Sentenze recenti procreazione medicalmente assistita

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. ACIERNO Maria - Presidente Relatore Dott. PARISE Clotilde - Consigliere Dott. TRICOMI Laura - Consigliere Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere Dott. PAZZI Alberto - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 2607/2023 R.G. proposto da Me.Ma., Gr.Cl., elettivamente domiciliati in MILANO VIA (...), presso lo studio dell'avvocato Do. (Omissis) che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati CO.PA. (Omissis), SC.GA. (Omissis) -ricorrente- contro COMUNE DI BARI, elettivamente domiciliato in ROMA VIA (...), presso lo studio dell'avvocato CA.FA. (Omissis) rappresentato e difeso dall'avvocato LO.BA. (Omissis) -controricorrente- nonchè contro Br.Si., elettivamente domiciliata in BARI VIA (...) DOM. DIG., presso lo studio dell'avvocato CO.DO. (Omissis) che lo rappresenta e difende -controricorrente- nonché contro Gr.An. -intimata Procura Generale presso la Corte d'Appello di Bari intimata Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari -intimata MINISTERO DELL'INTERNO, -intimato- avverso la DECRETO di CORTE D'APPELLO BARI n. 1504/2022 depositata il 17/11/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/07/2024 dalla Presidente MARIA ACIERNO. FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Gr.An. e Br.Si., dopo una lunga convivenza more uxorio, hanno contratto matrimonio nel 2016 in N (USA). Hanno successivamente fatto ricorso alla gestazione per altri mediante procreazione medicalmente assistita (d'ora in avanti p.m.a.) attraverso il conferimento di ovocita della Gr.An. fecondato con gamete maschile ed impiantato in utero di una terza gestante al fine di avere un figlio. Nata la minore il 27 novembre 2017, in E, Stato della California, l'atto di nascita, formato in California recava i nomi di Gr.An. e Br.Si. in qualità di genitori (parents). Questo atto su istanza di Gr.An. in data 3 ottobre 2018 veniva trascritto nei registri dello stato civile del Comune di Bari, dopo un iniziale provvedimento di diniego, impugnato dalla Br.Si. e dalla Gr.An. Cessata la relazione sentimentale, il PM presso il Tribunale di Bari, su istanza dei genitori di Gr.An. con ricorso del 4/10/2021, richiedeva la rettificazione dell'atto di nascita nella parte in cui indicava come genitore Br.Si., per assenza di legame biologico con la minore. Deduceva, in particolare il pubblico ministero ricorrente che la trascrizione era viziata dalla difformità tra lo stato di fatto effettivo e quello risultante dall'atto di nascita. Si costituivano Gr.An. e la curatrice del minore aderendo alle ragioni del ricorso. Si costituiva Br.Si., contestando la fondatezza dell'azione di rettifica. 2. Il Tribunale rigettava il ricorso osservando che c'era perfetta corrispondenza tra l'atto formato all'estero e la trascrizione effettuata e che la domanda di rettifica aveva ad oggetto solo la qualità di genitore della Br.Si. così da assumere la veste ed il contenuto di un'azione di rimozione di status non proponibile mediante l'azione di rettificazione degli atti dello Stato civile. La decisione di primo grado è stata impugnata dai genitori di Gr.An. e dal P.M. 3. La Corte d'Appello di Bari ha rigettato le impugnazioni sulla base delle seguenti considerazioni l'iniziativa giudiziaria è stata assunta sulla base dell'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000. La norma prevede che chi intende richiedere la rettificazione di un atto dello stato civile deve proporre ricorso al Tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto. Il P.M. può promuovere l'azione in ogni tempo. L'azione è ammissibile soltanto nelle ipotesi in cui sia diretta ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge e quale risulta dall'atto. Questo è il limitato oggetto dell'azione stessa che non può, conseguentemente avere il contenuto ed essere diretta a costituire o rimuovere uno status. Ciò perché la funzione degli atti dello stato civile è solo quello di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei rispettivi registri. Nel caso di specie c'è perfetta corrispondenza tra l'atto di nascita formato all'estero e quello trascritto. Non è stata proposta domanda ex art. 67 L. n. 218 del 1995 e con l'istanza di rettifica non è stato impugnato l'atto nella sua interezza. Quanto al divieto della surrogazione di maternità, stabilito nell'art. 12, c.6, L. n. 40 del 2004, che secondo i reclamanti costituisce ostacolo di ordine pubblico alla trascrizione dell'atto, ed i principi stabiliti nella sentenza delle S.U. 12193 del 2019, la Corte d'Appello ha condiviso la valutazione del giudice di primo grado, secondo il quale ai sensi dell'art. 33 L. n. 218 del 1995 deve trovare applicazione la legge più favorevole al minore, ovvero la legge americana che garantisce lo status bigenitoriale. Rispetto all'art. 16 L. n. 218 del 1995 che vieta l'applicazione della legge straniera se contrastante con l'ordine pubblico, la Corte territoriale ha osservato che l'art. 12, c.6 L. n. 40 del 2004 impone un divieto ex ante ma non disciplina la situazione concreta post nascita del minore. Ha aggiunto la Corte d'Appello che la sentenza n. 272 del 2017 della Corte Costituzionale richiede un bilanciamento tra favor veritatis e interesse preminente del minore nelle azioni di rimozione degli status. Sempre la Corte costituzionale nella medesima sentenza ha ritenuto che non si debbano mai operare automatismi applicativi in relazione ai diritti dei minori. Nella sentenza n. 12193 del 2019, peraltro, si discuteva del riconoscimento dell'efficacia in Italia di un provvedimento giurisdizionale costitutivo dello status ante trascrizione negli atti dello stato civile. La Corte costituzionale nella successiva sentenza n. 33 del 2021 ha sottolineato l'esigenza di piena tutela del minore in relazione alla bigenitorialità determinata dalla scelta di ricorrere mediante p.m.a. alla procreazione mediante gestazione per altri e di dare rilievo giuridico al legame instaurato da entrambi con il minore in ordine a tutte le esigenze di cura, accudimento ed educazione del minore stesso. Nella specie, rileva la Corte d'Appello, le due componenti la relazione sentimentale cessata hanno condiviso il progetto genitoriale che ha condotto alla nascita della minore e lo hanno attuato, di comune accordo, dal novembre 2017 (nascita della minore) fino alla cessazione della relazione culminata nell'impugnazione della trascrizione nel 2021. Anche dopo, tuttavia, non è mutata la relazione di Br.Si. con la minore, tanto che la stessa ha richiesto nel 2022 la regolamentazione dei rapporti con la minore a causa dell'ostruzionismo della Gr.An. 3.1 In conclusione, la Corte d'Appello concorda con il Tribunale in ordine alla realizzazione dell'interesse preminente della minore solo con la conservazione dello status genitoriale della Br.Si. 4. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione esclusivamente i genitori di Gr.An. Ha resistito con controricorso Br.Si. e il Comune di Bari. Il Ministero dell'Interno ha depositato mero atto di costituzione. Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, confermate nella discussione orale, chiedendo l'accoglimento del ricorso. All'udienza del 23 gennaio 2024 il Collegio con ordinanza interlocutoria ha disposto l'integrazione del contraddittorio mediante notificazione del ricorso al sindaco del Comune di Bari, nella qualità di ufficiale dello stato civile e al Ministero dell'Interno. La causa è stata rimessa all'udienza pubblica del 3 luglio 2024. Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 4. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione degli artt. 16 e 22 della L. n. 218 del 1995; dell'art. 18 D.P.R. 396/2000; 5 e 12 della L. 40 del 2004, per avere la Corte d'Appello ritenuto prevalente l'interesse della minore alla conservazione dello status filiale legittimamente acquisito all'estero ed aver ritenuto applicabile perché coerente con questa finalità la legge americana ex art. 33 L. n. 218 del 1995. La conclusione cui è pervenuta la Corte d'Appello non è condivisibile, secondo le parti ricorrenti, perché è mancata la verifica della compatibilità del provvedimento straniero con la nostra griglia di principi di ordine pubblico internazionale dal momento che lo status filiationis contestato si pone in netto contrasto con l'art. 16 L. n. 218 del 1995 secondo il quale la legge straniera non può essere applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico; con l'art. 65 della medesima legge che individua nell'ordine pubblico il limite unitamente al rispetto dei diritti di difesa per il riconoscimento dei provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità; con il divieto fissato nell'art. 18 D.P.R. n. 396 del 2000 che contiene il divieto di trascrizione degli atti formati all'estero se contrari all'ordine pubblico; con l'art. 12 L. n. 40 del 2004, che sancisce il divieto penalmente sanzionato al ricorso alla gestazione per altri da ritenersi canone di ordine pubblico ex S.U. 12193 del 2019. La Corte d'Appello ha, conseguentemente, violato il sistema di norme sopra delineato nel ritenere che l'interesse del minore possa ritenersi soddisfatto solo con la trascrizione dell'atto di nascita dal momento che la giurisprudenza di legittimità univocamente individua nell'adozione in casi particolari lo strumento che realizza la tutela del minore. Peraltro anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 33 del 2021 ha ritenuto necessario l'intervento del legislatore per consentire il riconoscimento dello status filiationis in situazioni quali quella oggetto del presente giudizio mentre la citata pronuncia n. 272 del 2017 ha ribadito la natura pubblicistica del divieto di maternità surrogata. Del resto la verità biologica della procreazione costituisce un elemento essenziale dell'interesse del minore traducendosi nel diritto alla propria identità mediante il riconoscimento di un rapporto di filiazione veridico. La corrispondenza all'interesse preminente del minore dello strumento dell'adozione in casi particolari è stata infine sancita da S.U. 38162 del 2022 così come la natura di limite di ordine pubblico internazionale del divieto di maternità surrogata. Gli arresti della giurisprudenza italiana sono, infine, coerenti, con quelli della Corte Europea dei diritti umani che lasciano agli Stati la scelta della forma di tutela del minore che non contrasti con il suo preminente interesse. 5. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 95 D.P.R. n. 396 del 2000 per avere la Corte d'Appello ritenuto che non sussista la difformità denunciata dal momento che l'atto trascritto corrisponde integralmente a quello legittimamente formato all'estero, sottolineando come venga richiesta una rettifica parziale laddove la non conformità ai dedotti principi di ordine pubblico dovrebbe travolgere l'intero atto. Le parti ricorrenti evidenziano come la giurisprudenza di legittimità si sia già espressa positivamente in ordine alla rettifica parziale in più fattispecie relative a coppia omogenitoriale femminile, di cui una partoriente e l'altra "intenzionale" e abbia escluso l'integrazione dell'atto nell'ipotesi inversa (Cass. 10844 del 2022) Infine la Corte d'Appello ha trascurato la effettiva difformità dell'atto trascritto che attribuisce alla controricorrente implicitamente una discendenza biologica e genetica che non sussiste. 6. La parte controricorrente in via preliminare deduce la carenza di legittimazione attiva ed interesse ad agire dei ricorrenti. A sostegno dell'eccezione si afferma che i genitori della madre genetica non sono titolari dei diritti dedotti in giudizio e conseguentemente difettano della legitimatio ad causam che richiede la qualità di parte in senso sostanziale e non soltanto in senso processuale. I ricorrenti, peraltro, coscienti del deficit di legittimazione, avevano proposto istanza al p.m. di promozione dell'azione. Si deve, pertanto, escludere che i medesimi ricorrenti abbiano il diritto, in qualità di nonni, di incidere sullo status filiationis della nipote. Non sussiste neanche l'interesse ad agire perché non si ravvisa un interesse personale, in quanto i nonni non fanno parte del nucleo familiare da cui è nata la minore, né un interesse attuale, dal momento che la sollecitazione alla rettifica è intervenuta tre anni dopo la trascrizione dell'atto. Difetta anche la concretezza non essendo stato neanche adombrata negli atti difensivi la sussistenza di un pregiudizio per la minore derivante dalla bigenitorialità cristallizzata nell'atto né un pregiudizio per i ricorrenti. Né il pubblico ministero né la curatrice, portatori dell'interesse alla legalità il primo e della minore la seconda, hanno ritenuto di impugnare la pronuncia della Corte di Appello. L'azione dei nonni della minore si fonda sull'esigenza di garantire alla minore uno status filiationis in regime di legalità del quale la stessa già gode con la trascrizione dell'atto che garantisce alla stessa la conservazione del rapporto genitoriale con entrambe le componenti la coppia che ne ha condiviso del tutto consapevolmente il progetto di nascita e di filiazione. 7. Deve, preliminarmente, essere affrontata l'eccezione d'inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva ed interesse ad agire dei ricorrenti. 7.1 In primo luogo deve rilevarsi che il ricorso è stato notificato sia al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale che presso la Corte d'Appello, mettendo così l'ufficio della Procura Generale presso la Corte d'Appello nella condizione di poter partecipare al giudizio di legittimità eventualmente anche senza assumere la qualità di ricorrente. La scelta è stata invece quella di non partecipare né in qualità di ricorrente né di controricorrente (eventualmente adesivo) alla fase impugnatoria davanti al giudice di legittimità. 7.2 Al fine di esaminare la fondatezza dell'eccezione si ritiene di dover prendere le mosse dal quadro normativo relativo alla individuazione dei soggetti legittimati all'azione di rettifica (art. 95 d.p.r 396 del 2000). L'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, nella versione ratione temporis applicabile, illustra ipotesi normative di legittimazione ad agire nei primi due comma "1.Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al Tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento. 2.Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1". Nel comma 1 è disciplinata la legittimazione ad agire dei soggetti privati; nel comma 2, quella del P.M.; parte pubblica qualificata a promuovere l'azione e a rivestire la qualità di litisconsorte necessario ove vi siano anche altre parti che abbiano promosso l'azione. Per comprendere se l'indicazione normativa dei soggetti legittimati ad agire si fonda sulla sostanziale identità dell'interesse sottostante o se vi sia, al contrario una diversità della posizione giuridica della parte privata e di quella pubblica rispetto all'azione, si ritiene utile esaminare, in chiave comparativa, gli artt. 263 e 264 c.c. che disciplinano la legittimazione ad agire nell'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. Al primo comma dell'art. 263 c.c. è stabilito che l'azione può essere proposta da chiunque vi abbia interesse, così individuando un'ipotesi di legittimazione diversa da quella regolata nel secondo comma, relativa all'autore del riconoscimento. Il P.M. nell'art. 264 c.c. è titolare dell'azione quando il figlio sia minore. La disciplina codicistica stabilisce un termine di prescrizione dell'azione per tutti i soggetti diversi dal figlio. Oltre alla legenda normativa è utile comprendere l'ambito del sindacato giurisdizionale in tema di azione di rettifica degli atti dello stato civile. La giurisprudenza di legittimità al riguardo ha, costantemente ritenuto fin dalle prime pronunce massimate (Cass. 1204 del 1984) che la rettificazione non potesse ritenersi limitata all'emenda di errori materiali ma, proprio in correlazione alla legittimazione all'azione del pubblico ministero fosse da ricondurre all'interesse pubblico alla regolare tenuta dei registri dello stato civile tanto da dover essere attivata anche quando la correzione fosse imposta da sentenza passata in giudicato. Il principio, maturato in un quadro normativo non più vigente (art. 165 r.d. 1238 del 1939) ha trovato conferma e sviluppo nella giurisprudenza successiva, mediante l'elaborazione del principio che si riproduce, non più modificato fino ad oggi e rimasto cardine anche nei successivi approdi giurisprudenziali riguardanti l'omogenitorialità "In tema di rettificazione degli atti dello stato civile, il relativo procedimento, anche nella disciplina vigente, dettata dal D.P.R. n. 396 del 2000, è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dall'atto dello stato civile, per un vizio comunque e da chiunque originato nel procedimento di formazione dell'atto stesso"(Cass.21094 del 2009). La ratio del procedimento rimane quella del controllo di legalità nella tenuta degli atti dello stato civile, così da evitare che vi siano iscrizioni o trascrizioni (di atti esteri, anche di natura giurisdizionale) che riproducano situazioni di fatto contrastanti con il canone predetto, ferma. Però, la natura esclusivamente dichiarativa delle attestazioni degli atti dello stato civile che si riflette anche sui provvedimenti giurisdizionali prodotti dalle azioni previste dall'art. 95 D.P.R. 396 del 2000. (Cass. 4448 del 2024, corredati dei molteplici precedenti conformi), volti a modificare le dichiarazioni contenuti negli atti, non a costituire status. La giurisprudenza di legittimità è ferma nell'evidenziare la differenza tra questa azione e quelli volte alla costituzione o rimozione dello status filiationis e nel sottolineare la funzione pubblicitaria svolta con la iscrizione e trascrizione degli atti dello stato civile, ancorché con efficacia probatoria privilegiata come prescritto nell'art. 451 c.c. (Cass.7413 del 2022; S.U. 12193 del 2019). La funzione dell'azione disciplinata dall'art. 95 D.P.R. n. 396 del 2000 è di adeguamento del contenuto degli atti dello stato civile al parametro della legalità interna, sostanzialmente ancorata al diritto positivo. Neanche il richiamo ai principi di ordine pubblico contenuto nell'art. 18 del D.P.R. n. 396 del 2000 (riferito alla trascrivibilità degli atti formati all'estero) ove oggetto di valutazione giudiziale può modificare i limiti dell'azione che si rivolge solo alla emenda o cancellazione degli atti e non degli status. 7.3 Radicalmente diversa è l'efficacia dell'azione di riconoscimento di atto giurisdizionale estero costitutivo di status, disciplinata dagli art. 67 e ss. della L. 218 del 1995, espressamente qualificata dalle Sezioni Unite civili, nella sentenza n. 12193 del 2019, quale controversia di stato con la pronuncia del seguente principio di diritto "Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero e un cittadino italiano, dà luogo, se non determinato da vizi formali, a una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall'art. 67 della L. n. 218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile destinatario della richiesta di trascrizione, ed eventualmente con il Ministero dell'interno, legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione in virtù della competenza ad esso attribuita in materia di tenuta dei registri dello stato civile". Le S.U., proprio per la specifica finalità del giudizio oggetto di esame, precisano che il p.m. pur essendo litisconsorte non può promuovere l'azione, a differenza del sindaco ed il Ministero degli Interni, in quanto concorrenti all'attuazione della corretta affermazione degli status filiali ed aggiungono puntualmente che le azioni volte alla correzione o cancellazione degli atti dello stato civile, "rivestono una portata più circoscritta rispetto a quelle riguardanti lo stato delle persone". Entro questo più limitato perimetro, il controllo di legalità non può che essere affidato in via esclusiva al pubblico ministero, mentre la legittimazione concorrente dei soggetti privati, non può fondarsi sui medesimi presupposti di vigilanza e tutela dell'interesse pubblico alla corretta tenuta dei registri dello stato civile e alla loro corrispondenza alle previsioni legislative. 7.4 È necessario che vi sia un interesse ad agire espresso nell'atto introduttivo del giudizio e, per quel che interessa, nel ricorso per cassazione. Questo requisito ulteriore si trae in via sistematica sia dalla analoga previsione contenuta nell'art. 263 c.c. sopra citato che da quella contenuta nell'art. 67 L. n. 218 del 1995. Entrambe le norme, ancorché riguardanti controversie di stato, richiedono espressamente la sussistenza di un interesse ad agire, contenendo la previsione "chiunque vi abbia interesse". La costituzione o la rimozione di uno status costituisce statuizione ben più incisiva di quella conseguente all'attivazione della procedura correttiva di cui all'art. 95 D.P.R. n. 396 del 2000, dal momento che la certezza degli status, specie in presenza di minori, ha indubbio rilievo pubblicistico, trattandosi di accertamento nel quale sono coinvolti diritti di rango costituzionale e convenzionale che, tuttavia, a determinate condizioni, possono subire l'ingerenza statale. La legittimazione dei soggetti privati all'interno delle azioni previste e disciplinate dall'art. 95 richiede, in conclusione, la riconoscibilità di un interesse ad agire, diverso da quello attribuito "in ogni tempo" soltanto al pubblico ministero. Non può, infatti, equipararsi questa azione a quella, giuridicamente qualificata quale "azione popolare" che ha ad oggetto il diritto soggettivo perfetto degli elettori ad un controllo rigoroso dei criteri che l'ineleggibilità e l'incompatibilità dei candidati e degli eletti. Peraltro in queste azioni, come ben evidenziato dal paradigma normativo costituito dall'art. 70 D.P.R. n. 267 del 2000, la legittimazione spetta ai cittadini elettori nel perimetro territoriale di competenza. Oltre a questi spetta a chiunque "abbia interesse". Anche per queste azioni volte a tutelare un diritto cardine del nostro sistema democratico è necessario o un collegamento diretto definito dalla circoscrizione di appartenenza diversamente modulata a seconda della competizione elettorale in oggetto o, in mancanza di tale collegamento di un interesse concreto e riconoscibile in giudizio. Interesse concreto che nella specie non è stato neanche dedotto dai ricorrenti i quali si fanno carico esclusivamente delle ragioni di difformità, di carattere generale, delle dichiarazioni contenute nell'atto impugnato, rispetto al modello legale di diritto positivo interno. La necessaria allegazione dell'interesse ad agire è desumibile, oltre alle ragioni sistematiche illustrate, anche dall'utilizzo del pronome "chi" nell'incipit del citato art. 95 invece che "chiunque". L'accertata mancanza di un interesse, nel merito, ad agire nell'azione di rettificazione dell'atto di stato civile in contestazione non esaurisce, tuttavia, l'esame dell'eccezione prospettata. Deve rilevarsi, infatti, che i ricorrenti, come esattamente ricostruito nella narrativa del ricorso e incontestatamente emergente dagli atti di causa, hanno in fase pre giudiziale sollecitato il ricorso del p.m. e successivamente partecipato a tutti e due i gradi di merito. In primo grado il ricorso è stato introdotto dal p.m. che ha anche impugnato la pronuncia del Tribunale. In appello è intervenuto con sue conclusioni il P.G. Il presente giudizio invece è esclusiva conseguenza del ricorso dei genitori della madre genetica. Sono rimasti intimati sia il p.g. d'appello che la madre genetica che pure aveva partecipato ai precedenti gradi di giudizio. Il p.g. di questa Corte ha rassegnato le proprie conclusioni, intervenendo anche alla discussione orale dell'udienza pubblica, ma, trattandosi di giudizio che deve essere promosso dal p.m., tale partecipazione non ne sana la mancata partecipazione in qualità di parte ricorrente o controricorrente, eventualmente adesiva. 8. È necessario, pertanto, in primo luogo, fornire una corretta qualificazione giuridica della partecipazione senza soluzione di continuità delle parti ricorrenti. Per tutte le considerazioni sopra svolte essi non possono che essere considerati intervenienti ad adiuvandum, avendo il diritto di sostenere le ragioni di legalità poste a base dell'azione di rettifica promossa dal p.m. L'interesse speso in giudizio ha carattere di diretta dipendenza rispetto a quello della parte pubblica ma non è per questo privo di tutela giuridica, pur in mancanza di una autonoma legittimazione ad agire nel merito dell'azione. Rimane da comprendere se la partecipazione unitamente alla parte principale (p.m. ricorrente), all'altra parte titolare di un autonomo interesse a promuovere ed agire nel giudizio (la madre genetica), dei ricorrenti ai due gradi di merito possa aver creato un litisconsorzio processuale, così da ritenere sufficiente la proposizione del ricorso da essi soltanto, una volta che sia stato correttamente instaurato il rapporto processuale. 8.1 Al riguardo deve rilevarsi una non perfetta univocità negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità al riguardo. L'orientamento nettamente prevalente, sul piano quantitativo che esclude la formazione del litisconsorzio processuale in fattispecie del tutto sovrapponibili a quella oggetto del presente giudizio esprime il seguente principio di diritto "L'intervento adesivo dipendente, previsto dall'art. 105, secondo comma, cod. proc. civ., dà luogo ad un giudizio unico con pluralità di parti, nel quale i poteri dell'intervenuto sono limitati all'espletamento di un'attività' accessoria e subordinata a quella svolta dalla parte adiuvata, potendo egli sviluppare le proprie deduzioni ed eccezioni unicamente nell'ambito delle domande ed eccezioni proposte da detta parte; ne consegue che, in caso di acquiescenza alla sentenza della parte adiuvata, l'interventore non può proporre alcuna autonoma impugnazione, né in via principale né in via incidentale".(Cass.24370 del 2006; 4929 del 2003; 10146 del 1998¸10252 del 1997). Secondo questo orientamento, la natura subordinata ed accessoria dell'intervento ad adiuvandum conduce ad escludere l'autonoma impugnabilità di una pronuncia che la parte principale ha deciso di non impugnare poiché i poteri processuali di questa peculiare tipologia d'interveniente traggono esclusiva origine e legittimazione dalla partecipazione in giudizio della parte adiuvata, non possono oltrepassare questo limite, salvo che l'impugnazione riguardi solo la statuizione sulle spese, in relazione alla quale una posizione giuridica autonoma può configurarsi. Un orientamento contrario, si fonda sulla inscindibilità del rapporto che si crea tra interventore ad adiuvandum e parte principale, con conseguente applicazione dell'art. 331 c.p.c. nei gradi successivi al primo "atteso che se è consentito ad un soggetto di intervenire per sostenere le ragioni di una delle parti in causa, restando unico ed indivisibile il giudizio, si deve necessariamente configurare un litisconsorzio processuale nei successivi giudizi di impugnazione poiché le ragioni che consentono e giustificano la presenza di parti accessorie non si esauriscono in un grado di giudizio persistendo l'interesse dell'interventore adesivo ad influire con una propria difesa sull'esito della lite. Il principio è stato espresso in Cass. 6760 del 1996 e ripreso dalla più recente Cass. 6357 del 2022. Il Collegio non ritiene di dare continuità a questo orientamento, del tutto minoritario, e con riferimento alla pronuncia più recente, privo di un confronto critico con lo stratificato orientamento contrario. Si ritiene che la "inscindibilità" della posizione della parte principale con quella dell'interventore ad adiuvandum, affermata nella pronuncia n. 2760 del 1996, può essere sostenuta al fine di sottolineare il vincolo di subordinazione e dipendenza della seconda dalla prima e non per invocare impropriamente l'applicazione dell'art. 331 c.p.c., creando un vincolo processuale inscindibile con un partecipante al processo che è privo di un proprio interesse ad agire ed a contraddire ma, in via indiretta, ha interesse a sostenere le ragioni di una parte. Ragioni che possono medio tempore non essere più proprie della parte principale con esposizione al concreto rischio di un contrasto potenziale tra giudicati nel caso si ritenga che l'esito del giudizio portato avanti dal solo interventore ad adiuvandum non possa vincolare le parti che hanno prestato acquiescenza. Più gravi le conseguenze nell'ipotesi contraria, ove si ritenga che invece l'acquiescenza delle parti non costituite non escluda il travolgimento della decisione precedente, con reale pregiudizio per esse, essendosi formato un pieno litisconsorzio processuale. Ove si cali nel caso di specie l'astratta applicazione di questo minoritario principio della giurisprudenza di legittimità, deve osservarsi che l'accoglimento del ricorso ove riferito in via esclusiva all'interventore ad adiuvandum, sarebbe inidoneo a rettificare l'atto; nell'ipotesi contrapposta determinerebbe la rettifica dell'atto nonostante la sopravvenuta carenza d'interesse delle parti. 8.2 In conclusione, dal difetto di legittimazione ad agire per mancanza di un interesse proprio delle parti ricorrenti consegue la loro qualificazione giuridica di intervenienti ad adiuvandum e la inammissibilità della autonoma ed esclusiva impugnazione della pronuncia di secondo grado. 9. La novità delle questioni sostanziali e processuali trattate induce alla compensazione integrale delle spese processuali. L'attinenza alla materia minorile esclude l'applicabilità del raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese processuali. In caso di diffusione omettere le generalità. Così deciso il 3 luglio 2024. Depositato in Cancelleria l'11 settembre 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10113 del 2023, proposto da -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Cl., Se. Do. e Fe. Gu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. An. Cl. in Roma, via (...), contro la Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...), nei confronti di -OMISSIS- Casa di Cura Privata, non costituita in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS- resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Lazio; Visti tutti gli atti della causa; Relatrice, nell'udienza pubblica del giorno 20 giugno 2024, il Cons. Stefania Santoleri e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - La società -OMISSIS- è titolare del "Centro -OMISSIS-": si tratta di una struttura autorizzata dalla Regione Lazio alla erogazione di prestazioni di tecniche di procreazione medicalmente assistita (-OMISSIS-) di I, II e III livello. Il Centro è iscritto dal 2017 nel Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita istituito dall'Istituto Superiore di Sanità ai sensi dell'art. 11 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, ove sono individuate le strutture autorizzate all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita operanti nelle varie Regioni, ed espressamente individuato come Centro operante nel Lazio. In data 12 marzo 2021, con atto prot. n -OMISSIS-, l'Istituto Superiore della Sanità ha confermato la certificazione di conformità del Centro IVI "ai requisiti previsti per i Centri di -OMISSIS- dai D.Lgs. 191/2007 e 16/2010". Il Centro -OMISSIS- è autorizzato alla -OMISSIS- di I, II e III Livello in forza di Determina della Regione Lazio G13960 del 23 novembre 2020, prot. n. 1033939 del 26 novembre 2020. 1.1 - Le prestazioni di procreazione medicalmente assistita (in seguito -OMISSIS-) possono richiedere l'assunzione di determinati farmaci prima dell'esecuzione dell'intervento; in tal caso i pazienti devono assumere taluni medicinali classificati in fascia A (e quindi con oneri a carico del SSN), sottoposti a nota AIFA -OMISSIS- (ex nota CUF -OMISSIS-). Con l'apposizione della "Nota" da parte dell'AIFA il farmaco viene rimborsato dal SSN solo per le specifiche indicazioni ivi individuate; la prescrizione della "Nota" garantisce, infatti, la corretta prescrizione del prodotto rispondendo anche ad evidenti ragioni di finanza pubblica, evitando l'uso improprio del medicinale, specie se si tratta di un farmaco molto costoso. 1.2 - Per la prescrizione di farmaci per la -OMISSIS-, rimborsabili dal SSN, la Regione Lazio, ha adottato: a) la Circolare n. -OMISSIS- (emessa prima dell'emanazione della legge nazionale 19 febbraio 2004, n. 40, regolatrice in via generale della -OMISSIS-), con la quale ha individuato i Centri pubblici e privati in cui si praticano tecniche di procreazione medicalmente assistita di I e di II livello autorizzati alla prescrizione del Piano terapeutico dei farmaci soggetti a Nota CUF n. -OMISSIS-, dando disposizioni operative per la relativa procedura; b) la circolare 19 aprile 2007 con la quale ha chiarito che "i centri abilitati alla prescrizione del pianto terapeutico sono quelli individuati dalla circolare regionale -OMISSIS-, nelle more di una verifica del rispetto dei requisiti minimi di cui all'art. 7 della Legge 40 n. 40 del 19.02.2004"; c) la circolare n. 261331/GR/11/02 del 18 maggio 2016, con la quale, superando espressamente "quanto stabilito dalla Circolare n. -OMISSIS-", ha aggiornato l'elenco delle "strutture regionali autorizzate alla prescrizione del Piano Terapeutico dei farmaci soggetti a nota AIFA -OMISSIS-", escludendo tutti i centri privati, seppure autorizzati alla connessa attività di -OMISSIS-. Tale ultima circolare è stata annullata dal TAR Lazio con la sentenza n. -OMISSIS- passata in giudicato. Dopo l'annullamento in sede giurisdizionale della nuova circolare la Regione Lazio non ha provveduto a regolamentare la materia nonostante avesse chiarito, fin del 2007, che l'elenco del 2000 era stato redatto transitoriamente ("nelle more di una verifica del rispetto dei requisiti minimi di cui all'art. 7 della Legge 40 n. 40 del 19.02.2004"). 1.3 - Il Centro "-OMISSIS-", essendo stato autorizzato all'esecuzione di prestazioni di -OMISSIS- nel 2017, non risulta inserito nell'elenco del 2000; poiché nel frattempo non è stato adottato alcun provvedimento regolatorio da parte della Regione Lazio, eccetto quello annullato dal TAR con la sentenza prima richiamata, passata in giudicato, il Centro -OMISSIS- ha ritenuto che la precedente disciplina recata nel 2000 fosse venuta meno e che, in assenza di una nuova regolamentazione, fosse possibile prescrivere alle proprie pazienti il Piano Terapeutico per la Nota -OMISSIS- prescrivendo i farmaci in questione con oneri a carico del SSR. 1.4 - Secondo la ricorrente, infatti, la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (che ha disciplinato la materia della -OMISSIS-, introducendo le regole per il suo esercizio da parte delle strutture iscritte nel Registro presso l'Istituto Superiore della Sanità ), e la titolarità dell'autorizzazione da parte della Regione all'esercizio di tale attività, le avrebbero consentito di prescrivere ai propri assistiti il Piano terapeutico per i farmaci soggetti a Nota AIFA -OMISSIS-, in quanto, come espressamente sottolineato dal TAR Lazio nella sentenza passata in giudicato n. 2643/2018 "...coessenziali anche all'attività di prescrizione dei Piani terapeutici". 1.4 -Il Centro -OMISSIS-, non avendo ottenuto riscontro da parte della Regione alle proprie richieste di chiarimenti circa tale possibilità, ha quindi iniziato a prescrivere ai propri assistiti il Piano Terapeutico di cui alla Nota AIFA n. -OMISSIS-. 1.5 - Al suddetto Centro è pervenuta la nota della Dirigente Responsabile della Farmacia Territoriale della ASL di Bari in data 2 marzo 2022, con la quale quest'ultima ha comunicato ad una paziente del Centro "-OMISSIS-" che i farmaci acquistati per il "Piano Terapeutico di cui alla Nota AIFA -OMISSIS-" non potevano esserle rimborsati dal SSN, perché "a seguito di verifiche effettuate con la Regione Lazio, la struttura IVI, nella suddetta regione, è autorizzata alla -OMISSIS-, ma non è autorizzata alla redazione di piani terapeutici, finalizzati alla prescrizione con rimborsabilità del SSN dei farmaci per la -OMISSIS-. Per quanto sopra, sulla base del piano terapeutico da lei ricevuto, i farmaci indicati nello stesso non sono rimborsabili dal SSN e sono pertanto a suo carico". 1.6 - La ricorrente in data 14 marzo 2022 ha immediatamente chiesto alla Regione Lazio notizie in merito e nel contempo, ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241/1990, ha richiesto tutti gli atti in base ai quali la Regione ha ritenuto che il Centro "-OMISSIS-" dovesse essere escluso dalle strutture autorizzate alla prescrizione del Piano terapeutico dei farmaci soggetti a nota AIFA -OMISSIS- a carico del SSN. 2. - Con atto ricevuto in data 13 aprile 2022 "Registro Ufficiale-OMISSIS-", la Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Area Farmaci e Dispositivi della Regione Lazio, in riscontro alla predetta istanza, ha dichiarato che il Centro IVI non poteva prescrivere il Piano Terapeutico con la Nota AIFA -OMISSIS- perché la struttura era solo autorizzata e non accreditata; la presenza nell'elenco allegato alla Circolare del 2000 di strutture solo autorizzate (e non anche accreditate) era dovuto alla "carenza delle strutture pubbliche operanti nella fecondazione assistita"; con una successiva circolare del 2016, tale potere era stato attribuito alle sole strutture pubbliche, ma tale provvedimento era stato annullato dal TAR Lazio; secondo la Regione ciò avrebbe fatto rivivere la precedente regolamentazione, in attesa che la stessa Regione provvedesse all'accreditamento dei centri privati sulla base del fabbisogno regionale. 2.1 - Tale provvedimento, insieme all'atto adottato nei confronti della paziente del Centro IVI, sono stati impugnati innanzi al TAR del Lazio. 3. - Il TAR, con sentenza n. -OMISSIS-, pur affermando di accogliere il ricorso "nei limiti di cui in parte motiva", lo ha sostanzialmente respinto, omettendo anche di pronunciarsi su alcuni motivi dedotti dalla ricorrente. 4. - Avverso tale decisione la ricorrente ha proposto appello, articolato sulla base di due motivi di censura. 4.1 - Si è costituita la Regione Lazio replicando con memoria alle doglianze proposte e chiedendone il rigetto. 4.2 - Con memoria del 20 maggio 2024 l'appellante ha insistito nelle proprie tesi difensive chiedendone l'accoglimento. 4.3 - Alla camera di consiglio del 25 gennaio 2024 con ordinanza n. -OMISSIS- la causa è stata rinviata al merito. 5. - All'udienza pubblica del 20 giugno 2024 l'appello è stato trattenuto in decisione. 6. - L'appello è fondato e va, dunque, accolto. 7. - Innanzitutto è opportuno sottolineare che la sentenza di primo grado presenta evidentissimi vizi di violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto non ha esaminato in modo adeguato tutti i profili di doglianza sollevati nel ricorso di primo grado; anche la statuizione finale di "accoglimento" del ricorso non è pertinente rispetto al petitum: a fronte della richiesta della ricorrente di annullamento del diniego di prescrizione del piano terapeutico relativo alla Nota -OMISSIS- per i propri pazienti, il TAR ha accolto il ricorso ritenendo che "l'Amministrazione sia incorsa nella violazione del dovere di provvedere e nella violazione della legge n. 241/1990 nella parte in cui impone alle Regione l'adozione di provvedimenti o comunque lo svolgimento di un'attività amministrativa necessaria per garantire a tutti i cittadini il diritto di ricorrere alla -OMISSIS- in caso di necessità ". Tale decisione - sebbene riporti il dispositivo di accoglimento - non può ritenersi satisfattiva delle ragioni della ricorrente in primo grado; la motivazione, sovrabbondante su aspetti non pertinenti alla fattispecie in esame (richiamo alla disciplina relativa all'autorizzazione e all'accreditamento delle strutture private, artt. 8 ter e 8 quater del d.lgs. n. 502/1992) si appalesa assai scarna relativamente alla questione centrale della controversia. 7.1 - Nondimeno, dalla disamina del testo si riesce ad evincere la condivisione della tesi regionale circa il necessario previo accreditamento del Centro; il primo giudice ha pure accolto la tesi attorea circa l'ingiustificata disparità di trattamento tra le strutture solo autorizzate inserite nell'elenco annesso alla circolare del 2000, e quelle che (come la ricorrente) hanno iniziato ad operare successivamente; per tale ragione ha adottato il dispositivo di accoglimento del ricorso di primo grado "nei ristretti limiti e per le ragioni di cui si è detto". 7.2 - La decisione, in definitiva, ha respinto il petitum principale della ricorrente (annullamento del diniego di prescrizione del Piano terapeutico relativo alla Nota AIFA -OMISSIS- in quanto Centro solo autorizzato e non accreditato con la Regione Lazio) pronunciandosi sull'obbligo di provvedere da parte della stessa Regione alla nuova regolamentazione della disciplina in seguito al giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lazio n. -OMISSIS- domanda non proposta dalla parte ricorrente, incorrendo anche nel vizio di ultrapetizione. 7.3 - Ne consegue che l'appello, con cui sono dedotti i vizi di omessa pronuncia e di ultrapetizione, si appalesa ammissibile e che le carenze della sentenza, in applicazione del principio devolutivo, possono essere colmate in appello (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08/07/2022, n. 5718; Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2018, nn. 10 e 11). Svolte queste premesse può procedersi alla disamina del merito. 8. - Con il primo motivo l'appellante ha dedotto i vizi di violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul vizio dedotto con il primo motivo del ricorso e di violazione degli artt. 7, 10 e 17 della L. 19 febbraio 2004, n. 40, di violazione della circolare della Regione Lazio del 19 aprile 2007, di violazione degli artt. 32 e 3 Cost. rilevando anche i vizi di motivazione illogica e insufficiente. 8.1 - Con il primo motivo del ricorso di primo grado, la ricorrente, infatti, aveva dedotto che: - la legge n. 40/2004 ha disciplinato integralmente la materia, prevedendo Linee guida vincolanti per tutte le strutture autorizzate; - l'art. 10 della suddetta legge prevede che "Gli interventi di procreazione medicalmente assistita sono realizzati nelle strutture pubbliche e private autorizzate dalle regioni e iscritti al registro di cui all'art. 11" (registro nazionale tenuto presso l'Istituto Superiore di Sanità presso cui sono iscritte le strutture autorizzate all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, degli embrioni formati e dei nati a seguito dell'applicazione delle tecniche medesime); - l'art. 17 della stessa legge, dispone, in via transitoria, l'applicazione - in attesa del recepimento della disciplina da parte delle Regioni - della normativa prevista nella stessa legge nazionale; - la circolare del 2000 contempla - tra le strutture autorizzate alla redazione del Piano Terapeutico relativo alla Nota -OMISSIS- - sia centri pubblici che privati, anche se non accreditati; - in base alla circolare della Regione Lazio del 2007 prima richiamata, la disciplina di tale circolare doveva ritenersi transitoria, essendo destinata ad essere rivista dopo il recepimento della L. n. 40/2004 a livello regionale; - le tecniche di -OMISSIS- ricadono nei LEA e, quindi, devono essere assicurate in tutte le Regioni; - il Centro che eroga tali prestazioni non deve essere necessariamente accreditato con il SSR in quanto la struttura non pretende il rimborso da parte della Regione delle prestazioni che eroga in favore degli assistiti, limitandosi a prescrivere ai propri pazienti, ove occorra, l'uso di determinati farmaci per agevolare la procreazione; nelle altre Regioni le strutture sanitarie iscritte nel registro di cui all'art. 11 della legge n. 40/2004 possono redigere il Piano Terapeutico per l'acquisto, con oneri a carico del SSR, dei farmaci necessari per le tecniche di -OMISSIS- senza essere accreditate con la Regione di appartenenza (circostanza non contestata dalla parte appellata); - i farmaci in questione, in quanto rimborsabili dal SSN possono essere prescritti anche dal medico di medicina generale, in base alla diagnosi e sulla base di un Piano Terapeutico indicato dalle strutture autorizzate e verificato dal medico di base; - la Regione non potrebbe limitare l'elenco dei farmaci o incidere sulla loro rimborsabilità, in quanto tale potere compete esclusivamente all'AIFA; nelle altre Regioni non vi sarebbero le preclusioni al rimborso dei medicinali in questione se non sono stati prescritti da strutture pubbliche o private accreditate o private autorizzate entro una certa data, come previsto, invece, nella Regione Lazio. Secondo l'appellante, su tali profili di doglianza, che costituiscono il nucleo centrale del ricorso di primo grado, il TAR non si sarebbe sostanzialmente pronunciato, con la conseguenza che la sentenza sarebbe affetta dal vizio di violazione dell'art. 112 c.p.c., oltre che dai vizi violazione di legge e di eccesso di potere evocati nella doglianza. 8.2 - Con lo stesso motivo la ricorrente aveva anche denunciato l'illegittimità della tesi della Regione Lazio, secondo cui il Centro ricorrente non avrebbe potuto prescrivere il Piano Terapeutico in quanto non incluso nell'elenco delle strutture individuate con la Circolare del 2000; inoltre, non avendo impugnato la Circolare del 2016, non avrebbe potuto avvalersi del giudicato formatosi sulla sentenza del TAR che lo aveva annullato. A questo proposito la ricorrente aveva rilevato che: - essa non aveva impugnato la Circolare del 2016 in quanto aveva iniziato a svolgere l'attività nel 2017; - l'annullamento della circolare avrebbe avuto efficacia erga omnes; - il diniego di rimborso dei farmaci relativi al piano terapeutico di cui alla Nota -OMISSIS- sarebbe illegittimo perché la Regione non avrebbe regolamentato la materia dopo l'annullamento della circolare del 2016 che aveva sostituito quella del 2000; ha ricordato che il Piano terapeutico sarebbe spesso imprescindibile per raggiungere le finalità proprie della -OMISSIS- come stabilito dalla legge n. 40/2004. 9. - Come già anticipato, il primo giudice ha condiviso la tesi regionale secondo cui la prescrizione del Piano Terapeutico non sarebbe stata possibile in assenza dell'accreditamento; poi travisando il secondo profilo del primo motivo (diretto a sostenere l'illogicità ed irragionevolezza della tesi regionale, visto che nell'elenco dei soggetti autorizzati vi erano anche centri privati non accreditati), il TAR, senza pronunciarsi sulla domanda di annullamento dell'atto come richiesto nel ricorso, ha accolto il ricorso di primo grado ordinando alla Regione di procedere alla regolamentazione della materia. 10. - Nell'appello l'appellante ha censurato tale statuizione ricordando che il richiamo alla normativa relativa all'accreditamento delle strutture sanitarie private (art. 8-quater del d.lgs. 502/1992) sarebbe inconferente, sia perché la -OMISSIS- è disciplinata da una lex specialis (la legge n. 40/2004) seguita dalla Linee Guida nazionali vincolanti, sia perché nella fattispecie non si discute delle spese sostenute per visite specialistiche ed esami, ma solo del rimborso dei farmaci, i cui criteri di rimborsabilità sono fissati dall'AIFA; ha quindi dedotto che, in sintesi, il primo giudice non avrebbe esaminato le doglianze prospettate limitandosi a recepire la tesi regionale senza alcuna effettiva motivazione. 10.1 - L'appellante ha quindi sottolineato che i farmaci per la -OMISSIS- sono rimborsabili dal SSN; il paziente dispone della facoltà di scelta circa il centro cui rivolgersi (se pubblico o privato) per combattere l'infertilità e se i farmaci sono a carico del SSN deve poterne ottenere il rimborso. Anche tali aspetti non sarebbero stati esaminati dal giudice di prime cure. 11. - Con il secondo motivo l'appellante ha dedotto la violazione dell'art. 112 c.p.c. sotto altro profilo, i vizi di motivazione illogica e contraddittoria, la mancata pronuncia sul secondo motivo di ricorso. La ricorrente aveva dedotto in primo grado l'illegittimità della nota impugnata, deducendo i vizi di eccesso di potere per disparità di trattamento, illogicità, irragionevolezza e contraddittorietà, sottolineando che l'attuale sistema consente solo alle strutture sanitarie inserite nell'elenco risalente all'anno 2000 di prescrivere il piano terapeutico; tra queste strutture vi sono centri privati non accreditati: ciò dimostrerebbe la fallacia della tesi regionale ed il vizio di disparità di trattamento. 11.1 - Il TAR, come già rilevato, si è limitato ad accogliere il ricorso ordinando alla Regione di provvedere a ridisciplinare la materia, ma non si è pronunciata formalmente sull'illegittimità del diniego per disparità di trattamento; l'appellante ha quindi sostenuto che dalla sentenza non sarebbe possibile desumere se il Centro IVI possa prescrivere il Piano Terapeutico di cui alla Nota AIFA -OMISSIS- o meno, in attesa che la Regione provveda alla nuova regolamentazione. 12. - Nella propria memoria la Regione Lazio ha precisato che: - nessuna struttura privata soltanto autorizzata può prescrivere farmaci a carico del SSN; - i centri privati possono prescrivere il Piano Terapeutico, ma i farmaci restano a carico dei pazienti; - ove si consentisse alle strutture private solo autorizzate per le prestazioni di -OMISSIS- di prescrivere farmaci a carico del SSR, si creerebbe un'evidente disparità di trattamento con le altre strutture private che esercitano differenti attività sanitarie; - nella Regione Lazio la possibilità di prescrivere farmaci a carico del SSR da parte di strutture private può essere consentita - al pari di tutte le prestazioni sanitarie - solo in presenza del possesso del titolo di accreditamento; - la Regione non può procedere a nuovi accreditamenti e a concessioni extra ordinem rispetto a quelle esistenti nel 2000, per motivi di contenimento della spesa sanitaria e per evitare la disparità di trattamento tra le strutture private. 13. - La prospettazione della Regione Lazio non risulta condivisibile. Occorre partire dal nucleo centrale della presente controversia e cioè dalla tesi della Regione Lazio secondo cui solo i centri autorizzati per i trattamenti -OMISSIS-, muniti di accreditamento, possono prescrivere il piano terapeutico relativo alla Nota AIFA -OMISSIS- e, quindi, i farmaci necessari per la fase propedeutica all'intervento con oneri a carico del SSR. Detta affermazione sconta un evidente vizio di contraddittorietà con la disciplina dettata dalla stessa Regione Lazio in materia: la circolare del 2000, risalente ad una data antecedente alla legge n. 40/2004, consente a determinate strutture private, non accreditate, di prescrivere il piano terapeutico relativo alla nota AIFA -OMISSIS- da oltre 20 anni, rimborsando il costo dei farmaci ivi indicati. È del tutto evidente che se effettivamente ricorressero gli impedimenti normativi evocati (ma non espressamente indicati, in quanto risulta alquanto generico il rinvio al d.lgs. n. 502/1992), ciò non sarebbe stato possibile. A ciò può aggiungersi che in altre Regioni italiane tale preclusione non sussiste: qualunque centro iscritto nel registro ex art. 11 della l. n. 40 del 2004 tenuto dall'I.S.S. può redigere il piano terapeutico e prescrivere i farmaci necessari per la -OMISSIS-, considerato che la somministrazione di tali medicinali fa parte del trattamento di fecondazione assistita, come emerge in modo chiaro dalla disamina delle Linee Guida; si tratta, infatti, di una prestazione rientrante nei LEA, che deve essere quindi fornita in tutto il territorio nazionale. 13. - Secondo quanto previsto dall'AIFA (Nota AIFA -OMISSIS-) la prescrizione del piano terapeutico deve essere eseguita da parte di "strutture specialistiche secondo modalità adottate dalle Regioni o Province autonome": costituiscono sicuramente strutture specialistiche abilitate i centri iscritti nel registro l'I.S.S. di cui all'art. 11 della L. n. 40/2004 che sono gli unici autorizzati ad eseguire tali prestazioni; si tratta quindi di verificare se le ragioni addotte dalla Regione Lazio per giustificare il diniego impugnato possano ritenersi legittime, in quanto espressione del potere spettante alla Regione di definire "le modalità " adottate per la prescrizione. Tali ragioni non sono persuasive: la disparità di trattamento paventata dalla Regione con riferimento alle altre strutture sanitarie che operano in settori diversi della -OMISSIS-, è facilmente confutabile se si considera che da oltre 20 anni esiste una palese disparità di trattamento tra centri privati a seconda se siano o meno iscritti nell'elenco del 2000; trattandosi di centri che svolgono la medesima attività la diversità di trattamento risulta ben più grave ed ingiustificata; in tale regime i centri istituiti anteriormente godono di una rendita di posizione che è negata a quelli che hanno ottenuto l'autorizzazione ad operare dopo l'anno 2000 senza alcuna valida giustificazione, non potendo addursi ragionevolmente a sostegno di tale tesi la carenza di fabbisogno e la necessità di contenere la spesa pubblica. Il principio di concorrenza che permea tutta l'attività economica opera anche in materia sanitaria, come può evincersi chiaramente anche dalla normativa di settore (cfr., ad es. l'art. 8-quater, comma 3, del d.lgs. 502/1992). Infine, la diversa disciplina normativa e l'oggetto della prestazione in contestazione, essendo - come detto - l'erogazione delle prestazioni di -OMISSIS- e la preliminare prescrizione dei farmaci necessari disciplinate da una legge speciale ad hoc, non consentono di prospettare seriamente una questione di disparità di trattamento con il regime riservato alle case di cura che operano in altre branche. 13.1 - Quanto al contenimento della spesa pubblica è opportuno richiamare la ratio che ha indotto il legislatore ad introdurre le Note CUF, oggi Note AIFA. Correttamente l'appellante ha richiamato quanto indicato nel sito ufficiale AIFA a proposito delle "Note": "Le Note AIFA sono lo strumento regolatorio che definisce le indicazioni terapeutiche per le quali un determinato farmaco è rimborsabile a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Le Note possono essere introdotte in tre casi: - quando un farmaco è autorizzato per diverse indicazioni cliniche, di cui solo alcune per patologie rilevanti; - quando il farmaco è finalizzato a prevenire un rischio che è significativo solo per uno o più gruppi di popolazione; - quando il farmaco si presta non solo a usi di efficacia documentata, ma anche a usi impropri. In questi casi, attraverso le Note, l'AIFA individua, tra tutte le indicazioni per le quali il farmaco è autorizzato, quelle per cui il SSN si fa carico di rimborsare la spesa in un'ottica di sanità pubblica, orientando in questo modo le scelte terapeutiche verso una migliore efficacia e una maggiore sicurezza d'uso. Le Note AIFA rappresentano quindi lo strumento regolatorio volto a garantire un uso appropriato dei medicinali, indirizzando l'attività prescrittiva dei medici sulla base delle evidenze presenti in letteratura, senza tuttavia interferire con la libertà di prescrizione del medico". "Introdotte nel 1993 a seguito dell'istituzione del nuovo Prontuario Terapeutico del Servizio Sanitario Nazionale e originariamente pensate come strumento di governo della spesa farmaceutica, le Note sono progressivamente diventate un mezzo per assicurare l'appropriatezza d'impiego dei farmaci, orientando, in alcuni casi, le scelte terapeutiche a favore di molecole più efficaci e sperimentate. Le Note partono dal farmaco, indicando per quali patologie e in quali condizioni il suo utilizzo è riconosciuto rimborsabile dal Servizio Sanitario Nazionale". 13.2 - Secondo la Regione l'attuale sistema basato sulla circolare del 2000, risponderebbe a finalità economiche: ove si consentisse a tutti i centri privati che eseguono trattamenti di -OMISSIS- di prescrivere i (costosi) farmaci per l'esecuzione dell'intervento con oneri a carico del SSR, la spesa farmaceutica regionale aumenterebbe. 13.2 - Tale tesi, oltre a non essere condivisibile per le ragioni di seguito esposte, si pone in contrasto con i principi costituzionali recati dall'art. 3 e 32 Cost. 13.3 - Neppure può addursi il riferimento all'ordinario regime previsto per la prescrizione dei farmaci a carico del SSN: è notorio che tali medicinali possono essere prescritti dal medico di medicina generale (medico di famiglia), dalle strutture sanitarie pubbliche e da quelle accreditate. Nondimeno occorre considerare che va distinta la fase relativa alla prescrizione del Piano terapeutico da quella relativa alla prescrizione dei farmaci ivi indicati, in quanto le due attività possono essere eseguite da soggetti differenti: mentre il Piano terapeutico deve essere redatto dalle strutture autorizzate (nel caso di specie da parte dei Centri iscritti nel Registro presso l'I.S.S.) i farmaci indicati nel Piano terapeutico, invece, possono essere prescritti anche dal medico di medicina generale; l'art. 70, comma 3, della legge n. 448/1998 ha permesso di superare i vincoli dell'art. 8 del d.lgs. n. 539/1992 (relativo ai farmaci soggetti a prescrizione limitativa) consentendo anche al medico di medicina generale di prescrivere i medicinali previsti da uno specifico piano terapeutico. Pertanto, consentire ai centri privati di prescrivere il Piano Terapeutico ed i farmaci necessari alle prestazioni di -OMISSIS- non dovrebbe comportare effetti distorsivi sulla spesa sanitaria; del resto le altre Regioni italiane lo consentono senza particolari problemi. 14. - Ritiene quindi il Collegio che dalla disamina delle Linee Guida relative alla legge n. 40/2004 (cfr., da ultimo, le ultime Linee guida 2024) risulta che l'attività rientrante nell'autorizzazione rilasciata ai centri iscritti nel registro tenuto presso l'I.S.S. comprende anche la fase preparatoria all'intervento, consistente nella somministrazione dei farmaci necessari: pertanto, l'autorizzazione all'esercizio di tale attività non può non ricomprendere la redazione del Piano terapeutico da parte del medico specialista che opera nel centro autorizzato, atto che consente, poi, al medico di medicina generale, di prescrivere i farmaci in fascia A apponendo la Nota -OMISSIS-, superandosi in questo modo i rilievi della Regione Lazio secondo cui tali farmaci non potrebbero essere prescritti da una struttura privata, con oneri a carico del SSR. Inoltre, i centri autorizzati sono monitorati e sottoposti a verifica periodica da parte dell'I.S.S.; non risulta pertanto credibile che prescrivano un piano terapeutico "in assoluta libertà e fuori da ogni controllo", tenuto conto degli effetti collaterali, talvolta anche gravi, che possono derivare dalla non corretta somministrazione di tali medicinali. 15. - Infine è opportuno ricordare che, come ha chiarito la Corte costituzionale nelle sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, le tecniche di fecondazione assistita rientrano nel concetto di "cura" e sono oggetto di "prestazioni mediche" in quanto incidono sulla salute fisica e psichica della coppia ed attengono a quel "nucleo irriducibile del diritto alla salute" inteso sia come libertà dell'individuo, sia quale diritto sociale ad una prestazione essenziale da parte del SSN. Pertanto la pratica di -OMISSIS- rientra nell'ambito dei LEA, e dunque per essa deve essere assicurata alle coppie che ne hanno bisogno la relativa assistenza con oneri a carico del SSN quanto alla componente farmaceutica, così come stabilito dall'AIFA che ha classificato i medicinali in questione in fascia A. 16. - Venendo ora alla fattispecie specifica in esame, ritiene il Collegio illegittimo il diniego impugnato, in quanto le ragioni addotte dalla Regione Lazio (mancato accreditamento del Centro -OMISSIS-) non giustificano l'adozione dell'atto: - la normativa nazionale (Linee Guida relative alla legge n. 40/2004) considera la somministrazione dei farmaci come parte integrante del processo di -OMISSIS-; - tale principio era stato espresso nella sentenza del TAR Lazio n. 2643 del 8 marzo 2018, passata in giudicato, secondo cui nei procedimenti di -OMISSIS- "risulta coessenziale anche l'attività di prescrizione dei Piani terapeutici (...) alla luce delle Linee Guida ministeriali nel frattempo emanate"; - la circolare n. 5 del 2000, adottata prima della regolamentazione della materia, intervenuta con la legge n. 40 del 2004 e seguita dalle Linee Guida (più volte aggiornate) che hanno chiaramente ricompreso tutta la fase propedeutica all'intervento di -OMISSIS- come parte integrante dello stesso, è stata ritenuta dalla stessa Regione Lazio, con la successiva circolare del 2007, una disciplina provvisoria dettata "nelle more di una verifica del rispetto dei requisiti minimi di cui all'art. 7 della legge n. 40 del 19.02.2004"; - la tesi regionale secondo cui il divieto di prescrizione del piano terapeutico da parte dei centri non inclusi nell'elenco allegato alla circolare n. 5 del 2000 si fonderebbe su quanto stabilito dalla predetta circolare non può essere condivisa, in quanto tale atto (anteriore alla disciplina normativa relativa alla -OMISSIS-, avente natura provvisoria, mai aggiornato a distanza di oltre 20 anni nonostante gli effetti distorsivi che comporta), non ha natura normativa trattandosi, appunto, di una mera circolare, che recede rispetto alla disciplina nazionale prima richiamata; - peraltro, il diniego è chiaramente affetto da vizi di illogicità ed irragionevolezza oltre che per disparità di trattamento per le ragioni esposte nel secondo motivo di appello; - tale illegittimità riguarda anche il diniego di rimborso del costo relativo ai farmaci di una paziente del Centro -OMISSIS- oggetto di impugnazione in primo grado. 17. - L'appello va dunque accolto e, per l'effetto, va accolto il ricorso di primo grado e vanno quindi annullati gli atti con esso impugnati. 18. - Le spese del doppio grado possono tuttavia compensarsi tra le parti in considerazione della novità e complessità della questione esaminata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado ed annulla gli atti con esso impugnati. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Stefania Santoleri - Consigliere, Estensore Antonio Massimo Marra - Consigliere Raffaello Scarpato - Consigliere Enzo Bernardini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 230-bis, commi primo e terzo, e, «in via derivata», 230-ter del codice civile, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nel procedimento vertente tra I. U. e C. D. e altri, con ordinanza del 18 gennaio 2024, iscritta al n. 36 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 2 luglio 2024. Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso; deliberato nella camera di consiglio del 4 luglio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del 2024) la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) ed all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dell’art. 230-bis (Impresa familiare), primo e terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e, «in via derivata», dell’art. 230-ter (Diritti del convivente) cod. civ., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare». 1.1.– Le questioni sono sollevate nel corso di un giudizio introdotto da I. U., nei confronti dei figli e coeredi di E. D., già coniugato con altra donna, di cui esponeva di essere stata stabile convivente dal 2000 sino al decesso avvenuto nel novembre 2012, dinanzi al Tribunale ordinario di Fermo, in funzione di giudice del lavoro, con domanda di accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, relativa ad una azienda agricola, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all’impresa. La ricorrente aveva dedotto che la convivenza, iniziata in altra località, era proseguita presso il fondo rustico acquistato dal defunto – acquisto al quale erano via via susseguite altre acquisizioni, la costruzione di una cantina per la produzione del vino nonché l’avviamento di un’attività di ricezione turistica – e di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell’azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012. 1.2.– Il Tribunale di Fermo aveva rigettato la domanda rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato «familiare» ai sensi dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ. La Corte d’appello di Ancona, sezione lavoro, aveva confermato il rigetto sull’identico presupposto, escludendo, altresì, l’applicabilità dell’art. 230-ter cod. civ., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che, con l’aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell’impresa familiare. 1.3.– Con il ricorso per cassazione, la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile, per la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale, che avrebbero consentito di applicare la disciplina dell’impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo preveda espressamente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis cod. civ.; ha dedotto, poi, la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell’art. 11 delle preleggi, dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattività, non presidiato da una norma costituzionale, ove ciò risponda a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. 1.4.– La Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria, ha chiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni unite al fine di chiarire se l’art. 230-bis, comma terzo, cod. civ. potesse essere evolutivamente interpretato – in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso – in chiave di esegesi orientata agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost., nonché all’art. 8 CEDU, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da stabilità. 1.5.– Le Sezioni unite rimettenti osservano che la rilevanza delle questioni discendeva dal fatto che solo all’esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dubitata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell’accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo nell’impresa familiare determinante ai fini dell’accrescimento della produttività dell’impresa. 1.6.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ripercorre la genesi dell’istituto dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis cod. civ., quale superamento della comunione tacita familiare prevista per il settore agricolo dall’art. 2140 cod. civ. previgente, e la sua finalità di conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono nell’ambito di aggregati familiari che non possono contare su più specifiche discipline di protezione sia in ambito lavorativo che societario. Ne richiama la natura autonoma, di carattere speciale ma non eccezionale, e residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 giugno 2020, n. 11533); la forma individuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 18 gennaio 2005, n. 874 e 15 aprile 2004, n. 7223); l’incompatibilità con la disciplina societaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 6 novembre 2014, n. 23676); il regime fiscale, con i redditi dei familiari collaboratori definiti di lavoro, e quindi non assimilabili a redditi di impresa (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 2 dicembre 2008, n. 28558 e ordinanza 20 dicembre 2019, n. 34222); i diritti che ne derivano, sia di tipo partecipativo sia di tipo economico-patrimoniale, ed i presupposti, quali: a) l’esistenza di una impresa individuale ; b) la prestazione lavorativa svolta nell’interesse dell’impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l’attività di impresa. 1.7.– Il rimettente evidenzia poi che la dottrina si era a lungo interrogata sulla possibilità di applicare estensivamente l’art. 230-bis cod. civ. al convivente more uxorio, valorizzando che l’impresa familiare rappresenta una forma generale di tutela del lavoro prestato per quello spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi, sicché anche il convivente stabile ha titolo per partecipare all’impresa familiare in quanto la sua collaborazione lavorativa gratuita nell’ambito di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la sua causa nella stessa solidarietà familiare. Rileva ancora il giudice a quo che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, dopo una iniziale chiusura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 29 novembre 2004, n. 22405 e 2 maggio 1994, n. 4204), aveva manifestato una certa inversione di tendenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 marzo 2006, n. 5632); che la legge n. 76 del 2016, all’art. 1, comma 36, aveva previsto che «si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», con l’art. 1, comma 46, aveva introdotto l’art. 230-ter cod. civ., secondo il quale: «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato», e con l’art. 1, comma 20, aveva reso applicabile l’art. 230-bis cod. civ. anche all’unione civile. 1.8.– Le Sezioni unite osservano quindi che, nell’attuale disciplina, mentre ognuna delle parti dell’unione civile rientra nell’elenco dei familiari di cui all’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., per il convivente stabile, ai sensi dell’art. 230-ter cod. civ., opera una tutela minore rispetto a quella del familiare; che per il principio d’irretroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, come già avvenuto per l’art. 230-bis cod. civ., l’art. 230-ter cod. civ. non può trovare applicazione a situazioni giuridiche definitivamente compiute sotto il regime anteriore alla riforma del 2016, dovendosi poi escludere che la norma, poiché costitutiva di nuovi diritti, sia applicabile in quanto meramente ricognitiva di principi già acquisiti al panorama giuridico vigente; che, sebbene la disposizione introdotta nel 2016 sia significativa di una estensione delle tutele in favore del convivente di fatto, i due articolati – artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. – non risultano perfettamente coincidenti, in quanto il secondo attribuisce al convivente una serie di diritti inferiore a quella riconosciuta al coniuge. In ogni caso, secondo il giudice a quo, il riconoscimento del “fatto” della convivenza come una posizione giuridica meritevole di tutela in quanto tale, costituisce un vero e proprio obbligo imposto dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE) e convenzionali (art. 8 CEDU), rispetto al quale il legislatore nazionale rimaneva libero, nei limiti della ragionevolezza e dell’effettività, nella scelta della misura dell’intervento, residuando un margine di discrezionalità tra la disciplina prevista per il matrimonio e le unioni civili e la convivenza, in considerazione del peculiare sentire sociale della collettività nazionale. Evidenzia, quindi, il rimettente che dall’evoluzione della società, della legislazione e della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, emergerebbe ormai che la famiglia va considerata sia nella versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso; che nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela e che con l’introduzione dell’art. 230-ter cod. civ. il legislatore italiano avrebbe adempiuto all’obbligo sopra descritto dettandone i limiti e i confini mediante l’individuazione di un minimo essenziale di tutela da riconoscere alle famiglie di fatto, in contrapposizione alle più ampie garanzie proprie delle famiglie “di diritto” o famiglie “formali”, con una tecnica legislativa “per sottrazione”, nel senso della previsione di una disciplina specifica più ristretta e leggera, meno garantistica per la posizione del convivente lavoratore rispetto a quella del familiare-lavoratore di cui all’art. 230-bis cod. civ. 1.9.– Tanto premesso, il giudice a quo rileva che, pur nella consapevolezza di un’insopprimibile differenza strutturale tra la condizione del coniuge e quella del convivente more uxorio, qualora si individuasse la ratio dell’istituto dell’impresa familiare nel rifiuto della sia pur presunta gratuità della prestazione lavorativa resa nell’ambito di una certa relazione sociale, di vita, di affetti e di solidarietà, tale ratio potrebbe legittimamente trasferirsi a rapporti, diversi da quello di coniugio, nei quali si ravvisino caratteri analoghi e che se a fondamento della tutela enucleata dall’art. 230-bis cod. civ. si ponesse la prestazione continuativa del familiare, guardata come partecipazione ad un progetto lavorativo comune al gruppo, ravvisando il fulcro della disciplina nella tutela della persona che lavora, le obiezioni circa la sostanziale differenza tra posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto perderebbero di forza persuasiva, in presenza di valori costituzionali di riferimento quali la dignità, la libertà e l’uguaglianza. A giudizio delle Sezioni unite, se l’art. 230-bis è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, questo bene non muta a seconda del soggetto che lo svolge, per cui, senza dover porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio, si tratterrebbe di riconoscere un particolare diritto al convivente all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale avendo una funzione residuale e suppletiva, diretta ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che in passato vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica. 1.10.– Ricorda, ancora, il rimettente che il referente costituzionale della famiglia di fatto va individuato nell’art. 2 Cost., quale formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole; che seppure il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono a modelli cosiddetti «istituzionali», mentre la convivenza di fatto è un modello «familiare non a struttura istituzionale», in entrambi i casi si sarebbe in presenza di modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto, laddove la convivenza more uxorio è in concreto capace di corrispondere alle medesime esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona allo stesso modo del rapporto coniugale; che l’indicazione dell’art. 2 Cost., nel senso di una considerazione unitaria delle due situazioni e non già differenziata, è destinata ad operare anche rispetto al contributo collaborativo di cui all’art. 230-bis cod. civ. che trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, a prescindere dal legame formale; che l’irragionevole esclusione da parte della disposizione suddetta di ogni tutela, anche minima, nei confronti del convivente di fatto rileva: a) con riguardo all’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, atteso che determina una discriminazione tra soggetti che esplicano la medesima attività in modo continuativo nell’impresa familiare, fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) a fronte di una sostanziale equivalenza nell’attività dell’impresa, finendo per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini; b) con riguardo all’art. 4 Cost., per la violazione dello stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona; c) con riguardo agli artt. 