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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIRILLO Ettore - Presidente Dott. NAPOLITANO Lucio - Consigliere Dott. MACAGNO Gian Paolo - Consigliere Dott. CRIVELLI Alberto - Consigliere Dott. CHIECA Danilo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27394/2016 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis; - ricorrente - contro Sp.Ja., rappresentato e difeso dall'avv. Ri.Sa. (domicilio digitale: (Omissis)) e dall'avv. Se.Pa.; - controricorrente - avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL PIEMONTE n. 558/1/16 depositata il 28 aprile 2016; udita la relazione svolta nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 dal Consigliere Danilo CHIECA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Rosa Maria Dell'Erba, che ha concluso per l'accoglimento de ricorso; uditi per la ricorrente l'avvocato generale dello Stato Maria Francesca Severi e per il controricorrente gli avv.ti Se.Pa. e Cl.Lu., per delega dell'avv. Ri.Sa. FATTI DI CAUSA La Direzione Provinciale II di T dell'Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di Sp.Ja. un avviso di accertamento con il quale, in relazione all'anno 2008, recuperava a tassazione ai fini dell'IRPEF un reddito imponibile di 43.316,60 euro, determinato sinteticamente ex art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in base al c.d. "redditometro", irrogando nei suoi confronti le sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale. Lo Sp.Ja. impugnava il predetto avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di T, deducendo: - di essere ministro di culto dell'(...) ("(...)", "(...)"), organizzazione religiosa avente la propria sede centrale negli Stati Uniti d'America; - di svolgere, inoltre, attività missionaria per conto della predetta associazione insieme alla di lui moglie Do.Lo.; - che essi coniugi avevano la doppia cittadinanza italiana e statunitense ed erano residenti in ambedue gli Stati; - che nell'anno 2008 avevano percepito dall'(...) somme di denaro a titolo di rimborso spese, da considerarsi alla stregua di "liberalità indiretto, per un ammontare complessivo di 68.874 dollari; - che tali redditi erano già stati dichiarati e tassati negli USA, sicchè non potevano essere soggetti a imposizione anche in Italia, in quanto esenti. La Commissione Provinciale adìta, con sentenza n. 93/6/13 del 7 maggio 2013, accoglieva il ricorso del contribuente, ritenendo illegittimo l'utilizzo da parte dell'Amministrazione Finanziaria del metodo di accertamento sintetico basato sul "redditometro" siccome caratterizzato dal riferimento a "indici e coefficienti astrattamente applicati, previsti da tabelle preconfezionate, per far scaturire un presunto valore di reddito non supportato da ragionevolezza e duttilità". La decisione veniva appellata dall'Agenzia delle Entrate davanti alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, la quale, con sentenza n. 558/1/16 del 28 aprile 2016, rigettava il gravame della parte erariale, confermando con diversa motivazione la pronuncia del primo giudice. Rilevava il collegio di secondo grado: - che, ai sensi dell'art. 50 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), i redditi percepiti dal ministro di culto di una delle varie confessioni religiose riconosciute sono assimilati a quelli di lavoro dipendente, e come tali tassabili; - che, tuttavia, l'art. 163 dello stesso testo unico stabilisce il divieto della doppia imposizione, in virtù del quale la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza del medesimo presupposto; - che a livello internazionale il divieto in parola è stato sancito da convenzioni bilaterali stipulate dallo Stato italiano con diversi Paesi esteri, fra i quali anche gli USA; - che dette convenzioni, una volta ratificate e rese esecutive in Italia, come nel caso di specie, prevalgono sulla normativa interna; - che, conseguentemente, "l'accertamento" eseguito nei confronti dello Sp.Ja. "risultava ab origine illegittimo"; - che nel corso del giudizio d'appello, tramite il suo nuovo difensore, il contribuente aveva "comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". Contro questa sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi. Lo Sp.Ja. ha resistito con controricorso. La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 20 marzo 2024. Nel termine di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., viene denunciata la nullità dell'impugnata pronuncia per violazione e falsa applicazione dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell'art. 115 c.p.c. 1.1 Si sostiene che la decisione assunta dalla CTR piemontese risulterebbe corredata di una motivazione solo apparente, avendo il giudice tributario di secondo grado escluso la tassabilità in Italia del reddito prodotto dallo Sp.Ja. negli Stati Uniti d'America nell'anno 2008 sulla scorta di affermazioni confuse, anapodittiche e in taluni punti irriducibilmente contraddittorie. 1.2 Dalla lettura della sentenza non si comprenderebbero, infatti, le ragioni per le quali le somme erogate in quell'anno dall'(...) in favore dell'odierno controricorrente non potrebbero essere soggette a imposizione. 2. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono lamentate la violazione e la falsa applicazione degli art. 2, 23, 50, 163 e 165 del TUIR, degli art. 4 e 15 della Convenzione bilaterale Italia/USA contro le doppie imposizioni firmata il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. 2.1 Si deduce che, in virtù delle menzionate norme del TUIR, le somme in questione dovevano ritenersi imponibili esclusivamente in Italia, essendo state percepite da un contribuente avente la cittadinanza italiana e residente nel territorio dello Stato e risultando in contrasto con le concordi allegazioni delle parti, e comunque sfornito di supporto probatorio, l'asserto della CTR secondo cui lo Sp.Ja. sarebbe stato residente neqli USA fino all'ottobre 2007. 2.2 Fermo quanto precede, viene altresì obiettato che dalla sentenza gravata non si evincerebbero in alcun modo gli elementi da cui il collegio di secondo grado ha desunto che il reddito in discorso fosse stato percepito, dichiarato e tassato negli USA, né tantomeno il motivo per il quale ha ritenuto non imponibile tale reddito in Italia, alla stregua della menzionata convenzione bilaterale. 3. Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono prospettate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 3.1 Si osserva che, anche a voler considerare redditi esenti le somme erogate allo Sp.Ja. dall'(...) nell'anno 2008, in ogni caso la CTR avrebbe dovuto verificare se tali redditi risultassero sufficienti a "coprire" quello sinteticamente accertato dall'Ufficio. 4. Con il quarto motivo, riconducibile al paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992. 4.1 Viene rimproverato alla CTR di aver omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva argomentato che le somme corrisposte dall'(...) allo Sp.Ja. "erano al più redditi esenti che non coprivano integralmente il reddito sinteticamente accertato nei confronti di un soggetto che non aveva dichiarato - per l'anno in accertamento - reddito". 4.2 Si soggiunge che, in ogni caso, la sentenza impugnata è da ritenersi nulla per carenza assoluta di motivazione, non avendo il giudice di secondo grado minimamente spiegato donde si ricaverebbe che il contribuente, tramite il suo nuovo difensore, sarebbe riuscito a dimostrare "la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e cola tassate". 5. Con il quinto motivo, inquadrato nello schema dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., vengono nuovamente dedotte la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 5.1 Si imputa alla CTR di aver erroneamente statuito, in adesione a un indirizzo giurisprudenziale di legittimità da considerarsi "assolutamente isolato e sconfessato da altre pronunce della... Corte", che per superare la presunzione di capacità contributiva ricollegata al "redditometro" sia sufficiente offrire la prova della disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile, e non anche dimostrare che le spese per incrementi patrimoniali ritenute indicative di capacità contributiva siano state sostenute proprio con quei redditi. 