. P.Q.M. La Corte d'appello di Torino, definitivamente decidendo nel contraddittorio delle parti e disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione; in riforma dell'impugnata sentenza, rigetta la richiesta di declaratoria di nullità, e di revoca, del riconoscimento di (...), effettuato da (...); condanna (...) a rifondere a (...), come sopra rappresentato, e per esso allo Stato, le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida per il primo grado in Euro 4.487,00 e per il secondo grado in Euro 9.515,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, oltre CPA ed IVA come per legge; condanna (...) a rifondere a (...), e per essa allo Stato, le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida per il primo grado in Euro 7.254,00 e per il secondo grado in Euro 5.338,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, oltre CPA ed IVA come per legge; pone a carico dell'appellante (...) le spese di CTU come liquidate in primo grado. Così deciso in Torino il 14 gennaio 2022. Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - rel. Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 21458/2020 R.G. proposto da MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; - ricorrente - contro COMUNE DI BARI, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. (OMISSIS), e (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell'Avv. (OMISSIS); - controricorrente - e (OMISSIS), in persona del presidente (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli Avv. (OMISSIS), e (OMISSIS), con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione; - controricorrente e ricorrente incidentale - e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BARI, e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI BARI, nonche' (OMISSIS), e (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitori investiti della responsabilita' sul minore (OMISSIS); - intimati - avverso il decreto della Corte d'appello di Bari depositato il 3 febbraio 2020; Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale. FATTI DI CAUSA 1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari propose ricorso ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, articolo 95 chiedendo disporsi la cancellazione della trascrizione dell'atto di nascita del minore (OMISSIS), effettuata il 18 ottobre 2017 dall'ufficiale di stato civile del Comune di Bari su richiesta inoltrata dall'Ambasciata d'Italia a Malta il 23 agosto 2017. A sostegno della domanda, richiamo' la nota trasmessa dal Ministero dello interno al Comune il 2 marzo 2018, da cui emergeva che la trascrizione era stata effettuata in assenza dei relativi presupposti, risultando il minore privo di collegamenti con l'ordinamento italiano, in quanto nato da (OMISSIS), cittadina (OMISSIS) unita civilmente con (OMISSIS), cittadina (OMISSIS) iscritta presso l'A.I.R.E. del Comune di Bari. A seguito della notificazione del ricorso, si costituirono il Ministero dello interno, che aderi' alla domanda, ed il Comune di Bari, che si limito' a prendere atto delle richieste formulate dalle parti. Nel procedimento spiego' inoltre intervento l'(OMISSIS), chiedendo il rigetto della domanda. 1.1. Avendo il ricorrente rinunciato successivamente all'istanza di cancellazione, il Tribunale di Bari, con decreto del 21 maggio 2019, escluse la legittimazione del Ministero dell'interno alla prosecuzione del giudizio e dichiaro' estinto il procedimento. 2. Il reclamo proposto dal Ministero e' stato rigettato dalla Corte d'appello di Bari con decreto del 3 febbraio 2020. A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso la tardivita' dell'impugnazione, rilevando che il giudizio di primo grado si era svolto nei confronti di una pluralita' di parti, e ritenendo pertanto che la decorrenza del termine per il reclamo dovesse essere ancorata non gia' alla comunicazione del decreto impugnato, ma alla notificazione dello stesso ad istanza di parte, nella specie non effettuata. Ha ritenuto inoltre sussistente la legittimazione del Ministero, del Comune e della (OMISSIS), osservando che a) nell'esercizio delle funzioni di ufficiale dello stato civile il Sindaco agisce in qualita' di ufficiale di governo, e quindi come organo periferico dell'Amministrazione statale, alla quale sono dunque o imputabili gli atti compiuti, con la conseguenza che la stessa riveste la posizione di legittimo contraddittore non solo in senso formale, in virtu' della competenza ad essa attribuita, ma anche in senso sostanziale, in quanto portatrice di un interesse autonomo, concreto ed attuale ad una corretta ed uniforme applicazione della normativa in materia, b) il Comune si era costituito in giudizio esclusivamente a seguito dell'integrazione del contraddittorio, disposta dal Tribunale ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 96 affinche' potesse rappresentare le ragioni sulle quali era fondata la trascrizione dello atto di nascita, effettuata peraltro previa richiesta di un parere al Ministero, c) l'Associazione, oltre a risultare destinataria dell'impugnazione, in quanto parte del giudizio di primo grado, era portatrice di uno specifico interesse, derivante dall'idoneita' della decisione a proiettarsi verso un piano determinativo dell'operato degli ufficiali di stato civile, con efficacia verso un numero ampio e indefinito di soggetti, tale da condizionare i fini statutari dell'Associazione. Nel merito, premesso che l'oggetto della controversia era costituito dalla trascrivibilita' dell'atto di nascita del minore, procreato mediante il ricorso ad una tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo, e quindi sprovvisto di un legame biologico con il genitore intenzionale munito della cittadinanza (OMISSIS), la Corte ha escluso che la trascrizione potesse essere rifiutata ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 e della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 65 in quanto contrastante con l'ordine pubblico. Precisato che tale nozione coincide con l'ordine pubblico internazionale, quale limite all'applicazione del diritto straniero, ancorato ai diritti fondamentali dell'uomo desumibili dalla Costituzione, dal Trattato fondativo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE e dalla CEDU, con particolare riferimento all'interesse supremo del minore ed alla tutela dei suoi diritti fondamentali, tra i quali spicca il diritto al riconoscimento della genitorialita', ha richiamato l'orientamento della giurisprudenza di legittimita', secondo cui il riconoscimento dello status di genitore in favore del genitore c.d. intenzionale incontra un limite esclusivamente nel divieto della surrogazione di maternita' posto dalla L. 19 febbraio 2004, n. 40, atr. 12. Ha escluso l'applicabilita' di tale disposizione, evidenziando le differenze esistenti tra la surrogazione di maternita' e la fecondazione eterologa, caratterizzata dall'apporto genetico di un terzo donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale di una coppia omosessuale, nonche' l'analogia tra il caso in esame e quello di una coppia che per sterilita' o infertilita' assoluta ed irreversibile non sia in grado di procreare autonomamente. Ha ritenuto altresi' infondato il richiamo al dato biologico, osservando che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, lo stesso deve ritenersi sostituito dal consenso, ai sensi della L. n. 40 cit., ed aggiungendo che in presenza di una valida unione civile deve conferirsi rilievo al disposto dell'articolo 8 medesima legge, che attribuisce al nato lo status di figlio, nonche' alla L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale esclude la possibilita' di riferire il termine "coppia" alle sole coppie di sesso diverso. Ha rilevato infine che il principio dell'individuabilita' genitoriale sulla base del consenso e' stato esteso dalla L. n. 40 del 2004 ad ogni ipotesi di nascita a seguito di procreazione medicalmente assistita indipendentemente dalla circostanza che il consenso sia stato acquisito da un'autorita' estera, affermando comunque che, in assenza di profili di contrarieta' allo ordine pubblico, la diversita' di sesso tra i genitori non puo' giustificare una condizione deteriore per i figli che tale qualita' abbiano assunto in conseguenza di tecniche procreative consentite all'estero, con nascita certificata dallo Stato straniero. 3. Avverso il predetto decreto il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sette motivi. Hanno resistito con controricorsi il Comune di Bari e la (OMISSIS), la quale ha proposto ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo, illustrato anche con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attivita' difensiva. Il ricorso e' stato quindi esaminato in camera di consiglio senza l'intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo del ricorso principale, il Ministero denuncia l'eccesso di potere giurisdizionale, sostenendo che, nel confermare la legittimita' della trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita attestante lo status filiationis nei confronti della madre intenzionale, nonostante la mancanza di un legame biologico tra la stessa ed il minore, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalita' politica spettante al legislatore. Premesso infatti che il nostro ordinamento, pur avendo riconosciuto alle coppie omosessuali una serie di diritti in prospettiva antidiscriminatoria, anche in materia di genitorialita', ha consentito alle stesse di ottenere l'adozione non legittimante, senza pero' equipararle pienamente alle coppie eterosessuali, osserva che l'eventuale contrarieta' alla Costituzione delle norme delle L. n. 40 del 2004 e L. n. 76 del 2016 che vietano il ricorso alla maternita' surrogata o alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali o l'adozione da parte di persone dello stesso sesso legate da unioni civili avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso la proposizione della questione di legittimita' costituzionale. 1.1. Il motivo e' infondato. La Corte d'appello ha infatti giustificato la propria decisione attraverso il richiamo alla L. n. 40 del 2004, articolo 8 ed alla L. n. 76 del 2016, interpretati alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita' e da quella costituzionale in tema di surrogazione di maternita', sulla base dei quali ha ritenuto che, in presenza di una valida unione civile tra donne, la mancanza di un legame biologico tra il minore nato all'estero a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo ed una di esse non impedisca la trascrizione dell'atto di nascita in Italia, risultando determinanti, ai fini della costituzione del rapporto genitoriale, il consenso prestato all'utilizzazione delle predette tecniche e l'esigenza di tutelare l'interesse del minore, la quale esclude che l'identita' di sesso tra i genitori possa giustificare un trattamento deteriore per il figlio, in assenza di elementi di contrarieta' all'ordine pubblico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, tale ragionamento consente di escludere la sussistenza del vizio lamentato, configurabile soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un'attivita' di produzione normativa estranea alla sua competenza. E' noto d'altronde che alla figura dell'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di discrezionalita' riservata al legislatore viene riconosciuta una rilevanza eminentemente teorica, trattandosi di un vizio ipotizzabile soltanto a condizione di poter distinguere l'attivita' di produzione normativa indebitamente esercitata dal giudice dall'attivita' interpretativa, la quale in realta' non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un'opera creativa della volonta' della legge nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/ 2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068). L'eccesso di potere giurisdizionale non e' configurabile neppure in relazione alla mancata proposizione della questione di legittimita' costituzionale, non essendo il giudice tenuto senz'altro a promuoverla nel caso in cui ritenga che l'interpretazione corrente delle norme di legge applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame sia contraria alla Costituzione, ma dovendo prima di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, sperimentare la possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata, la cui mancata ricerca, a fronte di una pluralita' di plausibili interpretazioni ed in assenza di un indirizzo interpretativo qualificabile come diritto vivente, puo' anzi costituire causa d'inammissibilita' della questione. 2. Prioritario, rispetto all'esame delle altre censure proposte con il ricorso principale, e' poi quello del quinto motivo, con cui l'Amministrazione deduce la violazione e/o la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articoli 95 e 96 censurando il decreto impugnato per aver ritenuto che la domanda avesse ad oggetto l'accertamento della contrarieta' all'ordine pubblico del riconoscimento compiuto in assenza di un legame genetico tra il minore ed il genitore intenzionale, laddove la stessa era volta a far accertare la contrarieta' della trascrizione agli articoli 95 e 96 cit. Premesso che il procedimento previsto da tali disposizioni mira ad eliminare una difformita' tra la situazione di fatto e quella risultante dall'atto di stato civile per un vizio comunque originato nel procedimento di formazione di quest'ultimo, sostiene che nella specie l'ufficiale di stato civile avrebbe dovuto rifiutare la trascrizione, non essendovi corrispondenza tra la realta' di fatto, costituita dalla nascita del minore da madre (OMISSIS), ed il contenuto del certificato di nascita, attestante lo status di figlio di una cittadina (OMISSIS). 2.1. Il motivo e' infondato. Il giudizio in esame non trae infatti origine dall'impugnazione da parte di un interessato del rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile alla richiesta di trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero, ma dalla domanda, proposta dal Pubblico Ministero ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 95, comma 2, di cancellazione della trascrizione gia' effettuata in accoglimento della richiesta inoltrata dalle interessate a mezzo dell'Autorita' diplomatica ai sensi degli articoli 15 e 17 medesimo Decreto del Presidente della Repubblica n. In quanto fondata sull'allegazione della contrarieta' della trascrizione alla disciplina dettata dalle predette disposizioni (le quali, prevedendo la trascrizione delle sole dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani nati all'estero, ne escludono la possibilita' nel caso in cui il nato non abbia alcun collegamento con l'ordinamento italiano, non potendosi considerare figlio di un cittadino italiano), tale domanda trae origine da una difformita' tra la situazione di fatto, quale dovrebbe essere nella realta' secondo la predetta disposizione, e quella annotata nel registro degli atti di nascita, causata da un errore asseritamente compiuto in sede di trascrizione, e non da' pertanto luogo ad una controversia di stato (nell'ambito della quale il Pubblico Ministero avrebbe peraltro rivestito soltanto la qualita' di parte necessaria, senza essere legittimato a promuoverla: cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193), ma proprio ad una delle controversie previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396, articolo 95 (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/2009, n. 21094; 27/03/ 1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519). La circostanza che la trascrizione dell'atto di nascita abbia avuto luogo senza contestazioni consente d'altronde di escludere che per ottenerla le interessate fossero tenute a promuovere il procedimento prescritto dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 67 richiamato dall'articolo 68 per gli atti pubblici ricevuti all'estero, e ritenuto applicabile anche in caso di rifiuto dell'ufficiale di stato civile di trascrivere un provvedimento giurisdizionale straniero recante l'accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero ed un cittadino italiano (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193, cit.). Nella specie, pertanto, l'unico strumento utilizzabile ai fini della contestazione della legittimita' della trascrizione dev'essere individuato nel procedimento di rettificazione, la cui funzione, collegata a quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile ed alla natura dichiarativa propria delle annotazioni in essi contenute, aventi l'efficacia probatoria privilegiata prevista dall'articolo 451 c.c., ma non costitutive dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono, esclude peraltro l'idoneita' della decisione ad acquistare efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza del rapporto giuridico di filiazione. 3. Con il secondo motivo, il Ministero deduce la violazione e/o la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 e della L. n. 218 del 1995, articoli 16 e 95 affermando che la trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita attestante una bigenitorialita' omosessuale si pone in contrasto con l'ordine pubblico, previsto dalla legge quale limite all'ingresso di norme o provvedimenti stranieri contrastanti con i principi cardine del nostro ordinamento. Premesso che l'eccessiva ampiezza della nozione di ordine pubblico accolta dal decreto impugnato comporta una vanificazione del predetto limite, avente la funzione di salvaguardare l'insieme dei valori e principi che costituiscono parte integrante del sostrato giuridico nazionale, osserva che in materia di filiazione uno dei predetti principi e' costituito proprio dall'identificazione della stessa con la discendenza da persone di sesso diverso, che rappresenta quindi un presupposto indispensabile per il riconoscimento di un rapporto di filiazione. Rilevato inoltre che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall'assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, evidenzia che la possibilita' di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico e' espressamente esclusa dalla legge; afferma che tale divieto non contrasta con i principi sanciti dalla CEDU, i quali non escludono la legittimita' di norme interne che attribuiscano alla procreazione medicalmente assistita una finalita' esclusivamente terapeutica, non garantendo ne' il diritto di fondare una famiglia ne' quello di adottare, ed identificando nel legame genetico o biologico con il minore il limite oltre il quale e' rimessa alla discrezionalita' del legislatore nazionale l'individuazione degli strumenti piu' adeguati per conferire rilievo al rapporto genitoriale. Nega la sussistenza di un interesse del minore che possa prevalere sulle norme fondamentali interne ed internazionali che definiscono il concetto di maternita', osservando comunque che nel caso in esame l'inefficacia del riconoscimento posto in essere dal genitore intenzionale non impedirebbe al minore ne' di accedere al trattamento giuridico proprio dello status filiationis, ricollegabile al riconoscimento compiuto dalla madre biologica, ne' di mantenere le relazioni affettive instaurate nell'ambito del rapporto di convivenza. Insiste sulla differenza tra genitorialita' biologica e genitorialita' intenzionale, sottolineando che la trascrizione del riconoscimento compiuto all'estero dal genitore d'intenzione comporterebbe la regolarizzazione di una posizione che nel nostro ordinamento non risulta in alcun modo tutelata, in quanto espressamente vietata. Contesta infine l'applicabilita' dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita' in riferimento a minori concepiti da coppie omosessuali mediante il ricorso alla fecondazione eterologa, osservando che in tali ipotesi sussisteva un legame biologico con entrambi i genitori, e rilevando comunque che il divieto di utilizzazione della predetta tecnica da parte delle coppie omosessuali e' stato recentemente ribadito dalla giurisprudenza costituzionale. 4. Con il terzo motivo, l'Amministrazione lamenta la violazione e la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 30 dell'articolo 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, articoli 4, 5, 8 e 12 sostenendo che nel nostro ordinamento la posizione di madre si caratterizza per un fondamento non gia' volitivo-negoziale, ma oggettivo-genetico, per effetto del quale si richiede, ai fini del riconoscimento dello status filiationis, la sussistenza di un legame biologico con il minore. Premesso che la legislazione piu' recente, nel disciplinare l'accesso all'adozione ed alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, stabilisce il limite invalicabile della diversita' di sesso, osserva che detto limite non risulta superato per effetto delle pronunce d'incostituzionalita' che hanno ampliato l'ambito applicativo della L. n. 40 del 2004, avendo queste ultime confermato l'ammissibilita' del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto in presenza di sterilita' o infertilita' patologica o di malattie genetiche trasmissibili, con la conseguente esclusione delle ipotesi in cui, come nelle coppie omosessuali, l'impossibilita' di generare e' dovuta ad un limite naturale. 5. Con il quarto motivo, l'Amministrazione denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 40 del 2004, articolo 8 e della L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto che, in presenza di una valida unione civile, anche tra persone del medesimo sesso, possa riconoscersi lo stato di figlio legittimo al minore mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Premesso che l'articolo 8 cit. presuppone che l'utilizzazione di tali tecniche abbia avuto luogo in conformita' delle norme che la disciplinano, contesta la pertinenza del riferimento alla L. n. 76, rilevando che la stessa esclude espressamente la possibilita' di estendere alle unioni civili le norme in materia di filiazione ed adozione, ed aggiungendo che tale ostacolo non e' superabile neppure in virtu' dell'avvenuta celebrazione del matrimonio all'estero, dal momento che, ai sensi della L. n. 219 del 1995, articoli 32-bis e 32-quinquies lo stesso soggiace alle stesse limitazioni previste per le unioni civili. Nega inoltre la pertinenza del richiamo all'orientamento giurisprudenziale che ha ammesso l'adozione, ai sensi della L. 1983, n. 184, articolo 44, comma 1, lettera d), del figlio della persona convivente dello stesso sesso, evidenziando le profonde differenze riscontrabili tra la predetta ipotesi e quella del riconoscimento del figlio da parte del genitore intenzionale avente lo stesso sesso di quello biologico. Afferma che il tema della filiazione non coincide per intero con quello della genitorialita', essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilita' di tipo genitoriale che prescindono dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all'eliminazione di qualsiasi disparita' di trattamento. Rileva in proposito che la giurisprudenza costituzionale, pur avendo accordato rilevanza giuridica e tutela all'unione omosessuale, inquadrate nella nozione di formazione sociale di cui all'articolo 2 Cost., ha ribadito come la Costituzione non ponga un modello di famiglia inscindibilmente collegato alla presenza di figli, con la conseguenza che il riconoscimento della liberta' e volontarieta' dell'atto di diventare genitori incontra i limiti necessari al bilanciamento di tale liberta' con altri valori costituzionalmente protetti. 6. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono infondati. Com'e' noto, la questione riguardante l'ammissibilita' della trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita validamente formato all'estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, e' figlio di due persone dello stesso sesso, e' stata gia' ripetutamente affrontata da questa Corte, la quale l'ha risolta in senso positivo, avendo ritenuto irrilevanti, in contrario, le limitazioni imposte dalla L. n. 40 del 2004 all'utilizzazione delle predette tecniche, in virtu' della considerazione che tale disciplina rappresenta soltanto una delle possibilita' modalita' di esercizio del potere regolatorio spettante al legislatore italiano in una materia, pur eticamente sensibile e costituzionalmente rilevante, nella quale le scelte legislative non risultano costituzionalmente obbligate. Tale principio e' stato originariamente enunciato in riferimento ad una fattispecie non interamente assimilabile alla fecondazione assistita di tipo eterologo, in quanto caratterizzata dalla sussistenza di un legame biologico tra il nato ed entrambe le genitrici, una delle quali aveva provveduto alla gestazione, mentre l'altra aveva fornito l'ovulo necessario per la fecondazione, avvenuta con il contributo di un terzo donatore (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599); esso e' stato in seguito esteso anche ad un'ipotesi di vera e propria fecondazione eterologa, nella quale una delle genitrici (c.d. madre intenzionale) si era limitata a prestare il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, senza fornire alcun apporto, neppure di tipo genetico (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878). A sostegno di tali conclusioni, e' stata esclusa la contrarieta' dell'atto di nascita all'ordine pubblico, osservandosi che a) la nozione di ordine pubblico non puo' essere desunta dalle norme con le quali il legislatore ordinario abbia esercitato la propria discrezionalita' in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali sanciti dalla Costituzione, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE e dalla CEDU, vincolanti per il legislatore ordinario, b) nella materia in esame, il principio fondamentale e' costituito dalla prevalenza dell'interesse del minore, riconosciuto e tutelato sia nell'ordinamento internazionale che in quello interno, il quale si sostanzia, nella specie, nel diritto a conservare lo status di figlio, risultante da un atto validamente formato in un altro Paese, c) il rifiuto di riconoscere il rapporto di filiazione si pone in contrasto con il predetto interesse, incidendo negativamente sulla definizione dell'identita' personale del minore, al quale viene impedito non solo di acquistare la cittadinanza (OMISSIS) e i diritti ereditari, ma anche di circolare liberamente nel territorio italiano e di essere rappresentato dal genitore nei rapporti con le istituzioni italiane, nonche' di intrattenere relazioni personali con entrambi i genitori, al pari degli altri bambini, d) tale discriminazione non puo' trovare giustificazione nell'ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nella disciplina di materie eticamente sensibili come quella in esame e nell'intento di scoraggiare i cittadini dall'accedere all'estero a pratiche vietate nel loro territorio, non potendo il nato rispondere delle conseguenze del comportamento di coloro che hanno scelto di metterlo al mondo mediante l'utilizzazione di una tecnica di procreazione non consentita in Italia, e) la regola stabilita dall'articolo 269 c.c., comma 3, secondo cui, nel nostro ordinamento, e' madre soltanto colei che partorisce, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, ma e' una norma riguardante la prova della maternita', dalla quale non puo' desumersi un principio di ordine pubblico, f) la trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero non trova ostacolo nell'identita' di sesso dei genitori, non esistendo a livello costituzionale un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere ed anche di generare figli. Le conclusioni cui sono pervenute le predette sentenze non sono state smentite dalla successiva pronuncia con cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno escluso l'ammissibilita' del riconoscimento di un provvedimento giurisdizionale straniero recante l'accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternita' surrogata ed il genitore d'intenzione in possesso della cittadinanza (OMISSIS) (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193): tale esclusione e' stata infatti giustificata mediante il richiamo al divieto della surrogazione di maternita' previsto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, qualificato come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignita' umana della gestante e l'istituto dell'adozione, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore. Nell'occasione, e' stata chiarita la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini della L. n. 218 del 1995, articoli 64 e ss. mediante l'affermazione che la compatibilita' dell'atto o del provvedimento straniero con l'ordinamento italiano dev'essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonche' del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione da' forma a quel diritto vivente, dal quale non puo' prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico. Nel contempo, e' stata ribadita la distinzione tra la fecondazione eterologa e la surrogazione di maternita', precisandosi che quest'ultima e' accomunata alla prima dalla necessita' dell'apporto genetico di un terzo donatore del gamete, ma se ne differenzia per la caratteristica essenziale costituita dall'intervento di una donna estranea, la quale presta il proprio corpo alla coppia per aiutarla a realizzare il proprio progetto genitoriale, provvedendo alla gestazione ed al parto, ma rinunciando ad ogni diritto nei confronti del nato. Richiamato l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui, nonostante l'accentuato favor dimostrato dall'ordinamento per la conformita' dello status di figlio alla realta' della procreazione, l'accertamento della verita' biologica e genetica dell'individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l'interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest'ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternita', e' stato chiarito che il divieto della maternita' surrogata si configura come "l'anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilita' fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell'identita' genetica e biologica". Alla stregua di tale chiarimento, puo' ritenersi che, al di fuori delle ipotesi in cui opera il divieto della surrogazione di maternita', l'insussistenza di un legame genetico o biologico con il minore nato all'estero non impedisca il riconoscimento del rapporto di filiazione con un cittadino italiano che abbia prestato il proprio consenso all'utilizzazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non consentite dal nostro ordinamento: le limitazioni previste dalla L. n. 40 del 2004 costituiscono infatti espressione non gia' di principi di ordine pubblico internazionale, ma del margine di apprezzamento di cui il legislatore dispone nella definizione dei requisiti di accesso alle predette pratiche, la cui individuazione, avente portata vincolante nell'ordinamento interno, non e' di ostacolo alla produzione di effetti da parte di atti o provvedimenti validamente formati nell'ambito di ordinamenti stranieri e disciplinati dalle relative disposizioni. Tale affermazione non e' contraddetta dalle piu' recenti pronunce di questa Corte, secondo cui il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, articolo 4, comma 3 e con l'esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialita' svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029; 3/04/2020, n. 7668). Tale principio e' stato infatti enunciato in riferimento ad ipotesi in cui il minore, pur essendo stato concepito all'estero, era nato in Italia da una cittadina (OMISSIS), con la conseguenza che la fattispecie doveva ritenersi interamente regolata dalla legge (OMISSIS), ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 33 non presentando alcun elemento di estraneita' con il nostro ordinamento, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale; nel caso in esame, invece, analogamente a quanto accaduto in quello preso in considerazione dalla sentenza n. 19599 del 2016, il minore risulta cittadino straniero, e segnatamente britannico, in quanto nato all'estero da una cittadina britannica, sicche' il riconoscimento del rapporto di filiazione con la genitrice c.d. intenzionale risultante dall'atto di nascita e' necessariamente subordinato alla verifica della compatibilita' con i principi di ordine pubblico internazionale, ai sensi della L. n. 218 cit., degli articoli 65 e 67. In proposito, va ribadito che la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell'efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri e' piu' ristretta di quella rilevante nell'ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non puo' quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall'atto di nascita formato all'estero e l'esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev'essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento; e' noto d'altronde che il riconoscimento dell'atto straniero non fa venir meno l'estraneita' dello stesso all'ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, cosi' come previsti e regolati dall'ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con i principi di ordine pubblico internazionale (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029). Non merita pertanto censura il decreto impugnato, nella parte in cui, richiamati i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita' in riferimento alla fecondazione eterologa ed alla surrogazione di maternita', ha ritenuto inapplicabile il divieto posto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, evidenziando le differenze esistenti tra la fattispecie sottoposta al suo esame e quella prevista da tale disposizione, ed ha conseguentemente affermato la compatibilita' dell'atto di nascita formato all'estero con i principi di ordine pubblico internazionale, individuati sulla base della nozione delineata dalle Sezioni Unite, con il conseguente rigetto della domanda di cancellazione della relativa trascrizione. 