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., quali baluardi a garanzia del lavoro e della retribuzione, considerato che le prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio, mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sarebbero destinate a rimanere prive di tutela. 1.11.– Quanto al diritto unionale, le Sezioni unite richiamano l’art. 9 CDFUE, ove il «diritto di sposarsi» viene riconosciuto tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo in modo disgiunto rispetto al «diritto di fondare una famiglia», così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari, mentre, quanto al diritto convenzionale, il riferimento va agli artt. 8, paragrafo 1, e 12 CEDU che, rispettivamente, sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, sulla cui base una consolidata giurisprudenza della Corte EDU ha elaborato una nozione di “famiglia” che non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio ma può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio, pur riconoscendo agli Stati contraenti la facoltà di accordare una tutela diversificata alle coppie unite in matrimonio. 1.12.– Infine, il giudice a quo evidenzia che una lettura estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, sia economico-partecipativi che gestionali, quale insieme di necessaria ed indissolubile applicazione, determinerebbe una distonia sistemica accordando ex post al convivente, la cui attività nell’impresa familiare fino al 2016 non solo non era tipizzata ma, per la giurisprudenza prevalente, addirittura esclusa dall’alveo applicativo dell’art. 230-bis cod. civ., una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi espressamente prevista dal legislatore con la legge n. 76 del 2016, e che un’irragionevolezza dell’art. 230-ter cod. civ., rilevante ai fini della eventuale illegittimità costituzionale derivata di tale disposizione, sarebbe ravvisabile nel fatto che il riconoscimento del mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi non appare comunque idoneo ad assicurare una sufficiente tutela sul piano patrimoniale al convivente lavoratore, il quale, in caso di mancata produzione di utili, finirebbe per essere privato di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata, in contrasto con quello stesso obbligo per l’ordinamento di prefigurare per esso un nucleo essenziale di tutela, oltre che con il principio di parità di trattamento del lavoro prestato. 1.13.– In conclusione, le Sezioni unite ritengono che l’art. 230-bis cod. civ. disponendo, al primo comma che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» ed indicando, al terzo comma, che «[a]i fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo», ponga concreti dubbi di illegittimità costituzionale nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché per violazione dell’art. 9 CDFUE e dell’art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU; le censure di illegittimità costituzionale si riverbererebbero, in termini di illegittimità derivata, anche sull’art. 230-ter cod. civ. che non avrebbe riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata di portata inferiore. 2.– Nessuna delle parti del giudizio principale si è costituita, né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del 2024) la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonchè all’art. 9 CDFUE e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, dell’art. 230-bis (Impresa familiare), primo e terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e «in via derivata» dell’art. 230-ter (Diritti del convivente) cod. civ., «che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare». 1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere della domanda di accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all’impresa, proposta da I. U., innanzi al Tribunale di Fermo, in funzione di giudice del lavoro, nei confronti dei figli e coeredi di E. D, già coniugato, di cui esponeva di essere stata stabile convivente, dal 2000 sino alla data del decesso avvenuto nel novembre 2012, e nella cui azienda agricola deduceva di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo dal 2004 (anno di iscrizione nel registro delle imprese) fino al 2012 (anno del decesso). 1.2.– La ricorrente, soccombente nei giudizi di merito, aveva denunciato con il ricorso per cassazione la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3), cod. proc. civ., di cui invocava l’applicazione in considerazione della mutata sensibilità sociale in materia di convivenza, oltre che delle aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio, nonché la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell’art. 11 delle preleggi, la cui applicazione in deroga al principio di irretroattività avrebbe risposto a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. 1.3.– Le Sezioni unite rimettenti premettono che la decisione impugnata trovava il suo fondamento nell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter cod. civ. e nella impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., sicché la rilevanza delle questioni discenderebbe dal fatto che solo all’esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell’accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo nell’impresa familiare determinante ai fini dell’accrescimento della produttività dell’impresa; evidenziano, altresì, che una lettura estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, sia economico-partecipativi che gestionali, determinerebbe una distonia sistemica accordando ex post al convivente, la cui attività nell’impresa familiare fino al 2016 era esclusa dall’alveo applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore con la legge n. 76 del 2016. 1.4.– Non ritenendo percorribile la strada di una interpretazione conforme, data l’insuperabilità della lettera della disposizione e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, primo e terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non include il convivente more uxorio nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare. 1.4.1.– La disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 2 Cost., considerando in modo differenziato e non unitario un contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti nell’ambito di modelli familiari, quali il matrimonio e l’unione civile da un lato e la convivenza di fatto dall’altra, capaci di corrispondere allo stesso modo alle esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona e dai quali, anche a seguito della cessazione, scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale. Inoltre, in violazione dell’art. 3 Cost., opererebbe una vera e propria discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell’impresa familiare, così determinando una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) che, a fronte di un apporto equivalente nell’attività dell’impresa, finisce per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini. 1.4.2.– In contrasto con l’art. 4 Cost., l’art. 230-bis cod. civ. inciderebbe sullo stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona, e, violando altresì gli artt. 35 e 36 Cost., lascerebbe prive della tutela riconosciuta in presenza di un legame formale, prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sebbene, avendo l’istituto dell’impresa familiare carattere residuale, sussista il medesimo rischio che le stesse, non essendo possibile fornire la prova specifica di una prestazione a titolo oneroso, vengano ritenute presuntivamente prestate a titolo gratuito. 1.4.3.– Il rimettente denuncia poi la violazione dell’art. 9 CDFUE che, riconoscendo tra le libertà fondamentali tutelate dal Capo secondo, il «diritto di sposarsi» in modo disgiunto rispetto al «diritto di fondare una famiglia», realizza una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto tutelando, anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari, la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio, sostituendo il tradizionale favor per il matrimonio con la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione. Sarebbe altresì in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, come evolutivamente interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU nel senso di non limitare la nozione di “famiglia” alle relazioni basate sul matrimonio, ma di estenderla anche ad altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio, tanto da circoscrivere la possibilità di una ingerenza degli Stati nazionali nei diritti alla “vita familiare” sia delle coppie sposate che di fatto, con la necessaria osservanza dei principi di legalità, necessità e proporzionalità, elaborando in talune circostanze dei veri e propri obblighi positivi volti alla promozione dei suddetti diritti. 1.5.– Infine, le Sezioni unite prospettano l’illegittimità costituzionale «in via derivata» (recte: in via consequenziale) dell’art. 230-ter cod. civ. che, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, applicherebbe allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall’art. 230-bis cod. civ., privandolo di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili. 2.– Preliminarmente va affermata l’ammissibilità delle questioni. 2.1.– Secondo l’orientamento costante di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale è ammissibile quando l’ordinanza di rimessione è argomentata in modo da consentire il controllo “esterno” della rilevanza attraverso una motivazione non implausibile del percorso logico compiuto e delle ragioni per le quali il giudice rimettente afferma di dover applicare la disposizione censurata nel giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 94 del 2023, n. 237 del 2022 e n. 259 del 2021). Nella specie le parti controvertono in ordine agli effetti della partecipazione, protratta per anni, della convivente more uxorio all’impresa familiare, di cui era titolare il “compagno”; rapporto cessato nel 2012 a causa del decesso di quest’ultimo. A quella data, e per tutta la durata del rapporto – osserva la Corte rimettente – l’unica disposizione vigente era il censurato art. 230-bis cod. civ. e non già l’art. 230-ter cod. civ., che, pur concernendo proprio la partecipazione del convivente di fatto all’impresa familiare, non era applicabile ratione temporis, essendo stato introdotto solo successivamente dalla legge n. 76 del 2016. Tale presupposto interpretativo si fonda sulla non applicabilità retroattiva dell’art. 230-ter cod. civ., disposizione che, avendo regolamentato per la prima volta l’istituto dell’impresa familiare per i conviventi di fatto, non troverebbe applicazione alla vicenda oggetto del giudizio a quo, poiché la convivenza e il lavoro prestato nell’impresa familiare risultano conclusi nel 2012 per il decesso del convivente della ricorrente. In presenza di un rapporto giuridico già esaurito alla data di entrata in vigore della nuova norma, il presupposto interpretativo risulta non implausibile, apparendo anzi conforme alla lettera e alla ratio della legge n. 76 del 2016. Introducendo l’art. 230-ter cod. civ. – come meglio si dirà oltre – il legislatore non ha inteso limitare la disciplina preesistente di cui all’art. 230-bis cod. civ., escludendo il convivente di fatto da alcuni diritti (quale il diritto al mantenimento) spettanti ai partecipanti all’impresa familiare, ma ha riconosciuto una tutela nuova nel caso di impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto, sul ritenuto presupposto, implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista. Ha quindi introdotto una nuova, autonoma e specifica disciplina, pur di portata minore rispetto a quella dell’art. 230-bis cod. civ.; disciplina che quindi non poteva che operare per il futuro, così come ritiene la Corte rimettente. Con riferimento ad altri istituti introdotti dalla legge n. 76 del 2016, la giurisprudenza di legittimità si è già parimenti orientata nel senso della loro portata non retroattiva (in tema di pensione di reversibilità, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 14 settembre 2021, n. 24694; sezione prima civile, ordinanza 14 marzo 2022, n. 8241). Del resto, all’epoca della riforma del diritto di famiglia del 1975, quando fu introdotto l’art. 230-bis cod. civ., la giurisprudenza si era espressa nel senso della irretroattività di tale nuova disposizione (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 aprile 2013, n. 7981; sezione seconda civile, sentenza 21 ottobre 1992, n. 11500; sezione prima civile, sentenza 6 aprile 1990, n. 2909; sezione terza civile, sentenza 23 ottobre 1985, n. 5195). Conseguentemente, ed a ragione, la Corte rimettente si è interrogata in ordine all’applicabilità della disposizione vigente all’epoca dei fatti (art. 230-bis cod. civ.), piuttosto che di una disposizione non ancora esistente (art. 230-ter cod. civ.) e della quale ha plausibilmente ritenuto che non fosse possibile predicare l’applicazione retroattiva. 2.2.– La Corte rimettente ha, poi, escluso la possibilità di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata (art. 230-bis cod. civ.), orientata alla conformità agli evocati parametri. Vero è che da una parte, l’affermazione della esclusione del convivente more uxorio tra i possibili componenti dell’impresa familiare si rinveniva in alcuni non recenti arresti di quella Corte (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 1994, n. 4204 e sezione seconda civile, sentenza 29 novembre 2004, n. 22405); ma essi non erano in sintonia con altre pronunce che, invece, avevano ritenuto la possibilità, per il medesimo convivente, di essere componente di una comunione tacita familiare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 dicembre 1994, n. 10927 e 15 marzo 2006, n. 5632). Dall’altra parte, le Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sentenza 26 novembre 2020-17 marzo 2021, n. 10381), poste a fronte di un interrogativo analogo – se nella nozione di «prossimi congiunti», prevista dall’art. 384, primo comma, del codice penale, per definire l’area di applicabilità dei «casi di non punibilità», il convivente more uxorio, ancorché non espressamente previsto, potesse ritenersi non di meno compreso nell’elenco di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen. (secondo cui «[a]gli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti») – avevano seguito la strada dell’interpretazione conforme, affermando l’inclusione del convivente nel catalogo dei soggetti che beneficiano della suddetta «scusante soggettiva». Ma deve considerarsi che lo sviluppo normativo e giurisprudenziale, che, con riferimento a specifiche fattispecie, ha dato rilevanza – come si vedrà oltre – alla situazione della convivenza more uxorio, ha uno specifico punto di caduta nella regolamentazione dell’impresa familiare nell’innovativo contesto della disciplina per le unioni civili e le convivenze di fatto, introdotta dalla legge n. 76 del 2016. Infatti, il comma 13 dell’articolo unico della legge – che prevede il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso – prescrive espressamente che si applichino le disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile. Da ciò si desume l’applicabilità dell’art. 230-bis cod. civ. alle unioni civili, con conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella parte in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Invece il comma 46 dello stesso articolo unico introduce una nuova disposizione – l’art. 230-ter cod. civ. – che prevede che «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». Da quest’ultima disposizione, in particolare, si desume a contrario la non applicabilità dell’art. 230-bis alle convivenze more uxorio; ciò che ha costituito un chiaro dato testuale preclusivo dell’interpretazione conforme. Pertanto, la Corte rimettente ha ritenuto che fosse solo possibile sollevare – come ha fatto – l’incidente di costituzionalità. 2.3.– Quanto poi alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali a suo giudizio la disposizione censurata è suscettibile dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale. 3.– Giova preliminarmente richiamare, in sintesi, il quadro normativo di riferimento, che è caratterizzato da due fondamentali riforme, le quali hanno rispecchiato la progressiva evoluzione dei legami familiari nella società civile: la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto del 2016. 3.1.– L’art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia) ha introdotto, nell’autonoma Sezione VI del Capo VI del titolo VI del Libro primo del codice civile, l’art. 230-bis, rubricato «Impresa familiare», che per la prima volta ha riconosciuto una tutela specifica a tutti coloro che, legati da vincoli di parentela o di coniugio, partecipano al processo produttivo dell’impresa gestita dal capofamiglia; il rapporto rilevante è quello intercorrente tra un soggetto e un familiare imprenditore, allorquando il primo svolga un’attività di lavoro continuativa a favore del secondo, a cui la disposizione di nuovo conio riconosce un regime di tutela specifico, ma anche suppletivo, destinato ad operare solo laddove familiare e imprenditore non abbiano provveduto a disciplinare diversamente e in autonomia la prestazione di lavoro, anche in forma tacita, attraverso gli istituti lavoristici o di diritto societario. 3.2.– Prima della riforma del 1975, la partecipazione all’attività produttiva della famiglia, anche se svolta con carattere di prevalenza e di continuità, veniva considerata alla stregua di una prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”, alla quale si applicava una presunzione iuris tantum di gratuità in virtù dei vincoli familiari. Sulla base di tale presunzione si escludeva che le prestazioni rese in ambito familiare potessero generare pretese e obblighi, giuridicamente vincolanti, azionabili nei confronti del familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni medesime, tranne che nell’ambito del lavoro prestato da familiari nell’esercizio dell’agricoltura, ove erano previste le comunioni tacite familiari, regolate dagli usi, in base ai quali erano generalmente riconosciuti ai partecipanti diritti patrimoniali (art. 2140 cod. civ., ora abrogato, per essere la disciplina della comunione tacita familiare confluita in quella dell’impresa familiare, integrata sempre dagli usi). Negli anni diviene via via più sentita l’esigenza di fornire strumenti di tutela per evitare che la comunità familiare potesse dare origine e copertura a situazioni di sfruttamento, nella consapevolezza che il lavoro gratuito privo di tutela in molteplici contesti familiari non fosse il frutto di una scelta di libertà, quanto piuttosto il portato di un predominio dell’imprenditore nei confronti della moglie e degli altri componenti del nucleo familiare, quale retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, ormai superata; il marcato ridimensionamento della presunzione di gratuità ad opera dell’art. 230-bis cod. civ. ha corrisposto all’esigenza di riconoscere una tutela minima a quei rapporti di lavoro che, svolgendosi con peculiari caratteristiche nell’ambito di aggregati familiari, non potevano contare su più specifiche discipline di protezione. 3.3.– Il fondamento costituzionale dell’istituto va ricondotto all’art. 29 Cost, ed ancora prima ai principi di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non meno che all’art. 35 Cost., secondo cui «[l]a Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», all’art. 36 Cost., che riconosce il diritto alla giusta retribuzione, e, non da ultimo, all’art. 37 Cost., data la tendenziale prevalenza del lavoro femminile in ambito familiare, di cui dà conto l’espressa previsione del secondo comma dell’art. 230-bis cod. civ. nell’affermare l’equivalenza del lavoro della donna a quello dell’uomo. La natura residuale dell’impresa familiare si pone in linea con i principi ispiratori dell’intera riforma del diritto di famiglia. Le finalità di protezione dell’istituto, inteso a dettare una disciplina di chiusura del sistema del lavoro familiare, convergono verso la natura imperativa della norma, nel senso che la riconducibilità del rapporto nell’ambito della corrispondente disciplina non ne consente l’elusione mediante il ricorso ad uno schema negoziale che attribuisca al familiare una posizione deteriore rispetto a quella da essa garantita. 3.4.– In forza della previsione di cui all’art. 230-bis cod. civ., il familiare che presta la propria attività di lavoro, in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare, cioè a favore di un imprenditore a lui legato, ai sensi del comma terzo, da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo, gode di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori. Sotto il profilo economico, il familiare ha innanzitutto diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, in caso di buon andamento dell’attività d’impresa, ha diritto ad una quota di utili e di incrementi, anche in ordine all’avviamento, proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, e partecipa, sempre in detta proporzione, ai beni acquistati con gli utili. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate a maggioranza, così garantendo al familiare un trattamento diverso rispetto a quello normalmente riservato ad un lavoratore subordinato in ragione del particolare vincolo di solidarietà familiare che lega i partecipanti all’impresa. 3.5.– Secondo il diritto vivente l’impresa familiare non costituisce una modalità di gestione collettiva dell’impresa, bensì una forma di collaborazione all’interno di essa e la norma di cui all’art. 230-bis cod. civ. disciplina unicamente il rapporto che si instaura tra soggetti – il familiare (o i familiari) e l’imprenditore – per effetto dello svolgimento della prestazione di lavoro, senza con ciò interferire sulla imputazione dell’attività d’impresa, di cui resta titolare l’imprenditore che è l’unico soggetto ad agire sul piano dei rapporti esterni, assumendo il rischio inerente all’esercizio dell’impresa; il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 gennaio 2005, n. 874). Dopo un iniziale contrasto, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nel configurare l’impresa familiare solo qualora il titolare dell’impresa sia un imprenditore individuale, escludendo quindi l’applicazione dell’art. 230-bis cod. civ. a vantaggio del familiare che presti la propria opera nell’ambito dell’impresa gestita in forma societaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 6 novembre 2014, n. 23676), mentre, quanto alla possibilità di fruire della tutela ex art. 230-bis cod. civ. anche per il familiare che presta la propria attività all’interno della famiglia, si è evidenziata la necessità che il lavoro domestico risulti strettamente correlato e finalizzato alla gestione dell’impresa familiare, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell’ambito del consorzio domestico, in vista dell’attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni o servizi proprio della stessa (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 febbraio 1997, n. 1525). 3.6.– L’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, dapprima nella società e quindi nella giurisprudenza, grazie anche all’impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un approdo legislativo nella legge n. 76 del 2016, che in un unico e lungo articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli distinti: il primo, quello dell’unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi, è riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, è aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali. 3.7.– Quanto al secondo modello (la convivenza di fatto), che rileva nel giudizio a quo, la legge n. 76 del 2016 abbandona la rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a quella riservata alla famiglia fondata sul matrimonio e valorizza l’esigenza di speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori e figli o che si sviluppano con i terzi. Conviventi di fatto sono definiti, ai sensi del comma 36 dell’art. 1 della legge citata, «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un’unione civile». La convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia”; quindi non vi rientra la convivenza, ancorché stabile, che sia meramente amicale, di sostegno o di compagnia. Il comma 37 aggiunge poi che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, ai fini dell’accertamento della stabile convivenza, occorre fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). La dichiarazione anagrafica crea una presunzione di stabilità del vincolo affettivo di coppia e agevola, sul piano probatorio, il riconoscimento dei diritti in favore dei conviventi di fatto. La dichiarazione non può esser fatta da persone «vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», così come gli stessi rapporti sono di impedimento a contrarre matrimonio (artt. 86 e 87 cod. civ.). I commi da 50 a 63 fissano ex novo la regolamentazione dell’eventuale contratto di convivenza, mediante cui i conviventi di fatto «possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune». Il contratto di convivenza richiede (ex comma 57, lettera a, non diversamente dal matrimonio ex art. 86 cod. civ.) lo stato libero delle parti, essendo nullo in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza. Le restanti disposizioni si innestano nel solco di precedenti normativi e giurisprudenziali, soprattutto per quanto concerne i diritti della coppia verso l’esterno, confermando o precisando facoltà già riconosciute ai conviventi (quanto ai rapporti personali i commi da 38 a 41, 47 e 48; quanto ai rapporti patrimoniali i commi 44, 45 e 49), oppure, in misura minore, sono dirette ad ampliare la tutela di costoro attribuendo prerogative nuove (vedi il comma 42 sul diritto del convivente di continuare ad abitare, per un certo periodo, nella casa di comune residenza e di proprietà dell’altro dopo la sua morte o il comma 65 sul diritto agli alimenti in seguito alla cessazione della convivenza); restano affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione. 3.8.– Nella legge n. 76 del 2016 la distinzione tra unione civile da un lato e convivenza di fatto dall’altro, rileva – come si è già visto – anche con specifico riferimento all’istituto dell’impresa familiare. Il comma 20 dell’art. 1 della medesima legge n. 76 del 2016 detta una disposizione di coordinamento, secondo cui, «[a]l solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 […]». In forza di tale disposizione tra i familiari partecipanti all’impresa familiare deve annoverarsi la persona dello stesso sesso unita civilmente all’imprenditore. In tal senso depone quanto stabilito dal comma 13 del medesimo articolo, a mente del quale «[i]l regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; dall’applicazione della sezione VI del capo VI discende l’estensione dell’art. 230-bis cod. civ. alle persone legate dall’unione civile. 3.9.– Per il convivente di fatto il legislatore, in luogo dell’inclusione del novero dei soggetti ammessi a godere del regime dell’impresa familiare, ha optato per l’introduzione di una autonoma e specifica regolamentazione. Il comma 46 ha inserito nel codice civile l’art. 230-ter, rubricato «Diritti del convivente», che regolamenta le prestazioni di lavoro rese nell’ambito della famiglia di fatto dettando una disciplina che riconosce al convivente-lavoratore una tutela più ristretta rispetto a quella prevista per i familiari dall’art. 230-bis cod. civ. La tutela del convivente è limitata a taluni, circoscritti, aspetti, quali «una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento». L’espresso riferimento al lavoro prestato «all’interno dell’impresa dell’altro convivente» lascia fuori dal perimetro delle tutele il lavoro «nella famiglia»; al convivente non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa commisurata sul «lavoro prestato» e poiché gli utili e gli incrementi potrebbero anche mancare in caso di risultati negativi dell’azienda, la sua tutela economica resta meramente eventuale. Manca la previsione di un diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell’impresa familiare e non viene riconosciuto alcun diritto partecipativo, con la conseguenza che il convivente, pur collaborando unitamente ad altri familiari dell’imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali e sugli indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine alla eventuale partecipazione agli utili a cui avrebbe diritto; viene, invece, confermato il carattere residuale della tutela, con la precisazione che il diritto di partecipazione non spetta nei soli casi di esistenza di un rapporto di società o di lavoro subordinato. 3.10.– A completamento del contesto normativo non può non farsi cenno ad alcune delle plurime disposizioni che, nel tempo, hanno dato rilievo alla convivenza di fatto. Nel codice civile sono presenti gli artt. 330, 333 e 342-bis, quanto all’allontanamento del convivente che maltratta o abusa del minore, nonché gli artt. 155-bis e 337-sexies cod. civ. che fanno espressamente riferimento alla convivenza more uxorio. Alla convivenza coniugale fa riferimento anche l’art. 199 cod. proc. pen., nel disciplinare la facoltà dei prossimi congiunti di astensione dal deporre. La convivenza prematrimoniale dei coniugi, «in modo stabile e continuativo», rileva ai fini della legittimazione all’adozione ex art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore a una famiglia). Quanto al prelievo di organi e di tessuti, consentito a determinate condizioni, l’art. 3 della legge 1° aprile 1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti) riconosce il diritto di ricevere informazioni sulle opportunità terapeutiche al coniuge non separato o al convivente more uxorio. L’elenco dei soggetti beneficiari dell’elargizione ai superstiti, di cui all’art. 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), comprende espressamente i conviventi more uxorio. Nel definire le condizioni di applicabilità di speciali misure di protezione l’art. 9, comma 5, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, fa riferimento anche a coloro che convivono stabilmente con le persone a rischio. La legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali) ha previsto che l’amministratore di sostegno possa anche essere una persona stabilmente convivente, la quale può altresì proporre l’istanza di inabilitazione o interdizione. L’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è previsto per le coppie di persone maggiorenni «coniugate o conviventi» (art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»). Dopo la legge n. 76 del 2016, al convivente di fatto fa riferimento anche l’art. 1, comma 255, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) nel definire la figura di caregiver familiare. Anche il novellato art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105 recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio», richiama la figura del convivente di fatto come possibile beneficiario dei permessi per assistere persone disabili. Parimenti l’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), come riformulato dall’art. 2, comma 2, lettera n), del decreto legislativo n. 105 del 2022, prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini dei riposi e permessi per assistere i figli con handicap grave, sia la parte di un’unione civile, sia il convivente di fatto. 4.– Venendo ora al merito, le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., da valutarsi complessivamente. 5.– Il fulcro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale risiede nella portata della tutela del convivente more uxorio – ossia del «convivente di fatto» ex art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016 – quale ritraibile dalla Costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle «formazioni sociali» ove si svolge la sua personalità. Tale è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Anche recentemente questa Corte ha ribadito che il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all’art. 29 Cost. (sentenze n. 66 del 2024, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010); invece, le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., all’interno delle quali l’individuo afferma e sviluppa la propria personalità (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010). L’emersione delle convivenze di fatto come diffuso fenomeno sociale è relativamente recente; dai dati statistici risulta la “moltiplicazione delle unioni libere”, che ormai sopravanzano, in numero, le famiglie fondate sul matrimonio. In Assemblea costituente, invece, fu presente solo la fattispecie della famiglia fondata sul matrimonio, radicata nella tradizione e nel comune sentire del tempo, e il dibattito, vivace e prolungato, si focalizzò sull’incidenza del matrimonio concordatario e sull’opportunità di prevederne, o meno, il suo carattere di indissolubilità. Ma all’epoca, la convivenza more uxorio non era ignota neppure al codice civile del 1942, quando ad esempio nella disciplina della dichiarazione giudiziale di paternità si faceva riferimento al caso di convivenza notoria «come coniugi» (art. 260 cod. civ.). E prima ancora, nella “Relazione Solmi” al Progetto del nuovo codice civile, si abbandonava espressamente il termine «concubinato», che recava uno stigma, anche perché evocativo della sua (asimmetrica) criminalizzazione nel codice penale del 1930 (art. 560 cod. pen.), in favore dell’espressione «convivenza a modo di coniugi». Questa Corte poi dichiarerà l’illegittimità costituzionale di tale disposizione (sentenza n. 147 del 1969) e il termine «concubinato» scomparirà per far posto definitivamente a quello di «convivenza a modo di coniugi» o more uxorio e infine, con la legge n. 76 del 2016, a quello di «conviventi di fatto». 6.– A partire dagli anni Settanta nella giurisprudenza della Corte trova spazio la “convivenza more uxorio”, ma per concorrere, come fattore comparativo, a mostrare l’ingiustificatezza del divieto civilistico di donazioni tra coniugi; divieto discriminatorio anche perché non operava per i conviventi (sentenza n. 91 del 1973; per un’argomentazione simile, quanto al trattamento deteriore per i coniugi rispetto a quello dei conviventi, vedi anche recentemente la sentenza n. 209 del 2022). La storica riforma del diritto di famiglia del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151) apporta notevoli modifiche al rapporto di coniugio, ma contiene solo un limitato riferimento alla convivenza di fatto, come nel novellato art. 317-bis, secondo comma, cod. civ. quanto all’esercizio congiunto della potestà da parte dei genitori naturali conviventi che avessero entrambi riconosciuto il figlio. Anche in questo contesto profondamente riformato, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato la permanente netta differenza tra il rapporto di coniugio, fondato sul matrimonio, e la convivenza more uxorio: sono «due situazioni […] nettamente diverse» (sentenza n. 6 del 1977). La «convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod. civ., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La coabitazione, infatti, del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria» (sentenza n. 45 del 1980). 7.– Il punto di svolta può essere individuato nella sentenza n. 237 del 1986, ove la Corte, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale degli artt. 307, quarto comma, e 384 cod. pen., sotto il profilo della mancata previsione del convivente more uxorio tra i prossimi congiunti beneficiari della causa di non punibilità (successivamente riconosciuta – come si è già detto – dalla giurisprudenza delle sezioni unite penali della Corte di cassazione), pur dichiarando la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 29 Cost., assume una posizione nuova rispetto alle sue precedenti pronunce. Muovendo da una interpretazione evolutiva dell’art. 2 Cost., afferma che «un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più […] allorché la presenza di prole comporta il coinvolgimento attuativo d’altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione». Anche la convivenza more uxorio, pur diversa dal vincolo coniugale, merita una disciplina di tutela che la Corte sollecita il legislatore a introdurre. Un primo ampliamento della tutela del convivente more uxorio si ha di lì a poco con la sentenza n. 404 del 1988. Con riferimento specifico al diritto all’abitazione – che «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 217 del 1988) – è stata ritenuta costituzionalmente illegittima una disciplina di tutela dettata in materia di rapporto locatizio per il coniuge, i parenti e gli affini conviventi, che escludeva (nel senso che non prevedeva anche) il convivente more uxorio. L’art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) stabiliva infatti che, in caso di morte del conduttore, gli succedevano nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi. La Corte – nel ritenere che l'art. 2 Cost. è violato «quanto al diritto fondamentale che nella privazione del tetto è direttamente leso» – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio (sentenza n. 404 del 1988). In seguito, la Corte continua a riconoscere «la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza, ancorché rapporto di fatto», pur sempre «distinto dal rapporto coniugale» (sentenza n. 8 del 1996). E – aggiunge la medesima pronuncia – la «distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione». La convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, comunque, non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure. La diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi che trova il suo fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale riceve tutela diretta nell’art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004). Ma vi sono, poi, gli «aspetti particolari». La Corte ricorda che «in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che questa Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost.» (sentenza n. 140 del 2009). La valorizzazione di questo approccio, basato su un controllo di ragionevolezza per situazioni “specifiche” e “particolari”, da individuarsi caso per caso, si è avuto nella sentenza n. 213 del 2016 che, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 (come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante « Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»), nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado, sottolinea che, pur restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, deve ritenersi irragionevole e logicamente contraddittoria l’esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile e «ciò in particolare – ma non solo – nei casi in cui la convivenza si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.». Questa Corte ha ricordato che «la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.»; e ha puntualizzato che «[i]n questo caso l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.», mentre in caso contrario «il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio». Più recentemente la rilevanza della convivenza di fatto è stata presa in considerazione dalla sentenza n. 10 del 2024. Questa Corte, affrontando la delicata questione dell’affettività intramuraria in stato di detenzione, non ha dubitato della inclusione della convivenza tra le relazioni affettive della persona che l’ordinamento giuridico tutela «nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza». Ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente. 8.– Anche nella giurisprudenza comune la convivenza more uxorio trova riconoscimento. La giurisprudenza civile di legittimità, premesso che la situazione di convivenza resta non pienamente assimilabile al matrimonio, sia sotto il profilo della stabilità che di quello delle tutele offerte al convivente, tanto nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, riconosce con orientamento condiviso che, in quanto «espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità» verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il compagno o la compagna «dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37, della legge n. 76 del 2016), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 novembre 2021, n. 32198). In particolare, nelle più recenti pronunce delle Sezioni unite civili, in caso di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile, si dà rilievo al periodo di convivenza, sia prematrimoniale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 dicembre 2023, n. 35385), che dell’ex coniuge (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 febbraio 2023, n. 3645 e ordinanza 5 maggio 2022, n. 14256), quanto alla determinazione dell’assegno divorzile o dell’assegno di mantenimento (Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 12 dicembre 2023, n. 34728), e della convivenza antecedente l’unione civile per la determinazione dell’assegno in favore del componente dell’unione civile (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 dicembre 2023, n. 35969). L’accertamento dell’esistenza della convivenza – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – rileva in tante altre situazioni specifiche: sul risarcimento del danno da perdita della vita del convivente (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 13 aprile 2018, n. 9178 e 16 settembre 2008, n. 23725); sulla sofferenza provata dal convivente in conseguenza dell’uccisione del figlio unilaterale del partner (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 aprile 2016, n. 8037); ai fini dell’indebito arricchimento (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 7 giugno 2018, n. 14732); ai fini della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 2 gennaio 2014, n. 7); sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971). 9.– Dal suo canto la giurisprudenza penale di legittimità – già sopra richiamata – converge verso interpretazioni estensive al convivente di fatto di disposizioni che, tradizionalmente, facevano esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio. Particolarmente significativa – come è già stato sopra rilevato – è l’estensione al convivente more uxorio del perimetro applicativo della «scusante soggettiva» di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., operata in via interpretativa dalla Corte di cassazione (sentenza n. 10381 del 2021). 10.– Nell’ambito europeo, l’adeguamento dell’ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all’art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all’art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»); l’interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel senso del riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all’unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità. Che la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” è una nozione ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, paragrafo 1, (Corte EDU, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio; Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1986, Johnston e altri contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 26 maggio 1994, Keegan contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 5 gennaio 2010, Jaremowicz contro Polonia; Corte EDU, sentenza 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia; Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria; Corte EDU, sentenza 3 aprile 2012, Van der Heijden contro Paesi Bassi; Corte EDU, grande camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos contro Grecia; Corte EDU, sentenza Oliari ed altri contro Italia); l’ambito soggettivo della nozione di «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 CEDU include sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi. Anche l’art. 9 CDFUE, nel riconoscere il «diritto di sposarsi» tra le libertà fondamentali tutelate in modo disgiunto e autonomo rispetto al «diritto di fondare una famiglia», ha realizzato una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto ponendo le basi per un avanzamento nelle possibilità di protezione della molteplicità e varietà delle relazioni ad esse riconducibili. 11. – In sintesi, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa (punto 3 e seguenti), sia della giurisprudenza costituzionale (punto 7), comune (punti 8 e 9) ed europea (punto 10), che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Il modello secondo la scelta del Costituente è la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Permangono, quindi, differenze di disciplina, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione (sentenza n. 404 del 1988), o della protezione di soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell’affettività di persone detenute (sentenza n. 10 del 2024). Parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione. Come si è già visto, la disciplina dell’impresa familiare – a differenza di quella dell’impresa coniugale (art. 177, primo comma, lettera d, cod. civ.), che concerne specificamente il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, quale fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”. La difficoltà per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione. Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata dall’art. 230-bis cod. civ., secondo la scelta del legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975, con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado secondo l’elencazione contenuta nel terzo comma della disposizione; elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili. Ma anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. Si smarrisce così l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità. È vero che successivamente il legislatore ha posto rimedio – solo parzialmente e in termini ingiustificatamente discriminatori – a questa carenza quando, nell’istituire le unioni civili, ha introdotto una fattispecie dimidiata di partecipazione all’impresa familiare del convivente di fatto (art. 230-ter cod. civ.). A differenza delle unioni civili, questa esigenza di garanzia del lavoro reso nell’impresa familiare sussisteva già prima in presenza di convivenze di fatto che richiedevano la stessa tutela di questo diritto fondamentale. La protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell’impresa familiare. Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente» (sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). 12.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell’imprenditore nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis cod. civ., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto». Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore. 13.– Pertanto – assorbito l’esame degli ulteriori parametri evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU) – si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». 14.– L’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis cod. civ. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell’art. 230-ter cod. civ. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest’ultimo una garanzia prima non prevista, come nell’intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Pertanto, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa in via consequenziale all’art. 230-ter cod. civ., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 230-bis cod. civ. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»; 2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter cod. civ. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 4 luglio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giovanni AMOROSO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,   ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», e 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, promosso dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, nel giudizio proposto da P. S., con ordinanza del 29 maggio 2023, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 23 gennaio 2024. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio; deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 29 maggio 2023, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, nel corso di un giudizio di rettificazione di attribuzione di sesso introdotto, ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), da P. S., ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», e 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 2.- Il giudice a quo espone che l'attore ha allegato «disforia di genere» e documentato il percorso di transizione dal genere maschile a quello femminile, richiedendo la rettificazione di attribuzione di sesso e del prenome da P. a S. e, in caso di accoglimento della domanda e ricorrendone le condizioni di legge, la trasformazione dell'unione civile contratta con S. B. in matrimonio, nell'osservanza delle forme previste per la opposta ipotesi di conversione del matrimonio in unione civile, con le annotazioni di legge da curarsi dal competente ufficiale dello stato civile. Per la eventualità di rigetto della domanda, l'attore ha dedotto la illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 nella parte in cui prevede, in caso di accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei componenti di una unione civile, l'automatico scioglimento della stessa, senza possibilità della sua trasformazione in matrimonio previa dichiarazione resa dalle parti davanti al giudice della rettificazione, con conseguente soluzione di continuità delle tutele riconosciute dall'ordinamento al precedente vincolo. Il rimettente riferisce altresì che S. B., comparso personalmente in udienza, ha reso congiuntamente all'attore dichiarazione di voler costituire e/o trasformare, in caso di accoglimento della domanda di rettifica del sesso, l'unione civile in matrimonio. Il difensore di P. S. ha comunicato l'intenzione del proprio assistito di rinunciare agli atti del giudizio «in caso di declaratoria di irrilevanza o manifesta infondatezza della questione». 3.- Il Tribunale rimettente ritiene verosimilmente fondata la domanda di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso e, nella dedotta sufficienza di un rigoroso accertamento del giudice di merito in ordine al «disturbo di identità di genere e di un serio, univoco e tendenzialmente irreversibile percorso individuale di acquisizione di una nuova identità» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 180 del 2017 e n. 221 del 2015, e la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138), riscontra «al di là di ogni ragionevole dubbio», per le «apparentemente univoche» risultanze di prova di cui alle relazioni del Centro interdipartimentale disturbi identità di genere, C.I.D.I.Ge.M., dell'Azienda ospedaliera universitaria Città della salute e della scienza di Torino, la sussistenza di disforia di genere in capo a P. S., che aveva acquisito una identità psicosessuale femminile non corrispondente al sesso attribuitogli nell'atto di nascita. 4.- Ciò premesso, il Collegio rimettente richiama la sentenza n. 170 del 2014, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, e, in via consequenziale, dell'art. 31, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 - che aveva sostituito il citato art. 4, abrogato dall'art. 36 dello stesso decreto legislativo, riproducendone però il contenuto con minima, ininfluente variante lessicale - nella parte in cui le norme incise non prevedevano che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei due coniugi, che determina in via automatica lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, consentisse, ove entrambe le parti lo avessero richiesto, di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che di questa tutelasse diritti ed obblighi, con modalità da stabilirsi dal legislatore. Il giudice a quo ricorda che questa Corte, con la richiamata sentenza, censurò la scelta operata dal legislatore che, con le norme caducate, non aveva attuato alcun bilanciamento tra interessi contrapposti, sacrificando a quello dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio - nel rigido automatismo di regolazione dei rapporti tra sentenza di rettifica di attribuzione di sesso e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio - il pregresso vissuto della coppia omoaffettiva, lasciata «priva di tutela», non risultando prevista «alcuna “forma di comunità” connotata da “stabile convivenza tra due persone, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione”» (è richiamata altresì la sentenza di questa Corte n. 138 del 2010). 4.1.- Il rimettente menziona quindi la giurisprudenza di legittimità (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 aprile 2015, n. 8097) che, nel valorizzare la tutela da attribuirsi, nei termini di cui all'art. 2 Cost., alle unioni tra persone dello stesso sesso, rimarcava la “intollerabilità” di una «soluzione di continuità del rapporto» fintantoché il legislatore non fosse intervenuto nei termini indicati da questa Corte con la richiamata sentenza n. 170 del 2014. 4.1.1.- Detto intervento è stato poi operato con la legge n. 76 del 2016, che ha introdotto l'istituto della unione civile tra persone dello stesso sesso, delegando altresì il Governo all'adozione di decreti legislativi per adeguare le disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni alle previsioni della stessa legge e per coordinare con queste ultime le disposizioni vigenti attraverso le necessarie modificazioni ed integrazioni normative. Nella ordinanza di rimessione si richiama in proposito il comma 4-bis dell'art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, inserito dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, che consente ai coniugi di manifestare nel giudizio di rettificazione anagrafica, fino al momento della precisazione delle conclusioni, la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non farne cessare gli effetti civili, convertendolo in unione civile. L'introduzione di tale disposizione adegua le norme sui procedimenti di rettificazione dell'attribuzione di sesso alla previsione del comma 27 dell'art. 1 della legge n. 76 del 2016, secondo il quale «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». Il rimettente richiama ancora l'art. 70-octies del d.P.R. n. 396 del 2000, che, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, al comma 5, prevede che, nell'ipotesi di cui all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione nel cui giudizio le parti abbiano manifestato la volontà di convertire il matrimonio in unione civile, procede all'iscrizione della stessa e alle eventuali annotazioni relative al regime patrimoniale e alla scelta del cognome della coppia. 5.- Alla luce della normativa evocata, il giudice a quo ipotizza che la coppia unita civilmente, il cui vincolo sia cessato per l'automatismo che si accompagna alla rettificazione anagrafica di sesso di uno dei componenti dell'unione, incontri, nel caso in cui voglia mantenere una relazione giuridica riconosciuta contraendo matrimonio, un vuoto di tutela nel tempo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso e la eventuale celebrazione del matrimonio. 5.1.- Tanto esposto, il Tribunale di Torino, censura, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU: l'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, che dispone che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei componenti dell'unione civile determina lo scioglimento della stessa senza prevedere la possibilità della sua conversione in matrimonio, previa dichiarazione congiunta delle parti, senza soluzione di continuità con il precedente vincolo, come previsto dall'art. 1, comma 27, della stessa legge con riguardo alla ipotesi speculare della conversione del matrimonio in unione civile; l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui non prevede che la persona che ha proposto la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l'altro contraente dell'unione civile possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di unirsi in matrimonio, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti il regime patrimoniale e la conservazione del cognome comune, come disposto per il caso opposto di conversione del matrimonio in unione civile, nonché nella parte in cui non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all'ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell'unione civile, o di registrazione se costituita all'estero, di iscrivere il matrimonio nel relativo registro e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale; e l'art. 70-octies, comma 5, d.P.R n. 396 del 2000 nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettifica di sesso, e cessata l'unione civile per sopraggiunta eterosessualità dei suoi componenti, proceda alla trascrizione del matrimonio nell'apposito registro. 5.1.1.- Ciascuna delle disposizioni denunciate integra, secondo il rimettente, «una violazione degli artt. 2 e 3 Cost., laddove introduce una ingiustificata disparità di trattamento in situazioni analoghe - dal matrimonio all'unione civile ma non viceversa - ed una ingiustificata limitazione alla libertà fondamentale dell'individuo, considerando l'automatico scioglimento dell'unione civile (in forza dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016), senza contestuale istituzione dell'unione matrimoniale, pur in presenza dei requisiti di validità previsti dalla legge - capacità, consenso validamente manifestato ed eterosessualità dei nubendi - con ciò non riconoscendo adeguata protezione e tutela ai suoi componenti in ossequio ai doveri solidaristici discendenti dall'essere (stati) essi parte di un gruppo sociale strutturato e legalmente riconosciuto». Infatti, si riconosce soltanto ai coniugi (art. 1, comma 27, della già citata legge istitutiva delle unioni civili) la facoltà di manifestare davanti al giudice della rettifica anagrafica di sesso la volontà di trasformare, senza soluzione di continuità o vuoti di tutela, il matrimonio, nel resto disciolto o cessato nei suoi effetti all'esito dell'automatismo rescissorio di legge, in unione civile. Il diverso trattamento riservato alle coppie omoaffettive che intendano mantenere il precedente consortium vitae e manifestino la loro comune volontà in tal senso, nella parte in cui non consente l'automatica trasformazione in matrimonio, priverebbe gli ex partners di «reciproca tutela per un lasso di tempo a priori indeterminabile», inoltre «obbligando gli stessi ad attivarsi, nelle forme ordinarie, per la costituzione dell'unione matrimoniale». 5.1.2.- Né la differente disciplina riservata alle coppie omoaffettive rispetto a quelle coniugate, ove entrambe interessate da transizione sessuale, in punto di conversione della relazione cessata in altra giuridicamente riconosciuta potrebbe trovare giustificazione nelle differenze di disciplina che unione civile e matrimonio presentano nella fase di formalizzazione del rapporto. Sul punto il rimettente svolge un duplice ordine di considerazioni. Da una parte, rileva che le pubblicazioni stabilite per i nubendi e che a determinate condizioni possono essere omesse (si citano gli artt. 100 e 101 del codice civile) sono strumentali ad una mera pubblicità-notizia (articoli da 93 a 100 cod. civ.), non incidono sulla validità del vincolo, valgono solo a consentire ai terzi l'eventuale opposizione in presenza di impedimenti (si cita Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 17 settembre 1993, n. 9578). Dall'altra parte, valorizza la formalizzazione prevista dal legislatore per la costituzione dell'unione civile all'art. 1, comma 2, della legge n. 76 del 2016 ed il suo valido superamento per la comune volontà manifestata dalle parti davanti al giudice (art. 1, comma 27, della medesima legge). Complessivamente da tale quadro normativo il giudice a quo ricava il carattere ingiustificato del diverso trattamento riservato alla coppia dello stesso sesso che, già unita civilmente, voglia contrarre matrimonio nella subentrata eterosessualità dei componenti. 5.2.- In riferimento, poi, all'art. 117, primo comma, Cost. e, quali parametri interposti, agli artt. 8 e 14 CEDU, il rimettente denuncia il vulnus che al diritto alla vita familiare e personale, nell'interpretazione consolidata della giurisprudenza convenzionale, deriva dalla censurata disciplina (viene menzionata Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 16 luglio 2014, Hämäläinen contro Finlandia, nella parte in cui ha enucleato «un obbligo positivo per lo Stato di porre in essere un procedimento efficace ed accessibile, atto a consentire al cittadino di far riconoscere legalmente il nuovo sesso pur mantenendo i suoi legami coniugali»). L'art. 8 CEDU, prosegue il giudice a quo, riconosce alla coppia dello stesso sesso, già legata dal vincolo dell'unione civile registrata, di conservare il «fulcro di diritti ed obblighi reciproci propri dell'essere (stati) parte di un'unione legalmente riconosciuta e tutelata» senza soluzione di continuità in caso di rettifica anagrafica di sesso e con garanzia anche nel tempo della transizione, nella rilevata esistenza di fatto dei requisiti per contrarre matrimonio al momento del passaggio in giudicato della sentenza che attribuisce sesso diverso al nubendo. 5.3.- Il rimettente esclude la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, per la mancanza di una lacuna dell'ordinamento che l'analogia legis presuppone (art. 12, secondo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile), e per la emersione dal plesso normativo in esame di «una chiara voluntas legis nel senso di garantire continuità di tutela alla sola ipotesi dello scioglimento del matrimonio in seguito a rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti, mediante trasformazione automatica in unione civile e non viceversa». Del resto, prosegue il giudice a quo, la stessa diversità degli istituti del matrimonio e dell'unione civile sia nella fase genetica, per la quale è prevista per l'unione la maggiore età dei partners (art. 1, comma 2, legge n. 76 del 2016), e per il matrimonio il compimento dei sedici anni, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni (art. 84 cod. civ.), che in quella di cessazione del rapporto, in relazione alla quale è escluso che l'unione civile debba essere preceduta da una fase di separazione personale delle parti, invece stabilita per i coniugi, esclude, come chiarito, la percorribilità della strada della interpretazione costituzionalmente orientata. 6.- Quanto alla rilevanza, il rimettente valorizza l'indole imponderabile ed indipendente dalla volontà delle parti e dal mero decorso dei termini processuali o di legge della probabile durata della perpetuazione del vuoto di tutela nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettifica anagrafica e la eventuale celebrazione del matrimonio, e richiama la volontà dell'attore, nel rischio, percepito come concreto del sopraggiungere di un peggioramento delle proprie condizioni di salute, di rinunciare agli atti del giudizio nel caso in cui non venga sollevato incidente di legittimità costituzionale. 6.1.- Il giudice a quo, dopo aver ricordato gli obblighi di assistenza e di coabitazione nonché di contribuzione, secondo rispettive sostanze e capacità professionali (si cita l'art. 1, comma 12, della legge n. 76 del 2016), ed il goduto regime patrimoniale di comunione dei beni dei componenti dell'unione civile, menziona i trattamenti previdenziali, successori e di tutela della salute e della dignità della persona incapace fruiti dalla coppia del medesimo sesso in costanza dell'unione civile, per poi rimarcare l'illegittimità costituzionale di ogni discontinuità che nel loro riconoscimento si realizza in pregiudizio della coppia omoaffettiva, nel passaggio tra unione civile e matrimonio, in considerazione del rischio di un evento nefasto involgente uno dei componenti dell'unione. 6.2.- A dar corpo al menzionato quadro normativo sono indicate le indennità di cui agli artt. 2118 e 2120 cod. civ. - che, spettanti al prestatore di lavoro, vengono riconosciute anche alla parte dell'unione civile, ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge n. 76 del 2016 - ed il trattamento successorio, esteso dall'art. 1, comma 21, della stessa legge alle parti dell'unione, con riferimento alle norme sulle successioni legittime ed ai legittimari, nella rimarcata diversa sorte riconosciuta, nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, agli istituti della pensione di reversibilità e delle cause di non punibilità del reato (viene menzionato l'art. 384, primo comma, del codice penale) rispetto al diverso fenomeno delle convivenze di fatto. Il rimettente cita al riguardo le sentenze della Corte di cassazione, sezione lavoro, 14 settembre 2021, n. 24694 e 6 luglio 2016 (recte: 3 novembre 2016), n. 22318, con le quali i giudici di legittimità hanno ritenuto di non poter estendere al convivente more uxorio, all'interno di una coppia del medesimo sesso non soggetta nella sua disciplina alla legge n. 76 del 2016, la pensione di reversibilità, e quelle di questa Corte n. 140 del 2009 e n. 461 del 2000, rispettivamente adottate sull'applicabilità al convivente di fatto della causa di non punibilità di cui all'art. 384, primo comma, cod. pen. e del trattamento pensionistico di reversibilità. 7.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni sollevate. 7.1.- La difesa statale deduce la mancata violazione, quanto alla prima delle sollevate questioni, dell'art. 2 Cost., nella non “trasferibilità”, in via automatica, alla fattispecie in esame delle valutazioni operate da questa Corte nella opposta ipotesi di conversione del matrimonio in unione civile, in esito alla rettifica anagrafica del sesso di uno dei coniugi. Sottolinea ancora l'interveniente che nello scioglimento dell'unione civile in seguito a rettificazione del sesso e conseguita eterosessualità della coppia, le parti potrebbero comunque scegliere di celebrare successivamente il matrimonio, laddove nel momento in cui venne pronunciata la sentenza n. 170 del 2014 non esisteva una regolamentazione delle unioni tra coppie omoaffettive che prevedesse, al verificarsi dello scioglimento del matrimonio, nella perduta sua fisiologica eterosessualità, la trasformazione del vincolo coniugale in altra unione giuridicamente tutelata. 7.2.- L'Avvocatura esclude altresì la fondatezza della questione sulla dedotta violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, rilevando che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 9, attribuisce agli Stati membri, con affermazione di riserva assoluta, il compito di garantire nei rispettivi ordinamenti il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (sul punto è menzionata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 15 marzo 2012, n. 4184) e, nella delicatezza delle sottese questioni di ordine etico, riconosce ai singoli ordinamenti statali il margine di apprezzamento (sono citate Corte EDU, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia e 3 novembre 2011, grande camera, S.H. e altri contro Austria). 7.3.- La difesa statale deduce ancora la non fondatezza della questione sulla ingiustificata disparità di trattamento, ai sensi dell'art. 3 Cost., tra lo scioglimento automatico dell'unione civile previsto dall'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 e le disposizioni contenute nel successivo comma 27. 7.4.- La specificità e non sovrapponibilità del matrimonio e dell'unione civile fa sì, secondo l'Avvocatura, che debba essere il legislatore ad intervenire per prevedere la possibilità della conversione dell'una nell'altro. 7.5.- A definizione dei diversi statuti, l'interveniente ricorda le pubblicazioni di cui all'art. 93 e seguenti cod. civ., previste per il solo matrimonio e la celebrazione, che deve essere officiata dall'ufficiale dello stato civile del comune di residenza di entrambi gli sposi, cui si può derogare secondo quanto previsto dall'art. 109 cod. civ., per poi richiamare la differente età in cui è possibile accedere ai due istituti: che è di diciotto anni per l'unione civile e di sedici anni, previa autorizzazione del giudice, per il matrimonio. 7.6.- Dopo aver ricordato le cause di scioglimento che le persone unite civilmente condividono con i coniugi, in riferimento alla dichiarazione di morte presunta e alla rettificazione di sesso, e quelle previste dall'art. 3, numeri 1) e 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), l'Avvocatura valorizza la possibilità, riconosciuta alle sole parti dell'unione, insieme o unilateralmente, di manifestare la volontà di scioglimento direttamente davanti all'ufficiale dello stato civile del luogo in cui l'unione è stata celebrata e la diversa modalità di scioglimento prevista invece per il matrimonio, per il quale è stabilito un periodo di separazione prima della cessazione degli effetti civili del vincolo. L'interveniente richiama quindi i differenti doveri che conseguono all'assunzione dei due legami, rispetto ai quali ritiene più stringenti quelli che vengono dal matrimonio, i doveri di fedeltà e di collaborazione nell'interesse della famiglia, non previsti, invece, per i componenti dell'unione civile. 7.7.- All'interno dell'indicata cornice, nel potere riconosciuto al legislatore di individuare le modalità per colmare le lacune normative potrebbe essere compresa, secondo l'Avvocatura, anche la scelta di estendere l'unione civile alle coppie eterosessuali, con conseguente abrogazione della risoluzione del vincolo nell'ipotesi di rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti. Quella di consentire alle parti dell'unione civile la conversione del precedente legame in matrimonio, in caso di rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti, non sarebbe che una delle molteplici soluzioni astrattamente ipotizzabili, che, potendo spingersi fino ad estendere la scelta dell'unione civile alle coppie eterosessuali, resterebbero rimesse, come tali, alla discrezionalità del legislatore (si cita la sentenza n. 230 del 2020 di questa Corte). Alla natura pubblicistica dell'istituto matrimoniale che disciplina «determinati effetti che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione)» si accompagnerebbe la conversione in unione civile, che rimarrebbe, secondo l'interveniente, esclusa nell'ipotesi inversa per effetto di una scelta ben precisa del legislatore, applicativa del principio secondo il quale «“il più comprende il meno”», che escluderebbe il vulnus dedotto. 7.8.- Il riconoscimento giuridico operato da questa Corte nei confronti delle coppie omoaffettive come formazioni previste dall'art. 2 Cost. e non con richiamo alla famiglia, tutelata dall'art. 29 Cost., escluderebbe ogni obbligo giuridico di rango costituzionale per il legislatore di estendere l'istituto matrimoniale a dette coppie. Il contenuto assiologico della relativa scelta resta quindi perseguibile, secondo l'Avvocatura, in via normativa, e vede il legislatore interprete della volontà collettiva nell'operato bilanciamento dei valori in conflitto e per una valutazione delle istanze più radicate nella coscienza sociale - come già avvenuto in materia di procreazione medicalmente assistita (si citano le sentenze n. 84 del 2016 e n. 162 del 2014) - lungo un percorso in cui lo spazio del sindacato di questa Corte rimane circoscritto alla verifica del carattere non irragionevole del bilanciamento. La concezione del sesso come dato complesso della personalità (si citano le sentenze di questa Corte n. 221 del 2015 e n. 161 del 1985) escluderebbe poi che l'equilibrio da instaurarsi dal legislatore in una materia eticamente sensibile possa essere modificato con sentenze additive. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, chiamato a pronunciarsi, nel corso di un giudizio di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso, sulla richiesta di trasformazione in matrimonio dell'unione civile contratta dal richiedente con altro soggetto, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, che dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso senza prevedere la possibilità della conversione in matrimonio per dichiarazione congiunta delle parti, senza soluzione di continuità con il preesistente legame. 1.1.- La medesima disposizione viene censurata altresì per contrasto con l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata disparità di trattamento riservata allo scioglimento dell'unione omoaffettiva, in seguito a rettifica anagrafica di sesso di uno dei contraenti, rispetto a quanto stabilito dal successivo comma 27 dello stesso art. 1 della legge n. 76 del 2016, che, nel caso in cui il medesimo fenomeno attraversi il vincolo matrimoniale, prevede che «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». 1.2.- In riferimento ai medesimi parametri e per le medesime ragioni il dubbio di legittimità costituzionale investe altresì l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, introdotto dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui non prevede, così come fa nell'ipotesi speculare di trasformazione del matrimonio in unione civile, che la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l'altro contraente dell'unione possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda di rettifica, di unirsi in matrimonio, con le eventuali annotazioni relative alla conservazione del cognome comune e al regime patrimoniale, nonché nella parte in cui non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all'ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell'unione civile, o di registrazione se costituita all'estero, di iscrivere il matrimonio nel relativo registro e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti sulla scelta del cognome e del regime patrimoniale. 