6. Il primo e il quarto motivo possono essere esaminati insieme, perché intimamente connessi, prospettando entrambi un vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992. 6.1 Essi sono fondati e vanno, pertanto, accolti. 6.2 Giova premettere che, a sèguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell'inosservanza del c.d. "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nelle ipotesi - che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - di "mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza della mera "insufficienza" o "contraddittorietà" della motivazione; con la precisazione che l'anomalia motivazionale deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis, Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014). 6.3 Ciò posto, va osservato che, nel caso di specie, la CTR piemontese ha così giustificato la decisione assunta: (1)le somme erogate nell'anno 2008 allo Sp.Ja. dall'(...), organizzazione religiosa avente sede negli USA, pur costituendo redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, giusta il disposto dell'art. 50 del TUIR, non erano tuttavia tassabili in Italia in forza del divieto della doppia imposizione sancito nell'àmbito dell'ordinamento giuridico interno dall'art. 163 del medesimo testo unico e a livello internazionale dalla Convenzione stipulata dal nostro Stato con gli USA il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985; (2)per tale ragione, "l'accertamento" fiscale per cui è causa "risultava ab origine illegittimo"; (3)"quanto alla ricostruzione dei conteggi del redditometro", nel corso del giudizio d'appello il contribuente aveva efficacemente "confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 6.4 Le surriportate espressioni risultano meramente assertive e anapodittiche, sì da determinare la nullità della sentenza per grave anomalia motivazionale, vizio tuttora denunciabile in sede di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. 6.5 Anzitutto, nell'impugnata pronuncia non viene affatto spiegato per quale motivo, alla stregua della normativa convenzionale di riferimento, i redditi costituiti dalle erogazioni fatte dall'(...) in favore dello Sp.Ja. sotto forma di "rimborsi di spese" - che la stessa CTR reputa assimilabili a quelli di lavoro dipendente - non fossero imponibili in Italia, bensì unicamente negli USA. 6.5.1 Al riguardo, occorre tener presente che l'art. 15 della menzionata Convenzione Italia/USA del 17 aprile 1984, rubricato "Lavoro subordinato", così recita: "1. Salve le disposizioni degli articoli 16, (Compensi e gettoni di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell'altro Stato contraente. Se l'attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un'attività dipendente svolta nell'altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell'altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell'altro Stato; e c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell'altro Stato. 3. Nonostante le precedenti disposizioni del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato regolarmente svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati da un'impresa di uno Stato contraente in traffico internazionale sono imponibili soltanto in detto Stato contraente". 6.5.2 A fronte di una disciplina contemplante varie ipotesi diversamente regolate - adottata in conformità al modello OCSE di convenzione fra gli Stati in materia di doppia imposizione, sulla cui corretta applicazione questa Corte si è più volte pronunciata (cfr. Cass. n. 27278/2023, Cass. n. 26383/2022, Cass. n. 24112/2017, Cass. n. 14474/2016) -, la Commissione regionale avrebbe, in primo luogo, dovuto individuare quella ritenuta applicabile al caso esaminato; ma a tanto essa non ha provveduto, astenendosi dal compiere gli accertamenti di merito necessari per una corretta sussunzione della fattispecie concreta nella pertinente previsione normativa. 6.6 Fermo quanto precede, non è inoltre dato comprendere: - donde si ricaverebbe che i redditi di cui trattasi fossero stati dichiarati e tassati nello Stato nordamericano; - a quanto ammontasse l'imposta eventualmente versata dal contribuente allo Stato estero; - se detta imposta, ove mai corrisposta, risultasse pari o addirittura superiore a quella dovuta in Italia. 6.7 A tutto concedere, pur volendo dare per acquisito che le somme di danaro in discorso fossero già state tassate all'estero e che dovessero considerarsi esenti da imposta in Italia, rimane comunque del tutto inesplicato se la disponibilità di tali somme consentisse di ritenere inesistente, o esistente in misura inferiore, il reddito presunto dall'Ufficio sulla base del "redditometro". 6.8 Sul punto, come si è visto, la sentenza si è limitata ad "ascri(vere) al merito del nuovo difensore (della fase di appello) di aver comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate", senza tuttavia minimamente indicare come sarebbe stata in concreto fornita dal contribuente la prova atta a superare la presunzione legale relativa di capacità contributiva introdotta dalla disciplina del redditometro (sull'argomento si vedano, fra le altre, Cass. n. 31844/2023, Cass. n. 10378/2022, Cass. n. 1980/2020). 6.9 In definitiva, la motivazione spesa dalla CTR, sebbene riconoscibile, sotto il profilo materiale e grafico, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende percepibili le ragioni della decisione, risultando obiettivamente inidonea a far conoscere l'iter seguìto dal giudice di merito per la formazione del proprio convincimento, sì da non consentire alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ad opera di questa Corte, alla quale non può essere lasciato il còmpito di integrarlo con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2767/2023, Cass. n. 6758/2022, Cass. n. 13977/2019, Cass. Sez. Un. n. 22232/2016, Cass. Sez. Un. n. 16599/2016). 7. La riscontrata nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992 - norma speciale del processo tributario che nel giudizio civile ordinario trova il suo corrispondente nell'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - assorbe l'esame delle ulteriori censure mosse dalla parte ricorrente. 8. Va, conseguentemente, disposta, a norma dell'art. 384, comma 2, prima parte, c.p.c., la cassazione dell'impugnata pronuncia con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, la quale procederà a un nuovo esame della controversia, fornendo congrua motivazione. 8.1 Al giudice del rinvio viene rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 385, comma 2, seconda parte, c.p.c. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, in data 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIRILLO Ettore - Presidente Dott. NAPOLITANO Lucio - Consigliere Dott. MACAGNO Gian Paolo - Consigliere Dott. CRIVELLI Alberto - Consigliere Dott. CHIECA Danilo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27394/2016 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis; - ricorrente - contro Sp.Ja., rappresentato e difeso dall'avv. Ri.Sa. (domicilio digitale: (Omissis)) e dall'avv. Se.Pa.; - controricorrente - avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL PIEMONTE n. 560/1/16 depositata il 28 aprile 2016; udita la relazione svolta nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 dal Consigliere Danilo CHIECA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Rosa Maria Dell'Erba, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; uditi per la ricorrente l'avvocato generale dello Stato Maria Francesca Severi e per il controricorrente gli avv.ti Se.Pa. e Cl.Lu., per delega dell'avv. Ri.Sa. FATTI DI CAUSA La Direzione Provinciale II di Torino dell'Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di Sp.Ja. un avviso di accertamento con il quale, in relazione all'anno 2007, recuperava a tassazione ai fini