7. E' invece fondato il sesto motivo, con cui il Ministero lamenta la violazione e/o la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 1 censurando il decreto impugnato per aver escluso il difetto di legittimazione del Comune di Bari, senza considerare che, nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di stato civile, il sindaco agisce non gia' come organo di vertice dell'Amministrazione comunale, ma come ufficiale di governo, e quindi come organo periferico dell'Amministrazione statale. 7.1. In tema di rettificazione degli atti dello stato civile, e con particolare riferimento all'impugnazione del rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile alla richiesta di trascrizione nei registri anagrafici di un provvedimento giurisdizionale straniero avente ad oggetto l'accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero ed un cittadino italiano, questa Corte ha infatti riconosciuto la legittimazione a contraddire del Ministero dell'interno in qualita' di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri anagrafici (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193): premesso che tale competenza, gia' spettante al Ministero della giustizia, ai sensi del Regio Decreto 9 luglio 1939, n. 1238, articolo 13 e' stata in seguito trasferita al Ministero dell'interno, al quale il Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 9 attribuisce il potere di impartire istruzioni agli ufficiali dello stato civile, nonche' la vigilanza sui relativi uffici, da esercitarsi attraverso il prefetto, si e' osservato che, nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di stato civile, il Sindaco agisce, ai sensi del medesimo Decreto del Presidente della Repubblica n. 396, articolo 1 in qualita' di ufficiale del governo, e quindi non gia' come organo di vertice e legale rappresentante dell'Amministrazione comunale, bensi' come organo periferico dell'Amministrazione statale, dalla quale dipende ed alla quale sono pertanto imputabili gli atti da lui compiuti nella predetta veste, nonche' la responsabilita' per i danni dagli stessi cagionati (cfr. Cass., Sez. I, 25/03/2009, n. 7210; Cass., Sez. III, 6/08/2004, n. 15199; 14/02/2000, n. 1599). Tale principio deve ritenersi applicabile anche alla richiesta di cancellazione della trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero, in ordine alla quale deve quindi escludersi la legittimazione a contraddire del Comune, non assumendo alcun rilievo, nella specie, la circostanza che quest'ultimo si sia costituito in ottemperanza all'ordine di chiamata in causa impartito in primo grado, dal momento che, contrariamente a quanto affermato dal decreto impugnato, l'unico soggetto abilitato a rappresentare le ragioni della trascrizione era l'Amministrazione cui spettava la relativa competenza. 8. E' altresi' fondato il settimo motivo, con cui il Ministero denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell'articolo 105 c.p.c., censurando il decreto impugnato per aver riconosciuto la legittimazione ad intervenire della (OMISSIS), senza considerare che, in quanto associazione di professionisti e studiosi di questioni in materia di (OMISSIS), la stessa non e' titolare di un interesse riconducibile all'oggetto del giudizio, esposto all'incidenza diretta della decisione. 8.1. Ai sensi dell'articolo 105 c.p.c., la legittimazione a spiegare intervento nel giudizio spetta ai soli soggetti titolari di un diritto incompatibile con quelli fatti valere dalle parti in causa o di un rapporto connesso con quello dedotto in giudizio o da esso dipendente, restando pertanto esclusi quelli portatori di interessi di mero fatto, quali gli interessi diffusi, i quali sono "adespoti", e possono quindi essere tutelati in sede giudiziale soltanto se ed in quanto il legislatore attribuisca ad un ente esponenziale la tutela degli interessi dei singoli componenti una collettivita', in modo tale da farli assurgere al rango di interessi "collettivi" (cfr. Cass., Sez. Un., 16/11/2016, n. 23304; Cass., Sez. I, 15/06/2018, n. 15770; Cass., Sez. II, 4/02/2016, n. 2237). Non puo' pertanto condividersi il decreto impugnato, nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l'intervento della (OMISSIS), in qualita' di associazione statutariamente dedita allo sviluppo ed alla diffusione del rispetto dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali ed intersessuali, nonche' alla promozione dello studio e della difesa delle stesse tra gli operatori del diritto: in difetto di un ruolo di rappresentanza normativamente riconosciuto, l'idoneita' di tale attivita' a "proiettarsi verso un piano determinativo dell'operato degli ufficiali di stato civile", con effetti favorevoli per un numero ampio ed indefinito di soggetti, puo' venire in considerazione esclusivamente sul piano sociale e politico, restando estranea a quello dei rapporti giuridici, e risultando pertanto insufficiente a legittimare la partecipazione dell'Associazione ai giudizi coinvolgenti le predette categorie. 9. L'esclusione della legittimazione a spiegare intervento nel giudizio comporta infine l'inammissibilita' del ricorso incidentale proposto dalla (OMISSIS), con cui la stessa ha censurato il decreto impugnato per violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 105 c.p.c., nella parte in cui ha ritenuto insussistente l'eccepito difetto di legittimazione del Ministero a proporre reclamo avverso la decisione di primo grado. 10. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 c.p.c., u.c., con la dichiarazione d'inammissibilita' degl'interventi del Comune di Bari e della (OMISSIS). La peculiarita' della questione trattata, che ha costituito oggetto di una complessa vicenda giurisprudenziale, giustifica l'integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio. Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17. P.Q.M. rigetta i primi cinque motivi del ricorso principale, accoglie il sesto ed il settimo motivo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, e, decidendo nel merito, dichiara inammissibili l'intervento del Comune di Bari e dell'(OMISSIS). Compensa integralmente le spese processuali. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - rel. Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 36579/2019 R.G. proposto da: (OMISSIS), e (OMISSIS), rappresentate e difese dagli Avv. (OMISSIS), e (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS); - ricorrenti - contro (OMISSIS), e (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'Avv. (OMISSIS), e (OMISSIS), con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione; - controricorrenti e ricorrenti incidentali - avverso il decreto della Corte d'appello di Bologna depositato l'8 luglio 2019; Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato. FATTI DI CAUSA 1. (OMISSIS) e (OMISSIS), in qualita' di genitori investiti della responsabilita' sul minore (OMISSIS), nato in (OMISSIS) mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, proposero ricorso al Tribunale di Bologna, per sentir disporre l'interruzione di ogni contatto tra il minore, (OMISSIS), genitore biologico di (OMISSIS), e (OMISSIS), compagno del (OMISSIS), con la cessazione di ogni illegittima interferenza di questi ultimi nel rapporto genitoriale. Premesso che con provvedimento del 23 agosto 2010 la Family Court di Melbourne aveva rigettato la domanda di riconoscimento della paternita' proposta dal (OMISSIS), riconoscendo i diritti genitoriali e l'esercizio della responsabilita' genitoriale esclusivamente ad esse ricorrenti, ma concedendo al (OMISSIS) ed al (OMISSIS) il diritto di visita del minore, ed autorizzando il trasferimento di quest'ultimo in Italia, le (OMISSIS) riferirono di aver dapprima consentito la frequentazione, limitata a sporadici contatti e visite, ma di avere in seguito notato che il comportamento tenuto dai due uomini produceva un effetto psicologico destabilizzante sul bambino, presentandosi gli stessi come "i suoi due padri", sia nell'ambito scolastico che nei rapporti sociali. Si costituirono i convenuti, ed eccepirono il difetto di giurisdizione dell'Autorita' giudiziaria italiana, nonche' l'infondatezza della domanda, chiedendone il rigetto. 1.1. Con decreto del 17 luglio 2018, il Tribunale rigetto' la domanda. 2. Il reclamo proposto dalle (OMISSIS) Rogers e' stato rigettato dalla Corte d'appello di Bologna con decreto dell'8 luglio 2019. A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto confermato la giurisdizione dell'Autorita' giudiziaria italiana, rilevando che, nonostante la probabilita' di un rientro in (OMISSIS) delle ricorrenti e del minore, a seguito della proposizione del reclamo, non risultava il luogo in cui gli stessi si erano trasferiti, e ritenendo comunque applicabile, anche ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996 e dell'articolo 8 del regolamento CE n. 2201/2003, il principio della perpetuatio jurisdictionis, prevalente su quello di prossimita', in virtu' del quale la competenza territoriale, spettante al giudice del luogo di residenza abituale del minore, da determinarsi sulla base della situazione di fatto esistente all'atto dell'introduzione del giudizio, resta ferma anche in caso di spostamento della residenza in corso di causa. Nel merito, la Corte ha richiamato la relazione depositata dal c.t.u. nominato in primo grado, dalla quale emergeva che il legame tra i resistenti ed il minore non costituiva un pregiudizio per quest'ultimo, ma un arricchimento, e che, sebbene la conflittualita' esistente tra le figure genitoriali, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) generasse una forte tensione percepibile dal bambino, l'interruzione dei rapporti non avrebbe potuto in alcun modo risolvere la situazione di difficolta' e conflitto, se non a prezzo di un'amputazione in termini affettivi profondi e relazionali a carico del minore, dal momento che la relazione tra lo stesso e i due uomini, gia' esistente e strutturata, non era venuta meno neppure a causa della distanza geografica e dei periodi d'interruzione della frequentazione. Ha ritenuto pertanto di dover conferire rilievo al preminente interesse del minore, escludendo inoltre che il provvedimento adottato dalla Corte (OMISSIS) si ponesse in contrasto con l'ordine pubblico, nella parte in cui riconosceva il diritto di visita dei resistenti: ha reputato infatti ininfluente, a tal fine, l'estraneita' di questi ultimi al nucleo familiare, dando atto dell'intervenuta valutazione in sede giurisdizionale dell'esistenza di un rapporto affettivo, consolidatosi anche per volonta' delle genitrici esercenti la potesta', e del pregiudizio derivante dall'interruzione di tale rapporto. 3. Avverso il predetto decreto le (OMISSIS) Rogers hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. Il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) hanno resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, affidato a due motivi, ed anch'esso illustrato con memoria. Il ricorso e' stato quindi esaminato in camera di consiglio senza l'intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Prioritario rispetto all'esame delle altre censure proposte dalle parti e' quello del primo motivo del ricorso incidentale, con cui i controricorrenti denunciano la violazione dell'articolo 5 della Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996, ratificata con L. 18 giugno 2015, n. 101, censurando il decreto impugnato per aver escluso il difetto di giurisdizione dell'Autorita' giudiziaria italiana, nonostante l'assenza di qualsiasi collegamento tra la controversia e l'Italia. Premesso che (OMISSIS) e (OMISSIS) sono in possesso rispettivamente della cittadinanza (OMISSIS) e di quella (OMISSIS), mentre il minore ed essi controricorrenti sono cittadini (OMISSIS), e precisato che le parti sono tutte residenti in (OMISSIS), sostengono che, ai sensi dell'articolo 5 cit., la giurisdizione spetta all'autorita' dello Stato di residenza abituale del minore, ed in caso di trasferimento della stessa a quelle dello Stato della nuova residenza. Contestano che il minore si trovi ancora in Italia, affermando che le ricorrenti vi si sono trasferite solo temporaneamente, per poi fare ritorno in (OMISSIS), e negano l'applicabilita' dell'articolo 5 c.p.c., osservando che l'interesse superiore del minore prevale sul principio della perpetuatio jurisdictionis. 1.1. Il motivo e' infondato. La controversia in esame ha infatti ad oggetto l'adozione di provvedimenti a protezione di un minore, e pertanto, ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 42 risulta assoggettata alla disciplina dettata dalla Convenzione della Aja del 5 ottobre 1961 sulla competenza delle autorita' e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva nel nostro ordinamento con L. 24 ottobre 1980, n. 742. Ai sensi dell'articolo 5 c.p.c., non puo' invece trovare applicazione la Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996, richiamata dalla Corte territoriale, la quale, pur avendo sostituito quella del 5 ottobre 1961, e' entrata in vigore soltanto il 1 gennaio 2016, e quindi successivamente all'introduzione del giudizio in esame. L'articolo 5 della nuova Convenzione conferma peraltro la disciplina prevista dall'articolo 1 di quella precedente, che attribuisce la giurisdizione all'autorita' giudiziaria dello Stato di residenza abituale del minore; tale disciplina coincide inoltre con quella dettata dall'articolo 8 del Regolamento CE n. 2201/2003, applicabile anche nei confronti di cittadini di Stati terzi che abbiano vincoli sufficientemente forti con il territorio di uno degli Stati membri (cfr. Corte di Giustizia UE, 29/11/2007, in causa C-68/07, Sundelind Lopez), e prevalente sulla lex fori, alla quale e' riconosciuta una portata residuale (cfr. articolo 7), la quale stabilisce che le autorita' giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilita' genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono adite. Ai fini dell'applicazione delle predette disposizioni, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta, sicche' possono ritenersi assoggettati alla disciplina in esame anche quelli incidenti sulla responsabilita' genitoriale, ove gli stessi, come nella specie, perseguano una finalita' di protezione del minore (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/2017, n. 1310; 9/01/2001, n. 1). Il luogo di residenza abituale coincide poi con quello in cui il minore, in virtu' di una durevole e stabile permanenza, abbia consolidato o, in caso di recente trasferimento, possa consolidare una rete di affetti e relazioni tale da assicurargli un armonico sviluppo psicofisico (cfr. Cass., Sez. Un., 14/12/2017, n. 30123; Cass., Sez. I, 11/01/2006, n. 397; 2/02/ 2005, n. 2093): la sua individuazione non e' legata ad un calcolo puramente aritmetico del tempo trascorso in un determinato Stato, ma richiede una valutazione complessiva, da compiersi anche in chiave prognostica, nell'ambito della quale occorre tener conto di una pluralita' di elementi di fatto, comprendenti tra l'altro la frequenza scolastica, l'apprendimento della lingua, l'inserimento nel contesto sociale di un determinato Stato, e, se necessario, anche della volonta' manifestata dal minore (cfr. Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32359; 30/03/2018, n. 8042; 18/03/2016, n. 5418). L'applicazione dei predetti principi conduce, nel caso in esame, ad individuare l'autorita' giurisdizionale cui spetta la cognizione della domanda proposta dalle ricorrenti in quella dello Stato italiano, essendo pacifico che, nonostante la pluralita' e la frequenza dei trasferimenti subiti negli anni precedenti, all'epoca dell'instaurazione del giudizio il centro degli affetti e degl'interessi del minore era situato a (OMISSIS), dove una delle genitrici svolgeva la propria attivita' lavorativa, e dove egli stesso frequentava regolarmente un istituto scolastico. Nessun rilievo puo' quindi assumere la circostanza, fatta valere dai controricorrenti, che ne' il minore ne' le altre parti del procedimento fossero in possesso della cittadinanza italiana, trattandosi di un dato del tutto estraneo al criterio di ripartizione della giurisdizione previsto dalle norme applicabili. Parimenti ininfluente risulta anche la circostanza che, nel corso del giudizio, le ricorrenti abbiano fatto ritorno in (OMISSIS), conducendo con loro il minore, non potendo trovare applicazione il principio di prossimita', operante esclusivamente in tema di competenza interna, ma quello della perpetuatio jurisdictionis sancito dall'articolo 5 c.p.c., secondo cui la giurisdizione si determina con riguardo allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e rispetto ad essa restano irrilevanti i successivi mutamenti (cfr. Cass., Sez. Un., 2/08/2011, n. 16864). 2. Con il secondo motivo, da esaminarsi anch'esso con precedenza, in quanto riguardante la validita' del procedimento, i controricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 345 c.p.c., rilevando la novita' delle domande proposte con il ricorso per cassazione. Premesso infatti che con il ricorso in primo grado le ricorrenti avevano chiesto la sospensione di ogni contatto tra il minore ed essi controricorrenti, ed in subordine lo svolgimento degli incontri secondo modalita' e tempi da esse stesse fissati, sostengono che tale domanda e' stata modificata con la comparsa conclusionale ed il reclamo, in cui le ricorrenti hanno chiesto l'accertamento della contrarieta' all'ordine pubblico del provvedimento adottato dal Giudice (OMISSIS), la dichiarazione della carenza di legittimazione di essi controricorrenti a richiedere il riconoscimento dell'efficacia dello stesso e del loro diritto di visita, ed in subordine la sospensione dei predetti contatti. 2.1. Il motivo e' infondato. In sede di riconoscimento della sentenza straniera, la deduzione dell'idoneita' della stessa a produrre effetti contrari all'ordine pubblico non e' configurabile come un'autonoma domanda o come un'eccezione in senso stretto, ma come una mera difesa, risolvendosi nella negazione di uno dei requisiti cui la L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 64 subordina l'accoglimento della domanda, al cui accertamento il giudice deve procedere anche d'ufficio, ai fini della pronuncia sul merito della controversia. Essa puo' quindi essere proposta anche in comparsa conclusionale ed in sede di gravame, non essendo assoggettata alle preclusioni di cui agli articoli 183 e 345 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. I, 1/09/2015, n. 71385; 9/01/2013, n. 350; Cass., Sez. III, 12/09/2005, n. 18096); la prima di tali disposizioni risulta peraltro inapplicabile nel caso in esame, essendosi il giudizio svolto secondo la disciplina dettata dagli articoli 737 c.p.c. e ss., richiamata dall'articolo 38 disp. att. c.c. per tutti i procedimenti in materia di affidamento di minori, nei limiti della compatibilita', e quindi operante, nella specie, indipendentemente dalla qualificazione della domanda (cfr. relativamente al procedimento per la modifica delle condizioni stabilite in sede di divorzio, Cass., Sez. I, 12/03/2012, n. 3924; 25/10/2000, n. 14022). 3. Con il primo motivo del ricorso principale, le ricorrenti lamentano la violazione o la falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, articolo 67 e del Decreto Legislativo 1 settembre 2011, n. 150, articolo 30 censurando il decreto impugnato per aver ricondotto la domanda all'articolo 337-quinquies c.c., con la conseguente omissione della decisione in ordine alla richiesta di adozione di un ordine di protezione, e per aver riconosciuto l'efficacia di un provvedimento straniero, senza che fosse stato promosso il relativo procedimento. Premesso infatti che, mentre le statuizioni di un giudice straniero riguardanti l'esistenza dei rapporti di famiglia sono automaticamente efficaci in Italia, ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 65 quella adottata dal Giudice (OMISSIS), avente ad oggetto il riconoscimento del diritto di visita a soggetti estranei alla famiglia, doveva essere sottoposta, in quanto contestata, allo speciale procedimento di cui all'articolo 67 medesima legge, sostengono che, non essendo stato quest'ultimo promosso, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) non erano legittimati ad agire in giudizio ai sensi dell'articolo 337-quinquies c.c. 4. Con il secondo motivo, le ricorrenti denunciano la violazione o la falsa applicazione degli articoli 333, 336 e 337-quinquies c.c., ribadendo che il decreto impugnato ha erroneamente qualificato l'azione come domanda di modifica dell'affidamento del minore, nonostante la mancata proposizione della domanda di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero, dal momento che, in assenza della relativa pronuncia, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) non erano legittimati ad agire per il riconoscimento del diritto di visita, spettante esclusivamente ai genitori investiti della responsabilita' genitoriale ed agli ascendenti, ai sensi dell'articolo 317-bis c.c., e tutelato comunque in maniera soltanto indiretta dall'articolo 336 c.c. 5. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono parzialmente fondati. Come si evince dalle conclusioni rassegnate nel giudizio di primo grado, riportate a corredo dei motivi d'impugnazione, la domanda proposta dalle (OMISSIS) muoveva infatti dall'allegazione dell'esclusivo riconoscimento in favore delle stesse della responsabilita' genitoriale nei confronti del minore, per sollecitare l'adozione di provvedimenti a tutela di quest'ultimo contro la condotta tenuta dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS), reputata pregiudizievole per il suo sano ed equilibrato sviluppo psicofisico. A seguito della proposizione da parte dei due uomini di una domanda riconvenzionale volta ad ottenere la dichiarazione di efficacia della decisione adottata dal Giudice (OMISSIS), con la conseguente conferma del diritto di visita loro riconosciuto, nonche' l'accertamento della paternita' naturale del (OMISSIS), la predetta domanda fu parzialmente modificata, con l'aggiunta della richiesta della dichiarazione d'improcedibilita' della domanda riconvenzionale e della contrarieta' all'ordine pubblico della decisione invocata, nella parte riguardante il riconoscimento del diritto di visita in favore di soggetti estranei alla famiglia. Tanto premesso, e ribadita l'ammissibilita' di tale modificazione, alla stregua delle considerazioni svolte in precedenza, non puo' non condividersi il decreto impugnato, nella parte in cui ha evidenziato una certa ambiguita' nello atteggiamento difensivo delle ricorrenti, le quali hanno per un verso insistito sull'efficacia della decisione del Giudice (OMISSIS), contestandone per altro verso la conformita' all'ordine pubblico. Se e' vero che le due affermazioni si riferiscono a statuizioni diverse della medesima decisione, concernenti rispettivamente il riconoscimento della responsabilita' genitoriale e l'attribuzione del diritto di visita, e' anche vero, pero', che tale ambiguita' di fondo si e' tradotta in una perplessita' degli stessi motivi d'impugnazione: nel censurare la qualificazione della domanda risultante dal decreto impugnato, le ricorrenti hanno infatti contestato la riconducibilita' di quest'ultima all'articolo 337-quinquies c.c. (in realta' mai citato dalla Corte territoriale), sostenendo di non aver voluto chiedere la revisione delle statuizioni contenute nella sentenza (OMISSIS), ma l'adozione di un ordine di protezione, senza pero' riuscire ad indicare la disposizione di legge in base alla quale hanno inteso agire. Nella rubrica del secondo motivo, esse hanno richiamato gli articoli 330 e 333 c.c., i quali non appaiono riferibili in alcun modo alla condotta dei controricorrenti, non essendo questi ultimi annoverabili tra i possibili destinatari ne' dei provvedimenti previsti dall'articolo 337-quinquies cit., ne' di quelli contemplati dalle norme invocate, dal momento che, come riconoscono le stesse ricorrenti, i due uomini non sono in possesso dello status di genitori del minore, neppure sulla base della richiamata decisione. L'allegazione di quest'ultima a sostegno della domanda principale, posta anche in relazione con il petitum di quella riconvenzionale e delle eccezioni al riguardo formulate dalle ricorrenti, consente peraltro di affermare che il vero oggetto della controversia e' costituito, per entrambe le parti, dal riconoscimento dell'efficacia del provvedimento adottato dal Giudice (OMISSIS), non solo nella parte concernente l'esercizio del diritto di visita concesso ai controricorrenti, ma anche nella parte riguardante l'attribuzione della responsabilita' genitoriale, che rappresenta il titolo sulla base del quale le ricorrenti hanno contestato il predetto diritto. Sebbene, infatti, il bene della vita avuto di mira dalle parti sia costituito, in definitiva, dalla possibilita' di esercitare o d'impedire l'esercizio del diritto di visita attribuito al (OMISSIS) ed al (OMISSIS), la negazione di tale diritto deve considerarsi inscindibilmente collegata al riconoscimento del carattere esclusivo della responsabilita' genitoriale spettante alle (OMISSIS) in base alla predetta sentenza, ed alla conseguente insussistenza di un rapporto di filiazione e finanche di parentela sia con il (OMISSIS), che non ha alcun legame biologico con il minore, che con il (OMISSIS), il quale, secondo quanto riferito dalle parti, ha fornito i gameti necessari per la procreazione medicalmente assistita. Se cio' e' vero, deve tuttavia ritenersi che entrambe le parti, per poter far valere i rispettivi diritti, dovessero preventivamente promuovere la dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero che ne costituiva il fondamento, mediante il procedimento prescritto dalla L. n. 218 del 1995, articolo 67. Non puo' condividersi, in proposito, la tesi sostenuta dalla difesa delle (OMISSIS), secondo cui tale procedimento sarebbe stato necessario soltanto ai fini dell'ottemperanza alla statuizione concernente il diritto di visita, mentre quella riguardante la responsabilita' genitoriale doveva considerarsi efficace ipso jure nel nostro ordinamento, ai sensi della L. n. 218 cit., articolo 65: tale disposizione, nel prevedere il riconoscimento automatico dei provvedimenti stranieri relativi alla capacita' delle persone ed all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalita', si limita infatti, al pari dell'articolo 64 per le altre sentenze e dell'articolo 66 per i provvedimenti di giurisdizione volontaria, ad individuare i requisiti di ordine sostanziale a tal fine occorrenti, senza affatto escludere la necessita' di promuovere, in caso di contestazioni, il procedimento di cui all'articolo 67. In presenza delle contestazioni sollevate dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS), o comunque degli ostacoli dagli stessi frapposti al pacifico e proficuo esercizio da parte delle ricorrenti della responsabilita' genitoriale loro attribuita dal Giudice (OMISSIS), sarebbe dunque spettato alle stesse (OMISSIS) l'onere di assumere l'iniziativa finalizzata alla dichiarazione di efficacia della sentenza straniera, mediante la proposizione della domanda nelle forme previste dal Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 30 richiamato dall'articolo 67 cit. Nessun rilievo puo' assumere, al riguardo, la circostanza che, nonostante la mancata instaurazione di un apposito procedimento, la predetta questione sia ugualmente pervenuta all'esame della Corte d'appello, competente ai sensi dell'articolo 30 cit., la quale ha pronunciato sulla stessa nell'ambito di un giudizio svoltosi in forme idonee ad assicurare il rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti: l'oggetto della sentenza, costituito dal riconoscimento dello status genitoriale delle ricorrenti, esclude infatti che, in quanto strumentale all'accertamento della facolta' di esercitare il diritto di visita, la dichiarazione di efficacia potesse aver luogo in via incidentale, nell'ambito del giudizio finalizzato all'esclusione del predetto diritto; in contrario, non vale richiamare l'articolo 67, comma 3 che in riferimento all'ipotesi in cui la contestazione insorga nell'ambito di un processo caratterizzato da un diverso petitum riconosce al giudice la possibilita' di pronunciare il riconoscimento con efficacia limitata al giudizio, trattandosi di una disposizione non riferibile alle sentenze riguardanti lo stato e la capacita' delle persone, il cui accertamento rientra per legge tra le questioni pregiudiziali da decidersi necessariamente con efficacia di giudicato, ai sensi dell'articolo 34 c.p.c. A fronte delle contestazioni insorte relativamente all'esecuzione della sentenza (OMISSIS), ed in assenza di una valida dichiarazione di efficacia della stessa, deve pertanto escludersi non solo la legittimazione dei controricorrenti ad azionare il diritto di visita loro riconosciuto, ma anche quella delle ricorrenti a far valere il carattere esclusivo della responsabilita' genitoriale loro attribuita e la conseguente illegittimita' delle interferenze causate dal comportamento dei due uomini: tale difetto di legittimazione, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimita', escludendo in radice ogni possibilita' di prosecuzione del giudizio, comporta la cassazione senza rinvio del decreto impugnato, ai sensi dell'articolo 382 c.p.c., comma 3, (cfr. Cass., Sez. Un., 9/02/ 2012, n. 1912; Cass., Sez. III, 26/09/2017, n. 22341; Cass., Sez. lav., 6/03/ 2000, n. 2517). 