1.3.- Viene, infine, censurato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, l'art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui non prevede che anche nell'ipotesi di cui all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, come emendato nel senso sopra specificato, il competente ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda alla trascrizione del matrimonio nell'apposito registro, con le eventuali annotazioni relative al cognome ed al regime patrimoniale. 1.4.- Il rimettente denuncia, in definitiva, il deficit di tutela che l'indicato compendio normativo produrrebbe nella parte in cui non comprende una disposizione analoga a quella di cui all'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016, introdotta in favore delle coppie già unite in matrimonio che, in seguito a rettifica anagrafica di sesso di uno dei coniugi, abbiano manifestato la volontà di trasformare il precedente vincolo in altro riconosciuto dall'ordinamento, con conversione del matrimonio in unione civile. 1.5.- Le parti dell'unione civile, nel caso in cui vivano analogo fenomeno secondo inversa direzione, si troverebbero prive di protezione nel lasso temporale, di durata imponderabile e che prescinde dalla loro volontà, intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione anagrafica di sesso e la celebrazione del matrimonio, con una discontinuità nella tutela, destinata ad integrare una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe (art. 3 Cost.) ed una limitazione della libertà fondamentale dell'individuo (art. 2 Cost.), con violazione dei doveri di solidarietà propri dell'unione civile come «gruppo sociale strutturato e legalmente riconosciuto». 1.6.- Si determinerebbe, inoltre, una lesione del diritto alla vita privata e familiare, tutelato dalla giurisprudenza convenzionale (art. 117, primo comma, Cost., e, quali parametri interposti, artt. 8 e 14 CEDU), in danno della coppia omoaffettiva nelle more della transizione verso il matrimonio, non venendo preservato il fulcro dei diritti acquisiti e dei rapporti goduti nella vigenza del regime dell'unione civile, quale formazione legalmente riconosciuta e tutelata. 2.- L'esame delle questioni sollevate richiede l'inquadramento delle stesse nella cornice normativo-giurisprudenziale di riferimento. 2.1.- Il riconoscimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento è stato il punto di approdo di un percorso già avviato dalle sollecitazioni del Parlamento europeo (risoluzioni 8 febbraio 1994, 16 marzo 2000 e 4 settembre 2003) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (tra le altre, sentenze 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia; 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia; 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria, 24 giugno 2010; nonché quella già citata resa nella causa Hämäläinen contro Finlandia, 16 luglio 2014), che avevano evidenziato la lacuna di tutela delle unioni omoaffettive, pur assicurando a ciascuno Stato un margine di discrezionalità nella scelta del modello di regolamentazione. Un percorso tracciato, nelle sue premesse, nell'ordinamento nazionale, dalla sentenza di questa Corte n. 138 del 2010, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme del codice civile che non consentono a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, non ha mancato di sottolineare come nella nozione di «formazione sociale», tutelata dall'art. 2 Cost., «è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Con la successiva sentenza n. 170 del 2014 questa Corte - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 2 Cost., degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui registravano il fenomeno del cosiddetto divorzio imposto, cioè lo scioglimento del matrimonio o della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso quale effetto della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso - ha rivolto un espresso monito al legislatore perché consentisse alle parti che avessero manifestato volontà in tal senso di non sciogliere automaticamente il matrimonio e «di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore» (punto 5.7. del Considerato in diritto). 2.2.- L'intervento di questa Corte, superando l'automatismo della legge sulla rettifica (di cui ai citati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982), ha aperto alla possibilità per i coniugi, ormai dello stesso sesso, a tutela dei diritti primari della coppia, di accedere ad un istituto che garantisse loro, analogamente a quanto fanno le norme sul matrimonio, diritti ed obblighi reciproci, senza soluzione di continuità e vuoti di tutela, istituto che è stato introdotto appunto con la citata legge n. 76 del 2016. L'unione civile (art. 1, comma 1) è stata così riconosciuta quale formazione sociale che garantisce i diritti inviolabili della persona, di cui provvede a rafforzare la tutela. Contestualmente, il legislatore ha consentito alle parti di convertire il matrimonio in unione, stabilendo che: «[a]lla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso» (art. 1, comma 27). 2.3.- Il successivo intervento del legislatore delegato, in attuazione dei principi e criteri direttivi fissati nella stessa legge n. 76 del 2016 (art. 1, comma 28), è stato ispirato alle esigenze di: «a) adeguamento alle previsioni della […] legge delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l'applicazione della disciplina dell'unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all'estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo; c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la […] legge [n. 76] delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti». 2.4.- In particolare, l'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017 ha introdotto all'interno dell'art. 31 (Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), ricompreso nel Capo IV (Delle controversie regolate dal rito ordinario di cognizione) del d.lgs. n. 150 del 2011, il comma 4-bis, che consente ai coniugi di manifestare nel giudizio di rettificazione anagrafica, fino al momento della precisazione delle conclusioni, la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non farne cessare gli effetti civili, convertendolo in unione civile; mentre l'art. 1, comma 1, lettera t), dello stesso d.lgs. n. 5 del 2017 ha inserito nel d.P.R. n. 396 del 2000 l'art. 70-octies, che, al comma 5, prevede che, in tale ipotesi, l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione nel cui giudizio le parti abbiano manifestato la volontà di convertire il matrimonio in unione civile, procede all'iscrizione della stessa e alle eventuali annotazioni relative al regime patrimoniale e alla scelta del cognome della coppia. 3.- Così ricostruite le fasi della evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha portato alla introduzione e alla disciplina delle unioni civili, può passarsi all'esame nel merito delle questioni sollevate, che sono solo in parte fondate, nei termini di seguito precisati. 3.1.- Non è anzitutto fondato il dubbio del rimettente in ordine alla disparità di trattamento che l'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016 produrrebbe nei confronti dei componenti di una unione civile rispetto alla coppia di coniugi, con riferimento alla facoltà riconosciuta dal successivo comma 27 dello stesso art. 1 soltanto a questi ultimi - nel giudizio di rettificazione anagrafica del sesso di uno dei componenti, in caso di accoglimento della relativa domanda, previa manifestazione di volontà congiuntamente resa dalle parti innanzi al giudice della rettificazione - di convertire il matrimonio in unione civile senza soluzione di continuità nelle tutele. 3.1.1.- Il rapporto coniugale si configura come un vincolo diverso da quello che ha fonte nell'unione civile, e non può essere ad esso assimilato perché se ne possa dedurre l'impellenza costituzionale di una parità di trattamento. Matrimonio e unione civile trovano differente copertura costituzionale, essendo il primo, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, riconducibile, nella giurisprudenza di questa Corte, all'art. 29 Cost. (sentenze n. 170 del 2014, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 138 del 2010, punto 9 del Considerato in diritto), e la seconda alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010). 3.1.2.- I due istituti rappresentano, dunque, fenomeni distinti, caratterizzati da differenti panorami normativi. Il legislatore del 2016 ha certamente attinto, nell'introdurre e disciplinare l'unione civile tra persone dello stesso sesso, a molte delle disposizioni che regolamentano il matrimonio: tra le altre, quelle sulle cause impeditive alla costituzione dell'unione, sui relativi effetti e sui mezzi per azionarle, di cui all'art. 1, commi 4, 5 e 6, della legge n. 76 del 2016 nei relativi rinvii al codice civile; la disciplina dei cognomi, di cui al successivo comma 10; la previsione degli obblighi reciproci all'assistenza morale e materiale, alla coabitazione ed alla contribuzione ai bisogni comuni, di cui al comma 11; il regime patrimoniale e delle donazioni e successioni di cui ai commi 13 e 21; i trattamenti previdenziali stabiliti dagli artt. 2118 e 2120 cod. civ., ai sensi del comma 17; sino a prevedere, con la cosiddetta clausola di equivalenza, posta dal comma 20 dell'art. 1, l'applicazione alle parti dell'unione civile di quelle disposizioni, ovunque ricorrenti, in cui figurino i termini «matrimonio», «coniuge» o «coniugi» «o termini equivalenti» (salve le norme del codice civile non richiamate espressamente nella stessa legge, tra le quali quelle relative alla filiazione, nonché le disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 recante «Diritto del minore ad una famiglia», relativo alla disciplina dell'adozione, fermo «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti»). 3.1.3.- Si tratta di un percorso che, pur sostenuto da ampia condivisione della disciplina legale del matrimonio, ha comunque fatto permanere significative differenze, tra l'altro, in tema di costituzione del vincolo (per la quale solo il matrimonio, e non l'unione civile, deve, in via generale, essere preceduto dalle pubblicazioni, ex artt. 93 e seguenti cod. civ., cui segue la possibilità di opposizione preventiva di cui agli artt. 102 e seguenti cod. civ., per le cause che ostino alla celebrazione del matrimonio stesso, indicate negli artt. 84 e seguenti cod. civ., opposizione non prevista, invece, per l'unione civile); in tema di accesso a quest'ultima, per cui è stabilita la maggiore età (art. 1, comma 2, della legge n. 76 del 2016), laddove per il matrimonio è prevista quella di sedici anni, in presenza di autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 84 cod. civ.); in tema di scioglimento dell'unione civile, la cui disciplina contempla forme più agili e di attenuato formalismo rispetto al matrimonio ed accentuata accelerazione dei relativi effetti (art. 1, commi da 22 a 26 della legge n. 76 del 2016), e non prevede una situazione intermedia quale la separazione personale. 3.1.4.- Può affermarsi, in definitiva, che, alla stregua della ricognizione della regolamentazione dei due istituti in esame, il vincolo derivante dalla unione civile produce effetti, pur molto simili, ma non del tutto coincidenti e, in parte, di estensione ridotta rispetto a quelli nascenti dal matrimonio, e ricompresa nel più ampio spettro di diritti ed obblighi da questo originati. La questione relativa alla dedotta ingiustificata disparità di trattamento tra coppie coniugate ed unite civilmente non è pertanto fondata per l'obiettiva eterogeneità delle situazioni a confronto. 4.- È, invece, fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, sollevata in riferimento all'art. 2 Cost. L'unione civile costituisce una formazione sociale in cui i singoli individui svolgono la propria personalità, connotata da una natura solidaristica non dissimile da quella propria del matrimonio, in quanto comunione spirituale e materiale di vita, ed esplicazione di un diritto fondamentale della persona, quello di vivere liberamente una condizione di coppia, con i connessi diritti e doveri. La coppia unita civilmente, in ragione dell'automatico scioglimento del vincolo (art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016), quale esito del percorso di transizione sessuale di uno dei suoi componenti previsto dalla legge n. 164 del 1982 (artt. 1 e 4), ove manifesti la volontà di conservare il rapporto nelle diverse forme del legame matrimoniale, va incontro comunque, nel tempo necessario alla relativa celebrazione, ad un vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri di cui era titolare in costanza dell'unione civile. La evidenziata mancanza di tutela nel passaggio da una relazione giuridicamente riconosciuta, qual è quella dell'unione civile, ad altra, qual è il legame matrimoniale, entra irrimediabilmente in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione, e comporta un sacrificio integrale del pregresso vissuto. Non senza considerare che, nel tempo necessario alla ricostituzione della coppia secondo nuove forme legali, i componenti potrebbero risentire di eventi destinati a precludere in modo irrimediabile la costituzione del nuovo vincolo. 4.1.- La tutela additiva reclamata dal rimettente rispetto alla coppia omoaffettiva che si sia trovata ad intraprendere il percorso di modifica del genere e voglia a sé conservare continuità nelle garanzie di legge nel passaggio tra unione civile e matrimonio, resta nei suoi presupposti riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari”, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte sotto il profilo di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore (sentenza n. 170 del 2014). 4.2.- Il percorso non è nuovo per questa Corte che, ancora recentemente, ha utilizzato il parametro di cui all'art. 2 Cost. per dare riconoscimento giuridico a relazioni affettive che, già connotate da una dimensione sociale, ricevono tutela in quanto strumento di formazione e sviluppo della personalità dell'individuo. Si tratta di affermazioni di principio che rivelano, nel tempo, nuove letture dei più tradizionali istituti del diritto civile di cui rimarcano la capacità di comprendere nuove funzionalità. Così, con riguardo all'adozione dei maggiorenni, la Corte è intervenuta sulla differenza di età tra adottante e adottando, aprendo l'applicazione dell'istituto al riconoscimento di nuovi legami familiari pur sempre, tendenzialmente, ispirati al legame tra genitore biologico e figlio (sentenza n. 5 del 2024, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 291, primo comma, cod. civ., nella parte in cui, per l'adozione del maggiorenne, non consente al giudice di ridurre, nei casi di esigua differenza e sempre che sussistano motivi meritevoli, l'intervallo di età di diciotto anni fra adottante e adottato). L'importanza delle relazioni affettive di fatto è stata altresì occasione per la giurisprudenza costituzionale, nella prestata attenzione alla piena ed equilibrata crescita del minore di età rispettosa della sua identità personale, per ripensare, escludendoli, taluni automatismi che, nel recidere, all'interno dell'adozione legittimante, i legami del minore con la famiglia di origine, erano destinati a minare la consapevolezza delle origini ed identità personale dell'adottando (sentenza n. 183 del 2023, sull'art. 27, terzo comma, della legge n. 184 del 1983). Analogamente, nell'ipotesi di adozione del minore in casi particolari (art. 44, comma 1, lettera d, della legge n. 184 del 1983), la sentenza n. 79 del 2022 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 55 della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui prevede che l'adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l'adottato e i parenti dell'adottante. Si è ancora rimeditato, sulla scorta dell'indicato abbrivo, l'ordine da darsi ai cognomi dell'adottato maggiorenne, nel riconoscimento del suo pregresso vissuto e del diritto all'identità della persona (sentenza n. 135 del 2023, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 299, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente, con la sentenza di adozione, di aggiungere, anziché di anteporre, il cognome dell'adottante a quello dell'adottato maggiore d'età, se entrambi nel manifestare il consenso all'adozione si sono espressi a favore di tale effetto; sentenza n. 131 del 2022, sull'attribuzione al figlio del doppio cognome dei genitori), nella rimarcata non appropriatezza del bilanciamento altrimenti operato tra identità personale del figlio e principio di eguaglianza tra genitori (sentenza n. 286 del 2016, sulla trasmissione del cognome della madre al figlio). 4.3.- Secondo l'indicato parametro ed in adesione al richiamato indirizzo, si tratta, nella specie, di dare contenuto al diritto inviolabile della persona di mantenere senza soluzione di continuità la pregressa tutela propria del precedente status, una volta condotto a compimento il percorso di affermazione della propria identità di genere, secondo principi di proporzione ed adeguatezza. L'individuo non deve essere altrimenti posto, in modo drammatico, nella condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità, di cui la perseguita scelta di genere è chiara espressione ed alla quale si accompagna l'automatismo caducatorio del vincolo giuridico già goduto, e la conservazione delle garanzie giuridiche che al pregresso legame si accompagnano, e tanto a detrimento della piena espressione della personalità. Il rimedio deve garantire la tutela della personalità del singolo lungo il tempo, non altrimenti governabile dalle parti, strettamente necessario alla celebrazione. 4.4.- E tuttavia, avuto riguardo alle differenze, già poste in evidenza, di struttura e disciplina tra matrimonio e unione civile, il rimedio alla accertata situazione di illegittimità costituzionale non può essere quello di omologare le due situazioni, estendendo alla seconda la disciplina di cui all'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016. Il rimedio va diversamente declinato, in modo che siano preservate dette differenze, ma, nel contempo, sia consentito di riconoscere alla coppia omoaffettiva, che, all'esito di un percorso di transizione di genere uno dei suoi componenti, voglia unirsi in matrimonio, un mezzo diverso ma destinato a replicare, in modo eguale e contrario, quello già previsto dal legislatore con l'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011. Quest'ultimo facoltizza la coppia coniugata, attraversata dalla modifica di sesso, a comparire davanti al giudice della rettificazione anagrafica per manifestare la volontà di rimanere legalmente unita, nella sopraggiunta omoaffettività. In direzione inversa lo strumento di tutela deve evitare ai componenti dell'unione civile per il tempo necessario alla celebrazione del matrimonio quella soluzione di continuità nel rapporto di coppia che si determini in ragione dell'acquisita nuova identità di genere di uno dei suoi componenti. 4.5.- A tal fine, lo strumento di tutela deve precludere, negli effetti, l'automatismo solutorio previsto dall'art.1, comma 26, della legge sulle unioni civili. Nella irrimediabile frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, le ragioni di proporzione ed adeguatezza del mezzo al fine sostengono l'individuazione del rimedio nella sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario a che le parti dell'unione civile, che abbiano congiuntamente manifestato una siffatta volontà davanti al giudice della rettificazione anagrafica entro l'udienza di precisazione delle conclusioni, permanendo nella loro iniziale intenzione, celebrino il matrimonio. 4.6.- La durata della sospensione, da ricercarsi nel sistema e, segnatamente, nella disciplina dell'istituto matrimoniale, deve individuarsi nel termine fissato dal codice civile per la celebrazione del matrimonio a far data dalle pubblicazioni, e quindi in quello di centottanta giorni previsto dall'art. 99, secondo comma, cod. civ. decorrente, però, nel caso in esame, dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso, che resta sospesa, così nel suo decorso, limitatamente all'effetto dell'automatismo solutorio del vincolo. 4.7.- La sospensione di tale effetto lascia alle parti la facoltà di procedere alla celebrazione del matrimonio, nel contempo conservando agli uniti civilmente la tutela propria del rapporto già goduto e riconosciuto nell'ordinamento nelle more della celebrazione del matrimonio. 5.- Va quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell'unione civile senza prevedere, laddove l'attore e l'altra parte dell'unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, l'intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. 6.- Ne consegue che il competente ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione del passaggio in giudicato di detta sentenza di rettificazione con dichiarazione del giudice di sospensione limitatamente agli effetti dello scioglimento del vincolo, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione e sino al decorso del termine di centottanta giorni, procederà alla relativa annotazione. 7.- Va, dunque, dichiarata altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell'unione civile fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. 8.- Restano assorbite le ulteriori censure propose dal rimettente. 9.- Vanno, invece, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, sollevate in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, il cui accoglimento presupporrebbe l'estensione, appena esclusa, della disciplina prevista dall'art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016, dettata per la ipotesi di conversione, a seguito di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, del matrimonio in unione civile, alle fattispecie speculari di rettificazione nei confronti di uno dei componenti dell'unione civile. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell'unione civile senza prevedere, laddove l'attore e l'altra parte dell'unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, l'intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione; 2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 70-octies, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», nella parte in cui non prevede che l'ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell'unione civile fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 26, della legge n. 76 del 2016, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), aggiunto dall'art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate, in riferimento gli artt. 2, 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. POSCIA Giorgio - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pe.An. nato a C il (Omissis) avverso il decreto del 14/09/2023 del GIUD. SORVEGLIANZA di TORINO udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO ALIFFI; lette le conclusioni del PG GIULIO ROMANO che ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato limitatamente alla richiesta ai sensi del comma 12 dell'art. 11 Ord. pen. RITENUTO IN FATTO 1. Con provvedimento in data 14 settembre 2023 il magistrato di sorveglianza di Torino ha respinto la istanza con cui il detenuto Pe.An. ha chiesto di essere autorizzato ad eseguire presso il centro (Omissis), in subordine, presso una struttura carceraria gli esami prescritti dal programma di procreazione medicalmente assistita. 2. Ricorre il condannato, per il tramite del difensore, avv. Do. Pu. sviluppando due motivi. 2.1. Con il primo, dopo avere premesso che il provvedimento impugnato è direttamente ricorribile in cassazione ai sensi dell'art. 11 della Costituzione, perché lesivo della libertà personale del detenuto, denuncia violazione dell'obbligo di motivazione. Lamenta che il magistrato di sorveglianza si sia limitato a rigettare l'istanza con una mera formula di stile ("Visto si rigetta") 2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di con riferimento all'art. 32 della Costituzione rimarcando che la giurisprudenza di legittimità ha già riconosciuto il diritto del detenuto di accedere al programma di procreazione assistito previsto dalla legge n. 40 del 2004. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è fondato. 1. Preliminarmente, va esaminata la questione relativa all'impugnabilità del provvedimento. Questa Corte ha di recente precisato che è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., il provvedimento di rigetto della richiesta avanzata dal detenuto, condannato o sottoposto a misura cautelare, ai sensi dell'art. 11, comma 12, Ord. pen. (Sez. 1, n. 39875 del 03/05/2023, Sedete, Rv. 285370 - 01; Sez. 6, n. 32583 del 13/07/2022, C., Rv. 283620 - 01). Si è pervenuti a tale approdo ermeneutico correttamente osservando che la decisione di rigettare la richiesta dei detenuti e degli internati di essere visitati a proprie spese da un medico di fiducia o di essere sottoposti a "trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o nei reparti clinici e chirurgici all'interno degli istituti, previ accordi con l'azienda sanitaria competente e nel rispetto delle indicazioni organizzative fornite dalla stessa", incide sul diritto alla salute garantito dall'art. 32, primo comma, Cost., riconducibile al novero dei diritti inviolabili dell'uomo indicati dall'art. 2 Cost. e riconosciuto nella sua pienezza anche alle persone detenute con conseguente onere dei pubblici poteri competenti non solo di astenersi da condotte lesive ma anche di assicurare i trattamenti sanitari necessari al raggiungimento del presidio costituzionale. In quest'ottica, la richiesta di cui all'art. 11, comma 12, Ord. pen., non è sottoposta ad alcuna condizione, se non la necessità del detenuto di curarsi, necessità che presuppone l'accertamento sanitario delle proprie condizioni. Ne segue che ogni qual volta il detenuto non si limiti a richiedere il trasferimento in strutture sanitarie esterne di diagnosi o di cura ai sensi dell'art. 11, comma 4, Ord. pen., ma prospetti anche la necessità di eseguire, a sue spese, trattamenti medici, chirurgici e terapeutici indispensabili per la cura e non eseguibili in carcere -attività che l'amministrazione è obbligata ad autorizzare salvo specifiche esigenze di sicurezza e di prevenzione del rischio di consumazione di reati da parte del condannato che vanno puntualmente indicate - la correlata decisione, risolvendosi, nella sostanza, nell'affermazione o negazione del diritto soggettivo della persona stessa ad essere adeguatamente curata, è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. Ili, comma 7, Cost. 2. Siffatta ipotesi, come evidenziato dal Procuratore generale nelle conclusioni scritte, ricorre nel caso in esame in cui il ricorrente ha chiesto, in via principale, di effettuare esami e prelievi funzionali ad un trattamento - quello di procreazione assistita, regolato dalla I. 19 febbraio 2004, n. 40 e dalle linee guida del D.M. 11 aprile 2008 - astrattamente funzionale alla cura della sterilità o infertilità e prospettato come indispensabile, urgente e non eseguibile all'interno della struttura carceraria, se non attraverso il ricorso a sanitari di fiducia. In questo senso, d'altra parte, si è già espressa questa Corte affermando che il magistrato di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi in ordine alla richiesta del condannato, anche se in regime di art. 41 bis ord. pen., di essere ammesso al programma di procreazione medicalmente assistita, essendo egli tenuto a valutare la fattibilità in concreto della pretesa avanzata, secondo un criterio di proporzione fra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e rispetto dei diritti fondamentali della singola persona (Sez. 1 n. 7791 del 30/01/2008, Madonia, Rv. 238721), riferendosi, in sede di valutazione della patologia dedotta come causa di sterilità o infertilità, alle linee guida contenute nel D.M. 11 aprile 2008, che integrano le previsioni generali della legge n. 40 del 2004 (Sez. 1, n. 11259 del 21/01/2009, Montani, Rv. 243355 3. Tanto posto, il ricorso è fondato. Come dedotto in ricorso, il provvedimento impugnato è totalmente privo di motivazione, contenendo solo il dispositivo senza l'esplicazione, sia pur succinta, dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento. Tale radicale carenza non può che condurre all'annullamento del provvedimento. Costituisce, infatti, violazione di legge ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l'inesistenza della motivazione che ricorre non solo quando l'apparato giustificativo della decisione è graficamente assente ma anche quando essa sia del tutto apparente per essersi il giudice limitato ad indicare in modo del tutto generico le fonti dalle quali ha inteso trarre la decisione, ovvero a richiamare in modo indeterminato il tipo di prova acquisita. 4. Per le considerazioni sin qui svolte il decreto impugnato deve essere annullato con rinvio per nuovo giudizio al Magistrato di sorveglianza di Torino. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo giudizio al Magistrato di sorveglianza di Torino. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto disposto d'ufficio e/o imposto dalla legge. Così deciso in Roma, l'8 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Trib. Milano sez. IX Decreto Presidente/Relatore Cattaneo Premesso in fatto (...) ha chiesto: che sia dichiarato che il minore (...), nato il (omissis) a (omissis) e figlio di (...) sia figlio di esso ricorrente; in via subordinata di essere autorizzato al riconoscimento di (...); che vengano pronunciati i provvedimenti opportuni in relazione all'affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell'articolo 315-bis c.c.; che vengano immediatamente adottati tutti i provvedimenti utili per ripristinare la relazione di esso ricorrente con il figlio minore; che, in caso di opposizione della (...) alla domanda di affidamento e mantenimento, che sia pronunciata sentenza non definitiva che tenga luogo del consenso mancante. Allegava che egli aveva instaurato una relazione sentimentale con la (...) dal 2016, che la coppia aveva deciso di intraprendere un percorso di PMA visto che la (...) non poteva concepire un figlio naturalmente, che si erano recati in Spagna per le pratiche di PMA, che la gravidanza era stata avviata con embrioni crioconservati provenienti da donatori anonimi, che il bambino era nato il (omissis) e che la mamma aveva scelto il nome (...), che la relazione con la (...) era proseguita a distanza, senza convivenza fino al giugno 2020, che egli aveva assunto un ruolo affettivo di riferimento sempre più importante per il minore ed un ruolo di responsabilità esterna per il bambino, che nel febbraio 2021 egli aveva avviato una relazione con altra donna, che fino al novembre 2021 la madre aveva consentito il protrarsi della relazione affettiva tra esso ricorrente ed il bambino, ma che poi era seguito un periodo di forte conflittualità perché la (...) aveva preteso che si formasse una famiglia unita e convivente in mancanza della quale avrebbe impedito ogni relazione padre/figlio, che l'ultimo incontro con il figlio era avvenuto il 5.3.2022. Evidenziava che era applicabile l'art. 250 c.c. . che la norma consentiva di assumere provvedimenti provvisori al fine di instaurare la relazione, che comunque il Tribunale doveva adottare i provvedimenti convenienti ex art. 333 c.c. a tutela del rapporto di fatto instaurato tra esso ricorrente ed il minore quale genitore sociale. Si costituiva la (...) opponendosi al riconoscimento in quanto il (...) non aveva affatto partecipato e condiviso il percorso di genitorialità che aveva portato alla nascita di (...). Si era trattato di una scelta esclusiva di ella resistente che si era determinata a costruire una famiglia monogenitoriale in totale autonomia. Evidenziava che effettivamente aveva avuto una relazione con il (...), che ella l'aveva notiziato del proprio progetto genitoriale, che gli aveva mandato le foto del piccolo e lo aveva informato di alcuni passi della sua crescita e che anche si erano verificati momenti di condivisione tra il (...) ed il minore, ma si era trattato solo di complessivi 48 giorni con incontri anche di un solo quarto d'ora , a fronte di 4 anni della vita del bambino, Chiedeva pertanto, il rigetto delle domande del ricorrente e la condanna dello stesso ex art. 96 c.p.c. Con decreto del 21.9.2022 il Tribunale, richiamata le sentenze della Corte Costituzionale n. 83 del 2011 e della Corte di Cassazionen. 27729 del 2013, nominava di ufficio al minore un curatore speciale nella persona l'avv. (...) del foro di Milano. Si costituiva il curatore speciale evidenziando l'ammissibilità in rito dell'azione ex art. 250 c.c., così come proposta dal ricorrente, non contestata dalla madre e ritenuta anche dal curatore lo strumento teoricamente corretto nella fattispecie de qua; sottolineava la profonda divergenza tra le ricostruzioni offerte dalle parti in merito all'esistenza o meno di un progetto di genitorialità condivisa, e la necessità di procedere con l'istruttoria orale, affinché al minore potesse, nel caso, essere garantito uno status corrispondente a quello che i genitori (o presunti tali) avevano ab origine pensato per lui. Anticipava che la domanda del ricorrente ex art. 330/333 c.c. per valutare compiutamente i comportamenti assunti dalla madre in vista di eventuali provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. applicabile rationae temporis, sarebbero stati di competenza del Tribunale per i minorenni, previa trasmissione degli atti da parte del Tribunale ordinario al Pubblico ministero minorile. All'udienza del 10.11.2022 veniva lungamente sentite le parti personalmente sui fatti di causa e venivano concessi i termini per il deposito delle memorie istruttorie Tempestivamente depositate le memorie delle parti, con decreto del 23.1.2023 venivano ammesse tutte le prova orali articolate sia per testi sia per interrogatorio formale del (...), ad eccezione di alcuni capitoli pacifici o irrilevanti; veniva altresì ammessa la prova contraria richiesta dal ricorrente e veniva delegato il GOT dr.ssa (...), autorizzata come da tabelle di questo Tribunale, per l'assunzione delle prove orali. All'udienza dell'8.3.2023 veniva sentito il (...) in sede di interrogatorio formale e venivano sentiti quali testimoni i genitori del (...), la madre Del (...) ed il padre (...), la ex compagna della (...), (...), la sorella della (...), (...), e una amica comune delle parti, (...) La causa veniva rinviata con decreto collegiale del 29.3.2023, su istanza della difesa del ricorrente per l'escussione del teste non comparso (...) che risiedeva in Argentina ma che sarebbe dovuto rientrare in Italia dalla fine di agosto 2023, come indicato dal ricorrente. Alla udienza del 21.9.2023, tenutasi innanzi al Presidente relatore su delega del Collegio, il teste non si presentava e la difesa del ricorrente si riportava ad una pec del predetto con la quale questi aveva genericamente dichiarato la propria impossibilità a comparire. Il difensore dichiarava di non essere a conoscenza se il teste fosse in I. o in A. e chiedeva un rinvio. Il Presidente relatore rigettava l'istanza di rinvio con la seguente motivazione: Rilevato che dalla pec inviata dal teste ammesso neppure si apprende se lo stesso sia in Italia o in Argentina, che la stessa pec indica un impedimento assolutamente generico del teste, che pertanto non è possibile rinviare la causa in assenza di un serio e giustificato impedimento del teste che già per la seconda volta non si è presentato mostrando di non voler adempiere all'obbligo di rendere testimonianza. Rilevato che neppure è possibile disporre l'accompagnamento coattivo del teste non essendo noto il suo indirizzo né la sua presenza in Italia. Richiamato anche il decreto collegiale del 29.3.2023 con il quale era stato anticipato l'esclusione di un ulteriore rinvio e rimetteva la causa al Collegio per la decisione nel merito. CONSIDERATO IN DIRITTO La domanda ex art. 250 co. 4 c.c., a prescindere da una puntuale valutazione sulla sua applicabilità al caso di specie (invero non è avanzata dal padre biologico, bensì da colui che si afferma genitore intenzionale) è infondata e deve essere respinta atteso che manca del tutto la prova che il (...) sia genitore di intenzione del figlio nato dalla (...) In primo luogo deve evidenziarsi che tutta la documentazione attestante la gestazione della (...) attraverso le tecniche di PMA effettuata presso la Clinica (omissis), datata (omissis), è intestata alla sola (...) (si vedano il programma di ovodonazione, il consenso alla crioconservazione e immagazzinamento dei embrioni, l'accettazione di ovociti a fini riproduttivi, la ricezione di ovociti a fini riproduttivi ed infine lo scongelamento ed il transfert di embrioni propri) e reca l'indicazione della (...) come "donna single". In secondo luogo dalle stesse dichiarazioni rilasciate delle parti e dai testi emerge che il progetto genitoriale è nato quando la (...) ancora conviveva con la sua precedente compagna, (...) Quest'ultima, sentita come teste - e della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare- ha dichiarato che si trattava di un progetto della (...) al quale ella non aveva aderito: "(...), quando stavamo insieme, mi ha detto che desiderava la maternità e che avrebbe portato avanti il suo progetto indipendentemente dalla mia adesione.. Sono sempre stata consapevole del fatto che se nella nostra relazione fosse entrato un bambino, questo sarebbe stato il figlio di (...)" La teste (...), amica di entrambe le parti -della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare-, ha dichiarato di essere amica da anni della (...) e di avere conosciuto il (...) da quanto la (...) aveva a iniziato a frequentarlo. Ha dichiarato: "Io sapevo che il suo progetto di maternità voleva attuarlo indipendentemente dalla persona che aveva accanto ... Io sono stata presente in più occasioni durante le quali lui stesso, davanti a me, ha dichiarato di essere troppo giovane per diventare papà. Inoltre rappresentava anche motivi familiari, dal momento che sua madre era contraria alla relazione. ADR: Il sig. (...) era a conoscenza del fatto che il progetto di maternità di (...) prescindeva dalla sua posizione, lo so perché se ne è parlato anche davanti a me. Ribadisco che la sua posizione era di non volere un figlio in quel momento. Diceva che non era il caso. Ha più volte dichiarato, davanti a me, che era troppo giovane....Non ho mai sentito il sig. (...) dire che voleva costituire una famiglia con (...) ed il bambino. ADR: Più o meno credo di avere incontrato il sig. (...) una decina di volte e l'ultima volta qualche tempo dopo la nascita del bambino di (...)..." Lo stesso (...) sentito liberamente alla udienza del 10.11.2022 ha dichiarato: "ho conosciuto la (...) nel novembre del 2016, fin da subito mi ha fatto presente di aver avuto questo progetto di PMA; all'epoca aveva ancora una relazione con (...) All'inizio avevo 25 anni e non avevo in progetto di avere figli, alla sua proposta mi sentii scombussolato e non era mio interesse in quel momento avere un figlio ... ha fatto quasi tutto da sola durante il percorso, però ci sono stati dei momenti in cui voleva abbandonare il percorso e io l'ho incoraggiata a proseguirlo". Ed ancora, sentito in sede di interrogatorio formale alla udienza dell'8.3.2023, ha confermato che il progetto era di (...) ma che poi anche lui ci è "caduto dentro, intendo dire che il progetto iniziale non è partito da me, ma poi volevo che avesse questo bambino; primo per lei, che aveva abbracciato questo progetto, e poi anche per me. ADR: Sono entrato nel progetto nel senso che ci ho creduto: l'ho accompagnata in Spagna la prima volta e poi, anche se non ero molto presente, perché io mi trovavo a Livorno e lei a Milano, facevamo molte video chiamate". Pertanto il Tribunale ritiene pacifico che il (...), che pur ha, in parte, sostenuto la compagna nel suo progetto di maternità, l'ha accompagnata in Spagna la prima volta, e l'ha qualche volta incoraggiata con messaggi telefonici, ne sia rimasto del tutto estraneo. Significativo appare il fatto che il (...), che si è recato in Spagna con (...) il 24 giugno 2017 fino al 26 giugno2017 (cfr. biglietti aerei prodotti dal ricorrente), non ha sottoscritto la documentazione di avvio del percorso con la Clinica (omissis) datata (omissis) dalla quale emerge, come detto, non solo la sola sottoscrizione della (...), ma anche l'indicazione della stessa come "donna single". La circostanza descritta costituisce prova certa della mancanza della volontà di partecipazione del (...) alla gestazione della compagna. Fornisce la prova che il ricorrente non ha maturato la decisione di avere un figlio unitamente alla sua compagna per realizzare e costruire una famiglia a dispetto della impossibilità della donna a procreare (la (...) era in menopausa), ma che si è limitato a sostenerla in una avventura nella quale egli non ha voluto entrare. L'ha accompagnata in Spagna ma è rimasto mero spettatore del progetto procreativo scelto ed avviato dalla compagna. Ulteriore considerazione anch'essa significativa della posizione del (...) e della (...) in relazione alla genitorialità è quella che l'uomo, che pur avrebbe potuto, non ha fornito il proprio seme alla compagna. Lui l'avrebbe proposto (si veda udienza 10.11.2022) ma lei ha rifiutato e comunque non è stata scelta detta strada che avrebbe potuto portare ad un percorso di PMA in Italia secondo la L. n. 40 del 2004 che consente detta tecnica procreativa alle coppie eterosessuali conviventi anche non sposate dalla quale il figlio nato acquisisce automaticamente, al momento della nascita, lo stato giuridico di figlio riconosciuto. Se ne deduce che l'esclusione del percorso in Italia trovi la propria giustificazione proprio sulla mancanza di adesione del (...) Non appare verosimile che i due non abbiano neppure tentato una PMA nel nostro Paese, sicura e meno costosa, solo perché pensavano di non potervi accedere perché mancava la convivenza, come riferito dal (...) alla udienza dell'11.10.2022: erano una coppia eterosessuale e se avessero avuto un reale progetto di costruire una famiglia dando alla luce un bambino la mancanza di convivenza formale avrebbe potuto essere superata. Che invece la scelta fosse proprio quella di un progetto in solitario sembra emergere anche dai messaggini scambiati dalla coppia nel 2019 prodotti dal ricorrente a proposito di costi e di detraibilità delle spese mediche sostenute in Spagna. La (...) si lamenta che le detrazioni da ella richieste non fossero state riconosciute e che fosse necessaria una dichiarazione del medico italiano che attestasse che quel trattamento era consentito in Italia. (...) risponde in data 25.10.2019: "ma quel trattamento non è consentito in Italia" e (...) replica: "per assurdo se lo avessi fatto quando io ho fatto il trattamento, mi accompagnavi tu, figurava che ero in coppia e il trattamento è consentito . da sola no in coppia si .. ma loro non sanno se io l'ho fatto in coppia o no? E lui risponde: "noi abbiamo entrambi i biglietti per (omissis) no?.. Dovrebbero essere attestanti". Lo scambio conferma che i due ben sapevano che in Italia avrebbero potuto presentandosi come coppia, come in realtà erano, ed attivare una PMA secondo la L. del 2004 -estesa anche alla fecondazione eterologa dalla Corte Costituzionale nel 2014 -, che a (omissis) il progetto era intrapreso solo dalla donna e che a posteriori forse avrebbero potuto utilizzare i biglietti aerei per far figurare un progetto comune. Ulteriore conferma si ricava da alcuni sms scambiati dalla coppia. Il 24.5.2017, prima della nascita, lei scrive a lui: "oggi Amore mi è piaciuta la spontaneità con cui hai detto 'il nostro bimbo quello che farai in Spagna adesso'. Ti è scappato così senza neanche rendertene conto . mi è piaciuto. Mi hai sorpresa. So che non vuol dire nulla, ma ho apprezzato molto l'aggettivo 'nostro'. Si tratta di frasi che confermano che il (...) non è stato un genitore intenzionale e cioè il partner che ha deciso di costruire un progetto familiare con la propria compagna e che ha inteso assumere la responsabilità di scegliere le tecniche di procreazione medicalmente assistita per consentire la nascita di un bambino che diventa figlio della coppia, a prescindere dal legame genetico. Per questo tipo di padre l'aggettivo "nostro" assume lo stesso significato che riveste per un padre biologico e certamente non "scappa senza rendersene conto". Nulla consente di affermare, come invece espresso nel ricorso, che nel presente giudizio sia provato "il progetto di formazione di una famiglia caratterizzato dalla presenza di figli anche indipendentemente dal dato genetico", o che possa invocarsi il "principio di auto responsabilità procreativa" o che "il minore sia nato da atti consapevolmente volti alla riproduzione umana e consistenti nel consenso alla realizzazione di pratiche di fecondazione assistita". Nessun progetto è stato dal (...) condiviso, nessuna autodeterminazione alla procreazione è stata da lui maturata, nessun consenso alla realizzazione di pratiche di PMA è stato espresso. E tutto ciò, oltre che risultare dagli atti prodotti, è stato affermato dallo stesso (...) in sede di interrogatorio libero e formale. In conclusione, sul punto, non può che escludersi che il (...) sia genitore intenzionale del piccolo (...) che è nato per un progetto di genitorialità della sola (...) con il conseguente rigetto della domanda principale costruita sulla base dell'art. 250 co. 4 c.c. L'eventuale intenzione del (...), successiva alla nascita, di esercitare un ruolo genitoriale nei confronti del nato, se è del tutto incompatibile con l'azione di cui all'art. 250 c.c. potrebbe portare -come insegnato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 225/2016- al riconoscimento di un ruolo di "genitore sociale" e cioè di una relazione forte tra l'adulto ed il minore, figlio della compagna, tanto che l'interruzione ingiustificata di detto rapporto da parte del genitore biologico al momento della cessazione della relazione sentimentale e della convivenza, sarebbe riconducibile alla condotta del genitore "comunque pregiudizievole al figlio" in relazione alla quale l'art. 333 c.c. consente al giudice di adottare i "provvedimenti convenienti", per esempio prevedendo le frequentazioni del minore con l'ex compagno della madre. Deve però escludersi che anche sotto questo profilo la genitorialità del (...) sia provata. La relazione tra la (...) ed il (...) è durata fino al giugno-luglio 2020, quando il piccolo (...) aveva meno di due anni. La teste (...), ex compagna di (...), che ha avuto con lei una relazione di circa 12 anni e che ha vissuto con la stessa anche dopo la fine della relazione ("siamo rimaste a vivere sotto lo stesso tetto anche nonostante il fatto che ci fossimo lasciate ... Quindi quando è nato (...) vivevamo ancora nella stessa casa. ADR: La coabitazione è finita a fine settembre 2019/primi di ottobre") ha dichiarato "Io non ho mai visto il sig. (...) Io sono stata presente per tutta la gestazione ed ero presente il giorno della nascita di (...) Come ho detto, ho vissuto con (...) fino all'anno di età del bambino e le rare occasioni in cui il sig. (...) veniva io andavo da un'altra parte o usciva (...) Comunque, seppure non ricordo con precisione quante volte sia capitato, posso dire che sono state veramente poche ... Tra il 2017 e il 2019 è capitato due o tre volte che io e (...) prendessimo accordi in quanto doveva arrivare il sig. (...)". La scarsa frequentazione del (...) con il piccolo (...) è affermata dalla madre: solo 48 incontri, considerate anche le visite molto brevi, fino alla interruzione dei rapporti adulto/minore, voluta dalla madre, nel marzo 2022 (doc 12 resistente). Il (...) ha precisato (udienza 10.11.2022) che ha visto il minore più dei 48 giorni detti dalla controparte "anche se non molti di più ... le videochiamate però sono state frequenti". Si tratta comunque di pochi giorni, di una relazione adulto/minore occasionale, qualche volta la domenica e qualche ora saltuariamente durante i giorni di lavoro del (...) (sempre alla suddetta udienza ha dichiarato: Lavoro dal lunedì al sabato compreso, anche di notte, guido i camion. Non riesco a fare altro. Gli unici giorni possibili in cui poter vedere il bambino erano la domenica ed qualche volta visite occasionate dal lavoro, quando mi avvicinavo a Milano per trasportare le merci). È inoltre pacifico che la famiglia del (...), soprattutto la madre, fosse assolutamente contraria alla frequentazione del figlio con la (...) e che tale intromissione abbia ostacolato la relazione e la libertà di movimento del ricorrente. La di lui madre, invero, che organizzava l'attività della impresa di trasporto della famiglia, sentita come teste, ha dichiarato che evitava di dare al figlio incarichi e viaggi su quella zona per evitare che andasse dalla (...) "se avevo come destinazione Milano To mandavo a Roma" ed anche che lo monitorava con una applicazione che era utilizzata da una rete di genitori per sapere dove si trovavano i figli. Anche il resistente ha dichiarato, in sede di interrogatorio formale, quanto al progetto di genitorialità: "Sul progetto di genitorialità non abbiamo mai trovato il bandolo della matassa: non sapevamo se gestirlo da genitori separati o se rimanere come una famiglia unita: (...) voleva una famiglia unita, io no: avrei voluto crescere il bambino senza restare con lei. ADR: LA nostra relazione è durata dal 2017 fino a metà del 2020, sempre restando io a Livorno e (...) a Milano, per vari motivi non abbiamo mai preso in considerazione la possibilità di convivere ...All'inizio della nostra relazione ho pensato ad avere una famiglia con (...), dopo, anche a causa della guerra con i miei genitori, ho rinunciato al progetto. ... una volta lei aveva anche pensato di accedere ai concorsi pubblici di insegnati in Toscana, invece che in Lombardia, ma io l'ho dissuasa perché ancora non si sapeva se avremmo potuto convivere insieme e mi dispiaceva dovermi sentire in colpa per averla fatta trasferire in Toscana, qualora ci fossimo poi lasciati. ADR: Il dubbio di poter vivere insieme dipendeva dal rapporto con i miei genitori". Se è vero che vi sono messaggini scambiati tra le parti che manifestano affetto del (...) verso il piccolo (...), e se danno conto di momenti trascorsi insieme (vedi anche foto prodotte. Ma la mamma ha prodotto foto analoghe che ritraggono (...) con altri uomini, suoi amici) certamente non forniscono la prova di assunzione di responsabilità genitoriale da parte del (...) verso il minore, nel senso di quel fascio di diritti/doveri che gravano sul genitore finalizzati alla crescita del figlio ed allo sviluppo della sua personalità nel rispetto delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni e di una frequentazione qualificata nell'ambito della quale il minore abbia potuto identificare nel (...) la figura paterna e godere delle cure, della assistenza morale e materiale, della istruzione e della educazione da parte del predetto. Detto fascio di oneri, anche di rilevanza pubblica, che vanno a costituire il rapporto tra il genitore ed il figlio è caratterizzato da assunzione di responsabilità, da condivisione di decisioni con l'altro genitore nel rispetto della bigenitorialità, dalla convivenza o comunque dalla vicinanza fisica con il minore, dalla condivisione delle spese per la sua crescita, dal sostegno fornito al minore in tutti i campi, ma anche dall'esercitare la responsabilità nei rapporti con i terzi, non essendo sufficiente a tal fine che la madre nell'anno scolastico 2021/2022 abbia delegato anche il (...) a prelevare dall'asilo il minore, non risultando se poi questa delega sia stata o meno effettivamente esercitata (doc 14 doc (...)). Non può provare tutto quanto sopra indicato e cioè il ruolo paterno nella vita del figlio della compagna qualche messaggino prodotto in causa dove la (...), certamente ancora legata da affetto verso il (...) e quando ancora confidava nella ripresa della relazione sentimentale, abbia associato al (...) la parola "papà" (tu stai facendo in questi giorni il meglio che puoi per fare il papà e fidati che ci stai riuscendo") o abbia riferito che il bambino abbia chiesto la presenza del (...) Né può essere sufficiente che il (...) si sia affezionato al piccolo (...) (in un suo messaggino si legge: "l'ho visto crescere ed ho imparato a volergli bene prima senza nemmeno pensarci e me ne sono innamorato col tempo io lo amo come fosse mio anche se non ha niente di me"). Se questo sentimento dell'adulto può forse essere cresciuto con il tempo (comunque non presente inizialmente e non sufficiente a superare gli ostacoli posti dalla di lui madre ed essere presente nella vita del piccolo, ad iniziare una convivenza con la (...) quando la relazione era ancora viva) sentimento forse basato maggiormente su una idea astratta di paternità, vista l'assenza di effettiva relazione con il figlio, è comunque solo un sentimento dell'adulto. Al contrario nella valutazione che potrebbe portare alla adozione dei provvedimenti di cui all'art. 333 c.c. è l'interesse del minore da porre al centro, è il pregiudizio per il minore che deve essere accertato e superato con l'adozione dei provvedimenti convenienti. Nel caso in oggetto nessun pregiudizio è stato neppure allegato per il piccolo (...) conseguente alla interruzione del rapporto con il ricorrente. Nulla di più di salutari ed intermittenti incontri e qualche video chiamata hanno legato il minore con il (...), nulla di simile ad una relazione tra un bambino ed un adulto che ha assunto e svolto nel tempo un ruolo genitoriale è stato dedotto e provato nel presente giudizio. Pertanto nessuna condotta pregiudizievole per il figlio è riscontabile nella decisione della madre di interrompere le frequentazioni del minore con il (...) Le spese di lite della resistente e del curatore speciale, vista la soccombenza, devono essere poste a carico integrale del ricorrente e si liquidano, d'ufficio, come in dispositivo, in ragione del valore e della natura del presente giudizio, visto il D.M. n. 55 del 2014 ed il D.M. n. 147 del 2022. La domanda ex art. 96 c.p.c. deve invece essere rigettata. Malgrado le domande siano del tutto infondate non si riscontra mala fede, e se la valutazione di agire in giudizio è connotata da colpa non si ritiene che possa essere qualificata, quantomeno a carico del (...), come colpa grave. P.Q.M. Il Tribunale definitivamente pronunciando, RIGETTA le domande svolte da (...), CONDANNA il (...) alla rifusione delle spese del presente giudizio sostenute da (...) che vengono liquidate in Euro 3.500, oltre spese generali forfettarie, oltre IVA e CPA come per legge, e alla rifusione delle spese del giudizio sostenute dall'avv. (...), curatore speciale, che vengono liquidate in Euro 1.500, oltre spese generali forfettarie, oltre IVA e CPA come per legge, RIGETTA la domanda della (...) ex art. 96 c.p.c. Così deciso in Milano il 14 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Brescia, Sezione Lavoro, composta dai Sigg.: Dott. Antonio MATANO - Presidente Dott. Giuseppina FINAZZI - Consigliere Dott. Laura CORAZZA - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile promossa in grado d'appello con ricorso depositato in Cancelleria il giorno 24.04.2023 iscritta al n. 138/2023 R.G. Sezione Lavoro e posta in discussione all'udienza collegiale del 21.09.2023 da An.Da. ed altri, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Ma.Lo. ed An.Ba. del foro di Milano, domiciliatari giusta delega in atti. RICORRENTI APPELLANTI contro As. in persona del Direttore p.t., rappresentata e difesa dall'avv. An.Pu. del foro di Mantova domiciliatario giusta delega in atti. RESISTENTE APPELLATA In punto: appello a sentenza n. 175 del 2022 del Tribunale di Mantova. FATTO E DIRITTO Con la sentenza n. 175 del 26 ottobre 2022, il Tribunale di Mantova ha rigettato il ricorso proposto dagli odierni appellanti nei confronti di As. - di M., per sentire accertato il loro diritto ad ottenere la retribuzione del tempo necessario per raggiungere lo spogliatoio dall'ingresso in ospedale, per togliersi gli abiti civili e gli accessori ed indossare la divisa di lavoro fornita, per il tragitto dallo spogliatoio all'ascensore, per il tempo di attesa di fronte all'ascensore, per il tempo di percorrenza dall'ascensore al reparto e per le medesime operazioni svolte al contrario all'uscita dal lavoro, tempo pari a 15 minuti complessivi, ovvero al tempo maggiore o minore accertato in corso di causa. Il Tribunale, premesso che i tempi di vestizione e svestizione dei lavoratori obbligati ad indossare una divisa per eseguire la prestazione sono ricompresi, per giurisprudenza ormai unanime, nell'orario di lavoro, ha affermato che era onere dei ricorrenti dimostrare di non essere stati retribuiti per l'intero orario lavorativo svolto. Il Tribunale ha ritenuto non assolto l'onere in questione, in quanto nel ricorso erano state ricondotte "ad unità" tutti le posizioni dei 135 ricorrenti, senza distinguere fra coloro che lavoravano (o avevano lavorato in passato) presso servizi che assicurano la c.d. "continuità assistenziale" e coloro che invece non lavoravano (o non avevano lavorato in passato) in servizi h 24, né fra la prestazione da essi resa prima della sottoscrizione del CCNL del 2018 e quella svolta dopo la vigenza delle nuove norme contrattualcollettive. Nessuna specificazione poi vi era in ricorso in merito ai reparti/servizi/ambulatori in cui ciascuno dei ricorrenti lavorava o aveva lavorato nel tempo, né vi era alcuna indicazione in ordine alla collocazione dei vari dispositivi di timbratura e, tanto meno, riguardo alla distanza esistente fra il lettore di badge più prossimo allo spogliatoio, lo spogliatoio stesso ed il reparto di assegnazione di ciascuno di essi. Né, peraltro, i ricorrenti avevano indicato l'inquadramento, il ruolo, le mansioni svolte da ciascuno di essi, la data di assunzione e la durata del rapporto. Peraltro, i ricorrenti avevano dedotto di svolgere tutti mansioni di infermiere, mentre la convenuta aveva affermato (e dette circostanze non erano state contestate) che otto ricorrenti svolgevano la loro opera in qualità di operatori sanitari (ostetriche), due svolgevano mansioni di coordinatori di struttura, due di tecnici di radiologia medica, uno svolgeva attività prettamente amministrativa e, infine, sei di essi avevano cessato il rapporto di lavoro per dimissioni volontarie negli anni 2020 e 2021. I ricorrenti, poi, avevano indicato due soli testimoni che poco o nulla avevano saputo riferire in ordine alle concrete tempistiche dei 135 colleghi, limitandosi a raccontare la propria esperienza personale e ad affermare, sostanzialmente, che "così fan tutti". Si trattava, quindi, di deposizioni del tutto insufficienti per dimostrare gli assunti dei ricorrenti, anche perché i testi della convenuta avevano illustrato il complesso meccanismo adottato dall'As. per la rilevazione delle presenze e per la retribuzione del c.d. "tempo tuta", confermando che era impossibile generalizzare una situazione che cambia "ontologicamente" in relazione a plurime variabili e che presenta una regolazione mutevole, in primis, in relazione all'articolazione dei turni nei servizi e reparti "aperti" 24 h su 24 rispetto a quella nei servizi che non garantiscono continuità assistenziale. Così stando le cose, il Tribunale ha rigettato tutte le domande proposte dai ricorrenti, ivi compresa quella di disporre c.t.u. per quantificare le tempistiche necessarie per le operazioni di vestizione e svestizione e per il conseguente raggiungimento dei reparti di appartenenza, non potendo la c.t.u. essere utilizzata per colmare le lacune probatorie in cui erano incorsi i ricorrenti o per alleggerirne l'onere probatorio. Con ricorso depositato il 24 aprile 2023, i 135 ricorrenti hanno proposto appello avverso la sentenza, chiedendone la riforma, con accoglimento dell'originario ricorso. Con il primo motivo, gli appellanti hanno censurato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto la genericità del ricorso introduttivo del giudizio. Secondo gli appellanti, le specificazioni richieste dal Tribunale sarebbero inconferenti ai fini del decidere, avendo la domanda ad oggetto l'accertamento di un diritto che prescinde dall'adibizione ad un reparto piuttosto che ad un altro, così come dall'anzianità di servizio. In ogni caso, le informazioni richieste dal Tribunale e ritenute non allegate sarebbero state presenti sia all'interno delle buste paga prodotte con il ricorso sub. doc.1) che nei cartellini marcatempo prodotti da A. nei docc. 2), 4), 5) e 7), nonché nei capitoli 3, 9 e 16 del ricorso (relativi al posizionamento di timbratrici e spogliatoi ed alla divisione in presidi di A.). Inoltre, nel ricorso sarebbe stata presente la distinzione tra due momenti - il "periodo antecedente la stipula del CCNL 21-05.2018" (pag. 27) e il "periodo successivo alla stipula del CCNL 21.05.2018" (pag.28). Con il secondo motivo, gli appellanti hanno evidenziato come, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, dall'esame degli atti e dell'istruttoria di primo grado sarebbe emersa la prova che le disposizioni aziendali richiedessero loro di trovarsi in reparto indossando la divisa all'orario di inizio turno e di abbandonare il reparto all'orario di fine turno dopo avere effettuato il passaggio di consegne con il collega del turno entrante, cambiarsi e solo successivamente timbrare. Sarebbe stato altresì dimostrato che, ciononostante, la retribuzione sarebbe stata corrisposta dall'inizio del turno di lavoro e non dal momento della timbratura. Inoltre, sarebbe emersa anche la prova dell'insufficienza dei 15 minuti previsti dal CCNL Comparto Sanità del 2018 (il primo a disporre sui temi del c.d. tempo tuta e del passaggio di consegne) per coprire sia l'attività di vestizione/svestizione che quella del passaggio di consegne. Infine, dall'analisi combinata dei documenti allegati (cartellini marcatempo e buste paga) e delle testimonianze sarebbe emerso che i ricorrenti, in media, timbrassero 8,5 minuti prima dell'inizio del turno e 8,5 minuti dopo la fine del turno. Con il terzo motivo, gli appellanti hanno lamentato l'errata valutazione degli elementi istruttori da parte del primo giudice, avendo egli ignorato tutti i fatti, dimostrati, di cui s'è supra dato conto ed immotivatamente fatto maggiore affidamento sui testi della convenuta, sebbene i testi escussi su loro istanza fossero del tutto privi di interesse in causa e le loro dichiarazioni perfettamente convergenti, oltre che confermate anche dal teste della convenuta Fr.Va.. Al contrario, le dichiarazioni rese dai testi della convenuta erano contraddittorie sia in sé, sia se confrontate tra loro. Con il quarto motivo, gli appellanti hanno censurato la sentenza per non avere ammesso la c.t.u. richiesta, essendo la stessa finalizzata ad ottenere la validazione del tempo necessario per effettuare l'operazione di vestizione e svestizione che, in accordo con i cartellini prodotti solo successivamente da A., era già stato stimato nel ricorso introduttivo in 15 minuti complessivi, 7,5 in entrata e 7,5 in uscita. Con memoria dell'11 settembre 2023 si è costituita l'appellata, eccependo in via preliminare l'inammissibilità dell'appello, in assenza di una ragionevole probabilità di accoglimento, e chiedendo, nel merito, il rigetto del gravame e la conferma della sentenza gravata. In particolare, l'appellata ha affermato che l'inizio del turno coincide con l'orario di inizio della prestazione lavorativa (e, quindi, della remunerazione), così come previamente individuato (ed indicato nel cartellino) dalla datrice di lavoro, mentre l'inizio del turno non coincide con la presenza del dipendente nel servizio di appartenenza, potendo il dipendente entrare nell'unità operativa dopo essersi recato negli spogliatoi ed essersi cambiato. L'appellata ha affermato di riconoscere, all'interno della fascia oraria di servizio retribuita, un periodo di tempo appositamente dedicato alle operazioni di cambio divisa e di passaggio di consegne. Convenzionalmente, il periodo di tempo riconosciuto per il c.d. "cambio tuta" viene posto dall'Azienda all'inizio o alla fine del turno lavorativo risultante dal profilo orario (visibile sul cartellino del singolo dipendente). È lasciata, invece, alla discrezionalità del singolo dipendente la gestione del suddetto tempo da suddividersi tra inizio/fine turno (e, dove previsto, passaggio di consegne). In particolare, per i 54 appellanti che lavorano all'interno delle aree di degenza attiva h24, è presente all'interno della fascia oraria di servizio un arco temporale di 15 minuti (con sovrapposizione tra il turno entrante ed il turno uscente) dedicato al passaggio di consegne ed al cambio della divisa. Per i 35 ricorrenti che lavorano all'interno dei blocchi operatori, la fascia oraria di servizio ricomprende, sia all'inizio che alla fine, e cioè prima e dopo la seduta operatoria, un tempo lavorativo già riconosciuto per indossare la divisa nello spogliatoio, situato all'interno dei blocchi operatori stessi (il turno del mattino va dalle 7.30 alle 14.45, mentre la seduta operatoria va dalle 8.00 alle 14.00; il turno del pomeriggio va dalle 12.45 alle 20.00, mentre la seduta operatoria va dalle 14.00 alle 20.00, con uscita dell'ultimo paziente alle 19.30). Anche per i 24 ricorrenti assegnati all'interno dell'area dei servizi (Emodialisi, DH Malattie Infettive, Endoscopia Digestiva, DH Oncologico), la fascia oraria di servizio comprende un periodo di tempo già riconosciuto nel quale il dipendente può assolvere alle operazioni di vestizione e svestizione (ad esempio, nel servizio di Emodialisi il turno del mattino va dalle 6.30 alle 13.00 e si sovrappone a quello del pomeriggio dalle 12.45 alle 19.15, mentre il primo paziente accede alle ore 7.00). Pure per i 17 ricorrenti assegnati ad aree ambulatoriali (Procreazione Medicalmente Assistita -PMA-, Poliambulatorio, Amb. Ortopedia, Amb. Maxillo Facciale, Sterilizzazione, Punto Prelievo, Terapia del Dolore, Medicina Nucleare), la fascia oraria di servizio ricomprende un periodo di tempo già riconosciuto nel quale il dipendente può cambiarsi (ad esempio, nell'ambulatorio PMA il turno va dalle 7.00 alle 14.42, mentre il primo paziente è programmato alle ore 8.00; nel poliambulatorio Goito, il turno del mattino va dalle 7.45 alle 13.15, mentre il primo paziente è programmato alle 8.00 e il turno del pomeriggio va dalle 13.30 alle 19.30, mentre le visite programmate terminano alle ore 17.30 circa). Lo stesso discorso vale per i 6 ricorrenti assegnati alle cure palliative domiciliari, il cui turno va dalle 7.40 alle 15.22, mentre le visite a domicilio iniziano alle 9.00 ed alle 15.00 è previsto il rientro in sede. Per quanto riguarda l'appellante Sa.Sa., coordinatrice di struttura, secondo A. la stessa ha una fascia oraria di 36 ore e tutto il tempo lavorato oltre tale fascia oraria viene considerato quale lavoro ordinario già remunerato in virtù dell'incarico di funzione ricoperto. Ed ancora, E.G., anch'egli coordinatore di struttura, ha una fascia oraria dalle 7.30 alle 16.00, nell'arco della quale può essere assolto il debito orario quotidiano di 7 ore e 12 minuti, con la conseguenza che il sanitario può gestire il "tempo tuta" all'interno del debito orario. A quanto precede l'appellata ha aggiunto che, quando il dipendente timbra prima dell'orario di inizio turno e/o dopo l'orario di fine turno, l'eccedenza viene riconosciuta quale lavoro straordinario su indicazione del coordinatore di reparto che ne abbia constatato la necessità. Infine, A. ha sostenuto di avere dimostrato, con la produzione dei profili orari assegnati ai ricorrenti e della comunicazione del ricorrente V.B. del 9 agosto 2014 al Servizio Gestione Risorse Umane Aziendali, che già prima della previsione del CCNL del 2018, riconosceva, all'interno dell'orario di lavoro retribuito, i 15 minuti per consentire le operazioni di vestizione/svestizione ed il passaggio di consegne. A fronte di tali specifiche allegazioni, l'appellata ha evidenziato la correttezza della sentenza impugnata, sia nella parte in cui aveva ravvisato l'eccessiva genericità del ricorso, sia laddove aveva ritenuto non dimostrata la mancata retribuzione del c.d. "tempo tuta" (non avendo i testi dei ricorrenti saputo riferire di tutti i diversi contesti aziendali in cui operavano gli appellanti). Quanto ai cartellini marcatempo prodotti, l'appellata ha osservato come nella maggior parte dei casi i surplus orari fossero stati riconosciuti dal coordinatore degli interessati quale straordinario autorizzato e, quindi, retribuito. I cartellini di cui al doc. 7 erano poi inconferenti, in quanto riferiti alle timbrature dei due ricorrenti con incarico di funzione (coordinatori), che prevede un orario aperto, essendo gli straordinari già ricompresi nella retribuzione legata all'incarico. L'appellata ha poi chiesto il rigetto del gravame anche in relazione alla richiesta di c.t.u., in quanto volta a colmare le lacune probatorie nelle quali erano incorsi i ricorrenti. Infine, A. ha ribadito anche in questo grado di giudizio l'eccezione di prescrizione quinquennale del diritto azionato, già formulata in primo grado. All'odierna udienza, le parti hanno discusso la causa e, all'esito della camera di consiglio, è stata data lettura del dispositivo. L'appello è infondato e deve essere rigettato. In base al principio della 'ragione più liquida' (su cui cfr., da ultimo, Cass. n. 17214/16, Cass. n.12002/14, secondo cui il principio consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, di cui all'art. 276 cod. proc. civ., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall'art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione - anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare previamente le altre), converrà passare direttamente al merito, senza esaminare l'eccezione di inammissibilità dell'appello proposta da As.. In diritto, va premesso che è ormai consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo per indossare la divisa aziendale rientra nell'orario di lavoro, ove, attraverso la regolazione contrattuale, venga accertato che tale operazione è diretta dal datore con riguardo al tempo e al luogo di esecuzione della vestizione; l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento (Cass., Sez. Lav., sent. n. 7738 del 28 marzo 2018). Venendo alla contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie, mentre i contratti precedenti nulla prevedevano al riguardo, l'art. 27 co. 11 e 12 del CCNL Comparto Sanità del 2018 ha disposto che "11. Nei casi in cui gli operatori del ruolo sanitario e quelli appartenenti a profili del ruolo tecnico addetti all'assistenza debbano indossare apposite divise per lo svolgimento della prestazione e le operazioni di vestizione e svestizione, per ragioni di igiene e sicurezza, debbano avvenire all'interno della sede di lavoro, l'orario di lavoro riconosciuto ricomprende fino a 10 minuti complessivi destinati a tali attività, tra entrata e uscita, purchè risultanti dalle timbrature effettuate, fatti salvi gli accordi di migliorfavore in essere. 