dell'IRPEF un reddito imponibile di 30.337,60 euro, determinato sinteticamente ex art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in base al c.d. "redditometro", irrogando nei suoi confronti le sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale. Lo Sp.Ja. impugnava il predetto avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino, deducendo: - di essere ministro di culto dell'(...) ("...", "..."), organizzazione religiosa avente la propria sede centrale negli Stati Uniti d'America; - di svolgere, inoltre, attività missionaria per conto della predetta associazione insieme alla di lui moglie Do.Lo.; - che essi coniugi avevano la doppia cittadinanza italiana e statunitense ed erano residenti in ambedue gli Stati; - che nell'anno 2007 avevano percepito dall'(...) somme di denaro a titolo di rimborso spese, da considerarsi alla stregua di "liberalità indiretto, per un ammontare complessivo di 61.175 dollari; - che tali redditi erano già stati dichiarati e tassati negli USA, sicchè non potevano essere soggetti a imposizione anche in Italia, in quanto esenti. La Commissione Provinciale adìta, con sentenza n. 149/6/13 dell'8 ottobre 2013, accoglieva il ricorso del contribuente, ritenendo illegittimo l'utilizzo da parte dell'Amministrazione Finanziaria del metodo di accertamento sintetico basato sul "redditometro", siccome caratterizzato dal riferimento a "indici e coefficienti astrattamente applicati, previsti da tabelle preconfezionate, per far scaturire un presunto valore di reddito non supportato da ragionevolezza e duttilità". La decisione veniva appellata dall'Agenzia delle Entrate davanti alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, la quale, con sentenza n. 560/1/16 del 28 aprile 2016, rigettava il gravame della parte erariale, confermando con diversa motivazione la pronuncia del primo giudice. Rilevava il collegio di secondo grado: - che, ai sensi dell'art. 50 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), i redditi percepiti dal ministro di culto di una delle varie confessioni religiose riconosciute sono assimilati a quelli di lavoro dipendente, e come tali tassabili; - che, tuttavia, l'art. 163 dello stesso testo unico stabilisce il divieto della doppia imposizione, in virtù del quale la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza del medesimo presupposto; - che a livello internazionale il divieto in parola è stato sancito da convenzioni bilaterali stipulate dallo Stato italiano con diversi Paesi esteri, fra i quali anche gli USA; - che dette convenzioni, una volta ratificate e rese esecutive in Italia, come nel caso di specie, prevalgono sulla normativa interna; - che, conseguentemente, "l'accertamento" eseguito nei confronti dello Sp.Ja. "risultava ab origine illegittimo"; - che nel corso del giudizio d'appello, tramite il suo nuovo difensore, il contribuente aveva "comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". Contro questa sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi. Lo Sp.Ja. ha resistito con controricorso. La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 20 marzo 2024. Nel termine di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., viene denunciata la nullità dell'impugnata pronuncia per violazione e falsa applicazione dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell'art. 115 c.p.c. 1.1 Si sostiene che la decisione assunta dalla CTR piemontese risulterebbe corredata di una motivazione solo apparente, avendo il giudice tributario di secondo grado escluso la tassabilità in Italia del reddito prodotto dallo Sp.Ja. negli Stati Uniti d'America nell'anno 2008 sulla scorta di affermazioni confuse, anapodittiche e in taluni punti irriducibilmente contraddittorie. 1.2 Dalla lettura della sentenza non si comprenderebbero, infatti, le ragioni per le quali le somme erogate in quell'anno dall'(...) in favore dell'odierno controricorrente non potrebbero essere soggette a imposizione. 2. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono lamentate la violazione e la falsa applicazione degli art. 2, 23, 50, 163 e 165 del TUIR, degli art. 4 e 15 della Convenzione bilaterale Italia/USA contro le doppie imposizioni firmata il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. 2.1 Si deduce che, in virtù delle menzionate norme del TUIR, le somme in questione dovevano ritenersi imponibili esclusivamente in Italia, essendo state percepite da un contribuente avente la cittadinanza italiana e residente nel territorio dello Stato e risultando in contrasto con le concordi allegazioni delle parti, e comunque sfornito di supporto probatorio, l'asserto della CTR secondo cui lo Sp.Ja. sarebbe stato residente negli USA fino all'ottobre 2007. 2.2 Fermo quanto precede, viene altresì obiettato che dalla sentenza gravata non si evincerebbero in alcun modo gli elementi da cui il collegio di secondo grado ha desunto che il reddito in discorso fosse stato percepito, dichiarato e tassato negli USA, né tantomeno il motivo per il quale ha ritenuto non imponibile tale reddito in Italia, alla stregua della menzionata convenzione bilaterale. 3. Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono prospettate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 3.1 Si osserva che, anche a voler considerare redditi esenti le somme erogate allo Sp.Ja. dall'(...) nell'anno 2008, in ogni caso la CTR avrebbe dovuto verificare se tali redditi risultassero sufficienti a "coprire" quello sinteticamente accertato dall'Ufficio. 4. Con il quarto motivo, riconducibile al paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992. 4.1 Viene rimproverato alla CTR di aver omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva argomentato che le somme corrisposte dall'(...) allo Sp.Ja. "erano al più redditi esenti che non coprivano integralmente il reddito sinteticamente accertato nei confronti di un soggetto che non aveva dichiarato - per l'anno in accertamento - reddito". 4.2 Si soggiunge che, in ogni caso, la sentenza impugnata è da ritenersi nulla per carenza assoluta di motivazione, non avendo il giudice di secondo grado minimamente spiegato donde si ricaverebbe che il contribuente, tramite il suo nuovo difensore, sarebbe riuscito a dimostrare "la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e cola tassate". 5. Con il quinto motivo, inquadrato nello schema dell'art. comma 1, n. 3) c.p.c., vengono nuovamente dedotte la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 5.1 Si imputa alla CTR di aver erroneamente statuito, in adesione a un indirizzo giurisprudenziale di legittimità da considerarsi "assolutamente isolato e sconfessato da altre pronunce della... Corte", che per superare la presunzione di capacità contributiva ricollegata al "redditometro" sia sufficiente offrire la prova della disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile, e non anche dimostrare che le spese per incrementi patrimoniali ritenute indicative di capacità contributiva siano state sostenute proprio con quei redditi. 6. Il primo e il quarto motivo possono essere esaminati insieme, perché intimamente connessi, prospettando entrambi un vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992. 6.1 Essi sono fondati e vanno, pertanto, accolti. 6.2 Giova premettere che, a sèguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell'inosservanza del c.d. "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nelle ipotesi - che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - di "mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza della mera "insufficienza" o "contraddittorietà" della motivazione; con la precisazione che l'anomalia motivazionale deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis, Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014). 