7. La sentenza impugnata va pertanto cassata senza rinvio, restando assorbiti il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, con cui le ricorrenti hanno censurato il decreto impugnato per violazione della L. n. 218 del 1995, articolo 64, lettera g), e degli articoli 115 e 116 c.p.c., nonche' per apparenza della motivazione, nella parte concernente la valutazione compiuta dalla Corte territoriale in ordine alla contrarieta' all'ordine pubblico del provvedimento adottato dal Giudice (OMISSIS). La peculiarita' della vicenda esaminata e la complessita' delle questioni trattate giustifica l'integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio. Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17. P.Q.M. accoglie i primi due motivi del ricorso principale, dichiara assorbiti il terzo ed il quarto motivo, rigetta il ricorso incidentale e cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa integralmente le spese processuali. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - rel. Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi riuniti iscritti ai nn. 14901 e 21019/2020 R.G. proposti da: PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA; - ricorrente - e MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; - ricorrente - contro (OMISSIS), e (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitore investito della responsabilita' sulla minore (OMISSIS), rappresentate e difese dall'Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell'Avv. (OMISSIS); - controricorrenti - e COMUNE DI ROMA e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA; - intimati - avverso il decreto della Corte d'appello di Roma depositato il 27 aprile 2020; Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino; uditi il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma Dott. Polella Roberto, e l'Avv. (OMISSIS); udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo la dichiarazione d'inammissibilita' del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma e l'accoglimento del secondo, del terzo, del quarto e del quinto motivo del ricorso proposto dal Ministero dell'interno. FATTI DI CAUSA 1. (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitore esercente la responsabilita' nei confronti della minore (OMISSIS), e (OMISSIS), convivente con la (OMISSIS), proposero ricorso al Tribunale di Roma, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 novembre 2000, n. 396, articolo 95 per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile del Comune di Roma all'annotazione del riconoscimento della minore quale figlia della (OMISSIS), effettuato da quest'ultima successivamente al riconoscimento da parte dell'altra ricorrente. Premesso che la minore, nata a (OMISSIS) e partorita dalla (OMISSIS), era stata dalla stessa concepita mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all'estero senza alcun apporto biologico da parte della (OMISSIS), la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all'intervento, chiesero disporsi la rettificazione dello atto di nascita, con l'annotazione del riconoscimento a margine dello stesso e con la modificazione del cognome della minore in " (OMISSIS) (OMISSIS)". Si costitui' il Ministero dell'interno, chiedendo il rigetto della domanda. 1.1. Con decreto del 2 luglio 2019, il Tribunale di Roma rigetto' la domanda. 2. Il reclamo proposto dalla (OMISSIS) e dalla (OMISSIS) e' stato accolto dalla Corte d'appello di Roma con decreto del 27 aprile 2010. A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso il difetto di legittimazione del Comune, rilevando che lo stesso, che aveva partecipato al giudizio di primo grado, aveva ricevuto la notificazione del reclamo, sia pure a titolo di denuntiatio litis, in quanto portatore di un interesse tale da giustificarne la partecipazione al procedimento, in termini equiparabili a quelli dell'intervento adesivo. Premesso inoltre che il procedimento previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 95 e' volto ad eliminare una difformita' tra la situazione di fatto e quella risultante dall'atto di stato civile, per un vizio comunque originato nel procedimento di formazione dell'atto stesso, ha precisato che la materia del contendere consisteva nell'accertare se il riconoscimento successivo della figlia da parte della (OMISSIS), priva di legame biologico con la minore, fosse o meno conforme all'ordine pubblico, e se per effetto del rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile i registri rispecchiassero fedelmente la situazione di fatto quale sarebbe dovuta essere in base alla legge. Cio' posto, la Corte ha dichiarato di non condividere la risposta negativa fornita dalla giurisprudenza di legittimita' in un caso analogo, ritenendo che dal divieto di accesso delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita, previsto dalla L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 5 non possa desumersi che, nel caso in cui si sia fatto comunque ricorso a tali pratiche, possa essere riconosciuta come genitore soltanto colei che ha dato la luce al bambino. In proposito, ha richiamato un precedente di legittimita', relativo al caso di un minore nato a seguito di fecondazione omologa post mortem praticata all'estero, secondo cui la circostanza che si sia fatto ricorso all'estero alla procreazione medicalmente assistita, in casi non previsti o non ammessi dal nostro ordinamento, non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l'applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all'esito di tale percorso. Ha richiamato inoltre i principi enunciati dalla Corte EDU e dalla Corte costituzionale, che distinguono la disciplina dell'accesso alla procreazione medicalmente assistita dalla preminente tutela del nato, affermando che le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla L. n. 40 del 2004 da parte degli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi e' nato. Premesso che nella struttura della L. n. 40 cit. le norme che prevedono i requisiti soggettivi ed oggettivi per l'accesso alla procreazione medicalmente assistita sono collocate in un capo diverso da quelle che disciplinano la tutela del nascituro, ha affermato che il legislatore ha tenuto ben presente l'eventualita' che l'accesso alle predette pratiche possa avvenire al di fuori dei casi consentiti, non solo non prevedendo sanzioni a carico dei soggetti che vi hanno fatto ricorso, ma disponendo che il nato a seguito di fecondazione eterologa acquista lo status di figlio dei membri della coppia sulla sola base del consenso prestato alla pratica, con il divieto del disconoscimento di paternita' e dell'anonimato della madre. Rilevato quindi che la L. n. 40, pur prevedendo una sanzione pecuniaria per la violazione dei divieti da essa posti, non ne rimuove gli effetti, ma garantisce la piu' ampia tutela a colui che sia nato sia pure da pratiche vietate, attribuendo la prevalenza all'interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, in conformita' ai principi stabiliti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell'infanzia, ha ritenuto che nella specie, ai fini dell'individuazione del trattamento giuridico riservato alla minore, dovesse aversi riguardo non gia' alla condotta tenuta dalle ricorrenti, ma all'interesse superiore di (OMISSIS), nata a seguito di una pratica di procreazione medicalmente assistita vietata in Italia ma del tutto lecita nel Paese in cui era stata effettuata. Ribadito in proposito che la L. n. 40 del 2004, articolo 8 attribuisce un ruolo centrale al consenso, quale fattore determinante la genitorialita', indipendentemente dalle norme che prevedono i confini soggettivi dell'accesso alle pratiche di procreazione medicalmente assistita, ed anche nel caso in cui sia espresso in forme diverse da quelle previste dall'articolo 6, ha richiamato l'orientamento della giurisprudenza di legittimita' secondo cui l'orientamento sessuale non incide sull'idoneita' dell'individuo ad assumere la responsabilita' genitoriale, ammettendo che la possibilita' di riconoscere l'efficacia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne discende dall'applicazione delle norme di diritto internazionale privato e dalla esigenza di tutelare il diritto alla continuita' ed alla conservazione dello status filiationis acquisito all'estero, ma precisando che l'impossibilita' di dare riconoscimento alla genitorialita' intenzionale solo quando il minore sia nato in Italia contrasta con i principi di uguaglianza e di tutela preminente dell'interesse superiore del minore, conducendo a disparita' di trattamento che potrebbero trarre origine solo da discriminazioni di tipo economico e sociale. Ha escluso che l'interesse del minore al riconoscimento della maternita' intenzionale possa trovare una tutela equivalente nell'adozione in casi particolari, rilevando che quest'ultima salvaguarda il diritto alla vita familiare, ma non quello all'identita' personale, e non instaura alcun rapporto con la famiglia dell'adottante, mentre il minore ha diritto a conoscere la sua provenienza e ad essere riconosciuto figlio di coloro che hanno contribuito alla sua nascita, nonche' all'esercizio della responsabilita' genitoriale ed all'adempimento dei relativi doveri da parte di entrambi i genitori, anche nel caso in cui il genitore intenzionale non intenda intraprendere iniziative giudiziarie in tal senso. Ha aggiunto che l'annotazione del riconoscimento nei registri dello stato civile non trova ostacolo ne' nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 29 il quale fa genericamente riferimento ai "genitori", senza richiedere necessariamente un padre e una madre, ne' nell'indisponibilita' dello status filiationis, essendo rimesso alla volonta' delle parti soltanto l'atto procreativo, al pari di quanto accade in caso di procreazione naturale, ne' nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale, pur non prevedendo che la coppia omosessuale possa adottare o accedere alla procreazione medicalmente assistita, non impedisce di distinguere tra le condizioni di accesso alla stessa e la disciplina dello status filiationis. Ha escluso che il riconoscimento si ponga in contrasto con l'ordine pubblico interno, ritenendo operanti le medesime valutazioni riguardanti la contrarieta' all'ordine pubblico internazionale, negando l'esistenza, a livello costituzionale, di un divieto per le coppie omosessuali di accogliere e di generare figli, aggiungendo che l'identita' di sesso dei genitori non puo' giustificare un trattamento deteriore dei figli, e precisando infine che l'articolo 269 c.c., comma 3, non introduce un principio di ordine pubblico, ma attiene alla prova della filiazione. La Corte ha infine accolto la domanda di attribuzione alla minore del cognome di entrambi i genitori, osservando che la stessa garantisce la piena ed effettiva realizzazione del diritto all'identita' personale, che nel nome trova il primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell'identita' personale. Premesso che nella specie non era possibile procedere all'ascolto della minore, in considerazione della sua eta', ha ritenuto che, avuto riguardo al non ancora avvenuto inserimento nel circuito scolastico ed alla concorde richiesta dei genitori, l'attribuzione di entrambi i cognomi consentisse di dare integrale realizzazione al suo diritto all'identita' personale. 3. Avverso il predetto decreto hanno ha proposto distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma, per un solo motivo, ed il Ministero, per cinque motivi. La (OMISSIS) e la (OMISSIS) hanno resistito con controricorsi, illustrati anche con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attivita' difensiva. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente, va disposta, ai sensi dell'articolo 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi, proposti separatamente ma aventi ad oggetto l'impugnazione medesimo decreto. 2. Con l'unico motivo del proprio ricorso, il Pubblico Ministero osserva che il decreto impugnato ha fornito una lettura parcellizzata della L. n. 40 del 2004, non avendo tenuto conto della ratio degli articoli 8 e 9, i quali, nell'imporre all'uomo che abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita il divieto di agire per il disconoscimento della paternita' ed alla donna che si sia sottoposta alla predetta pratica il divieto dell'anonimato, mirano inequivocabilmente a proteggere il prodotto del concepimento, una volta nato, da possibili ripensamenti di uno dei componenti della coppia. Sostiene che nella procreazione medicalmente assistita l'atto del concepimento non coincide con la prestazione del consenso, che costituisce la condizione per il legittimo accesso della coppia eterosessuale alla fecondazione omologa, ma con la fecondazione in vitro e il successivo impianto dell'ovulo nell'utero della donna. Contesta la pertinenza del richiamo al diritto alla bigenitorialita' ed allo interesse superiore del minore, affermando che il primo assume rilevanza giuridica soltanto con riguardo al mantenimento di rapporti significativi con entrambi i genitori, intesi in senso biologico, mentre il secondo risulta adeguatamente tutelato attraverso l'istituto dell'adozione in casi particolari. 2.1. Il ricorso e' inammissibile. Le censure proposte dal ricorrente, pur riflettendo il vizio di violazione di legge, la cui denuncia risulta chiaramente desumibile dal richiamo della rubrica all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non sono infatti accompagnate dalla specifica indicazione delle norme giuridiche violate e delle argomentazioni attraverso le quali la Corte territoriale se ne sarebbe discostata, risolvendosi in generiche considerazioni riguardanti l'impostazione generale della L. n. 40 del 2004, prive di puntuali riferimenti all'articolata motivazione del decreto impugnato, e quindi inidonee a confutare il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione. Tali modalita' d'illustrazione del motivo non soddisfano i requisiti di contenuto-forma prescritti dall'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, la cui osservanza postula non solo l'indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche e soprattutto lo svolgimento di argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a spiegare le ragioni per cui determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata devono considerarsi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimita', risultando altrimenti impedito a questa Corte di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 5/08/2020, n. 16700; 29/11/2016, n. 24298; 8/03/2007, n. 5353). 3. Con il primo motivo del proprio ricorso, il Ministero denuncia l'eccesso di potere giurisdizionale, sostenendo che, nel ritenere legittimo il riconoscimento effettuato dalla madre intenzionale, nonostante la mancanza di un legame biologico tra la stessa ed il minore, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalita' politica spettante al legislatore. Premesso infatti che il nostro ordinamento, pur avendo riconosciuto alle coppie omosessuali una serie di diritti in prospettiva antidiscriminatoria, anche in materia di genitorialita', ha consentito alle stesse di ottenere l'adozione non legittimante, senza pero' equipararle pienamente alle coppie eterosessuali, osserva che l'eventuale contrarieta' alla Costituzione delle norme delle L. n. 40 del 2004 e L. n. 76 del 2016 che vietano il ricorso alla maternita' surrogata o alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali o l'adozione da parte di persone dello stesso sesso legate da unioni civili avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso la proposizione della questione di legittimita' costituzionale. 3.1. Il motivo e' infondato. La Corte d'appello ha infatti giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralita' di disposizioni, interpretate alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita', da quella costituzionale e dalla Corte EDU, sulla base delle quali ha concluso che il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali, previsto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 5 non impedisce, in caso di nascita di un figlio mediante il ricorso alle predette tecniche, il riconoscimento dello status di genitore anche in favore di colui che non abbia alcun legame biologico con il minore, ma abbia prestato il proprio consenso alla procreazione, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, tale ragionamento consente di escludere la sussistenza del vizio lamentato, configurabile soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un'attivita' di produzione normativa estranea alla sua competenza. E' noto d'altronde che alla figura dell'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di discrezionalita' riservata al legislatore viene riconosciuta una rilevanza eminentemente teorica, trattandosi di un vizio ipotizzabile soltanto a condizione di poter distinguere l'attivita' di produzione normativa indebitamente esercitata dal giudice dall'attivita' interpretativa, la quale in realta' non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un'opera creativa della volonta' della legge nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068). L'eccesso di potere giurisdizionale non e' configurabile neppure in relazione alla mancata proposizione della questione di legittimita' costituzionale, non essendo il giudice tenuto senz'altro a promuoverla nel caso in cui ritenga che l'interpretazione corrente delle norme di legge applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame sia contraria alla Costituzione, ma dovendo, prima di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, sperimentare la possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata, la cui mancata ricerca, a fronte di una pluralita' di plausibili interpretazioni ed in assenza di un indirizzo interpretativo qualificabile come diritto vivente, puo' anzi costituire causa d'inammissibilita' della questione. 4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell'articolo 449 c.c. e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 1, articolo 11, comma 3, articolo 12, comma 1, articoli 29, 30, 42, 44 e 95 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto ammissibile il ricorso al procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile. Premesso infatti che l'articolo 449 c.c. vincola l'Amministrazione a conformarsi, nella tenuta dei registri dello stato civile, al relativo ordinamento, e quindi alla legge italiana, la quale non consente la formazione di un atto di nascita recante l'indicazione di due genitori dello stesso sesso, osserva che il giudizio non riguardava la legittimita' del rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile all'annotazione del riconoscimento, ma lo status del minore, che avrebbe dovuto costituire oggetto di accertamento nelle forme del rito ordinario di cognizione. Precisato inoltre che la legittimita' del predetto rifiuto doveva essere valutata alla stregua dell'ordinamento interno, sostiene che i requisiti soggettivi prescritti dalla L. n. 40 del 2004 ai fini del ricorso alla procreazione medicalmente assistita mirano a garantire che il nucleo familiare scaturente dalle relative pratiche riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di un padre ed una madre. Afferma che l'annotazione del riconoscimento effettuato dalla madre intenzionale si pone in contrasto con i principi di ordine pubblico in materia di filiazione, tra i quali assume una portata fondamentale quello che identifica tale nozione con la discendenza da persone di sesso diverso. Rilevato inoltre che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall'assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, evidenzia che la possibilita' di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico e' espressamente esclusa dalla legge; afferma che tale divieto non contrasta con i principi sanciti dalla CEDU, i quali non escludono la legittimita' di norme interne che attribuiscano alla procreazione medicalmente assistita una finalita' esclusivamente terapeutica, non garantendo ne' il diritto di fondare una famiglia ne' quello di adottare, ed identificando nel legame genetico o biologico con il minore il limite oltre il quale e' rimessa alla discrezionalita' del legislatore nazionale l'individuazione degli strumenti piu' adeguati per conferire rilievo al rapporto genitoriale. Contesta la pertinenza del richiamo ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita' in tema di fecondazione omologa post mortem e di maternita' surrogata, osservando che la prima non e' prevista dall'ordinamento, laddove il ricorso alla fecondazione eterologa da parte di coppie omosessuali e' espressamente vietato, mentre in riferimento alla seconda e' stato precisato che, al di fuori di casi eccezionali previsti dalla legge, l'interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis non puo' prevalere sulla verita' biologica. Aggiunge comunque che la piu' recente giurisprudenza di legittimita' e quella costituzionale hanno ribadito la legittimita' del divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali, precisando che, nonostante l'introduzione di altre forme di procreazione, rese possibili dallo sviluppo scientifico e tecnologico, la disciplina del rapporto di filiazione rimane saldamente ancorata alla necessita' di un rapporto biologico con il nato, nella specie non sussistente nei confronti di colei che ha effettuato il riconoscimento. 4.1. Il motivo e' inammissibile. E' pur vero che il rifiuto dell'ufficiale di stato civile di procedere all'annotazione nei registri anagrafici della dichiarazione di riconoscimento fatta dalla genitrice c.d. d'intenzione non da' luogo ad una difformita' tra la situazione di fatto, qual e' o dovrebbe essere nella realta' secondo la previsione di legge, e quella risultante dai registri dello stato civile, a causa di un vizio comunque originatosi nel procedimento di formazione del relativo atto (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/2009, n. 21094; 27/03/1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519): tale rifiuto trova infatti giustificazione nella disciplina dettata dal codice civile, richiamata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 cit., articoli 42 e ss. conformemente a quanto stabilito dall'articolo 449 c.c., che all'articolo 250 consente il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio alla madre ed al padre, intendendo con il primo termine esclusivamente la donna che ha partorito il nato, come previsto dall'articolo 269 c.c., comma 3; in contrario, non puo' invocarsi il disposto della L. n. 40 del 2004, articolo 8 il quale, nel prevedere che il nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio della coppia che ha espresso la volonta' di farvi ricorso, da' per scontato che si tratti di una coppia di sesso diverso, conformemente a quanto previsto dal precedente articolo 5. L'impugnazione del predetto rifiuto, traducendosi nella richiesta di un accertamento costitutivo in ordine allo status di una persona, da' quindi luogo ad una controversia di stato, che non puo' essere risolta attraverso il procedimento di rettificazione previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 95 dovendo il giudizio svolgersi nelle forme del rito ordinario di cognizione, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati a contraddire alla domanda (cfr. Cass., Sez. I, 21/12/1998, n. 12746; 27/03/ 1996, n. 2776; 26/01/1993, n. 951). Nella specie, tuttavia, il procedimento, pur essendo stato trattato con il rito camerale prescritto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 cit., articolo 96, comma 3, e' stato promosso nei confronti di tutti i soggetti legittimati, avendovi preso parte, oltre al Ministero dell'interno, in qualita' di Amministrazione centrale cui e' riconducibile l'attivita' dell'ufficiale di stato civile, non solo il minore ed il genitore biologico, ma anche il Pubblico Ministero, cui l'articolo 70 c.p.c., comma 1, n. 3 riconosce la posizione di litisconsorte necessario nelle cause riguardanti lo stato delle persone. L'errata individuazione del rito applicabile non puo' ritenersi poi sufficiente a giustificare la cassazione del decreto impugnato, non essendo stato dedotto ne' dimostrato che l'adozione del rito camerale in luogo di quello ordinario abbia pregiudicato l'esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, il quale non ha pertanto interesse a far valere il predetto vizio: l'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attivita' del giudice che comportino la nullita' della sentenza o del procedimento, non tutela infatti l'interesse all'astratta regolarita' dell'attivita' giudiziaria, ma garantisce soltanto l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo (cfr. Cass., Sez. I, 21/02/ 2008, n. 4435; 22/07/2004, n. 13662; Cass., Sez. II, 22/01/2007, n. 1279). 5. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 30 dell'articolo 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, articoli 4, 5, 8, 9 e 12 negando la sussistenza di un interesse del minore che possa prevalere sulle norme fondamentali interne ed internazionali che definiscono il concetto di maternita', ed osservando comunque che nel caso in esame l'inefficacia del riconoscimento posto in essere dal genitore intenzionale non impedirebbe alla minore ne' di accedere al trattamento giuridico proprio dello status filiationis, ricollegabile al riconoscimento compiuto dalla madre biologica, ne' di mantenere le relazioni affettive instaurate nell'ambito del rapporto di convivenza. Insiste sulla differenza tra genitorialita' biologica e genitorialita' intenzionale, sottolineando che la trascrizione del riconoscimento compiuto all'estero dal genitore d'intenzione comporterebbe la regolarizzazione di una posizione che nel nostro ordinamento non risulta in alcun modo tutelata, in quanto espressamente vietata. Premesso che nel nostro ordinamento la posizione di madre si caratterizza per un fondamento non gia' volitivo-negoziale, ma oggettivo-genetico, per effetto del quale deve escludersi la possibilita' dell'esistenza di due madri, osserva che la legislazione piu' recente, nel disciplinare l'accesso all'adozione ed alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, stabilisce il limite invalicabile della diversita' di sesso, sostenendo che detto limite non risulta superato per effetto delle pronunce d'incostituzionalita' che hanno ampliato l'ambito applicativo della L. n. 40 del 2004, avendo queste ultime confermato l'ammissibilita' del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto in presenza di sterilita' o infertilita' patologica o di malattie genetiche trasmissibili, con la conseguente esclusione delle ipotesi in cui, come nelle coppie omosessuali, l'impossibilita' di generare e' dovuta ad un limite naturale. 6. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articoli 16 e 65 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha richiamato il limite dell'ordine pubblico, senza considerare che lo stesso non impedisce soltanto la trascrizione di atti formati all'estero nei registri dello stato civile italiani, ma anche la produzione degli effetti giuridici agli stessi collegati, a garanzia dei principi e dei valori fondamentali dell'ordinamento italiano. Sostiene che, nel ritenere operante il predetto limite con riferimento esclusivo al divieto di surrogazione di maternita', la giurisprudenza di legittimita' ha affermato che la compatibilita' con lo stesso dev'essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria. Aggiunge che la nozione di ordine pubblico rilevante nell'ordinamento interno e' piu' ampia di quella di ordine pubblico internazionale, corrispondendo al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, desumibili dalle norme imperative che li disciplinano. 7. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20, e della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera g), osservando che, contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la prima disposizione esclude espressamente l'applicabilita' alle coppie omosessuali delle norme in materia di filiazione ed adozione, e richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimita', che proprio in ragione di tale esclusione, ritiene ammissibile l'adozione non legittimante del figlio del convivente dello stesso sesso. Afferma che il tema della filiazione non coincide per intero con quello della genitorialita', essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilita' di tipo genitoriale che prescindono dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all'eliminazione di qualsiasi disparita' di trattamento. Rileva in proposito che la giurisprudenza costituzionale, pur avendo accordato rilevanza giuridica e tutela all'unione omosessuale, inquadrate nella nozione di formazione sociale di cui all'articolo 2 Cost., ha ribadito come la Costituzione non ponga un modello di famiglia inscindibilmente collegato alla presenza di figli, con la conseguenza che il riconoscimento della liberta' e volontarieta' dell'atto di diventare genitori incontra i limiti necessari al bilanciamento di tale liberta' con altri valori costituzionalmente protetti. 8. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono fondati. La questione in esame e' stata gia' affrontata da questa Corte, e risolta mediante l'enunciazione del principio di diritto secondo cui il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, articolo 4, comma 3, e con l'esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialita' svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029; 3/04/2020, n. 7668). A fondamento di tali conclusioni, e' stato osservato che a) nel caso in cui (come nella specie) il minore sia in possesso della cittadinanza italiana, in quanto, pur essendo stato concepito all'estero, sia nato in Italia da una cittadina italiana, la fattispecie e' interamente regolata, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 33 dalla legge italiana, non presentando alcun elemento di estraneita' all'ordinamento italiano, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, b) la L. n. 40 del 2004, articoli 4 e 5 i quali escludono il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, assoggettando l'accesso alle altre tecniche al possesso di determinati requisiti soggettivi ed oggettivi, costituiscono espressione delle scelte di fondo sottese alla disciplina in questione, consistenti nella configurazione delle predette tecniche come rimedio alla sterilita' o infertilita' umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e nell'intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre, c) tali coordinate sono rimaste inalterate anche a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, d) la perdurante operativita' delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004 impedisce di desumere dalla stessa la configurabilita', anche al di fuori dei casi da essa previsti, di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, in ossequio alla preminenza dell'interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita, e) non e' possibile, in particolare, astrarre il disposto dell'articolo 9 dal contesto in cui e' inserito, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternita' per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtu' del quale, ai fini dell'instaurazione del relativo rapporto, puo' considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall'adesione ad un comune progetto genitoriale, f) l'intera disciplina del rapporto di filiazione, cosi' come delineata dal codice civile, rimane infatti saldamente ancorata alla necessita' di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d'inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice. 8.1. Tale orientamento trova conforto anche nella giurisprudenza costituzionale, e segnatamente nella sentenza n. 221 del 2019, con cui e' stata dichiarata infondata la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articoli 5 e 12 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: pur confermando che l'unione omosessuale rientra nella nozione di formazione sociale di cui all'articolo 2 Cost., la Corte costituzionale ha infatti osservato che l'infertilita' fisiologica della coppia omosessuale non e' omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, aggiungendo che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli; precisato comunque che il riconoscimento della liberta' e volontarieta' dell'atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale liberta' possa esplicarsi senza limiti, la Corte costituzionale ha poi affermato che, a fronte della possibilita', dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall'intervento del medico, spetta alla discrezionalita' del legislatore la ponderazione degli interessi in gioco, escludendo comunque l'arbitrarieta' o l'irrazionalita' dell'idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo piu' idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato. Tali considerazioni sono state richiamate nella successiva sentenza n. 237 del 2019, con cui, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della norma desumibile dagli articoli 250 e 449 c.c., dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 29, comma 2 e articolo 44, comma 1, e dalla L. n. 40 del 2004, articoli 5 e 8 per contrasto con gli articoli 2, 3, 24, 30 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalita' straniera due persone dello stesso sesso, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover aggiungere che ad opposte conclusioni non puo' condurre neppure la L. n. 76 del 2016, la quale, pur riconoscendo la dignita' sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso, non consente comunque la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, poiche' dal rinvio alle disposizioni sul matrimonio, contenuto nell'articolo 1, comma 20 di detta legge, restano escluse, in quanto non richiamate, proprio quelle che regolano la paternita', la maternita' e l'adozione legittimante. 8.2. L'esclusione della possibilita' di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l'instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il genitore d'intenzione al consenso da quest'ultimo prestato all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e' stata ritenuta non contrastante neppure con i principi sanciti dalla CEDU: in proposito, e' stata richiamata la giurisprudenza della Corte EDU, la quale, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilita' di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalita' esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria). Quanto poi all'interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione e' destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilita' di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilita' di condurre un'esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non e' pertanto configurabile nel caso in cui (come nella specie) non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d'intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l'inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale ne' l'accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell'altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). 8.3. I predetti principi, gia' richiamati nelle precedenti pronunce di questa Corte riguardanti casi analoghi a quello in esame, sono stati recentemente ribaditi sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte EDU. Quest'ultima, nell'esaminare un caso riguardante il rifiuto di uno stato membro di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione tra un minore procreato mediante il ricorso alla maternita' surrogata ed uno dei genitori, non avente alcun legame biologico con lo stesso, ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata del minore richiede che il diritto interno offra la possibilita' di un riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d'intenzione, ma non anche che tale riconoscimento abbia luogo attraverso l'iscrizione nell'atto di nascita del minore; ribadito che la scelta degli strumenti per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati, ha precisato che esso puo' aver luogo anche in altro modo, come attraverso l'adozione, a condizione che le modalita' previste dal diritto interno garantiscano l'effettivita' e la celerita' della procedura (cfr. Corte EDU, sent. 16/07/2020, D. c. Francia). La Corte costituzionale ha dichiarato a sua volta inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 29, comma 2, per contrasto con l'articolo 2 Cost., articolo 3 Cost., commi 1 e 2, 30 e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui precludono alle donne omosessuali unite civilmente che abbiano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita la possibilita' di essere indicate, entrambe, quali genitori nell'atto di nascita, osservando che l'obiettivo del riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente non e' raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalita' delle predette disposizioni, ma dev'essere perseguito per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non e' costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all'area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volonta' della collettivita', e' chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale (cfr. Corte Cost., sent. n. 230 del 2020). Nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 per contrasto con gli articoli 2, 3, 30, 31 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consentono il riconoscimento e la dichiarazione di esecutivita' del provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento del genitore d'intenzione nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalita' della gestione per altri, la Corte ha poi riconosciuto che l'interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo e' quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realta' fattuale, gia' lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, e non solo di quello con il genitore biologico, ma ha affermato che tale interesse non puo' essere considerato automaticamente prevalente rispetto agli altri interessi in gioco, dovendo essere bilanciato con questi ultimi, alla luce del criterio di proporzionalita'. Ha quindi escluso l'illegittimita' costituzionale delle norme che impediscono l'indicazione del genitore intenzionale nell'atto di nascita del minore, evidenziando nel contempo la necessita' di assicurare la tutela dell'interesse del minore attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorche' ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ha comunque precisato che il compito di adeguare il diritto vigente alle predette esigenze di tutela non puo' che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco (cfr. Corte Cost., sent. n. 33 del 2021). 8.4. Sulla base delle predette considerazioni, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, non puo' condividersi il ragionamento svolto nel decreto impugnato, il quale ha proceduto ad un arbitrario frazionamento della disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, distinguendo nello ambito della stessa le disposizioni che individuano i requisiti per l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da quelle riguardanti lo stato giuridico del minore nato a seguito del ricorso alle predette tecniche, e proponendo un'interpretazione di queste ultime completamente svincolata dai principi ispiratori della legge, in virtu' della quale vi ha ravvisato il fondamento di una nuova forma di filiazione, caratterizzata da uno statuto giuridico diverso da quella biologica e quella adottiva, ma produttiva dei medesimi effetti. Tale frazionamento si pone in contrasto con l'unitarieta' della disciplina in esame, volta ad adattare le modalita' di costituzione del rapporto di filiazione alla diversa realta' determinata dalla procreazione medicalmente assistita, nei limiti in cui il ricorso alla stessa risulta consentito, al fine di porre rimedio a forme patologiche di sterilita' o infertilita' o di evitare la trasmissione di malattie genetiche: esso non puo' ritenersi autorizzato dalla portata circoscritta delle sanzioni comminate dalla legge per l'inosservanza dei predetti limiti, la quale non esclude, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, la necessita' di un rapporto biologico, ai fini della costituzione del rapporto giuridico di filiazione tra il nato e colui che ha prestato il proprio consenso all'utilizzazione delle predette tecniche. Non merita consenso, in contrario, il richiamo del decreto impugnato ad una recente pronuncia di questa Corte, che ha ritenuto ammissibile il riconoscimento dello stato di figlio nato dal matrimonio in favore di un minore nato a seguito di fecondazione assistita omologa post mortem, avvenuta mediante l'utilizzazione del seme crioconservato del coniuge della madre che, dopo aver prestato il proprio consenso a tale pratica, era deceduto prima della formazione dell'embrione (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13000): in tal caso, infatti, indipendentemente da ogni altra considerazione, non era in discussione l'esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed il genitore d'intenzione, il quale non si era limitato a prestare il proprio consenso alla fecondazione, ma aveva messo a disposizione i gameti a tal fine necessari, senza poter vedere coronati da successo gli sforzi compiuti per acquistare lo status giuridico di genitore, a causa del prematuro decesso. Parimenti inappropriato deve ritenersi il richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l'efficacia nel nostro ordinamento dell'atto di nascita formato all'estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, e' figlio di due persone dello stesso sesso, ancorche' una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l'una fornito l'ovulo per la fecondazione e l'altra provveduto alla gestazione, e' sufficiente rilevare che il riconoscimento dello atto straniero non fa venir meno l'estraneita' dello stesso all'ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, cosi' come previsti e regolati dall'ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l'ordine pubblico. Tale compatibilita', com'e' noto, dev'essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonche' del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione da' forma a quel diritto vivente, dal quale non puo' prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dello ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). Contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell'efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri e' piu' ristretta di quella rilevante nell'ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non puo' quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall'atto di nascita formato all'estero e l'esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev'essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029). Tale disparita' di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversita', pur rendendo possibili condotte elusive della piu' restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per se' causa d'illegittimita' costituzionale di quest'ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019). Quanto infine all'interesse del minore, la prevalenza da accordarsi allo stesso non legittima, come affermato anche dal Giudice delle leggi, l'automatica estensione delle disposizioni dettate per la procreazione medicalmente assistita anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo questa Corte sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell'esercizio della propria discrezionalita', l'individuazione degli strumenti giuridici piu' opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla L. n. 40 del 2004. 9. L'accoglimento delle predette censure, comportando la caducazione del decreto impugnato, anche nella parte concernente l'attribuzione alla minore del cognome di entrambi i genitori, determina l'assorbimento del sesto motivo, con cui il Ministero ha lamentato la violazione e/o la falsa applicazione dell'articolo 262 c.c. e ss., richiamando le censure proposte, anche in riferimento alla predetta statuizione. 10. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dall'accoglimento del terzo, del quarto e del quinto motivo, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda. La peculiarita' della questione trattata, che ha costituito oggetto di una complessa vicenda giurisprudenziale, giustifica l'integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio. P.Q.M. riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma, rigetta il primo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell'interno, dichiara inammissibile il secondo, accoglie il terzo, il quarto ed il quinto, dichiara assorbito il sesto motivo, cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - rel. Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19595/2021 R.G. proposto da: MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; - ricorrente - contro (OMISSIS), e (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitore investito della responsabilita' sulla minore (OMISSIS), rappresentate e difese dagli Avv. (OMISSIS), e (OMISSIS), con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione; - controricorrenti - e SINDACO DI (OMISSIS), PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI (OMISSIS) e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI PERUGIA; - intimati - avverso il decreto della Corte d'appello di Perugia depositato il 21 novembre 2019; Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino; udito l'Avv. (OMISSIS); udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso. FATTI DI CAUSA 1. (OMISSIS), in proprio e nella qualita' di genitore esercente la responsabilita' nei confronti della minore (OMISSIS), e (OMISSIS), convivente con la (OMISSIS), proposero ricorso al Tribunale di Terni, per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) all'annotazione del riconoscimento della minore quale figlia della (OMISSIS), effettuato da quest'ultima successivamente al riconoscimento da parte dell'altra ricorrente. Premesso che la minore, nata in Italia il (OMISSIS) e partorita dalla (OMISSIS), era stata dalla stessa concepita mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all'estero senza alcun apporto biologico da parte della (OMISSIS), la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all'intervento, chiesero disporsi la rettificazione dello atto di nascita, con l'annotazione del riconoscimento a margine dello stesso e con la modificazione del cognome della minore in " (OMISSIS) (OMISSIS)". Si costitui' il Ministero dell'interno, chiedendo il rigetto della domanda. 1.1. Con decreto del 22 maggio 2019, il Tribunale di Terni rigetto' la domanda. 2. Il reclamo proposto dalla (OMISSIS) e dalla (OMISSIS) e' stato accolto dalla Corte d'appello di Perugia, che con decreto del 21 novembre 2019 ha rigettato anche il reclamo incidentale proposto dal Ministero dell'interno. A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso la sussistenza di un difetto di rappresentanza della minore o di un conflitto d'interessi tra la stessa ed il genitore, rilevando che (OMISSIS) era rappresentata in giudizio dalla madre, i cui interessi non potevano considerarsi incompatibili con quelli della minore, ne' in relazione all'oggetto della domanda, costituito dal riconoscimento giuridico di un rapporto affettivo stabile e continuativo, ne' in relazione al rapporto omoaffettivo sottostante al predetto riconoscimento. Ha disatteso inoltre l'eccezione d'inammissibilita' della domanda, per esistenza di una madre che aveva gia' riconosciuto la minore, osservando che la possibilita' del riconoscimento da parte di un'altra madre non si porrebbe in contrasto con l'articolo 253 c.c., qualora si ritenesse che tale disposizione sia riferibile anche alla bigenitorialita' intenzionale, la quale prescinde dall'unione eterosessuale. Nel merito, premesso che l'oggetto del reclamo era costituito esclusivamente dall'accertamento della corrispondenza tra l'attestazione richiesta e la realta' di fatto, la quale dipendeva dall'individuazione della disciplina applicabile al figlio nato da fecondazione eterologa effettuata all'estero da una coppia omosessuale, ha rilevato che l'ordinamento vigente prevede tre diversi tipi di genitorialita', fondati rispettivamente sulla procreazione naturale, l'adozione legale e la procreazione medicalmente assistita, osservando che soltanto la prima e' ancorata al dato biologico-genetico, e concludendo pertanto che la filiazione giuridica non coincide necessariamente con la discendenza genetica. Ha aggiunto che la L. 19 febbraio 2004, n. 40, nel dettare la prima normativa organica in materia di procreazione medicalmente assistita, attribuisce al minore nato mediante l'utilizzazione delle relative tecniche lo stato di figlio della coppia che ha espresso la volonta' di farvi ricorso e vieta il disconoscimento da parte del partner maschile che abbia prestato il proprio consenso, in tal modo escludendo la coincidenza tra verita' biologica e verita' legale ed introducendo un nuovo sistema di filiazione, diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal codice civile, che, ai fini del riconoscimento dello status di figlio, attribuisce un rilievo determinante al consenso validamente prestato ad un progetto di genitorialita' condivisa, a meno che il riconoscimento non consegua alla violazione di diritti fondamentali. Ha ritenuto ininfluenti, in proposito, sia l'assenza di stabilita' della coppia che l'identita' di sesso dei componenti, osservando che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita e' consentito non solo alle coppie coniugate, ma anche a quelle conviventi, senza distinzione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali. Ha reputato non decisiva anche l'assenza di un legame biologico tra il minore ed il genitore intenzionale, dando atto dell'intervenuto ampliamento dell'ambito applicativo della L. n. 40 cit., per effetto della dichiarazione d'illegittimita' dell'articolo 4, e della prevalenza accordata all'interesse del minore dalla giurisprudenza costituzionale. Ha escluso che il riconoscimento dello status di figlio al nato da tecniche di fecondazione eterologa nell'ambito di un progetto genitoriale riferito a una coppia omosessuale si ponga in contrasto con l'ordine pubblico, affermando che il punto di equilibrio tra il diritto della coppia di accedere alle predette tecniche, l'esigenza di adattare tale diritto all'interno di un modello tradizionale di famiglia, la tutela della dignita' umana e quella del preminente interesse del nascituro dev'essere ricercato all'interno della stessa L. n. 40, la quale individua nel consenso, quale fattore determinante la genitorialita', il criterio di soluzione del conflitto tra l'esigenza di garantire la certezza dello status dell'individuo e la previsione di divieti e sanzioni a carico dei titolari delle altre posizioni giuridiche coinvolte. Ha rilevato che tale disposizione esprime un'opzione di fondo del legislatore rispetto ai conflitti tra la libera espressione della personalita' e della sessualita' dell'individuo che prescinde dalla patologia della fase genetica, distinguendo tra i principi e le finalita' cui la procreazione medicalmente assistita dev'essere preordinata e la tutela del nato, la quale prescinde dai divieti previsti dall'articolo 5 e dagli effetti delle relative violazioni, in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito. Ha aggiunto che tale salvaguardia corrisponde al principio del best interest of the child, sancito dall'articolo 23 del regolamento CE n. 2201/2003, dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, dalla CEDU e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE, e desumibile anche dall'articolo 251 c.c., il quale impone di attribuire la prevalenza all'interesse del minore ad acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bigenitoriale, quale elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identita' familiare e sociale, derivante dalla nascita nell'ambito di un progetto di genitorialita' realizzato mediante la procreazione medicalmente assistita effettuata all'estero. Ha precisato che l'unico vero limite all'operativita' di tale principio e' costituito dal divieto di riconoscimento dello status di figlio in caso di nascita da procedure di maternita' surrogata, ritenendo invece non espressiva di un principio di ordine pubblico la disposizione di cui all'articolo 269 c.c., che identifica la madre in colei che partorisce. Ha evidenziato l'ingiustificata disparita' di trattamento che l'esclusione del riconoscimento determinerebbe tra le coppie che scelgano di far nascere in Italia il figlio concepito mediante il ricorso alla fecondazione eterologa e quelle che chiedano la trascrizione di atti di nascita formati all'estero, nonche' l'inidoneita' dell'istituto dell'adozione a soddisfare l'esigenza di tutela dell'identita' personale del minore, che postula il riconoscimento giuridico del suo inserimento in un progetto di vita familiare. Ha escluso infine la portata ostativa del Decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, articolo 29 osservando che lo stesso non impedisce d'indicare il genitore intenzionale quale secondo genitore, ed ha accolto anche la domanda di attribuzione del doppio cognome, affermando che la stessa realizza il diritto del figlio all'identita' personale ed il paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell'identita' personale. 3. Avverso il predetto decreto il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La (OMISSIS) e la (OMISSIS) hanno resistito con controricorso, anch'esso illustrato con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attivita' difensiva. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo d'impugnazione, il ricorrente denuncia l'eccesso di potere giurisdizionale, affermando che, nell'ordinare la trascrizione nei registri dello stato civile di una piena genitorialita' omosessuale riguardante un individuo nato in Italia, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalita' politica spettante al legislatore. Premesso che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall'assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, rileva che la possibilita' di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico e' espressamente esclusa dalla legge; afferma che tale divieto non comporta alcuna discriminazione, essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilita' di tipo genitoriale indipendentemente dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all'eliminazione di qualsiasi disparita' di trattamento. Precisato inoltre che l'eventuale contrarieta' di tale disciplina ai principi costituzionali dovrebbe essere denunciata mediante la proposizione della questione di legittimita' costituzionale, osserva che la Costituzione non prevede una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, e che la liberta' e volontarieta' dell'atto che consente di diventare genitori non implica che la stessa possa esercitarsi senza limiti; aggiunge che, come riconosciuto dalla Corte EDU, il divieto della fecondazione eterologa non comporta una violazione dell'articolo 8 della CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalita' garantito agli Stati, e non risultando tutelato il semplice desiderio di fondare una famiglia; evidenzia che anche la prevalenza dell'interesse del minore non ha carattere assoluto, comportando una deroga alle preclusioni derivanti dalla contrarieta' all'ordine pubblico, e dovendo quindi trovare applicazione secondo canoni di proporzionalita' e bilanciamento; sostiene comunque che nel caso in esame non e' in gioco l'interesse del minore, dal momento che il rifiuto opposto dall'ufficiale di stato civile non e' idoneo a pregiudicare la stabilita' del contesto familiare in cui si svolge la vita di relazione dell'interessato. 