12. Nelle unità operative che garantiscono la continuità assistenziale sulle 24 ore, ove sia necessario un passaggio di consegne, agli operatori sanitari sono riconosciuti fino ad un massimo di 15 minuti complessivi tra vestizione, svestizione e passaggi di consegne, purchè risultanti dalle timbrature effettuate, fatti salvi gli accordi di miglior favore in essere." Tanto premesso in diritto, in fatto è pacifico, in quanto sostenuto da entrambe le parti, che la A. appellata retribuisca il tempo di lavoro compreso tra l'inizio e la fine del turno così come previamente individuato (ed indicato nel cartellino). È altrettanto pacifico che gli appellanti timbrassero in entrata prima di recarsi nello spogliatoio ed indossare la divisa per andare in reparto ed in uscita dopo avere lasciato il reparto, tolto la divisa e lasciato lo spogliatoio. È poi pacifico, perché non contestato dagli appellanti, quanto allegato da A., e cioè che quando il dipendente timbra prima dell'orario di inizio turno e/o dopo l'orario di fine turno, l'eccedenza viene riconosciuta quale lavoro straordinario su indicazione del coordinatore di reparto che ne abbia constatato la necessità. Ciò posto, è invece controverso se, come affermato dagli appellanti e contestato da A., gli stessi impiegassero 15 minuti al giorno per mettere e togliere la divisa e che tale tempo fosse aggiuntivo rispetto all'ordinario orario di lavoro retribuito, in quanto in parte precedente ed in parte successivo allo stesso. Altrettanto controversa è l'esistenza, affermata dagli appellanti, di una disposizione aziendale secondo la quale gli stessi avrebbero dovuto presentarsi in reparto all'ora di inizio turno con la divisa già indossata e lasciare il reparto all'ora di fine turno per recarsi solo successivamente nello spogliatoio a cambiarsi. Ed infatti, l'appellata A. ha invece sostenuto che una tale disposizione non esistesse, essendo già ricompresi nel turno di lavoro 10 minuti per il c.d. "cambio tuta" quanto agli operatori dei servizi e reparti senza garanzia della continuità assistenziale e 15 minuti per il c.d. "cambio tuta" ed il passaggio di consegne quanto agli operatori dei reparti attivi h24. In altri termini, secondo gli appellanti essi erano obbligati, per disposizione aziendale, a vestirsi prima dell'inizio del turno ed a svestirsi dopo la fine del turno e, quindi, al di fuori del tempo di lavoro retribuito, con la conseguenza che avrebbero diritto alla retribuzione di ulteriori 15 minuti al giorno rispetto a quelli pacificamente già retribuiti. Al contrario, secondo l'appellata, non vi era alcuna diposizione aziendale in tal senso ed, anzi, i turni di lavoro ricomprendevano un periodo di tempo già riconosciuto nel quale il dipendente poteva assolvere alle operazioni di vestizione e svestizione. Così stando le cose, si ritiene che siano infondati il secondo, il terzo ed il quarto motivo di appello, con i quali gli appellanti lamentano l'erronea valutazione delle prove, in ipotesi univocamente indicative della sussistenza dei fatti costitutivi della domanda, ed il rigetto dell'istanza di c.t.u., motivi che possono essere analizzati congiuntamente in quanto intimamente connessi tra loro. Occorre premettere che, ai sensi dell'art. 2697 c.c., "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". In applicazione di tale principio, nel caso di specie, era onere degli appellanti dimostrare il loro diritto alla retribuzione del tempo dedicato alla vestizione ed alla svestizione, quantificato in ricorso in 15 minuti giornalieri, in quanto in ipotesi collocato al di fuori del normale turno di lavoro già pacificamente retribuito. Ed infatti, si tratta di circostanza costitutiva del diritto azionato e che l'appellata ha specificamente contestato, allegando come invece le operazioni di vestizione e svestizione venissero compiute all'interno del turno di lavoro retribuito, e questo già prima dell'introduzione da parte del CCNL del 2018 della norma relativa alla retribuzione del c.d. tempo tuta. In altri termini, spettava ai ricorrenti l'onere di dimostrare di avere lavorato ogni giorno 15 minuti in più rispetto al normale orario di lavoro retribuito e di avere utilizzato tale tempo per mettere e togliere la divisa. Tale prova, come già ritenuto dal Tribunale, non risulta raggiunta. È vero, come evidenziato dagli appellanti, che la teste Si.Da., OS in servizio prima nel reparto di medicina e poi in quello di endoscopia digestiva del Po., ha riferito che "io devo essere presente già "cambiata" all'inizio del turno. Si tratta di una disposizione aziendale quella di presentarci in reparto con già addosso la divisa. (?) Detta prescrizione mi è stata impartita dalla mia capo sala che nel reparto medicina era Mo.Ro. e ora è Ga.Em.. R. che in qualche occasione mi sono presentata in reparto con qualche minuto di ritardo e ho subito un richiamo verbale." e che la teste Na.Ga., OS in servizio prima nei reparti maxillofacciale, di toracica vascolare, di oncologia, di oculistica, di endoscopia digestiva e poi ai poliambulatori, ha dichiarato che "In tutti i reparti in cui ho lavorato, OS e infermieri prima timbrano il cartellino, che per quanto ne so è collocato in 3 punti diversi dell'ospedale poi si dirigono verso lo spogliatoio, indossano la divisa e si presentano in reparto. La retribuzione viene corrisposta dall'inizio del turno e non dalla timbratura. Se per esempio il turno inizia alle 7 noi siamo tenute ad arrivare in reparto alle 7 già "cambiate" con la divisa. (...) Nessuno mi ha mai detto espressamente che dovevo iniziare il mio turno con già la divisa indosso, tuttavia l'ho sempre fatto e tutti fanno così perché è logico, se io inizio il turno alle 7 e non posso lavorare senza divisa è ovvio che mi devo presentare alle 7 con indosso la divisa. Mi risulta che tutti gli infermieri iniziano il turno già cambiati.". Tuttavia, tali deposizioni non costituiscono prova sufficiente della circostanza, affermata dagli appellanti, che essi fossero obbligati ad indossare la divisa prima dell'inizio del turno ed a toglierla dopo la fine del turno e che così effettivamente si comportassero ogni giorno. Ciò in quanto, in primo luogo, le testimoni, che svolgono mansioni di OS, e quindi mansioni diverse da quelle svolte dai ricorrenti, si sono limitate a riportare la propria esperienza, peraltro circoscritta ad alcuni soltanto dei molti e diversi reparti nei quali operano gli appellanti. In secondo luogo, le testimoni, le uniche indicate in lista dagli appellanti, non hanno riferito nulla di specifico con riguardo ai comportamenti in concreto tenuti dai medesimi, avendo la sola teste D. riferito di conoscere uno dei lavoratori in questione, ma di non saper dire quando timbrasse. In terzo luogo, le testimoni si sono limitate a riportare come loro stesse ed i colleghi con i quali avevano contatti si comportassero all'arrivo al lavoro, senza tuttavia nulla dire circa ciò che avveniva alla fine del turno. In altri termini, le stesse non hanno in alcun modo confermato che i lavoratori fossero tenuti, come affermato dagli appellanti e contestato dall'appellata, a togliere la divisa dopo la fine del turno retribuito. In ogni caso, le deposizioni in parola risultano smentite da quelle dei testimoni indicati dall'appellata. Ed infatti, il teste D., infermiere responsabile di dipartimento, pienamente attendibile in quanto privo di interesse in causa, sebbene abbia inizialmente affermato che "salvo alcuni contesti quale terapia intensiva, blocco operatorio e altri in cui, di recente, sono state emanate norme dettagliate, non mi risulta che vitimbrare alle 7.00 quindi nulla gli vieta di timbrare, recarsi presso lo spogliatoio, indossare la divisa e recarsi in reparto per prendere le consegne dal collega che smonta. La sua giornata lavorativa è retribuita dalle ore 7. Se uno poi decide di timbrare prima delle 7.00 salvo siano state "autorizzate forzature" il tempo antecedente non viene retribuito."). Il teste ha anche aggiunto che, nei reparti blocco operatorio, poliambulatori, sterilizzazione, cure palliative domiciliari, medicina nucleare, dialisi, procreazione medicalmente assistita ed endoscopia digestiva, "il personale deve essere presente in reparto dall'accesso del primo paziente" e che "solitamente il dipendente viene richiamato se timbra reiteratamente in ritardo rispetto all'inizio del turno. Non mi risulta che i dipendenti vengano richiamati se arrivano in reparto in ritardo, ossia oltre l'orario previsto di inizio turno." A sua volta, il teste V., direttore del servizio delle professioni sanitarie, pienamente attendibile in quanto privo di interesse in causa, ha riferito che "in sala operatoria il paziente che deve subire l'intervento arriva presso il servizio alle 8.00, i dipendenti addetti alla sala operatoria, timbrano solitamente alle ore 7,30 (solo dalle 7 e 30 vengono retribuiti) e poi hanno tutto il tempo prima dell'arrivo del paziente di indossare la divisa ed entrare in reparto". Né, in senso contrario, può valorizzarsi quanto pure affermato dal teste V. e invocato dagli appellanti, e cioè che "in generale, nei servizi che garantiscono la continuità assistenziale, chi inizia il turno del mattino può iniziare a timbrare 15 minuti primadell'accesso al suo reparto e ognuno sa che solo da quel momento comincia ad essere contabilizzato e retribuito il suo orario lavorativo. La stessa cosa per chi fa il secondo turno e pertanto se per esempio esso inizia alle 13,00 il lavoratore sa che solo timbrando dalle 12.45 in avanti il suo lavoro sarà retribuito. All'assunzione ogni dipendente riceve in consegna un foglio in cui è indicato sia la destinazione che l'orario di servizio, ossia l'articolazione dei turni, che ovviamente varia da reparto in reparto. I 15 minuti di cui ho parlato sopra corrispondono a quelli in cui vi è la sovrapposizione di due operatori, ossia quello che inizia il turno e quello che smonta dal turno." Ed infatti, tali dichiarazioni non fanno che confermare la sovrapposizione di 15 minuti tra il turno uscente ed il turno entrante tesa a consentire, nell'ambito dell'orario retribuito, la vestizione, la svestizione ed il passaggio di consegne tra i dipendenti, senza interruzioni del servizio. Il fatto che il tempo di vestizione e svestizione fosse escluso dal normale turno retribuito appare, poi, smentito dalla mail inviata il 9 agosto 2014 da uno dei ricorrenti, V.B., in qualità di sindacalista, al Servizio Gestione Risorse Umane aziendali per chiedere l'estensione del riconoscimento dei 15 minuti all'interno dell'orario di lavoro, già previsto per i dipendenti diretti, anche al personale interinale (doc. 8 A.). Tale circostanza appare, poi, confermata dai profili orari assegnati ai ricorrenti già prima della sottoscrizione del CCNL del 2018, in quanto essi prevedevano la sovrapposizione di 15 minuti tra un turno e l'altro nei reparti h24 (doc. 8 A.). Infine, neppure i cartellini orari prodotti da A. confermano la tesi degli appellanti, e cioè che essi fossero obbligati a cambiarsi prima dell'inizio e dopo la fine del turno retribuito e che ciò facessero ogni giorno, impiegando in totale 15 minuti. In particolare, dai doc. da 2 a 6 di A. (il doc. 7 non assume alcuna rilevanza sul punto, essendo relativo agli appellanti con incarico di funzione, la cui retribuzione pacificamente ricomprende gli straordinari) emerge che i lavoratori spesso timbravano in uscita in perfetta coincidenza con l'orario di fine turno, o comunque soltanto 1 o 2 minuti dopo. Si veda, ad esempio, il doc. 2, relativo ai lavoratori impegnati nei reparti h24, dove risultano registrate uscite alle 20.15, 20.16 o 20.17 (con fine turno alle 20.15), alle 13.15 o alle 13.17 (con fine turno alle 13.15), alle 21.15 (con fine turno alle 21.15), alle 7.15 (con fine turno alle 7.15), alle 7.00 (con fine turno alle 7.00) ed alle 20.00 (con fine turno alle 20.00) - così le timbrature degli appellanti A. ed altri -. Anche dal documento n. 3, relativo agli appellanti impiegati in sala operatoria, emergono ore di timbratura in uscita coincidenti con gli orari di fine turno, come ad esempio alle 14.45 o alle 14.46 (con fine turno alle 14.45) e alle 20.00 o alle 20.02 (con fine turno alle 20.00) - così le timbrature di A., A., B., B., C., D. -. Lo stesso discorso vale anche per il documento n. 4, relativo agli appellanti impiegati nell'area dei servizi, dal quale emergono timbrature coincidenti con l'ora di fine turno, e cioè alle 13.00 (con fine turno alle 13.00), alle 19.15 (con fine turno alle 19.15), alle 15.07 (con fine turno alle 15.07), alle 15.15 (con fine turno alle 15.15) e alle 19.30 (con fine turno alle 19.30) - così le timbrature di V., F., V., P. -. Pure dai doc. 5 e 6, relativi agli appellanti impiegati nell'area ambulatoriale e nel reparto cure palliative domiciliari, risultano timbrature in uscita coincidenti con l'ora di fine turno, come alle 16.15 (con fine turno alle 16.15) e alle 14.00 (con fine turno alle 14.00) - così le timbrature di J. e R. -. I dati che precedono, essendo assolutamente pacifico tra le parti che i lavoratori timbrassero in uscita dopo essersi recati negli spogliatoi ed avere indossato gli abiti "civili", smentiscono la tesi degli appellanti secondo la quale essi si sarebbero sempre tolti la divisa dopo l'ora di fine del turno retribuito. È vero che i documenti già richiamati evidenziano come gli appellanti timbrassero spesso in entrata molti minuti prima dell'inizio del turno, ma ciò non appare indicativo dell'esistenza di una disposizione aziendale che imponesse di presentarsi in reparto già indossando la divisa all'ora di inizio del turno retribuito, né del fatto che essi, come dai medesimi sostenuto, impiegassero ogni giorno prima dell'inizio del turno 7,5 minuti per indossare la divisa. Ed infatti, le timbrature in entrata degli appellanti sono estremamente varie e diverse tra loro e precedono l'ora di inizio del turno di un lasso di tempo molto variabile, che può andare da 2 o 3 minuti a 25 minuti o più. Ciò ragionevolmente dipende dalle abitudini personali degli appellanti e dai diversi mezzi di trasporto utilizzati per recarsi al lavoro ed appare significativo del fatto che gli appellanti potessero impiegare il tempo intercorrente tra la timbratura e l'inizio del turno in modo vario e diverso, e non necessariamente per indossare la divisa. Del resto, che non fosse vietato agli appellanti indossare la divisa dopo l'inizio del turno retribuito può evincersi dal fatto che dai documenti già richiamati emergono anche alcune timbrature in entrata coincidenti con gli orari di inizio del turno, come ad esempio alle 13.00 (con inizio turno alle 13.00), alle 7.00 (con inizio turno alle 7.00), alle 6.44 (con inizio turno alle 6.45), alle 12.59 (con inizio turno alle 13.00), alle 7.30 o alle 7.31 (con inizio turno alle 7.30), alle 8.30 (con inizio turno alle 8.30) - così le timbrature di B., B., C., C.A., B., C., V. -. Non appare, quindi, dimostrato quanto affermato dagli appellanti a sostegno della propria domanda, e cioè che essi impiegassero mediamente ogni giorno 7,5 minuti per vestirsi e 7,5 minuti per svestirsi e che tale tempo non fosse compreso nel turno retribuito. E ciò tanto più che le dettagliate allegazioni di A. sulle specifiche modalità organizzative di ciascun reparto non risultano essere mai state contestate dagli appellanti. In definitiva, gli appellanti non hanno assolto l'onere probatorio, gravante su di loro, di dimostrare che il tempo dedicato alla vestizione ed alla svestizione fosse aggiuntivo rispetto al normale orario di lavoro pacificamente retribuito, con conseguente superfluità della c.t.u. richiesta per la quantificazione dei tempi occorrenti per mettere e togliere la divisa. Dovendosi escludere la prova dei fatti costitutivi del diritto azionato, appare assorbita la questione relativa alla ritenuta genericità del ricorso, oggetto del primo motivo di appello. La complessità delle questioni trattate suggerisce l'integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. Il Collegio dà atto, ai fini del pagamento del contributo previsto dall'art. 1, co. 17, L. n. 228 del 2012, che l'appello è stato integralmente rigettato. P.Q.M. 1) Rigetta l'appello proposto avverso la sentenza n. 175/2022 del Tribunale di Mantova; 2) compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Così deciso in Brescia il 21 settembre 2023. Depositata in Cancelleria l'11 ottobre 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO PRIMA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Valentina Boroni ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 6734/2021 promossa da: (...) (C.F. omissis), con il patrocinio dell'avv. SA.DE. e dell'avv. GA.MA. (omissis) VIA (...), 2/4 20900 MONZA; elettivamente domiciliato in VIA (...) 20052 MONZA presso il difensore avv. SA.DE. ATTORE Contro ISTITUTO CLINICO Hu. S.P.A. (C.F. omissis), con il patrocinio dell'avv. HA.MA., elettivamente domiciliato in LARGO (...), 3 20122 MILANO presso il difensore avv. HA.MA. CONVENUTO (...) (C.F. omissis), CONVENUTA CONTUMACE Oggetto: Responsabilità professionale sanitaria MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione notificato in data 26.1.2021 (...) ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Milano l'Istituto Clinico Hu. S.p.a. e la dott.ssa (...) per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni subiti a seguito dell'asserita violazione del suo diritto di autodeterminazione, verificatasi nel corso della procedura di procreazione medicalmente assistita cui lo stesso si era sottoposto con la Sig.ra D'A., per effetto della condotta posta in essere sia da Hu. che dal medico ginecologo, dott.ssa B., danni da quantificarsi in via equitativa ex art. 1226 cc nella loro componente patrimoniale, non patrimoniale e morale. Nel merito, deduceva: - di aver deciso di sottoporsi con la Sig.ra D'A. nel 2015, in costanza di matrimonio, alla procedura di procreazione medicalmente assistita presso l'Istituto Clinico Hu. di Rozzano; - di aver in quell'occasione sottoscritto personalmente e consapevolmente il consenso informato alla procedura di procreazione medicalmente assistita, consenso esteso anche all'ipotesi di crioconservazione di eventuali embrioni in sovrannumero (doc. 1); - che nel 2017 la situazione personale dei coniugi era mutata drasticamente in quanto nella primavera del 2017 la signora D'A. improvvisamente e senza alcuna spiegazione abbandonava la casa coniugale; - di aver comunicato la volontà di separarsi dalla moglie e il 19.06.2017 di avere depositato ricorso per la separazione giudiziale con domanda di addebito (doc. 2); - che la sig.ra D'A. si costituiva nel giudizio di separazione in data 25.11.2017 (doc. 3) e che a seguito dell'udienza Presidenziale del 5.12.2017 (doc. 4) si addiveniva a separazione consensuale poi omologata dal Tribunale di Milano in data 02.02.2018 (doc. 5); - di aver richiesto, nell'ottobre del 2018, i certificati necessari per la procedura di divorzio e di essere venuto a conoscenza del fatto che sul proprio stato di famiglia (doc. 6) era iscritta una minore, denominata B. D'A., venuta alla luce nei 300 giorni dall'omologa della separazione (doc. 7); - di aver preso immediatamente contatto con Hu. per avere esatte informazioni sull'intera procedura di PMA del 2015 e sugli esiti della stessa (doc. 8) e solo dopo molti tentativi di aver ricevuto oltre al Consenso Informato alla PMA del 2015 e al proprio spermiogramma un documento denominato ?Dichiarazione di Informazione e Consenso al Programma di Scongelamento e Trasferimento Embrioni Crioconservati?, datato 14.06.2017 e recante in calce uno scarabocchio evidentemente apocrifo della firma del sig. (...) (doc. 9); - di aver così scoperto che nonostante l'abbandono della casa coniugale da parte della signora D'A. nella primavera del 2017 e la conseguente decisione irrevocabile del sig. C. di porre fine al matrimonio (doc. 10), il 14.06.2017 la sig.ra D'A. aveva autorizzato lo scongelamento e il trasferimento in utero di una blastocisti crioconservata a seguito della PMA del 2015; - che il consenso informato del 14.06.2017 che riportava la firma, asseritamente falsa, del sig. (...) era stato consegnato dalla sig.ra D'A. al medico all'epoca operante presso l'Istituto Clinico Hu., dott.ssa B.; - di aver sporto denuncia querela per le circostanze sopra richiamate; - che la sig.ra DA.M. ha subito in relazione a tali fatti un processo quale imputata del reato di cui agli artt. 476-482 c.p. (RGNR 46974/2018); - di aver contestato, di fronte alla gravità dei fatti emersi, a Hu. e alla ginecologa dott.ssa B. la violazione dell'art. 6 L. 40/2004 in riferimento al consenso informato del 14.06.2017 (doc. 12); - di non aver infatti mai autorizzato, espressamente e/o per facta concludentia, la fase di scongelamento e di trasferimento della blastocisti crioconservata a seguito della PMA del 2015: il consenso informato del 14.06.2017, infatti, oltre a riportare la firma falsa dell'odierno attore non sarebbe stato reso congiuntamente dai coniugi alla presenza del medico e ciò sarebbe chiaramente desumibile dalle sommarie informazioni rese dalla dott.ssa B. in sede di s.i.t. rese nel corso del procedimento penale; - di essersi trovato, in conseguenza di tali fatti, a dover assumere una responsabilità genitoriale, in quanto padre a tutti gli effetti, senza possibilità di esercitare l'azione civile di disconoscimento di paternità; - di aver subito un danno patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento nei confronti della figlia, sino alla sua autonomia ed indipendenza, nonché il danno conseguente alla indisponibilità della quota di legittima che ad essa dovrà essere garantita per legge; - di aver patito un danno morale e un danno esistenziale risarcibile; - che il tentativo di composizione bonaria della vertenza non sortiva effetto alcuno (doc. 13) così come la procedura di mediazione civile obbligatoria introdotta (doc. 14). Concludeva pertanto chiedendo in via preventiva e cautelare di disporre ex art. 670 comma 2 c.p.c. il sequestro giudiziario presso Istituto Clinico Hu. dell'intera cartella clinica della coppia C./D'A. relativa alla procedura di PMA avviata nel 2015, compresi tutti i documenti attinenti alla fase dello scongelamento e trasferimento embrionale del 2017, nonché in via principale di accertarsi la responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale dei convenuti e, per l'effetto, condannarli a versare all'attore a titolo di risarcimento quanto equitativamente determinato. Chiedeva inoltre di condannare la convenuta dott.ssa B.G. ai sensi e per gli effetti dell'art. ex art. 8 comma 4 bis D. Lgs. n. 28/2010 nonché ex art. 96 c.p.c. nella misura che sarà ritenuta di giustizia. Ritualmente citato si costituiva in giudizio l'istituto Clinico Hu. a mezzo di comparsa di costituzione e risposta, contestando integralmente la domanda attorea. In particolare il convenuto deduceva: - che i sigg.ri M.DA. e (...) si erano rivolti al centro per la Procreazione Medicalmente Assistita dell'Hu. nel mese di dicembre del 2012, dopo un aborto spontaneo precedente all'accesso; - che verso la fine del 2013, successivamente alla somministrazione di un'articolata ed esauriente informazione su tutte le fasi del programma di fertilizzazione e alla raccolta del consenso, espresso da entrambi i partner in forma scritta e comprensivo del consenso alla crioconservazione di ovociti e di embrioni, per riutilizzo futuro, erano stati effettuati un ciclo di inseminazione intrauterina ed un ciclo di procreazione medicalmente assistita di secondo livello con esito di gravidanza gemellare, terminata con un aborto settico alla ventesima settimana di gestazione; - che nel maggio del 2015 la coppia si era determinata ad avviare un ulteriore ciclo di procreazione medicalmente assistita di secondo livello, previa sottoscrizione di un nuovo consenso alle procedure di procreazione medicalmente assistita, oggetto di dettagliata e puntuale informazione, nonché del consenso alla crioconservazione embrionaria (doc. 1); - che in particolare, con la sottoscrizione del consenso alla crioconservazione embrionaria la coppia ha espressamente dichiarato ?Siamo consapevoli che gli embrioni crioconservati dovranno essere in futuro trasferiti in utero (par. III, punto 3 doc. 1) e ?Dichiariamo altresì di riconoscere il nascituro quale figlio legittimo o naturale; pertanto, ci impegniamo in modo irrevocabile al riconoscimento congiunto e a rinunciare ad ogni possibile futuro disconoscimento di paternità/maternità; - che sulla scorta di tale consenso si è quindi provveduto ad avviare la procedura, con trasferimento di blastocisti a fresco che, purtroppo, non ha avuto esito positivo; - che si è allora proceduto alla crioconservazione di una blastocisti e in data 10.12.2017 si è proceduto al trasferimento embrionario, con esito positivo della gestazione accertato il 15.01.2018, in occasione dell'ultimo accesso della sig.ra D'A. per controllo ecografico ostetrico alla settima settimana; - che la gestazione si è conclusa alla trentacinquesima settimana con la nascita, con parto cesareo elettivo, di una neonata sana; - che la coppia è stata esaurientemente informata su ogni aspetto ed implicazione della procedura, ivi compresi gli oneri ed i doveri ad essa inerenti e conseguenti; - che l'asserita falsificazione della sottoscrizione del sig. C. apposta in calce al modulo di consenso al programma di scongelamento e trasferimento di embrioni del 14.06.2017 (cfr. doc. 2) sarebbe circostanza irrilevante ai fini del decidere posto che il Sig. C. aveva già prestato il consenso nei termini di legge e non l'aveva mai revocato; - che la (pretesa) falsità della firma sarebbe stata rilevante solo per l'ipotesi in cui il consenso fosse stato revocato prima della fecondazione e, quindi, quello successivo sarebbe stato determinante (per il rispetto di un diritto all'auto determinazione); - che è' comunque incontestato che il consenso della coppia alla PMA è stato acquisito in modo assolutamente regolare e corretto; - che l'art. 6 comma 3 della legge 40 del 2004, nel contesto di una disciplina della materia non più improntata all'idea di una tutela ?assoluta dell'embrione, da realizzare anche a detrimento della salute della donna (a seguito di copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale), ma pur sempre mirata ad assicurare all'embrione la più ampia tutela possibile, prevede tuttora che la volontà di accedere alle tecniche di procreazione assistita possa essere revocata da ciascuno dei componenti della coppia richiedente solo fino al momento della fecondazione dell'ovulo, con la diretta implicazione che, una volta avvenuta la formazione dell'embrione, il consenso, non più revocabile, diviene di fatto non più rilevante in relazione alla prosecuzione della procedura, sia nel caso di trasferimento embrionario a fresco, sia nel caso in cui abbia avuto luogo la crioconservazione degli embrioni e il completamento della procedura comporti lo scongelamento e il successivo trasferimento in utero; - che l'irrevocabilità del consenso prevista dal comma 3 dell'art. 6 opera il bilanciamento tra i diritti della coppia e quelli del nascituro e delimita chiaramente le ipotesi nelle quali la messa in atto delle procedure validamente consentite dai membri della coppia risulta legittima e dovuta, da quelle nelle quali essa non soddisfa le condizioni previste dalla legge. Queste ultime sono quelle in cui, nonostante la formazione di embrioni e la loro crioconservazione, vi siano ragioni impeditive legate alle condizioni psicofisiche della donna. Tra le prime, invece, vi sono quelle in cui, dopo la formazione degli embrioni e la loro eventuale crioconservazione, validamente consentita da entrambi i componenti della coppia, e senza che sussistano impedimenti legati alla condizione psico-fisica della donna, sopravvenga il disaccordo rispetto al completamento della procedura e, in particolare, sia il partner maschile a mutare la volontà favorevole in precedenza validamente espressa. In tale ipotesi, il mutamento della volontà del marito o del convivente non può costituire ragione sufficiente per impedire il trasferimento degli embrioni già formati nell'utero della donna; - che ai fini del completamento della procedura, pertanto, secondo la normativa vigente non risulta di fatto necessaria e rilevante la sottoscrizione da parte di entrambi i componenti della coppia del consenso allo scongelamento ed al trasferimento degli embrioni crioconservati, trattandosi di un consenso non richiesto dalla legge, la cui eventuale mancata prestazione da parte del partner maschile non può in alcun modo incidere, ridimensionandone o, addirittura, svuotandone la portata, sul divieto di revoca del consenso dopo la formazione dell'embrione né, per altro verso, sul legittimo completamento della procedura in assenza delle ragioni impeditive legate alla condizione psico-fisica della donna; - che dunque il trasferimento embrionario effettuato il 10.12.2017 con esito positivo della gestazione è stato indubbiamente posto in essere nel pieno rispetto delle condizioni previste dall'attuale assetto normativo in materia; - che, in ogni caso, la domanda di risarcimento danni avanzata dall'attore sarebbe infondata in quanto del tutto generica e priva di sufficiente allegazione; - che, infine, per ciò che riguarda la presunta firma falsa il Sig. C. non allega nemmeno che la struttura avrebbe falsificato la firma ma fa riferimento al rinvio a giudizio della moglie del sig. C. per il reato di cui agli artt. 476 e 482 cp nell'ambito del procedimento penale RGNR 46974/2018, con la conseguenza che della sottoscrizione apocrifa della firma può rispondere il convenuto ma il soggetto che verrà individuato come responsabile né vi sarebbe in capo all'Istituto un onere di verifica e controllo della veridicità della firma apposta sul modulo sottoposto all'attore e alla Sig. D'A.. Concludeva quindi chiedendo in via preliminare di respingere l'istanza avversaria di sequestro giudiziario della cartella clinica nemmeno specificata sul presupposto documentale che il sig. C. non è paziente né, comunque, sussistono i presupposti per l'adozione della misura; nel merito di respingere ogni avversa pretesa avanzata nei confronti della Dott.sa G. e di IRCCS Istituto Clinico Hu., in quanto infondata. La convenuta dott.ssa B.G., regolarmente citata, non si costitutiva e pertanto ne veniva dichiarata la contumacia all'udienza del 15.6.2021. Dichiarata inammissibile la richiesta di sequestro ex art. 671 cpc in quanto contenuta nell'atto introduttivo e non con atto separato quale domanda cautelare in corso di causa e respinte le istanze istruttorie articolate dalle parti la causa all'esito del deposito delle memorie ex art. 183 comma 6 c.p.c., è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni alla data del 10.1.2023 e, sulle conclusioni precisate dalle parti, è stata trattenuta in decisione ai sensi dell'art. 190 c.p.c.. La domanda attorea è infondata e va respinta. Preliminarmente, è opportuno inquadrare la natura del rapporto obbligatorio intercorrente tra l'attore e gli odierni convenuti. Nel caso in esame l'attore ha convenuto in giudizio sia la struttura sanitaria sia la dott.ssa (...). Nei confronti della prima l'attore è creditore di una prestazione nascente da un contratto di spedalità avente ad oggetto l'avvio e lo svolgimento della procedura di procreazione medicalmente assistita. Dunque il parametro normativo di riferimento nella verifica in ordine alla sussistenza di una condotta diligente nella esecuzione delle prestazioni professionali con i conseguenti riflessi sugli oneri probatori delle parti è quello derivante dagli artt. 2222 e ss c.c. e 1218 c.c.. Nella responsabilità contrattuale (che lega l'attore alla struttura sanitaria convenuta in forza del c.d. contratto di spedalità) parte attrice deve dunque provare l'esistenza del contratto ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno (cfr. SS.UU. 577/2008), mentre l'ospedale debitore è gravato dell'onere di dimostrare che non vi è stato inadempimento o che lo stesso non è stato eziologicamente rilevante. La responsabilità risarcitoria del professionista nel caso di specie non è invece di tipo contrattuale non avendo l'attrice dato prova di avere concluso un contratto d'opera con la dott.ssa B.. La prospettazione dell'attore va dunque ricondotta ad una responsabilità da illecito ex art. 2043 cc. Vale in ogni caso sottolineare che la struttura sanitaria risponde dei fatti dannosi cagionati dal personale in essa operante, indipendentemente dal rapporto che li lega alla struttura, a mente dell'art. 1228 c.c. e per il fatto che la prestazione sanitaria ha natura complessa e comprende in sé varie attività tra cui quella, principale, di assistenza sanitaria attraverso il personale medico e infermieristico operante presso la stessa. Con specifico riguardo all'attività di prestazione sanitaria, si osserva che una componente intrinseca della stessa coincide con la necessità che al paziente venga fornita adeguata informativa sulla prestazione da svolgersi, correlativamente ai rischi e alle eventuali problematiche che essa potrebbe implicare. Il diritto del paziente al cd consenso informato si correla, in tali termini, all'obbligo della struttura di informarlo in maniera chiara, completa ed esaustiva della tipologia di trattamento che si andrà a svolgere, delle possibili alternative, dei rischi eventualmente derivanti dalla scelta sanitaria nonché di tutte le conseguenze fisiche e psichiche che possano derivare dalla prestazione. La giurisprudenza della Cassazione ha così chiarito che ?in tema di attività medico-chirurgica, il consenso del paziente, oltre che informato ed esplicito, deve essere consapevole e completo, dovendo cioè riguardare tutti i rischi prevedibili, compreso quelli statisticamente meno probabili, con la sola esclusione di quelli assolutamente eccezionali o altamente improbabili; detto consenso, inoltre, deve coprire non solo l'intervento nel suo complesso, ma anche ogni singola fase di esso (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 16633 del 12/06/2023). La necessità che il consenso copra ogni singola fase del trattamento e non solo l'intervento nel suo complesso è direttamente correlata alla revocabilità del consenso al trattamento sanitario in ogni momento. Tale previsione, tuttavia, non è estendibile anche alla procedura di PMA, in relazione alla quale il consenso è irrevocabile dopo la fecondazione ai sensi dell'art. 6 c. 3 della l. 40 del 2004 in un'ottica di miglior tutela del nascituro, come meglio si vedrà nel prosieguo. Nel procedimento in esame, dunque, l'attore lamenta una violazione del proprio diritto al consenso informato nella fase della procedura di procreazione medicalmente assistita immediatamente prodromica all'impianto. Invero, è incontestato il fatto che nel caso di specie i genitori hanno reso il proprio consenso all'inizio della terapia nel 2013 (rinnovato nel 2015 solo in ragione di una sopravvenuta anomalia, quella dell'aborto, che giustificava una seconda manifestazione di volontà doc.1), con la conseguenza che la fecondazione in vitro è quindi avvenuta sulla base del consenso espresso dalla coppia al momento dell'accesso alla procedura. Ad essere oggetto di contestazione è, invece, il modulo recante la ?Dichiarazione di Informazione e Consenso al Programma di Scongelamento e Trasferimento Embrioni Crioconservati datato 14.06.2017 e recante la firma del Sig. C. oltre che quella della Sig. D'A.. Secondo l'attore la firma a suo nome ivi riportata sarebbe falsa e di ciò sarebbero indirettamente responsabili gli odierni convenuti che avrebbero dovuto far sottoscrivere il modulo in presenza dei genitori firmatari e non consentendo che il modulo venisse consegnato ai sanitari a mano della sola madre, pur recando le firme di entrambi. A sostegno della falsità della firma l'attore allega il procedimento penale in cui è stata imputata la Sig. D'A. con RGNR 46974/2018. Va osservato che tale procedimento risulta concluso con una declaratoria di estinzione del giudizio per esito positivo della messa alla prova. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa attorea non può ritenersi che una tale pronuncia equivalga ad una sentenza che accerti la condotta falsificatrice del documento statuendo una responsabilità dell'imputata. In ogni caso la autenticità della sottoscrizione, pur disconosciuta nel presente procedimento dall'attore ma senza che a tale disconoscimento sia seguita la proposizione di istanza di verificazione da parte dell'istituto convenuto, rileverebbe in tanto in quanto si dovesse riconoscere in capo all'Istituto convenuto un onere di controllo e verifica sulla veridicità della sottoscrizione, circostanza che non si ritiene sussista. Invero l'Istituto nel sottoporre alla Sig.ra D'A. il modulo contenente Dichiarazione di Informazione e Consenso al Programma di Scongelamento e Trasferimento Embrioni Crioconservati ha diligentemente adempiuto alla propria prestazione professionale e al contratto di spedalità con la stessa concluso, informando la paziente che si sarebbe dovuta sottoporre all'impianto dell'embrione crioconservato delle modalità della visita nonché della procedura da compiersi per l'impianto. La normativa disciplinante la PMA dettata dalla legge 40 del 2004 prevede a tal proposito, all'art. 6 comma 1, che: Per le finalità indicate dal comma 3, prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all'articolo 5 sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro. Alla coppia deve essere prospettata la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di affidamento ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, come alternativa alla procreazione medicalmente assistita. Le informazioni di cui al presente comma e quelle concernenti il grado di invasività delle tecniche nei confronti della donna e dell'uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa. Con l'inciso iniziale per le finalità indicate dal comma 3 la previsione normativa fa riferimento alla possibilità di revoca del consenso inizialmente prestato da parte di entrambi i coniugi. Il comma 3 del suddetto articolo infatti recita: La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l'applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell'ovulo. L'esercizio del diritto di revoca è dunque possibile sino al momento della fecondazione e non oltre. Per quanto riguarda le modalità di acquisizione del consenso alla PMA, il successivo Decreto Ministeriale n. 256 del 2016, pure richiamato dalla difesa attorea, all'art. 2 comma 1 prevede che La volontà di accedere al trattamento di procreazione medicalmente assistita è espressa con apposita dichiarazione, sottoscritta e datata, in duplice esemplare, dai richiedenti, congiuntamente al medico responsabile della struttura autorizzata ai sensi dell'articolo 10 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, e dell'Accordo Stato-regioni del 15 marzo 2012. Una delle copie è consegnata ai richiedenti e una trattenuta agli atti della struttura, che provvede alla sua custodia nel tempo. La norma fa dunque espressamente riferimento alle modalità con cui le parti devono prestare il consenso iniziale all'avvio della procedura di PMA, richiedendo che esso sia reso in apposita dichiarazione sottoscritta dai richiedenti congiuntamente al medico responsabile della struttura. Le sopra richiamate previsioni legislative sono il frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti cui la Consulta è addivenuta all'esito di molteplici pronunce demolitrici del dettato normativo originario della l. 40 del 2004. Quest'ultima, introdotta con la finalità di consentire alla coppia che non potesse avere figli di accedere alla procreazione assistita, di regola vietava la formazione di un numero di embrioni superiore a tre nonché la crioconservazione degli stessi, con l'eccezione dei casi in cui vi fossero gravi problemi di salute della donna (art. 14 c. 2). La violazione di tale divieto veniva peraltro penalmente sanzionata in base all'art. 14, co. 6. Sul tema era poi intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 151 del 2009, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 14 nella parte in cui limitava la formazione degli embrioni ad un numero non superiore a tre. Conseguentemente, con altra pronuncia, la n. 97 del 2010, la Consulta aveva altresì sancito il venir meno anche del divieto di crioconservazione degli embrioni in sovrannumero. La possibilità di formare embrioni in numero superiore a quelli concretamente utilizzati va comunque contemperata con la tutela dei soggetti concepiti, anch'essi destinatari di protezione legislativa come sancito dall'art. 1 della legge n. 40 ove prevede che il ricorso alla procreazione assistita debba assicurare ?i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito?. In tal senso la tutela del diritto alla vita dell'embrione potrà essere messa in discussione solo qualora vengano in rilievo interessi di pari rango costituzionale. Nello specifico, la tutela dei soggetti coinvolti nella procedura di procreazione medicalmente assistita è attuata, nelle determinazioni del Legislatore e a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, assicurando da un lato la necessità che venga rilasciato idoneo e consapevole consenso informato e che lo stesso possa essere revocato sino al momento della fecondazione e dall'altro ritenendo prevalente, dopo tale momento, il diritto alla vita dell'embrione, che potrà essere sacrificato solo a fronte di un rischio di lesione di diritti di pari rango (Corte cost pronunce nn. 151/2009, 229/2015, 162/2014). In termini si è recentemente espresso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con un'ordinanza emessa in data 27 gennaio 2021 che ha confermato il provvedimento con cui il giudice di prime cure aveva accolto la richiesta presentata dalla ricorrente di poter ordinare il completamento della procedura di PMA, mediante inserimento in utero di embrioni crioconservati, nonostante l'intervenuta separazione, nelle more, dal marito. La pronuncia ha confermato l'irrilevanza degli eventi sopravvenuti alla fecondazione degli ovociti, compresa la separazione dei coniugi. Il Tribunale ha infatti osservato che una diversa interpretazione porterebbe a violare il diritto alla vita dell'embrione, in contrasto con la ratio dichiarata della L. 40/2004. In linea con tale previsione, la legge impedisce l'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternità a colui che abbia preventivamente consentito all'avvio della procedura di procreazione medicalmente assistita. In tali termini si richiama una risalente pronuncia della Cassazione che ha affermato ?In tema di fecondazione assistita eterologa, il marito che ha validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione (v. Corte Cost. 26 settembre 1998, n. 347) (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2315 del 16/03/1999) ed una più recente che ha ribadito che ?Nella fecondazione assistita eterologa, così come per l'omologa, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo, sicché ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 40 del 2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 30294 del 18/12/2017). L'irrevocabilità del consenso dopo l'intervenuta fecondazione, pur contestata, è stata di recente confermata dalla Consulta pronunciatasi a seguito dell'udienza pubblica tenuta il 24.5.2023. Il Tribunale di Roma, rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, aveva infatti paventato l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, della legge n. 40/2004 per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, comma 1, 32 e dell'art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione all'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell'ovulo, un termine per la revoca del consenso. Dall'informazione provvisoria pubblicata in data 24.7.2023 relativa alla decisione della Corte Costituzionale (sent. 161 del 2023) emerge che la Consulta ha ritenuto non irragionevole il bilanciamento operato dal legislatore nel censurato art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004. Nello specifico il comunicato riferisce che ?Tale norma rende possibile, per effetto della crioconservazione, la richiesta dell'impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l'originario progetto di coppia. (...) Pur riconoscendo che la norma "si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite ?scelte tragiche (...), in quanto caratterizzate dall'impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie", la sentenza ha evidenziato che l'irrevocabilità del consenso appare funzionale a salvaguardare innanzitutto preminenti interessi. L'accesso alla PMA comporta infatti "per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell'impianto dell'embrione nel proprio utero. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell'affidamento in lei determinato dal consenso dell'uomo al comune progetto genitoriale". Inoltre, "se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell'irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l'uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità". La sentenza ha quindi concluso che "ove, dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell'embrione" risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell'uomo. La sentenza ha infine precisato che la ricerca di un eventuale diverso punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze in gioco non può che spettare al legislatore. Potendosi dunque ritenere che allo stato dell'arte il consenso del genitore inizialmente prestato deve ritenersi irrevocabile una volta intervenuta la fecondazione, deve esaminarsi se e fino a che momento il sig. C. avrebbe potuto esercitare il diritto di revoca, onde comprendere se la prospettata lesione della sua libertà di autodeterminazione (danno evento), ove vi sia stata, sia foriera di un danno conseguenza riconducibile eventualmente alla perduta chance di esercitare il proprio diritto di revoca cui è preordinata la prospettata lesione dell'obbligo informativo successivo e relativo alla attivazione della procedura di impianto.. Si osserva che il Sig. C. ha prestato il consenso all'avvio della procedura di procreazione medicalmente assistita in data 13.5.2015 e che era a conoscenza della successiva avvenuta fecondazione con correlata crioconservazione degli ovuli (da pag. 3 della conclusionale attorea si legge che ?a seguito delle procedure il sig. C. era al corrente dell'avvenuto congelamento di un embrione posto in crioconservazione come previsto ex lege). Da quel momento non era più possibile revocare il consenso alla procedura. Dunque, anche qualora il Sig. C. fosse venuto a conoscenza dell'intervenuto scongelamento degli embrioni crioconservati e del loro successivo impianto non avrebbe potuto opporsi a tale scelta della Sig. D'A., essendo ormai infruttuosamente decorso il termine riconosciuto ex lege per la revoca del consenso. L'asserita lesione che lo stesso avrebbe patito si riduce, dunque, ad una lesione del diritto all'informazione nella fase pre-impianto senza che ad essa si accompagni un effettivo nocumento dell'attore in termini di danno evento ( declinato nei soli termini di necessità di assunzione di impegni economici e di responsabilità genitoriale nei confronti della figlia). Si ritiene che un tale nocumento non sia risarcibile né in collegamento eziologico con l'assunto difetto informativo. Invero, come già evidenziato a più riprese, il consenso rilevante nella procedura di procreazione medicalmente assistita è quello prestato all'avvio della procedura, consistente in una manifestazione di volontà omnicomprensiva e relativa anche alla successiva fase di crioconservazione e scongelamento degli embrioni eventualmente sovrannumerari. A tal proposito deve ritenersi che l'Istituto Clinico convenuto, sottoponendo il modulo di cui al doc. 1 dell'attore nella fase immediatamente prodromica al momento dell'impianto abbia adottato una condotta cautelativa aggiuntiva e dunque diligentemente adempiuto alla propria prestazione professionale ed il fatto che l'informazione non sia effettivamente pervenuta all'odierno attore in quanto la firma dello stesso sarebbe stata apposta dalla Sig.ra D'A. che l'avrebbe falsificata non è imputabile ai convenuti ma al fatto asseritamente illecito del terzo che, come tale, avrebbe l'effetto di recidere il nesso causale. Del resto si osserva che il consenso informato reso dal Sig. C. per accedere alla PMA e comportante l'assunzione di diritti ed obblighi genitoriali che rendono ininfluenti i comportamenti e gli eventi verificatisi dopo la fecondazione degli ovociti è stato assunto, secondo quanto prescrive la legge, rispettando i canoni di esaustività, completezza e puntualità. Dal documento 1 prodotto dall'attore si evince infatti che lo stesso ha sottoscritto il modulo di consenso informato all'avvio della procedura di procreazione medicalmente assistita, dettagliatamente descritta con le sue possibili implicazioni, nonché alla crioconservazione degli embrioni fecondati per il successivo impianto. A pagina 5 del suddetto modulo (paragrafi 10 e 11) si legge invero che ?Il trasferimento degli embrioni crioconservati avverrà nel minor tempo possibile dopo la risoluzione dell'impedimento (patologia, rischio specifico) che ha indotto alla crioconservazione degli stessi o dopo l'esito negativo del trasferimento a fresco o dopo l'esito positivo della gravidanza ottenuta a seguito del trasferimento di embrioni sia a fresco che crioconservati. Gli embrioni non potranno in ogni caso essere distrutti o eliminati se ritenuti validi o evolutivi (vedi consenso alla crioconservazione embrionaria) (...) La coppia dovrà esprimere il proprio consenso alla possibilità di crioconservazione di embrioni soprannumerari al trasferimento a fresco e/o il consenso alla crioconservazione degli ovociti sovrannumerari. La coppia potrà esprimere il proprio consenso alla crioconservazione degli ovociti e/o degli embrioni sovrannumerari, non essendo le due condizioni mutualmente esclusive. La sezione B del modulo (doc. 1), relativa all'acquisizione del consenso alla crioconservazione embrionaria, è debitamente sottoposta e consapevolmente accettata dall'odierno esponente e dalla Sig. D'A. risultando la spunta sulla voce si. Esprimiamo il nostro consenso alla crioconservazione di eventuali embrioni sviluppati nel laboratorio di Hu. e non trasferiti in utero a seguito di valutazione da parte dell'equipe medica. Intendiamo quindi avvalerci della possibilità di crioconservazione degli embrioni soprannumerari. Parimenti vi è prestazione del consenso al programma di congelamento degli ovociti (sezione c). Non è invece espresso il consenso alla donazione dei gameti soprannumerari per fini di studio e ricerca (sezione d). Gli allora coniugi non prestarono altresì il consenso a che eventuali embrioni anomali potessero comunque esser trasferiti in utero (sezione e). Il modulo si conclude con l'apposizione delle firme del Sig. C. e della Sig. D'A. al riepilogo finale (pagg. 12 e 13 del doc.1). L'informativa ricevuta dagli allora coniugi deve quindi ritenersi dettagliata e completa in tutte le sue parti, contenendo puntuali riferimenti a tutte le fasi della procedura di PMA nonché richiedendo l'acquisizione del consenso dei sottoscrittori in relazione ad ogni singola evenienza (prelievo, fecondazione, crioconservazione, donazione embrioni in sovrannumero, impianto etc). Non può dunque ritenersi che sussista una responsabilità risarcitoria in capo ai convenuti i quali, proponendo al Sig. C. e alla Sig. D'A. la firma di ulteriori moduli di consenso nelle varie e successive fasi della procedura hanno mostrato di adottare una scrupolosa prassi, pur non richiesta dall'attuale testo legislativo ex art. 6 l. 40 del 2004 che considera sufficiente che il consenso, cui l'informazione è preordinata, sia iniziale ed unitario per l'intera procedura, sul presupposto della irrevocabilità dello stesso dal momento della fecondazione. Analoga previsione è contenuta nel già richiamato art. 2 del decreto ministeriale n. 256 del 2016 che prevedendo che il consenso debba esser prestato dai richiedenti innanzi al medico curante con l'apposizione della firma, fa riferimento alla sola fase iniziale della procedura, coincidente con l'avvio della stessa. Per le ragioni sopra esposte la domanda dell'attore deve essere rigettata; le ulteriori domande tra cui quella ex art. 96 cpc vanno ritenute assorbite. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in favore dell'unica convenuta costituita ex DM 55/2014come modificato con dm 147/2022, sul criterio di valore indeterminabile medio (minimo per la fase istruttoria risoltasi nel solo deposito delle memorie) come da domanda, e tenuto conto dell'impegno processuale come in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale di Milano, ogni diversa istanza eccezione e difesa disattesa ed assorbita, definitivamente pronunciando così provvede: 1) rigetta le domande di parte attrice; 2) condanna parte attrice a rifondere al convenuto Istituto Clinico Hu. S.p.a. le spese di lite liquidate in complessivi euro 8.991,00 oltre rimborso forfetario Iva e cpa. Così deciso in Milano il 31 luglio 2023 Depositata in Cancelleria il 2 agosto 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2685 del 2023, proposto dalla sig.ra -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Vi. Ci. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro l'Azienda Sanitaria Locale Roma 1, in persona del Direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato St. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza, n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Azienda Sanitaria Locale Roma 1; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 22 giugno 2023, il Cons. Ezio Fedullo e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. La controversia, promossa dalla sig.ra -OMISSIS-, ha ad oggetto il diniego opposto dall'ASL Roma 1 all'istanza di autorizzazione all'effettuazione della prestazione di crioconservazione degli ovociti presso la Regione Toscana, nonché i relativi atti presupposti, da essa presentata in data -OMISSIS-. 1.1. La ricorrente, con il ricorso introduttivo del giudizio, deduceva di essere una giovane donna -OMISSIS-, che le era stata diagnosticata una condizione di "-OMISSIS-" causata da "-OMISSIS-", a fronte di valori di riferimento -OMISSIS-, che aveva quindi intrapreso, -OMISSIS-, un percorso volto alla preservazione del diritto alla genitorialità attraverso la crioconservazione degli ovociti e che a tal fine era stata presa in carico, in data -OMISSIS-, presso l'Azienda Ospedaliera Universitaria Ca. di Fi., centro di riferimento per la problematica sanitaria di cui soffriva, ove era stata certificata la necessità di crioconservazione degli ovociti per la preservazione della fertilità tenuto conto della "-OMISSIS-": terapia consistente nell'agoaspirazione ecoguidata dei follicoli, previa terapia ormonale, e congelamento degli ovociti in azoto liquido al fine di conservarli nel tempo, mantenendone inalterate le condizioni, in funzione, appunto, di preservazione della fertilità . 1.2. Deduceva altresì la ricorrente di aver quindi avanzato alla propria ASL di competenza, ossia all'ASL Roma 1, la richiesta di autorizzazione per l'erogazione della prestazione di crioconservazione degli ovociti in centro di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) pubblico presso altra Regione, corredata dalla documentazione certificante la patologia, trattandosi di istituto ospedaliero collocato nel territorio della Regione Toscana, e che in risposta alla stessa aveva ricevuto la nota -OMISSIS-, oggetto di impugnazione dinanzi al T.A.R. per il Lazio, del seguente tenore: "Vista la certificazione della SODc PMA dell'A.O.U. Careggi -OMISSIS-, vista la Sua richiesta di autorizzazione acquisita al protocollo informatico della ASL Roma I -OMISSIS- e successiva integrazione -OMISSIS-, si rappresenta che non si può procedere all'autorizzazione della prestazione in oggetto in quanto prestazione non compresa nei LEA della Regione Lazio al di fuori del percorso previsto per preservare la fertilità nelle pazienti che si sottopongono a terapie che possono compromettere la capacità riproduttiva". 1.3. La ricorrente, la quale aveva iniziato la terapia di stimolazione mediante assunzione dei farmaci ormonali di riferimento, in vista del primo tentativo di prelievo ovocitario, deduceva in punto di diritto, in sintesi, che: - il trattamento di crioconservazione degli ovociti doveva considerarsi, a tutti gli effetti, una prestazione strumentale, oltre che necessaria e indifferibile, al successivo processo di procreazione medicalmente assistita, il quale era pacificamente incluso tra le prestazioni garantite dai LEA, come da allegato 4 al d.P.C.M. del 12 gennaio 2017; - diversamente opinando, si sarebbe generata una palese discriminazione tra generi, considerando che i LEA espressamente includevano tra le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale riconosciute dal SSN la "Crioconservazione di gameti maschili", dovendo altrimenti ritenersi il predetto allegato illegittimo per violazione della legge n. 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita (laddove consentiva, all'art. 14, comma 8, la crioconservazione sia dei gameti maschili che degli ovociti femminili) ed in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con il diritto allo sviluppo della propria personalità, alla salute e alla genitorialità, secondo i parametri di cui agli artt. 2, 29 e 32 Cost. e di quelli sovranazionali di cui agli artt. 8 e 14 della Convezione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), che sancivano espressamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare nonché il divieto di discriminazione e, in particolare, di "quelle fondate sul sesso"; - la decisione della Regione Lazio di garantire il trattamento di crioconservazione unicamente ai pazienti affetti da malattie oncologiche e non anche ai soggetti, come la ricorrente, affetti da -OMISSIS- si poneva in palese violazione del diritto alla salute nonché del principio di uguaglianza, tenuto conto che la ratio della tutela era proprio quello di garantire e preservare la fertilità, in attuazione del diritto alla genitorialità, atteso che, per le pazienti affette da -OMISSIS-, la diagnosi di infertilità costituiva non già un rischio, ma un'assoluta certezza, il cui decorso e la cui evoluzione era unicamente influenzata dal trascorrere del tempo. 2. Il T.A.R. per il Lazio ha definito il gravame con l'impugnata sentenza in forma semplificata. 2.1. In primo luogo, ha affermato l'inerenza della controversia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici di cui all'art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a.. 2.2. Quindi, assorbita la questione di inammissibilità del ricorso nella parte in cui si rivolgeva avverso il Decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio -OMISSIS-, il successivo Decreto della medesima amministrazione -OMISSIS- ed il d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, senza, tuttavia, che fossero state evocate in giudizio le Amministrazioni che avevano proceduto all'adozione dei predetti provvedimenti, ha statuito l'infondatezza del ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni: - la crioconservazione degli ovociti non è espressamente indicata nei LEA di cui all'allegato 4 del DPCM del 2017, il quale, al n. 69.92.B, individua la sola crioconservazione di gameti maschili; - la crioconservazione non appare quale passaggio preliminare ineludibile della PMA, potendo essere soltanto un momento eventuale del relativo procedimento: avuto riguardo alla ratio sottesa ai LEA e alle ricadute degli stessi sul servizio sanitario (nazionale e regionale), non può validamente sostenersi la possibilità di fornire del predetto decreto un'interpretazione applicativa estensiva attraverso il rinvenimento nell'ambito del nomenclatore di prestazioni implicitamente ricomprese nei medesimi LEA; - la circostanza che l'art. 14, comma 8, l. n. 40/2004 disponga che "è consentita la crioconservazione dei gameti maschile e femminile, previo consenso informato e scritto" non determina di per sé alcun profilo di illegittimità del d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, in quanto, mentre il primo "svolge la funzione essenziale di riconoscere espressamente la legittimità, all'interno del nostro ordinamento, della crioconservazione dei gameti maschile e femminile, invece il d.P.C.M. sui LEA del 2017 individua quale prestazione il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, riconoscendo che rimane a carico del SSN esclusivamente la crioconservazione dei gameti maschili"; - non appare sussistente la dedotta illegittimità per disparità di trattamento tra generi del medesimo d.P.C.M., nella parte in cui riconduce ai LEA esclusivamente la crioconservazione dei gameti maschili e non anche la crioconservazione degli ovociti, "atteso che vi è una evidente differenza tra le due procedure di crioconservazione, che è frutto della diversità sostanziale dell'oggetto del trattamento, che si riflette sia sulle modalità del prelievo dei gamete (e conseguentemente di una diversa frequenza di ricorso alla tecnica)"; - quanto alla possibile illegittimità costituzionale del menzionato d.P.C.M., esso "ha natura amministrativa e, pertanto, non è assoggettabile, in quanto tale, al sindacato di costituzionalità che, all'interno del nostro ordinamento, è riservato esclusivamente alle norme di rango primario"; - quanto alla prospettata illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 8, l. n. 40/2004 nella parte in cui, pur contemplando la crioconservazione dei gameti maschile e femminile, non consenta espressamente alla singola donna la crioconservazione degli ovociti senza immediata fecondazione in vitro e trasferimento embrionario in casi di patologie per le quali il trascorrere del tempo incida irreversibilmente sull'esito del percorso di procreazione assistita, "la norma richiamata riconosce la legittimità del procedimento di crioconservazione degli ovociti, senza apporre alcun limite al riguardo"; - la Regione Lazio, con il decreto del Commissario ad acta n. U00029 del 2016, concernente "Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Recepimento documento approvato in sede di Conferenza delle Regioni e delle Province autonome del 25 settembre 2014 (prot. n. 14/121/CR7c/C7). Approvazione dei profili di prestazione per i livelli I, II, III e modalità di compartecipazione alla spesa per PMA omologa. Disciplina transitoria", ha definito una tariffa unica convenzionale per le prestazioni di fecondazione eterologa nell'ambito dei percorsi di procreazione medicalmente assistita (PMA); con il successivo decreto del 2 giugno 2019, n. U00182, recependo l'Accordo tra Governo, Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano per la "Tutela della fertilità nei pazienti oncologici per la definizione di un percorso diagnostico assistenziale (PDTA) per pazienti oncologici che desiderano preservare la fertilità " approvato in Conferenza Stato Regioni in data 21 febbraio 2019, ha introdotto la possibilità di usufruire della pratica della crioconservazione alle pazienti oncologiche in funzione di preservazione della fertilità delle medesime; - la Regione Toscana, con la Delibera della Giunta Regionale del 1° ottobre 2019, ha "ritenuto inoltre di integrare i requisiti della DGR n. 809/2015 inserendo le donne con -OMISSIS- con -OMISSIS-", e ha, quindi, espressamente incluso nel proprio nomenclatore regionale la prestazione di crioconservazione degli ovociti a condizione che la paziente sia affetta da patologie oncologiche o che si trovi in condizione di "-OMISSIS- con -OMISSIS-"; - tuttavia, la circostanza che una determinata prestazione non ricompresa nei LEA sia riconosciuta a carico del SSR soltanto in alcune Regioni è insita nel sistema dei LEA e non può validamente ritenersi l'illegittimità per disparità di trattamento tra cittadini residenti in diverse Regioni; - il decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio del 2019 appare immune dalle censure di illegittimità sollevate da parte ricorrente, atteso che rientra nella discrezionalità politico-amministrativa della Regione l'individuazione in concreto delle prestazioni sanitarie da inserire negli extra-LEA regionali; - nel caso di specie, la predetta discrezionalità non appare essere stata esercitata in modo illogico o discriminatorio, avuto riguardo alla circostanza che, nella fattispecie, la Regione Lazio ha riconosciuto la crioconservazione degli ovociti a carico del SSR con riferimento alle pazienti oncologiche sulla base e in recepimento di un apposito accordo al riguardo raggiunto in sede di Conferenza Stato Regioni: accordo che, invece, allo stato manca con riferimento alle pazienti affette da -OMISSIS-; - quanto alla diversità di situazioni tra una paziente oncologica e una paziente affetta da -OMISSIS-, la paziente oncologica, proprio in considerazione delle terapie cui deve essere sottoposta, non può intraprendere contestualmente alle predette terapie un percorso di procreazione (eventualmente per il tramite di fecondazione assistita), motivo per il quale si riconosce a carico del SSR la crioconservazione degli ovociti che le consente di preservare la propria fertilità e di intraprendere il percorso procreativo nel momento in cui la propria situazione clinica lo consentirà ; - la Regione Lazio risulta ancora assoggettata al piano di rientro del deficit sanitario denominato "Piano di riorganizzazione, riqualificazione e sviluppo del Servizio Sanitario Regionale 2019-2021", approvato con DCA n. 81/2020 e recepito con DGR n. 406/2020. 3. La sentenza suindicata costituisce oggetto dell'appello proposto dalla originaria ricorrente, al fine di ottenerne la riforma ed il conseguente accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Si oppone invece al suo accoglimento l'appellata Azienda Sanitaria Locale Roma 1. 4. La parte appellante contesta la sentenza appellata in primo luogo nella parte in cui - pur senza porla ad oggetto di una espressa statuizione - ha profilato l'inammissibilità del gravame sulla scorta della mancata instaurazione del contraddittorio nei confronti delle Amministrazioni (Regione Lazio, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro della salute, Ministro dell'Economia e delle Finanze e Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome) da cui promanano, rispettivamente, il decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio -OMISSIS-, il decreto del medesimo Commissario -OMISSIS- ed il d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, anch'essi impugnati, con i relativi allegati, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Osserva sul punto la appellante che essa ha sollecitato l'intervento del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, come si desume dal petitum immediato oggetto della domanda giudiziale, volto ad ottenere l'accertamento del suo diritto a conseguire l'autorizzazione all'erogazione della prestazione sanitaria presso altra Regione, con conseguente condanna dell'Amministrazione evocata in giudizio a provvedere all'emissione della suddetta autorizzazione, laddove solo in via subordinata si è chiesto al T.A.R. per il Lazio di voler eventualmente valutare incidentalmente l'annullamento dei provvedimenti richiamati. Deduce altresì la parte appellante che la sentenza impugnata appare contraddittoria, laddove, da una parte, non disattende la tesi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dall'altra, tuttavia, procede ad una valutazione di ammissibilità del ricorso secondo i canoni propri della tutela impugnatoria che si esplica in sede di giurisdizione di legittimità . Essa aggiunge che, nell'ipotesi in cui il giudice di appello ritenesse necessaria l'evocazione in giudizio anche delle ulteriori Amministrazioni individuate dal T.A.R., questo non avrebbe potuto procedere con la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, atteso che l'art. 60 c.p.a. prevede a tal fine l'integrità del contraddittorio, laddove ai sensi dell'art. 27 c.p.a., nel caso in cui lo stesso non sia integro, è sempre rimessa al giudice la facoltà di ordinarne l'integrazione, ove non siano maturate decadenze e/o preclusioni. 4.1. Ritiene la Sezione che il tema della eventuale inammissibilità del ricorso - solo prospettato dal T.A.R. ma non tradotto in una espressa conforme declaratoria, avendo esso optato per la soluzione reiettiva nel merito del gravame - possa essere accantonato, onde procedere al suo esame solo dopo avere esplorato, con esiti eventualmente negativi, la possibilità di accoglimento nel merito del ricorso introduttivo del giudizio prescindendo dall'annullamento e/o disapplicazione di atti provenienti da Amministrazioni diverse da quella (l'Azienda Sanitaria Locale Roma 1) ritualmente intimata in primo grado. 4.2. Tuttavia, sul piano squisitamente metodologico, non può non evidenziarsi che, come è noto, la soluzione della questione di giurisdizione non va ricercata nel criterio del cd. petitum formale - ovvero del tipo di provvedimento chiesto al giudice adito - ma di quello cd. sostanziale, "il quale" - suggerisce la giurisprudenza - "va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione" (cfr., ex multis, Cassazione civile, Sez. Un., 1 marzo 2023, n. 6100). 5. Deduce quindi la parte appellante che la prestazione oggetto dell'istanza di autorizzazione rivolta alla ASL non è estranea, come erroneamente ritenuto dal T.A.R., al novero di quelle appartenenti, ai sensi del d.P.C.M. 12 gennaio 2017, ai Livelli Essenziali di Assistenza che devono essere garantiti sull'intero territorio nazionale. Essa richiama a tal fine la prestazione di cui al codice "65.11 AGOASPIRAZIONE ECOGUIDATA DEI FOLLICOLI (Pick up ovocitario). Prelievo ovociti. Inclusa valutazione ovocitaria. Incluso: eventuale congelamento e conservazione" di cui all'4 del d.P.C.M. cit. (concernente, giova precisare, il "Nomenclatore delle prestazioni di assistenza specialistica Ambulatoriale"), necessitando appunto, per le sue precarie condizioni di fertilità, di effettuare il prelievo degli ovociti nella forma ivi descritta, con il successivo congelamento dei medesimi, in vista della possibilità di programmare, in maniera consapevole, il proprio percorso di genitorialità e accedere, in un secondo momento, alla fecondazione in vitro omologa. Sotto altro profilo, essa ribadisce che il trattamento di crioconservazione degli ovociti configura, a tutti gli effetti, una prestazione strumentale al successivo processo di procreazione medicalmente assistita, che è pacificamente incluso tra le prestazioni garantite dai LEA secondo quanto stabilito dalla legge n. 40/2004, e che, proprio per tali ragioni, l'art. 14, comma 8, della legge citata consente la crioconservazione dei gameti femminili. Evidenzia altresì la parte appellante che le Linee Guida adottate dal Ministero della Salute, da ultimo, con d.m. 1° luglio 2015, in attuazione dell'art. 7, l. n. 40/2004, definiscono espressamente le procedure e le tecniche relative alla PMA stabilendo che: "Per tecniche di procreazione medicalmente assistita si intendono tutti quei procedimenti che comportano il trattamento di ovociti umani, di spermatozoi o embrioni nell'ambito di un progetto finalizzato a realizzare una gravidanza. Questi procedimenti includono, con modalità sia di tipo omo che etero: la inseminazione, la fecondazione in vitro e il trasferimento embrionale, il trasferimento intratubarico dei gameti, la microiniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo, la crioconservazione dei gameti e degli embrioni. Queste tecniche sono attualmente rappresentate da una gamma di opzioni terapeutiche a diverso grado di invasività sia tecnica che psicologica sulla coppia". Inoltre, essa aggiunge, anche a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 162/2014, l'allegato 4 del citato d.P.C.M. 12 gennaio 2017 ha incluso espressamente tra le prestazioni garantite dal servizio sanitario nazionale tutte le tipologie di fecondazione in vitro omologa ed eterologa tanto con ovociti "a fresco" quanto con "ovociti congelati". 5.1. Il motivo, nelle varie sfaccettature che lo caratterizzano, non può essere accolto. 5.2. Deve premettersi che la sua proposizione è evidentemente funzionale a dimostrare l'illegittimità del provvedimento di diniego di autorizzazione impugnato in primo grado e, quindi, la fondatezza della pretesa della appellante ad avere accesso alla terapia de qua presso una struttura qualificata ubicata in una Regione diversa da quella di residenza e con oneri a carico di quest'ultima, indipendentemente dalla necessaria intermediazione di provvedimenti di carattere programmatorio, di livello nazionale e/o regionale, intesi a disciplinare le modalità ed i limiti di erogazione della suddetta prestazione: ciò in quanto essa sarebbe contemplata - in via autonoma o comunque in quanto segmento essenziale delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la cui garanzia, siccome strumentali all'esercizio del diritto alla genitorialità, è stata riconosciuta a livello legislativo e sancita dalla giurisprudenza costituzionale - nell'ambito dei LEA definiti dal d.P.C.M. 12 gennaio 2017. Ebbene, occorre in primo luogo evidenziare che solo in sede di appello la parte appellante ha dedotto che la crioconservazione degli ovociti sarebbe direttamente riconducibile ad una specifica prestazione contemplata, sub 65.11, dall'allegato 4 del d.P.C.M. 12 gennaio 2017, atteso che, nell'ambito del ricorso introduttivo del giudizio, essa ha fatto leva esclusivamente sulla ritenuta inclusione "indiretta" ed implicita della stessa nell'ambito dei LEA, in quanto "strumentale, necessaria ed indifferibile al successivo processo di procreazione medicalmente assistita", cui si riferirebbero altre voci del predetto Nomenclatore: ciò è tanto vero che è in relazione alla suddetta effettiva prospettazione che il giudice di primo grado ha calibrato la sua statuizione reiettiva, esponendo le ragioni - non attinte da specifiche censure in sede di appello - per le quali i LEA non potrebbero costituire oggetto di interpretazione estensiva, a pena di vanificare la loro funzione di conciliare il diritto alla salute con le altre esigenze costituzionalmente rilevanti, come quella di delineare il quadro finanziario entro cui quel diritto può ricevere concreta attuazione. 5.3. In ogni caso, non può farsi a meno di evidenziare che la prestazione di cui al codice 65.11, (innovativamente, come si è detto) richiamata con l'atto di appello, ha quale oggetto principale l'"Agoaspirazione Ecoguidata dei Follicoli (Pick up ovocitario). Prelievo ovociti" e considera la prestazione di "congelamento e conservazione" come "eventualmente inclusa" nella prima, laddove l'istanza di autorizzazione della appellante ha ad oggetto la sola prestazione che la voce suindicata considera come "accessoria". 5.4. Nemmeno, al fine di dimostrare l'inclusione della prestazione de qua nell'ambito di quelle che devono essere garantite a tutti i cittadini sull'intero territorio nazionale, senza differenziazioni di carattere regionale, e che quindi la ASL intimata in primo grado non avrebbe potuto non autorizzare, potrebbe farsi leva sulle disposizioni contenute nella l. n. 40/2004 e sulle Linee Guida di cui al relativo art. 7, approvate con d.m. del 1° luglio 2015, attesa (come condivisibilmente evidenziato dal T.A.R.) la diversità dei piani - l'uno attinente alla definizione delle metodiche legittimamente utilizzabili al fine di assicurare la possibilità di procreazione in presenza di cause ostative di carattere patologico, l'altro alla individuazione delle prestazioni integranti il "nucleo irriducibile" del diritto alla salute, alla cui salvaguardia sono appunto funzionali i LEA - ai quali afferiscono, rispettivamente, le citate disposizioni della l. n. 40/2004 e quelle compendiate nel d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, anche tenuto conto della necessità che, secondo il modello inderogabilmente delineato dall'art. 1, comma 554, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, alla definizione ed all'aggiornamento dei LEA di cui all'art. 