6.3 Ciò posto, va osservato che, nel caso di specie, la CTR piemontese ha così giustificato la decisione assunta: (1)le somme erogate nell'anno 2007 allo Sp.Ja. dall'(...), organizzazione religiosa avente sede negli USA, pur costituendo redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, giusta il disposto dell'art. 50 del TUIR, non erano tuttavia tassabili in Italia in forza del divieto della doppia imposizione sancito nell'àmbito dell'ordinamento giuridico interno dall'art. 163 del medesimo testo unico e a livello internazionale dalla Convenzione stipulata dal nostro Stato con gli USA il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985; (2)per tale ragione, "l'accertamento" fiscale per cui è causa "risultava ab origine illegittimo"; (3)"quanto alla ricostruzione dei conteggi del redditometro", nel corso del giudizio d'appello il contribuente aveva efficacemente "confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 6.4 Le surriportate espressioni risultano meramente assertive e anapodittiche, sì da determinare la nullità della sentenza per grave anomalia motivazionale, vizio tuttora denunciabile in sede di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. 6.5 Anzitutto, nell'impugnata pronuncia non viene affatto spieqato per quale motivo, alla stregua della normativa convenzionale di riferimento, i redditi costituiti dalle erogazioni fatte dall'(...) in favore dello Sp.Ja. sotto forma di "rimborsi di spese" - che la stessa CTR reputa assimilabili a quelli di lavoro dipendente - non fossero imponibili in Italia, bensì unicamente negli USA. 6.5.1 Al riguardo, occorre tener presente che l'art. 15 della menzionata Convenzione Italia/USA del 17 aprile 1984, rubricato "Lavoro subordinato", così recita: "1. Salve le disposizioni degli articoli 16, (Compensi e gettoni di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell'altro Stato contraente. Se l'attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un'attività dipendente svolta nell'altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell'altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell'altro Stato; e c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell'altro Stato. 3. Nonostante le precedenti disposizioni del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato regolarmente svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati da un'impresa di uno Stato contraente in traffico internazionale sono imponibili soltanto in detto Stato contraente". 6.5.2 A fronte di una disciplina contemplante varie ipotesi diversamente regolate - adottata in conformità al modello OCSE di convenzione fra gli Stati in materia di doppia imposizione, sulla cui corretta applicazione questa Corte si è più volte pronunciata (cfr. Cass. n. 27278/2023, Cass. n. 26383/2022, Cass. n. 24112/2017, Cass. n. 14474/2016) -, la Commissione regionale avrebbe, in primo luogo, dovuto individuare quella ritenuta applicabile al caso esaminato; ma a tanto essa non ha provveduto, astenendosi dal compiere gli accertamenti di merito necessari per una corretta sussunzione della fattispecie concreta nella pertinente previsione normativa. 6.6 Fermo quanto precede, non è inoltre dato comprendere: - donde si ricaverebbe che i redditi di cui trattasi fossero stati dichiarati e tassati nello Stato nordamericano; - a quanto ammontasse l'imposta eventualmente versata dal contribuente allo Stato estero; - se detta imposta, ove mai corrisposta, risultasse pari o addirittura superiore a quella dovuta in Italia. 6.7 A tutto concedere, pur volendo dare per acquisito che le somme di danaro in discorso fossero già state tassate all'estero e che dovessero considerarsi esenti da imposta in Italia, rimane comunque del tutto inesplicato se la disponibilità di tali somme consentisse di ritenere inesistente, o esistente in misura inferiore, il reddito presunto dall'Ufficio sulla base del "redditometro". 6.8 Sul punto, come si è visto, la sentenza si è limitata ad "ascri(vere) al merito del nuovo difensore (della fase di appello) di aver comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate", senza tuttavia minimamente indicare come sarebbe stata in concreto fornita dal contribuente la prova atta a superare la presunzione legale relativa di capacità contributiva introdotta dalla disciplina del redditometro (sull'argomento si vedano, fra le altre, Cass. n. 31844/2023, Cass. n. 10378/2022, Cass. n. 1980/2020). 6.9 In definitiva, la motivazione spesa dalla CTR, sebbene riconoscibile, sotto il profilo materiale e grafico, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende percepibili le ragioni della decisione, risultando obiettivamente inidonea a far conoscere l'iter seguìto dal giudice di merito per la formazione del proprio convincimento, sì da non consentire alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ad opera di questa Corte, alla quale non può essere lasciato il còmpito di integrarlo con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2767/2023, Cass. n. 6758/2022, Cass. n. 13977/2019, Cass. Sez. Un. n. 22232/2016, Cass. Sez. Un. n. 16599/2016). 7. La riscontrata nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992 - norma speciale del processo tributario che nel giudizio civile ordinario trova il suo corrispondente nell'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - assorbe l'esame delle ulteriori censure mosse dalla parte ricorrente. 8. Va, conseguentemente, disposta, a norma dell'art. 384, comma 2, prima parte, c.p.c., la cassazione dell'impugnata pronuncia con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, la quale procederà a un nuovo esame della controversia, fornendo congrua motivazione. 8.1 Al giudice del rinvio viene rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 385, comma 2, seconda parte, c.p.c. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, in data 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIRILLO Ettore - Presidente Dott. NAPOLITANO Lucio - Consigliere Dott. MACAGNO Gian Paolo - Consigliere Dott. CRIVELLI Alberto - Consigliere Dott. CHIECA Danilo - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27417/2016 R.G. proposto da: Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis; - ricorrente - contro Do.Lo., rappresentata e difesa dall'avv. Ri.Sa. (domicilio digitale: ...) e dall'avv. Se.Pa.; - controricorrente - avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL PIEMONTE n. 559/1/16 depositata il 28 aprile 2016. Udita la relazione svolta nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 dal Consigliere Danilo CHIECA. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Rosa Maria Dell'Erba, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. Uditi per la ricorrente l'avvocato generale dello Stato Maria Francesca Severi e per la controricorrente gli avv.ti Se.Pa. e Cl.Lu., per delega dell'avv. Ri.Sa. FATTI DI CAUSA La Direzione Provinciale II di Torino dell'Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di Do.Lo. un avviso di accertamento con il quale, in relazione all'anno 2007, recuperava a tassazione ai fini dell'IRPEF un reddito imponibile di 30.337,60 Euro, determinato sinteticamente ex art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in base al cd. "redditometro", irrogando nei suoi confronti le sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale. La Do.Lo. impugnava il predetto avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino, deducendo: - di svolgere attività missionaria per conto dell'... ("Omissis"), organizzazione religiosa avente la propria sede centrale negli Stati Uniti d'America, insieme al di lei marito Sp.Ri., quest'ultimo anche ministro di culto; - che essi coniugi avevano la doppia cittadinanza italiana e statunitense ed erano residenti in ambedue gli Stati; - che nell'anno 2007 avevano percepito dall'... somme di denaro a titolo di rimborso spese, da considerarsi alla stregua di "liberalità indirette", per un ammontare complessivo di 61.175 dollari; - che tali redditi erano già stati dichiarati e tassati negli USA, sicché non potevano essere soggetti a imposizione anche in Italia, in quanto esenti. La Commissione Provinciale adìta, con sentenza n. 143/6/13 dell'8 ottobre 2013, accoglieva il ricorso della contribuente, ritenendo illegittimo l'utilizzo da parte dell'Amministrazione Finanziaria del