1.1. Il motivo e' infondato. La Corte d'appello ha infatti giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralita' di disposizioni, interpretate alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita', da quella costituzionale e dalla Corte EDU, sulla base delle quali ha concluso che il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie omosessuali, previsto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 5 non impedisce, in caso di nascita di un figlio mediante il ricorso alle predette tecniche, il riconoscimento dello status di genitore anche in favore di colui che non abbia alcun legame biologico con il minore, ma abbia prestato il proprio consenso alla procreazione, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, tale ragionamento consente di escludere la sussistenza del vizio lamentato, configurabile soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un'attivita' di produzione normativa estranea alla sua competenza. E' noto d'altronde che alla figura dell'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di discrezionalita' riservata al legislatore viene riconosciuta una rilevanza eminentemente teorica, trattandosi di un vizio ipotizzabile soltanto a condizione di poter distinguere l'attivita' di produzione normativa indebitamente esercitata dal giudice dall'attivita' interpretativa, la quale in realta' non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un'opera creativa della volonta' della legge nel caso concreto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068). L'eccesso di potere giurisdizionale non e' configurabile neppure in relazione alla mancata proposizione della questione di legittimita' costituzionale, non essendo il giudice tenuto senz'altro a promuoverla nel caso in cui ritenga che l'interpretazione corrente delle norme di legge applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame sia contraria alla Costituzione, ma dovendo, prima di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, sperimentare la possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata, la cui mancata ricerca, a fronte di una pluralita' di plausibili interpretazioni ed in assenza di un indirizzo interpretativo qualificabile come diritto vivente, puo' anzi costituire causa d'inammissibilita' della questione. 2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 30 dell'articolo 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, articoli 4, 5, 8 e 12 sostenendo che la norma che regola la formazione dell'atto di nascita va letta congiuntamente con le disposizioni del codice civile che disciplinano la filiazione, le quali non solo postulano la diversita' di sesso tra i genitori, ma attribuiscono la qualita' di madre esclusivamente a colei che partorisce. Tali disposizioni dimostrano che il substrato sostanziale dell'attribuzione giuridica della maternita' e' costituito dal rapporto genetico di discendenza, quale fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale, ed escludono pertanto la possibilita' di ricollegare l'assunzione della predetta qualita' ad un atto volitivo-negoziale, cosi' come la possibilita' che esistano due madri aventi la medesima relazione giuridica con il figlio. 3. Con il terzo motivo, il ricorrente insiste sulla violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 40 del 2004, articoli 4, 5, 8 e 12 osservando che, nel ritenere consentita la genitorialita' omosessuale, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata delle predette disposizioni, il decreto impugnato non ha tenuto conto del divieto della procreazione medicalmente assistita, dalle stesse imposto alle coppie omosessuali. Sostiene che la valorizzazione della genitorialita' condivisa apre il varco ad una concezione del tutto svincolata dalle regole biologiche, facendo dipendere esclusivamente dalla volonta' la sua attuazione e spostando su un piano meramente potestativo l'attribuzione dello status filiationis, finora pacificamente ritenuto sottratto alla disponibilita' delle parti. Premesso che, anche a seguito della parziale dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, l'ampliamento delle ipotesi di filiazione, derivante dall'introduzione della disciplina della procreazione medicalmente assistita, resta finalizzato esclusivamente a consentire la filiazione a coppie che in astratto potrebbero procreare ma che in concreto ne sono impedite, rileva che per le coppie omosessuali l'impedimento deriva invece da un limite naturale, che rende impossibile la generazione di figli se non attraverso il ricorso a pratiche mediche richiedenti la cooperazione di terzi: nega pertanto la sussistenza della disparita' di trattamento prospettata dal decreto impugnato, ponendo in risalto la diversita' delle situazioni poste a confronto, ed evidenziando che la materia della filiazione e dell'adozione non ha trovato spazio neppure nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale, nell'ammettere le unioni civili fra individui dello stesso sesso, ha escluso l'applicabilita' delle relative disposizioni al di fuori dell'ambito espressamente previsto. Afferma, per converso, che dare copertura giuridica a situazioni giuridiche formatesi all'estero comporterebbe una disparita' di trattamento rispetto a quelle sorte in Italia, incentivando comportamenti non solo elusivi dell'ordinamento italiano, ma posti in essere in dispregio delle norme interne. Ribadisce inoltre che il mancato riconoscimento della doppia genitorialita' non comporta alcuna lesione dell'interesse del minore, avendo quest'ultimo gia' una madre riconosciuta dal nostro ordinamento, e non sussistendo alcuna norma che preveda la necessita' di due genitori non aventi con lui alcun legame biologico. Contesta la pertinenza del richiamo al diritto del minore alla conservazione dell'identita' familiare acquisita ed alla continuita' dei rapporti affettivi, osservando che il riconoscimento della prevalenza dello stesso sul favor veritatis, normalmente riguardante lo status filiationis derivante da un atto di nascita legittimamente formato, nella specie si risolverebbe in una mera presa d'atto della volonta' dei genitori e dello stato di fatto dagli stessi imposto, e nel conseguente consolidamento di una situazione familiare contra jus. Sostiene infine che il riconoscimento di un rapporto di filiazione svincolato dalle sue radici naturali, oltre a porsi in contrasto con l'interesse del minore a conoscere l'effettivo genitore biologico, quale dato rilevante della sua identita' personale, comporterebbe gravi rischi sotto il profilo sanitario, precludendo la conoscenza di eventuali patologie ereditarie sia fisiche che psichiche, con conseguente pregiudizio per le possibilita' di cura. 4. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono fondati. La questione in esame e' stata gia' affrontata da questa Corte, e risolta mediante l'enunciazione del principio di diritto secondo cui il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, articolo 4, comma 3, e con l'esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialita' svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029; 3/04/2020, n. 7668). A fondamento di tali conclusioni, e' stato osservato che a) nel caso in cui (come nella specie) il minore sia in possesso della cittadinanza italiana, in quanto, pur essendo stato concepito all'estero, sia nato in Italia da una cittadina italiana, la fattispecie e' interamente regolata, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 33 dalla legge italiana, non presentando alcun elemento di estraneita' all'ordinamento italiano, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, b) la L. n. 40 del 2004, articoli 4 e 5 i quali escludono il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, assoggettando l'accesso alle altre tecniche al possesso di determinati requisiti soggettivi ed oggettivi, costituiscono espressione delle scelte di fondo sottese alla disciplina in questione, consistenti nella configurazione delle predette tecniche come rimedio alla sterilita' o infertilita' umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e nell'intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre, c) tali coordinate sono rimaste inalterate anche a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, d) la perdurante operativita' delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004 impedisce di desumere dalla stessa la configurabilita', anche al di fuori dei casi da essa previsti, di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, in ossequio alla preminenza dell'interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita, e) non e' possibile, in particolare, astrarre il disposto dell'articolo 9 dal contesto in cui e' inserito, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternita' per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtu' del quale, ai fini dell'instaurazione del relativo rapporto, puo' considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall'adesione ad un comune progetto genitoriale, f) l'intera disciplina del rapporto di filiazione, cosi' come delineata dal codice civile, rimane infatti saldamente ancorata alla necessita' di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d'inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice. 4.1. Tale orientamento trova conforto anche nella giurisprudenza costituzionale, e segnatamente nella sentenza n. 221 del 2019, con cui e' stata dichiarata infondata la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articoli 5 e 12 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: pur confermando che l'unione omosessuale rientra nella nozione di formazione sociale di cui all'articolo 2 Cost., la Corte costituzionale ha infatti osservato che l'infertilita' fisiologica della coppia omosessuale non e' omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, aggiungendo che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli; precisato comunque che il riconoscimento della liberta' e volontarieta' dell'atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale liberta' possa esplicarsi senza limiti, la Corte costituzionale ha poi affermato che, a fronte della possibilita', dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall'intervento del medico, spetta alla discrezionalita' del legislatore la ponderazione degli interessi in gioco, escludendo comunque l'arbitrarieta' o l'irrazionalita' dell'idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo piu' idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato. Tali considerazioni sono state richiamate nella successiva sentenza n. 237 del 2019, con cui, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della norma desumibile dagli articoli 250 e 449 c.c., dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articoli 29, comma 2 e articolo 44, comma 1, e dalla L. n. 40 del 2004, articoli 5 e 8 per contrasto con gli articoli 2, 3, 24, 30 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalita' straniera due persone dello stesso sesso, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover aggiungere che ad opposte conclusioni non puo' condurre neppure la L. n. 76 del 2016, la quale, pur riconoscendo la dignita' sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso, non consente comunque la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, poiche' dal rinvio alle disposizioni sul matrimonio, contenuto nell'articolo 1, comma 20 detta legge, restano escluse, in quanto non richiamate, proprio quelle che regolano la paternita', la maternita' e l'adozione legittimante. 4.2. L'esclusione della possibilita' di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l'instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il genitore d'intenzione al consenso da quest'ultimo prestato all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e' stata ritenuta non contrastante neppure con i principi sanciti dalla CEDU: in proposito, e' stata richiamata la giurisprudenza della Corte EDU, la quale, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilita' di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalita' esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria). Quanto poi all'interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione e' destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilita' di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilita' di condurre un'esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non e' pertanto configurabile nel caso in cui (come nella specie) non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d'intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l'inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale ne' l'accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell'altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). 4.3. I predetti principi, gia' richiamati nelle precedenti pronunce di questa Corte riguardanti casi analoghi a quello in esame, sono stati recentemente ribaditi sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte EDU. Quest'ultima, nell'esaminare un caso riguardante il rifiuto di uno Stato membro di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione tra un minore procreato mediante il ricorso alla maternita' surrogata ed uno dei genitori, non avente alcun legame biologico con lo stesso, ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata del minore richiede che il diritto interno offra la possibilita' di un riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d'intenzione, ma non anche che tale riconoscimento abbia luogo attraverso l'iscrizione nell'atto di nascita del minore; ribadito che la scelta degli strumenti per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati, ha precisato che esso puo' aver luogo anche in altro modo, come attraverso l'adozione, a condizione che le modalita' previste dal diritto interno garantiscano l'effettivita' e la celerita' della procedura (cfr. Corte EDU, sent. 16/07/2020, D. c. Francia). La Corte costituzionale ha dichiarato a sua volta inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 29, comma 2, per contrasto con l'articolo 2 Cost., articolo 3 Cost., commi 1 e 2, articolo 30 Cost., e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui precludono alle donne omosessuali unite civilmente che abbiano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita la possibilita' di essere indicate, entrambe, quali genitori nell'atto di nascita, osservando che l'obiettivo del riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente non e' raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalita' delle predette disposizioni, ma dev'essere perseguito per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non e' costituzionalmente imposta, ma propriamente attiene all'area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volonta' della collettivita', e' chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale (cfr. Corte Cost., sent. n. 230 del 2020). Nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, della L. n. 218 del 1995 e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 per contrasto con gli articoli 2, 3, 30, 31 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non consentono il riconoscimento e la dichiarazione di esecutivita' del provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento del genitore d'intenzione nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalita' della gestione per altri, la Corte ha poi riconosciuto che l'interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo e' quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realta' fattuale, gia' lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, e non solo di quello con il genitore biologico, ma ha affermato che tale interesse non puo' essere considerato automaticamente prevalente rispetto agli altri interessi in gioco, dovendo essere bilanciato con questi ultimi, alla luce del criterio di proporzionalita'. Ha quindi escluso l'illegittimita' costituzionale delle norme che impediscono l'indicazione del genitore intenzionale nell'atto di nascita del minore, evidenziando nel contempo la necessita' di assicurare la tutela dell'interesse del minore attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorche' ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino. Ha comunque precisato che il compito di adeguare il diritto vigente alle predette esigenze di tutela non puo' che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco (cfr. Corte Cost., sent. n. 33 del 2021). 4.4. Sulla base delle predette considerazioni, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, non puo' condividersi il ragionamento svolto nel decreto impugnato, il quale ha proceduto ad un arbitrario frazionamento della disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, distinguendo nello ambito della stessa le disposizioni che individuano i requisiti per l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da quelle riguardanti lo stato giuridico del minore nato a seguito del ricorso alle predette tecniche, e proponendo un'interpretazione di queste ultime completamente svincolata dai principi ispiratori della legge, in virtu' della quale vi ha ravvisato il fondamento di una nuova forma di filiazione, caratterizzata da uno statuto giuridico diverso da quella biologica e quella adottiva, ma produttiva dei medesimi effetti. Tale frazionamento si pone in contrasto con l'unitarieta' della disciplina in esame, volta ad adattare le modalita' di costituzione del rapporto di filiazione alla diversa realta' determinata dalla procreazione medicalmente assistita, nei limiti in cui il ricorso alla stessa risulta consentito, al fine di porre rimedio a forme patologiche di sterilita' o infertilita' o di evitare la trasmissione di malattie genetiche: esso non puo' ritenersi autorizzato dalla portata circoscritta delle sanzioni comminate dalla legge per l'inosservanza dei predetti limiti, la quale non esclude, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, la necessita' di un rapporto biologico, ai fini della costituzione del rapporto giuridico di filiazione tra il nato e colui che ha prestato il proprio consenso all'utilizzazione delle predette tecniche. Non merita consenso, in contrario, il richiamo del decreto impugnato ad una recente pronuncia di questa Corte, che ha ritenuto ammissibile il riconoscimento dello stato di figlio nato dal matrimonio in favore di un minore nato a seguito di fecondazione assistita omologa post mortem, avvenuta mediante l'utilizzazione del seme crioconservato del coniuge della madre che, dopo aver prestato il proprio consenso a tale pratica, era deceduto prima della formazione dell'embrione (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13000): in tal caso, infatti, indipendentemente da ogni altra considerazione, non era in discussione l'esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed il genitore d'intenzione, il quale non si era limitato a prestare il proprio consenso alla fecondazione, ma aveva messo a disposizione i gameti a tal fine necessari, senza poter vedere coronati da successo gli sforzi compiuti per acquistare lo status giuridico di genitore, a causa del prematuro decesso. Parimenti inappropriato deve ritenersi il richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l'efficacia nel nostro ordinamento dell'atto di nascita formato all'estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, e' figlio di due persone dello stesso sesso, ancorche' una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l'una fornito l'ovulo per la fecondazione e l'altra provveduto alla gestazione, e' sufficiente rilevare che il riconoscimento dello atto straniero non fa venir meno l'estraneita' dello stesso all'ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, cosi' come previsti e regolati dall'ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l'ordine pubblico. Tale compatibilita', com'e' noto, dev'essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonche' del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione da' forma a quel diritto vivente, dal quale non puo' prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dello ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). Contrariamente a quanto sostenuto nel decreto impugnato, la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell'efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri e' piu' ristretta di quella rilevante nell'ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non puo' quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall'atto di nascita formato all'estero e l'esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev'essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento (cfr. Cass., Sez. I, 22/04/2020, n. 8029). Tale disparita' di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi la cui diversita', pur rendendo possibili condotte elusive della piu' restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per se' causa d'illegittimita' costituzionale di quest'ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019). Quanto infine all'interesse del minore, la prevalenza da accordarsi allo stesso non legittima, come affermato anche dal Giudice delle leggi, l'automatica estensione delle disposizioni dettate per la procreazione medicalmente assistita anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo questa Corte sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell'esercizio della propria discrezionalita', l'individuazione degli strumenti giuridici piu' opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla L. n. 40 del 2004. 5. Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda. La peculiarita' della questione trattata, che ha costituito oggetto di una complessa vicenda giurisprudenziale, giustifica l'integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio. P.Q.M. rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo motivo, cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CURZIO Pietro - Primo Presidente Dott. D'ASCOLA Pasquale - Presidente di sez. Dott. VIRGILIO Biagio - Presidente di sez. Dott. DE STEFANO Franco - Presidente di sez. Dott. D'ANTONIO Enrica - Consigliere Dott. ACIERNO Maria - rel. Consigliere Dott. FERRO Massimo - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere Dott. CARRATO Aldo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 21223-2017 proposto da: SINDACO DI (OMISSIS), QUALE UFFICIALE DI GOVERNO MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO; - ricorrente - contro (OMISSIS), in proprio e - congiuntamente con (OMISSIS), nella qualita' di genitori esercenti la responsabilita' genitoriale per il minore (OMISSIS)- (OMISSIS) elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS); - controricorrenti - avverso l'ordinanza della CORTE D'APPELLO di MILANO (r.g. 4416/2015), depositata il 09/06/2017; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/2021 dal Consigliere MARIA ACIERNO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS LUISA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; uditi gli avvocati (OMISSIS), per l'Avvocatura Generale dello Stato ed (OMISSIS). FATTI DI CAUSA 1. (OMISSIS), cittadino italiano naturalizzato statunitense e residente negli (OMISSIS) ha chiesto all'ufficiale di stato civile di (OMISSIS) in Italia, la trascrizione dell'atto di nascita del minore (OMISSIS)- (OMISSIS) nato a (OMISSIS), riconosciuto negli (OMISSIS) quale figlio adottivo del ricorrente e di (OMISSIS) per effetto del provvedimento giurisdizionale della (OMISSIS) del (OMISSIS), come attestato dal certificato di adozione del (OMISSIS) nel quale e' espressamente affermato che (OMISSIS) e (OMISSIS) sono i genitori adottivi del minore. La pronuncia statunitense, come da certificazione in atti, attribuisce lo status di genitori adottivi al ricorrente ed al suo partner (successivamente sposato), dando atto che l'adozione e' stata pronunciata con il consenso preventivo dei genitori biologici e dopo un'indagine effettuata sugli adottanti, effettuata da agenzia pubblica equiparabile ai Servizi Sociali. 2. L'ufficiale dello stato civile ha rifiutato la trascrizione, ritenendo applicabile il regime giuridico relativo all'istituto dell'adozione internazionale e, conseguentemente competente L. n. 183 del 1984, ex articolo 36, comma 4 il Tribunale per i minorenni. 3. Il ricorrente ha adito la Corte d'appello di Milano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, al fine di ottenere il riconoscimento del provvedimento estero di adozione piena e legittimante del figlio minore, cosi' come attestato nel certificato prodotto in modo che allo stesso fosse attribuito lo stato giuridico di figlio adottivo di (OMISSIS) e (OMISSIS). 4. La Corte d'Appello di Milano ha preliminarmente escluso la legittimazione ad agire del Sindaco, in qualita' di Ufficiale di Governo, reputando che gli interessi pubblici in gioco fossero adeguatamente tutelati dalla partecipazione al giudizio del Procuratore generale. 4.1 Ha inoltre ritenuto inapplicabile, nella specie, la disciplina normativa dell'adozione internazionale, essendo incontestato che il ricorrente risiedesse da oltre un decennio negli (OMISSIS), avesse acquistato per naturalizzazione, anche la cittadinanza americana e che l'altro genitore adottivo fosse cittadino americano cosi' come il minore. Ha, infine, ritenuto la propria competenza L. n. 218 del 1995, ex articolo 41, comma 1, secondo il quale i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili L. n. 218 del 1995, ex articoli 64, 65, 66. 4.2 In fatto, ha precisato che il giudice della (OMISSIS) ha valutato l'idoneita' della coppia adottante (unitasi in matrimonio nel (OMISSIS)) all'esito di un'indagine eseguita anche attraverso le informazioni dei servizi sociali (Social Services Law) e, solo all'esito di tale indagine, acquisito il consenso preventivo dei genitori biologici ha emesso l'adoption order, ritenendo espressamente che il provvedimento fosse conforme al best interest of the child. E' stato rispettato il diritto di difesa, essendo stati convocati in giudizio i genitori biologici (the birth mother and the birth father) i quali, prestato il consenso, sono rimasti estranei al giudizio. 4.3 In diritto, l'oggetto della decisione e' la verifica della eventuale contrarieta' ai principi di ordine pubblico del provvedimento da riconoscere. Al riguardo la Corte ha affermato che la nozione cui far ricorso e' quella di ordine pubblico internazionale; che, di conseguenza, la trama dei principi di ordine pubblico non puo' essere desunta esclusivamente sulla base dell'assetto normativo interno nel sistema plurale di cui e' partecipe il nostro ordinamento; che di conseguenza il legame con l'ordinamento interno deve ritenersi limitato ai principi fondamentali desumibili in primo luogo dalla Costituzione nonche' dai Trattati fondativi dell'Unione Europea e dalla Convenzione Europea dei diritti umani, cosi' come inverata dalla Corte EDU, dalle Convenzioni sui diritti fondamentali cui l'Italia ha aderito. In questo quadro i diritti fondamentali si collocano su un piano sovraordinato rispetto alla normazione interna che ne detta le regole di dettaglio. Da tali premesse consegue che il giudice italiano chiamato a valutare la compatibilita' dell'atto straniero dei cui effetti si chiede il riconoscimento nel nostro paese deve verificare non se l'atto si fondi su un tessuto normativo conforme o difforme da una o piu' norme interne ma se esso contasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona umana come desumibili dalle fonti soprarichiamate. 4.3.1 Precisa la Corte territoriale che, in primo luogo, viene in luce, in tema di filiazione, il principio del preminente interesse del minore che costituisce una vera e propria clausola generale coerentemente riconosciuta nell'ordinamento internazionale ed interno, essendo declinato nelle fonti costituzionali ed essendo inverato nelle decisioni giurisprudenziali nazionali e sovranazionali. L'interesse preminente del minore, nel caso di specie, consiste nel poter conservare anche nel nostro ordinamento lo status filiationis acquisito all'estero in forza di un provvedimento giudiziario valido ed efficace. Cio' sia in relazione al diritto alla continuita' degli status, stabilito nella L. n. 218 del 1995, articolo 13, comma 3 e articolo 33, commi 1 e 2 sia in relazione al diritto alla vita privata e familiare del minore che include tra le sue primarie manifestazioni la definizione della propria identita' come essere umano relazionale e, dunque, all'interno del proprio nucleo familiare. Ove venisse negato il riconoscimento giuridico del provvedimento adottivo resterebbe gravemente sacrificata la posizione del minore in relazione allo sviluppo equilibrato della personalita' in relazione all'identita' costruita nel rapporto con i genitori, all'impossibilita' di acquistare la cittadinanza italiana e di conseguire le tutele che da tale qualificato rapporto parentale conseguono. 