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 si provveda con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari. 5.4. Peraltro, se l'art. 15 (dedicato alla "Assistenza specialistica ambulatoriale") del d.P.C.M. 12 gennaio 2017, al comma 1, prevede che "nell'ambito dell'assistenza specialistica ambulatoriale il Servizio sanitario nazionale garantisce le prestazioni elencate nel nomenclatore di cui all'allegato 4 al presente decreto", è anche vero, come ugualmente rilevato dal giudice di primo grado, che ai sensi del comma 2 dell'art. 64 (recante le "Norme finali e transitorie") del medesimo d.P.C.M., "le disposizioni in materia di assistenza specialistica ambulatoriale, di cui agli articoli 15 e 16 e relativi allegati, entrano in vigore dalla data di pubblicazione del decreto del Ministro della salute di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'Agenzia per i servizi sanitari regionali, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, da adottarsi ai sensi dell'art. 8-sexies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni, per la definizione delle tariffe massime delle prestazioni previste dalle medesime disposizioni. Dalla medesima data sono abrogati il decreto ministeriale 22 luglio 1996, recante "Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale e relative tariffe" e il decreto ministeriale 9 dicembre 2015 recante "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale"". Ne consegue che, fino all'approvazione del suddetto decreto (fino all'odierna udienza non ancora avvenuta, avendo la parte appellante depositato, in data 11 maggio 2023, solo il relativo schema di decreto), non è possibile fare leva sul Nomenclatore di cui all'all. 4 del citato d.P.C.M., nemmeno laddove - come deduce la parte appellante - contemplerebbe la prestazione di cui si tratta, al fine di sostenere la pretesa alla sua erogazione da parte ed a carico del servizio sanitario sull'intero territorio nazionale: sì che, a prescindere da quanto innanzi osservato, la questione della inclusione o meno del reclamato trattamento nell'allegato 4 del d.P.C.M. del 12 gennaio 2017 non risulta comunque decisiva ai fini dell'esito della controversia. 5.6. Non vi è dubbio che, nelle more dell'adozione del decreto suindicato, il Nomenclatore di cui all'all. 4 del citato d.P.C.M. possa assolvere ad una funzione orientativa nei confronti dell'attività regolatrice regionale o che comunque, anche indipendentemente da esso, la necessità di garantire determinati livelli "minimi" di assistenza possa astrattamente desumersi da altre fonti ordinamentali, in primis di rilievo costituzionale, cui del resto la salvaguardia di quei livelli, siccome strumentali alla tutela del fondamentale diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost., è comunque in ultima analisi riconducibile. Resta tuttavia insuperabile il fatto che, non solo in un'ottica applicativa dei LEA - prevedendo l'art. 64, comma 2, d.P.C.M. del 12 gennaio 2017 che "con successivi appositi Accordi sanciti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, su proposta del Ministro della salute sono fissati criteri uniformi per la individuazione di limiti e modalità di erogazione delle prestazioni che il presente decreto demanda alle regioni e alle province autonome" - ma anche al di fuori della relativa portata regolativa (subordinata, come si è detto, all'esercizio di ulteriori potestà normative), l'assenso alla esecuzione del trattamento crioconservativo a carico del SSR non potrebbe avvenire in sede meramente autorizzatoria, rendendosi necessaria la preventiva definizione a monte dei presupposti e dei limiti diagnostico-terapeutici dello stesso, e quindi della sua effettiva strumentalità alla tutela del menzionato "nucleo irriducibile" del diritto alla salute, che, in quanto espressiva di valutazioni permeate da discrezionalità tecnica ed amministrativa (se non politico-amministrativa), esula dai confini di una attività (quella autorizzatoria, di cui costituisce espressione il provvedimento impugnato in primo grado) di carattere meramente esecutivo. 5.7. Deve invero osservarsi, in proposito, che se l'inserimento di una prestazione all'interno dei LEA ha valenza essenzialmente tecnico-classificatoria, in funzione della determinazione (ancora in fieri, come si è detto) dei relativi criteri tariffari, la concreta definizione delle modalità e dei limiti di erogazione della stessa, quale presupposto per l'accollo dei relativi costi a carico del SSR, si fonda, da un lato, su valutazioni di appropriatezza clinico-terapeutica demandate al medico prescrittore, dall'altro lato, sulle vincolanti indicazioni fornite dai competenti organi politico-amministrativi in sede programmatoria, al fine di individuare la casistica sanitaria cui la specifica prestazione è pertinente e delineato il relativo regime economico (anche in termini di eventuale compartecipazione alla spesa dell'assistito): ciò che appunto trova plastico riscontro nella fattispecie in esame, caratterizzata, come ugualmente evidenziato dal T.A.R., da un differenziato atteggiamento assunto dalle singole Regioni quanto alle condizioni ed alle finalità del trattamento crioconservativo erogabile a carico del S.S.R.. 5.8. La suesposta conclusione trova conferma nel fatto che anche la Regione Toscana, al fine di introdurre la suddetta prestazione nell'ambito dei LEA regionali, ha adottato la delibera di G.R. n. 1197 del 1° ottobre 2019, ad integrazione della delibera n. 809 del 4 agosto 2015, recante anche la valorizzazione tariffaria del trattamento de quo: ciò a dimostrazione del fatto che la sua erogabilità a carico del S.S.R. non discende, recta via, dai provvedimenti nazionali in tema di LEA, ma da una apposita valutazione regionale che ne fissi le condizioni economiche e, soprattutto, quelle clinico-diagnostiche di erogabilità, la quale, deve solo precisarsi, non può che essere demandata alla Regione a carico della quale verrebbe posto l'onere economico della prestazione, non essendo evidentemente sufficiente quella, foss'anche di segno positivo, compiuta dalla Regione nel cui territorio insiste la struttura erogatrice. 5.9. Del resto, proprio il carattere "relativo" del diritto alla genitorialità, anche nella sua declinazione servente alla tutela del diritto alla salute - il quale, come chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162/2014, suppone il compimento di delicate valutazioni comparative tra valori diversi (non ultima l'esigenza di salvaguardare la complessiva tenuta finanziaria del sistema sanitario, la quale non potrebbe che essere messa a repentaglio dall'incontrollato aumento della spesa sanitaria) - implica una attenta attività di bilanciamento tra esigenze contrapposte, la quale non può non comprendere lo specifico contesto terapeutico-assistenziale in cui si collocherebbe il trattamento crioconservativo, onde apprezzare il grado di necessità e strumentalità rispetto al diritto alla salute - sub specie di aspirazione procreativa dell'interessata - e, quindi, l'effettivo spessore terapeutico della prestazione di cui si tratta: ciò nella ineludibile considerazione che questa, nella specie, risulta scissa da un programma genitoriale attualmente e compiutamente definito così come da esigenze terapeutiche immediate ed indifferibili (come quelle proprie delle pazienti che devono sottoporsi con ragionevole urgenza a trattamenti neoplastici, con i relativi effetti, da un lato, di necessario differimento del progetto procreativo, dall'altro lato, di tipo irrimediabilmente distruttivo nei confronti della residua capacità riproduttiva). 5.10. Né può farsi a meno di osservare che la suddetta attività di bilanciamento, proprio per la sua incidenza sui livelli assistenziali da garantire, per la pregnanza del bene tutelato, su tutto il territorio nazionale, dovrebbe essere opportunamente preceduta e/o accompagnata (come avvenuto per il decreto commissariale -OMISSIS-, che ha previsto l'erogazione, nell'ambito appunto di uno specifico percorso diagnostico terapeutico assistenziale - PDTA, del trattamento crioconservativo di ovociti per la preservazione della fertilità delle pazienti oncologiche) da appositi interventi regolatori della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, destinati a garantire l'uniformità degli stessi indipendentemente dalla Regione di residenza del soggetto assistito. 5.11. Deve aggiungersi, da questo punto di vista, che la diretta autorizzabilità della prestazione di crioconservazione, nella fattispecie in esame, in quanto ipoteticamente indispensabile ai fini della tutela del diritto alla salute, trova ostacolo nel suo carattere dichiaratamente autonomo rispetto ad un intervento procreativo medicalmente assistito attualmente programmato (rispetto al quale, quindi, non può ritenersi immediatamente "strumentale", come vorrebbe la parte appellante), inserito entro un percorso assistenziale complessivo funzionale alla salvaguardia della capacità procreativa e compiutamente disciplinato a livello (nazionale o regionale, comunque) estraneo e presupposto rispetto alla fase meramente autorizzatoria (anche tenuto conto delle connesse implicazioni finanziarie, la cui valutazione non può che spettare, per quanto detto, all'organo politico-amministrativo titolare, a monte, della funzione programmatoria). Se invero, come già evidenziato, la l. n. 40/2004, pur non attenendo direttamente alla definizione dei LEA, funge comunque da cornice normativa di base entro la quale può avvenire la selezione delle prestazioni erogabili a carico del S.S.R. (essendo chiaro che non potrebbe ammettersi l'accollo ad esso dei costi di un trattamento che non fosse rigorosamente in linea con le pertinenti coordinate legittimanti), non può non osservarsi che, ai sensi dell'art. 4 (rubricato "Accesso alle tecniche") della l. n. 40/2004, al comma 1, è previsto che "il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico". Ebbene, dalla citata disposizione si evince che il ricorso alle tecniche de quibus - cui, secondo le deduzioni della parte appellante, appartiene, quantomeno in via strumentale, anche il trattamento crioconservativo degli ovociti - è subordinato, oltre che alla sussistenza di una situazione patologica documentata di "sterilità o infertilità " di coppia, alla "impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione": presupposti che non ricorrono in una fattispecie, come quella in esame, in cui si discute di (futura) infertilità della sola appellante ed in cui, soprattutto, non è ravvisabile, hic et nunc, una situazione di impossibilità procreativa. Allo stesso modo, ai sensi dell'art. 5 ("Requisiti soggettivi") l. cit., al comma 1, è stabilito che "...possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi". La disposizione subordina quindi il ricorso alla PMA ad un programma genitoriale non disgiunto da uno di carattere familiare in senso tradizionale (come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 221/2019), con la conseguente preclusione all'accesso al trattamento di individui singoli ed in vista di una futura scelta procreativa. Inoltre, le citate Linee Guida prevedono quanto segue: "PROCEDURE E TECNICHE DI PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA. Per tecniche di procreazione medicalmente assistita si intendono tutti quei procedimenti che comportano il trattamento di oociti umani, di spermatozoi o embrioni nell'ambito di un progetto finalizzato a realizzare una gravidanza. Questi procedimenti includono, con modalità sia di tipo omo che etero: la inseminazione, la fecondazione in vitro e il trasferimento embrionale, il trasferimento intratubarico dei gameti, la microiniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo, la crioconservazione dei gameti e degli embrioni". Ebbene, è evidente la correlazione fra trattamento crioconservativo, quale specifica tecnica di preservazione della fertilità in vista di un successivo trattamento di PMA, ed il suo inserimento "nell'ambito di un progetto finalizzato a realizzare una gravidanza", quale non potrebbe ravvisarsi nell'ipotesi di ammissione a trattamento in vista di una futura e meramente eventuale decisione procreativa. 5.12. Deve altresì evidenziarsi che le medesime Linee Guida, nel definire i contenuti e le modalità delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, articolandole in tre livelli, prevedono, con riferimento ai primi due: "Tecniche di I Livello: inseminazione intracervicale/sopracervicale in ciclo naturale eseguita utilizzando tecniche di preparazione del liquido seminale; induzione dell'ovulazione multipla associata ad inseminazione sopracervicale eseguita utilizzando tecniche di preparazione del liquido seminale; eventuale crioconservazione dei gameti maschili. Tecniche di II Livello (procedure eseguibili in anestesia locale e/o sedazione profonda): prelievo degli ovociti per via vaginale; fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione (FIVET); iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI); trasferimento intratubarico dei gameti maschili e femminili (GIFT) per via transvaginale o guidata o isteroscopica. prelievo testicolare dei gameti (prelievo percutaneo o biopsia testicolare); eventuale crioconservazione di gameti maschili e femminili ed embrioni (nei limiti delle normative vigenti)". E' quindi evidente che il trattamento crioconservativo è previsto come "eventuale" nell'ambito di una più ampia operazione fecondativa, a dimostrazione del fatto che esso non è contemplato dalla l. n. 40/2004 quale segmento autonomo, come invece si configura sulla base dell'istanza di autorizzazione della ricorrente. 5.13. In conclusione, sebbene l'estensione delle ipotesi di ricorso al trattamento in questione non possa ritenersi ex se incompatibile con la legge citata né scissa da una oggettiva esigenza terapeutica, in quanto funzionale a garantire la genitorialità di soggetti affetti da patologie suscettibili di comprometterne la realizzazione, non può negarsi che esso si collochi al di fuori dello spettro teleologico della legge medesima, con la conseguente preclusione alla possibilità di far discendere dalla ratio e dai principi ispiratori della stessa l'esito ipotizzato dalla appellante, sub specie di imposizione della relativa erogazione a carico del S.S.R.. 6. Con il successivo motivo di appello, deduce la parte appellante, in funzione di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata del d.P.C.M. del 12 gennaio 2017, che il relativo allegato 4 espressamente include tra le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale riconosciute dal SSN la "Crioconservazione di gameti maschili" come prestazione autonoma, mentre la crioconservazione degli ovociti è posta come eventuale all'interno della prestazione "agoaspirazione ecoguidata dei follicoli". Essa deduce quindi che tale diverso trattamento, se non superato attraverso l'interpretazione sistematica delle citate previsioni, integra una discriminazione di genere in palese violazione della legge n. 40/2004 (che consente, all'art. 14, comma 8, la crioconservazione sia dei gameti maschili che femminili). La parte appellante critica altresì la sentenza appellata laddove afferma che il prelievo e successivo congelamento dei gameti maschili sia una tecnica in ogni caso più "semplice" rispetto al prelievo ovocitario, deducendo che, dal punto di vista medico, al contrario di quanto affermato dal T.A.R., le tecniche di prelievo chirurgico degli spermatozoi possono essere particolarmente complesse e costose, tanto da necessitare del ricorso all'anestesia generale nonché del taglio e della sutura della cute, diversamente dal prelievo ovocitario. Allega inoltre la parte appellante che la sentenza impugnata confligge con l'art. 3 della Costituzione, che prevede espressamente il divieto di discriminazione sulla base del sesso, e con gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), che sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare nonché il divieto di discriminazioni e, in particolare, di "quelle fondate sul sesso". Infine, afferma la parte appellante che i trattamenti garantiti dal S.S.N. non possono essere selezionati sulla base della maggiore o minore complessità della prestazione da svolgere ma, a parità di situazioni, debbono rispondere ad un criterio di razionalità nel prevedere parità di accesso ai trattamenti, indipendentemente dal sesso del paziente: diversamente, infatti, si darebbe luogo ad un'ulteriore discriminazione basata sul reddito, in quanto l'accesso a tali prestazioni di maggiore complessità attraverso i canali della sanità privata sarebbe garantito solo ed esclusivamente ai pazienti che dispongano delle relative risorse economiche. 6.1. Il motivo non può essere accolto. 6.2. In primo luogo, come si è detto, in mancanza del decreto di cui all'art. 64, comma 2, d.P.C.M. 12 gennaio 2017, l'invocato esito interpretativo non sarebbe foriero di alcuna effettiva ed immediata utilità per la parte appellante, né del resto, come ugualmente evidenziato, la mancata espressa inclusione della prestazione reclamata nell'ambito dei LEA sarebbe suscettibile da sola di precludere il soddisfacimento della relativa esigenza terapeutica, ove la sua erogazione a carico del S.S.R. fosse dettata da insuperabili ed imperativi motivi anche di ordine costituzionale, non richiedenti l'intermediazione di provvedimenti ulteriori rispetto a quello meramente autorizzatorio. 6.3. In secondo luogo, è la stessa parte appellante ad evidenziare che il trattamento richiesto è espressamente ricompreso nei LEA, sub codice 65.11 dell'allegato 4 del d.P.C.M. 12 gennaio 2017, sebbene in necessario collegamento funzionale con una prestazione di Agoaspirazione follicolare: con la conseguenza che, a seguire il suo ragionamento (e fermo l'ostacolo, innanzi evidenziato, connesso al carattere secondario ed eventuale della crioconservazione secondo la classificazione del Nomenclatore), non si renderebbe necessaria alcuna operazione ermeneutica di carattere integrativo. 6.4. Piuttosto, deve ribadirsi che l'effettiva erogabilità della prestazione, pur astrattamente prevista nei LEA, a carico del S.S.R. è subordinata ad una valutazione tecnico-discrezionale in ordine alle sue condizioni clinico-diagnostiche, la quale presuppone che siano puntualmente definite le esigenze terapeutiche che essa è destinata a soddisfare, anche in una dimensione ampia del diritto alla salute comprensivo, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162/2014, del diritto alla genitorialità . In mancanza di questa valutazione, da compiere come si è detto in sede programmatoria, la mera inclusione della prestazione nei LEA non è da sola sufficiente a generare l'obbligo del S.S.R. di erogarla a favore di chi la richieda, dovendo tale obbligo essere "filtrato", come si è detto, da una valutazione ulteriore, non esauribile in sede meramente autorizzatoria, che prenda in considerazione, unitamente a tutte le altre esigenze da soddisfare in concreto, la sua effettiva funzionalità alla realizzazione di finalità di carattere terapeutico, definendone limiti, condizioni e "costi". 6.5. Ponendo la questione nei termini prospettati dalla appellante, nel senso che l'interpretazione accolta dal T.A.R. sarebbe foriera di effetti discriminatori basati sul sesso, non può non rilevarsi che anche la mera inclusione nei LEA della crioconservazione dei gameti maschili non prelude necessariamente alla sua erogazione a carico del S.S.R., in mancanza di una espressa definizione - ad opera della competente Amministrazione, con l'ausilio delle pertinenti acquisizioni medico-scientifiche - dei relativi presupposti di appropriatezza terapeutica. La rilevanza di tale conclusione si evince, nella fattispecie in esame, tenuto conto che, come già evidenziato (e senza con ciò voler sminuire la rilevanza dell'esigenza da essa fatta valere), la appellante non persegue il mero interesse all'an della procreazione, quanto quello al quando della stessa, essendo la crioconservazione degli ovociti funzionale alla possibilità di differire la scelta procreativa, mettendola al riparo degli effetti negativi che il trascorrere del tempo avrebbe sulla riserva ovarica, anche in ragione della -OMISSIS- di cui la medesima soffre. 6.6. Peraltro, non può farsi a meno di evidenziare, ad ulteriore riprova della necessità di uno specifico intervento regolatore regionale, la labilità del confine tra utilizzo terapeutico e non del trattamento crioconservativo (e della conseguente indispensabile fissazione di criteri puntuali necessari a garantire la finalità terapeutica del trattamento stesso), che, come chiarito con le "Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita" di cui al decreto del Ministro della Salute del 1° luglio 2015, "è unanimemente accettato che la riduzione della capacità riproduttiva nella partner femminile inizi intorno ai 35 anni con un progressivo e considerevole calo fino al completo esaurimento della funzionalità ovarica". 6.7. Le considerazioni che precedono consentono quindi di escludere ogni rilievo, ai fini della decisione, alle deduzioni della parte appellante in ordine al carattere discriminatorio della decisione appellata, laddove recepirebbe un esito interpretativo che differenzia la posizione dell'uomo (per il quale la crioconservazione dei gameti è prevista dall'all. 4 del d.P.C.M. 12 gennaio 2017) da quella della donna. Da questo punto di vista, la tesi di parte appellante è senz'altro condivisibile laddove sostiene che l'erogabilità della prestazione non può essere condizionata dal relativo grado di complessità né dal relativo costo, dovendo attribuirsi rilievo preminente alla specifica esigenza assistenziale che essa è destinata a soddisfare: nondimeno, come già evidenziato, non è la mera inclusione nei LEA a determinare l'erogabilità della prestazione a carico del S.S.R., ma la sua strumentalità al soddisfacimento di una esigenza terapeutica positivamente apprezzabile in termini di appropriatezza e compatibilità con i molteplici e convergenti interessi, anche di carattere finanziario, la quale non può essere apprezzata in sede meramente autorizzatoria, in mancanza di coerenti previsioni programmatorie adottate in sede nazionale o regionale. 7. La parte appellante, per l'ipotesi che il giudice adito ritenesse che la "crioconservazione degli ovociti" non sia inclusa nei LEA, ripropone quindi la questione di incostituzionalità del d.P.C.M. del 12 gennaio 2017 per contrasto dell'eventuale omissione con gli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione, atteso che il mancato riconoscimento della prestazione di crioconservazione dei gameti femminili, a fronte della parallela previsione positiva concernente quelli maschili, urterebbe con il principio di uguaglianza, causando una discriminazione tale da incidere in maniera incontrovertibile sul diritto alla salute, allo sviluppo della personalità ed alla genitorialità . Deduce la parte appellante che, al contrario di quanto ritenuto dal T.A.R., la prospettata questione di legittimità costituzionale non è preclusa dalla formale natura di atto amministrativo del medesimo d.P.C.M., atteso che, in assenza dello stesso, non potrebbe dirsi sussistente - sulla base delle indicazioni di massima fornite dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - alcuna violazione dei principi costituzionali sopra richiamati, configurandosi le disposizioni di rango legislativo di cui agli artt. 1, comma 554, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, e 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, come vere e proprie "norme in bianco", rimandando le stesse al d.P.C.M. l'individuazione delle prestazioni sanitarie garantite a tutti i cittadini. 7.1. Il motivo non può essere accolto. 7.2. In primo luogo, deve ribadirsi che la mancata previsione della prestazione de qua da parte del citato provvedimento non sarebbe ostativa alla sua erogazione da parte ed a carico del S.S.R., laddove fosse dimostrato che la stessa è imposta dalle pertinenti disposizioni costituzionali: tuttavia, come detto più volte, essa non potrebbe essere garantita in sede meramente autorizzatoria, essendo necessario precisarne le modalità ed i limiti di erogazione nell'esercizio della pertinente funzione programmatoria regionale. 7.3. Del resto, come già rilevato, la stessa previsione concernente la crioconservazione dei gameti maschili non costituisce di per sé ragione per la sua obbligatoria erogazione da parte del S.S.R., in mancanza di una chiara indicazione di carattere terapeutico e di una disciplina regionale che detti le condizioni perché ciò avvenga, compatibilmente con tutti gli altri interessi coinvolti. 7.4. In ogni caso, il carattere integrativo del d.P.C.M. rispetto alle richiamate disposizioni legislative, che fondano il potere di cui esso costituisce espressione e ne disciplinano le modalità di esercizio, non è sufficiente ad elevarlo al rango di avente "forza di legge", ai sensi dell'art. 134 Cost., al fine di sottoporlo al giudizio di legittimità costituzionale del giudice delle leggi: il fatto che, in mancanza dello stesso, le disposizioni di rango legislativo cui esso dà attuazione non sarebbero censurabili sul piano della legittimità costituzionale non consente di per sé solo di sottoporlo al vaglio di costituzionalità, atteso che la sua natura formalmente e sostanzialmente amministrativa riserva al giudice amministrativo il relativo sindacato. 7.5. Infine, deve ancora una volta osservarsi che la parte appellante non invoca il diritto a divenire genitore, ma quello a procrastinare tale evento in funzione di scelte autonome non ancora maturate, le quali sarebbero precluse per effetto del futuro venir meno delle condizioni per attuarle. La peculiare connotazione che assume la pretesa della parte appellante, in funzione di un programma genitoriale allo stato non definito nell'an e nel quando, non consente quindi di ravvisare i presupposti di non manifesta infondatezza che devono ricorrere al fine di consentire a questo giudice di sollevare il relativo incidente di costituzionalità : peraltro, lo stesso termine del confronto - quale dovrebbe essere rappresentato dal diverso trattamento riservato alla crioconservazione dei gameti maschili - non è puntualmente determinato, atteso che, come si è detto, la mera inclusione nei LEA della suddetta prestazione, a prescindere da ogni accenno alla cornice regolativa che ne consenta la concreta somministrazione e ne delinei con precisione le finalità terapeutiche da perseguire, non è suscettibile di farne emergere il preteso carattere discriminante. 8. La parte appellante sostiene quindi l'illegittimità dell'art. 14, comma 8, della legge n. 40/2004, nella parte in cui, pur consentendo la crioconservazione dei gameti maschile e femminile, non consente espressamente alla singola donna la crioconservazione degli ovociti senza immediata fecondazione in vitro e trasferimento embrionario in casi di patologie per le quali il trascorrere del tempo inciderebbe irreversibilmente, come nel suo caso, sull'esito del percorso di procreazione assistita. Essa aggiunge che la normativa di riferimento è chiara nel consentire la procreazione assistita nelle ipotesi di infertilità certificata e nell'indicare il principio di gradualità nella scelta delle tecniche di PMA. La medesima normativa, aggiunge la parte appellante, pone il ridotto patrimonio follicolare congenito (in forza di una dissociazione tra età anagrafica e patrimonio follicolare) quale aspetto in grado di condizionare le strategie diagnostiche e consente la PMA eterologa solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità . Deduce quindi la parte appellante che assicurare la crioconservazione alle donne con certificata bassa riserva ovarica in età precoce ha lo scopo di consentire la PMA omologa, tecnica meno invasiva della PMA eterologa, laddove ogni scelta diversa si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., ovvero con il principio di ragionevolezza (rectius, di proporzionalità quale adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini perseguiti), e con l'art. 97 Cost., ovvero con il principio di economicità dell'azione amministrativa (dal momento che il mancato accesso alla crioconservazione degli ovociti precluderebbe la fecondazione omologa meno costosa della eterologa). 8.1. Il motivo non può essere accolto. 8.2. In primo luogo, esso si rivolge avverso una legge che, come si è detto, non si occupa di individuare i presupposti di erogabilità dei trattamenti di PMA, o ad essi funzionali, con oneri a carico del S.S.R., la cui definizione fa capo ad altra fonte legislativa ed ai relativi provvedimenti attuativi. 8.3. In ogni caso, la trama legislativa desumibile dalla l. n. 40/2004 ha ad oggetto la disciplina delle forme alternative di realizzazione del diritto alla genitorialità, quando siano compromesse quelle "naturali", tanto da prefigurare il contesto familiare - che deve presentare un minimum di concretezza - entro il quale l'esercizio di quel diritto deve trovare collocazione, a salvaguardia dell'interesse prioritario del nascituro, come riconosciuto anche dal giudice costituzionale con la citata sentenza n. 221/2019. Deve quindi ritenersi che l'ammissione a beneficiare della prestazione crioconservativa al di fuori dei presupposti di ammissibilità della prestazione di PMA - in ordine ai quali nessuna allegazione viene formulata dalla parte appellante, la quale anzi, nella nota indirizzata alla ASL del 25 ottobre 2022, chiaramente afferma che la prestazione de qua non si inserisce entro "un percorso di coppia di PMA" - non sia immediatamente funzionale a realizzare gli obiettivi perseguiti dal legislatore, oltre a risultare potenzialmente in contrasto con il principio di economicità invocato dalla parte appellante (atteso che si imporrebbe a carico del S.S.R. una prestazione la cui evoluzione genitoriale sarebbe del tutto eventuale). 9. Infine, la parte appellante contesta il decreto del Commissario ad acta del 3 giugno 2019, n. U00182, laddove limita la pratica della crioconservazione unicamente alle pazienti oncologiche in funzione di preservazione della fertilità delle medesime. Essa deduce che la ratio in forza della quale viene consentito alle malate oncologiche di accedere al trattamento di crioconservazione degli ovuli - nell'ottica di preservarne la fertilità al fine di consentire il prelievo, lo stoccaggio ed il successivo utilizzo dei propri gameti crioconservati per una eventuale tecnica di fecondazione assistita omologa - è esattamente il medesimo perseguito da pazienti con la sua patologia, con la differenza che, nelle prime, l'urgenza del prelievo dipende dal momento d'inizio delle terapie antitumorali (e risulta quindi eterodiretto), mentre, nel caso di premenopausa, non è nemmeno dato conoscere il limite di tempo entro il quale la situazione patologica si aggraverà sino a non consentire più il ricorso a tale tecnica. Deduce quindi la parte appellante che la mancata inclusione delle pazienti affette da diagnosi di -OMISSIS- risulta del tutto irragionevole tenuto conto che, anche per queste ultime, si palesa un rischio - che sebbene incerto nel quando, appare certo nell'an - nella possibilità di accedere alle tecniche PMA di tipo omo, così incidendo sul diritto alla genitorialità espressamente riconosciuto dalla Costituzione, altresì evidenziando che, per le pazienti affette da -OMISSIS-, la diagnosi di infertilità costituisce non già un rischio, ma un'assoluta certezza, il cui decorso e la cui evoluzione sono unicamente influenzate dal trascorrere del tempo. Infine, essa deduce che non può nemmeno risultare decisivo l'assoggettamento al piano di rientro del deficit sanitario cui soggiace la Regione Lazio, tenuto conto che proprio il richiamato decreto del Commissario ad acta del 3 giugno 2019, n. U00182, prevede espressamente che l'attuazione della prestazione avvenga "senza nuovi o maggiori oneri a carico del SSR" e che, sin da ora e in ogni momento, l'appellante potrebbe legittimamente rivolgersi al Sistema Sanitario Regionale del Lazio per sottoporsi all'intera procedura PMA con un dispendio economico regionale ben più elevato di quello occorrente per la sola fase della crioconservazione. 9.1. Il motivo non può essere accolto. 9.2. In primo luogo, osta alla sua stessa ammissibilità la mancata evocazione in giudizio della Regione Lazio e/o del Commissario ad acta per l'attuazione del Piano di rientro. Da questo punto di vista, e sviluppando i rilievi svolti all'inizio sul tema della giurisdizione, il fatto che la controversia attenga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non elide, come ritenuto da parte appellante, la necessità di qualificare la situazione giuridica azionata al fine di determinare il pertinente regime processuale. Ebbene, da questo punto di vista non può non osservarsi che la sentenza di primo grado non è stata specificamente impugnata proprio laddove afferma che "il petitum azionato consiste, specificamente, nella richiesta dell'erogazione in via mediata - ossia tramite autorizzazione all'ottenimento della prestazione in altra Regione - di una prestazione non compresa tra quelle garantite dalla Regione Lazio al fine di consentire le pratiche di tutela della fertilità . La domanda della parte ricorrente sollecita un'attività dell'amministrazione che implica l'esercizio di un potere autoritativo e, pertanto, si ritiene sussistente, nella fattispecie, la giurisdizione del Giudice Amministrativo adito...". 9.3. In ogni caso, non è esatto sostenere l'esatta corrispondenza della situazione disciplinata dal contestato provvedimento commissariale a quella che coinvolge la parte appellante, dal momento che per le pazienti oncologiche la necessità, evidentemente indifferibile, di sottoporsi alle relative terapie preclude fin da subito, con effetti immediati e potenzialmente irreversibili, la programmazione della genitorialità (tenuto conto della distruzione delle possibilità procreative quale conseguenza delle cure medesime, particolarmente impattanti sull'integrità del patrimonio follicolare dell'assistita), mentre per i soggetti che, come la suddetta, sono affette da una patologia suscettibile di compromettere, in un futuro anche relativamente prossimo, la capacità riproduttiva non è il diritto alla genitorialità, come già evidenziato, ad essere inibito in modo immediato ed assoluto, quanto piuttosto l'interesse - pur meritevole di considerazione nella sede pertinente - alla determinazione del tempo in cui esercitarlo in concreto. 9.4. Né varrebbe osservare che il trattamento richiesto dalla ricorrente farebbe conseguire un risparmio all'Amministrazione, in quanto sostitutivo di una prestazione di PMA, atteso che, da un lato, questa sarebbe comunque realizzata in futuro, nel momento e sempre che ella dovesse decidere di diventare genitore, dall'altro lato, a differenza di una prestazione di PMA, che realizza immediatamente il diritto alla genitorialità oltre che quello pubblico all'incentivazione della natalità, quello crioconservativo è meramente strumentale al suo futuro e del tutto eventuale esercizio, non essendo allegato che sussistano attualmente, né ovviamente è dimostrabile che sussisteranno in futuro, i presupposti soggettivi ed oggettivi cui la l. n. 40/2004 subordina il ricorso alle tecniche in discorso. 9.5. Configurandosi, quindi, la prestazione de qua come extra-LEA, non sono ravvisabili, indipendentemente dalla limitazione alla relativa introduzione derivante dalla sottoposizione della Regione Lazio al Piano di rientro, profili di palese irragionevolezza del censurato trattamento differenziato. Da questo punto di vista, peraltro, non sarebbe sostenibile che l'erogazione della suddetta prestazione possa avvenire senza oneri a carico del S.S.R., atteso che l'accoglimento della domanda di autorizzazione presentata dalla ricorrente implicherebbe l'accollo alla Regione Lazio del relativo costo, pari, come da preventivo allegato all'istanza medesima, ad Euro -OMISSIS-. 10. Deve solo aggiungersi in chiusura che, in una prospettiva de iure condendo, sarebbe auspicabile che, tenuto conto della inerenza del tema ai diritti fondamentali dell'individuo, la sua regolamentazione su base regionale - nelle more di un eventuale intervento prescrittivo di fonte statale - si ispirasse a criteri di uniformità : tale obiettivo tuttavia, per le ragioni esposte, non può essere perseguito nell'ambito della presente controversia, sia perché implicante l'esercizio di potestà latamente discrezionali non surrogabili in sede giurisdizionale, sia perché il suo oggetto, come si è detto, attiene alla diversa fase meramente autorizzatoria. 11. L'appello, in conclusione, deve essere complessivamente respinto, mentre l'originalità dell'oggetto della controversia e la peculiarità degli interessi coinvolti giustificano la compensazione delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello n. 2685/2023, lo respinge. Spese del giudizio di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 giugno 2023 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Pierfrancesco Ungari - Consigliere Paolo Carpentieri - Consigliere Stefania Santoleri - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, nel procedimento civile vertente tra A. C. e D. R. e altro, con ordinanza del 5 giugno 2022, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2022. Visti gli atti di costituzione di D. R., di E. H. spa e di A. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 24 maggio 2023 il Giudice relatore Luca Antonini; uditi gli avvocati Fabrizio Barberini per D. R., Francesco Di Mauro per E. H. spa, Tiziana D’Agostini per A. C. e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 24 maggio 2023. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 5 giugno 2022 (reg. ord. n. 131 del 2022), il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo comma, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Il citato art. 6, comma 3, dispone, al primo periodo, che la volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) è espressa dai componenti della coppia «per iscritto congiuntamente al medico responsabile» della struttura sanitaria autorizzata ad applicare le tecniche medesime; al secondo periodo, che tra «la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni»; quindi, al terzo periodo, che tale volontà «può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo». Ad avviso del rimettente, quest’ultima norma contrasterebbe con i parametri evocati «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». 2.– Le questioni sono sorte nel corso del giudizio instaurato, ai sensi dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, dalla signora A. C. affinché la struttura sanitaria E. H., presso la quale lei aveva in precedenza intrapreso il percorso di PMA, fosse condannata al decongelamento dell’embrione crioconservato e al suo impianto. A sostegno della domanda – riferisce il giudice a quo – la ricorrente ha esposto che, nel settembre 2017, lei e il coniuge avevano assentito alla crioconservazione dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, al fine di permettere l’esecuzione della biopsia embrionale, in vista dell’impianto; che questo era stato poi differito a causa della propria scarsa qualità endometriale; ciò che aveva comportato la necessità che lei si sottoponesse, nei successivi mesi di novembre e dicembre, ad apposita terapia farmacologica, a ulteriori analisi e al cosiddetto «scratch endometriale», ovvero alla «terapia della preparazione a graffio», prodromica appunto, all’impianto; che il trasferimento in utero dell’embrione non era stato tuttavia realizzato perché il marito, nel gennaio 2018, si era allontanato dalla residenza familiare; che, nel marzo 2019, era stata formalizzata tra le parti la separazione consensuale; che, nel febbraio 2020, lei aveva chiesto vanamente alla struttura sanitaria di procedere all’impianto e che, il 24 agosto dello stesso anno, il marito, dopo avere domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA. Alla luce di questa ricostruzione della vicenda, la ricorrente ha sostenuto, in definitiva, «che il diritto “di essere madre è un diritto assoluto, fondamentale della persona, garantito dalla Costituzione agli artt. 2, 31, co. 2, e 32”». Il giudice a quo quindi riferisce che, nel costituirsi in giudizio, i resistenti, signor D. R. e la menzionata struttura sanitaria, hanno chiesto il rigetto del ricorso, preliminarmente prospettando dubbi di legittimità costituzionale della norma denunciata. 2.1.– Tanto premesso, in ordine alla rilevanza il rimettente osserva che, essendo intervenuta la revoca del consenso da parte del «resistente» in data 24 agosto 2020 e quindi dopo che era trascorso un considerevole periodo di tempo da quando si era «avverata la condizione della fecondazione dell’ovulo», il giudizio del quale è investito non potrebbe essere definito indipendentemente dalla decisione sulle sollevate questioni di legittimità costituzionale. 2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo innanzitutto richiama, condividendole, le argomentazioni che lo stesso Tribunale di Roma, in precedenza adito dalla medesima ricorrente in via cautelare, pur respingendo la domanda giudiziale sull’assorbente rilievo della carenza del periculum in mora, aveva comunque svolto in ordine alla ritenuta dubbia conformità a Costituzione dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004. Il rimettente rammenta in proposito che in quella sede è stato rilevato che inizialmente la citata legge aveva previsto il «sostanziale divieto di congelamento degli embrioni». La disciplina della irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo si sarebbe, pertanto, inserita in un contesto normativo in virtù del quale l’impianto sarebbe dovuto avvenire «sostanzialmente nell’immediatezza della formazione dell’embrione». Tuttavia, venuto meno in seguito, per effetto della sentenza n. 151 del 2009 di questa Corte, il generale divieto di crioconservazione, la norma sull’irrevocabilità del consenso si sarebbe trovata ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire anche «a distanza di anni» e, quindi, «in una situazione […] radicalmente cambiata», anche quanto alla persistente sussistenza dei «presupposti […] previsti dalla stessa legge 40 per procedere alla PMA». Peraltro, a differenza del «caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza [recte: ordinanza] n. 30294/17 citata dalla ricorrente per sostenere la prevalenza della tutela dell’embrione», relativo a un impianto avvenuto nell’immediatezza della formazione dell’embrione attraverso la fecondazione eterologa, in quello in esame «nel tempo trascorso dalla crioconservazione dell’embrione sono venuti meno i requisiti previsti dalla legge per procedere alla PMA in quanto non si è più in presenza di una coppia convivente, inoltre viene in considerazione il diritto all’autodeterminazione in ordine alla scelta di diventare genitore, tutelato dall’art. 8 CEDU». Nella nozione di vita privata, infatti, rientrerebbe anche il «diritto al rispetto per la decisione di avere o non avere figli» (sono citate Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 8 novembre 2011, V. C. contro Slovacchia; grande camera, 22 gennaio 2008, E. B. contro Francia; grande camera, 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito). 2.2.1.– Ciò premesso, il rimettente osserva che la legge n. 40 del 2004 si prefigge lo scopo di tutelare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» (art. 1, comma 1), a tal fine prevedendo diverse limitazioni al ricorso alla PMA, tra cui quella per cui possono accedervi esclusivamente coppie coniugate o conviventi (art. 5, comma 1). Quindi, anch’egli evidenzia, similmente al giudice della domanda cautelare, che l’art. 6, comma 3, ultimo periodo, è rimasto invariato «nonostante il radicale cambiamento dell’originaria impostazione» della legge in discorso, in virtù, non solo della citata sentenza n. 151 del 2009, ma anche della successiva pronuncia n. 96 del 2015 di questa Corte, con la quale è stato caducato il divieto di accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, per le coppie fertili ma portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro. In tale mutato contesto, a parere del giudice a quo, la norma censurata pregiudicherebbe il diritto di scelta in ordine all’assunzione del ruolo genitoriale. Ciò in particolare nel caso in cui, in considerazione del decorso del tempo, l’impianto venga chiesto in presenza di «una situazione giuridica diversa» da quella esistente al momento della manifestazione della volontà, come sarebbe accaduto nella specie, in cui le parti dopo aver dato il consenso alla procreazione assistita in costanza di matrimonio, si sono separate consensualmente e non sono più conviventi. Siccome l’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», prosegue il ricorrente, «nell’ipotesi in cui venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto dovrebbe ritenersi possibile la revoca del consenso». I rilievi che precedono inducono il giudice a quo a ritenere che la denunciata irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione vìoli, innanzitutto, gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, compromettendo il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore e quello al rispetto della vita privata e familiare. Risulterebbero, altresì, lesi gli artt. 3 e 13, primo comma, Cost., perché la norma censurata, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà». L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche sotto il profilo dell’eguaglianza, poiché risulterebbe sacrificata soltanto la libertà individuale dell’uomo: la donna, infatti, potrebbe comunque rifiutare, nonostante l’iniziale consenso da essa espresso alla PMA, il trasferimento in utero dell’embrione, che non potrebbe mai esserle imposto. Infine, prescindendo, ai fini dell’impianto, dal consenso dell’uomo, che costituisce «presupposto legittimante dell’intervento medico», la norma in questione recherebbe un vulnus all’art. 32, secondo comma, Cost., giacché finirebbe per assoggettare il componente maschile della coppia a un trattamento sanitario obbligatorio, con incidenza anche sulla sua integrità psicofisica. 2.2.2.– Il rimettente conclude rilevando che i prospettati dubbi non sarebbero superabili mediante un’interpretazione adeguatrice. Questa sarebbe difatti ostacolata sia dall’univoco tenore letterale della norma censurata sia dall’orientamento espresso in materia dalla giurisprudenza di merito – è citato Tribunale ordinario di Napoli, «ordinanza del 25/11/2020 e ordinanza del 27/01/2021» (recte: Tribunale ordinario di Santa Maria Capua Vetere, ordinanze 27 gennaio 2021 e 11 ottobre 2020) – che, sulla scorta del principio affermato dalla Corte di cassazione nell’ordinanza prima citata (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione prima, ordinanza 18 dicembre 2017, n. 30294), in fattispecie del tutto analoga a quella odierna ha ordinato di procedere all’impianto. 3.– Si è costituito il signor D. R., parte convenuta nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni. 3.1.– La parte privata condivide le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e deduce che il divieto previsto dall’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, da un lato, violerebbe il principio di autodeterminazione tutelando la volontà dell’uomo soltanto nella fase iniziale della procedura di PMA: la disciplina del consenso risulterebbe, infatti, del tutto indifferente al decorso del tempo dopo la fecondazione e al mutamento, nelle more, delle condizioni esistenti quando la volontà è stata manifestata, poiché, in particolare, nessun peso sarebbe riconosciuto al venir meno dell’affectio coniugalis. Dall’altro, il medesimo divieto darebbe origine a un’irragionevole disparità di trattamento, relegando su un piano residuale la volontà dell’uomo, posto che la donna che rifiutasse l’impianto non potrebbe esservi obbligata. La parte costituita aggiunge poi, a quanto dedotto dal rimettente, che la norma in questione, consentendo la nascita sulla base della sola volontà della futura madre, comprometterebbe altresì il diritto del nato alla bigenitorialità. Inoltre, non prevedendo la revocabilità del consenso dopo la fecondazione, la suddetta norma, in primo luogo, determinerebbe un’irragionevole diversificazione tra la procedura di PMA e gli altri trattamenti sanitari, nei quali invece la volontà di sottoporvisi può essere sempre revocata. In secondo luogo, essa sarebbe contraddittoria rispetto sia alla disciplina dettata dal comma 3 dell’art. 14 della legge n. 40 del 2004, il quale ammette sì la crioconservazione, ma disponendo che l’impianto venga realizzato «non appena possibile», sia a quella di cui al successivo comma 5, che, prevedendo che la coppia debba essere informata sullo stato di salute degli embrioni, ammetterebbe la revocabilità della volontà in caso di malattia degli embrioni stessi. 4.– Si è costituita nel presente giudizio anche la struttura sanitaria, chiedendo l’accoglimento delle questioni o il loro rigetto, con sentenza interpretativa. 4.1.– La possibile dilatazione temporale della procedura di PMA – osserva la parte privata – comporterebbe la necessità di interpretare la norma censurata tenendo conto della conseguente possibilità dell’avverarsi, nelle more, di «sopravvenienze esistenziali, tali da incidere sulla situazione personale e familiare» della coppia. In quest’ottica andrebbe letto il comma 1 dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004, il quale, prevedendo che l’obbligo informativo nei confronti della coppia debba essere adempiuto in ogni fase di applicazione delle tecniche di PMA, sarebbe funzionale a consentire la «interruzione del percorso di procreazione artificiale anche per la revoca unilaterale del consenso da parte dell’uomo». In ogni caso, rileva ancora la parte costituita, la tutela dell’embrione dovrebbe essere bilanciata «con altri diritti di rango costituzionale eventualmente prevalenti», come sarebbe tra l’altro dimostrato dalle pronunce con cui questa Corte avrebbe fatto venir meno il divieto di accedere alla PMA per le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili al nascituro e il «divieto di diagnosi e selezione preimpianto» con riferimento alle medesime malattie. In particolare, occorrerebbe considerare che l’irrevocabilità del consenso da parte dell’uomo inciderebbe sulla sua libertà di autodeterminazione, peraltro ledendo il principio di uguaglianza, posto che il trasferimento in utero dell’embrione non potrebbe essere mai imposto alla donna. 5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, in ogni caso, non fondate. 5.1.– L’eccepita inammissibilità è anzitutto basata sulla insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza. Il giudice a quo, infatti, rilevando che i coniugi si sono separati consensualmente dopo la fecondazione, avrebbe dovuto constatare il venir meno di una delle condizioni poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004 per accedere alla PMA, ossia la convivenza della coppia, e quindi avrebbe dovuto considerare che non vi era più il presupposto per la perdurante efficacia del consenso prestato. Le questioni sarebbero inammissibili anche perché il rimettente ambirebbe a un intervento additivo in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata: la disposizione censurata rappresenterebbe un punto di equilibrio individuato dal legislatore tra diverse soluzioni possibili e l’addizione auspicata dal rimettente non sarebbe in grado di ricomporre ragionevolmente il quadro dei contrapposti interessi, determinando anche vuoti normativi. 5.2.– Nel merito, le censure sarebbero destituite di fondamento. Non sussisterebbe, infatti, la dedotta lesione degli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto il diritto a non diventare padre dovrebbe essere contemperato con altri diritti di pari rilievo: quello all’autodeterminazione della donna a diventare madre e quello alla salute psicofisica della stessa. Del resto proprio la Corte EDU avrebbe affermato la necessità di un tale bilanciamento e ritenuto applicabile il citato art. 8 anche alla decisione di diventare genitore (sono citate le sentenze, grande camera, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, e 30 ottobre 2012, P. e S. contro Polonia). Parimenti non fondata sarebbe la censura di violazione degli artt. 3 e 13, primo comma, Cost., attesa la significativa diversità delle posizioni dell’uomo e della donna. La procedura di PMA, infatti, mentre per il primo si esaurisce con la raccolta del liquido seminale, per la seconda si sviluppa in una serie di attività «particolarmente invasive e rischiose per la salute». Per analoghe ragioni, conclude la difesa statale, sarebbe inconferente l’evocazione dell’art. 32, secondo comma, Cost.: l’impianto dell’embrione non costituirebbe, infatti, per l’uomo un trattamento sanitario, sicché l’attualità del suo consenso in tale fase non sarebbe necessaria. 6.– Si è costituita in giudizio anche la parte ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. 6.1.– L’eccezione di inammissibilità trae origine, anzitutto, dalla considerazione che l’eventuale determinazione di un momento a decorrere dal quale il consenso diventerebbe revocabile non potrebbe che spettare alla discrezionalità del legislatore. In proposito la parte costituita ha cura di precisare che, nella specie, il tempo trascorso tra la fecondazione, avvenuta in data 3 ottobre 2017, e la richiesta di far luogo all’impianto rivolta alla struttura sanitaria, «avvenuta prima per le vie brevi e poi intimata mediante diffida del difensore in data 26.02.2020», sarebbe in realtà «meno di un anno». Periodo – si afferma – da ritenere pienamente giustificato, essendo naturale che la donna, a seguito della rottura del rapporto e della conseguente necessità di elaborare la delusione della separazione, «non si sia precipitata a chiedere di far luogo al trasferimento in utero ed alla conseguente gravidanza». Chiarisce poi «che i requisiti soggettivi del coniugio “o” della convivenza» stabiliti dalla legge n. 40 del 2004 per accedere alla PMA «nel caso sussistevano e tutt’ora sussistono». Viene infine ricordato il decreto del Ministro della salute 1° luglio 2015 (Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita) che riconoscerebbe il diritto all’impianto indipendentemente dal consenso dell’uomo, stabilendo che «[l]a donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati»: dal che un’ulteriore ragione di inammissibilità delle questioni. 6.2.– Nel merito, le censure non sarebbero fondate. La pronuncia richiesta dal giudice a quo si tradurrebbe nel riconoscimento a favore dell’uomo di «una sorta di diritto potestativo» sulla donna, impedendole di divenire madre e di dare alla luce il figlio «da lei stessa concepito». Si comprometterebbe così la sua salute psicofisica e si vanificherebbero le finalità della stessa legge n. 40 del 2004, diretta a privilegiare la procreazione e a tutelare l’embrione. Sarebbe peraltro anche errato l’assunto da cui muove il rimettente, ovvero che la legge n. 40 del 2004 inizialmente non consentisse la crioconservazione dell’embrione. Al contrario, essa sin dalla formulazione originaria la ammetteva in caso di impossibilità dell’impianto per grave, documentata e imprevedibile causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, sicché l’eventualità che l’impianto potesse avvenire anche a notevole distanza di tempo dalla fecondazione sarebbe stata ben presente al legislatore quando ha stabilito l’irrevocabilità del consenso dopo tale momento. La ricorrente esclude poi che la disciplina denunciata – della cui illegittimità costituzionale non avrebbero dubitato né il giudice della nomofilachia (viene richiamata la sopra citata ordinanza Cass. n. 30294 del 2017) né la giurisprudenza di merito (è citato Trib. Santa Maria Capua Vetere, ordinanza 11 ottobre 2020) – violi i parametri evocati dal rimettente, dal momento che l’uomo ha liberamente e consapevolmente espresso il proprio consenso alla PMA, dopo essere stato informato «di ogni conseguenza e dell’impossibilità di revocarlo». La norma censurata, quindi, muoverebbe dalla ragionevole considerazione del principio di responsabilità, nel suo riflesso sul «diritto della donna a divenire madre» e sulla tutela dell’embrione, che non sarebbe suscettibile di affievolimento se non in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale, come il diritto alla salute della donna stessa. Né sarebbe d’altra parte compromesso il diritto alla bigenitorialità del minore, ove, come nella specie, dopo la fecondazione sia intervenuta la separazione della coppia: anche in tal caso, infatti, questo avrà diritto di godere di entrambe le figure genitoriali e sia il padre che la madre assumeranno i diritti e gli obblighi connessi alla genitorialità. 7.– In prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa. Nel ribadire le deduzioni già svolte nell’atto di intervento, la difesa statale rileva innanzitutto l’erroneità del presupposto posto a fondamento della ordinanza di rimessione, perché la legge n. 40 del 2004 fin dalla sua originaria impostazione, e prima degli interventi sulla stessa operati dalla giurisprudenza costituzionale, già avrebbe previsto, in deroga al generale divieto espresso dall’art. 14, comma 1, la possibilità di crioconservazione degli embrioni al comma 3 del medesimo articolo là dove dispone: «[q]ualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione». Gli interventi di questa Corte avrebbero quindi solo ampliato tale possibilità. Sviluppando, poi, gli argomenti in precedenza addotti, l’Avvocatura generale precisa che la procedura di PMA corrisponderebbe a un «concetto […] più ampio di quello di trattamento sanitario» inteso nella sua accezione comune. Essa, infatti, si articolerebbe in diverse fasi, «che si attuano ora su un paziente, ora su un altro (rispettivamente il padre e la madre generanti), ora su un terzo soggetto (il concepito)», sicché, quando l’intervento medico investe la donna o il concepito, i principi in materia di consenso informato non sarebbero applicabili all’uomo. Dopo la fecondazione, a ben vedere, «solo la donna e il concepito restano esposti all’azione medica» e, se è vero che la prima potrebbe «legittimamente rifiutarsi di subire» l’impianto, ciò dipenderebbe «dall’ovvia incoercibilità del trattamento», al quale «si contrappone l’habeas corpus della donna [stessa] (peraltro pur sempre legittimata all’interruzione volontaria di gravidanza dopo l’impianto)». La difesa statale chiarisce, inoltre, che la piena consapevolezza della volontà di ricorrere alla PMA sarebbe in ogni caso assicurata dagli obblighi informativi che gravano sulla struttura sanitaria e che il diritto alla libera autodeterminazione dell’uomo non sarebbe «penalizzato, bensì solo regolato». L’esercizio dello «ius poenitendi» resterebbe, infatti, contenuto entro un limite temporale costituito dalla fecondazione dell’ovocita; ciò anche per tutelare l’interesse della donna, «che ha nutrito affidamento nella concorde volontà di accedere al non agevole percorso della PMA che, per obiettive ed indiscutibili ragioni, proprio per la donna comporta un particolare e più gravoso impegno, con assoggettamento a procedure particolarmente invasive, anche chirurgiche e farmacologiche, già nella fase prodromica a quella della fecondazione». 7.1.– Anche D. R. ha depositato memoria illustrativa, ribadendo le argomentazioni addotte nella memoria di costituzione a sostegno della fondatezza delle questioni, in particolare insistendo sull’incoerenza dell’irrevocabilità del consenso rispetto allo sviluppo della giurisprudenza di questa Corte sulla PMA. 7.2.– Ha altresì depositato memoria la citata struttura sanitaria, che, insistendo nelle conclusioni già rassegnate, ha anche rimarcato l’esigenza che agli operatori del settore vengano fornite, «nell’incertezza del quadro normativo e della sua interpretazione», «chiare indicazioni che consentano condotte e determinazioni non contestabili dai richiedenti prestazioni di p.m.a., portatori di interessi contrapposti: in tal modo si eviterebbe di esporre gli stessi operatori a eventuali ingiuste richieste risarcitorie, cui sono comunque attualmente esposti qualunque sia la loro scelta (ignorare o considerare la revoca del consenso)». 7.3.– Ha infine depositato memoria la parte ricorrente nel processo principale, formulando, tra l’altro, un’ulteriore eccezione d’inammissibilità per «difetto di incidentalità»: il petitum del giudizio a quo coinciderebbe, infatti, con le questioni sollevate, poiché la «domanda di rigetto nel merito formulata da entrambi i convenuti è esclusivamente fondata sulla pretesa incostituzionalità della norma indubbiata». Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 5 giugno 2022 (reg. ord. n. 131 del 2022), il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». 2.– Dopo avere stabilito che la volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa congiuntamente dai componenti della coppia per iscritto e che tra la sua manifestazione e «l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni», il suddetto art. 6, comma 3, dispone, al denunciato ultimo periodo, che tale volontà «può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo». 3.– Le questioni traggono origine dal giudizio instaurato, ai sensi dell’art. 702-bis cod. proc. civ., dalla signora A. C. per ottenere la condanna della struttura sanitaria E. H. all’impianto dell’embrione: presso tale struttura, infatti, nel settembre 2017, lei e il coniuge, nell’ambito di un percorso di PMA, avevano assentito alla crioconservazione del medesimo embrione, al fine di permettere, sullo stesso, l’esecuzione della biopsia. L’impianto era stato, tuttavia, ulteriormente differito a causa della scarsa qualità endometriale della donna, che nei successivi mesi di novembre e dicembre si era sottoposta ad apposite ulteriori terapie. Il trasferimento in utero dell’embrione non era stato poi realizzato perché il marito, nel gennaio 2018, si era allontanato dalla residenza familiare e nel marzo 2019 era stata formalizzata tra le parti la separazione consensuale. L’ordinanza di rimessione evidenzia quindi che nel febbraio 2020 la signora A. C. aveva chiesto vanamente alla struttura sanitaria di procedere all’impianto e che, il 24 agosto 2020 dello stesso anno, il marito, dopo avere domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva formalmente revocato il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA. Tale revoca, essendo intervenuta dopo la fecondazione dell’ovulo, non sarebbe consentita dalla norma censurata e da qui la questione rimessa a questa Corte. 4.– In ordine alla rilevanza il rimettente osserva che il giudizio non potrebbe essere definito, nella fattispecie descritta, indipendentemente dalla decisione sulle sollevate questioni di legittimità costituzionale. 4.1.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente premette che la disciplina dell’irrevocabilità del consenso sarebbe stata prevista dal legislatore in un contesto normativo in cui l’impianto sarebbe dovuto avvenire «sostanzialmente nell’immediatezza della formazione dell’embrione». Tuttavia, le sentenze n. 151 del 2009 e n. 96 del 2015 di questa Corte avrebbero fatto venir meno il sostanziale divieto di crioconservazione, sicché la norma sull’irrevocabilità del consenso si troverebbe oggi ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire anche «a distanza di anni» e, quindi, in una situazione profondamente mutata, soprattutto quanto alla persistente sussistenza dei presupposti previsti dalla stessa legge n. 40 del 2004 per accedere alla PMA. A parere del giudice a quo, la norma censurata pregiudicherebbe quindi il diritto di scelta in ordine all’assunzione del ruolo genitoriale nel caso in cui, in considerazione del decorso del tempo, l’impianto venga chiesto in presenza di «una situazione giuridica diversa» da quella esistente al momento della manifestazione della volontà. Pertanto, poiché l’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», nell’ipotesi in cui «venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto», dovrebbe ritenersi sempre possibile «la revoca del consenso». Sulla base di questa premessa, dopo aver escluso la possibilità di un’interpretazione adeguatrice, il giudice a quo ritiene che l’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, attribuendo alla fecondazione dell’ovulo un’efficacia preclusiva assoluta della possibilità di revocare il consenso, leda il diritto di autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore, riconosciuto dall’art. 2 Cost. e dall’art. 8 CEDU, con conseguente violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost. Sarebbero, altresì, violati gli artt. 3 e 13, primo comma, Cost., poiché, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, la suddetta disciplina normativa irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà». Il vulnus all’art. 3 Cost. sarebbe apprezzabile anche sotto il profilo della disparità di trattamento, segnatamente perché l’irrevocabilità della volontà sacrificherebbe soltanto la libertà individuale dell’uomo, potendo invece la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, che non potrebbe esserle imposto in quanto lesivo della sua integrità psicofisica. La norma sospettata si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 32, secondo comma, Cost., giacché assoggetterebbe l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio. 5.– In via preliminare va, innanzitutto, precisata la reale portata del petitum dell’ordinanza di rimessione, perché dal suo complessivo tenore (ex plurimis, sentenza n. 88 del 2022) si evince con chiarezza che il rimettente, più che ambire alla fissazione di un generico termine per la revoca del consenso, dubita in realtà della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, per l’omessa previsione della revocabilità del consenso stesso, prima dell’impianto, quando, in considerazione del decorso (anche considerevole) del tempo dal momento della fecondazione, si sia disgregato quel «progetto di coppia» – cui in più passaggi l’ordinanza esplicitamente si riferisce – e quindi siano venute meno, sul piano sostanziale, le condizioni soggettive richieste dalla legge n. 40 del 2004 per l’accesso alla PMA. Proprio questa, del resto, è la circostanza che caratterizza la fattispecie sottoposta alla cognizione del giudice a quo, in cui le parti, separatesi consensualmente dopo la fecondazione, non sono più conviventi. Occorre, inoltre, precisare che – ancora a dispetto dell’ampia formulazione testuale del petitum – il rimettente si duole dell’irrevocabilità del consenso solo con riguardo alla componente maschile della coppia, come si desume non solo da diversi sviluppi argomentativi dell’ordinanza di rimessione, ma anche dalla specifica censura sulla disparità di trattamento fra uomo e donna. 6.– Va in limine anche rilevato che le deduzioni con le quali D. R., parte convenuta nel processo principale, sostiene che la norma censurata comprometterebbe il diritto del minore alla bigenitorialità, contrastando con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza sotto profili diversi da quelli prospettati dal giudice a quo, non sono idonee ad ampliare il thema decidendum. Nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, infatti, non possono essere presi in esame questioni o profili di costituzionalità dedotti solo dalle parti e diretti quindi ad ampliare o modificare il contenuto delle ordinanze di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 228 e n. 186 del 2022, n. 252 del 2021). 7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha anzitutto eccepito l’inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza, delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. Ad avviso della difesa erariale, il rimettente non avrebbe indagato la possibilità di definire la controversia considerando il venir meno dell’efficacia del consenso del marito della ricorrente in forza del disposto dell’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, che richiederebbe la persistente sussistenza dei requisiti soggettivi di accesso alla PMA durante tutte le sue fasi di applicazione. 7.1. – L’eccezione non coglie nel segno. Il rimettente ha chiaramente escluso di poter decidere la controversia di cui è investito applicando il suddetto art. 5, comma 1, dolendosi proprio del fatto che il legislatore non abbia attribuito rilievo agli eventi, successivi alla fecondazione, incidenti sui requisiti di accesso previsti in tale disposizione. Sul punto la conclusione del rimettente è certamente condivisibile. In disparte il rilievo che dall’ordinanza di rimessione emerge che al momento della sua adozione era venuta meno solo la convivenza tra le parti e non il rapporto di coniugio, il menzionato art. 5, comma 1, fa esclusivo riferimento ai requisiti soggettivi necessari per «accedere» alle tecniche di PMA: il dato testuale non richiede quindi, contrariamente a quanto ritenuto dall’Avvocatura generale, che tali presupposti rimangano invariati anche dopo la fecondazione. Questa interpretazione trova conferma sul piano sistematico. Ritenere le condizioni di accesso requisiti permanenti, in contraddizione con le finalità della legge diretta a «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi» e ad assicurare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti» (art. 1, comma 1), renderebbe facilmente eludibile l’irrevocabilità del consenso: anche nel periodo immediatamente successivo alla fecondazione l’uomo – nel caso di coppia di conviventi – potrebbe infatti sottrarsi alla responsabilità appena assunta semplicemente facendo cessare la convivenza. Inoltre, la tesi dell’Avvocatura generale impedirebbe la procreazione anche quando, malgrado la sopravvenuta crisi del rapporto di coppia, questa comunque fosse ancora voluta da entrambi i partner. La conclusione ermeneutica del rimettente, del resto, ha trovato indiretto avallo nella giurisprudenza di legittimità, laddove ha affermato che l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 – che disciplina lo stato giuridico dei nati a seguito di PMA – esprime la «assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 15 maggio 2019, n. 13000). Nello stesso senso e più direttamente si è espressa anche la prevalente giurisprudenza di merito (Trib. Santa Maria Capua Vetere, ordinanze 27 gennaio 2021 e 11 ottobre 2020; Tribunale ordinario di Perugia, ordinanza 28 novembre 2020; Tribunale ordinario di Lecce, ordinanza 24 giugno 2019; Tribunale ordinario di Bologna, ordinanza 16 gennaio 2015). 7.2.– È priva di fondamento l’eccezione di difetto di rilevanza sollevata dalla ricorrente nel processo principale, sulla scorta della considerazione che le linee guida recate dal d.m. 1° luglio 2015, prevedendo che la donna «ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati», consentirebbero comunque di prescindere dalla revoca della volontà dell’uomo ai fini dell’impianto dell’embrione, sicché, in sostanza, la domanda giudiziale da essa proposta sarebbe fondata anche in caso di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. Il menzionato decreto non può, infatti, porsi in contrasto con le norme dettate dalla stessa legge n. 40 del 2004, con la conseguenza che la previsione su cui è basata l’eccezione in discorso sarebbe suscettibile di disapplicazione da parte del giudice a quo ove le odierne questioni di legittimità costituzionale fossero accolte. 7.3.– È destituita di ogni fondamento anche l’ulteriore eccezione, sollevata dalla stessa parte, di irrilevanza per «difetto di incidentalità», perché la «domanda di rigetto nel merito formulata da entrambi i convenuti è esclusivamente fondata sulla pretesa incostituzionalità della norma indubbiata». Il requisito della incidentalità presuppone che sia «individuabile nel giudizio principale un petitum separato e distinto dalla questione (o dalle questioni) di legittimità costituzionale» (ex plurimis, ordinanza n. 103 del 2022). Nella specie, il processo principale è stato introdotto dalla ricorrente per ottenere la condanna della struttura sanitaria presso la quale è stato intrapreso il percorso di PMA all’impianto dell’embrione. È quindi palese che il giudizio a quo è connotato da un petitum distinto e autonomo rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 7.4.– Vanno infine considerate le altre eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale e dalla parte ricorrente nel giudizio a quo. La difesa statale, in particolare, sostiene che la pronuncia sollecitata dal rimettente richiederebbe un intervento additivo di questa Corte il cui contenuto non sarebbe costituzionalmente obbligato; considerazioni sostanzialmente sovrapponibili sono sviluppate dalla parte ricorrente nel processo principale. Neppure queste eccezioni colgono nel segno: come si è chiarito, infatti, il giudice a quo non ambisce alla fissazione di un generico termine per la revoca del consenso, ma àncora l’auspicata revocabilità dello stesso ad un preciso evento, dato dalla sopravvenuta disgregazione, per il decorrere del tempo, dell’iniziale «progetto di coppia». Se, poi, una siffatta soluzione comporti, come paventato dalle medesime eccezioni, la lesione degli ulteriori interessi costituzionali coinvolti, è questione che attiene al merito. 8.– Le censure formulate in riferimento agli artt. 13, primo comma, e 32, secondo comma, Cost. sono inammissibili per omessa motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale. Il giudice a quo si limita in sostanza a ricordare che il consenso costituisce «presupposto legittimante dell’intervento medico», di talché la norma denunciata, prescindendone, finirebbe per assoggettare l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio. Il rimettente non adduce, però, alcuno specifico argomento volto a spiegare le ragioni per cui l’impianto dell’embrione, che all’evidenza incide esclusivamente sul corpo della donna, si tradurrebbe, anche per l’uomo, in un trattamento sanitario, o comunque in una coercizione sul suo corpo, né sviluppa argomentazioni sull’eventuale impatto di tale trattamento sulla salute psicofisica dello stesso. Il contrasto con gli evocati parametri costituzionali risulta quindi dedotto in maniera generica e assertiva. 9.