metodo di accertamento sintetico basato sul "redditometro", siccome caratterizzato dal riferimento a "indici e coefficienti astrattamente applicati, previsti da tabelle preconfezionate, per far scaturire un presunto valore di reddito non supportato da ragionevolezza e duttilità". La decisione veniva appellata dall'Agenzia delle Entrate davanti alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, la quale, con sentenza n. 559/1/16 del 28 aprile 2016, rigettava il gravame della parte erariale, confermando con diversa motivazione la pronuncia del primo giudice. Rilevava il collegio di secondo grado: - che, ai sensi dell'art. 50 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), i redditi percepiti dal ministro di culto di una delle varie confessioni religiose riconosciute - nel caso di specie, "dal coniuge del ministro del culto" - sono assimilati a quelli di lavoro dipendente, e come tali tassabili; - che, tuttavia, l'art. 163 dello stesso testo unico stabilisce il divieto della doppia imposizione, in virtù del quale lo stesso tributo non può essere applicato più volte in dipendenza del medesimo presupposto; - che a livello internazionale il divieto in parola è stato sancito da convenzioni bilaterali stipulate dallo Stato italiano con diversi Paesi esteri, fra i quali anche gli USA; - che la convenzione con il predetto Stato nordamericano, in quanto ratificata e resa esecutiva in Italia, prevale sulla normativa interna; - che, conseguentemente, "l'accertamento" eseguito nei confronti della Do.Lo. "risultava ab origine illegittimo"; - che nel corso del giudizio d'appello, tramite il suo nuovo difensore, la contribuente aveva "comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". Contro questa sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La Do.Lo. ha resistito con controricorso. La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 20 marzo 2024. Nel termine di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., viene denunciata la nullità dell'impugnata pronuncia per violazione e falsa applicazione dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell'art. 115 c.p.c. 1.1 Si sostiene che la decisione assunta dalla CTR piemontese risulterebbe corredata di una motivazione solo apparente, avendo il giudice tributario di secondo grado escluso la tassabilità in Italia del reddito prodotto dalla Do.Lo. negli Stati Uniti d'America nell'anno 2007 sulla scorta di affermazioni confuse, anapodittiche e in taluni punti irriducibilmente contraddittorie. 1.2 Dalla lettura della sentenza non si comprenderebbero, infatti, le ragioni per le quali le somme erogate in quell'anno dall'... in favore dell'odierna controricorrente non potrebbero essere soggette a imposizione. 2. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono lamentate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2, 23, 50, 163 e 165 del TUIR, degli artt. 4 e 15 della Convenzione bilaterale Italia/USA contro le doppie imposizioni firmata il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. 2.1 Si deduce che, in virtù delle menzionate norme del TUIR, le somme in questione dovevano ritenersi imponibili esclusivamente in Italia, essendo state percepite da una contribuente avente la cittadinanza italiana e residente nel territorio dello Stato e risultando in contrasto con le concordi allegazioni delle parti, e comunque sfornito di supporto probatorio, l'asserto della CTR secondo cui la Do.Lo. sarebbe stata residente negli USA fino all'ottobre 2007. 2.2 Fermo quanto precede, viene altresì obiettato che dalla sentenza gravata non si evincerebbero in alcun modo gli elementi da cui il collegio di secondo grado ha desunto che il reddito in discorso fosse stato percepito, dichiarato e tassato negli USA, né tantomeno il motivo per il quale ha ritenuto non imponibile tale reddito in Italia, alla stregua della menzionata convenzione bilaterale. 3. Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono prospettate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 3.1 Si osserva che, anche a voler considerare redditi esenti le somme erogate alla Do.Lo. dall'... nell'anno 2007, in ogni caso la CTR avrebbe dovuto verificare se tali redditi risultassero sufficienti a "coprire" quello sinteticamente accertato dall'Ufficio. 4. Con il quarto motivo, riconducibile al paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992. 4.1 Viene rimproverato alla CTR di aver omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva argomentato che le somme corrisposte dall'... alla Do.Lo. "erano al più redditi esenti che non coprivano integralmente il reddito sinteticamente accertato nei confronti di un soggetto che non aveva dichiarato - per l'anno in accertamento - reddito". 4.2 Si soggiunge che, in ogni caso, la sentenza impugnata è da ritenersi nulla per carenza assoluta di motivazione, non avendo il giudice di secondo grado minimamente spiegato donde si ricaverebbe che la contribuente, tramite il suo nuovo difensore, sarebbe riuscita a dimostrare "la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 5. Con il quinto motivo, inquadrato nello schema dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., vengono nuovamente dedotte la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 5.1 Si imputa alla CTR di aver erroneamente statuito, in adesione a un indirizzo giurisprudenziale di legittimità da considerarsi "assolutamente isolato e sconfessato da altre pronunce della... Corte", che per superare la presunzione di capacità contributiva ricollegata al "redditometro" sia sufficiente offrire la prova della disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile, e non anche dimostrare che le spese per incrementi patrimoniali ritenute indicative di capacità contributiva siano state sostenute proprio con quei redditi. 6. Il primo e il quarto motivo possono essere esaminati insieme, perché intimamente connessi, prospettando entrambi un vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992. 6.1 Essi sono fondati e vanno, pertanto, accolti. 6.2 Giova premettere che, a sèguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell'inosservanza del c.d. "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nelle ipotesi - che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - di "mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza della mera "insufficienza" o "contraddittorietà" della motivazione; con la precisazione che l'anomalia motivazionale deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis, Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014). 6.3 Ciò posto, va osservato che, nel caso di specie, la CTR piemontese ha così giustificato la decisione assunta: (1) le somme erogate nell'anno 2007 alla Do.Lo. dall'..., organizzazione religiosa avente sede negli USA, pur costituendo redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, giusta il disposto dell'art. 50 del TUIR, non erano tuttavia tassabili in Italia in forza del divieto della doppia imposizione sancito nell'àmbito dell'ordinamento giuridico interno dall'art. 163 del medesimo testo unico e a livello internazionale dalla Convenzione stipulata dal nostro Stato con gli USA il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985; (2) per tale ragione, "l'accertamento" fiscale per cui è causa "risultava ab origine illegittimo"; (3) "quanto alla ricostruzione dei conteggi del redditometro", nel corso del giudizio d'appello il contribuente aveva efficacemente "confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 6.4 Le surriportate espressioni risultano meramente assertive e anapodittiche, sì da determinare la nullità della sentenza per grave anomalia motivazionale, vizio tuttora denunciabile in sede di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. 