4.4. Il riconoscimento dello status acquisito all'estero, secondo la Corte d'Appello, non e' precluso dal bilanciamento con altri interessi coinvolti non potendo, in particolare, attribuirsi copertura costituzionale alla regola per cui nel nostro ordinamento l'adozione legittimante e' consentita solo a coppie coniugate, essendo prevista, in via derogatoria, l'adozione di un solo coniuge, quando nel corso dell'affidamento preadottivo uno dei due coniugi decida di separarsi. Ne' puo' assumere rilievo preminente e costituire un limite di ordine pubblico la natura omoaffettiva della coppia genitoriale, avendo tali unioni piena dignita' costituzionale e dovendo assumersi come parametri di riferimento in relazione al riconoscimento di status filiationis non espressamente previsti nel nostro ordinamento interno gli articoli 2, 3 e 31 Cost. e non l'articolo 29. La giurisprudenza, sovranazionale ed interna, di legittimita' e di merito ha ampiamente riconosciuto, sia in materia di affidamento che di adozione, l'inesistenza di pregiudizi, scientificamente fondati, per lo sviluppo psico fisico del minore che nasca e cresca in una famiglia omogenitoriale. Ne consegue che l'attuale limitazione legislativa interna all'accesso all'adozione piena stabilita nella legge ordinaria non si configura come opzione costituzionalmente obbligata, tanto piu' dopo la recente riforma della filiazione tendente alla unificazione dello stato di figlio, sia di derivazione biologica che sociale. Il matrimonio, nella nuova disciplina, non si colloca piu' al centro delle relazioni familiari essendo sostituito dalla condizione di figlio e dal suo preminente interesse nelle diverse declinazioni proposte dalla legislazione e dalla giurisprudenza. Nel rispetto della ratio della riforma che induce a ricondurre la filiazione biologica e quella adottiva ad un unico status, non possono conseguire limitazioni ai diritti dei figli adottivi. Peraltro, anche la modifica dell'articolo 74 c.c., unificando il regime della parentela discendente dalle varie tipologie di filiazione e ricomprendendovi anche quella adottiva, con esclusione dell'adozione di maggiorenni, conduce a questa conclusione, prospettando come principio ordinante la parificazione assoluta della condizione filiale. 5. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Sindaco di S. in qualita' di ufficiale di Governo, proponendo quattro motivi di ricorso. Hanno resistito con controricorso (OMISSIS) in proprio ed in rappresentanza del figlio minore e I e l'altro genitore adottivo. 6. La prima sezione civile con ordinanza interlocutoria 29071 del 2019 ha rimesso alle sezioni unite come questioni di massima di particolare importanza i seguenti quesiti: a) se possa costituire espressione di principi fondamentali ed irrinunciabili dell'ordinamento il disfavore dell'ordinamento interno all'accesso all'adozione legittimante per le coppie dello stesso sesso, desumibile dalla L. n. 184 del 1983, articolo 6 che consente tale forma di adozione soltanto alla coppia coniugata e dalla L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20 che introduce nel nostro ordinamento il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso ma esclude l'equiparazione con lo status coniugale in relazione alle disposizioni di cui alla L. n. 184 del 1983 (fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti) oltre che dalla giurisprudenza di legittimita' (S.U. 12193 del 2019) che ha limitato all'adozione non legittimante (L. n. 184 del 1983, articolo 44 lettera d) la genitorialita' sociale per la coppia omoaffettiva maschile che sia ricorsa alla gestazione per altri; b) se il giudizio di compatibilita' con l'ordine pubblico che l'autorita' giudiziaria italiana deve compiere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, articoli 41, 64, 65, 66 ai fini del riconoscimento in Italia di un provvedimento giudiziario straniero di adozione cd. legittimante, debba o meno includere la valutazione estera di adottabilita' del minore. 7. In vista dell'udienza davanti alle S.U., il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, illustrata in udienza, ed il controricorrente memoria illustrativa. RAGIONI DELLA DECISIONE 8. I primi tre motivi di ricorso prospettano questioni preliminari e pregiudiziali. 8.1 Con il primo motivo viene dedotta la violazione dell'articolo 702 bis c.p.c., del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articoli 95 e 96, della L. n. 218 del 1995, articoli 64 e 67 in relazione al rilevato difetto di legittimazione ad agire del Sindaco, in qualita' di ufficiale di Governo. Afferma, al riguardo, la parte ricorrente, che il Sindaco e' esattamente l'autorita' amministrativa che ha negato la trascrizione, avendo eseguito, secondo le proprie specifiche competenze, il controllo di compatibilita' della trascrizione con il limite costituito dall'ordine pubblico che e' oggetto del controllo giurisdizionale. Inoltre, il procedimento che s'instaura non ha natura di volontaria giurisdizione e richiede la specifica attivazione del contraddittorio. La censura e' fondata, come ritenuto anche dal Procuratore Generale, alla luce dei principi stabiliti nella recente pronuncia delle S.U. n. 12193 del 2019, cui si presta adesione e che sono stati cosi' massimati: "Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero e un cittadino italiano, da' luogo, se non determinato da vizi formali, a una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dalla L. n. 218 del 1995, articolo 67 in contraddittorio con il Sindaco, in qualita' di ufficiale dello stato civile destinatario della richiesta di trascrizione, ed eventualmente con il Ministero dell'interno, legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione in virtu' della competenza ad esso attribuita in materia di tenuta dei registri dello stato civile". 8.2 La fondatezza della censura consente l'esame degli altri motivi, sia di natura preliminare e pregiudiziale che riguardanti il fondo del ricorso. Deve rilevarsi al riguardo che la sentenza impugnata non si e' limitata al rilievo del difetto di legittimazione passiva del Sindaco ma ha esaminato analiticamente tutte le questioni che sono state prospettate nel presente ricorso, fondando la propria decisione su una specifica qualificazione giuridica della domanda, oggetto di discussione nel giudizio di merito ed in quello di legittimita' e su un'ampia ricostruzione del limite costituito dai principi di ordine pubblico internazionale applicabili alla fattispecie, come illustrato nella parte narrativa nei paragrafi 4, 4.1, 4.2, 4.3, 4.4. 8.3 Non viene, infatti, prospettata, nella formulazione del primo motivo, ne' in quelli successivi, alcuna limitazione dell'illustrazione e dell'esame delle ragioni espresse negli atti difensivi del procedimento in unico grado svoltosi davanti alla Corte d'Appello di Milano da porsi in correlazione causale con l'erroneo rilievo del difetto di legittimazione passiva del Sindaco in qualita' di ufficiale del Governo. 8.4 L'accoglimento della censura, in conclusione, determina nella parte ricorrente, il riconoscimento della piena legittimazione alla proposizione del ricorso ed all'esame delle censure successive. 8.5 infine il riconoscimento della legittimazione attiva della parte ricorrente assorbe l'esame dell'eccezione relativa al difetto di rappresentanza dell'Avvocatura generale dello Stato formulata dalle parti controricorrenti in memoria. 9. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'articolo 102 c.p.c. per essere stato proposto il ricorso davanti la Corte d'Appello, avverso il rifiuto di trascrizione dell'Ufficiale dello Stato civile, soltanto da uno dei genitori adottivi indicati nel provvedimento estero. Afferma la parte ricorrente che la mancata partecipazione in giudizio dell'altro determina un macroscopico difetto d'integrazione del contraddittorio, dovendo essere qualificati litisconsorti necessari entrambi i genitori adottivi. La partecipazione in giudizio di uno solo di essi non consente la verifica ineludibile della condivisione dell'interesse, sotteso alla domanda, alla trascrizione dell'atto anche nell'altro genitore non potendosi ignorare che la decisione produce effetti anche nei confronti della parte pretermessa. 9.1 La Corte di Cassazione con la pronuncia n. 14987 del 2017 (non massimata), in fattispecie del tutto sovrapponibile riguardante la richiesta di trascrizione di un provvedimento di adozione di minore contenente l'indicazione in qualita' di genitore adottante sia del ricorrente che dell'altro partner della coppia omoaffettiva, ha affermato che l'atto da trascrivere ha natura inscindibile quanto al riconoscimento dello status e che sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario. 9.2 Deve rilevarsi, tuttavia, che nel presente giudizio, il contraddittorio e' stato integrato nel giudizio di legittimita' con atto d'intervento successivo alla proposizione del ricorso. Secondo un orientamento consolidato della Corte di Cassazione, qualora il litisconsorte necessario pretermesso in primo grado, intervenga volontariamente nel giudizio di secondo grado accettando la causa nello stato in cui si trova, e nessuna delle altre parti resti privata di facolta' processuali non gia' altrimenti pregiudicate, non puo' essere rilevato il difetto di contraddittorio, ne' si deve provvedere alla rimessione della causa davanti al primo giudice ma si deve procedere all'esame del merito ed alla decisione, anche in funzione dell'attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. (Cass. 26631 del 2018). Il principio affermato, pur essendo riferito al giudizio d'appello, puo' orientare nella valutazione della censura prospettata nel presente giudizio. La Corte di Cassazione intende dare preminenza al principio di effettivita' nella valutazione dell'esercizio e della lesione del diritto di difesa. Non si sottrae a questo preventivo vaglio neanche l'astratta violazione del principio dell'integrita' del contraddittorio. Ne consegue che l'intervento volontario e pienamente adesivo dell'altro genitore adottivo nel giudizio di legittimita', consente di verificare la condivisione dell'interesse sotteso alla domanda volta alla trascrizione del provvedimento che attesta la genitorialita' adottiva della coppia omogenitoriale e la assenza di alcun pregiudizio al diritto di difesa dell'interveniente. Del resto, la formulazione, in modo meramente astratto, della censura contenuta nel secondo motivo, esclude anche in capo alla parte ricorrente che si sia determinato una qualsiasi limitazione all'esercizio del diritto di difesa, concretamente ricollegabile all'assenza dell'interveniente nella fase di merito ed in quella di legittimita' che ha preceduto l'intervento. 10. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione della L. n. 218 del 1995, articoli 41, 64, 65, 66; della L. n. 183 del 1984, articoli 35 e ss.; del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 28, comma 2, lettera g) e articolo 96; del Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 30 nonche' dell'articolo 702 bis c.p.c. per avere la Corte d'Appello ritenuto la propria competenza a decidere. Afferma, al contrario, la parte ricorrente che la competenza sia esclusivamente da ascrivere al Tribunale per i minorenni. La richiesta formulata all'ufficiale di stato civile e' stata formulata Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, ex articolo 28, comma 2, lettera g) che si riferisce ai "provvedimenti di adozione". Il giudizio e', di conseguenza, un'opposizione al rifiuto di trascrizione dell'atto, di competenza del tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale e' registrato l'atto di cui tratta, come stabilito dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 95. Evidenzia, inoltre, il ricorrente che il diniego e' stato comunicato il 19/12/2014 ed il ricorso introduttivo del presente giudizio risulta depositato nel 2016. Sotto un altro versante normativo, la L. n. 218 del 1995, articolo 41, comma 2, prescrive che in materia di adozione dei minori si applichino le norme speciali, richiamando la L. n. 184 del 1983, articolo 35, comma 5, nel quale e' prevista una competenza per materia in favore del Tribunale per i minorenni del distretto in cui gli aspiranti hanno la residenza nel momento dell'ingresso in Italia. Secondo la ricostruzione sistematica offerta dalla parte ricorrente, la fattispecie in esame e' assimilabile ad un'adozione internazionale in senso tecnico, con conseguente competenza esclusiva del Tribunale per i minorenni, il quale ha il compito di verificare che dal provvedimento risulti la sussistenza delle condizioni delle adozioni internazionali previste nell'articolo 4 della Convenzione firmata all'Aja il 29 maggio 1993, ed in particolare la non contrarieta' dell'adozione ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori. La L. n. 218 del 1995 ha fatto salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione con l'articolo 41, comma 2 cosi' predicando il perdurante valore e la prevalenza di queste norme sulla disciplina di carattere generale contenuta nella legge di diritto internazionale privato. Infine, la competenza del Tribunale per i minorenni sarebbe esclusiva anche ove la fattispecie in esame fosse riqualificabile come adozione non legittimante. 10.1. Al fine di stabilire se la Corte d'Appello abbia ritenuto correttamente la propria competenza e' necessario esaminare, in primo luogo le norme di diritto internazionale privato applicabili astrattamente alla fattispecie dedotta nel presente giudizio. 10.2 In primo luogo, la L. n. 218 del 1995, articolo 41, commi1 e 2 che stabilisce: "I provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili in Italia ai sensi degli articoli 64, 65 e 66. Restano ferme le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozioni dei minori." Nella specie, la legge speciale che s'impone, secondo la parte ricorrente, come complesso normativo di applicazione necessaria per tutte le ipotesi di riconoscimento di provvedimenti stranieri in materia di adozione e' la L. n. 184 del 1983, nella parte in cui (articolo da 29 al 39 quater) disciplina la speciale procedura dell'adozione internazionale, introdotta, nel corpus originario della L. n. 184 del 1983, con la L. n. 479 del 1998 di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Ala per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale del 29 maggio 1993. Tale complesso normativo prevede che l'intero procedimento relativo all'adozione internazionale, dall'idoneita' degli adottanti alle modalita' di acquisto dello status genitoriale sia assoggettato alla competenza esclusiva del Tribunale per i minorenni. Ai fini del riconoscimento del provvedimento estero di adozione (articoli 35 e 36), e' necessaria la pregiudiziale verifica della ricorrenza dei requisiti specifici indicati dalle norme e del rispetto della procedura normativamente imposta. Tuttavia, non tutti i provvedimenti esteri di adozione dei quali si chiede il riconoscimento confluiscono nella definizione normativa di "adozione internazionale", ma al contrario, essa e' limitata alle ipotesi in cui i richiedenti risiedano entrambi in Italia, o siano cittadini italiani risiedenti all'estero (articolo 29 bis, comma 1 e 2). Nella specie il solo ricorrente e' cittadino italiano ma ha, nel contempo ottenuto la cittadinanza degli (OMISSIS) per naturalizzazione. Entrambe le parti, infine, risiedono negli (OMISSIS). Difettano, di conseguenza, radicalmente le condizioni soggettive di applicabilita' del regime giuridico dell'adozione internazionale al provvedimento adottivo estero oggetto del presente giudizio. 10.3 La competenza del Tribunale per i minorenni, infine, e' esclusa anche alla luce della L. n. 183 del 1984, articolo 36, comma 4 che si riproduce: "L'adozione pronunciata dalla competente autorita' di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale per I minorenni, purche' conforme ai principi della Convenzione". La disposizione prevede una modalita' di riconoscimento del provvedimento adottivo estero da parte del Tribunale per i minorenni semplificata, nel caso in cui il riconoscimento venga richiesto da cittadini italiani che risiedano all'estero da almeno due anni ma ai richiedenti manca il requisito comune della cittadinanza italiana, cosi' da escludere anche l'applicazione di questa norma ai fini della individuazione del giudice competente. 10.4 Deve essere esclusa anche la competenza del Tribunale ordinario Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, ex articoli 95 e 96. L'articolo 95 prevede espressamente che chi intende opporsi ad un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto od in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, un'annotazione od altro adempimento deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile ma la disposizione, per quanto riguarda la rettificazione ed il rifiuto d'iscrizione riguarda atti formati in Italia. In ordine alle richieste di trascrizione, il sistema di controllo giurisdizionale fondato sui sopracitati articoli 95 e 96, deve coordinarsi con il regime giuridico del riconoscimento degli atti formati all'estero, in Unione Europea o fuori dell'Unione Europea, tenuto conto della tipologia di atto da riconoscere e del suo contenuto cogente. Ne consegue che dal rifiuto della trascrizione di un provvedimento estero costitutivo di uno status sorge una controversia che ha ad oggetto non la dimensione formale dell'atto o l'ambito delle attribuzioni e competenze dell'ufficiale di stato civile, cui e' rimessa la prima sommaria delibazione di compatibilita' con l'ordine pubblico, ma l'accertamento della sussistenza delle condizioni previste dalla legge per il riconoscimento dell'efficacia dell'atto nel nostro ordinamento, sia sotto il profilo del rispetto delle garanzie processuali del contraddittorio che della non violazione del limite costituito dall'ordine pubblico. In relazione alla trascrizione, pertanto, la competenza del tribunale e' residuale e marginale, non potendo avere ad oggetto provvedimenti di rifiuto che si fondino su una valutazione negativa del rispetto del limite costituito dall'ordine pubblico. 10.5 Il provvedimento adottivo estero il cui riconoscimento in Italia venga richiesto da cittadini stranieri stabilmente residenti all'estero in relazione ad un minore, anch'esso cittadino dello Stato estero di cittadinanza dei richiedenti e' assoggettato, quanto all'individuazione del giudice competente ed al regime giuridico applicabile alla L. n. 218 del 1995, articolo 41, comma 1 che, come gia' rilevato stabilisce: "I provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili in Italia ai sensi degli articoli 64, 65 e 66. La Corte Costituzionale con la pronuncia d'inammissibilita' n. 76 del 2016 ha fornito rilevanti indicazioni in ordine all'ambito di applicazione dei due commi che compongono la L. n. 218 del 1995, articolo 41 ed ha sottolineato la necessita' di definire con esattezza le qualita' soggettive dei richiedenti al fine di collocare il provvedimento da riconoscere nel corretto binario normativo sia in ordine al giudice competente che al contenuto del controllo giurisdizionale sull'atto estero. Nella pronuncia e' stato, in particolare, evidenziato che i due commi della norma prevedono differenti e alternativi procedimenti per giungere al riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione e che la competenza del Tribunale per i minorenni, unitamente all'ampiezza del sindacato giurisdizionale ad essa connessa si applica, con riferimento all'ipotesi prevista nella L. n. 184 del 1983, articolo 36, comma 4 solo quando il riconoscimento venga richiesto da cittadini italiani che, trasferendo fittiziamente la residenza all'estero mirano ad eludere la rigorosa disciplina nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono. Nessuna delle condizioni giuridiche e fattuali emergenti dal quadro normativo e dall'elaborazione giurisprudenziale su di esso intervenuta e' riscontrabile nella fattispecie dedotta nel presente giudizio. 10.6 Deve, ritenersi, in conclusione, come gia' posto in luce da S.U. n. 12193 del 2019, in relazione a fattispecie radicalmente diversa quanto alle modalita' di costituzione dello status genitoriale all'estero, perche' derivante da processo generativo fondato sulla gestazione per altri, ma parzialmente assimilabile quanto a condizioni soggettive del richiedente (cittadinanza italiana ma stabile residenza all'estero), che la controversia che origina dal rifiuto di trascrizione del provvedimento giurisdizionale estero di costituzione dello status filiationis, sia assoggettata al procedimento disciplinato dalla L. n. 218 del 1995, articolo 67. Il rito applicabile come riconosciuto anche dalla parte ricorrente e' delineato dalla L. n. 218 del 1995, articolo 67 ed Decreto Legislativo n. 150 del 2011, articolo 30 e la competenza in unico grado e' da attribuire alla Corte d'Appello. Non sono previsti termini perentori per la proposizione del ricorso. 10.7 Non rileva, infine, la competenza del Tribunale per i minorenni nei procedimenti riguardanti le adozioni in casi particolari (L. n. 184 del 1983, articolo 44) in quanto relativa a procedimenti che non hanno ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia nel nostro ordinamento di provvedimenti stranieri in tema di status genitoriali, ma l'esame di richieste, provenienti da singoli o da coppie di provvedimenti giurisdizionali volti alla costituzione di una peculiare forma di genitorialita' adottiva, alla luce delle condizioni previste dalle norme che ne regolano l'acquisto. Al riguardo non risulta formulata in via subordinata una domanda volta al riconoscimento della diversa forma di adozione regolata dalla L. n. 184 del 1983, articolo 44. 11. Con il quarto motivo viene dedotta la violazione della L. n. 184 del 1983, articolo 6 della L. n. 218 del 1995, articoli 16 e 65; del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 nonche' del Decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000, articolo 47 e L. n. 184 del 1983, articolo 25. La parte ricorrente contesta la nozione di ordine pubblico internazionale adottata dalla Corte d'Appello di Milano, ritenendo che debbano esservi inclusi anche principi derivanti dalla legge ordinaria, specie se riguardanti i limiti di accesso alla filiazione ed alla costituzione degli status. In particolare, viene osservato nel motivo di ricorso, come non sia condivisibile che il limite costituito dall'eterosessualita' della coppia adottante e la precondizione che tale coppia sia unita in matrimonio possano ritenersi principi recessivi in comparazione con il superiore interesse del minore, tenuto conto che il modello matrimoniale e' costituzionalizzato e la stessa Corte Europea dei diritti umani ha ripetutamente evidenziato la discrezionalita' degli Stati aderenti in relazione alle forme di riconoscimento delle unioni omoaffettive ed all'introduzione di limiti di accesso alla filiazione. E' stato inoltre evidenziato che la pronuncia n. 19599 del 2016 dalla quale la Corte d'Appello di Milano ha tratto la non condivisibile nozione di ordine pubblico internazionale, ha riguardato la richiesta di trascrizione di un atto di nascita di filiazione naturale relativo ad una coppia omogenitoriale femminile, ovvero una situazione di fatto non omologabile a quella oggetto del presente giudizio. Il provvedimento di adozione di cui si chiede il riconoscimento si pone in evidente contrasto con il principio stabilito alla L. n. 184 del 1983, articolo 6 in base al quale l'accesso all'adozione legittimante e' consentita solo ai coniugi uniti in matrimonio, ovvero a coppie sposate eterosessuali. L'esclusione delle coppie omogenitoriali e', inoltre, confermato dal divieto di accesso all'adozione legittimante per le coppie omoaffettive, contenuta nella L. n. 76 del 2016, articolo 1 comma 20, ancorche' formanti un'unione civile. Il legislatore, all'interno del margine di apprezzamento riconosciuto anche dalla Corte Europea dei diritti umani ha inteso marcare la differenza tra unione civile e matrimoniale proprio in relazione alla filiazione, ha escluso l'accesso al matrimonio per le coppie omoaffettive, ed ha stabilito che i matrimoni contratti all'estero da coppie omoaffettive possano essere trascritti soltanto come unioni civili. Questi principi, saldamente ancorati sul modello di unione matrimoniale sancito nell'articolo 29 Cost., costituiscono un limite ostativo di ordine pubblico in relazione al riconoscimento di provvedimenti esteri di adozione piena di figlio minore da parte di una coppia omoaffettiva, anche se legata in matrimonio, per mancanza dei requisiti di accesso a tale forma di genitorialita', previsti nel nostro ordinamento interno. La legge applicabile e' quella interna anche alla stregua delle regole di diritto internazionale privato, dal momento che l'articolo 38 richiama espressamente l'applicazione del diritto interno quando e' richiesta al giudice italiano l'adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio legittimo. Viene aggiunto che la L. n. 184 del 1983, articolo 35, comma 3 prevede che in tema di adozione si debba accertare la non contrarieta' ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori. Infine viene rilevato un vizio formale costituito dalla mancata allegazione delle autocertificazioni richieste Decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000, ex articolo 47. 12. L'ordinanza interlocutoria n. 29071 del 2019, come illustrato nel par. 5, ha sollecitato, inoltre, di verificare se il giudizio di compatibilita' con l'ordine pubblico che l'autorita' giudiziaria italiana deve compiere, ai fini del riconoscimento di un provvedimento giudiziario straniero di adozione cd. legittimante, debba o meno includere la valutazione estera di adottabilita' del minore, tenuto conto che il controllo giurisdizionale eseguito si e' fondato sull'accertamento del consenso preventivo dei genitori biologici. 13. Prima di entrare nel merito delle questioni sottoposte al vaglio delle S.U. deve rilevarsi che la sintetica prospettazione di un vizio formale del procedimento derivante dalla mancanza di autocertificazioni richieste dalla legge deve ritenersi nuova in quanto non risulta trattata nel provvedimento della Corte d'Appello di Milano e la parte ricorrente non ha dedotto di averla gia' prospettata in sede di merito. Se ne deve rilevare, in conclusione, l'inammissibilita'. 14. Ritiene il Collegio di dover preliminarmente definire il perimetro del sindacato giurisdizionale in tema di riconoscimento di provvedimenti giurisdizionali esteri. L'esame del terzo motivo ha condotto ad escludere la riconducibilita' della fattispecie all'adozione internazionale, cosi' da assumere come paradigma valutativo nel caso di specie quello delineato dalla L. n. 218 del 1995, articolo 64. Ne consegue che, incontestata la ricorrenza delle condizioni pure dettate dalla norma riguardanti la competenza del giudice straniero, la definitivita' della pronuncia estera, la non contrarieta' con un giudicato interno, la insussistenza di una situazione processuale qualificabile come litispendenza, deve essere esaminato il profilo del rispetto del principio del contraddittorio e la compatibilita' della decisione con i principi di ordine pubblico internazionale. Sotto quest'ultimo versante la valutazione deve, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimita', essere limitata agli effetti che l'atto e' destinato a produrre nel nostro ordinamento e non alla conformita' della legge estera, posta a base del provvedimento, alla nostra legge interna regolativa degli stessi istituti. Le S.U. nella pronuncia n. 11601 del 2017, che ha individuato la nozione di ordine pubblico internazionale cui il Collegio presta adesione, hanno ribadito che il controllo giurisdizionale e' concentrato sugli effetti dell'atto. In tema di riconoscimento di atti esteri incidenti sui rapporti familiari, e' stato affermato (tra le altre Cass. 9483 del 2013; 15143 del 2016) che deve escludersi il sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata ne' in relazione all'ordinamento straniero ne' in relazione a quello italiano (Cass. 17170 del 2020), non essendo consentito un controllo di tipo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento. 15. Definito l'oggetto del sindacato giurisdizionale, deve essere affrontata la questione relativa alla compatibilita' degli effetti del provvedimento straniero con i principi di ordine pubblico che ove contrastanti possono limitarne od escluderne il riconoscimento. Si tratta della censura affrontata nel quarto motivo e nel primo dei due quesiti desumibili dall'ordinanza interlocutoria. 15.1 L'indagine da svolgere richiede in primo luogo il corretto inquadramento giuridico dell'atto di cui si chiede il riconoscimento. L'adoption order e' un provvedimento giurisdizionale emesso dalla Surrogate Court dello Stato di New York che attribuisce alla parte ricorrente ed all'interveniente lo status di genitore adottivo del minore dopo aver preventivamente acquisito il consenso del birth father e della birth mother e dopo aver valutato l'idoneita' della coppia adottante al fine di verificare la conformita' del provvedimento da assumere al best interest of the child. Nel provvedimento, regolarmente depositato ed esaminato dal Collegio si da', infatti, atto che "un investigation have been ordered and made and the written report of such investigation having been filed with the Court, as required by the Domestic Law". Il provvedimento non e' dunque fondato soltanto sull'acquisito consenso dei genitori biologici ma anche sul risultato di un'indagine svolta secondo le prescrizioni normative della legge interna (Social Services Law). 