– Quanto al merito, occorre innanzitutto osservare che non erra, invero, il giudice rimettente nel sostenere che, a seguito degli interventi di questa Corte, la norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo si è trovata a operare in un contesto profondamente diverso da quello definito ab origine dalla legge n. 40 del 2004. Questa prevedeva, infatti, che il trasferimento in utero degli embrioni prodotti – che non potevano essere creati in numero superiore a tre (art. 14, comma 2) – doveva avvenire entro l’arco temporale dei pochissimi giorni del ciclo della loro sopravvivenza: l’ipotesi della loro crioconservazione, in linea generale vietata (art. 14, comma 1), costituiva quindi un’evenienza del tutto eccezionale, consentita solo «per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione» e in ogni caso l’impianto si sarebbe dovuto realizzare «non appena possibile» (art. 14, comma 3). In questo sistema normativo, era ben difficile che le condizioni soggettive che dovevano necessariamente essere presenti al momento dell’accesso alla PMA (art. 5, comma 1) – e in particolare l’essere la coppia composta da persone coniugate o conviventi – fossero mutate al momento dell’impianto in utero. La norma che stabiliva la definitiva irrevocabilità, a seguito dell’avvenuta fecondazione dell’embrione, del consenso prestato – peraltro dopo aver previsto (art. 6, commi 1, 2, 3, primo e secondo periodo, e 5) un rigoroso percorso diretto a garantire la piena informazione e responsabilizzazione dei richiedenti nonché un periodo, «non inferiore a sette giorni», per poter esercitare uno “ius poenitendi” – presentava, sotto questo aspetto, una propria, indubbia, linearità: il progetto genitoriale della coppia si poteva ritenere, infatti, ancora saldamente esistente nei pochissimi giorni intercorrenti fra la prestazione del consenso e l’impianto. 9.1.– Questo assetto normativo, nel quale era arduo ipotizzare conflitti fra i vari interessi in gioco, è però mutato a seguito delle pronunce di questa Corte che, facendo emergere la carente tutela della salute psicofisica della donna, hanno ritenuto irragionevole il rigore con cui la legge n. 40 del 2004 stabiliva il generale divieto di crioconservazione degli embrioni. In particolare, con la sentenza n. 151 del 2009 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», e dell’art. 14, comma 3, «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna». Precisando che la «tutela dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione», detta sentenza ha rimarcato che il numero massimo di embrioni da creare e l’unico e contemporaneo impianto, da un lato, comportavano «la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione», con «l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate»; dall’altro, determinavano «un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di tali gravidanze». La «logica conseguenza» della decisione è stata quella di derogare «al principio generale di divieto di crioconservazione», data la necessità del «congelamento con riguardo agli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta medica» diretta a evitare un «pregiudizio della salute della donna» (ancora sentenza n. 151 del 2009). Successivamente con la sentenza n. 96 del 2015 questa Corte è intervenuta sulle norme (gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1) che non consentivano il ricorso alla PMA alle coppie che, benché fertili, fossero tuttavia portatrici di «gravi patologie genetiche ereditarie», accertate da apposite strutture pubbliche, «suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni» e rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza). Il divieto di accesso alla PMA derivante dalle suddette norme risultava, infatti, contraddittorio rispetto alla previsione (recata dal citato art. 6, comma 1, lettera b) che invece consente a tali coppie di perseguire «l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali». Tale divieto è stato quindi giudicato lesivo dell’art. 32 Cost., perché non permetteva di far acquisire “prima” alla donna un’informazione tale da consentirle di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute. Il vulnus così arrecato al diritto alla salute della donna non aveva, peraltro, «un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto». Tale decisione ha, pertanto, ritenuto che la normativa denunciata costituiva il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco. Anche per effetto di questa sentenza il divieto di crioconservazione ha subìto, di fatto, una ulteriore deroga, perché i tempi e i modi della diagnosi preimpianto risultano, allo stato delle conoscenze scientifiche, incompatibili con il breve arco temporale in cui è possibile impiantare gli embrioni senza congelarli. 9.2.– Insomma, a seguito dei suddetti interventi di questa Corte rivolti a dare corretto rilievo al diritto alla salute psicofisica della donna, il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla legge n. 40 del 2004 si è, nei fatti, rovesciato: la prassi è divenuta quindi la crioconservazione – e con essa anche «la possibilità di creare embrioni non portati a nascita» (sentenza n. 84 del 2016) – e l’eccezione l’uso di tecniche di impianto “a fresco”. Nonostante l’art. 14, comma 3, continui a prevedere la formula «da realizzare non appena possibile», si è così determinata la possibilità di una eventuale dissociazione temporale, anche significativa, tra il consenso prestato alla PMA e il trasferimento in utero. Mentre questo era normalmente destinato ad avvenire nel breve spazio di pochissimi giorni dalla fecondazione, cioè dal momento in cui il consenso prestato dalla coppia diveniva irrevocabile, è oggi possibile che la richiesta dell’impianto degli embrioni crioconservati venga manifestata dalla donna (in virtù del proprio stato psicofisico) non solo a distanza di molto tempo da quel momento, ma anche in presenza di condizioni soggettive assai diverse da quelle che necessariamente dovevano esistere in concomitanza all’accesso alle tecniche in discorso. È su tale presupposto che si sviluppa la delicata questione che il giudice rimettente pone a questa Corte. Delicata perché, consentendo l’impianto dell’embrione (o degli embrioni) anche in una situazione in cui, per il decorso del tempo, è venuto meno l’originario progetto di coppia, la norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite «scelte tragiche» (in relazione ad altri contesti: sentenze n. 14 del 2023 e n. 118 del 1996; in senso analogo sentenza n. 84 del 2016), in quanto caratterizzate dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie. Tali sono: la tutela della salute psicofisica della donna e la sua libertà di autodeterminazione a diventare madre; la libertà di autodeterminazione dell’uomo a non divenire padre; la dignità dell’embrione; i diritti del nato a seguito della PMA. Questa Corte è dunque chiamata a valutare se la norma censurata – stabilendo l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione e quindi imponendo all’uomo di divenire padre (nel caso di successo della PMA) contro la sua attuale volontà, nel frattempo mutata per eventi sopravvenuti nella dinamica del rapporto di coppia – esprima tutt’ora, nel contesto ordinamentale risultante dagli interventi della propria giurisprudenza, un bilanciamento non irragionevole alla luce dei parametri evocati dal rimettente. 10.– La prima questione da considerare è quella relativa alla violazione del principio di eguaglianza, prospettata sotto il profilo della disparità di trattamento perché l’irrevocabilità del consenso sacrificherebbe, in realtà, soltanto la libertà individuale dell’uomo, potendo invece la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione. La questione non è fondata. La premessa interpretativa da cui muove il giudice rimettente è, invero, corretta: sebbene il divieto di revoca del consenso sia riferito a «ciascuno dei soggetti» coinvolti, è indubbio che la norma non possa condurre a ipotizzare un impianto coattivo nei confronti della donna. Il trasferimento nell’utero dell’embrione si tradurrebbe, infatti per la donna in un vero e proprio trattamento sanitario, estremamente invasivo, che non può in alcun modo esserle imposto, in coerenza con quanto previsto in tema di trattamenti medici dall’art. 1, commi 1 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), oltre che dall’art. 5 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina, ratificata e resa esecutiva con legge 28 marzo 2001, n. 145. Questa Corte, peraltro, ha già affermato che il divieto di soppressione dell’embrione «non ne comporta […] l’impianto coattivo nell’utero della gestante» (sentenza n. 229 del 2015). La situazione in cui versa la donna è dunque profondamente diversa da quella dell’uomo: come ha correttamente rilevato l’Avvocatura generale dello Stato, dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica della donna. Ma è proprio tale eterogeneità di situazioni che conduce a escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento di questa Corte, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili» (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2021 e n. 85 del 2020; nello stesso senso sentenze n. 13 del 2018 e n. 71 del 2015), come è nel caso in esame. 11.– Vengono ora in considerazione le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2 e 3 (sotto altro profilo) Cost., che possono essere trattate congiuntamente perché attinenti in sostanza alla irragionevole violazione della libertà di autodeterminazione dell’uomo, in quanto l’irrevocabilità del consenso prevista dal censurato art. 6, comma 3, ultimo periodo, lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà». 11.1.– Anche tali questioni non sono fondate, in quanto il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti, insito nella norma censurata, non supera la soglia della irragionevolezza. A questa Corte è invero ben presente l’impatto della propria giurisprudenza sul modello originario della legge n. 40 del 2004 e in particolare quello della ricordata espansione della tecnica della crioconservazione con la conseguente possibilità di una scissione temporale tra la fecondazione e l’impianto. Questa scissione, per effetto della norma censurata, indubbiamente si ripercuote sulla libertà dell’uomo di autodeterminarsi, quando, per il decorso del tempo, sia venuta meno quell’affectio familiaris sulla quale si era, in origine, fondato il comune progetto di genitorialità. Infatti, in questa situazione, la volontà della donna di procedere comunque all’impianto dell’embrione costringe quella libertà a subire tale evento. 11.2.– Tali rilievi non possono, tuttavia, ritenersi sufficienti a condurre all’illegittimità costituzionale della definitiva irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata. E questo per diverse ragioni. 11.3.– Va innanzitutto precisato che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso. L’art. 6 della legge n. 40 del 2004 reca, infatti, un’articolata disciplina dell’obbligo informativo prodromico alla prestazione del consenso, «in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa» (comma 1, ultimo periodo), anche in merito alle «conseguenze giuridiche» derivanti dall’applicazione delle tecniche di PMA (comma 1, primo periodo). Tale volontà deve essere manifestata «per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400» (comma 3, primo periodo). In base all’art. 1, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia e del Ministro della salute 28 dicembre 2016, n. 265 (Regolamento recante norme in materia di manifestazione della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in attuazione dell’articolo 6, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40), tra gli «elementi minimi di conoscenza necessari alla formazione del consenso informato» viene espressamente indicata la «possibilità di crioconservazione degli embrioni in conformità a quanto disposto dall’articolo 14 della legge n. 40 del 2004 e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 151 del 2009» (lettera t) – oltre che, ovviamente, la possibilità di revocare il consenso solo «fino al momento della fecondazione» (lettera q). Le informazioni che il medico è tenuto a fornire devono pertanto necessariamente investire tutte le conseguenze del vincolo derivante dal consenso espresso, quindi sia la possibilità che si verifichi uno iato temporale (anche significativo) tra fecondazione e impianto, sia l’eventualità che questo avvenga quando, nelle more, sono venute meno le iniziali condizioni di accesso alla PMA. 11.4.– Va altresì precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004 ha una portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio. In questa prospettiva il consenso, manifestando l’intenzione di avere un figlio, esprime una fondamentale assunzione di responsabilità, che riveste un ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status filiationis. È significativo, infatti, che l’art. 8 stabilisca che «[i] nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6», e che l’art. 9 preveda un duplice divieto: da un lato, quello di disconoscimento della paternità nel caso della PMA eterologa, così configurando «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» (ordinanza n. 7 del 2012), e, dall’altro, quello di anonimato della madre. Tali norme mettono in evidenza che il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita, il quale diviene irrevocabile dal momento della fecondazione dell’ovulo, comporta una specifica assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione, che si traduce nella attribuzione al nato – a prescindere dalle successive vicende della relazione di coppia – dello status filiationis. Si tratta di una implicazione dal notevole impatto, tant’è che il medesimo art. 6 prevede espressamente, al comma 5, che «[a]i richiedenti, al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, devono essere esplicitate con chiarezza e mediante sottoscrizione le conseguenze giuridiche di cui all’articolo 8 e all’articolo 9 della presente legge». Nella specifica disciplina della PMA la responsabilità assunta con il consenso prestato (sentenza n. 230 del 2020) riveste quindi un valore centrale e determinante nella dinamica giuridica finalizzata a condurre alla genitorialità, risultando funzionale «a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo concepimento» (sentenza n. 127 del 2020). In definitiva, se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità. 12.– Va poi soprattutto considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti, in primo luogo attinenti alla donna. 12.1.– Quest’ultima nell’accedere alla PMA è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo. Infatti, al fine di realizzare il comune progetto genitoriale viene, innanzitutto, sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi. È del resto significativo che il citato d.m. n. 265 del 2016 stabilisca che, ai fini del consenso informato, vengano espressamente comunicati anche «i rischi per la madre e per il nascituro, accertati o possibili, quali evidenziabili dalla letteratura scientifica» (art. 1, comma 1, lettera h). All’esito positivo di detta terapia, la donna viene poi sottoposta, nell’ipotesi decisamente più ricorrente che è quella della fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere normalmente praticato in anestesia generale. A ridosso del prelievo, nell’arco di un brevissimo spazio temporale, si perviene poi alla fecondazione. Possono essere peraltro necessari, successivamente alla fecondazione dell’embrione (e alla sua crioconservazione), ulteriori trattamenti farmacologici e analisi, nonché interventi medici, come nel caso del giudizio a quo, in cui la ricorrente si è dovuta sottoporre a specifiche terapie prodromiche all’impianto. L’accesso alla PMA comporta quindi per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell’impianto dell’embrione nel proprio utero. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale. L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione. E ciò chiama in causa il diritto alla salute della donna, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, va inteso «nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica» (ex plurimis, sentenza n. 162 del 2014). Coerentemente le citate linee guida di cui al d.m. 1° luglio 2015 stabiliscono che «[l]a donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati». Le suddette ripercussioni sarebbero, peraltro, ancora più gravi, qualora, a causa dell’età (che già solo in relazione alla capacità di produrre gameti incide in misura ben maggiore rispetto all’uomo) o delle condizioni fisiche, alla donna – anche per effetto del tempo trascorso dalla crioconservazione dell’embrione “conteso” – non residuasse più la possibilità di iniziare un nuovo percorso di PMA, con una preclusione, a questo punto, assoluta della propria libertà di autodeterminazione in ordine alla procreazione. 12.1.1.– Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna ha portato questa Corte a ritenere «insindacabile» la «scelta politico-legislativa» di lasciarla «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito, precisando «che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare, all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna» (ordinanza n. 389 del 1988). Mutatis mutandis (perché nella fecondazione in vitro il corpo della donna entra in gioco in termini analoghi alla gravidanza naturale solo dopo l’impianto) dalla citata pronuncia comunque emerge che questa Corte ha consentito che la volontà dell’uomo, in ordine al destino del concepito nella fase successiva alla fecondazione dell’ovocita, perda rilevanza giuridica nonostante la decisione della donna precluda la sua possibilità di essere padre. È utile sottolineare la ratio di questa pronuncia perché un impatto con il corpo della donna, come si è visto, si verifica comunque anche nel processo necessario alla produzione degli embrioni. 12.2.– Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione. Questa Corte, in linea con la giurisprudenza sovranazionale e convenzionale, ha precisato che l’embrione «ha in sé il principio della vita» (sentenza n. 84 del 2016). Vita da intendersi quale vita umana, in quanto «la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa C-34/10, sentenza 18 ottobre 2011, Brüstle contro Greenpeace eV). L’embrione viene infatti generato a motivo della speranza che una volta trasferito nell’utero dia luogo a una gravidanza e conduca alla nascita, per cui «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico» (sentenze n. 84 del 2016 e n. 229 del 2015; in senso analogo, Corte EDU, grande camera, sentenza 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia, dove si è affermato: «human embryos cannot be reduced to “possessions” within the meaning of that provision»). La sua «dignità», quindi, è «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.», dovendo essere pertanto tutelata anche ove si sia al cospetto di embrioni soprannumerari o malati (sentenza n. 229 del 2015). È certamente vero, peraltro, che la tutela dell’embrione non è comunque assoluta e del resto «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (sentenza n. 27 del 1975). Tuttavia, va anche considerato che sinora la giurisprudenza costituzionale l’ha limitata solo nella direzione della «necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione» (sentenza n. 151 del 2009) e con quella «del diritto alla salute della donna» (sentenza n. 96 del 2015). 12.3.– Ove, dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione crioconservato, che potrebbe attecchire nell’utero materno, risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. La PMA, infatti, «mira a favorire la vita» (sentenza n. 162 del 2014), volendo assistere la procreazione – cioè la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia, la richiesta della donna che, essendosi fortemente coinvolta, come si è visto, nell’interezza della propria dimensione psicofisica, sia intenzionata, anche dopo che sia decorso un rilevante periodo di tempo dalla crioconservazione, all’impianto dell’embrione. 12.4.– Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella legge n. 40 del 2004, dai ricordati artt. 8 e 9. <>>Del resto, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale talmente determinante da far preferire la non vita. 12.5.– Non fondata è infine anche la censura formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU quanto al diritto al rispetto della propria vita privata, che ha riguardo anche alle decisioni tanto di avere un figlio, quanto di non averlo (ex plurimis, Corte EDU, sentenza 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania). Nel caso Evans contro Regno Unito, concernente una fattispecie molto simile a quella qui in questione, segnata però dalla decisiva differenza che la revoca del consenso da parte dell’uomo è espressamente consentita (e quindi non può generare un affidamento della donna) dalla legge inglese (come del resto avviene anche in altri ordinamenti, quali quelli francese e austriaco) fino al momento dell’impianto dell’embrione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha innanzitutto precisato che il ricorso al trattamento di fecondazione in vitro dà luogo a delicate questioni etiche e concerne aree in cui manca un consenso europeo. Ha quindi rimarcato l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel risolvere un dilemma a fronte del quale – come recita la sentenza – qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell’una o dell’altra parte, ed ha concluso che non sussistessero motivi per ritenere che la soluzione adottata dal legislatore inglese avesse superato il margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU. Non ha nascosto però di provare «great sympathy for the applicant, who clearly desires a genetically related child above all else» e ha in conclusione precisato che sarebbe stato possibile per il Parlamento regolare la situazione in modo diverso (Corte EDU, sentenza Evans contro Regno Unito). Si deve quindi escludere alla luce delle argomentazioni sin qui svolte che l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’embrione, prevista dall’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004, superi il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato italiano e possa essere ritenuta in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell’art. 8 CEDU. 13.– In conclusione, la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata – benché introdotta in un contesto in cui la PMA avrebbe dovuto svolgersi in uno stesso ciclo, cioè con l’unico e contemporaneo impianto di un numero limitato di embrioni e, in linea generale, senza ricorrere alla crioconservazione – mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte. Del resto la sentenza n. 162 del 2014 di questa Corte, introducendo la possibilità della fecondazione eterologa si è limitata a precisare, senza rilevare alcuna criticità, che «quanto alla disciplina del consenso, […] la completa regolamentazione stabilita dall’art. 6 della legge n. 40 del 2004 – una volta venuto meno, nei limiti sopra precisati, il censurato divieto – riguarda evidentemente anche la tecnica in esame, in quanto costituisce una particolare metodica di PMA». Pur nella sua vincolatività unilaterale nei confronti dell’uomo la norma censurata appare, quindi, esprimere ancora un bilanciamento che non sconfina nella irragionevolezza. In sintesi, ciò può essere affermato, da un lato, in forza della garanzia del formarsi, nell’uomo, «di una volontà consapevole e consapevolmente espressa» (art. 6, comma 1, della legge n. 40 del 2004), attinente vuoi alla possibilità della crioconservazione, vuoi alla centralità del consenso, che mira a riprodurre nella fecondazione artificiale i tratti della irreversibilità della responsabilità propri nella fecondazione naturale (artt. 8 e 9 della medesima legge). Dall’altro, per un ulteriore duplice ordine di ragioni. In primo luogo perché l’irrevocabilità del consenso genera nella donna un affidamento che la spinge a sottoporsi alla procedura di PMA, mettendo in gioco la propria integrità psicofisica, come del resto, sia pure in un diverso contesto ordinamentale, ha sottolineato la Corte suprema israeliana in un caso simile, precisando che: «[it] is difficult to assume that she would have agreed to undergo these treatments in the knowledge that her husband could change his mind at any time that he wished.» (Corte Suprema di Israele, sentenza 12 settembre 1996, Nahmani contro Nahmani, opinione di maggioranza, Justice Ts. E. Tal). In secondo luogo, perché permette l’impianto dell’embrione. 14.– Non sfuggono, tuttavia, a questa Corte la complessità della fattispecie e le conseguenze che la norma oggetto del presente giudizio, in ogni caso, produce in capo all’uomo, destinato a divenire padre di un bambino nonostante siano venute meno le condizioni in cui aveva condiviso il progetto genitoriale. Ciò perché la regola giuridica in esame ha cristallizzato il consenso prestato prima che si disgregasse l’unità familiare, benché, in fatto (a differenza della procreazione naturale), sia ancora possibile evitare l’impianto dell’embrione a suo tempo fecondato e crioconservato. Questa Corte è consapevole che lo status di genitore comporta una modifica sostanziale dei diritti e degli obblighi di una persona, idonea a investire la maggior parte degli aspetti e degli affetti della vita. È altrettanto consapevole che il panorama del diritto comparato mostra soluzioni anche molto diversificate, sia a livello legislativo che giurisprudenziale. Tra queste, solo a titolo di esempio, si può ricordare che nel caso prima citato la Corte israeliana ha subordinato la possibilità dell’impianto a determinate condizioni attinenti la responsabilità genitoriale (a tale decisione si è di recente ispirata la Corte costituzionale della Colombia, sentenza 13 ottobre 2022, T-357/22, che, in una vicenda analoga, ha permesso l’assimilazione del padre a un donatore anonimo). È evidentemente la consapevolezza di trovarsi di fronte a una scelta complessa, che coinvolge interessi chiaramente antagonisti, a indurre gli ordinamenti ad adottare soluzioni differenti, che riflettono le precipue caratterizzazioni che in essi assumono i principi costituzionali coinvolti. 15.– Tuttavia, resta fermo che, nel nostro ordinamento, la ricerca, nel rispetto della dignità umana, di un ragionevole punto di equilibrio, eventualmente anche diverso da quello attuale, fra le diverse esigenze in gioco in questioni che toccano «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014) non può che spettare «primariamente alla valutazione del legislatore», «alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale» (sentenza n. 221 del 2019), ferma restando la sindacabilità da parte di questa Corte delle scelte operate, al fine di verificare che con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 13, primo comma, e 32, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2023. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Luca ANTONINI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2023 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CURZIO Pietro - Primo Presidente Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente di Sez. Dott. MANNA Antonio - Presidente di Sez. Dott. DE MASI Oronzo - Consigliere Dott. SESTINI Danilo - Consigliere Dott. MANZON Enrico - Consigliere Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere ha pronunciato la seguente:   SENTENZA sul ricorso iscritto al N. R.G. 30401/2018 proposto da: MINISTERO DELL'INTERNO e SINDACO DEL COMUNE DI VERONA, quest'ultimo nella qualita' di ufficiale di Governo, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; - ricorrenti - contro (OMISSIS), e (OMISSIS), in proprio e quali genitori del minore (OMISSIS), rappresentati e difesi dall'Avvocato (OMISSIS); - controricorrenti e ricorrenti in via incidentale - e nei confronti di: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI VENEZIA; - intimato - per la cassazione dell'ordinanza della Corte d'appello di Venezia n. 6775/2018, depositata il 16 luglio 2018. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell'8 novembre 2022 dal Consigliere Alberto Giusti; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Finocchi Ghersi Renato, che ha concluso per il rigetto del primo, del secondo e del terzo motivo del ricorso principale e dell'unico motivo del ricorso incidentale nonche' per l'accoglimento del quarto motivo del ricorso principale. FATTI DI CAUSA 1. - Il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato all'estero da maternita' surrogata. In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l'ovocita di una donatrice. L'embrione e' stato poi trasferito nell'utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino. I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l'atto e' stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino, di nome (OMISSIS), e' nato nel (OMISSIS). Quando il bambino e' venuto alla luce, le autorita' canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, (OMISSIS), mentre non sono stati menzionati ne' il padre intenzionale, (OMISSIS), ne' la madre surrogata, ne' la donatrice dell'ovocita. Accogliendo il ricorso della coppia, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia ha dichiarato che entrambi i ricorrenti devono figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell'atto di nascita in Canada. Costoro, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia, hanno chiesto all'ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l'atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico. L'ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta, sia perche' esisteva gia' un atto di nascita trascritto, sia per l'assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimita'. 2. - In seguito al rifiuto opposto alla loro richiesta, (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso ex articolo 702-bis c.p.c. alla Corte d'appello di Venezia. Con tale atto i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. n. 218 del 1995, articolo 67 il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia. Essi hanno sottolineato la non contrarieta' all'ordine pubblico del suddetto provvedimento canadese, gia' passato in giudicato, e la liceita' delle condotte che hanno determinato la nascita del bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere. L'Avvocatura dello Stato si e' costituita per il Sindaco del Comune di Verona, nella qualita' di ufficiale del Governo, e per il Ministero dell'interno, sollevando l'eccezione preliminare d'inammissibilita' della domanda per contrarieta' all'ordine pubblico. Il Pubblico Ministero e' intervenuto opponendosi all'accoglimento del ricorso. 3. - Con ordinanza del 16 luglio 2018, la Corte d'appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8 settembre 2017 - che ha dichiarato (OMISSIS) e (OMISSIS) quali genitori di (OMISSIS), nato il (OMISSIS) - possiede i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, articolo 67. Secondo la Corte territoriale veneziana, la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente ad entrambi la responsabilita' genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell'evidenza di una diversita' di discipline sostanziali, ma non e' di per se' indice dell'esistenza di un principio superiore, fondante e irrinunciabile, dell'assetto costituzionale italiano o dell'ordinamento dell'Unione Europea. La Corte d'appello ha rilevato che rientra tra i diritti fondamentali la tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale, come sancita dalle convenzioni internazionali. L'ordine pubblico internazionale - ha sottolineato la Corte di Venezia - impone di assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui egli possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della responsabilita' genitoriale. Ne' - ha proseguito la Corte lagunare - puo' ricondursi all'ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento e' contemplata la possibilita' che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell'attribuzione del sesso. Quanto al divieto di ricorrere alla pratica della surrogazione di maternita', di cui alla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, la Corte d'appello ha osservato che le scelte del legislatore italiano sono frutto di discrezionalita' e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Non potrebbe ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dal citato articolo 12, comma 6, che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la maternita' surrogata, dato che il divieto e la sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del minore concepito all'estero con tali tecniche, il quale non potrebbe essere privato dello status legittimamente acquisito nel Paese in cui e' nato. 4. - Per la cassazione dell'ordinanza della Corte d'appello hanno proposto ricorso, con atto notificato il 15 ottobre 2018, il Ministero dell'interno e il Sindaco di Verona, nella qualita' di ufficiale del Governo, sulla base di quattro motivi. (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la responsabilita' genitoriale sul minore (OMISSIS), hanno resistito con controricorso. I controricorrenti hanno proposto altresi' ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, condizionato all'accoglimento di uno o piu' motivi del ricorso principale. 5. - Con il primo motivo del ricorso principale, il Ministero e il Sindaco deducono il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 1, in quanto nell'ordinamento giuridico nazionale non esisterebbe una norma che legittimi una piena bigenitorialita' omosessuale. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 95 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, essendo competente in materia il Tribunale in primo grado. La Corte d'appello - sostiene la difesa erariale - avrebbe erroneamente ritenuto oggetto del procedimento il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero nell'ordinamento italiano, laddove i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell'atto di nascita straniero ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 28, comma 2, lettera e), impugnando il provvedimento con cui l'ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere il provvedimento giurisdizionale canadese. Verrebbe dunque in rilievo un'opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato articolo 95, e' proponibile con ricorso innanzi al Tribunale. Il terzo motivo censura la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 112 c.p.c., per avere la Corte d'appello omesso di pronunciare sull'eccezione di difetto di legittimazione del padre intenzionale, (OMISSIS), a rappresentare il minore. Con il quarto motivo il Ministero e il Sindaco di Verona denunciano la violazione e la falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, articoli 16 e 65, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18, della L. n. 40 del 2004, articolo 5 e articolo 12, commi 2 e 6, in quanto l'ordinanza impugnata confliggerebbe con vari principi fondanti l'ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa nell'ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa, nonche' con il divieto di maternita' surrogata, fattispecie costituente reato secondo la legge italiana. 6. - L'unico motivo del ricorso incidentale condizionato denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 100 c.p.c. e della L. n. 218 del 1995, articolo 67 per avere erroneamente la Corte d'appello considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi. Ad avviso dei ricorrenti in via incidentale condizionata, il Ministero non avrebbe competenze in materia di stato civile, mentre il Sindaco non sarebbe titolare di un interesse proprio rispetto all'istanza di trascrizione. 7. - Investita di tali ricorsi, la Prima Sezione civile ha preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, la quale ha affermato il principio secondo cui non puo' essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialita' tra un bambino nato in seguito a maternita' surrogata e il genitore d'intenzione. Secondo le Sezioni Unite, tale riconoscimento trova infatti ostacolo insuperabile nel divieto di surrogazione di maternita', previsto dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignita' della gestante e l'istituto dell'adozione. Secondo le Sezioni Unite, la tutela del nato non si realizza attraverso l'automatica trascrizione dei provvedimenti stranieri che riconoscono lo stato di filiazione, ma mediante il ricorso del genitore d'intenzione all'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). Tuttavia, la Prima Sezione di questa Corte ha dubitato della compatibilita' di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralita' di parametri costituzionali; pertanto, con ordinanza 29 aprile 2020, n. 8325, ha sollevato - in riferimento agli articoli 2, 3, 30 e 31 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU), agli articoli 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, e all'articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE) - questione di legittimita' costituzionale della L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, della L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, articolo 18 nella parte in cui non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento, nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalita' della gestazione per altri, del genitore d'intenzione non biologico. A sostegno dell'incidente di costituzionalita', l'ordinanza di rimessione ha richiamato, in particolare, il parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo, reso su richiesta della Corte di Cassazione francese il 10 aprile 2019. Con esso la Grande Camera ha ricondotto al principio del rispetto della vita privata e familiare, e dunque all'articolo 8 della CEDU, il diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione, precisando ulteriormente che il margine di apprezzamento spettante alle autorita' nazionali che in questi casi si oppongano alla trascrizione del provvedimento straniero, imponga comunque l'alternativa attivazione di strumenti giuridici diversi ma egualmente garantistici nei confronti del bambino, quale e' stata ritenuta l'adozione da parte del genitore d'intenzione. 8. - La Corte costituzionale, con sentenza n. 33 del 2021, ha dichiarato inammissibile la questione. Premesso che l'interesse del minore deve essere bilanciato, alla luce del criterio di proporzionalita', con lo scopo legittimo perseguito dall'ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita', penalmente sanzionato dal legislatore, la Corte costituzionale ha sottolineato che il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU (che ha riconosciuto agli Stati ampi margini di discrezionalita' nell'individuare i modi attraverso i quali formalizzare il rapporto di genitorialita' intenzionale, ferma restando la necessita' di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto si prende cura del bambino) e' corrispondente all'insieme dei principi della Costituzione italiana. Tali principi, se per un verso non ostano alla soluzione della non trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero di riconoscimento della doppia genitorialita' ai componenti della coppia (eterosessuale od omosessuale) che abbia fatto ricorso all'estero alla maternita' surrogata, per l'altro verso impongono che, in tali casi, sia comunque assicurata tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilita' genitoriale. L'adozione in casi particolari non appare ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, dal momento che essa non attribuisce la genitorialita' all'adottante e richiede il necessario assenso del genitore biologico, che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia. Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternita' surrogata - ha rilevato la Corte - non puo' che spettare, in prima battuta, al legislatore. A tal fine, quest'ultimo - quale titolare di un significativo margine di manovra, a fronte di un ventaglio di opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessita' sistematica - deve farsi carico di una disciplina che assicuri una piena tutela degli interessi del minore, in modo piu' aderente alle peculiarita' della situazione, che sono assai diverse da quelle dell'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). 9. - Ripreso il giudizio dinanzi a questa Corte, la Prima Sezione civile, con ordinanza 21 gennaio 2022, n. 1842, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. L'ordinanza della Sezione sostiene che, in assenza di un intervento innovativo del legislatore, e' necessario partire da una rivalutazione degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto di maternita' surrogata. Tale ostacolo, ad avviso della Sezione rimettente, non sussisterebbe, a condizione che siffatti strumenti non operino automaticamente e che la compatibilita' della delibazione o della trascrizione con i valori sottesi al divieto di surrogazione sia compiuto non in astratto, ma con riferimento ad ogni singolo caso concreto, sia pure alla luce di criteri che abbiano validita' generale ed in base ad un bilanciamento dei valori in conflitto ispirato a principi di proporzionalita' e ragionevolezza, senza che vi sia un'aprioristica definizione di prevalenza di un interesse in gioco. L'ordinanza di rimessione ha posto, in particolare, i seguenti quesiti, afferenti al quarto motivo del ricorso principale: - se la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando l'inidoneita' del ricorso in questa materia all'adozione in casi particolari, abbia determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni Unite; - se la non attuazione del monito rivolto al legislatore dalla stessa sentenza n. 33 del 2021 abbia determinato di conseguenza un vuoto normativo; - se, ed eventualmente come, sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo, non potendosi piu' il giudice, sia di merito che di legittimita', riferire al preesistente diritto vivente che, in base alla motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, non sarebbe idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del generale mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d'intenzione e nello stesso tempo per l'inadeguatezza della soluzione offerta dall'istituto di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d); - se una possibile interpretazione adeguatrice, consentita alle Corti, possa consistere nel configurare la valutazione del conflitto del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione con l'ordine pubblico internazionale, spettante al giudice investito della richiesta di delibazione, come valutazione legata al singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalita' e ragionevolezza per come affermati dalla giurisprudenza costituzionale, specificamente nell'ottica della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l'interesse del minore; - se in tale valutazione il giudice debba mettere a confronto, in concreto, l'interesse del minore a che vengano rispettati i suoi diritti fondamentali alla identita' personale e alla vita familiare con la tutela della dignita' della donna coinvolta nel processo procreativo mediante gestazione per altri, con la prevenzione di qualsiasi attentato che, sempre in concreto, possa derivare dal riconoscimento all'istituto dell'adozione, con la legittima aspirazione dello Stato a scoraggiare pratiche elusive del divieto di surrogazione di maternita'; - se i criteri generali indicati nella ordinanza di rimessione (adesione libera consapevole e non determinata da necessita' economiche da parte della donna alla gestazione; revocabilita' del consenso alla rinuncia all'instaurazione del rapporto di filiazione sino alla nascita del bambino; necessita' di un apporto genetico alla procreazione da parte di uno dei due genitori intenzionali; valutazione in concreto degli effetti dell'eventuale diniego del riconoscimento sugli interessi in conflitto), eventualmente in aggiunta o combinazione con altri criteri generali, debbano o possano assumere il ruolo di una direttiva nell'interpretazione cui debba attenersi il giudice del merito; - se infine derivi anche dal diritto dell'Unione Europea un limite alla possibilita' di non riconoscere lo status filiationis acquisito all'estero da un minore cittadino italiano nato da gestazione per altri legalmente praticata nello Stato di nascita nella misura in cui tale disconoscimento comporti la perdita dello status e limiti la sua liberta' di circolazione e di esplicazione dei suoi legami familiari nel territorio dell'Unione. 10. - Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione dei ricorsi alle Sezioni Unite e ha fissato per la discussione l'udienza pubblica dell'8 novembre 2022. Non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale, i ricorsi sono stati trattati in camera di consiglio, senza l'intervento del Procuratore Generale e delle parti, in base alla disciplina dettata dal Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020, e dal Decreto Legge n. 228 del 2021, articolo 16, comma 1, convertito dalla L. n. 15 del 2022. 11. - In prossimita' della camera di consiglio il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte. L'Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto che la questione proposta dalla Prima Sezione venga risolta escludendo la sussistenza di un vuoto normativo come prefigurato nell'ordinanza interlocutoria e riaffermando il principio statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, con l'ulteriore espressa indicazione delle modifiche derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 in relazione alla disciplina dell'adozione in casi particolari. 12. - Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ex articolo 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - L'ordinamento italiano non consente il ricorso ad operazioni di maternita' surrogata. L'accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a "reclamare diritti" sul bambino che nascera', non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Tale pratica e' vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6. Il divieto e' presidiato dalla reclusione e dalla multa per "chiunque, in qualsiasi forma", la "realizza, organizza o pubblicizza". Le istanze di genitorialita', nondimeno, si rivelano difficilmente comprimibili. Il divieto di gestazione per altri non argina il progetto di diventare genitori. L'esistenza del divieto in Italia induce molti cittadini, quando supportati da una adeguata disponibilita' economica, a ricorrere alla surrogazione di maternita' all'estero, nei Paesi che hanno regolamentato e consentito questa tecnica di procreazione. Il contesto internazionale e' alquanto frastagliato sulla legittimita' del ricorso alla gestazione per altri. Il panorama comparato offre indicazioni non omogenee sia sui limiti di liceita' di questa pratica sia, dove essa e' vietata, sulle scelte sanzionatorie, che possono andare dall'ampia criminalizzazione, alla limitazione della rilevanza penale alle forme di surrogazione di tipo commerciale, alla previsione di sole sanzioni amministrative. La regolamentazione permissiva presente in alcuni Paesi stranieri favorisce, appunto, il turismo procreativo di cittadini italiani che si recano all'estero al fine di ottenere, nel rispetto della lex loci, cio' che in Italia e' vietato. Coppie con problemi di sterilita' femminile o coppie omosessuali che intendono accedere alla filiazione vanno all'estero per realizzare la' dove e' consentito il progetto procreativo proibito nel nostro Paese. Ogni qualvolta la surrogazione di maternita' e' praticata all'estero, la questione dello status del nato da maternita' surrogata fuoriesce dal perimetro dell'ordinamento interno e si traduce nel problema del riconoscimento in Italia della genitorialita' acquisita al di fuori dei confini nazionali. Si pone il problema del riconoscimento dello status genitoriale ottenuto all'estero in virtu' di norme piu' liberali di quelle italiane in materia di procreazione medicalmente assistita. Entra in campo il limite dell'ordine pubblico internazionale. 2. - Rispondere al quesito se possa essere riconosciuto lo stato di figlio nei confronti del genitore intenzionale non genetico, e' un problema complesso per una pluralita' di ragioni. Innanzitutto, perche' alla configurazione della surrogazione di maternita' come reato non si accompagna alcuna espressa disposizione normativa sullo status del minore comunque nato da detta pratica (in Italia o) all'estero. La legge non regola la sorte del nato malgrado il divieto. Secondariamente, perche' la surrogazione all'estero in conformita' della legge ivi vigente da parte di cittadini italiani non puo' essere ricondotta all'illecito penale di cui al citato articolo 12, comma 6. La norma incriminatrice non intercetta le condotte commesse fuori dal territorio dello Stato, essendo il fatto tipico di surrogazione di maternita' contrassegnato da un forte radicamento al territorio nazionale. In terzo luogo, perche' vengono in rilievo e si confrontano diversi interessi. Da un lato, si pone l'esigenza di salvaguardare i principi ispiratori dell'ordinamento giuridico italiano in una materia di rilevante sensibilita' sul piano etico, che mette in gioco il valore fondamentale della dignita' umana, alla quale e' preordinato il divieto di ricorso alla maternita' surrogata posto da una legge della Repubblica. Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialita', le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identita' nella societa'. L'esigenza di salvaguardare i valori ispiratori dell'ordinamento italiano si traduce in una finalita' general-preventiva: scoraggiare i cittadini dal ricorso all'estero ad un metodo di procreazione che l'Italia vieta nel suo territorio, perche' ritenuto lesivo di valori primari. Dall'altro lato, si profila, una volta che il bambino e' nato, l'esigenza di proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuita' del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalita' procreativa. Il bambino avrebbe certamente il diritto di essere allevato dalla madre che lo ha partorito; ma e' constatazione diffusa che la donna che porta una gravidanza solo per adempiere un obbligo contrattuale assunto verso i committenti spesso non ha alcuna reale intenzione di svolgere la funzione materna. Potrebbe sempre cambiare idea, e proprio per disincentivare cio' e' prassi comune che l'embrione sia formato con l'ovocita di un'altra donna. Ma se non ci ripensa, non e' nell'interesse del nato far valere nei confronti della madre gestante il suddetto diritto per ottenerne una qualche esecuzione specifica. Questo spiega perche' l'interesse del minore che vive e cresce in una determinata comunita' di affetti con entrambi i committenti puo' essere quello del riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico di tale legame. Allorche' il progetto procreativo sia seguito dalla concretezza ed attualita' dell'accudimento del minore e sia caratterizzato dall'esercizio in via di fatto della responsabilita' genitoriale attraverso la cura costante del bambino, la mancata attribuzione di una veste giuridica a tale rapporto non si limiterebbe alla condizione del genitore d'intenzione, che ha scelto un metodo di procreazione che l'ordinamento italiano disapprova, ma finirebbe con il pregiudicare il bambino stesso, il cui diritto al rispetto della vita privata si troverebbe significativamente leso. C'e' una parte debole del rapporto che potrebbe risultare fortemente danneggiata pur senza alcuna responsabilita'. Una discriminazione del bambino, fatta derivare dallo stigma verso la decisione dell'adulto di aver fatto ricorso a una tecnica procreativa vietata nel nostro ordinamento, si risolverebbe in una violazione del principio di eguaglianza e di pari dignita' sociale, ponendo a carico del nato conseguenze riconducibili unicamente alle scelte di chi ha concepito la sua nascita. Il nato non e' mai un disvalore e la sua dignita' di persona non puo' essere strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono. Il nato non ha colpa della violazione del divieto di surrogazione di maternita' ed e' bisognoso di tutela come e piu' di ogni altro. Non c'e' spazio per piegare la tutela del bambino alla finalita' dissuasiva di una pratica penalmente sanzionata. Il disvalore della pratica di procreazione seguita all'estero non puo' ripercuotersi sul destino del nato. Occorre separare la fattispecie illecita (il ricorso alla maternita' surrogata) dagli effetti che possono derivarne sul rapporto di filiazione e in particolare su chi ne sia stato in qualche modo vittima. Del resto, quando si ha a che fare con i diritti delle persone, l'interpretazione deve essere improntata ad un senso di umanita'. La Costituzione "non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti" (Corte Cost., sentenza n. 494 del 2002) e non consente una capitis deminutio perpetua e irrimediabile dei diritti del bambino, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti. Da tempo la Corte costituzionale reputa costituzionalmente necessario non condizionare negativamente, men che mai in termini automatici e presuntivi, la condizione giuridica del figlio in ragione del disvalore che la legge attribuisce alla condotta dei genitori, come in caso di incesto (sentenza n. 494 del 2002, cit.) o di alterazione o soppressione di stato (sentenza n. 102 del 2020). 3. - La questione di massima di particolare importanza rimessa all'esame delle Sezioni Unite si colloca in quest'ambito: riguarda lo stato civile di un bambino nato in Canada attraverso la pratica della maternita' surrogata, alla quale ha fatto ricorso una coppia di uomini, cittadini italiani, uniti in matrimonio in Canada, con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino, frutto di un disegno genitoriale comune, ha gia' conseguito nel Paese di nascita lo stato giuridico di figlio di entrambi i suoi genitori. Si controverte se sia possibile dare effetto nell'ordinamento italiano al provvedimento giurisdizionale straniero - della Supreme Court della British Columbia - che ha riconosciuto come genitore del bambino non solo il padre biologico, che ha fornito i propri gameti, ma anche l'altra persona, il genitore d'intenzione, che ha condiviso con il partner il percorso che ha portato al concepimento e alla nascita pur senza fornire il proprio apporto genetico. E', quindi, in discussione il legame di filiazione con il componente della coppia omoaffettiva che non ha con il bambino un rapporto di sangue ma che, avendo condiviso con il padre biologico il disegno di genitorialita', risulta comunque genitore sulla base di un atto legittimamente formato da un'autorita' giurisdizionale straniera. L'interrogativo riguarda, pertanto, la possibilita' di riconoscere o meno il provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che ha concorso nella scelta di ricorrere alla surrogazione di maternita', senza fornire i propri gameti, in un caso nel quale la gestante ha confermato, dopo il parto, la volonta' di non voler divenire madre e di riconoscere altri come genitori del nato. In altri termini, non e' in discussione il rapporto di filiazione con il padre biologico. Difatti, nel caso di specie, l'originario atto di nascita canadese, che riportava un solo genitore - il padre che ha fornito i propri gameti ai fini della maternita' surrogata -, e' stato trascritto nei registri di stato civile italiani. E' invece controversa la trascrizione della co-genitorialita' del padre d'intenzione, che insieme al padre biologico ha voluto la nascita del bambino, ricorrendo alla surrogazione di maternita' nel Paese estero in conformita' della lex loci. Si tratta di stabilire se il divieto di ricorrere alla gestazione per altri, previsto dalla legislazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita, precluda o meno la possibilita' di estendere il riconoscimento della genitorialita' anche al partner che, pur privo di un legame genetico con il minore, ha condiviso il percorso che ha condotto al concepimento e alla nascita nel territorio di uno Stato dove la maternita' surrogata non e' contraria alla legge, e che ha quindi portato il bambino in Italia, per poi qui prendersene quotidianamente cura. La questione rimessa alle Sezioni Unite consiste nel precisare se sia o meno contrario all'ordine pubblico internazionale il provvedimento giurisdizionale straniero; se sia trasferibile nell'ordinamento interno la formalizzazione del legame con il genitore intenzionale sancita nel provvedimento straniero; ancora, se l'adozione in casi particolari costituisca o meno l'unico strumento compatibile con l'ordine pubblico e idoneo ad instaurare un legame giuridico tra il nato all'estero da gestazione per altri e il genitore intenzionale. 4. - La questione di massima riguarda un tema che e' gia' stato affrontato, di recente, dalle Sezioni Unite. 4.1. - Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12193 del 2019, hanno giudicato contrario all'ordine pubblico internazionale il provvedimento che riconosce il rapporto filiale con il genitore intenzionale del bambino nato da maternita' surrogata. La Corte, nella sua composizione allargata, ha stabilito che, per inquadrare giuridicamente il rapporto affettivo e sociale sussistente tra il minore e il genitore intenzionale, considerato padre a pieno titolo sin dalla nascita del bambino nel Paese in cui le pratiche procreative sono state poste in essere, l'ordinamento italiano offre la possibilita' del ricorso all'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d): una soluzione che non opera fin dalla nascita, ma solo dal momento in cui l'adozione e' pronunciata. Cio' implica, in concreto, che il padre genetico viene riconosciuto come tale, mentre l'altro componente della coppia puo' ricorrere all'adozione in casi particolari. Il rifiuto del riconoscimento per quest'ultimo e' stato fondato sul rilievo che il divieto di surrogazione di maternita', sancito dalla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, integra un principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignita' umana della gestante e l'istituto dell'adozione, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non puo' sostituire la propria valutazione. Le Sezioni Unite hanno escluso che esista, nell'ordinamento italiano, un modello di genitorialita', diverso dall'adozione, alternativo a quello fondato sul legame biologico tra genitore e figlio. Hanno affermato che la tutela del concreto ed effettivo interesse del minore si realizza mediante la possibilita' dell'adozione in casi particolari da parte del genitore d'intenzione. Attraverso l'adozione si salvaguarda la continuita' della relazione affettiva ed educativa eventualmente instauratasi. Con tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno quindi individuato le modalita' attraverso le quali l'ordinamento italiano consente di soddisfare l'interesse confliggente che viene ad essere compresso per effetto del diniego di riconoscimento della situazione costituita all'estero in violazione di un divieto che deve ritenersi presentare carattere di ordine pubblico. L'adozione in casi particolari rappresenta il mezzo attraverso il quale il rapporto di filiazione costituito all'estero tra il minore e il padre di intenzione potrebbe ricevere continuita' nel nostro ordinamento. 4.2. - Sul diritto vivente formatosi a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite e' intervenuta, in questo stesso giudizio, la Corte costituzionale, chiamata a verificare la costituzionalita' delle norme che impediscono al partner del genitore biologico del minore concepito all'estero con metodiche di maternita' surrogata di acquisirne la geni-torialita' legale sin dalla nascita. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2021, ha ammesso che il ricorso alla adozione particolare puo' non essere completamente adeguato rispetto alla piena tutela degli interessi del minore; ha sottolineato che, comunque, l'interesse del bambino non puo' essere considerato automaticamente prevalente rispetto ad ogni altro controinteresse in gioco, quale lo scopo legittimo perseguito dal legislatore di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita'; ha sottolineato che e' "indiscutibile" l'interesse del bambino al "riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico" del legame con il genitore intenzionale "a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso", escludendo che tale interesse possa ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore biologico. Il Giudice delle leggi ha ritenuto che il possibile ricorso all'adozione in casi particolari "costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali". La Corte costituzionale ha elencato le insufficienze che la disciplina dell'adozione in casi particolari presenta nella tutela dei diritti fondamentali del bambino. "L'adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialita' all'adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell'articolo 74 c.c., (...) e' ancora controverso (...) se anche l'adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l'adottante abbia gia' altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore biologico (...), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere cosi' definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall'inizio condiviso il progetto genitoriale, e si e' di fatto preso cura di lui sin dal momento della nascita". Nello stesso tempo, la Corte costituzionale ha riconosciuto che spetta, "in prima battuta", al legislatore "il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternita' surrogata", "nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori". Al legislatore "deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco". "Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessita' sistematica", la Corte costituzionale - si legge nella sentenza n. 33 del 2021 - "non puo', allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalita' del legislatore". 5. - L'ordinanza di rimessione della questione di massima pone un problema di effettivita' della tutela. La Prima Sezione ha riscontrato un deficit di tutela a seguito della pronuncia della Corte costituzionale che, avendo rilevato l'inadeguatezza dello strumento dell'adozione in casi particolari, ha sollecitato il legislatore ad intervenire. In mancanza di un intervento del Parlamento, il Collegio rimettente si e' rivolto a questa composizione allargata della Corte di cassazione per sollecitare una rimeditazione della soluzione elaborata dalle Sezioni Unite con la sentenza del 2019. Secondo l'ordinanza di rimessione, si sarebbe aperto, dopo la sentenza della Corte costituzionale, un vuoto normativo. Non sarebbe piu' in linea con la pronuncia del Giudice costituzionale la lettura della clausola di ordine pubblico come precostituita da una valutazione generale e aprioristica del legislatore tale da comportare, con la prevalenza della finalita' antielusiva sull'interesse del minore, il diniego del riconoscimento dello status filiationis. Il Collegio della Prima Sezione propone una nuova interpretazione del sistema normativo, che consenta una tutela adeguata dei diritti del minore e, nel contempo, salvaguardi i valori sottesi al divieto penale di surrogazione di maternita'. L'ordinanza interlocutoria auspica una riconsiderazione del limite dell'ordine pubblico delineato dalle Sezioni Unite: una rimeditazione dell'approdo a cui questa Corte e' pervenuta al fine di garantire nei giudizi di delibazione, nel contesto di dialogo tra le Corti, una valutazione del singolo caso intesa a non incidere sui diritti inviolabili del minore. Nell'ordinanza di rimessione si sostiene che con la delibazione del provvedimento giurisdizionale canadese si recepisce nel nostro ordinamento non l'accordo di maternita' surrogata e tanto meno la legittimita' di una pratica procreativa assistita dal divieto penale. Ad essere riconosciuto efficace sarebbe, piuttosto, l'atto di assunzione di responsabilita' genitoriale da parte del soggetto che ha deciso di essere coinvolto, prestando il suo consenso, nella decisione del partner di ricorrere alla tecnica di procreazione medicalmente assistita in questione. Ad avviso del Collegio remittente, non e' in discussione un preteso diritto alla genitorialita', ma l'interesse del minore a che sia affermata la titolarita' giuridica di quel fascio di doveri che l'ordinamento considera inscindibilmente legati all'esercizio della responsabilita' genitoriale. Si tratterebbe di dare efficacia in Italia a un riconoscimento del rapporto di filiazione che e' gia' avvenuto nell'ordinamento in cui il minore e' nato per dare continuita' al suo status e ai suoi diritti nei confronti dei soggetti responsabili della sua nascita, evitando cosi' i gravi pregiudizi che deriverebbero dalla rimodulazione della sua identita' e dalla eliminazione di una figura genitoriale. Il bilanciamento tra i diritti del bambino e la tutela della dignita' della donna, secondo l'interpretazione proposta dalla Prima Sezione, non andrebbe fatto in astratto, ma dovrebbe tener conto del singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalita' e ragionevolezza, considerando anche la multiforme realta' della surrogazione. In quest'ambito, anche la natura dell'accordo di surrogazione dovrebbe essere soggetta a specifica verifica, dovendosi accertare se la gestazione per altri sia frutto di scelta libera e consapevole e non di necessita' economiche, se l'accordo sia stato realizzato nel rispetto delle prescrizioni legali del Paese estero, se ci sia un legame genetico con uno dei genitori. In particolare, l'ordinanza sottolinea che la donna che accetta di portare a termine una gravidanza anche nella prospettiva di non diventare la madre del bambino che partorira' sarebbe in una condizione che puo' essere considerata non lesiva della sua dignita' quando alla base vi sia una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino. Secondo l'ordinanza interlocutoria, per un verso la centralita' nel riconoscimento dello status filiationis del diritto all'identita' del minore e al godimento pieno della vita familiare, desumibile dalla sentenza "monitoria" n. 33 del 2021 della Corte costituzionale, porrebbe questi diritti in posizione di preminenza rispetto al disvalore per la gestazione per altri e consentirebbe, a determinate condizioni, di superare il carattere invalicabile di limite di ordine pubblico cosi' come disegnato nel 2019 dalle Sezioni Unite, valutando caso per caso anche la tipologia di accordo gestazionale. Per l'altro verso, l'ordinanza interlocutoria ritiene che l'attentato all'istituto dell'adozione sia scongiurato quando manca la prova di una mercificazione. Si richiama, al riguardo, la sentenza delle Sezioni Unite n. 9006 del 2021, che ha ritenuto compatibile con l'ordine pubblico internazionale la domanda di trascrizione di un atto di nascita proveniente da una sentenza estera di adozione ancorche' fondata sul consenso dei genitori biologici. L'ordinanza di rimessione affida alle Sezioni Unite la ricerca di un nuovo punto di equilibrio fra la ribadita contrarieta' all'ordine pubblico internazionale del recepimento nel nostro ordinamento degli accordi di maternita' surrogata e la tutela dei diritti fondamentali del minore affermati dalle Corti Europee, in armonia con la giurisprudenza della Corte costituzionale. 6. - Queste Sezioni Unite ritengono che la sentenza della Corte costituzionale non abbia determinato alcun vuoto normativo. La Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimita' costituzionale delle norme che non consentono, rispetto al genitore non biologico, la trascrizione dell'atto di nascita del bambino nato all'estero a seguito di un contratto di maternita' surrogata, ha invitato il legislatore - per garantire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione con il bambino - a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare il superiore interesse del minore e ad instaurare quel legame di filiazione anche con il genitore non biologico all'interno di una coppia omoaffettiva. La Corte costituzionale ha riscontrato una situazione di insufficiente tutela del preminente interesse del minore e ha invitato il legislatore a disciplinare l'adozione del bambino nato da maternita' surrogata in modo piu' aderente alle peculiarita' della situazione. Nello specifico, la sentenza n. 33 del 2021 ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l'adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44 in quanto questa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell'adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l'assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia. La citata sentenza n. 33 del 2021 e' una decisione di inammissibilita', non di illegittimita' costituzionale. E' accompagnata da un forte invito al legislatore a trovare soluzioni migliori di quelle oggi esistenti per la tutela dell'interesse del bambino. Il Collegio concorda con l'osservazione del Pubblico Ministero secondo cui "dal testo della sentenza n. 33 del 2021 non emergono i caratteri propri delle sentenze di illegittimita' accertata e non dichiarata: la Corte non ha disposto alcun rinvio ad altra udienza, ne' ha indicato un termine al legislatore per intervenire; e non ha affermato l'incostituzionalita', esprimendo invece l'invito al legislatore ad "adeguare" la specifica normativa vigente in materia di adozione in casi particolari (...) al fine di assicurare una migliore garanzia dell'interesse del minore". E' una pronuncia di inammissibilita'-monito, in quanto la Corte, pur avendo rilevato aspetti di criticita', ha ritenuto di non poter intervenire direttamente in una materia che richiede necessariamente una valutazione discrezionale del legislatore. Il possibile ricorso all'adozione in casi particolari "costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovra-nazionali". La Corte costituzionale evidenzia l'"insufficiente tutela degli interessi del minore", ma rimette al circuito degli organi attraverso i quali si esprime la sovranita' popolare il "difficile bilanciamento" tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternita' e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori. La Corte ha dato cosi' al legislatore la prima parola, esortandolo a individuare lo strumento maggiormente idoneo per salvaguardare tutti gli interessi in gioco, orientando la propria scelta verso forme possibilmente piu' celeri ed effettive. Si tratta di materia di particolare rilevanza etico-sociale: e' dunque il legislatore rappresentativo a doversi porre quale interprete della coscienza sociale, ad avere le antenne per intercettarla e tradurla in atti normativi. E' il legislatore in prima battuta a dover effettuare il bilanciamento dei valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati nel momento dato nella coscienza sociale. Il procedimento adottivo prefigurato dalla sentenza n. 33 del 2021 deve essere caratterizzato da una maggiore speditezza, dalla parificazione degli effetti a quelli dell'adozione legittimante e dall'abbandono dell'assenso condizionante del genitore biologico dell'adottando. La Corte chiama in causa il legislatore perche' la decisione sulla direzione di marcia, in un terreno denso di implicazioni etiche, antropologiche, sociali, prima ancora che giuridiche, non puo' essere devoluta alla giurisprudenza. Per le riforme, occorre la discussione in sede politica, affidando al confronto democratico, e per esso all'intera comunita', scelte di cosi' rilevante significato. 7. - Il legislatore e' rimasto finora inerte. Il monito giace inascoltato. Nell'attesa dell'intervento, sempre possibile ed auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non puo' lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l'interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale. Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma e' investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l'ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l'ordinamento si confronta con la pluralita' degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell'ordinamento, il giudice non detta ne' introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non puo' spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l'assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non e' fonte del diritto. Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l'investire il significato della genitorialita', al giudice e' richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessita' dell'esperienza e della connessione tra questa e il sistema. Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell'evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non puo' prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore. Cio' vale soprattutto in una vicenda, come l'attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalita' del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla maternita' surrogata e l'imprescindibile necessita' di assicurare il rispetto dei diritti dei minori. Una pluralita' di ragioni giustifica l'indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell'equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perche' la ricerca dell'effettivita' deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore. La presa d'atto che talora la ricerca dell'effettivita' richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perche' la gradualita' concorre a far assorbire il cambiamento e le novita' nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l'evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale. La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacche' le nuove frontiere dell'interpretazione che aspirino a offrire stabilita' e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica. Non c'e' spazio, in altri termini, ne' per una penetrazione diretta - attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello gia' operato dal Giudice delle leggi - di quell'ambito di discrezionalita' legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, ne' per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato. 8. - La Corte costituzionale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, ha riconosciuto il ruolo primario del legislatore e della sua discrezionalita' a fronte del ventaglio delle opzioni possibili. Cio' nondimeno, al giudice compete pur sempre di valutare la situazione rimasta in attesa di una migliore disciplina per via legislativa. La giurisprudenza, nell'interpretazione e nell'applicazione della legge, da' vita al testo normativo e da' contenuto alle clausole generali, elaborando la regola del caso concreto e poi reiterando la regola del caso nelle successive decisioni. La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioe' delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell'equilibrio dei valori gia' indicato con chiarezza dalla Corte costituzionale. 