6.5 Anzitutto, nell'impugnata pronuncia non viene affatto spiegato per quale motivo, alla stregua della normativa convenzionale di riferimento, i redditi costituiti dalle erogazioni fatte dall'... in favore della Do.Lo. sotto forma di "rimborsi di spese" - che la stessa CTR reputa assimilabili a quelli di lavoro dipendente - non fossero imponibili in Italia, bensì unicamente negli USA. 6.5.1 Al riguardo, occorre tener presente che l'art. 15 della menzionata Convenzione Italia/USA del 17 aprile 1984, rubricato "Lavoro subordinato", così recita: "1. Salve le disposizioni degli articoli 16, (Compensi e gettoni di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell'altro Stato contraente. Se l'attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un'attività dipendente svolta nell'altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell'altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell'altro Stato; e c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell'altro Stato. 3. Nonostante le precedenti disposizioni del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato regolarmente svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati da un'impresa di uno Stato contraente in traffico internazionale sono imponibili soltanto in detto Stato contraente". 6.5.2 A fronte di una disciplina contemplante varie ipotesi diversamente regolate - adottata in conformità al modello OCSE di convenzione fra gli Stati in materia di doppia imposizione, sulla cui corretta applicazione questa Corte si è più volte pronunciata (cfr. Cass. n. 27278/2023, Cass. n. 26383/2022, Cass. n. 24112/2017, Cass. n. 14474/2016) -, la Commissione regionale avrebbe, in primo luogo, dovuto individuare quella ritenuta applicabile al caso esaminato; ma a tanto essa non ha provveduto, astenendosi dal compiere gli accertamenti di merito necessari per una corretta sussunzione della fattispecie concreta nella pertinente previsione normativa. 6.6 Fermo quanto precede, non è inoltre dato comprendere: - donde si ricaverebbe che i redditi di cui trattasi fossero stati dichiarati e tassati nello Stato nordamericano; - a quanto ammontasse l'imposta eventualmente versata dalla contribuente allo Stato estero; - se detta imposta, ove mai corrisposta, risultasse pari o addirittura superiore a quella dovuta in Italia. 6.7 A tutto concedere, pur volendo dare per acquisito che le somme di danaro in discorso fossero già state tassate all'estero e che dovessero considerarsi esenti da imposta in Italia, rimane comunque del tutto inesplicato se la disponibilità di tali somme consentisse di ritenere inesistente, o esistente in misura inferiore, il reddito presunto dall'Ufficio sulla base del "redditometro". 6.8 Sul punto, come si è visto, la sentenza si è limitata ad "ascri(vere) al merito del nuovo difensore (della fase di appello) di aver comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate", senza tuttavia minimamente indicare come sarebbe stata in concreto fornita dalla contribuente la prova atta a superare la presunzione legale relativa di capacità contributiva introdotta dalla disciplina del redditometro (sull'argomento si vedano, fra le altre, Cass. n. 31844/2023, Cass. n. 10378/2022, Cass. n. 1980/2020). 6.9 In definitiva, la motivazione spesa dalla CTR, sebbene riconoscibile, sotto il profilo materiale e grafico, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende percepibili le ragioni della decisione, risultando obiettivamente inidonea a far conoscere l'iter seguìto dal giudice di merito per la formazione del proprio convincimento, sì da non consentire alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ad opera di questa Corte, alla quale non può essere lasciato il còmpito di integrarlo con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2767/2023, Cass. n. 6758/2022, Cass. n. 13977/2019, Cass. Sez. Un. n. 22232/2016, Cass. Sez. Un. n. 16599/2016). 7. La riscontrata nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992 -norma speciale del processo tributario che nel giudizio civile ordinario trova il suo corrispondente nell'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c.-assorbe l'esame delle ulteriori censure mosse dalla parte ricorrente. 8. Va, conseguentemente, disposta, a norma dell'art. 384, comma 2, prima parte, c.p.c., la cassazione dell'impugnata pronuncia con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, la quale procederà a un nuovo esame della controversia, fornendo congrua motivazione. 8.1 Al giudice del rinvio viene rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 385, comma 2, seconda parte, c.p.c. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, in data 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIRILLO Ettore - Presidente Dott. NAPOLITANO Lucio - Consigliere Dott. MACAGNO Gian Paolo - Consigliere Dott. CRIVELLI Alberto - Consigliere Dott. CHIECA Danilo - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27415/2016 R.G. proposto da: Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis; - ricorrente - contro Do.Lo., rappresentata e difesa dall'avv. Ri.Sa. (domicilio digitale: ...) e dall'avv. Se.Pa.; - controricorrente - avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL PIEMONTE n. 557/1/16 depositata il 28 aprile 2016. Udita la relazione svolta nell'udienza pubblica del 20 marzo 2024 dal Consigliere Danilo CHIECA. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Rosa Maria Dell'Erba, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. Uditi per la ricorrente l'avvocato generale dello Stato Maria Francesca Severi e per la controricorrente gli avv.ti Se.Pa. e Cl.Lu., per delega dell'avv. Ri.Sa. FATTI DI CAUSA La Direzione Provinciale II di Torino dell'Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di Do.Lo. un avviso di accertamento con il quale, in relazione all'anno 2008, recuperava a tassazione ai fini dell'IRPEF un reddito imponibile di 43.316,60 Euro, determinato sinteticamente ex art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 in base al cd. "redditometro", irrogando nei suoi confronti le sanzioni pecuniarie previste dalla legge per il caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale. La Do.Lo. impugnava il predetto avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino, deducendo: - di svolgere attività missionaria per conto dell'(...) ("Omissis", "Omissis"), organizzazione religiosa avente la propria sede centrale negli Stati Uniti d'America, insieme al di lei marito Sp.Ri., quest'ultimo anche ministro di culto; - che essi coniugi avevano la doppia cittadinanza italiana e statunitense ed erano residenti in ambedue gli Stati; - che nell'anno 2008 avevano percepito dall'(...) somme di denaro a titolo di rimborso spese, da considerarsi alla stregua di "liberalità indirette", per un ammontare complessivo di 68.874 Dollari; - che tali redditi erano già stati dichiarati e tassati negli USA, sicché non potevano essere soggetti a imposizione anche in Italia, in quanto esenti. La Commissione Provinciale adìta, con sentenza n. 92/6/13 del 7 giugno 2013, accoglieva il ricorso della contribuente, ritenendo illegittimo l'utilizzo da parte dell'Amministrazione Finanziaria del metodo di accertamento sintetico basato sul "redditometro", siccome caratterizzato dal riferimento a "indici e coefficienti astrattamente applicati, previsti da tabelle preconfezionate, per far scaturire un presunto valore di reddito non supportato da ragionevolezza e duttilità". La decisione veniva appellata dall'Agenzia delle Entrate davanti alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, la quale, con sentenza n. 557/1/16 del 28 aprile 2016, rigettava il gravame della parte erariale, confermando con diversa motivazione la pronuncia del primo giudice. Rilevava il collegio di secondo grado: - che, ai sensi dell'art. 50 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), i redditi percepiti dal ministro di culto di una delle varie confessioni religiose riconosciute - nel caso di specie, "dal coniuge del ministro del culto" - sono assimilati a quelli di lavoro dipendente, e come tali tassabili; - che, tuttavia, l'art. 163 dello stesso testo unico stabilisce il divieto della doppia imposizione, in virtù del quale lo stesso tributo non può essere applicato più volte in dipendenza del medesimo presupposto; - che a livello internazionale il