15.2 La decisione e' stata adottata nel rispetto del diritto di difesa di tutti i soggetti coinvolti (par. 8 decisione impugnata). La circostanza non e' stata, peraltro oggetto di contestazione ne' della parte ricorrente ne' del Procuratore Generale. 15.3 La esposizione sintetica del contenuto e degli effetti del provvedimento estero pone in evidenza con nettezza l'estraneita' della fattispecie oggetto del presente giudizio da quella formante oggetto della sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019. Non viene sottoposto al controllo di compatibilita' con i principi di ordine pubblico il riconoscimento di uno status genitoriale costituito all'estero per mezzo della tipologia di procreazione medicalmente assistita eterologa (d'ora in avanti p.m.a.) definibile come gestazione per altri. Alla base della costituzione dello status genitoriale adottivo della coppia richiedente non risulta esserci un accordo di surrogazione di maternita', realizzato mediante una forma di fecondazione eterologa penalmente vietata nel nostro ordinamento e per tale ragione ritenuta contraria ai principi vigenti di ordine pubblico. L'esistenza di entrambi i genitori biologici che hanno prestato il loro consenso all'adozione del minore porta ad escludere dall'esame del Collegio non soltanto la questione della compatibilita' con i nostri principi di ordine pubblico della surrogazione di maternita' ma anche quella, piu' generale, relativa all'incidenza diretta sui principi di ordine pubblico internazionale del divieto di accesso alla p.m.a. per le coppie omoaffettive, oggetto di un recente intervento della Corte Costituzionale (n. 221 del 2019), la quale, tuttavia, in un passaggio motivazionale rimanda al divieto di accesso alla genitorialita' adottiva per le coppie formate da persone dello stesso sesso. La complessiva valutazione della pronuncia sara' esaminato nel par. 18.2. 16 Definiti gli effetti del provvedimento estero e precisato che oggetto del sindacato giurisdizionale e' la compatibilita' dello status genitoriale, di natura intrinsecamente adottiva, acquisito da coppia omogenitoriale maschile con i principi attualmente costituenti l'ordine pubblico internazionale, deve procedersi alla corretta individuazione del predetto parametro. 16.1 In astratto, la soluzione non appare disagevole perche' il Collegio presta convinta adesione alla nozione di ordine pubblico internazionale elaborata nella pronuncia delle S.U. n. 16601 del 2017 e ribadita nella piu' recente n. 12193 del 2019. Entrambe le pronunce si collocano nel solco della concezione aperta ed universalistica dell'ordine pubblico internazionale, gia' espressa in precedenti orientamenti (Cass. 19599 del 2016 e 14878 del 2017) riconoscendo ai principi di ordine pubblico internazionale non soltanto la funzione di limite all'applicazione della legge straniera (L. n. 218 del 1995, articolo 16) ed al riconoscimento di atti e provvedimenti stranieri (L. n. 218 del 1995, articolo 64) e ma anche quella di promozione (S.U. 16601 del 2017) e garanzia di tutela dei diritti fondamentali della persona (Cass. n. 19405 del 2013), attraverso i principi provenienti dal diritto dell'Unione Europea, delle Convenzioni sui diritti della persona cui l'Italia ha prestato adesione e con il contributo essenziale della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti umani. Ma a comporre il complesso dei principi fondamentali e caratterizzanti il profilo etico giuridico dell'ordinamento di un determinato periodo storico, secondo la definizione accolta da dottrina internazionalistica autorevole, concorrono non soltanto il sistema dei principi e valori derivanti dalla Costituzione ma anche quelli desumibili dalle leggi ordinarie quando "come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale". (S.U. 16601 del 2017). La piu' ampia connotazione dei principi di ordine pubblico internazionale si e' infine consolidato con la recente S.U. n. 12193 del 2019 nella quale viene sottolineata "la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione" e l'esigenza di valorizzare l'interpretazione della legge che "da' forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non puo' prescindersi nella ricostruzione dell'ordine pubblico in un determinato momento storico". La sintesi operata dalle S.U. di questa Corte, tra il rilievo dei valori condivisi dalla comunita' internazionale ed il processo di armonizzazione tra gli ordinamenti giuridici che lo accompagna ed il sistema assiologico proveniente dalla Costituzione unitamente alle leggi che ad esso si ispirano, deve orientare nella ricognizione dei principi fondamentali che al momento del vaglio giurisdizionale costituiscono la trama dell'ordine pubblico internazionale. L'operazione da svolgere, come gia' evidenziato, non ha ad oggetto la coerenza della normazione interna di uno o piu' istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilita' degli effetti che l'atto produce (nella specie l'attribuzione di uno status genitoriale adottivo) con i limiti non oltrepassabili, costituiti dai principi fondanti l'autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (articolo 2 Cost.; articolo 8 Cedu); dal principio del preminente interesse del minore di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione (Legge Delega n. 219 del 2012, Decreto Legislativo n. 153 del 2013); dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparita' di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all'identita' ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonche' relazionale sia a non limitare la genitorialita' esclusivamente sulla base dell'orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che e' alla base della genitorialita' sociale sulla base del quale la legge interna (L.n. 184 del 1983 cosi' come modificata dalla L. n. 149 del 2001 e dalla recente legge sulla continuita' affettiva n. 173 del 2015) ed il diritto vivente (CEDU caso Zhou contro Italia sentenza 21/4/2014 e S.H. contro Italia sentenza 13/10/2015; Cass. 3643 del 2020 e 1476 del 2021) hanno concorso a creare una pluralita' di modelli di genitorialita' adottiva, unificati dall'obiettivo di conservare la continuita' affettiva e relazionale ove gia' stabilizzatasi nella relazione familiare. 16.3 I principi enucleati peraltro risultano strettamente interconnessi essendo l'uno funzionale all'inveramento dell'altro, cosi' come le leggi, in larga parte riformatrici, che li esprimono e li attuano. Sulla base di questo quadro unificante di principi di ordine pubblico internazionale, puo' svolgersi la valutazione di compatibilita' che forma oggetto del quarto motivo di ricorso e di uno dei quesiti posti nell'ordinanza interlocutoria. 17. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14007 del 2018, si e' gia' espressa in merito alla trascrizione di una sentenza straniera (francese) con la quale era stata pronunciata l'adozione piena ed incrociata dei figli minori, biologici, di due donne cittadine francesi coniugate in Francia e residenti in Italia. Al riguardo, ha ritenuto che il preminente interesse del minore, da ritenersi coincidente con il diritto al mantenimento della stabilita' della vita familiare consolidatasi con entrambe le figure genitoriali, positivamente e specificamente valutato dal giudice straniero, dovesse condurre ad escludere la contrarieta' dell'atto all'ordine pubblico, "non incidendo l'orientamento sessuale sull'idoneita' dell'individuo all'assunzione della responsabilita' genitoriale". Per comprendere i punti di contatto e le differenze con la fattispecie dedotta nel presente giudizio deve essere precisato che entrambe le partners dell'unione matrimoniale omoaffettiva, trascritta in Italia, sono ricorse alla p.m.a. eterologa per la rispettiva generazione biologica dei figli minori ed hanno ottenuto un titolo adottivo pieno come madri d'intenzione o madri sociali del figlio non biologico. In comune le due fattispecie hanno sia la provenienza della scelta genitoriale da un'unione omoaffettiva matrimoniale sia la riconduzione al modello dell'adozione piena o legittimante dello status genitoriale richiesto. Il provvedimento giurisdizionale estero in entrambe le fattispecie e' rivolto al riconoscimento di una genitorialita' sociale che sia del tutto equiparabile alla genitorialita' biologica sorta dentro o fuori il matrimonio, ai fini del complesso di diritti e tutele dei figli minori, in particolare in relazione alla linea di parentela. Le differenze consistono nel genere femminile e maschile delle due coppie omogenitoriali e nell'accesso alla p.m.a. eterologa solo da parte della coppia omogenitoriale femminile. Si tratta, tuttavia, di caratteristiche recessive. La differenza di genere per le coppie omogenitoriali maschili costituisce un discrimine soltanto se il progetto genitoriale comune si fonda sul ricorso alla gestazione per altri (Cass. S.U. 12193 del 2019) pur essendo espressamente previsto che il preminente interesse del minore possa essere garantito, anche in questa ipotesi, mediante l'adozione in casi particolari. Ma il modello adottivo gradato e' esclusivamente conseguenza del grave disvalore ricondotto, dalle S.U., alla scelta della gestazione per altri e alla necessita' di trovare un bilanciamento che tenga conto di questa valutazione. Sul rapporto tra il preminente interesse del minore e la "legittima finalita' di disincentivare il ricorso ad una pratica che l'ordinamento italiano considera illegittima ed anzi meritevole di sanzione penale" e' intervenuta la recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 2021 con la quale e' stato riaffermato il margine di apprezzamento degli Stati nel non consentire la trascrizione di atti di stato civile o provvedimenti giudiziari stranieri che fondino gli status genitoriali sulla surrogazione di maternita', pur sottolineando l'esigenza di un sistema di tutela del minore piu' efficace che non quello garantito dall'adozione in casi particolari. Ove, tuttavia, manchi la condizione negativa della gestazione per altri, e nella specie, anche l'operativita' del divieto di accesso alla p.m.a. alle coppie omoaffettive, la contrarieta' ai principi di ordine pubblico appare riconducibile soltanto alle norme interne limitative della genitorialita' adottiva e al paradigma eterosessuale delle unioni matrimoniali. 17.1 Deve rilevarsi che l'ininfluenza dell'orientamento sessuale nelle controversie riguardanti l'affidamento dei minori e la responsabilita' genitoriale all'interno del conflitto familiare costituiscono un approdo fermo nella giurisprudenza di legittimita' (Cass. 601 del 2013), cosi' come per l'accesso all'adozione non legittimante delle coppie omoaffettive (Cass. 12962 del 2016). La conclusione univocamente assunta dalla giurisprudenza di legittimita' che si e' espressa al riguardo si fonda sulla considerazione della mancanza di riscontri scientifici sulla inidoneita' genitoriale di una coppia formata da persone dello stesso sesso. La conferma piu' rilevante, tuttavia, si ritrae dalla sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019 che, pur affermando la contrarieta' ai principi fondamentali che compongono l'ordine pubblico della genitorialita' formatasi per effetto della gestazione per altri (o surrogazione di maternita') limitano a questo aspetto il contrasto reputando il divieto interno e la sanzione penale consequenziale espressione di valori fondamentali quali la dignita' umana della gestante e l'istituto dell'adozione ma escludono che sia da ricondurre a principio fondamentale dell'ordinamento l'eterosessualita' della coppia nella definizione dei limiti al riconoscimento di atti stranieri relativi a status filiali. Nella fattispecie dedotta nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza n. 12193 del 2019, la caratteristica della omoaffettivita' e del genere maschile della coppia ha costituito un mero presupposto di fatto ma non l'oggetto della contrarieta' ai principi di ordine pubblico, incentrata esclusivamente sul divieto di surrogazione di maternita', divieto gia' affermato nella sentenza n. 24001 del 2014 della Corte di Cassazione e, a determinate condizioni, confermato dalla sentenza della Grand Chambre della Corte Europea dei diritti umani del 24/1/2017, caso Paradiso e Campanelli, pronunce, queste ultime, nelle quali la coppia che rivendicava lo status genitoriale era eterosessuale. 17.2 Completa il quadro ricostruttivo la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 2017, investita del sospetto d'incostituzionalita' dell'articolo 263 c.c. nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicita' possa essere accolta solo se corrispondente al preminente interesse dello stesso. Nella pronuncia e' stato escluso il valore assoluto del favor veritatis e ribadita la necessita' del suo bilanciamento con l'interesse del minore che puo' prevalere, all'esito della concreta operazione di bilanciamento cui e' tenuto il giudice. In questo contesto di principi volto a valorizzare la centralita' della tutela del minore, anche la Corte Costituzionale riserva una peculiare valutazione alle ipotesi in cui lo status genitoriale su cui si concentra il sindacato giurisdizionale si fondi sul ricorso alla surrogazione di maternita', in relazione alla quale la tutela del minore, deve confluire nel modello gradato dell'adozione in casi particolari. Ma, fuori dalla gestazione per altri, in questa rilevante pronuncia che ha costituito un solido ancoraggio per la decisione delle S.U. n. 12193 del 2019, non viene individuato alcun ostacolo od impedimento alla piena valutazione dell'interesse preminente del minore nelle azioni sugli status genitoriali che possa ricondursi all'orientamento sessuale delle coppie, dandosi rilievo per un verso al profilo consensualistico nella determinazione consapevole della genitorialita', cosi' come affermato espressamente nella L. n. 40 del 2004, articolo 5 che vieta l'azione di disconoscimento in caso di p.m.a. eterologa, e per l'altro alla comparazione tra l'interesse effettivo del minore (alla stabilita' dello status acquisito) con la verita' della derivazione biologica. 17.3 In conclusione, nel contesto normativo e giurisprudenziale nel quale e' maturata la sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019 il limite, dovuto alla contrarieta' ai principi di ordine pubblico internazionale, al riconoscimento di status genitoriali contenuti in provvedimenti esteri, richiesti da componenti di coppie omoaffettive, e' stato individuato esclusivamente nel ricorso alla gestazione per altri, limite peraltro comune anche alle coppie eterosessuali. In particolare, non sono stati ritenuti incidenti sulla valutazione di compatibilita' della omogenitorialita' con i nostri principi di ordine pubblico internazionale i limiti derivanti dalla legislazione interna in tema di accesso all'adozione legittimante (L. n. 184 del 1983, articolo 6) previsto soltanto per le coppie eterosessuali coniugate e dalla legge sulle unioni civili che non ha espressamente esteso alle coppie omoaffettive l'accesso all'adozione legittimante, lasciando tuttavia aperta la strada all'adozione in casi particolari, in quanto gia' riconosciuta dalla giurisprudenza sulla base delle norme vigenti (L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20). Non e' stato ritenuto riconducibile ai principi di ordine pubblico internazionale il regime codicistico della prova della filiazione in relazione al riconoscimento di provvedimento estero costitutivo di status genitoriale in coppia omogenitoriale femminile (Cass. 19599 del 2016). La valutazione di compatibilita', anche in coerenza con le considerazioni svolte nella sentenza della Corte Cost. n. 272 del 2017, e' stata, fino ad oggi, compiuta assumendo come principi cardine il diritto del minore alla conservazione dell'identita' e della stabilita' familiare (Cass. 14007 del 2017) ed il favor verso la continuita' degli status filiali da bilanciare, tuttavia, con il limite incomprimibile della dignita' dei soggetti coinvolti (S.U. 12193 del 2019), senza includere, pero', nel perimetro dei principi di ordine pubblico internazionale ne' le norme interne che escludono l'accesso alle p.m.a. alle coppie omoaffettive ne' quelli che introducono il medesimo limite all'adozione legittimante, attualmente consentita soltanto a coppie unite in matrimonio. La condizione soggettiva costituita dall'eterosessualita' della coppia che resiste all'interno del nostro ordinamento anche in relazione all'accesso all'unione matrimoniale, introduce un limite che definisce, allo stato attuale, la disciplina normativa applicabile ad alcuni istituti. Fino ad ora, tale limite non e' stato elevato al rango di principio di ordine pubblico internazionale, alla luce della continua e crescente attenzione ad una prospettiva maggiormente inclusiva dei modelli relazionali e familiari che richiedono riconoscimento e tutela, realizzata mediante un'interpretazione aperta dell'articolo 2 Cost. (Corte Cost. n. 138 del 2010 e 170 del 2014) e dell'articolo 8 Cedu (Caso X ed altri contro Austria sentenza del 19/2/2013, Labassee contro Francia e Mennesson contro Francia sentenze del 26 giugno 2014; Avis consultatif del 9 aprile 2019, richiesto dalla Corte di Cassazione francese in applicazione del Protocollo 16 in vigore dal 1 agosto 2018, cui l'Italia non ha ancora aderito). In particolare, per le coppie omoaffettive la condivisione della necessita' di un riconoscimento giuridico e di una tendenziale equiparazione al sistema di tutela proprio dell'unione matrimoniale e' stata ampiamente realizzata con la L. n. 76 del 2016 dopo il forte monito della CEDU (sentenza del 21 luglio 2015, caso Oliari piu' altri contro Italia). Il margine di apprezzamento degli Stati e la conseguente discrezionalita' legislativa interna nell'introdurre alcune condizioni a tale equiparazione oltre a non poter oltrepassare il limite della proporzionalita' tra il sacrificio del diritto fondamentale in gioco e l'interesse di rilievo pubblicistico che sottende la limitazione, non modifica il riconoscimento, costituzionale e convenzionale, delle unioni omoaffettive come luoghi in cui si sviluppa la personalita' dei soggetti coinvolti (articolo 2 Cost.) anche in ordine all'aspirazione alla genitorialita', quando si formi in un contesto relazionale caratterizzato da stabilita' giuridica ed effettiva (articolo 8 Cedu) e, soprattutto non puo' incidere sulla centralita' del preminente interesse del minore nelle decisioni che riguardano il suo diritto all'identita' ed ad uno sviluppo individuale e relazionale equilibrato e senza strappi. 18. E' necessario verificare, tuttavia, anche in relazione alle espresse sollecitazioni della parte ricorrente, ampiamente articolate nella requisitoria del Procuratore Generale, se alla luce delle piu' recenti pronunce della Corte Costituzionale (la gia' citata n. 221 del 2019, n. 237 del 2019 e 230 del 2020) e di due recenti sentenze della prima sezione di questa Corte (n. 7668 e 8029 del 2020) non debba individuarsi una diversa griglia dei principi fondanti l'ordine pubblico che costituiscono il limite non valicabile ai fini del riconoscimento del provvedimento di adozione piena emesso dalla Corte dello Stato di New York, dedotto nel presente giudizio. In particolare, si tratta di verificare se il limite di accesso all'adozione piena alle coppie coniugate e la non estensione dell'equiparazione unione civile/matrimonio stabilita dalla L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20 al medesimo istituto adottivo possa determinare la contrarieta' dell'atto di cui si chiede il riconoscimento ai principi fondamentali che disegnano la trama dell'ordine pubblico internazionale attuale. 18.1 E' di cruciale rilievo definire con esattezza le diverse situazioni in concreto esaminate dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, al fine di individuare il perimetro applicativo dei principi precettivi in esse contenute. 18.2 Nella pronuncia n. 221 del 2019, relativa al sospetto d'incostituzionalita' del divieto di accesso alle p.m.a. per le coppie omoaffettive, stabilito nella L. n. 40 del 2004, articolo 5 la Corte Costituzionale esclude l'illegittimita' costituzionale della limitazione osservando che la L. n. 40 del 2004, e' una legge costituzionalmente necessaria ma non a rime obbligate in relazione a questa specifica condizione dell'accesso, perche' "la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalita' del quale il legislatore fruisce, pur rimanendo quest'ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all'evolversi dell'apprezzamento sociale della fenomenologia considerata". La precisazione finale conduce ad escludere che la limitazione alle coppie eterosessuali dell'accesso alla p.m.a sia espressione di un valore fondante l'ordinamento, condiviso ed irrinunciabile, risultando piuttosto il frutto di una scelta di politica legislativa, peraltro maturata all'interno di una legge marcatamente espressiva di una delle scelte possibili in un campo eticamente sensibile che deve essere contestualizzata e che puo' essere ripensata. Dal 2004 ad oggi l'emersione giuridica e la riconducibilita' all'interno dei diritti inviolabili della persona delle istanze provenienti dalle coppie omoaffettive, anche in relazione all'aspirazione alla genitorialita', e' stata crescente e sempre piu' condivisa anche grazie all'opera di armonizzazione della Corte Europea dei diritti umani, gia' illustrata nel par. 17.3 e al nostro interno agli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di legittimita' (Corte Cost. 138 del 2010 e 170 del 2014 e Cass. 4184 del 2012). Deve aggiungersi che la Corte Costituzionale, in un altro passaggio motivazionale, nel superare il rilievo critico dell'effetto di discriminazione inversa che sarebbe prodotto dalla perdurante vigenza del divieto nel nostro ordinamento interno, mostra di essere del tutto consapevole del mutato quadro nella prospettiva di tutela multilivello dei diritti fondamentali ed afferma: "Il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero non puo' inoltre costituire una valida ragione per dubitare della sua conformita' a Costituzione; diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla piu' permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia". In conclusione, pur mantenendo ferma la vigenza del divieto interno, ritenuto costituzionalmente legittimo, la Corte esclude che esso abbia carattere di principio assolutamente intangibile e ne riconosce, al contrario, la possibile mutevolezza, accettando, in particolare, la coesistenza nel nostro ordinamento di statuti giuridici diversi per fattispecie analoghe, divergenti solo perche' gli atti che le contengono sono formati in uno Stato estero, e riconoscendo la diversita' del paradigma normativo applicabile, a maglie piu' strette quello interno, a tessitura piu' larga quello fondato sui principi di ordine pubblico internazionale. 18.3 Nella successiva sentenza n. 237 del 2019, riguardante un giudizio sorto per il rifiuto opposto dall'ufficiale dello stato civile alla trascrizione di atto di nascita richiesto da coppia omogenitoriale femminile, la Corte Costituzionale, nel dichiarare l'inammissibilita' della questione prospettata riafferma la legittimita' della legislazione interna relativa alle limitazioni all'accesso a p.m.a. escludendone il carattere discriminatorio per orientamento sessuale ed evidenzia che anche la L. n. 70 del 2016 "non consente la filiazione sia adottiva che per fecondazione assistita". Anche in questa pronuncia, si conferma che le limitazioni sopra indicate sono compatibili e non "in distonia" con i parametri costituzionali ed in particolare con l'articolo 3 Cost. ma senza tuttavia elevarne l'efficacia a principi fondanti dell'ordinamento ma, al contrario, sottolineandone, l'ancoraggio ad un'opzione legittima ma non universalmente condivisa. 18.4 Le medesime considerazioni vengono, infine, svolte (e sono molto valorizzate nella requisitoria del Procuratore Generale) nella recente sentenza n. 230 del 2020, sovrapponibile quanto alla fattispecie alla n. 237 del 2019 che si chiude anch'essa con una pronuncia d'inammissibilita'. Il percorso motivazionale e' analogo. La Corte esclude che un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata delle limitazioni della L. n. 40 del 2004 possa condurre ad un loro superamento ma non ritiene che tale superamento sia costituzionalmente imposto. Anche in questa pronuncia viene espressamente esclusa la riconducibilita' del divieto e dello speculare paradigma eterosessuale a principio fondante, come puo' rilevarsi dal seguente passaggio argomentativo: "Se, dunque, il riconoscimento della ornogenitorialita', all'interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non e' imposto, vero e' anche che i parametri evocati neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potra' dare, non potendosi escludere la capacita' della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in eta' avanzata di svolgere validamente anch'esse, all'occorrenza, le funzioni genitoriali. L'obiettivo auspicato dal rimettente, pertanto, e' perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non e' costituzionalmente imposta, (...) Anche l'altro profilo della questione, relativo a una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di piu' penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la madre intenzionale, e' ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalita' del legislatore". 18.5 Trova, infine, espresso fondamento nella diversita' e coesistenza di due sistemi normativi di riferimento, il recente orientamento della Corte di Cassazione in tema di riconoscimento dello status genitoriale della madre d'intenzione nell'ipotesi in cui il minore sia nato in Italia mediante il ricorso a p.m.a. eterologa realizzata all'estero. Le pronunce n. 7668 e 8029 del 2020 hanno, coerentemente con i principi dettati dalla Corte Costituzionale sopra delineati, ritenuto che nel nostro ordinamento non possa iscriversi nell'atto di nascita anche la madre d'intenzione per l'operativita' del divieto all'accesso alla p.m.a. delle coppie omoaffettive. E' stato tuttavia, precisato, (Cass.7668 del 2020) che la soluzione adottata non contrasta con la giurisprudenza di legittimita' (Cass. 19599 del 2016 e 14878 del 2017) che in fattispecie analoghe aveva riconosciuto l'efficacia dell'atto di nascita nel quale era indicata anche la madre d'intenzione, formato all'estero, perche' il paradigma normativo invocato e' diverso. Nella trascrizione degli atti stranieri vi e' l'esigenza che lo status acquisito all'estero circoli legittimamente con il solo limite dell'ordine pubblico internazionale, con il limite della surrogazione di maternita'. Quando si deve applicare esclusivamente il paradigma proveniente dal diritto interno (L. n. 40 del 2004; disciplina codicistica della filiazione) questo rimane saldamente ancorato alla necessita' di un rapporto biologico tra i genitori (Cass. 8029 del 2020). Lo strumento residuale dell'adozione in casi particolari consente comunque l'inserimento del minore nel nucleo familiare. 18.6 Oggetto del presente giudizio non e' la coerenza di un sistema che accoglie la disparita' di trattamento di minori che versano in situazioni di fatto del tutto omologabili ma soltanto la verifica della compatibilita' di un provvedimento estero di adozione piena che attribuisce la genitorialita' ad una coppia omogenitoriale maschile con i principi di ordine pubblico internazionale. 19. L'esame dei piu' recenti interventi della giurisprudenza costituzionale e di legittimita' non consente, in conclusione, d'introdurre tra i principi di ordine pubblico internazionale che possono costituire il limite al riconoscimento dell'atto estero che forma oggetto del presente giudizio, le condizioni di accesso alla genitorialita' adottiva legittimante contenute nella L. n. 184 del 1983, articolo 6 e dalla L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20. I divieti all'accesso alle p.m.a., anch'essi, come osservato nei paragrafi immediatamente precedenti, non riconducibili ai principi di ordine pubblico internazionale, sono anche estranei al riconoscimento della genitorialita' esclusivamente adottiva oggetto del presente giudizio. Nell'ordinamento coesistono principi di derivazione costituzionale e convenzionale che si pongono rispetto ad essi in una condizione di netta sovraordinazione e preminenza sia per la loro collocazione tra i diritti inviolabili della persona sia per il grado di condivisione che ne costituisce un tratto peculiare. 19.1 In primo luogo, come gia' rilevato, il principio del preminente interesse del minore nelle determinazioni che incidono sul suo diritto all'identita', alla stabilita' affettiva, relazionale e familiare, contenuto nell'articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell'articolo 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e divenuto parte integrante della costruzione del diritto alla vita privata e familiare ad opera della Corte Europea dei diritti umani oltre che fondamento della riforma della L. n. 184 del 1983 ad opera della L. n. 149 del 2001 e della recente Legge sulla continuita' affettiva (n. 173 del 2015) nonche' di tutta la disciplina legislativa relativa alla responsabilita' genitoriale, ed agli status filiationis (anche secondo la citata sentenza n. 272 del 2017 della Corte Costituzionale) essendo una delle estrinsecazioni piu' rilevanti dell'articolo 2 Cost. 19.2 In secondo luogo il principio della parita' di trattamento tra tutti i figli, nati all'interno e fuori del matrimonio o adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli articoli 3 e 31 Cost. e che e' stato inverato dalla recente riforma della filiazione (L. n. 219 del 2012; Decreto Legislativo n. 154 del 2013). Al riguardo, proprio in relazione alla filiazione adottiva, attualmente ripartita tra l'adozione legittimante e quella in casi particolare, deve essere rimarcata l'innovazione relativa all'articolo 74 c.c. che ha reso unico, senza distinzioni, il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali, con la sola eccezione dell'adozione dei maggiorenne, cosi' da ingenerare perplessita' in dottrina sulla compatibilita' costituzionale della conservazione di un regime differenziato nei diversi modelli di genitorialita' adottiva nel nostro ordinamento. 