9. - In materia di maternita' surrogata, la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando le insufficienze dell'adozione in casi particolari ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), non ha determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019. La Corte costituzionale ha affermato che gli orientamenti espressi dalla Corte EDU e i principi costituzionali non ostano alla soluzione della non trascrivibilita' del provvedimento giurisdizionale straniero e ha ribadito che la maternita' surrogata e' lesiva della dignita' della donna. La pronuncia del Giudice delle leggi ha inciso nella parte relativa alla tutela dei diritti del minore, ritenendo l'adozione in casi particolari strumento non del tutto adeguato. La Corte costituzionale ha evidenziato l'insufficienza della tutela del nato realizzata per il tramite dell'adozione in casi particolari, ma non ha avallato la tesi di un accertamento ab initio di una genitorialita' puramente intenzionale in tutti o in taluni casi di nascita da una madre surrogata. Se avesse considerato praticabile questa soluzione al fine di garantire l'interesse alla stabilita' affettiva del nato da maternita' surrogata, la Corte costituzionale si sarebbe espressa diversamente, accogliendo le questioni di legittimita' prospettate o pronunciando una sentenza di rigetto interpretativa. 10. - Preme evidenziare che, se il legislatore non ha finora raccolto l'invito ad adeguare l'adozione in casi particolari al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, e' tuttavia sopraggiunta una pronuncia della Corte costituzionale che ha eliminato una delle criticita' sottolineate dallo stesso Giudice delle leggi. Con la sentenza n. 79 del 2022, depositata il 28 marzo 2022, quindi successivamente all'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte costituzionale ha rimosso l'impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell'adottante (L. n. 184 del 1983, articolo 55 in relazione all'articolo 300 c.c., comma 2), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell'adozione in casi particolari all'insegna della piena attuazione del principio di unita' dello stato di figlio. In seguito alla sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale, anche l'adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell'adottante. Al pari dell'adozione "ordinaria" del minore di cui alla L. n. 184 del 1983, articoli 6 e ss. l'adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l'adottante, ma fa entrare l'adottato nella famiglia dell'adottante. L'adottato acquista lo stato di figlio dell'adottante. La sentenza riconosce i legami familiari anche per l'adottato in casi particolari e cosi' realizza il suo inserimento nell'ambiente familiare dell'adottante, in applicazione del principio di unita' dello stato di figlio e secondo un approccio teso a considerare unitariamente filiazione e adozione. La pronuncia della Corte costituzionale si riferisce proprio ad una procedura di adozione conseguente ad una pratica di maternita' surrogata da parte di una coppia dello stesso sesso unita civilmente, in relazione alla quale l'adottante aveva richiesto espressamente al tribunale per i minorenni di dichiarare la sussistenza di rapporti giuridici tra l'adottato e i parenti dell'adottante. La sentenza ha fatto venir meno il piu' importante elemento di inadeguatezza della soluzione dell'adozione particolare. La declaratoria di illegittimita' costituzionale rimuove dunque un ostacolo all'effettivita' della tutela offerta dall'adozione in casi particolari. 11. - Un altro aspetto di inadeguatezza messo in luce dalla sentenza n. 33 del 2021 risiede nell'impossibilita' di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell'assenso del genitore biologico. Si tratta di un aspetto di criticita' perche' l'interesse del minore reclama che siano garantite stabilita' e certezza al rapporto di cura e affetto, in assenza di un legame di discendenza biologica ma in una cornice di vita familiare, superando un sistema di tutela parziale ed esposto alle sopravvenienze nei rapporti tra adulti. In effetti, la disciplina dell'adozione in casi particolari, alla L. n. 184 del 1983, articolo 46 richiede, ai fini del perfezionamento della procedura, l'assenso del genitore biologico, il quale potrebbe non prestarlo in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia. L'adozione diverrebbe cosi' impraticabile proprio nelle situazioni piu' delicate per il benessere del minore. Se e' negato l'assenso, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell'adottante puo', ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, pronunciare ugualmente l'adozione, salvo che l'assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilita' genitoriale. La lettera del citato articolo 46 sembra considerare preclusivo il mancato assenso in tutti i casi in cui i genitori non siano decaduti dall'esercizio della responsabilita' genitoriale. In realta', la giurisprudenza e' gia' pervenuta ad una lettura restrittiva della disposizione, ritenendo che per genitori esercenti la responsabilita' genitoriale, il cui dissenso impedisce l'adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilita' stessa, ma ne abbiano altresi' il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore. Seguendo quest'ordine di idee, si e' considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all'adozione manifestato dal genitore dell'adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilita' genitoriale sul figlio, con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo (Cass., Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18575; Cass., Sez. I, 16 luglio 2018, n. 18827). Il Collegio delle Sezioni Unite osserva che alla base della domanda di adozione particolare da parte del genitore sociale, ai sensi dell'articolo 44, comma 1, lettera d), c'e' la condivisione, con il genitore biologico, della responsabilita' conseguente alla scelta di aver dato vita al progetto procreativo in un Paese estero in conformita' della lex loci; c'e', inoltre, il rapporto costante di affetto e di cura all'interno dell'unica famiglia nella quale il bambino e' cresciuto. In altri termini, alla condivisione, da parte della coppia, della decisione di far venire al mondo il bambino, liberamente impegnandosi ad accoglierlo assumendone le relative responsabilita', fanno seguito e si associano l'accudimento, l'allevamento e la cura del minore. Essendo l'adozione particolare, nel particolare caso della lettera d), destinata ad offrire un riconoscimento giuridico al rapporto intessuto con il genitore sociale all'interno dell'unica famiglia di accoglienza, il dissenso alla costituzione del legame di filiazione adottiva da parte del genitore biologico esercente la responsabilita' genitoriale non puo' essere espressione di un volere meramente potestativo, ma va collocato in una dimensione funzionale. L'effetto ostativo del dissenso dell'unico genitore biologico all'adozione del genitore sociale, allora, puo' e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformita' all'interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. In altri termini, e' possibile superare la rilevanza ostativa del dissenso all'adozione in casi particolari ai sensi della lettera d), tenendo conto che il contrasto rischia, non di vanificare l'acquisto di un legame ulteriore rispetto a quello che il minore ha con la famiglia di origine, ma proprio di sacrificare uno dei rapporti sorti all'interno della famiglia nella quale il bambino e' cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo. Nella medesima prospettiva ermeneutica si pone la dottrina, la quale sottolinea che il dissenso all'adozione da parte del genitore biologico del bambino nato mediante maternita' surrogata, in tanto e' suscettibile di impedire la costituzione del legame di filiazione, in quanto passi attraverso la negazione in radice del progetto genitoriale o di quel rapporto costante di affetto e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l'adozione in casi particolari, anche nell'ipotesi in cui vi sia stata separazione. In altri termini, il genitore biologico potrebbe negare l'assenso all'adozione del partner solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore. Mettendo in collegamento l'articolo 46 con l'articolo 57 della L. n. 184 del 1983, che impone al giudice di valutare se l'adozione particolare realizzi in concreto il preminente interesse del minore, il rifiuto dell'assenso all'adozione, da parte del genitore biologico, appare ragionevole soltanto se espresso nell'interesse del minore, ossia quando non si sia realizzato tra quest'ultimo ed il genitore d'intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell'adozione. Se tale relazione sussiste, il rifiuto non sarebbe certamente giustificato dalla crisi della coppia committente ne' potrebbe essere rimesso alla pura discrezionalita' del genitore biologico. Il Collegio delle Sezioni Unite, rimanendo nel solco del bilanciamento tracciato dalla Corte costituzionale, ritiene di dover in questa sede evidenziare le potenzialita' dell'interpretazione costituzionalmente conforme, in vista del superamento della criticita' legata al dissenso dell'unico genitore biologico, senza che occorra sollevare, persistendo l'omissione da parte del legislatore, una questione di legittimita' costituzionale. 12. - La soluzione dell'adozione da parte del genitore d'intenzione privo di legame biologico presenta altri aspetti problematici. L'adozione e', ancora, non pienamente adeguata nella prospettiva di una tutela piena del generato nei confronti di chi, partecipando al progetto procreativo, ha assunto la responsabilita' di farlo venire al mondo, perche' l'istituto dell'adozione, in tutte le sue forme, presuppone che il genitore assuma l'iniziativa. L'iniziativa ai fini della costituzione dello status non compete mai all'adottando. Il minore non puo' rivendicare la costituzione del rapporto genito-riale per il tramite dell'adozione. Qualora il partecipante al progetto procreativo, che non abbia legami genetici con il minore, cambi idea e non voglia piu' instaurare alcun rapporto giuridico con il nato, il minore non ha alcun diritto alla costituzione, attraverso l'adozione, di un rapporto con il genitore d'intenzione privo di legame genetico. Sicche' l'adozione puo' risultare, in concreto, di fronte al rifiuto del committente, strutturalmente inidonea ad offrire una garanzia completa nella prospettiva della tutela del generato. La constatazione di questa evenienza particolare non conduce, tuttavia, ad ammettere o a giustificare l'automatismo della trascrizione. L'automatico riconoscimento della genitorialita' intenzionale gia' accertata all'estero non realizza la pienezza di tutela del minore, che richiede invece una particolare conformazione, con i caratteri della effettivita' e della stabilita', impressa dalla concomitante e acclarata situazione di fatto. Quella constatazione impone, invece, ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinche' siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformita' al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest'ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilita' e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati "lecitamente". L'adeguatezza dell'istituto dell'adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerita' del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo. Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte Europea dei diritti dell'uomo (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al piu' tardi quando, secondo l'apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d'intenzione si e' concretizzato. La Corte EDU considera cioe' l'adozione un rimedio possibile se ed in quanto consegua con celerita' il risultato del riconoscimento dei legami tra il minore e il genitore d'intenzione. La Corte costituzionale, a sua volta, nella sentenza n. 33 del 2021, ha affermato che i principi costituzionali impongono che la tutela dell'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con il genitore d'intenzione sia "assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorche' ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino". 13. - Per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 e prospettandosi la possibilita' di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, l'adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternita' surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilita' per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora piu' aderente alle peculiarita' della situazione. 14. - Si tratta, a questo punto, di affrontare piu' da vicino l'interrogativo, sollevato dall'ordinanza di rimessione, se, essendo nel caso di specie stato chiesto il riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale, il rifiuto sia giustificato dal contrasto con l'ordine pubblico internazionale, l'adozione rappresentando l'unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale. 15. - A tale riguardo, occorre premettere che, ai sensi della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, il riconoscimento della sentenza straniera e' subordinato al fatto che le sue disposizioni non producano effetti contrari all'ordine pubblico. La L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), focalizza l'attenzione sugli effetti che la pronuncia straniera e' destinata a produrre nel nostro ordinamento. Volto alla salvaguardia dei fondamentali principi sui quali si fonda l'ordinamento e che ne assicurano la complessiva coerenza, il limite dell'ordine pubblico opera non tanto con riferimento alle disposizioni applicate dal giudice straniero ai fini della soluzione della controversia, ma con riguardo alle conseguenze che la pronuncia straniera resa sulla base di quelle disposizioni e' in grado di produrre nel nostro ordinamento. A questo proposito, e' pacifico che la mera diversita' delle soluzioni legislative nazionali in merito ad una determinata questione non puo' di per se' considerarsi dar luogo ad un problema di compatibilita' con l'ordine pubblico, giacche', ove si accogliesse una simile lettura estensiva del limite in questione, le regole di diritto internazionale privato verrebbero private della loro ragione d'essere, insita nella diversita' degli ordinamenti giuridici nazionali e nell'opportunita' di realizzare tra di loro un profilo di coordinamento, funzionale ad agevolare la vita internazionale delle persone. Tuttavia, nemmeno puo' presumersi, all'inverso, una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l'attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando ad un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilita' con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico del foro. L'ordine pubblico nel diritto internazionale privato svolge una funzione di meccanismo di salvaguardia dell'armonia interna dell'ordinamento giuridico statale di fronte all'ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, di argine contro la compromissione dei valori irrinunciabili dell'ordinamento del foro: una vocazione, tuttavia, in parte ridimensionata per effetto della progressiva integrazione tra ordinamenti, realizzata al fine di soddisfare le esigenze di tutela dei diritti fondamentali. Alla funzione originaria dell'ordine pubblico internazionale, tesa a salvaguardare la coerenza interna dell'ordinamento italiano, si e' via via affiancata una funzione promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, nonche' la loro armonizzazione fra gli ordinamenti. Quanto ai formanti dell'ordine pubblico, i principi propri dell'ordinamento giuridico statale possono trovare espressione non soltanto in disposizioni di rango costituzionale bensi' anche in norme di legge ordinaria che siano significative del modo di essere dell'ordinamento giuridico statale in un dato momento storico nei diversi ambiti materiali suscettibili di venire in considerazione. Nella nozione di ordine pubblico internazionale rientrano, quindi, anzitutto quei principi fondamentali, quei valori della nostra Costituzione che esprimono la fisionomia inconfondibile della comunita' nazionale. L'ordine pubblico internazionale comprende anche quelle altre regole che, pur non collocate nella Costituzione, danno concreta attuazione ai principi costituzionali o esprimono un principio generale di sistema. Il concetto di ordine pubblico internazionale si allarga ai valori condivisi dalla comunita' internazionale e, in particolare, alla tutela dei diritti umani risultanti dal diritto dell'Unione Europea, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, avente lo stesso valore vincolante dei trattati istitutivi, nonche' dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, dato il fenomeno di osmosi che interessa i diritti fondamentali, garantiti in particolare dall'articolo 2 Cost., e quelli che risultano dalle fonti internazionali. I diritti di liberta' e i diritti della persona hanno infatti, per loro natura, una vocazione aperta all'implementazione e all'arricchimento del loro contenuto. L'ordine pubblico internazionale si pone nel punto di intersezione di tendenze diverse: clausola generale per eccellenza, naturalmente portata a recepire le evoluzioni socio-culturali, anche sotto l'influenza della giurisprudenza della CEDU, ma anche a non dimenticare la propria radice identitaria in una cornice costituzionale. L'apertura all'altro non e' perdita del se'. E il se' di un ordinamento - la sua identita', appunto - e' quanto risulta tanto dalla Costituzione quanto dalle fondamentali e consolidate opzioni che tracciano le grandi linee della legislazione. Il Collegio intende ribadire l'approdo al quale sono pervenute le Sezioni Unite. La sentenza straniera deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale. Costituzioni e tradizioni giuridiche, con le loro diversita', costituiscono un limite ancora vivo, privato di venature egoistiche, che davano loro "fiato corto", ma reso piu' complesso dall'intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. Non vi potra' essere percio' arretramento del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica. Nel contempo, non ci si potra' attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani (cosi' Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601). La compatibilita' con l'ordine pubblico, ai sensi della L. n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lettera g), deve essere valutata non solo alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione da' forma a quel diritto vivente, dal quale non puo' prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019, cit.). L'operazione che il giudice deve svolgere ha ad oggetto, non la coerenza della normazione interna di uno o piu' istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilita' degli effetti che l'atto produce con i limiti non oltrepassabili. Essi sono costituiti: dai principi fondanti l'autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori; dal principio del preminente interesse del minore, di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione; dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparita' di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all'identita' ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonche' relazionale, sia a non limitare la genitorialita' esclusivamente sulla base dell'orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che fonda la genitorialita' sociale sulla base del quale la legge interna ed il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralita' di modelli di genitorialita' adottiva, unificati dall'obiettivo di conservare la continuita' affettiva e relazionale ove gia' stabilizzatasi nella comunita' familiare (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.). 16. - Ad avviso di questo Collegio, la L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternita' surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali, e' norma di ordine pubblico internazionale. Costituisce indice univoco della rilevanza del divieto, quale limite di ordine pubblico, la natura penale della sanzione posta dalla disposizione di legge a presidio del valore fondamentale della dignita' della persona umana. Nel quadro delle metodiche di procreazione medicalmente assistita, la maternita' surrogata riveste una posizione del tutto peculiare rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale, omologa o eterologa, postulando la collaborazione di una donna estranea alla coppia, che presta il proprio corpo per condurre a termine una gravidanza e partorire un bambino non per se' ma per un'altra persona. La sanzione penale di cui alla L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, esprime l'elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento attribuisce alla surrogazione di maternita'. L'operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e cosi' smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignita' della donna. La gestazione per altri lede la dignita' della donna e la sua liberta' anche perche' durante la gravidanza essa e' sottoposta ad una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall'alcol e subito dopo il parto e' oggetto di limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell'allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino. La L. n. 40 del 2004, articolo 12, comma 6, esprime l'esigenza di porre un confine al desiderio di genitorialita' ad ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un'altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile. In termini analoghi si e' espressa la Corte costituzionale, sottolineando che la pratica della maternita' surrogata "offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane" (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenze n. 33 del 2021 e n. 79 del 2022). La Corte costituzionale ha inoltre rilevato che "gli accordi di maternita' surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilita' di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell'esclusivo interesse di terzi, ai quali il bambino dovra' essere consegnato subito dopo la nascita" (sentenza n. 33 del 2021). La condanna di "qualsiasi forma di maternita' surrogata a fini commerciali" e' stata espressa anche dal Parlamento Europeo nella propria risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell'Unione Europea nel 2015. Alla medesima conclusione e' pervenuto, di recente, il Tribunal Supremo spagnolo, sottolineando, con la sentenza n. 277 del 2022, che il contratto di maternita' surrogata comporta uno sfruttamento della donna e non puo' accettarsi per principio: il desiderio di una persona di avere un figlio, per quanto nobile, non puo' realizzarsi al costo dei diritti di altre persone. 17. - Secondo l'ordinanza di rimessione la maternita' surrogata non sarebbe un fenomeno unitario da disconoscere in ogni situazione. Nella valutazione complessiva dovrebbe tenersi conto delle peculiarita' delle singole situazioni, distinguendo in concreto tra surrogazione totale o parziale, tra gestazione gratuita o a pagamento, e considerare che in Paesi come il Canada la surrogazione e' disciplinata in modo da permettere l'attuazione della libera autodeterminazione della donna, consentendole di compiere un gesto di altruismo nei confronti di chi desidera realizzare una delle funzioni piu' importanti della famiglia. Nell'ordinanza di rimessione si mette in dubbio che sia lesiva della dignita' della donna una pratica considerata lecita nell'ordinamento di origine quando sia frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile fino alla nascita del bambino e soprattutto indipendente da contropartite economiche. In questa prospettiva, la trascrizione di atti di nascita o la delibazione di sentenze provenienti da ordinamenti che consentono la surrogazione di maternita' - si osserva nell'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione - sarebbe possibile, e non si porrebbe in contrasto con limiti di ordine pubblico, al ricorrere di talune circostanze, quali lo spirito di solidarieta' per altri, la presenza del diritto della gestante al ripensamento e la sussistenza del legame genetico del nato con almeno uno dei partner della coppia committente. In particolare, secondo l'interpretazione suggerita dall'ordinanza di rimessione, l'aspirante madre surrogata andrebbe tutelata nella misura in cui possa essere ritenuta soggetto vulnerabile, tipicamente versante in condizioni di bisogno, e quindi indotta a stipulare l'accordo di gestazione per altri dall'offerta o dalla dazione di un corrispettivo in denaro o comunque economicamente valutabile. Diversa considerazione - si sostiene - dovrebbe essere riservata alle ipotesi in cui la gestante su commissione si sottoponga alle tecniche senza chiedere ne' ottenere nulla in cambio dai genitori di intenzione. 18. - Il Collegio delle Sezioni Unite ritiene che non possa essere seguita la proposta interpretativa della Sezione rimettente di escludere il contrasto con l'ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, la' dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell'ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche. Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternita' surrogata, ha inteso tutelare la dignita' della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui versa la madre gestante (eventuale stato di bisogno), la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri, ne offende la dignita', anche in assenza di una condizione di bisogno della stessa e a prescindere dal concreto accertamento dell'autonoma e incondizionata formazione del suo processo decisionale. Nella maternita' surrogata il bene tutelato e' la dignita' di ogni essere umano, con evidente preclusione di qualsiasi possibilita' di rinuncia da parte della persona coinvolta. Nel nostro sistema costituzionale la dignita' ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilita', alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona. La dignita' ferita dalla pratica di surrogazione chiama in gioco la sua dimensione oggettiva. Il Collegio e' consapevole che il panorama internazionale offre indicazioni non omogenee sui limiti di liceita' della pratica della surrogazione di maternita' e che l'opzione per il divieto interno risulta maggioritaria ma non unanime, anche rispetto a ordinamenti saldamente inseriti nella tradizione liberaldemocratica occidentale, come, appunto, quello canadese, da cui origina la vicenda in esame. Le Sezioni Unite non ignorano che la lettura suggerita dall'ordinanza di rimessione trova sostegno in una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del nostro Paese, che prende le distanze dall'idea dei valori della persona che si impongono alla persona medesima, anche oltre quanto da questa voluto in maniera assolutamente libera, consapevole, integra e non condizionata. In questa prospettiva, il limite dell'ordine pubblico internazionale non sarebbe destinato ad operare quando la lex loci salvaguardi il diritto alla liberta' e all'autodeterminazione della donna, alla quale soltanto sarebbe rimesso, in ultima istanza, il potere di individuare i tempi e i modi di realizzazione della sua personalita', sicche' anche la scelta di accogliere l'embrione per aiutare altri a realizzare il loro progetto di genitoria-lita' potrebbe rappresentare per la gestante un modo per realizzare la propria personalita'. Il Collegio ha presente che l'approdo interpretativo suggerito dall'ordinanza di rimessione e' gia' stato raggiunto nella giurisprudenza di legittimita' di Paesi vicini al nostro. La giurisprudenza del Bundesge-richtshof (sentenze 10 dicembre 2014 e 5 settembre 2018), ad esempio, in tema di stato dei nati all'estero da gestazione per altri, assegna rilievo dirimente alla circostanza che il vincolo di filiazione di cui si chiede il riconoscimento risulti fondato su un provvedimento giurisdizionale, e dunque su un atto idoneo, per sua natura, a fornire un'adeguata attestazione della conformita' della vicenda procreativa alle regole e alle procedure del diritto straniero. Una lesione della dignita' della gestante e' infatti ravvisata solo qualora emergano fattori che lascino dubitare della sua libera partecipazione alla surrogazione, o la' dove risultino oscure circostanze essenziali come i dati personali della donna, le condizioni del suo impegno o l'esistenza stessa di un accordo, o, ancora, quando nel procedimento giudiziale straniero non siano osservate le fondamentali garanzie procedurali, senza che rilevi, invece, l'avvenuto pagamento di un corrispettivo, non integrando l'attribuzione economica un elemento di costrizione di volonta' della gestante. Il Collegio osserva, al riguardo, che il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternita', sul presupposto che solo un divieto cosi' ampio e' in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilita'. Di fronte a una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non e' consentito all'interprete ritagliare dalla fattispecie normativa, per escluderle dal raggio di operativita' dell'ordine pubblico internazionale, forme di surrogazione che, sebbene in Italia vietate, non sarebbero in grado di vulnerare, per le modalita' della condotta o per gli scopi perseguiti, il nucleo essenziale del bene giuridico protetto. Invero, punendo la surrogazione di maternita' in via assoluta, cioe' a prescindere dalle modalita' della condotta o dagli scopi perseguiti, da una parte si tutela in via immediata la dignita' della gestante su commissione, dall'altra si tende a prevenire, secondo la logica della china scivolosa, eventuali derive estreme di manifestazione del fenomeno, espresse da deprecabili forme di sfruttamento di donne in condizioni di bisogno economico, vulnerabili e presuntivamente prive di apprezzabili margini di autonomia decisionale. Non e' pertanto consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere la lesivita' della dignita' della persona umana e, con essa, il contrasto con l'ordine pubblico internazionale, la' dove la pratica della surrogazione della maternita' sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino. D'altra parte, la soluzione interpretativa ipotizzata dall'ordinanza di rimessione presenta un'altra criticita', puntualmente evidenziata dal Pubblico Ministero nelle conclusioni scritte. La valutazione caso per caso finirebbe per essere attribuita, in prima battuta, non al giudice, bensi' all'ufficiale di stato civile, il quale sarebbe cosi' chiamato ad "operare la scelta relativa al riconoscimento della genitorialita' intenzionale sulla base dei criteri generali ‘normati'" dalla pronuncia di queste Sezioni Unite. Ma vi sarebbe la "pratica impossibilita'", con i poteri conferiti all'ufficiale di stato civile, "di procedere alla verifica se vi sia stato un corrispettivo economico a favore della donna che in un lontano Stato estero ha gestito per altri la maternita', e valutare la sua concreta condizione di soggezione ed il reale grado di liberta' e consapevolezza della scelta effettuata, nonche' le modalita' di partecipazione alla scelta da parte del genitore intenzionale". 19. - Concorre a formare l'ordine pubblico internazionale anche il best interest of the child. E' un principio, questo, riconducibile agli articoli 2, 30 e 31 Cost. e proclamato da molteplici fonti internazionali ed Europee, a cominciare dall'articolo 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, ai cui sensi "In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorita' amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente", nonche' dall'articolo 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L'interesse del minore non puo' certo rappresentare un diritto tiranno rispetto alle altre situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute o protette, che costituiscono nel loro insieme espressione della dignita' della persona. Nondimeno, esso ha un ruolo centrale e preminente. Non legittima comportamenti disapprovati dall'ordinamento, ma esige ed impone che sia assicurata tutela all'interesse al riconoscimento giuridico del rapporto con il genitore d'intenzione. Corte costituzionale e Corte Europea dei diritti dell'uomo convergono nel tracciare questa linea di fondo del sistema. E' "imprescindibile" - afferma la Corte costituzionale - la necessita' di assicurare tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con chi ne abbia voluto la nascita in un Paese estero in conformita' della lex loci e lo abbia poi accudito esercitando di fatto la responsabilita' genitoriale (sentenza n. 33 del 2021, cit.). A sua volta, la Corte Europea dei diritti dell'uomo declama che, dal punto di vista della Convenzione, occorre fare "abstraction du comportement eventuellement critiquable des parents de maniere a' permettre la recherche de l'interet superieur de l'enfant, critere suprême dans de telles situations" (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera). L'inserimento, nell'ordine pubblico internazionale, dell'interesse del minore apre uno scenario nuovo. L'ordine pubblico internazionale, tradizionalmente concepito con funzione meramente preclusiva od oppositiva, viene infatti ad assumere una funzione positiva, consistente nel favorire l'ingresso di nuove relazioni genitoriali. Ne deriva un temperamento, una mitigazione (non gia', beninteso, un superamento) della aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino. 20. - Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell'originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d'intenzione. L'ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternita' surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse e' assicurata attraverso l'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita. 21. - Il provvedimento giudiziario straniero non e' trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni. 21.1. - In primo luogo, perche' nella non trascrivibilita' si esprime la legittima finalita' di disincentivare il ricorso alla pratica della maternita' surrogata, che offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un'inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale. Il riconoscimento ab initio, mediante trascrizione o delibazione del provvedimento straniero di accertamento della genitorialita', dello status filiationis del nato da surrogazione di maternita' anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realta' per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante. L'automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternita' surrogata e degli atti di autorita' straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non e' funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi. L'interesse superiore del minore e' uno dei valori in cui si sostanzia l'ordine pubblico internazionale. Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l'indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata. Il fatto che l'interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all'estero. 21.2. - In secondo luogo, perche' va escluso che il desiderio di genitorialita', attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialita' comprensivo non solo dell'an e del quando, ma anche del quomodo (Corte Cost., sentenza n. 79 del 2022). Non v'e' nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volonta' degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico. E' esatto che l'accertamento della filiazione prescinde, oggi, dalla rigida dicotomia, che in passato costituiva il fondamento del sistema, tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sulla affettivita' e sulla necessita' per il minore di crescere in un ambiente familiare idoneo all'accoglienza. L'ordinamento - e' vero - gia' conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base della "scelta", e quindi dell'assunzione di responsabilita', di dar vita a un progetto genitoriale comune. La L. n. 40 del 2004 ha dato ingresso alla possibilita' di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione. La scelta di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita eterologa non consente ripensamenti rispetto alla creazione del rapporto di filiazione (articoli 8 e 9 della legge citata). Il consenso e' integralmente sostitutivo della mancanza di discendenza genetica. La disciplina del fenomeno procreativo ormai si compone di modelli fondati sul legame biologico realizzato attraverso il rapporto sessuale e modelli affidati all'intervento in via assistita di tecniche mediche, anche con il contributo genetico di un soggetto terzo rispetto alla coppia, la quale si assume la responsabilita' dell'evento procreativo. La genitorialita' del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita e' legata anche al consenso prestato e alla responsabilita' conseguentemente assunta. Con la L. n. 40 del 2004, articoli 8 e 9 il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da procreazione medicalmente assistita anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014). Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all'interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, abbiano consensualmente fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004, articolo 5), divengono, per cio' stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico. Dalla disciplina della L. 40 del 2004, articoli 8 e 9 tuttavia, non possono trarsi argomenti per sostenere l'idoneita' del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternita'. Lo spazio entro il quale il consenso risulta idoneo ad attribuire lo stato di figlio in difetto di legame genetico e' circoscritto ad una specifica fattispecie - la fecondazione eterologa - ben diversa e ben distinta dalla surrogazione di maternita'. In caso di maternita' surrogata, la genitorialita' giuridica non puo' fondarsi sulla volonta' della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, cosi' come avviene per la fecondazione assistita. 21.3. - In terzo luogo, perche' il riconoscimento della genitorialita' non puo' essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L'instaurazione della genitorialita' e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l'automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettivita' che, gia' nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale. Una diversa soluzione porterebbe a fondare l'acquisto della genitorialita' sulla sola scelta degli adulti, anziche' su una relazione affettiva gia' di fatto instaurata e consolidata. La Corte costituzionale ha indicato la strada, che non e' quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un piu' o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialita' degli adulti che ricorrono all'estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento. 22. - L'esclusione della automatica trascrivibilita' del provvedimento giudiziario straniero non cancella, ne' affievolisce l'interesse superiore del minore. Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell'accoglienza o dell'impegno in un condiviso disegno di genitorialita' sociale. Appartiene all'istituto dell'adozione particolare la valutazione in concreto dell'interesse alla identita' filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. L'adozione in casi particolari non da' rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitoriali-ta'; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l'interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilita' della cura e dell'educazione, ha altresi' concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalita' che e' la famiglia. L'adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneita' dell'adottante. Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all'interesse del minore. Il riconoscimento della genitorialita' e' quindi ancorato a una verifica in concreto dell'attualita' del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino. La filiazione riguarda un profilo basilare dell'identita' stessa del minore. Proprio in ragione di cio' e' essenziale la ricerca, anche nel caso della maternita' surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore. Esattamente si e' sostenuto che il superiore interesse del minore - non astrattamente considerato bensi' concretamente valutato anche nell'assorbente e decisiva ottica del rapporto e del connesso principio di responsabilita', e come tale, quindi, anche realisticamente interpretato in funzione dell'eventuale necessita' di preservare, pure in prospettiva, comprovate effettive relazioni familiari instauratesi tra lo stesso minore e il genitore d'intenzione - non puo' non rappresentare l'irrinunciabile parametro di commisurazione da cui muovere per la costruzione anche dello stato giuridico del figlio nato da maternita' surrogata. L'interesse superiore del minore puo' risultare anche fondativo di un vero e proprio rapporto di filiazione, ma deve basarsi su un corrispondente legame affettivo di tipo familiare dotato dei caratteri della effettivita' e della stabilita'. 23. - Va da se' che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell'interesse del minore non puo' fondarsi sull'orientamento sessuale del richiedente l'adozione e del suo partner. L'orientamento sessuale della coppia non incide sull'idoneita' dell'individuo all'assunzione della responsabilita' genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte Cost., sentenza n. 230 del 2020). La giurisprudenza ha in piu' occasioni chiaramente respinto la tesi che l'omosessualita' sia una condizione in se' ostativa all'assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali. Lo ha fatto, in particolare, negando che l'orientamento sessuale abbia una qualche incidenza sulle decisioni in merito all'affidamento dei figli (Cass., Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601) o sulla valutazione dell'idoneita' affettiva e della capacita' educativa di chi abbia presentato domanda di adozione del figlio del proprio o della propria partner (Cass., Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962, cit.), nonche' nel confutare che contrasti con l'ordine pubblico internazionale un provvedimento giurisdizionale straniero che dichiari l'adozione piena di un minore da parte di una coppia formata da due uomini (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.). Lo ha ribadito ammettendo il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l'ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto (Cass., Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599). Piu' nello specifico, estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilita', di cui alla L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d), che viene riferita all'impedimento giuridico, oltre che a quello di fatto, la giurisprudenza ordinaria ha valorizzato alcune specificita' dell'adozione in casi particolari, ampliandone il raggio applicativo. Facendo leva sulle due finalita' sottese all'istituto - quella volta a tutelare l'interesse del minore a preservare rapporti gia' instaurati e quella diretta a risolvere situazioni di giuridica impossibilita' di accedere all'adozione "ordinaria" -, la giurisprudenza ha utilizzato l'adozione in casi particolari anche nel caso del minore frutto di progetti gestazionali dell'unione civile realizzati all'estero. E' questo il caso da cui ha preso, appunto, le mosse la sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale: quello di una coppia di uomini che ha contratto matrimonio all'estero, matrimonio trascritto in Italia con effetti di unione civile, ed ha avuto, grazie a una gravidanza per altri effettuata sempre all'estero, una bambina, della quale il genitore intenzionale ha chiesto al giudice italiano l'adozione in casi particolari. Anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo risulta che l'esistenza di una vita familiare e' una questione di fatto dipendente dalla realta' pratica di stretti legami personali e che la possibilita' per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare (Corte EDU, 12 luglio 2001, K. e T. c. Finlandia). Il principio e' ribadito dalla recente, e gia' citata, sentenza della Corte di Strasburgo D.B. e altri c. Svizzera: "La Cour rappelle d'emblee que l'interet superieur de l'enfant comprend inter alia l'identification en droit des personnes qui ont la responsabilite' de l'elever, de satisfaire a' ses besoins et d'assurer son bien-etre, ainsi que la possibilite' de vivre et d'evoluer dans un milieu stable (...). Pour cette raison, le droit au respect de la vie prive'e de l'enfant requiert que le droit interne offre une possibilite' de reconnaissance d'un lien de filiation entre l'enfant et le parent d'intention (...). Des lors, la marge d'appreciation des Etats est limitee s'agissant du principe meme de l'etablissement ou de la reconnaissance de la filiation (...). La Cour estime egalement que l'interet de l'enfant ne peut pas dependre de la seule orientation sexuelle des parents". Con tale pronuncia la Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto alla vita privata, tutelato dall'articolo 8 CEDU, da parte dello Stato svizzero nei confronti di un minore - nato attraverso tecniche di surrogazione di maternita', proibite in Svizzera, gia' legalmente riconosciuto figlio dei ricorrenti da provvedimento giudiziale della California - per averlo lasciato, per sette anni ed otto mesi, a causa dell'assenza di previsioni specifiche nella legislazione svizzera (che, solo nel 2018, aveva consentito alle persone dello stesso sesso legate da un'unione registrata, di procedere all'adozione), privo della possibilita' di ottenere il riconoscimento del rapporto con il proprio genitore d'intenzione, dovendosi ritenere tale significativo periodo di tempo, per aver posto il minore in una condizione di incertezza giuridica relativa alla sua identita' sociale, incompatibile con i principi gia' affermati dalla Corte e con il principio del best interest of the child. La Corte ha, invece, escluso la violazione del diritto alla vita familiare dei due genitori, sottolineando come l'accordo di maternita' surrogata fosse contrario all'ordine pubblico svizzero e che le difficolta' pratiche incontrate dalla coppia a causa delle previsioni della legislazione svizzera dovessero ritenersi, comunque, conformi alle condizioni di cui all'articolo 8 CEDU. Anche secondo la Corte di giustizia la relazione intrattenuta da una coppia omosessuale puo' rientrare nel concetto di "vita privata" cosi' come in quello di "vita familiare" allo stesso modo di una coppia di sesso opposto nella stessa situazione (v. sentenza del 5 giugno 2018, Coman e a., C-673/2016). Partendo dal principio di non discriminazione - il quale esige che i diritti enunciati nella Convenzione sui diritti del fanciullo, tra cui il diritto di essere registrato dalla nascita, di avere un nome e di acquisire una cittadinanza, siano garantiti al minore senza che quest'ultimo subisca discriminazioni al riguardo, "comprese quelle basate sull'orientamento sessuale dei suoi genitori" - la Corte di Lussemburgo (Grande Sezione, sentenza 14 dicembre 2021, V.-.-. c. Stolichna obshtina, rayon "Pancharevo", causa C-490/2020) ha precisato che "sarebbe contrario ai diritti fondamentali che gli articoli 7 e 24 della Carta garantiscono a tale minore privarlo del rapporto con uno dei suoi genitori nell'ambito dell'esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri o rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso". Si assiste, cioe', a quello che la dottrina italiana, attenta a cogliere i grandi mutamenti del diritto di famiglia, ha descritto come il passaggio da una famiglia "isola" ad un "arcipelago" di famiglie. Alla famiglia, rispettosa dell'immagine offerta dalla Costituzione, "fondata" sul matrimonio, si sono aggiunte altre famiglie. E la filiazione e' divenuta il collante di diverse comunioni di affetti. All'unita' dello stato di figlio corrisponde la pluralita' dei modelli familiari: lo stato di figlio e' unico, mentre sono ormai numerosi i modelli normativi o sociali dei rapporti di coppia. 24. - Attraverso l'adozione in casi particolari, l'ordinamento italiano assicura tutela all'interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d'intenzione. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinche' l'accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosita' tipica della responsabilita' genitoriale. 25. - La soluzione dell'adozione in casi particolari appare in linea con la giurisprudenza della Corte EDU. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, in un ordinamento che disapprova la gestazione per altri, non e' affatto necessario che il rapporto del nato da madre surrogata con il committente privo di legame genetico con esso sia formalizzato ab initio mediante trascrizione del provvedimento estero che ne accerti il carattere genitoriale. Il rispetto della vita privata e familiare del nato richiede, tuttavia, che la procedura alternativa a tal fine prevista dal singolo ordinamento - una procedura che, si ammette, puo' anche essere di tipo adottivo - consenta di conseguire quel risultato in una maniera agevole sempreche' risulti la corrispondenza del rapporto di cura in atto con l'interesse del minore. Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che - anche a fronte della grande varieta' di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternita' surrogata - ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, pero', la necessita' di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura. La Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia) afferma, in particolare, che gli Stati parte possono non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al genitore d'intenzione; e cio' proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben puo' considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignita' delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilita' del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il genitore d'intenzione, al piu' tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati; lasciando poi alla discrezionalita' di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all'adozione del minore. Rispetto, peraltro, a quest'ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria "filiazione" tra adottante e adottato, e a condizione che le modalita' previste dal diritto interno garantiscano l'effettivita' e la celerita' della sua messa in opera, conformemente all'interesse superiore del bambino. 26. - L'adozione in casi particolari rappresenta l'istituto che consente al bambino, nato a seguito di maternita' surrogata nell'ambito di un progetto procreativo di una coppia omoaffettiva, di mantenere, con il riconoscimento dello status di figlio, la relazione affettiva e di cura gia' di fatto instaurata e consolidata con il partner del genitore biologico. L'adozione in casi particolari rappresenta anche il modello rivolto a consolidare, con una veste giuridica, il rapporto con quello, dei due componenti della coppia, che non e' genitore biologico e quindi non risulta genitore secondo l'ordinamento italiano. Un modello di accoglienza non originato dalla genetica, ma dalla responsabilita' che consegue all'aver condiviso e attuato un progetto genitoriale comune. L'ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternita' surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato. Il titolo che giustifica la costituzione dello stato e' fondato, non sull'intenzione di essere genitore, ma sulla condivisione del progetto genitoriale seguita dalla cura e dal rapporto affettivo costanti; il provvedimento del giudice presuppone, inoltre, un giudizio sul miglior interesse del bambino e una verifica in concreto dell'idoneita' del genitore istante. 27. - La questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite, afferente al quarto motivo del ricorso principale del Sindaco e dell'Amministrazione dell'interno, puo' dunque essere risolta mediante l'enunciazione del seguente principio di diritto: "Poiche' la pratica della maternita' surrogata, quali che siano le modalita' della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignita' della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non e' automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l'originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d'intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformita' della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternita' surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L'ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternita' surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse e' garantita attraverso l'adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, articolo 44, comma 1, lettera d). Allo stato dell'evoluzione dell'ordinamento, l'adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita". 27. - Di conseguenza, il quarto motivo del ricorso proposto dal Sindaco e dal Ministero dell'interno va accolto. Ha, infatti, errato la Corte d'appello a ritenere che il divieto, posto dal legislatore italiano, di maternita' surrogata sia frutto di una scelta discrezionale e ad escludere che esso esprima principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Ha errato, altresi', l'ordinanza impugnata a giungere ad un riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale canadese dando rilievo alla mera volonta' ed intenzione di diventare genitore del partner del padre biologico, tra l'altro limitandosi ad una considerazione non individualizzata ne' contestualizzata dell'interesse del minore, misurato sull'astratta esigenza di assicurare al bambino la conservazione dello status acquisito all'estero in conformita' della lex loci. Cosi' decidendo, il giudice a quo e' pervenuto ad un, non consentito perche' contrario all'ordine pubblico internazionale, riconoscimento automatico del provvedimento giurisdizionale straniero nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia omoaffettiva che ha partecipato alla surrogazione di maternita' senza fornire i propri gameti. Il giudice del merito avrebbe dovuto considerare che il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra il minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternita' surrogata ed il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternita', qualificabile come principio di ordine pubblico, e che l'ordinamento italiano consente di conferire rilievo, attraverso l'adozione in casi particolari, alla socialita' del rapporto affettivo instaurato e vissuto anche con colui che ha condiviso il disegno genitoriale in un Paese estero in conformita' della lex loci. 28. - L'esame delle altre censure articolate con i primi tre motivi del ricorso principale resta, a questo punto, assorbito. 29. - L'unico motivo di ricorso incidentale, con cui si contesta che la Corte d'appello abbia considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi, e' privo di fondamento. Va ribadito che il Sindaco e' l'organo il cui rifiuto di trascrizione da' origine alla controversia e, come tale, e' direttamente interessato alle conseguenze e all'attuazione della pronuncia di delibazione. L'ordine di trascrizione (o di cancellazione della trascrizione gia' eseguita) riveste, infatti, un ruolo centrale e non accessorio nella decisione L. n. 218 del 1995, ex articolo 67. Dall'altro lato, nell'esercizio delle funzioni di ufficiale di stato civile il Sindaco e' ufficiale del Governo, organo periferico dell'Amministrazione statale dell'interno, alla cui competenza il Decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 ha trasferito le attribuzioni in materia di tenuta di registri dello stato civile. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle disposizioni sul servizio dello stato civile risponda ad un'esigenza obiettiva dell'ordinamento, nel cui perseguimento l'Amministrazione non agisce in qualita' di parte, non consente quindi di escludere la configurabilita' di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare la partecipazione del Ministero al giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019). 30. - Riassuntivamente, il quarto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco e' accolto, mentre gli altri motivi del medesimo ricorso restano assorbiti; e' rigettato il ricorso incidentale delle parti private. 31. - L'ordinanza impugnata e' cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 c.p.c., con il rigetto della domanda di riconoscimento del provvedimento straniero. La complessita' e l'importanza delle questioni trattate giustificano l'integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio. 32. - Va disposto che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti. P.Q.M. accoglie il quarto motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti i primi tre motivi del medesimo ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; cassa l'ordinanza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di riconoscimento del provvedimento straniero. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita' di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalita' e degli altri dati identificativi delle parti

  • REPUBBLICA ITALIANA In Nome del Popolo Italiano La Corte d'Appello di Ancona sezione lavoro in persona dei magistrati: dott. Vincenzo Pio Baldi Presidente relatore dott.ssa Angela Quitadamo Consigliere dott.ssa Tania De Antoniis Giudice applicato a scioglimento della riserva assunta all'esito dell'udienza svoltasi in data 3.03.2022 attraverso il deposito telematico di note scritte contenenti le conclusioni delle parti, ai sensi dell'art.221, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 19.05.2020, convertito nella legge n.77 del 17.07.2020, nella causa iscritta al n. 207 del Ruolo Generale Lavoro dell'anno 2021, promossa con ricorso in appello depositato il 07.07.2021 da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE della PREVIDENZA SOCIALE, corrente in Roma, con l'avv. (...), parte APPELLANTE contro xxxxxxx, in proprio e quale esercente la potestà su xxxxxxx, con l'avv. (...), parte APPELLATA avverso la sentenza n.160/2021, pubblicata il 11.06.2021, del Tribunale di Ancona, in funzione di Giudice del lavoro; sulle conclusioni delle parti, come riportate nei rispettivi atti di parte, da intendersi qui integralmente trascritte, ha pronunciato la seguente SENTENZA Il Tribunale di Ancona, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto la domanda proposta nei confronti dell'INPS da xxxxxxx anche per conto della figlia minore xxxxxxx ed ha condannato l'ente previdenziale al pagamento in favore della minore della pensione ai superstiti conseguente al decesso del genitore della minore, Secondo il Tribunale la reiezione dell'INPS alla domanda amministrativa formulata dalla ixxxxxx non è legittima in quanto il decorso di un termine superiore a trecento giorni fra il decesso del genitore e la nascita della piccola HHm non impedisce la maturazione del diritto a percepire la pensione ai superstiti, essendo pacifico, alla luce dei documenti prodotti, il rapporto di filiazione, mentre l'indicato termine non ha carattere perentorio. Avverso la sentenza ha proposto appello l'INPS lamentando, con un unico, articolato motivo di impugnazione, l'erronea applicazione di legge da parte del giudice di prime cure, il quale, richiamando l'inciso "salvo prova contraria" contenuto nell'art. 462, comma 2, c.c., non avrebbe considerato che esso si riferisce all'autore del concepimento, nel senso che fa rientrare fra i capaci a succedere i nati entro i trecento giorni dalla morte del de cuius, mentre la questione dibattuta nel presente processo riguarderebbe l'efficacia nei confronti dell'INPS -efficacia esclusa dall'ente che non avrebbe avuto titolo per partecipare a quel giudizio- del decreto giudiziale che ha riconosciuto xxxxxxx figlia di xxxxxxx. Secondo l'appellante, poi, le richiamate pronunce della Suprema Corte non sarebbero applicabili al caso concreto. L'ente previdenziale ha concluso, quindi, chiedendo che, riformata la sentenza, la domanda attorea venga rigettata. Nel processo di secondo grado si è costituita xxxxxxx, in proprio e nella qualità indicata, contestando l'impugnazione avversaria in considerazione della sua infondatezza e concludendo, quindi, per l'integrale rigetto dell'appello. La Corte, fissata udienza di trattazione scritta ai sensi dell'art. 221, comma 4, cit., sulle conclusioni come in atti, si è riservata di decidere. Così riassunta la vicenda processuale, l'appello è infondato e va respinto. A giudizio della Collegio occorre prendere le mosse dalla legge n. 903 del 1965 che, al Capo 3°, disciplina l'ipotesi delle prestazioni previdenziali dovute in caso di decesso del pensionato o dell'assicurato. Nello specifico, e per quel che qui interessa, l'art. 22 della legge in questione prevede che, in tali casi, i figli superstiti di età inferiore ai diciott'anni hanno diritto a percepire la pensione, secondo una determinata percentuale, variabile in presenza o meno del coniuge superstite che abbia a sua volta diritto. La norma, in sostanza, prevede il generale diritto del figlio minore a godere della pensione, senza alcuna distinzione legata al momento della sua nascita, quindi, purché abbia lo status di figlio. La norma non aggiunge alcuna previsione contenente il limite dei trecento giorni indicato dall'INPS nei propri atti; anzi, il richiamo contenuto nella Circolare n. 185 del 18.11.2015, precisamente al paragrafo 2.3, secondo il quale il diritto va riconosciuto anche ai "figli postumi, nati entro il trecentesimo giorno dalla data di decesso del padre" si pone in contrasto con l'art.8 della legge n. 40 del 2004 che, in linea generale, riconosce lo stato di figli ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Nel caso in esame, poi, il decreto giudiziale della Corte d'Appello di Ancona n.4796/2019 del 3.12.2019, prodotto in atti, a differenza di quanto sostenuto dall'INPS, non ha unicamente l'effetto di incidere sui registri dello Stato Civile del Comune di Ostra Vetere, in quanto, al contempo, il provvedimento riconosce lo stato di xxxxxxx quale figlia di ixxxxi, costituendo, questo, un presupposto indispensabile per la correzione del registro medesimo; detta statuizione, peraltro, risulta espressamente indicata nella parte motivazionale del decreto della Corte d'Appello di Ancona. La pronuncia in questione, così come quella del giudice di legittimità che in quel giudizio ha disposto il rinvio alla Corte territoriale (Cass. civ., Sez.1A, Sentenza n. 13000 del 15.05.2019), produce i suoi effetti anche nei confronti dell'INPS, in quanto, come esattamente messo in rilievo dalla appellata, la Suprema Corte in più occasioni ha affermato che le azioni di stato hanno efficacia erga omnes, con la conseguenza che i loro effetti si estendono anche alle parti che non hanno partecipato al giudizio (Cass. civ., Sez. 6-1, Ordinanza 19956 del 13.07.2021). In definitiva, quindi, la sentenza di primo grado va integralmente confermata. Le spese processuali del grado, in ragione della media complessità della questione giuridica, vanno liquidate come da dispositivo secondo i valori medi dello scaglione di riferimento e poste per intero a carico dell'INPS in ossequio al principio di soccombenza, con distrazione al procuratore della Rastelli che, ai sensi dell'art. 93 c.p.c., ha dichiarato di averle anticipate. P.Q.M. La Corte d'Appello di Ancona, sezione lavoro, definitivamente decidendo sull'appello proposto con ricorso depositato il 7.07.2021 dall'INPS nei confronti di (...), avverso la sentenza n.160/2021, pubblicata l'11.06.2021, del Tribunale di Ancona, in funzione di Giudice del lavoro, così provvede: A. Respinge l'appello e conferma la sentenza di primo grado; B. Condanna l'INPS al pagamento in favore della parte appellata delle spese processuali del presente grado, liquidate in Euro. 6.620,00 per compenso professionale, oltre esborsi, spese forfetarie al 15%, iva e cap, con distrazione in favore dell'avv. (...); C. Dichiara, ex art.13, comma 1 quater, d.P.R. n.115 del 2002, la sussistenza in capo all'INPS dei presupposti oggettivi per il pagamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante, promosso dal Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, nel procedimento instaurato da M. M., con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021. Visti l’atto di costituzione di M. M. e S. V. e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; uditi l’avvocato Massimo Clara per M. M. e S. V. e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 23 febbraio 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del relativo registro dell’anno 2021, il Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, stabilisce che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. 2.– Il rimettente riferisce che, con ricorso del 29 ottobre 2020, M. M. ha chiesto l’adozione della minore M. V. E., figlia biologica di S. V., ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, nonché il riconoscimento, quale effetto della sentenza di adozione, dei rapporti civili della minore con i propri parenti. L’ordinanza riporta che M. M. si è unito in matrimonio all’estero con S. V., ha conseguito la trascrizione in Italia del relativo atto come unione civile e, di seguito, ha condiviso, insieme al partner, un percorso di fecondazione assistita, effettuato sempre all’estero, che si è concluso con la nascita di M. V. E., legata biologicamente a S. V. Il rimettente aggiunge che, nel corso del procedimento, S. V., in qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale, ha prestato il proprio assenso all’adozione da parte di M. M. 2.1.– Il giudice a quo afferma di poter accogliere la domanda di adozione, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità che applica la fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983 anche alle ipotesi di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo, consentendo al componente di una coppia dello stesso sesso, privo di un legame biologico con il figlio del partner, di accedere all’adozione in casi particolari (è citata la giurisprudenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; sezione prima civile, 26 maggio 2016, n. 12962). Per converso, ritiene di non poter riconoscere, sulla base della legislazione vigente, i rapporti civili della minore con i parenti della parte ricorrente, quale effetto del vincolo adottivo in esame. Ravvisa, infatti, un elemento ostativo nel rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera alla disciplina codicistica sull’adozione delle persone maggiori di età e, specificamente, all’art. 300, secondo comma, cod. civ., che testualmente dispone: «[l]’adozione non induce alcun rapporto civile […] tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge». 2.2.– Il rimettente, d’altro canto, esclude che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983, nel suo univoco rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., lasci spazio a letture alternative. In particolare, rigetta l’ipotesi di una tacita abrogazione della disposizione censurata ad opera dell’art. 74 cod. civ., nella sua nuova formulazione introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), secondo cui: «[l]a parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti». Ad avviso del rimettente, l’abrogazione tacita presupporrebbe una incompatibilità tale da rendere impossibile la simultanea applicazione della vecchia e della nuova disposizione. Simile evenienza non sussisterebbe, nel caso di specie, poiché il legislatore, all’atto di regolare le unioni civili con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), avrebbe ribadito la distinzione fra l’adozione piena (o legittimante), preclusa alle coppie dello stesso sesso, e l’adozione in casi particolari, cui farebbe invece implicito riferimento l’art. 1, comma 20, ultimo periodo, della citata legge n. 76 del 2016, che fa salvo «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». 3.– Ritenendo di non potersi avvalere di tale soluzione ermeneutica, il giudice a quo solleva, con riferimento agli artt. 3, 31, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale del rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera all’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui esclude l’instaurarsi di rapporti civili tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Secondo il rimettente, la domanda avanzata dal ricorrente in merito al sorgere di tali vincoli parentali può trovare accoglimento solo all’esito di una declaratoria di illegittimità costituzionale, dal che inferisce la rilevanza delle questioni sollevate. 4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che l’esclusione, nella disciplina dell’adozione in casi particolari, di rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante arrechi un vulnus agli artt. 3 e 31 Cost., in quanto contrasterebbe «con il principio di parità di trattamento di tutti i figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio e adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. ed è stato inverato dalla riforma sulla filiazione (l. 219/2012) e dal rinnovato art. 74 cc che ha reso unico senza distinzioni il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne». Il rimettente aggiunge, con specifico riferimento alla vicenda oggetto del giudizio a quo, che «la possibilità di ricorrere all’adozione in casi particolari lett. d) [in] situazioni in cui non vi è alcun legame familiare preesistente da preservare» renderebbe discriminatorio il diniego di rapporti civili fra adottato e parenti dell’adottante e paleserebbe una «irragionevole disparità di trattamento tra i figli di coppie unite in matrimonio ed i figli adottivi di coppie unite civilmente». La norma censurata contrasterebbe, sempre limitatamente all’esclusione dei diritti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art 8 della CEDU, «in quanto impedi[rebbe] al minore inserito nella famiglia costituita dall’unione civile di godere pienamente della sua “vita privata e familiare” intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto alla identità dell’individuo». 5.– Si sono costituiti in giudizio con il medesimo atto M. M. e S. V., padre biologico della minore, che hanno condiviso le motivazioni dell’ordinanza di rimessione e hanno lamentato la lesione anche di ulteriori parametri costituzionali. In particolare, hanno denunciato la violazione degli artt. 3 e 30 Cost., in quanto la norma censurata contrasterebbe con il principio di unicità dello status di figlio, accolto con la riforma della disciplina sulla filiazione, di cui alla legge n. 219 del 2012 e al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219). Il vulnus ai parametri costituzionali viene ritenuto particolarmente evidente con riferimento allo status del minore adottato dal «partner omosessuale del genitore legale», in quanto l’adozione in casi particolari sarebbe «l’unico strumento che consente al minore di veder riconosciuto il proprio legame con il genitore d’intenzione». In subordine alla declaratoria di illegittimità costituzionale parziale, viene invocata l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, nel suo rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., in adesione alla tesi che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 74 cod. civ., ritiene possibile una interpretatio abrogans. In via ulteriormente gradata, viene espresso l’auspicio che questa Corte adotti un’ordinanza con rinvio a data certa del presente giudizio costituzionale, onde chiedere al legislatore di predisporre, nelle more, una regolamentazione conforme a Costituzione. 6.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili o, in subordine, non fondate. 6.1.– L’Avvocatura ha eccepito, innanzitutto, una carenza di motivazione in ordine alla competenza del tribunale per i minorenni a pronunciarsi sugli effetti inerenti alla parentela del provvedimento che decide l’adozione in casi particolari. L’atto di intervento muove dalla considerazione che la domanda, relativa ai rapporti civili tra l’adottato e i parenti del genitore adottante, riguardi lo status del minore e rientri, pertanto, nella competenza del tribunale, ai sensi dell’art. 9 del codice di procedura civile. Argomenti in senso contrario non sarebbero rinvenibili nella legislazione vigente, poiché la legge sulle adozioni non prevede che il tribunale per i minorenni debba pronunciarsi anche sugli effetti conseguenziali all’attribuzione della filiazione e l’art. 55 della stessa legge n. 184 del 1983 non opererebbe un rinvio all’art. 277 cod. civ., secondo cui «la sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento». Inoltre, l’art. 38 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, di recente novellato dalla legge n. 219 del 2012, non ascriverebbe quella in esame fra le attribuzioni del tribunale per i minorenni, stabilendo che debbano essere emessi dal tribunale «i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria». L’Avvocatura ne trae la conclusione che il giudice a quo, una volta dichiarata l’adozione, avrebbe dovuto declinare la competenza sulla domanda avente a oggetto la parentela, sicché il non averlo fatto e il non aver motivato a riguardo renderebbero le questioni sollevate inammissibili. 6.2.– Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri chiede che le questioni siano giudicate non fondate, sul presupposto che l’ordinamento giuridico vigente sia incentrato su due diversi modelli di adozione, tra di loro non omologabili. L’adozione piena e legittimante presuppone – si legge nell’atto di intervento – «lo stato di abbandono del minore e comporta la recisione di qualunque legame tra la famiglia di origine e l’adottato», che «entra a tutti gli effetti a far parte della famiglia dell’adottante». Per converso, l’adozione in casi particolari «conserva i legami dell’adottato con la famiglia d’origine e, allo stesso tempo, non comporta l’ingresso del primo nella famiglia dell’adottante». A ciò si aggiunge che l’adozione piena è consentita «alle sole coppie coniugate e non anche alle coppie unite civilmente», mentre l’accesso all’adozione in casi particolari è permesso anche a persone non coniugate e a coppie unite civilmente. L’Avvocatura, infine, sottolinea come «un ulteriore elemento da considerare nel caso in esame, che il Tribunale per i minorenni non ha preso in considerazione, è il fatto che il minore oggetto del procedimento è stato concepito tramite il ricorso alla surrogazione di maternità: pratica vietata e sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 e che il diritto vivente ha riconosciuto contraria all’ordine pubblico, in quanto lesiva di valori fondamentali quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione». L’insieme di questi fattori renderebbe ragionevole la disciplina differenziata della parentela che caratterizza i due regimi adottivi. 