divieto in parola è stato sancito da convenzioni bilaterali stipulate dallo Stato italiano con diversi Paesi esteri, fra i quali anche gli USA; - che la convenzione con il predetto Stato nordamericano, in quanto ratificata e resa esecutiva in Italia, prevale sulla normativa interna; - che, conseguentemente, "l'accertamento" eseguito nei confronti della Do.Lo. "risultava ab origine illegittimo"; - che nel corso del giudizio d'appello, tramite il suo nuovo difensore, la contribuente aveva "comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". Contro questa sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La Do.Lo. ha resistito con controricorso. La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 20 marzo 2024. Nel termine di cui all'art. 378 c.p.c. il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., viene denunciata la nullità dell'impugnata pronuncia per violazione e falsa applicazione dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e dell'art. 115 c.p.c. 1.1 Si sostiene che la decisione assunta dalla CTR piemontese risulterebbe corredata di una motivazione solo apparente, avendo il giudice tributario di secondo grado escluso la tassabilità in Italia del reddito prodotto dalla Do.Lo. negli Stati Uniti d'America nell'anno 2008 sulla scorta di affermazioni confuse, anapodittiche e in taluni punti irriducibilmente contraddittorie. 1.2 Dalla lettura della sentenza non si comprenderebbero, infatti, le ragioni per le quali le somme erogate in quell'anno dall'(...) in favore dell'odierna controricorrente non potrebbero essere soggette a imposizione. 2. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono lamentate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2, 23, 50, 163 e 165 del TUIR, degli artt. 4 e 15 della Convenzione bilaterale Italia/USA contro le doppie imposizioni firmata il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985, nonché dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. 2.1 Si deduce che, in virtù delle menzionate norme del TUIR, le somme in questione dovevano ritenersi imponibili esclusivamente in Italia, essendo state percepite da una contribuente avente la cittadinanza italiana e residente nel territorio dello Stato e risultando in contrasto con le concordi allegazioni delle parti, e comunque sfornito di supporto probatorio, l'asserto della CTR secondo cui la Do.Lo. sarebbe stata residente negli USA fino all'ottobre 2007. 2.2 Fermo quanto precede, viene altresì obiettato che dalla sentenza gravata non si evincerebbero in alcun modo gli elementi da cui il collegio di secondo grado ha desunto che il reddito in discorso fosse stato percepito, dichiarato e tassato negli USA, né tantomeno il motivo per il quale ha ritenuto non imponibile tale reddito in Italia, alla stregua della menzionata convenzione bilaterale. 3. Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., sono prospettate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 3.1 Si osserva che, anche a voler considerare redditi esenti le somme erogate alla Do.Lo. dall'(...) nell'anno 2008, in ogni caso la CTR avrebbe dovuto verificare se tali redditi risultassero sufficienti a "coprire" quello sinteticamente accertato dall'Ufficio. 4. Con il quarto motivo, riconducibile al paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992. 4.1 Viene rimproverato alla CTR di aver omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva argomentato che le somme corrisposte dall'(...) alla Do.Lo. "erano al più redditi esenti che non coprivano integralmente il reddito sinteticamente accertato nei confronti di un soggetto che non aveva dichiarato - per l'anno in accertamento - reddito". 4.2 Si soggiunge che, in ogni caso, la sentenza impugnata è da ritenersi nulla per carenza assoluta di motivazione, non avendo il giudice di secondo grado minimamente spiegato donde si ricaverebbe che la contribuente, tramite il suo nuovo difensore, sarebbe riuscita a dimostrare "la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 5. Con il quinto motivo, inquadrato nello schema dell'art 360, comma 1, n. 3) c.p.c., vengono nuovamente dedotte la violazione e la falsa applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 2697 c.c. 5.1 Si imputa alla CTR di aver erroneamente statuito, in adesione a un indirizzo giurisprudenziale di legittimità da considerarsi "assolutamente isolato e sconfessato da altre pronunce della... Corte", che per superare la presunzione di capacità contributiva ricollegata al "redditometro" sia sufficiente offrire la prova della disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile, e non anche dimostrare che le spese per incrementi patrimoniali ritenute indicative di capacità contributiva siano state sostenute proprio con quei redditi. 6. Il primo e il quarto motivo possono essere esaminati insieme, perché intimamente connessi, prospettando entrambi un vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992. 6.1 Essi sono fondati e vanno, pertanto, accolti. 6.2 Giova premettere che, a séguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. disposta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ormai da ritenere ristretto alla sola verifica dell'inosservanza del c.d. "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, della Carta fondamentale, individuabile nelle ipotesi - che si tramutano in vizio di nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - di "mancanza assoluta di motivi sotto il profilo materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza della mera "insufficienza" o "contraddittorietà" della motivazione; con la precisazione che l'anomalia motivazionale deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr., ex permultis, Cass. n. 20598/2023, Cass. n. 20329/2023, Cass. n. 3799/2023, Cass. Sez. Un. n. 37406/2022, Cass. Sez. Un. n. 32000/2022, Cass. n. 8699/2022, Cass. n. 7090/2022, Cass. n. 24395/2020, Cass. Sez. Un. n. 23746/2020, Cass. n. 12241/2020, Cass. Sez. Un. n. 17564/2019, Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. Sez. Un. 8053/2014). 6.3 Ciò posto, va osservato che, nel caso di specie, la CTR piemontese ha così giustificato la decisione assunta: (1) le somme erogate nell'anno 2008 alla Do.Lo. dall'(...), organizzazione religiosa avente sede negli USA, pur costituendo redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, giusta il disposto dell'art. 50 del TUIR, non erano tuttavia tassabili in Italia in forza del divieto della doppia imposizione sancito nell'àmbito dell'ordinamento giuridico interno dall'art. 163 del medesimo testo unico e a livello internazionale dalla Convenzione stipulata dal nostro Stato con gli USA il 17 aprile 1984, ratificata e resa esecutiva con L. n. 763 del 1985; (2) per tale ragione, "l'accertamento" fiscale per cui è causa "risultava ab origine illegittimo"; (3) "quanto alla ricostruzione dei conteggi del redditometro", nel corso del giudizio d'appello il contribuente aveva efficacemente "confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate". 6.4 Le surriportate espressioni risultano meramente assertive e anapodittiche, sì da determinare la nullità della sentenza per grave anomalia motivazionale, vizio tuttora denunciabile in sede di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. 6.5 Anzitutto, nell'impugnata pronuncia non viene affatto spiegato per quale motivo, alla stregua della normativa convenzionale di riferimento, i redditi costituiti dalle erogazioni fatte dall'(...) in favore della Do.Lo. sotto forma di "rimborsi di spese" - che la stessa CTR reputa assimilabili a quelli di lavoro dipendente - non fossero imponibili in Italia, bensì unicamente negli USA. 6.5.1 Al riguardo, occorre tener presente che l'art. 15 della menzionata Convenzione Italia/USA del 17 aprile 1984, rubricato "Lavoro subordinato", così recita: "1. Salve le disposizioni degli articoli 16, (Compensi e gettoni di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell'altro Stato contraente. Se l'attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un'attività dipendente svolta nell'altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell'altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell'altro Stato; e c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell'altro Stato. 