19.3 Il panorama dei principi intangibili in tema di tutela degli status filiali, fortemente caratterizzato dall'obiettivo di non creare discriminazioni nel regime giuridico di tutela dei minori si completa con la considerazione che il quadro attuale della genitorialita' sociale e' piu' composito di come rappresentato dalla parte ricorrente. Oltre alla espressa estensione alle persone singole della adozione in casi particolari, deve rilevarsi che la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 183 del 1994) e la giurisprudenza di legittimita' (Cass. 6078 del 2006; 3572 del 2011) che si sono trovate fin dagli anni 90 a confrontarsi con le richieste di costituzione di status genitoriali adottivi da parte di soggetti diversi dalle coppie coniugate eterosessuali, hanno unanimemente riconosciuto l'esigenza di ampliare le condizioni di accesso all'adozione legittimante ed hanno sollecitato il legislatore al riguardo, ritenendo che cio' corrispondesse non solo ad una sensibilita' condivisa ma anche alle indicazioni della Convenzione sulle adozioni firmata a Strasburgo il 24/4/1967 che impone di trovare per il minore un "foyer stable et harmonieux". Infine, in tempi piu' recenti in relazione alle istanze delle coppie omoaffettive rivolte alla realizzazione della genitorialita' all'interno di un nucleo relazionale stabile e prevalentemente sostenuto da un riconoscimento giuridico in Italia od all'estero e' stata individuata proprio nel modello adottivo indicato nella L. n. 184 del 1983, articolo 44, lettera d) la forma di riconoscimento minimo e residuale anche per i minori venuti al mondo all'esito di un accordo di surrogazione di maternita' (Cass. S.U. 12193 del 2019, per la "residualita'" di questo specifico modello adottivo, Corte Cost. 383 del 1999). Alla forte promozione della giurisprudenza costituzionale, sovranazionale e di legittimita' di un regime giuridico interno di accesso alla genitorialita' sociale meno restrittivo e piu' vicino alla evoluzione condivisa dei modelli relazionali e filiali si collega indissolubilmente il superamento, sotto il profilo dei principi di ordine pubblico internazionale, della limitazione alla coppia eterosessuale unita in matrimonio dell'accesso all'adozione legittimante stabilita nell'articolo 6. Al riguardo non puo' condividersi quanto affermato nel ricorso e nella requisitoria del P.G. in relazione all'inclusione dell'articolo 29 Cost. tra i parametri costituzionali dai quali desumere il limite di ordine pubblico internazionale applicabile alla fattispecie, in collegamento con la L. n. 184 del 1983, articolo 6 e dalla L. n. 76 del 2016, articolo 1, comma 20. L'unione matrimoniale cosi' come prevista nell'articolo 29 Cost. costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale della regolazione interna, del massimo grado di tutela giuridica ma in relazione agli status genitoriali non costituisce piu', soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialita' adottiva ad una coppia omoaffettiva, peraltro unita in matrimonio negli (OMISSIS), tanto piu' che in relazione alla genitorialita' sociale l'imitatio naturae manca ab origine ed e' ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell'istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale piu' adeguato alla sua crescita. 19.4 Non puo' pertanto essere accolto il quarto motivo di ricorso, alla luce del seguente principio di diritto: "Non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell'adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternita' a fondamento della filiazione". 20. Rimane, tuttavia, da esaminare, la seconda questione di massima di particolare importanza sollevata, tuttavia, esclusivamente nell'ordinanza interlocutoria e non prospettata o riproposta ne' dal ricorrente ne' dal Procuratore Generale. Si evidenzia, al riguardo che l'adozione estera e' stata pronunciata dopo aver acquisito il consenso dei genitori biologici e dunque si ritiene di dover verificare se la valutazione estera posta a base dell'adottabilita' del minore debba comporre lo scrutinio di compatibilita' con i principi di ordine pubblico internazionale. 20.1 Preliminarmente, in fatto, deve osservarsi che il provvedimento di adozione estero di cui si chiede il riconoscimento come precisato nel par. 15.1 non si e' fondato solo sul consenso dei genitori biologici ma anche sugli esiti di un'indagine relativa all'idoneita' della coppia adottante. Cio' significa che il controllo giurisdizionale non si e' limitato al riscontro del consenso dei genitori del minore ma ha avuto carattere complessivo, investendo tutte le parti del giudizio. 20.2 Ritiene il Collegio che non possa escludersi in astratto la comparazione delle condizioni di adottabilita' poste a base del provvedimento estero di cui si chiede il riconoscimento con i principi di ordine pubblico internazionale. Ove venga allegato dalle parti ed emerga con obiettivita' probatoria che la determinazione di privarsi del figlio minore da parte dei genitori biologici derivi da un intervento di carattere oneroso degli adottanti, o il consenso prestato sia la conseguenza di un accordo vietato e sanzionato penalmente nel nostro diritto interno perche' incidente sui diritti inviolabili della persona, come l'accordo di surrogazione di minore, alla valutazione degli effetti "formali" dell'atto, (la costituzione di status genitoriale adottivo, che pure incontra il favor legislativo interno per la genitorialita' sociale) deve collegarsi quella sulle modalita' di produzione degli effetti predetti. Ugualmente ove sia stata dedotta e venga accertata la violazione delle condizioni previste dalla legge estera per l'accesso al modello genitoriale richiesto (secondo le indicazioni dalla sentenza della Grand Chambre CEDU, 24 gennaio 2017, caso Paradiso-Campanelli). Ma, deve rilevarsi, che nel presente giudizio nessun rilievo hanno dato le parti ne' nel merito ne' nella prospettazione delle censure del presente ricorso alla valutazione di adottabilita', cosi' da doverne escludere il concreto esame non potendosi confondere il limite costituito dall'ordine pubblico internazionale con la regolamentazione giuridica interna dell'adozione legittimante. Proprio in relazione a quest'ultimo profilo deve rilevarsi che la giurisprudenza costituzionale e di legittimita' hanno univocamente escluso che il fondamento consensuale di procedimenti adottivi esteri fosse da ritenere incompatibile con i principi di ordine pubblico. Si tratta di orientamenti che si sono sviluppati prima della regolamentazione giuridica convenzionale ed interna dell'adozione internazionale e che riguardano l'adozione di minori stranieri da parte di cittadini italiani. Si tratta, pertanto, di fattispecie diverse rispetto a quella oggetto del presente giudizio, perche' assoggettabili a controlli piu' incisivi e alla competenza del Tribunale per i minorenni ma, anche per questa ragione, estremamente istruttive in relazione alla valutazione del profilo della consensualita'. 20.3 La Corte Costituzionale con la sentenza n. 536 del 1989, relativa a procedimenti volti a dichiarare l'efficacia di sentenze estere di adozione di minori fondate sul consenso espresso dai genitori biologici davanti ad un notaio e successivamente omologate dall'autorita' giudiziaria, ha affermato che il modello consensuale non e' in contrasto con i principi ispiratori della L. n. 184 del 1983, non soltanto perche' espressamente previsto nel nostro ordinamento per alcune fattispecie di adozione in casi particolari quanto per la "latitudine della formula usata nell'articolo 31 (L. n. 218 del 1995 n.d.r.) per definire i provvedimenti stranieri a contenuto adottivo suscettibili di considerazione ai fini della declaratoria di efficacia in Italia" (...) adozione, affidamento preadottivo, altro provvedimento in materia di tutela e degli altri istituti di protezione dei minori". La Corte ritiene che quando si possa riscontrare il "rispetto d'irrinunziabili garanzie" e "in presenza di provvedimenti a contenuto effettivamente adottivo" nell'adozione del modello consensuale che in via esclusiva, o in alternativa all'adozione legittimante e' senz'altro molto diffuso nei paesi extraEuropei ed in molti paesi Europei (secondo quanto riferito nella sentenza) non si ravvisa un'aprioristica contrarieta' ai principi fondamentali dell'ordinamento, dovendosi concentrare il controllo giurisdizionale sul provvedimento con il quale la procedura adottiva si chiude. Sono escluse, ai fini adottivi, le convenzioni meramente private, anche se recepite in atto notarile, ma la previsione normativa (ed il controllo giurisdizionale successivo) dell'effetto della recisione del rapporto con i genitori biologici per effetto della libera prestazione del consenso non e' contrario ai principi di ordine pubblico. Di estremo rilievo anche in relazione al provvedimento estero oggetto del presente giudizio sono le considerazioni finali contenute nella sentenza della Corte Costituzionale: "E' ben vero che l'adozione consensuale puo' in concreto mascherare illecite cessioni (...) ma la constatazione dell'esistenza di questo fenomeno (...) non puo' condurre questa Corte a ritenere fondata una questione che poggia su generalizzazioni indimostrate". La giurisprudenza di legittimita' coeva aveva manifestato il medesimo orientamento. Il consenso dei genitori biologici all'allontanamento in via definitiva del minore che garantisca al minore di acquisire una nuova famiglia idonea, ove verificato da autorita' giurisdizionale, non e' ostativo al riconoscimento di provvedimenti di adozione esteri (Cass. n. 3904 del 1986; n. 8506 del 1987; n. 9912 del 1991). 20.5 L'esame del provvedimento giurisdizionale, alla luce delle deduzioni ed allegazioni delle parti, porta ad escludere il rilievo della condizione di adottabilita', sulla valutazione di compatibilita' del provvedimento estero dedotto nel presente giudizio con i principi di ordine pubblico internazionale, 21. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese processuali del presente giudizio, attesa la novita' delle questioni esaminate. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Compensa le spese processuali del presente giudizio. In caso di diffusione devono essere omesse le generalita' delle parti e i riferimenti geografici.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LAPALORCIA Grazia - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere Dott. GAI Emanuel - rel. Consigliere Dott. MACRI' Ubalda - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica del Tribunale di Pesaro; nel procedimento penale nei confronti di: 1. (OMISSIS), nato in (OMISSIS); 2. (OMISSIS), nata a (OMISSIS); avverso la sentenza del 11/02/2020 del Tribunale di Pesaro; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GAI Emanuela; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale BARBERINI Roberta, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza; udito per gli imputati l'avv. (OMISSIS) che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del pubblico ministero. RITENUTO IN FATTO 1. Il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Pesaro ricorre per l'annullamento della sentenza del Tribunale di Pesaro, ai sensi degli articoli 442 e 529 c.p.p., che ha dichiarato non doversi procedere, nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), perche' l'azione penale non doveva essere iniziata in mancanza di richiesta del Ministero della giustizia, ritenuto il reato a loro ascritto commesso all'estero. 1.1 (OMISSIS) e (OMISSIS) sono imputati del reato di cui all'articolo 110 c.p. e la L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 12, comma 6, perche', previo concerto tra loro e con altre persone, mediante l'ausilio di strutture sanitarie all'estero, di notaio e di funzionario pubblico, previo accordo con una cittadina ucraina, la quale accettava l'impianto dell'embrione e portava a termine la gravidanza da cui nascevano due gemelli, e cori dichiarazione con cui si attribuiva la maternita' a (OMISSIS), realizzavano una condotta di maternita' surrogata di tipo eterologo. Fatto commesso in (OMISSIS) con competenza determinata ai sensi dell'articolo 6 c.p., comma 2. Muovendo dai delineati presupposti di fatto come accertati sulla base degli atti - segnatamente una gestazione su committenza realizzata in Ucrania, ove, previo contatto e appuntamento, i due imputati si erano recati e, previo accordo con una cittadina ucraina, formalizzato con contratto nel quale la stessa accettava di portare a termine la gestazione, frutto di una ovodonazione e di fecondazione di tipo eterologo con gameti del (OMISSIS), che si concludeva con la nascita, in Kiev, di due gemelli e con la registrazione degli atti di nascita presso l'ufficio di stato civile del comune di Kiev dei minori, quali figli dei genitori (OMISSIS) e (OMISSIS), secondo la disciplina straniera, e con la successiva richiesta di trascrizione dell'atto nei registri dello stato civile del comune di Vallefoglia - il Giudice ha ritenuto che la consumazione del reato fosse da collocarsi in Kiev, presso la clinica ove gli imputati si erano recati e dove avevano concluso il contratto di maternita' surrogata, ritenendo che i contatti iniziali con la clinica volti alla conoscenza delle modalita' attraverso le quali si sarebbe potuto conseguire la surrogazione di maternita', erano da ritenersi al di fuori della fattispecie tipica, la cui condotta e' imperniata sul concetto di "realizza", mentre i fatti successivi, tra cui la trascrizione Italia dell'atto di nascita, costituivano condotta susseguente al reato gia' commesso all'estero e, stante l'assenza della richiesta del Ministero della giustizia, prevista dall'articolo 9 c.p., comma 2, l'azione penale non poteva essere iniziata. 2. A sostegno dell'impugnazione, il ricorrente Pubblico Ministero deduce, con un unico e articolato motivo, la violazione di cui all'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), in relazione all'erronea applicazione della L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 12, comma 6. Argomenta il ricorrente l'erronea applicazione della legge penale, segnatamente della L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 12, comma 6, con riferimento al momento iniziale della condotta e soprattutto al contenuto della condotta tipica, che si snoda attraverso un articolato iter, dal momento dell'iniziativa di coloro che ricorrono alla surrogazione della maternita' all'estero e termina con la nascita al termine della gestazione e la registrazione prima e la trascrizione poi dell'atto di nascita nei registri dello stato civile italiano. Il Giudice avrebbe erroneamente escluso dal perimetro della condotta del reato la domanda del paziente che costituisce parte indissolubile del contratto, che precede la sua sottoscrizione, costituendo parte dello stesso, il pagamento rateale per stadi progressivi tra cui il pagamento proveniente dalla provvista su conti italiani dei genitori committenti, la reiterata espressione di volonta' da parte dei genitori committenti dalla quale dipende la prosecuzione del contratto di maternita' surrogata. Il reato si sarebbe consumato in Ucrania, a seguito di condotta iniziata in Italia e proseguita in parte in Italia. Da tale errore sarebbe derivata l'erronea applicazione dell'articolo 9 c.p., comma 2 e la conseguente pronuncia di non doversi procedere. Laddove questa Corte di legittimita' ritenesse priva di tassativita' la norma incriminatrice di cui alla L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 12, comma 6, dalla cui insufficienza sarebbe conseguita l'interpretazione della condotta tipica fatta propria dal Giudice, chiede che venga sollevata questione di legittimita' costituzionale. 3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso del Pubblico ministero non e' fondato. 2. Il ricorrente deduce l'errata applicazione della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, nell'interpretazione della fattispecie incriminatrice del Tribunale di Pesaro. Occorre muovere dall'esegesi della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), e, in tale ambito, viene in rilievo l'apparato sanzionatorio penale contenuto nell'articolo 12, comma 6, che punisce: "6. Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternita', e' punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di Euro". La volonta' legislativa, che sottendeva e permeava la prima disciplina organica in questa materia, di circoscrivere fortemente l'ambito della procreazione medicalmente assistita, si completava con la previsione di un sistema sanzionatorio amministrativo e penale diretto a sanzionare la mercificazione della procreazione medesima. Come e' noto, la L. n. 40 del 2004 e' stata oggetto di ripetuti interventi da parte del Giudice delle leggi tra cui la sentenza n. 162 del 2014, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale della L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 4, comma 3, nella parte in cui stabilisce, per la coppia di cui all'articolo 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilita' o infertilita' assolute ed irreversibili. Anche all'esito di tale pronuncia, il ricorso a pratiche di surrogazione della maternita' continua ad essere vietato e sanzionato nel nostro ordinamento, a differenza di altri Paesi in cui, come in Ucrania, tale pratica e' consentita. Quanto al profilo della disciplina sanzionatoria, all'esito della pronuncia che ha eliminato il divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la stessa Corte costituzionale ha chiarito, per quanto qui di rilievo, che "le norme di divieto e sanzione non censurate (le quali conservano validita' ed efficacia), preordinate a garantire l'osservanza delle disposizioni in materia di requisiti soggettivi, modalita' di espressione del consenso e documentazione medica necessaria ai fini della diagnosi della patologia e della praticabilita' della tecnica, nonche' a garantire il rispetto delle prescrizioni concernenti le modalita' di svolgimento della PMA ed a vietare la commercializzazione di gameti ed embrioni e la surrogazione di maternita' (L. n. 40 del 2004, articolo 12, commi da 2 a 10) sono applicabili direttamente (e non in via d'interpretazione estensiva) a quella di tipo eterologo, cosi' come lo sono le ulteriori norme, nelle parti non incise da pronunce di questa Corte" (Corte costituzionale n. 162 del 2014). Nessun dubbio residua sulla persistente illiceita' del ricorso alla maternita' surrogata. La stessa Corte costituzionale, nel rigettare una questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Milano, ha colto l'occasione per definire la maternita' surrogata quale pratica "che offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane" (sent. n. 272/2017, par. 4.2). Sotto il versante sovranazionale il parere consultivo pronunciato il 10 aprile 2019 dalla Grande Chambre della Corte Edu, su richiesta della Corte di cassazione francese, in occasione della prima applicazione del Protocollo n. 16 allegato alla Cedu 7, riconosce che rientra nel margine di apprezzamento di ogni Stato adottare politiche che scoraggino i propri cittadini dal ricorrere, recandosi all'estero, a pratiche procreative proibite nel proprio territorio, pur evidenziando l'incompatibilita' con l'articolo 8 Cedu di divieti assoluti di riconoscimento dello status filiationis derivante dagli effetti del suo mancato riconoscimento nei confronti di bambini nati a seguito di ricorso alla maternita' surrogata. 3. Fermo, dunque, il divieto, sanzionato penalmente, del ricorso alla maternita' surrogata, il pubblico ministero sostiene che il giudice avrebbe errato nell'applicazione della legge penale sostanziale in relazione all'individuazione della fattispecie tipica. L'articolo 12 comma 6 cit., punisce "Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternita'". Nel caso in esame, viene in rilievo la condotta di chi "realizza" il cui significato etimologico di "portare a compimento", "attuare" "avverare" gia' individua e seleziona quali condotte rilevino dal punto di vista penale. Se il compimento della gestazione per conto di altri, che si conclude con la nascita, individua il momento di consumazione del reato, il tema e' quello di stabilire il perimetro delle condotte antecedenti alla nascita che integrano la condotta di "realizza", non venendo in rilievo, nel caso in esame, secondo la stessa imputazione elevata agli imputati, le condotte di "organizza o pubblicizza". Nel tracciare il perimetro della condotta incriminata, ai fini della tipicita' della norma penale incriminatrice, si deve avere riguardo al contenuto etimologico della condotta di "realizza" che, accanto a quelle di "organizza" e "pubblicizza", costituiscono le condotte tipiche del reato di cui all'articolo 12, comma 6 cit.. La decisione impugnata si e' posta in questa linea interpretativa ed ha circoscritto la rilevanza penale delle condotte, antecedenti alla nascita, a quelle eziologicamente ad essa collegata e funzionali allo scopo, cosi' da circoscrivere e da delimitare il contenuto della fattispecie tipica entro limiti di riconoscibilita' della fattispecie e prevedibilita' delle conseguenze. Cio' in quanto la norma penale deve essere sufficientemente chiara per essere prevedibile il comportamento che e' fonte di responsabilita' penale. Prevedibilita' del significato della legge che oggi assume rilievo anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale, nell'Interpretazione della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamenti, all'articolo 7, come chiarito nella pronuncia del noto caso Contrata c/Italia secondo cui l'agente deve conoscere, a partire dal testo della legge e dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali, per quali atti od omissioni gli viene attribuita la responsabilita' penale. 4. In fatto, sentenza impugnata ha ritenuto che il reato contestato si fosse consumato integralmente all'estero sulla base dei seguenti elementi. In territorio ucraino, dove gli imputati si erano recattprto, venne vagliata la possibilita' di ricorrere alla maternita' surrogata secondo la disciplina dello Stato; sempre nella clinica ucraina previamente individuata, gli imputati furono visitati, e li' venne commissionato l'intervento, sottoscritto il contratto, adempiuto lo stesso con il prelievo dei gameti e l'impianto degli stessi nella madre di parto, previa individuazione della donatrice, e li' si svolse tutta la gestazione fino al parto. Sempre in Ucrania, secondo le leggi di quel Paese, l'atto di nascita dei gemelli venne registrato presso l'ufficio di stato civile di Kiev (cfr. pag. 8). Mentre non assumevano rilievo, sempre secondo la sentenza impugnata, i contatti iniziali avuti dagli indagati con la clinica ucraina per conoscere le modalita' attraverso le quali era possibile tale pratica, contatti prodromici a verificarne la praticabilita' in quel Paese, contatti che non raggiungevano la soglia di rilevanza penale perche' non ancora dimostrativi della decisione di ricorrere a tale pratica che, si rammenta, e' disciplinata dalla legislazione straniera e dalla necessaria verifica di fattibilita' avvenuta in quel Paese dopo gli accertamenti medici. L'accordo e la sottoscrizione del contratto si erano perfezionati in Ucraina, dove si erano concluse le pratiche volte alla maternita' surrogata e dove essa si era realizzata, con la nascita dei gemelli, figli degli imputati secondo la legge straniera. La trascrizione dell'atto di nascita che, comunque, non integra il reato di cui all'articolo 567 c.p., comma 2, (Sez. 6, n. 48696 del 11/10/2016, Rv. 272242 - 01; Sez. 6, n. 8060 del 11/11/2015, Rv. 266167 - 01; Sez. 5, n. 13525 del 10/03/2016, Rv. 266672 01), e' stata ritenuta condotta susseguente al gia' commesso reato. 5. La decisione impugnata, tenuto conto del perimetro della contestazione come descritta nel capo di imputazione, misurandosi con queste, ha cosi' selezionato le condotte integranti la fattispecie di "realizza" nei termini sopra indicati, ancorati ai dati di fatto e in rapporto alla contestazione elevata (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata), escludendo le condotte non direttamente e inequivocabilmente funzionali a realizzare la maternita' surrogata che si perfeziona, secondo la sentenza impugnata, con la nascita a gestazione terminata, ovvero con l'evento della condotta di "realizza", cosi' da circoscrivere e delimitare il contenuto della fattispecie tipica entro limiti di riconoscibilita' della fattispecie e prevedibilita' delle conseguenze penali della condotta. Poiche' la condotta si era integralmente consumata in territorio straniero, in assenza di richiesta del Ministero della Giustizia, il reato commesso dai cittadini italiani all'estero non era procedibile ai sensi dell'articolo 9 c.p., comma 2, non essendo avvenuta in Italia anche solo una parte dell'azione ai sensi dell'articolo 6 c.p., comma 2. 6. Alla stregua della ricostruzione operata dal giudice del merito (cfr. par. 5 supra) ancorata alla contestazione mossa agli imputati, come descritta nel capo di imputazione, il ricorrente sollecita, senza allegare un travisamento probatorio per omissione, una verifica fattuale degli atti, che non puo' avere ingresso in questa sede, diretta alla individuazione di un segmento della condotta che sarebbe stata commessa in Italia, segmento di condotta neppure contestata, dal punto di vista fattuale, nel capo di imputazione. A tale riguardo, esclusa ogni valutazione di elementi di fatto non contestati nel capo di imputazione quale condotta di realizzazione di pratiche di maternita' surrogata, residua unicamente il profilo della rilevanza penale dei contatti via e-mail, nell'ottobre 2015, con la clinica ucraina propedeutici all'incontro in loco con tutto il corredo documentale medico al fine di valutare la situazione e le possibili soluzioni, condotta che il giudice ha motivatamente escluso dal perimetro della fattispecie. Affinche' sia applicabile la legge italiana, ai sensi dell'articolo 6 c.p., occorre, infatti, che l'azione o l'omissione si sia realizzata, in tutto o in parte, in territorio italiano nel senso che e' necessario che la parte di condotta commessa in Italia sia comunque significativa e collegabile in modo chiaro e univoco alla parte restante realizzata in territorio estero, ma tale connotazione non puo' essere riconosciuta ad un generico proposito, privo di concretezza e specificita', di commettere all'estero fatti delittuosi, anche se poi ivi integralmente realizzati (Sez. 6, n. 56953 del 21/09/2017, P.M. in proc. Guerini, Rv. 272220 - 01; Sez. 3, n. 35165 del 02/03/2017, Sorace, Rv. 270686 01). 7. Infine, va dichiarata manifestamente infondata la prospettata questione di legittimita' costituzionale della norma incriminatrice per difetto di tassativita' nella interpretazione fatta propria dal Tribunale di Pesaro che, attraverso la selezione delle condotte di rilevanza penale in quelle funzionalmente e inequivocabilmente dirette alla gestazione per conto di altri, e', contrariamente a quanto ritiene il ricorrente, orientata ad aumentare la tipicita' della norma penale incriminatrice. In ogni caso, da tempo la giurisprudenza costituzionale richiede al giudice a quo la verifica della praticabilita' dell'interpretazione adeguatrice (tra le tante vedi sent. n. 356 del 1996; n. 350/1997, n. 133-115-190 del 2000; n. 270 del 2011, 184 del 2012, n. 10 del 2013, decisione con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la "manifesta inammissibilita'" della questione che non aveva percorso la via dell'interpretazione adeguatrice) e cio' in quanto "le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perche' e' impossibile darne interpretazioni costituzionali" (tra le piu' recenti sent. n. 21-46 del 2013; 42 e 83 del 2017; n. 77 del 2018) secondo "gli ordinari strumenti ermeneutici" (sent. n. 191 del 2018). Il Tribunale di Pesaro, con il ricorso agli ordinari strumenti ermeneutici, e' pervenuto ad un'interpretazione della norma incriminatrice della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, che non viola il principio di tassativita' e legalita'. Ritiene, pertanto, il Collegio che non vi sia spazio per richiedere un intervento della Corte costituzionale sulla norma penale incriminatrice della maternita' surrogata per difetto di tipicita'. L'interpretazione del Tribunale di Pesaro appare corretta in diritto e, conseguentemente, corretta la decisione di improcedibilita' per essere il reato commesso all'estero, in assenza di richiesta del Ministro della Giustizia. 8. Sulla scorta delle esposte ragioni il ricorso del pubblico ministero va rigettato. P.Q.M. Rigetta il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita' e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

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