7.– Le parti hanno successivamente depositato una memoria integrativa di replica, vòlta a confutare le tesi della difesa erariale. Quanto all’eccezione di inammissibilità per omessa motivazione sulla competenza, ha osservato che i presupposti di ammissibilità del giudizio a quo sono sindacabili dalla Corte solo quando siano incontrovertibilmente carenti, mentre nella specie il rimettente avrebbe in realtà affrontato, sia pure in via implicita, il problema della competenza. Nel merito, è stato poi ribadito che un’applicazione indiscriminata dell’art. 55 della legge n. 184 del 1983 determinerebbe effetti fortemente e irragionevolmente penalizzanti per l’interesse del minore. 8.– Infine, sono state ammesse, con decreto presidenziale del 18 gennaio 2022, due opinioni scritte, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, che provengono da due associazioni di promozione sociale: “Famiglie arcobaleno: associazione genitori omosessuali” e “Rete Lenford Avvocatura per i diritti delle persone LGBTI+ Associazione di promozione sociale”. Gli amici curiae, oltre a rimarcare che un intervento del legislatore sia ormai improcrastinabile, auspicano una sentenza interpretativa di rigetto o una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge n. 184 del 1983, in combinato disposto con l’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui impedisce il sorgere di rapporti civili fra adottato e parenti dell’adottante. 9.– Nell’udienza del 23 febbraio 2022 le parti e l’Avvocatura hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 26 luglio 2021, iscritta al n. 143 del relativo registro dell’anno 2021, il Tribunale ordinario per i minorenni dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, stabilisce che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. 2.– Il rimettente riferisce che il ricorrente nel giudizio a quo ha chiesto, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, di adottare una minore, che è figlia biologica del partner a cui è legato con un’unione civile e con il quale ha condiviso un percorso di fecondazione assistita, effettuato all’estero, che ha consentito la nascita della bambina. Il giudice a quo afferma di poter accogliere la domanda di adozione, ma non la richiesta di riconoscimento dei rapporti civili della minore con i parenti del ricorrente. Di ostacolo a tale accoglimento sarebbe il rinvio che l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 opera all’art. 300, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui stabilisce che «[l]’adozione non induce alcun rapporto civile […] tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge». Il rimettente, dopo aver escluso che il combinato disposto normativo sopra menzionato possa ritenersi parzialmente e tacitamente abrogato dall’art. 74 cod. civ., come novellato dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), solleva questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU. 2.1.– Constatata la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo passa a motivare la loro non manifesta infondatezza, osservando anzitutto che l’esclusione, nella disciplina dell’adozione in casi particolari, dei rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante arrecherebbe un vulnus agli artt. 3 e 31 Cost., in quanto contrasterebbe «con il principio di parità di trattamento di tutti i figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio e adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. ed è stato inverato dalla riforma sulla filiazione (l. 219/2012) e dal rinnovato art. 74 cc che ha reso unico senza distinzioni il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne». Aggiunge, inoltre, che la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art 8 CEDU, «in quanto impedi[rebbe] al minore inserito nella famiglia costituita dall’unione civile di godere pienamente della sua “vita privata e familiare” intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto alla identità dell’individuo». 3.– Preliminarmente, in rito, l’Avvocatura generale dello Stato ha ravvisato una carenza di motivazione, nell’ordinanza di rimessione, in ordine alla competenza del tribunale per i minorenni ad adottare la pronuncia relativa al riconoscimento dei rapporti civili tra l’adottato e i parenti del genitore adottivo. Tale richiesta – secondo l’Avvocatura – atterrebbe allo status del minore e dunque rientrerebbe nella competenza del tribunale, ai sensi dell’art. 9 del codice di procedura civile. L’Avvocatura ne inferisce che il giudice a quo, una volta dichiarata l’adozione, avrebbe dovuto declinare la propria competenza: il non averlo fatto e il non aver motivato sulle ragioni di tale scelta renderebbero le questioni sollevate inammissibili. 3.1– L’eccezione non è fondata. 3.1.1.– Come più volte affermato da questa Corte, per determinare l’inammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale il difetto di competenza del giudice a quo, così come quello di giurisdizione, deve essere macroscopico e, quindi, rilevabile ictu oculi (con specifico riferimento alla competenza, si vedano le sentenze n. 68 del 2021 e n. 136 del 2008, nonché le ordinanze n. 144 del 2011 e n. 134 del 2000, mentre con riguardo alla giurisdizione ex plurimis, sentenze n. 267, n. 99 e n. 24 del 2020, n. 189 del 2018, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999). Qualora sussista l’evidenza del vizio, o nel processo a quo siano state sollevate specifiche eccezioni a riguardo, è richiesta al rimettente una motivazione esplicita (sentenze n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020), rispetto alla quale il giudizio di questa Corte si ferma alla valutazione del suo carattere «non implausibile, ancorché opinabile» (sentenza n. 99 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 24 del 2020, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013, n. 179 del 1999). Qualora, invece, difetti l’evidenza ictu oculi del vizio, l’ammissibilità della questione non è inficiata dalla mancanza di una motivazione espressa, là dove possa inferirsi che il giudice abbia non implausibilmente ritenuto implicita la sussistenza della sua competenza o giurisdizione (sentenza n. 189 del 2018). 3.1.2.– Ebbene, nel caso di specie, occorre, innanzitutto, rilevare che l’art. 38 cod. proc. civ. prevede una rigida preclusione – costituita dalla prima udienza di trattazione – al rilievo, anche officioso, della competenza per materia. Lo scopo di tale previsione, più volte evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, è quello di accelerare i tempi di risoluzione delle controversie e di impedire che le basi per pervenire a una decisione sul merito della causa possano essere rimesse in discussione, a tempo indefinito, per ragioni di rito (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 16 novembre 2021, n. 34569, 21 novembre 2019, n. 30473 e 15 aprile 2019, n. 1051). In particolare, la giurisprudenza di legittimità considera tale barriera temporale, che ha natura preclusiva, applicabile non soltanto ai processi contenziosi di cognizione ordinaria, ma anche a quelli di volontaria giurisdizione da trattare in camera di consiglio (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 22 maggio 2003, n. 8115). Ne consegue che, nel giudizio a quo, dove non risulta che il giudice o le parti abbiano sollevato un rilievo sulla competenza, quest’ultima dovrebbe oramai reputarsi radicata e non dovrebbe essere rimessa in discussione con il giudizio di legittimità costituzionale. 3.2.– Occorre, inoltre, osservare che l’instaurarsi dei legami parentali è un effetto legale automatico della filiazione, come si evince, in materia di adozione piena, dagli artt. 27 e 35 della legge n. 184 del 1983, che si raccordano all’art. 74 cod. civ. Non a caso, nell’ipotesi dell’adozione in casi particolari, la legge interviene espressamente per escludere l’instaurarsi di un simile effetto (per l’appunto con l’art. 55 della legge n. 184 del 1983 che rinvia all’art. 300, secondo comma, cod. civ.). Or dunque, se la competenza a decidere con riguardo all’adozione in casi particolari spetta al tribunale per i minorenni, non è implausibile ritenere che, sulla richiesta di pronunciarsi in merito alla produzione ex lege dei legami parentali dalla filiazione adottiva, debba decidere lo stesso giudice competente a riconoscere il vincolo adottivo. Non si palesa, pertanto, un vizio rilevabile ictu oculi. 3.3.– Tanto premesso, si deve ritenere che l’odierno rimettente, sollevando la questione di legittimità costituzionale, abbia non implausibilmente reputato implicita la propria competenza a pronunciarsi sul possibile effetto legale della pronuncia di adozione. L’eccezione di inammissibilità va, dunque, rigettata. 4.– Nel merito le questioni sono fondate. 5.– Al fine di esaminare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, si rende necessario, in via preliminare, richiamare i tratti distintivi dell’adozione in casi particolari, che emergono sia dall’originario disegno legislativo sia dal percorso evolutivo tracciato dal diritto vivente. 5.1.– L’istituto è stato introdotto dalla legge n. 184 del 1983 per fare fronte a situazioni particolari, nelle quali versa il minore, che inducono a consentire l’adozione a condizioni differenti rispetto a quelle richieste per l’adozione cosiddetta piena. L’adozione in esame aggrega una varietà di ipotesi particolari riconducibili a due fondamentali rationes. La prima consiste nel valorizzare l’effettività di un rapporto instauratosi con il minore. «La particolare adozione del[l’]art. 44» – ha rilevato questa Corte nella sentenza n. 383 del 1999 – offre al minore «la possibilità di rimanere nell’ambito della nuova famiglia che l’ha accolto, formalizzando il rapporto affettivo instauratosi con determinati soggetti che si stanno effettivamente occupando di lui». A tale esigenza risponde l’adozione del bambino, orfano di ambo i genitori, da parte di persone a lui unite o «da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento» (art. 44, comma 1, lettera a). Si ascrive, inoltre, alla medesima ratio l’adozione del bambino da parte del «coniuge nel caso in cui il minore sia figlio del genitore anche adottivo dell’altro coniuge» (art. 44, comma 1, lettera b), poiché il bambino vive in quel nucleo familiare. La seconda ragione giustificativa, che emerge dal dato normativo, risiede nella difficoltà o nella impossibilità per taluni minori di accedere all’adozione piena. Vi rientrano il caso dell’orfano di entrambi i genitori, che «si trovi nelle condizioni indicate dall’art. 3, comma 1, della l. 5 febbraio 1992, n. 104» (art. 44, comma 1, lettera c) – sia cioè persona «che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» – nonché l’ipotesi del minore non adottabile in ragione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» (art. 44, comma 1, lettera d). Le situazioni particolari richiamate e le motivazioni che sottendono giustificano l’accesso a questa adozione anche – o, nel caso della lettera b), solo – a persone singole, oltre che a persone coniugate (art. 44, comma 3). Al contempo, i suoi presupposti applicativi, avulsi dall’accertamento di uno stato di abbandono – che pure nel caso dell’art. 44, comma 1, lettera d), può di fatto sussistere – spiegano il necessario assenso dei genitori, ove questi vi siano, e il persistere di legami con la famiglia d’origine. Non si rinviene, infatti, nell’adozione in casi particolari una disposizione di tenore analogo all’art. 27, comma 3, della legge n. 184 del 1983, secondo cui, con l’adozione piena, «cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali». 5.2.– Al dato legislativo, che evoca i lineamenti di un istituto marginale e peculiare, è subentrata un’evoluzione del diritto vivente, che ha iniziato a valorizzare alcune specificità di tale adozione e ad ampliarne gradualmente il raggio applicativo. Estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilità, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983 – che viene riferita all’impedimento giuridico, oltre che a quello di fatto – la giurisprudenza ha aperto due nuovi itinerari interpretativi nel solco delle originarie rationes. 5.2.1.– Il primo è racchiuso nell’efficace immagine dell’adozione aperta o mite. Il minore non abbandonato, ma i cui genitori biologici versino in condizioni che impediscono in maniera permanente l’effettivo esercizio della responsabilità genitoriale (cosiddetto «semi-abbandono permanente»), può sfuggire al destino del ricovero in istituto o al succedersi di affidamenti temporanei, tramite l’adozione in casi particolari, che viene applicata sul presupposto dell’impossibilità di accedere all’adozione piena (art. 44, comma 1, lettera d), impossibilità dovuta proprio alla mancanza di un abbandono in senso stretto. L’adozione in casi particolari, che non recide i legami con la famiglia d’origine, consente, pertanto, di non forzare il ricorso all’adozione piena. Quest’ultima, in difetto di un vero e proprio abbandono, andrebbe a ledere il «diritto al rispetto della vita familiare» dei genitori biologici, come sottolinea la Corte EDU, la quale cautamente suggerisce proprio il percorso della «adozione semplice» (Corte EDU, sentenza 21 gennaio 2014, Zhou contro Italia, paragrafo 60; di seguito, in senso analogo, Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafi 202-213 e sentenza 13 ottobre 2015, S.H. contro Italia, paragrafi 48-50 e 57). Inizia, dunque, a rovesciarsi – come osserva la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanze 15 dicembre 2021, n. 40308, 22 novembre 2021, n. 35840, 25 gennaio 2021, n. 1476 e 13 febbraio 2020, n. 3643) – l’originaria raffigurazione dell’istituto in esame quale extrema ratio rispetto all’adozione piena. 5.2.2.– Il secondo itinerario introdotto dal diritto vivente, sempre nel solco dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, riguarda, invece, la situazione di minori che hanno una relazione affettiva con il partner del genitore biologico, quando il primo è giuridicamente impossibilitato ad adottare il minore. Si tratta, per un verso, del convivente di diverso sesso del genitore biologico, che non rientra nella lettera b) riferita al solo coniuge. Per un altro verso, vengono in considerazione il partner in un’unione civile o il convivente dello stesso sesso del genitore biologico, che hanno spesso condiviso con quest’ultimo un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero, posto che la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) consente l’accesso alla PMA alle sole coppie di diverso sesso. Il combinarsi delle due finalità sottese all’adozione in casi particolari – quella vòlta a tutelare l’interesse del minore a preservare rapporti già instaurati e quella diretta a risolvere situazioni di giuridica impossibilità ad accedere all’adozione piena – ha indotto la giurisprudenza a consentire, anche nelle citate ipotesi, l’accesso all’adozione in casi particolari. 5.2.3.– Rispetto a questo secondo percorso evolutivo del diritto vivente, che interseca questioni legate alla procreazione medicalmente assistita e al ricorso all’estero alla PMA e talora alla surrogazione di maternità, questa Corte ha già in passato evidenziato diverse sfaccettature del fenomeno tra di loro interconnesse. Innanzitutto, ha inteso escludere che il «desiderio di genitorialità», attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita «lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati», possa legittimare un presunto «diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo» (sentenza n. 221 del 2019). Inoltre, questa Corte ha, in particolare, ribadito le ragioni del divieto di surrogazione di maternità, che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenza n. 33 del 2021), assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale (in senso analogo, ancora, sentenza n. 33 del 2021). D’altro canto, lo sforzo di arginare tale pratica – sforzo che richiede impegni anche a livello internazionale – non consente di ignorare la realtà di minori che vivono di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico. Anche questa Corte – confrontandosi con il diritto vivente – ha ritenuto che l’adozione in casi particolari, lungi dal dare rilevanza al solo consenso e dall’assecondare attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità, dimostri una precipua vocazione a tutelare «l’interesse del minore […] a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate» (sentenze n. 32 del 2021, n. 221 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 272 del 2017). L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del minore e un accertamento sull’idoneità dell’adottante, fermo restando che non può una valutazione negativa sull’idoneità all’assunzione della responsabilità genitoriale fondarsi sul mero «[“]orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)” (sentenza n. 221 del 2019)» (sentenza n. 230 del 2020). Il focus del diritto vivente e della giurisprudenza di questa Corte si è, dunque, concentrato sul primario interesse del minore, principio che è riconducibile agli artt. 2, 30 (sentenze n. 102 del 2020 e n. 11 del 1981) e 31 Cost. (sentenze n. 102 del 2020, n. 272, n. 76 e n. 17 del 2017, n. 205 del 2015, n. 239 del 2014) e che viene proclamato anche da molteplici fonti internazionali, indirettamente o direttamente vincolanti il nostro ordinamento (la Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Dichiarazione sui principi sociali e legali riguardo alla protezione e sicurezza sociale dei bambini, approvata a New York il 3 dicembre 1986; il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; la Convenzione di Strasburgo in materia di adozione, elaborata dal Consiglio d’Europa, entrata in vigore il 26 aprile 1968 e ratificata dall’Italia con la legge 22 maggio 1974, n. 357, nonché da fonti europee (l’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, CDFUE, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; gli artt. 8 e 14 CEDU), come rispettivamente interpretate dalla Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio l’attenzione rivolta all’interesse del minore ha indotto, pertanto, di recente, questa Corte ad allargare lo sguardo dai meri presupposti di accesso all’adozione in casi particolari alla condizione giuridica del minore adottato in tali casi. Simile più ampia prospettiva ha portato, dunque, a rilevare che, se l’istituto in esame offre «una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa», nondimeno esso non appare ancora «del tutto adeguat[o] al metro dei principi costituzionali e sovranazionali» (sentenza n. 33 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 32 del 2021 e n. 230 del 2020). Fra le criticità segnalate spicca quella oggetto del presente giudizio. L’adozione in casi particolari «non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante» (sentenza n. 32 del 2021), «stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 300 cod. civ.» (sentenza n. 33 del 2021). 6.– Il chiaro dato testuale della disposizione di rinvio e la sua incidenza su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari inducono questa Corte a escludere – come del resto già in precedenza rilevato (sentenze n. 33 e n. 32 del 2021) e come sostenuto anche dal giudice rimettente – che la norma censurata possa ritenersi tacitamente abrogata per effetto della modifica dell’art. 74 cod. civ., introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 219 del 2012. Vero è che il nuovo art. 74 cod. civ. prevede che «[l]a parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti». E non può negarsi che, stante il riconoscimento al minore adottato con l’adozione piena dello «stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti» (art. 27 della legge n. 184 del 1983), l’art. 74 cod. civ., dove evoca «la filiazione […] avvenuta nel matrimonio», dovrebbe già ricomprendere il figlio che è considerato «nato nel matrimonio» in virtù dell’adozione legittimante. Sembrerebbe, dunque, potersi inferire che il successivo richiamo al figlio «adottivo», con la sola esclusione dell’adozione di persone maggiori d’età, riguardi in effetti i minori adottati in casi particolari. Ciò nondimeno – come già anticipato – la presenza di un ostacolo chiaro e inequivoco, qual è il rinvio della disposizione censurata all’art. 300, secondo comma, cod. civ., la sua mancata inclusione nell’art. 106 del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), che indica le disposizioni abrogate dalla riforma della filiazione, nonché il carattere fortemente innovativo della previsione di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante portano a escludere che un simile mutamento normativo possa ritenersi realizzato con una mera abrogazione tacita e che la via ermeneutica sia sufficiente a superare il dubbio di legittimità costituzionale. 7.– Escluso tale itinerario, questa Corte deve, pertanto, valutare se il diniego di relazioni familiari tra l’adottato e i parenti dell’adottante determini, in contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost., un trattamento discriminatorio del minore adottato rispetto all’unicità dello status di figlio e alla condizione giuridica del minore, avendo riguardo alla ratio della normativa che associa a tale status il sorgere dei rapporti parentali (sul giudizio che indaga il carattere discriminatorio di una disposizione si vedano, ex plurimis, le sentenze di questa Corte n. 276 del 2020, n. 241 del 2014, n. 5 del 2000 e n. 89 del 1996 e l’ordinanza n. 43 del 2021). 7.1.– L’attuale disciplina dei rapporti parentali è espressione della unicità dello status di figlio e, al contempo, risponde al bisogno di tutela dell’interesse del minore, vero principio ispiratore della riforma della filiazione, introdotta nel biennio 2012-2013 (legge n. 219 del 2012 e d.lgs. n. 154 del 2013). 7.1.1.– «Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico», recita il nuovo art. 315 cod. civ., e lo stato giuridico di figlio è il fulcro da cui si diramano i legami familiari, accomunati dal medesimo stipite (art. 74 cod. civ.). Il soggetto, divenuto figlio, entra nella rete parentale che fa capo allo stipite da cui discende ciascuno dei suoi genitori, senza che le linee parentali siano condizionate dalla relazione giuridica fra i genitori. Il figlio nato fuori dal matrimonio è partecipe di due rami familiari tra di loro giuridicamente non comunicanti. La spinta del principio di eguaglianza, alla luce dell’evoluzione della coscienza sociale, ha, dunque, inciso sulla concezione stessa dello status di figlio, che in sé attrae l’appartenenza a una comunità familiare, secondo una logica fondata sulle responsabilità che discendono dalla filiazione e sull’esigenza di perseguire il miglior interesse del minore. Il legislatore della riforma del 2012-2013, nel valorizzare i legami parentali attratti dalla filiazione, ha disegnato un complesso di diritti e di doveri facenti capo ai parenti, che accompagnano il percorso di crescita del minore, con l’apporto di relazioni personali e di tutele patrimoniali. Il figlio ha diritto «a mantenere rapporti significativi con i parenti» (art. 315-bis cod. civ.), a prescindere dal sussistere di legami fra i genitori (art. 337-ter cod. civ.). In particolare, i nonni sono tenuti a concorrere al mantenimento dei nipoti in via sussidiaria (art. 316-bis cod. civ.) e hanno «il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni», nel rispetto dell’«esclusivo interesse del minore» (art. 317-bis cod. civ.). A questo nucleo di previsioni riformate, che accentuano il rilievo personalistico delle relazioni familiari, si aggiungono, poi, gli ulteriori effetti che, a partire dalle relazioni parentali, si diramano nell’intero sistema giuridico e concorrono alla tutela del figlio e alla costruzione dell’identità del minore. 7.1.2.– La normativa appena richiamata è, dunque, espressione sia del principio di eguaglianza sia del principio di tutela dell’interesse del minore che – come più volte ha evidenziato questa Corte (sentenze n. 102 del 2020, n. 272, n. 76 e n. 17 del 2017, n. 205 del 2015, n. 239 del 2014) – si radica anche nell’art. 31, secondo comma, Cost., che impegna la Repubblica a proteggere «l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». Non vi è dubbio, infatti, che la riforma della disciplina della parentela e dei suoi effetti sul piano personale, prima ancora che patrimoniale, siano focalizzati proprio sulla protezione del minore e sull’esigenza che egli cresca con il sostegno di un adeguato ambiente familiare, fermo poi restando che lo stato di figlio perdura per l’intera esistenza del soggetto. La rete dei legami parentali incarna, dunque, uno dei possibili istituti che la Repubblica è chiamata a favorire al fine di proteggere, con una proiezione orizzontale dell’obiettivo costituzionale, l’interesse del minore. 8.– Chiariti i tratti della disciplina che opera quale tertium comparationis e la ratio della normativa sui legami parentali, con il suo ispirarsi a principi costituzionali, occorre ora verificare se la condizione giuridica del minore adottato in casi particolari possa essere equiparata allo status di figlio minore e se sussistano o meno ragioni che giustifichino il mancato instaurarsi di rapporti civili «tra l’adottato e i parenti dell’adottante», sì da escludere la irragionevolezza della disparità di trattamento. 8.1.– Innanzitutto, l’adozione in casi particolari riguarda i minori e si fonda sull’accertamento giudiziale che essa realizza il «preminente interesse del minore» (art. 57, comma 1, della legge n. 184 del 1983), obiettivo primario e principio ispiratore di tale istituto, come costantemente ribadito anche da questa Corte (sentenze n. 33 e 32 del 2021; n. 221 del 2019; n. 272 del 2017; n. 183 del 1994). Quanto agli effetti che l’adozione in casi particolari genera, numerosi indici legislativi depongono nel senso del riconoscimento dello stato di figlio. La condizione di figlio adottivo presenta, innanzitutto, i caratteri della tendenziale stabilità e permanenza, nonché dell’indisponibilità, come è tipico di uno status. Il legislatore, inoltre, si avvale di un lessico inequivoco nell’identificare il rapporto fra genitore e figlio; utilizza cioè un linguaggio ben diverso da quello che adopera per altri istituti anch’essi finalizzati a proteggere il minore, quali la nomina del tutore o l’affidamento temporaneo. L’adottante, ai sensi dell’art. 48, commi 1 e 2, della legge n. 184 del 1983, assume la «responsabilità genitoriale» e ha «l’obbligo di mantenere l’adottato, di istruirlo ed educarlo conformemente a quanto prescritto dall’art. 147 del codice civile», vale a dire la norma che contempla i «doveri verso i figli». Si applicano, inoltre, gli artt. 330 e seguenti cod. civ. (art. 51, comma 4, e 52, comma 4, della legge n. 184 del 1983). In sostanza, si sommano la responsabilità genitoriale e i doveri verso i figli agli altri molteplici effetti dell’adozione di matrice codicistica: l’adottante trasmette il suo cognome all’adottato, che diviene suo erede non solo legittimo, ma legittimario; se il figlio adottivo non può o non vuole ereditare dall’adottante, opera la rappresentazione a beneficio dei suoi discendenti; l’adozione determina l’automatica revoca del testamento dell’adottante; sorgono fra adottato e adottante reciproci obblighi alimentari; il figlio adottivo è ricompreso nell’«ambito della famiglia» di cui all’art. 1023 cod. civ.; i vincoli parentali rilevano ai fini dei divieti matrimoniali. E ancora, se è vero che lo status è appartenenza a una comunità, non può tacersi che il legislatore, ancor prima che la novella di riforma dell’art. 74 cod. civ. alludesse al possibile sorgere di rapporti familiari, ha palesato, con l’art. 57, comma 2, della legge n. 184 del 1983, che l’adozione di un minore non può prescindere dal suo inserimento in un contesto familiare. Nel decidere sull’adozione in casi particolari, il giudice deve verificare non soltanto «l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il minore» dell’adottante, ma anche valutare «l’ambiente familiare degli adottanti». 8.2.– Il quadro normativo richiamato palesa, dunque, che il minore adottato ha lo status di figlio e nondimeno si vede privato del riconoscimento giuridico della sua appartenenza proprio a quell’ambiente familiare, che il giudice è chiamato, per legge (art. 57, comma 2, della legge n. 184 del 1983), a valutare, al fine di deliberare in merito all’adozione. Ne consegue che, a dispetto della unificazione dello status di figlio, al solo minore adottato in casi particolari vengono negati i legami parentali con la famiglia del genitore adottivo. Irragionevolmente un profilo così rilevante per la crescita e per la stabilità di un bambino viene regolato con la disciplina di un istituto, qual è l’adozione del maggiore d’età, plasmato su esigenze prettamente patrimoniali e successorie. La norma censurata priva, in tal modo, il minore della rete di tutele personali e patrimoniali scaturenti dal riconoscimento giuridico dei legami parentali, che il legislatore della riforma della filiazione, in attuazione degli artt. 3, 30 e 31 Cost., ha voluto garantire a tutti i figli a parità di condizioni, perché tutti i minori possano crescere in un ambiente solido e protetto da vincoli familiari, a partire da quelli più vicini, con i fratelli e con i nonni. Al contempo, la disciplina censurata lede il minore nell’identità che gli deriva dall’inserimento nell’ambiente familiare del genitore adottivo e, dunque, dall’appartenenza a quella nuova rete di relazioni, che di fatto vanno a costruire stabilmente la sua identità. 8.3.– La connotazione discriminatoria della norma censurata non può, d’altro canto, reputarsi superata adducendo, quale ragione giustificativa della diversità di trattamento del minore adottato in casi particolari, la circostanza che tale adozione non recide i legami con la famiglia d’origine. In realtà, l’aggiunta dei legami familiari accomunati dallo stipite, da cui deriva il genitore adottivo, a quelli accomunati dallo stipite, da cui discende il genitore biologico, non è che la naturale conseguenza di un tipo di adozione che può pronunciarsi anche in presenza dei genitori biologici e che vede, dunque, il genitore adottivo, che esercita la responsabilità genitoriale, affiancarsi a quello biologico. Come sottolinea la più recente giurisprudenza di legittimità, «l’adozione in casi particolari ex art. 44 l. adoz. crea un vincolo di filiazione giuridica che si sovrappone a quello di sangue, non estinguendo il rapporto con la famiglia di origine» (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 22 novembre 2021, n. 35840; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 13 maggio 2020, n. 8847). Deve, allora, ritenersi che, se l’unicità dello status di figlio si spiega dove serve a evitare il contrasto fra due diverse verità (art. 253 cod. civ.), viceversa, quando è lo stesso legislatore ad affiancare al genitore biologico il genitore adottivo e a sovrapporre due vincoli di filiazione, l’unicità della famiglia si tramuta in un dogma, che tradisce il retaggio di una logica di appartenenza in via esclusiva. Sennonché l’idea per cui si possa avere una sola famiglia appare smentita proprio dalla riforma della filiazione e da come il principio di eguaglianza si è riverberato sullo status filiationis. Il figlio nato fuori dal matrimonio ha, infatti, a ben vedere, due distinte famiglie giuridicamente tra di loro non comunicanti. Occorre, poi, ulteriormente precisare che la disciplina censurata non trova alcuna giustificazione nell’assunto di evitare una distonia nell’avere una famiglia adottiva, oltre a quella d’origine. Tale motivazione è, invero, contraddetta dall’esigenza di proteggere l’identità del minore, che è quella di un bambino che vive in un nuovo nucleo familiare, anche se talora continua ad avere dei rapporti con i parenti d’origine o con lo stesso genitore biologico. L’identità stessa del bambino è connotata da questa doppia appartenenza, e disconoscere i legami che scaturiscono dal vincolo adottivo, quasi fossero compensati dai rapporti familiari di sangue, equivale a disconoscere tale identità e, dunque, non è conforme ai principi costituzionali. Del resto, proprio l’esigenza di rispettare l’identità del minore spiega la necessità di riconoscere i nuovi legami familiari, anche nel caso in cui il bambino orfano venga adottato dai suoi stessi parenti. L’adozione già oggi incide giuridicamente sul rapporto dell’adottante con il minore, sicché nel caso in cui, ad esempio, la zia adotta il nipote, al suo precedente ruolo si sovrappone quello di madre adottiva, con tutti gli effetti giuridici che ne conseguono. Non si comprende, allora, perché questo non debba coinvolgere anche gli altri componenti del nucleo familiare. Ma, soprattutto, se si ripercorre la casistica che dà accesso all’adozione in casi particolari ci si avvede che si tratta di situazioni che richiedono di potenziare le tutele e non certo di ridurle. Vengono in considerazione minori orfani o orfani con disabilità, che sono adottati da terzi quando non vi sia la disponibilità dei parenti (art. 44, comma 1, lettere a e c); minori abbandonati (e dunque senza una famiglia che si prenda cura di loro), ma non adottabili (art. 44, comma 1, lettere d); minori semi-abbandonati, con genitori e famiglie inidonei ad occuparsi adeguatamente di loro (art. 44, comma 1, lettera d); minori che vivono in un nuovo nucleo familiare (art. 44, comma 1, lettera b); minori che hanno un solo genitore (art. 44, comma 1, lettera d). Si tratta, in sostanza, di bambini o ragazzi per i quali la nuova rete di rapporti familiari non è certo un privilegio, quanto piuttosto costituisce, oltre che un consolidamento della tutela rispetto a situazioni peculiari e delicate, il doveroso riconoscimento giuridico di relazioni, che hanno una notevole incidenza sulla crescita e sulla formazione di tali minori e che non possono essere negate, se non a costo di incidere sulla loro identità. 9.– Evidenziate le ragioni del contrasto con gli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost., la norma censurata palesa una violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La Corte EDU, oltre ad aver interpretato in senso ampio il concetto di vita familiare, di cui all’art. 8 CEDU, includendovi le relazioni adottive che devono creare vincoli non diversi da quelli biologici (Corte EDU, sentenza, 28 novembre 2011, Negrepontis-Giannisis contro Grecia; sentenza 15 dicembre 2004, Plau e Puncernau contro Andorra; sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio), ha anche precisato – in una risalente e storica sentenza relativa a una disciplina, che consentiva alla madre non coniugata di creare un legame con la figlia “illegittima” solo tramite l’adozione semplice – che simile istituto determinava una violazione dell’obbligo positivo a garantire la vita familiare. Tale adozione era, infatti, inidonea a far sorgere legami parentali, che – secondo la Corte EDU – rappresentano «una parte considerevole della vita familiare» (Corte EDU sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, paragrafo 45, secondo cui «[i]n the Court’s opinion, “family life” within the meaning of Article 8 includes the ties between near relatives, for instance those between grandparents and grandchildren, since such relatives may play a considerable part in family life. “Respect” for a family life so understood implies an obligation for the State to act in a manner calculated to allow these ties to develop normally»). Al contempo, la Corte EDU ha messo in luce come la filiazione riguardi un profilo basilare dell’identità stessa del minore, il che attrae tale concetto nella nozione di vita privata e familiare (Corte EDU, sentenza 26 settembre 2014, Mennesson contro Francia, paragrafi 96-101; sentenza 26 settembre 2014, Labassee contro Francia, paragrafi 75-80). Di recente, poi, la Corte EDU è intervenuta con specifico riferimento alla posizione dei minori nati a seguito del ricorso alla tecnica della surrogazione di maternità – la fattispecie oggetto del giudizio a quo – e ha fornito, a riguardo, una duplice indicazione ermeneutica. Da un lato, ha escluso che dall’art. 8 CEDU si possa inferire un diritto al riconoscimento dei rapporti di filiazione conseguiti all’estero, facendo ricorso alla surrogazione di maternità, e ha dato atto di un ampio margine di apprezzamento spettante agli Stati membri in merito alla possibilità di riconoscere tali rapporti di filiazione (Corte EDU, sentenza 18 agosto 2021, Valdìs Fjölnisdóttir e altri contro Islanda, paragrafi 66-70 e 75; sentenza 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafi 197-199; sentenza Mennesson, paragrafo 74; sentenza Labassee, paragrafo 58). Da un altro lato, ove emerga l’esigenza di tutelare l’interesse del minore a preservare un legame che de facto si sia venuto a consolidare con il genitore d’intenzione, la Corte EDU ha sottolineato che, in tal caso, debba essere riconosciuto un rapporto di filiazione anche a tutela della stessa identità del minore (Corte EDU, sentenza Mennesson, paragrafi 80, 87 e seguenti; sentenza Labassee, paragrafi 75-80; nonché, sulle circostanze che fanno emergere l’interesse del minore da preservare, si veda anche sentenza Paradiso e Campanelli, paragrafo 148). A fronte di tale interesse, la Corte EDU ha poi precisato che gli Stati membri, pur restando liberi di individuare l’istituto più consono a garantire la tutela del minore, nel bilanciamento con le varie esigenze implicate, incontrano nondimeno un limite al loro margine di apprezzamento nella «condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (sentenza di questa Corte n. 33 del 2021, che richiama il paragrafo 51, della sentenza della Corte EDU, 16 luglio 2020, D. contro Francia; in senso conforme si vedano anche la decisione 12 dicembre 2019, C. ed E. contro Francia, paragrafo 42, nonché Corte EDU, grande camera, parere consultivo 9 aprile 2019, paragrafo 54, reso ai sensi del Protocollo n. 16, non ratificato dall’Italia). Ebbene, poiché il riconoscimento al minore di legami familiari con i parenti del genitore, in conseguenza dell’acquisizione dello stato di figlio, riveste – come si è sopra evidenziato (Corte EDU, sentenza Marckx, paragrafo 45) – un significato pregnante e rilevante nella nozione di “vita familiare” e va a comporre la stessa identità del bambino (sentenza Mennesson, paragrafi 96-101; sentenza Labassee, paragrafi 75-80), si deve ritenere che la norma censurata, ponendosi in contrasto con l’art. 8 CEDU, violi gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, primo comma, Cost. La declaratoria di illegittimità costituzionale rimuove, dunque, un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari (Corte EDU, sentenza D. contro Francia, paragrafo 51; decisione C. ed E. contro Francia, paragrafo 42; nonché il parere del 9 aprile 2019, paragrafo 54) e consente a tale istituto, la cui disciplina tiene in equilibrio molteplici istanze implicate nella complessa vicenda, di garantire una piena protezione all’interesse del minore. 10.– In conclusione, l’art. 55 della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui esclude, attraverso il rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ., l’instaurarsi di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante, vìola gli artt. 3, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU. La rimozione della disposizione censurata nel suo rinvio all’art. 300, secondo comma, cod. civ non richiede coordinamenti sistematici, poiché, con riferimento alle relazioni parentali, è l’art. 74 cod. civ., come novellato nel 2012, che svolge tale precipua funzione. La declaratoria di parziale illegittimità costituzionale non fa che rimuovere l’ostacolo legislativo che impediva di riferire il richiamo al figlio adottivo, di cui all’art. 74 cod. civ., al minore adottato in casi particolari. Tale esito consente, pertanto, l’espansione dei legami parentali tra il figlio adottivo e i familiari del genitore adottante che condividono il medesimo stipite, mantenendo – grazie alla definizione adamantina dell’art. 74 cod. civ. – la distinzione fra i parenti della linea adottiva e quelli della linea biologica. La chiarezza del meccanismo disegnato dall’art. 74 cod. civ. permette, di riflesso, di applicare, in maniera del tutto lineare, le conseguenze e gli effetti giuridici che nel sistema normativo discendono dalla sussistenza dei legami familiari, sicché potranno applicarsi al figlio adottivo tutte le norme che hanno quale presupposto l’esistenza di rapporti civili fra l’adottato e i parenti dell’adottante. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4648 del 2021, proposto da Istituto Po. S. Ch. dr. di Bu. srl in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato An. Sc., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di giustizia; contro Regione Campania, non costituita in giudizio; Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Lu. Sa., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di giustizia; Asl Salerno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati Va. Ca. ed Em. To., con domicilio digitale come da PEC nei Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno Sezione seconda, n. 01641/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis) e dell'Asl Salerno; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2022 il Cons. Pier Luigi Tomaiuoli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.- La società appellante, esercente l'attività di medicina di laboratorio e centro erogatore di prestazioni di diabetologia, con istanza del 3 settembre 2015, richiedeva l'autorizzazione, in regime privatistico, "alla realizzazione di attività specialistiche ambulatoriali e chirurgiche (classe I), con B.M.R. (biologia e medicina della riproduzione), senza dotazione di posti letto". Con nota del 16 dicembre 2015 la Commissione istituita presso l'ASL di Salerno riscontrava positivamente, in capo all'istante, la sussistenza dei requisiti strutturali ed impiantistici necessari, trasmettendo tali risultanze al Comune di (omissis) e alla Commissione regionale. A fronte del silenzio di quest'ultima amministrazione, l'appellante, in data 31 marzo 2016, sollecitava il Comune di (omissis) al rilascio dell'autorizzazione richiesta, ritenendo formatosi il silenzio assenso, ai sensi dell'art. 17-bis legge n. 241 del 1990. Con provvedimento del 3 maggio 2016, il Comune di (omissis) autorizzava l'istante alla realizzazione di quanto previsto nel progetto relativo alle attività specialistiche richieste. Una volta ottenuta l'autorizzazione, la società odierna appellante realizzava tutti i lavori strutturali ed impiantistici necessari per lo svolgimento delle attività, procedendo anche all'acquisto delle relative attrezzature, affrontando costi per alcune centinaia di migliaia di euro. L'ASL di Salerno, con successiva nota del 10 gennaio 2017, comunicava, tuttavia, che la Commissione regionale, nella seduta del 20 dicembre 2016, aveva ritenuto non rispettato l'iter procedurale previsto dai decreti di giunta della Regione Campania regolanti la materia. Questa nota veniva impugnata dall'appellante innanzi al TAR Campania, Salerno (r.g. 420 del 2017). Indi, la Commissione regionale, con nota del 4 aprile 2017, esprimeva parere non favorevole all'autorizzazione alla realizzazione della attività specialistiche, poiché il fabbisogno di P.M.A. di 1° livello sarebbe già stato soddisfatto. Avverso tale atto la ricorrente proponeva un secondo ricorso innanzi al Tar Campania, Salerno (r.g. 2001/18). L'odierna appellante, non essendo comunque venuto meno il provvedimento comunale di autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per lo svolgimento delle attività specialistiche menzionate, una volta completate queste opere, in data 6 novembre 2018, richiedeva al Comune di (omissis) il rilascio dell'autorizzazione all'esercizio - sempre in regime privatistico - di quelle attività . Sollecitato alla definizione della pratica, il Comune, in data 29 agosto 2019, rigettava la domanda, in ragione del parere negativo dell'ASL dell'11 luglio 2019, incentrato, a sua volta, sul precedente parere negativo della Commissione regionale all'autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per le attività richieste. Anche tali ultimi atti venivano impugnati innanzi al TAR Campania, Salerno (r.g. n. 1413 del 2019). 2.- Con i tre ricorsi suddetti l'odierna appellante formulava diverse censure, con le quali faceva valere le seguenti circostanze ed argomentazioni: 1) essa, con provvedimento del 3 maggio 2016, era stata autorizzata alla realizzazione delle opere necessarie allo svolgimento dell'attività specialistiche oggetto di richiesta, sicché tale atto non poteva essere disapplicato, ma avrebbe dovuto essere, se del caso, impugnato dall'Asl o dalla Regione; 2) l'assenso delle autorità sanitarie e regionali doveva comunque ritenersi acquisito per silentium, ai sensi dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990; 3) in ogni caso, la delibera di Giunta regionale, cui aveva fatto riferimento la Commissione nel suo parere negativo, non solo era successiva all'istanza della ricorrente, ma riguardava, in via esclusiva, la procreazione medicalmente assistita, che costituiva solo una delle attività specialistiche oggetto dell'istanza; 4) trattandosi di attività da svolgere in regime privatistico, il rilascio dell'autorizzazione sarebbe stato doveroso, a pena di violazione degli artt. 3 e 41 Cost. e dei principi del diritto dell'Unione europea a tutela della libera concorrenza; 5) una volta ottenuta l'autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie per lo svolgimento delle attività specialistiche, la successiva autorizzazione all'esercizio di tali attività avrebbe potuto essere denegata solo per ragioni che riguardavano l'esistenza di condizioni tecnico-strutturali; né gli atti impugnati avrebbero potuto essere considerati come atti di autotutela, non ricorrendo alcuno degli elementi voluti dalla legge per l'emanazione di atti di secondo grado. In tutti i giudizi si costituiva l'ASL, instando per il rigetto del ricorso avversario, mentre il Comune di (omissis) si costituiva nel solo giudizio iscritto al n. 1413/19 R.G., concludendo anch'esso per il rigetto del ricorso; la Regione Campania, per contro, non si costituiva in nessuno dei tre giudizi. Con la sentenza impugnata il TAR Campania, Salerno, riuniti i ricorsi, li rigettava nel merito, affermando che nel caso di specie, non trattandosi di attività co-decisoria ma consultiva, non poteva operare il meccanismo del silenzio-assenso di cui all'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e che non potevano essere considerati violati i principi costituzionali e comunitari invocati, dal momento che anche l'esercizio di attività mediche private è legittimamente sottoposto ad un regime autorizzatorio; compensava, altresì, le spese di lite. 3.- Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello la ricorrente in primo grado, lamentandone, in via principale, l'erroneità, per non avere considerato che, come dedotto in tutti i ricorsi, il provvedimento di autorizzazione alla realizzazione delle opere necessarie alle attività mediche specialistiche era già stato ottenuto, sicché la successiva istanza di autorizzazione all'esercizio di quelle attività non poteva basarsi sulla presunta illegittimità del primo provvedimento, per fare valere la quale esso avrebbe dovuto essere previamente rimosso, in autotutela o in via giurisdizionale, su iniziativa delle altre amministrazioni interessate (l'ASL e la Regione). In via subordinata, l'appellante ha spiegato ulteriori motivi di appello, lamentando: 1) la violazione dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, opererebbe per tutti gli assensi, concerti e nulla sosta "comunque denominati"; 2) la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, perché il primo giudice non si sarebbe pronunciato sui motivi di ricorso con cui si evidenziava che la delibera di Giunta sull'assenza di fabbisogno regionale, richiamata dagli atti impugnati, riguardava solo la procreazione medicalmente assistita e non le altre attività specialistiche pure oggetto di istanza, e perché, in ogni caso, la valutazione sul fabbisogno avrebbe dovuto essere condotta in concreto e previa adeguata istruttoria; 3) la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di libera concorrenza, male interpretati dal primo giudice, non potendo il limite del fabbisogno regionale impedire l'accesso al mercato ai soggetti che offrono privatamente migliori servizi, "restringendo così le possibilità di scelta del presidio di cura da parte del cittadino che abbia deciso di curarsi a proprie spese senza aggravio per l'erario"; 4) l'omesso esame dei motivi di ricorso con cui si faceva valere l'illegittima considerazione, quale motivo ostativo al diniego, della saturazione del fabbisogno regionale, estranea al procedimento in esame; 5) l'omessa pronuncia sul motivo di ricorso con cui si era dedotta la violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, non avendo l'amministrazione preso specifica posizione sulla memoria procedimentale dell'appellante. Si sono costituiti l'ASL e il Comune di (omissis), aderendo alle tesi del primo giudice e concludendo per il rigetto dell'appello. Tutte le parti costituite hanno depositato memorie nel corso del giudizio e all'udienza del 10 febbraio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.- Il primo motivo di appello, proposto in via principale, è fondato. 2.- Come correttamente osservato dall'appellante, la delibera di Giunta regionale n. 7301 del 31 dicembre 2001, che regola la materia per cui è causa, in conformità all'art. 8-ter del d.lgs. n. 229 del 1999, distingue logicamente e cronologicamente i due procedimenti di autorizzazione alla realizzazione di una struttura sanitaria, anche in ampliamento, e di successiva autorizzazione all'esercizio di quella struttura, entrambe di competenza comunale, con il coinvolgimento dell'ASL (in entrambi i procedimenti) e della Regione Campania (nel primo procedimento). Più in particolare, la prima autorizzazione è presupposto della seconda; nella prima è previsto il parere di una Commissione ASL, che confluisce nel parere di un Commissione regionale e che, nei termini procedimentali ivi indicati, accerta la compatibilità o meno del progetto rispetto al fabbisogno regionale (punto 1.2.); nella seconda, invece, è prevista l'acquisizione di un parere dell'ASL limitato al rispetto dei requisiti igienico-sanitari, di sicurezza sul lavoro e di quelli strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi (punti 2 e 2.1). Nel secondo procedimento, dunque, non è prevista alcuna valutazione della compatibilità con il fabbisogno regionale, e ciò per l'ovvia ragione che tale valutazione deve essere espressa nel primo procedimento, il quale, se esitato positivamente, autorizza il privato alla realizzazione di opere, che spesso presuppongono, come nel caso di specie, costosi investimenti per la realizzazione delle strutture e l'acquisto dei macchinari. Nel secondo procedimento, che può darsi solo una volta ottenuta l'autorizzazione alla realizzazione della struttura, l'unica verifica rimessa all'amministrazione è allora quella del rispetto dei menzionati requisiti igienico-sanitari, tecnici ed organizzativi. Nel caso di specie, come si è detto in fatto, l'appellante, con provvedimento del 3 maggio 2016, era stata autorizzata alla realizzazione delle opere necessarie allo svolgimento dell'attività specialistiche oggetto di richiesta, avendo il Comune ritenuto acquisito per silentium, ai sensi dell'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, il parere favorevole della Commissione regionale. Per quanto sia corretta l'osservazione del primo giudice secondo cui l'art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 si applichi solo alle attività co-decisorie e non a quelle consultive (tra le tante, C.d.S., sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 445; C.d.S., sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559; C.d.S., sez. III, 20 giugno 2018, n. 3783; C.d.S., Commissione speciale, 13 luglio 2016, n. 1640), resta il fatto che un atto amministrativo illegittimo di natura non regolamentare può essere rimosso in autotutela, sussistendo i presupposti di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, ovvero annullato in giudizio a seguito di impugnazione nel termine decadenziale, ma non può essere disapplicato (C.d.S., sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1439; C.d.S., sez. V, 17 febbraio 2010, n. 934), a pena di vanificazione della fondamentale esigenza di consolidamento dell'attività amministrativa, esigenza preordinata alla stabilità della regolazione sia dell'interesse pubblico affidato all'amministrazione sia degli altri interessi pubblici e privati coinvolti nell'agere amministrativo. La compatibilità delle attività con il fabbisogno regionale, dunque, non poteva più essere messa in discussione nel successivo procedimento di autorizzazione all'esercizio delle attività, se non previa rimozione del primo provvedimento, nelle forme e nei limiti previsti dall'ordinamento. 3.- Avendo la parte appellante proposto gli altri motivi di gravame solo in via subordinata, essi non devono essere esaminati, in omaggio al principio dispositivo che sorregge anche il processo amministrativo (C.d.S., Adunanza plenaria, 27 aprile 2015, n. 5). 4.- Conclusivamente, l'appello deve essere accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza gravata, gli atti impugnati con i ricorsi in primo grado devono essere annullati. 5.- Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza delle amministrazioni resistenti e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione terza, definitivamente pronunciando, sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, annulla gli atti impugnati con i ricorsi in primo grado. Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, a rifondere alla parte ricorrente le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida in complessive euro 6.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022, con l'intervento dei magistrati: Giulio Veltri - Presidente FF Giovanni Pescatore - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE FAMIGLIA riunita in camera di consiglio nelle persone dei Signori Magistrati: Dott. Enrico Della Fina - Presidente rel. Dott.ssa Carmela Mascarello - Consigliere Dott.ssa Carla Beltramino - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Letto il ricorso in appello avverso la sentenza n. 3830/2018 del Tribunale di Torino, emessa in data 18 luglio 2018, proposto da AVV. (...), in qualità di curatore speciale del minore (...), elettivamente domiciliata presso il suo Studio in Torino, via (...) APPELLANTE contro (...), elettivamente domiciliato in Torino, via Luigi Cibrario 12, presso lo Studio degli avv. ti Vittorio CAMBONI e Arnaldo NARDUCCI, che lo rappresentano e difendono in forza di procura in atti APPELLATO e in contraddittorio con (...), elettivamente domiciliata in Torino, via (...), presso lo Studio degli avv.ti Ro.BI. e La.DU., che la rappresentano e difendono in forza di procura in atti APPELLATA nonché con il PROCURATORE GENERALE della Repubblica di Torino, in persona del Sostituto dott.ssa N.Q. INTERVENUTO IN CAUSA MOTIVAZIONE Con ricorso notificato in data 06.02.2015 il sig. (...) conveniva in giudizio il minore (...), rappresentato dalla madre, sig.ra (...), esponendo di aver avuto una relazione sentimentale con la sig.ra (...), durata dal marzo del 2008 al giugno del 2012, e di aver riconosciuto il minore con atto pubblico di riconoscimento di figlio naturale in data 30.07.2008, "pur nella consapevolezza che il bambino non fosse stato concepito nel corso della suddetta unione". Dichiarava inoltre che l'interruzione della relazione con la sig.ra faceva venir meno i presupposti del riconoscimento. Sulla base di tali premesse, il (...) chiedeva al Tribunale di Torino di dichiarare nullo per difetto di veridicità e, per l'effetto, di revocare il riconoscimento quale figlio naturale del minore. La (...) si costituiva tardivamente, contestava i fatti così come esposti dal ricorrente ed eccepiva la nullità del procedimento per mancata nomina di un curatore speciale. Con ordinanza del 29.01.2016 veniva, pertanto, nominata curatore del minore l'avv. (...). Con atto di citazione notificato in data 11.02.2016 il (...) conveniva in giudizio il curatore speciale, avv. (...), il quale, nel merito, in via principale, chiedeva di dichiarare che il sig. (...) non è legittimato a proporre l'azione ex. art. 263 c.c. e per l'effetto respingere la domanda; nel merito e in via subordinata, domandava di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; in via riconvenzionale di dichiarare che il minore ha diritto a mantenere il cognome (...); accertare e per l'effetto dichiarare l'illiceità del comportamento del sig. (...) e conseguentemente condannare quest'ultimo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nella misura di Euro 250000 o in quella maggiore o minore accertanda in corso di causa, da determinarsi in via equitativa. Preliminarmente il Collegio investito della decisione affrontava la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che non fosse "non manifestamente infondata e rilevante"; disponeva inoltre una CTU genetica volta ad accertare il rapporto di filiazione tra il minore e il sig. N.. In data 27.05.2018 il CTU depositava la relazione attestante l'esclusione della paternità biologica del (...) nei confronti del minore. Con sentenza del 18.07.2018 il Tribunale di Torino rigettava la domanda proposta dal curatore di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; dichiarava che il minore non è figlio di (...); disponeva che il cognome "N." del minore venisse mantenuto; ordinava all'Ufficiale di Stato Civile di Torino di provvedere alla trascrizione della sentenza nei registri di nascita del Comune di Torino; compensava le spese di lite e le spese di CTU. Avverso tale sentenza propone appello il Curatore speciale del minore. Ritiene parte appellante che la sentenza di primo grado sia viziata, poiché ha omesso di pronunciarsi su alcune domande, in particolare sulla richiesta di dichiarare il (...) non legittimato a proporre l'azione ex. art. 263 c.c., nonché sulla domanda in via riconvenzionale subordinata di risarcimento del danno; contesta inoltre la sentenza per non aver, a suo dire, preso in considerazione l'interesse del minore nella sua ampia esplicazione derivante dalle Convenzioni internazionali e dalla giurisprudenza costituzionale, anche in relazione alla questione di legittimità costituzionale proposta; da ultimo lamenta un vizio nell'iter argomentativo impiegato per il rigetto della questione di legittimità costituzionale. Con riguardo al primo motivo di appello, l'avv. (...) ritiene insufficiente la motivazione della sentenza in merito alla legittimazione attiva del sig. (...), poiché la questione in esame è stata assorbita a quella inerente l'esclusione dei profili di illegittimità costituzionale. Ribadisce inoltre che la linea evolutiva giurisprudenziale è pervenuta a considerare l'interesse del minore a conservare il proprio status prevalente rispetto alla concezione assoluta del favor veritatis nei rapporti di filiazione, ed evidenzia che l'interesse dello Stato alla verità biologica non è assoluto, come si evince dalla normativa in materia di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall'introduzione del termine quinquennale per l'esercizio dell'azione di impugnazione. Nel prosieguo sottolinea come in ipotesi di riconoscimenti consapevolmente non veritieri il diritto del padre alla verità biologica non possa essere tutelato, avendo egli consapevolmente determinato il falso rapporto di filiazione, mentre nel caso di specie il minore si è relazionato con il sig. (...) interiorizzando il rapporto di parentela al punto da chiamarlo "papà". Parte appellante insiste allora sull'importanza del mantenimento del rapporto di filiazione, dalla cui perdita discenderebbe anche la perdita dell'identità stessa del minore, nonché un grave danno psicologico, sociale ed economico per (...), che dall'età di 2 anni considera il (...) suo padre. Per ciò che concerne la questione sulla legittimità costituzionale, l'appellante contesta la decisione del giudice di prime cure laddove ha escluso profili di irragionevolezza del diverso trattamento dell'ipotesi riconducibile all'art. 263, rispetto all'ipotesi della procreazione medicalmente assistita. Sottolinea infatti come le due situazioni siano accomunate dalla consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione dichiarato e la relazione biologica, e quindi coincidano per ciò che riguarda l'elemento soggettivo dell'autore del riconoscimento e la sua assunzione di responsabilità, indipendentemente dal momento, ex post o ex ante rispetto alla nascita, in cui questa avviene. Sulla domanda subordinata di risarcimento del danno, l'avv. (...) sottolinea che in caso di conferma della sentenza di primo grado il minore subirebbe la perdita del sostegno economico paterno. Per questi motivi l'appellante chiede, in riforma della sentenza n. 3830/2018 emessa dal Tribunale di Torino in data 18 luglio 2018, nel merito in via principale di dichiarare che il sig. (...) non è legittimato a proporre l'azione ex art. 263 c.c., e per l'effetto respingere la domanda; nel merito in via subordinata di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., con riferimento all'art. 9 della L. n. 40 del 2004, perché in contrasto con gli artt. 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsità non è legittimato a promuoverne l'azione; nel merito in via di ulteriore subordine, nella denegata ipotesi di conferma della sentenza, accertare e per l'effetto dichiarare l'illiceità del comportamento del sig. (...) e conseguentemente condannare quest'ultimo al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nella misura di Euro 250000 o in quella maggiore o minore accertanda in corso di causa, da determinarsi in via equitativa; in ogni caso respingere ogni avversa domanda; con vittoria di spese e onorari di lite, per entrambi i gradi di giudizio, oltre rimborso forfettario, spese generali del 15%, CPA e IVA come per legge. Si costituisce in giudizio (...), madre del minore, dolendosi della decisione del giudice di prima istanza e richiamando le difese di primo grado. In particolare l'appellata contesta il mancato accoglimento delle istanze istruttorie formulate in primo grado, che dimostrerebbero la scorrettezza del comportamento del (...), il quale per 7 anni si sarebbe comportato come un padre per (...). Inoltre il sig. (...) avrebbe notificato l'atto di citazione alla sig.ra (...) all'indirizzo di via P. 105, a T., pur avendola da qui fatta allontanare fin dal 31.12.2014 e quindi sapendo che non avrebbe potuto averne conoscenza. La (...) lamenta altresì la mancanza di motivazione circa il rigetto delle istanze istruttorie e sostiene che il Tribunale avrebbe dimostrato di ignorare l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale favorevole all'abbandono della concezione assoluta di favor veritatis nei rapporti di filiazione. Parte appellata rileva poi che, nel caso di conferma della sentenza di primo grado, il minore perderebbe il diritto alla propria identità e alla propria famiglia, nonché la cittadinanza italiana, e quindi il diritto di continuare a vivere nell'ambiente e nel contesto sociale in cui è cresciuto. Sottolinea infine che (...) intrattiene tuttora con il (...) frequenti rapporti telefonici, e che la prosecuzione del rapporto di filiazione deve essere mantenuta nel suo interesse. Per questi motivi parte appellata chiede, in totale riforma della sentenza di primo grado, previa ammissione delle occorrende e dedotte prove, di dichiarare che (...) non è legittimato a proporre l'azione di cui all'art. 263 e per l'effetto respingere la domanda da lui proposta; con il favore degli onorari e delle spese. Si costituisce in giudizio (...), in qualità di parte appellata. Ritiene condivisibili le valutazioni dei fatti e le considerazioni in diritto riportate nella sentenza impugnata, così come suffragate dalle conclusioni del CTU e ribadisce che la sig.ra (...) avrebbe approfittato delle fragilità psicologiche del (...), inducendolo a riconoscere il minore senza pensare alla gravità e alle conseguenze di tale atto, ma bensì mosso dall'affetto per il bambino e dal bisogno di consolidare la relazione sentimentale appena cominciata. Ritiene inoltre parte appellata che alcun dolo possa essere riconosciuto per aver esercitato un proprio diritto, tale da giustificare la richiesta di risarcimento del danno posta in essere dalla curatela. Richiama infine i capitoli di prova già dedotti in primo grado e chiede in via principale e nel merito di respingere l'appello e per l'effetto confermare integralmente la sentenza del Tribunale di Torino n. 3830/2018 del 18.07.2018; in via istruttoria ammettere le prove già dedotte nel giudizio di primo grado come richiamate. All'udienza del 04.10.2019 il Consigliere relatore dott.ssa Melilli dichiarava che avrebbe presentato istanza di astensione, essendosi occupata del caso già in primo grado. In data 15.11.2019 le parti concordavano sulla necessità di fissare udienza di precisazione delle conclusioni in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale su questione attinente ad analogo procedimento sollevata da questa stessa Corte. Con Provv. del 26 maggio 2020 questa Corte disponeva la trattazione scritta dell'udienza già fissata per il 19.06.2020, assegnando alle parti termine di tre giorni anteriori all'udienza per il deposito di note scritte contenenti la precisazione delle proprie conclusioni. In data 19.06.2020 si dava atto che tutte le parti avevano depositato note scritte di trattazione e la Corte tratteneva una prima volta la causa a decisione. Con ordinanza del 23/10/2020 la Corte ammetteva parte della prova orale per testi dedotta dall'appellata D.J., e la prova veniva pertanto assunta dal relatore delegato, con i ritardi dovuti alla situazione pandemica insorta. Nuovamente assegnata e trattenuta a decisione, la causa veniva rimessa a nuova udienza di precisazione delle conclusioni, poiché del collegio che aveva trattenuto la causa a decisione risultava far parte la cons. (...), già in precedenza astenutasi. Nuovamente precisate le conclusioni, la causa è stata finalmente trattenuta a decisione. La decisione della Corte non può prescindere dall'intervenuto pronunciamento della Corte costituzionale con sentenza n. 127/2020, resa fra l'altro proprio su rimessione della medesima questione, in causa diversa, da questa stessa Corte d'appello. Investita della questione della eventuale illegittimità costituzionale dell'art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che a tale riconoscimento abbia proceduto nella consapevolezza della sua non veridicità, la Corte costituzionale ha dichiarato la questione non fondata. Ora, i rilievi di questa Corte si fondavano sulla diversa previsione normativa nel caso di riconoscimento di figlio nato da fecondazione eterologa, quindi con seme consapevolmente non di provenienza dell'autore del riconoscimento, e dunque sul contrasto con l'art. 3 Cost.; inoltre, la norma sarebbe stata irragionevole nel consentire di sacrificare l'interesse del minore per la mera riconsiderazione, da parte dell'autore del riconoscimento, dei propri interessi, e dunque contrastante con l'art. 2 Cost. Come detto, la Corte costituzionale ha rigettato la questione, peraltro affermando che essa non è fondata, sotto il secondo profilo, perché "la necessità di valutare l'interesse alla conservazione della condizione identitaria acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel giudizio di cui all'art. 263 cod. civ. ed è immanente ad esso". Peraltro, ha anche subito dopo affermato che "si tratta ... di una valutazione comparativa che attiene ai presupposti per l'accoglimento della domanda proposta ai sensi dell'art. 263 cod. civ. e non alla legittimazione dell'autore del riconoscimento inveridico". Una prima conseguenza, evidente, di tali affermazioni è che l'appello non può essere accolto laddove consiste nella richiesta di dichiarare il (...) privo di legittimazione all'azione di disconoscimento proposta. Una seconda conseguenza, al contrario, è che la domanda dev'essere respinta, con riforma della sentenza appellata, senza che a ciò osti il fatto che la domanda riguardasse letteralmente la carenza di legittimazione attiva, posto che è evidente come tale richiesta coincida con quella di rigetto della domanda proposta, a cui equivale negli effetti. Dall'istruttoria esperita, e dalla stessa considerazione cronologica degli eventi, in assenza di qualsivoglia nota caratteristica della persona del (...) che deponga in senso contrario, risulta evidente che il minore (...) ha interesse contrario all'accoglimento della domanda di disconoscimento del (...), e che questo interesse è prevalente con quello, del (...) e della collettività, a far prevalere la verità biologica delle relazioni di parentela sull'apparenza creatasi a seguito del riconoscimento non veridico. Tale conclusione discende sia dalla considerazione in astratto dell'interesse del minore, giacché lo status di figlio legittimo del (...), acquisito per effetto del riconoscimento, comporta una serie di conseguenze positive innegabili, quali la conservazione del nome con il quale è stato accolto nella scuola ed in genere nella vita sociale, la cittadinanza italiana iure sanguinis, il diritto al mantenimento da parte del genitore; sia dalla stessa considerazione in concreto, poiché dalle prove assunte, testimoniali e documentali, appare innegabile che il minore, proprio nell'età in cui si è formata la propria coscienza di sé ed è stata acquisita la coscienza e la conoscenza dei propri riferimenti adulti in quanto genitori, ha conosciuto il (...) quale padre e come tale è stato trattato, almeno fra i due e i sette anni di età: ricevendone così un indelebile impronta, tale da condizionarne tutta la vita futura e la stessa percezione di sé, quale figlio di (...). A fronte di una tale, innegabile situazione, è chiaro che l'interesse pubblico alla verità del riconoscimento, ed alla derivazione da tale verità degli effetti di pubblico rilievo, come la cittadinanza, vengono meno. Si potrebbe discutere, e scendere ancor più in profondità nella comparazione, qualora il falso riconoscimento fosse stato compiuto non, come invece è avvenuto nel caso di specie, per la naturale generosità derivante dalla recente instaurazione di un legame affettivo fra l'autore del riconoscimento e la madre del minore, e seguito poi dall'effettivo rapportarsi del "padre" con il minore in conformità al legame parentale così instauratosi, ma all'esclusivo scopo di far ottenere, al minore ed anche al padre, vantaggi pratici sotto il profilo dello status e delle sue conseguenze, senza alcuna conseguenza sul piano affettivo e della consuetudine di vita: ma, qualora al riconoscimento siano seguite tutte le implicazioni, anche affettive, del rapporto padre-figlio è chiaro che l'interesse alla veridicità del riconoscimento è senz'altro sottovalente rispetto a quello del minore a mantenere intatte le relazioni parentali che ne hanno caratterizzato i primi anni di vita e la percezione di sé, anche dal punto di vista del nome col quale è conosciuto ed accolto nella comunità. In tale quadro, il sottolineare, come fa l'appellato, una propria condizione di fragilità psicologica al momento del riconoscimento non veridico, è del tutto irrilevante, non potendo considerazioni attinenti a tale situazione incidere sull'interesse del minore, ovviamente del tutto incolpevole. La sentenza di primo grado non ha applicato tali principi e dev'essere pertanto integralmente riformata, con rigetto della domanda avanzata dal (...). Le istanze istruttorie ulteriori, avanzate dalle parti, sono ultronee, inammissibili poiché del tutto valutative, e anche genericamente richiamate, e debbono pertanto essere respinte. L'accoglimento dell'appello proposto in via principale esclude l'accoglibilità della domanda di risarcimento del danno in favore del minore, in quanto formulata dall'appellante principale soltanto in via subordinata, ovvero per il caso di mancato accoglimento dell'appello principale, circostanza che, per quanto sopra detto, non si verifica. Le spese dei due gradi del giudizio, liquidate in dispositivo secondo la tariffa contenziosa, fascia indeterminabile bassa, importo medio, seguono la soccombenza e, in virtù dell'ammissione del minore e della madre al patrocinio a spese dello Stato, dev'essere effettuata in favore dell'Erario. Le spese di CTU già liquidate in primo grado, in applicazione del medesimo criterio, debbono essere integralmente poste a carico dell'appellante. P.Q.M. La Corte d'appello di Torino, definitivamente decidendo nel contraddittorio delle parti e disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione; in riforma dell'impugnata sentenza, rigetta la richiesta di declaratoria di nullità, e di revoca, del riconoscimento di (...), effettuato da (...); condanna (...) a rifondere a (...), come sopra rappresentato, e per esso allo Stato, le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida per il primo grado in Euro 4.487,00 e per il secondo grado in Euro 9.515,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, oltre CPA ed IVA come per legge; condanna (...) a rifondere a (...), e per essa allo Stato, le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida per il primo grado in Euro 7.254,00 e per il secondo grado in Euro 5.338,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, oltre CPA ed IVA come per legge; pone a carico dell'appellante (...) le spese di CTU come liquidate in primo grado. Così deciso in Torino il 14 gennaio 2022. Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2022.

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