3. Nonostante le precedenti disposizioni del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato regolarmente svolto a bordo di navi o di aeromobili utilizzati da un'impresa di uno Stato contraente in traffico internazionale sono imponibili soltanto in detto Stato contraente". 6.5.2 A fronte di una disciplina contemplante varie ipotesi diversamente regolate - adottata in conformità al modello OCSE di convenzione fra gli Stati in materia di doppia imposizione, sulla cui corretta applicazione questa Corte si è più volte pronunciata (cfr. Cass. n. 27278/2023, Cass. n. 26383/2022, Cass. n. 24112/2017, Cass. n. 14474/2016) -, la Commissione regionale avrebbe, in primo luogo, dovuto individuare quella ritenuta applicabile al caso esaminato; ma a tanto essa non ha provveduto, astenendosi dal compiere gli accertamenti di merito necessari per una corretta sussunzione della fattispecie concreta nella pertinente previsione normativa. 6.6 Fermo quanto precede, non è inoltre dato comprendere: - donde si ricaverebbe che i redditi di cui trattasi fossero stati dichiarati e tassati nello Stato nordamericano; - a quanto ammontasse l'imposta eventualmente versata dalla contribuente allo Stato estero; - se detta imposta, ove mai corrisposta, risultasse pari o addirittura superiore a quella dovuta in Italia. 6.7 A tutto concedere, pur volendo dare per acquisito che le somme di danaro in discorso fossero già state tassate all'estero e che dovessero considerarsi esenti da imposta in Italia, rimane comunque del tutto inesplicato se la disponibilità di tali somme consentisse di ritenere inesistente, o esistente in misura inferiore, il reddito presunto dall'Ufficio sulla base del "redditometro". 6.8 Sul punto, come si è visto, la sentenza si è limitata ad "ascri(vere) al merito del nuovo difensore (della fase di appello) di aver comparato e confutato le conclusioni cui era pervenuto l'Ufficio accertatore, evidenziando la sostanziale congruità e coerenza tra le somme percepite... in Italia dalla (...) e le medesime dichiarate negli U.S.A. e colà tassate", senza tuttavia minimamente indicare come sarebbe stata in concreto fornita dalla contribuente la prova atta a superare la presunzione legale relativa di capacità contributiva introdotta dalla disciplina del redditometro (sull'argomento si vedano, fra le altre, Cass. n. 31844/2023, Cass. n. 10378/2022, Cass. n. 1980/2020). 6.9 In definitiva, la motivazione spesa dalla CTR, sebbene riconoscibile, sotto il profilo materiale e grafico, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende percepibili le ragioni della decisione, risultando obiettivamente inidonea a far conoscere l'iter seguìto dal giudice di merito per la formazione del proprio convincimento, sì da non consentire alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ad opera di questa Corte, alla quale non può essere lasciato il còmpito di integrarlo con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2767/2023, Cass. n. 6758/2022, Cass. n. 13977/2019, Cass. Sez. Un. n. 22232/2016, Cass. Sez. Un. n. 16599/2016). 7. La riscontrata nullità della sentenza per difetto del requisito di cui all'art. 36, comma 2, n. 4) del D.Lgs. n. 546 del 1992 - norma speciale del processo tributario che nel giudizio civile ordinario trova il suo corrispondente nell'art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c. - assorbe l'esame delle ulteriori censure mosse dalla parte ricorrente. 8. Va, conseguentemente, disposta, a norma dell'art. 384, comma 2, prima parte, c.p.c., la cassazione dell'impugnata pronuncia con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, la quale procederà a un nuovo esame della controversia, fornendo congrua motivazione. 8.1 Al giudice del rinvio viene rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 385, comma 2, seconda parte, c.p.c. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, in data 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Relatore Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. RECHIONE Sandra - Consigliere Dott. SARACO Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Or.Di. nato a P il (Omissis) Ri.Me. nato a A il (Omissis) Fa.In. (...) - ONLUS (...) - (...) C/ Or.Di. Ri.Me. PARTE CIVILE: ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER LA LOTTA CONTRO LE ILLEGALITÀ E LE MAFIE "An.Ca." ENTE GENERICO avverso la sentenza del 17/05/2023 della CORTE di APPELLO di PALERMO Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere LUIGI AGOSTINACCHIO; sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale LIDIA GIORGIO, che ha concluso per l'inammissibilità di tutti i ricorsi; sentito il difensore delle parti civili ricorrenti, Avv. FA.AM. del foro di Palermo, in sostituzione anche dell'Avv. MA.MA. del foro di Patti per l'Fa.In., che ha concluso associandosi alle richieste del P.G., chiedendo il rigetto o l'inammissibilità dei ricorsi degli imputati e insistendo per l'accoglimento dei ricorsi proposti; sentito il difensore della parte civile non ricorrente, Avv. AL.GA. del foro di Palermo per l'Associazione Nazionale per la lotta e le illegalità e le Mafie "An.Ca.", il quale si associa alle conclusioni del P.G. di inammissibilità dei ricorsi; sentito il difensore degli imputati ricorrenti, Avv. VI.GI. del foro di Palermo per il Or.Di., anche in sostituzione dell'Avv. AN.TU. del foro di Palermo per il Ri.Me., che ha concluso riportandosi ai motivi dei ricorsi e chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 17/05/2023 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza emessa con rito abbreviato in data 28/04/2022 dal Gip del Tribunale di Palermo, ha confermato la condanna di Ri.Me. e Or.Di. alla pena, rispettivamente, di anni sei, mesi quattro di reclusione e euro 1.600,00 di multa nonché di sei anni di reclusione e euro 1.400,00 di multa, perché ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso ex art. 416-bis.1 cod. pen., in danno dell'imprenditore Fa.In., titolare di una ditta edile; ha rideterminato le spese processuali sostenute dalle parti civile appellanti nel giudizio di primo grado; ha revocato, infine, la confisca di un immobile. 2. Avverso la sentenza di appello propongono ricorso per cassazione gli imputati e le parti civili, tramite i rispettivi difensori di fiducia e procuratori speciali 2.1. Nell'interesse di Or.Di. sono articolati nove motivi di ricorsi, con i quali si eccepisce: - vizio di motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, la quale aveva presentato due denunce ed era stata escussa numerose volte a sommarie informazioni, senza mai fare riferimento alle ragioni di astio nei confronti degli estorsori, ritenuti responsabili dell'inadempimento verso l'appaltante, in relazione all'attività edilizia indicata nel capo d'imputazione; - travisamento di fatti ed erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti, censurabili nel vizio previsto dall'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. in quanto il dialogo del 3 marzo 2021 era stato interpretato erroneamente, emergendo solo un innocente interessamento del Or.Di. circa la risoluzione di una questione fra il Ri.Me. e l'Fa.In., attesa la disponibilità dimostrata a che quest'ultimo consegnasse la somma dovuta al Ri.Me., direttamente; - violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità concorsuale, affermata sulla base di circostanze prive di rilevanza probatoria (la procurata conoscenza del Ri.Me., su richiesta dell'Fa.In., perché provvedesse al trasporto di materiale edile, in cambio di una modesta regalia, senza partecipare alle intese fra i soggetti interessati, come confermato dal Ri.Me. in sede di interrogatorio di garanzia, omettendo altresì la corte di accertare se il Or.Di. fosse stato presente all'intimazione di pagamento, circostanza tutt'altra che secondaria, specie ai fini della consapevolezza della condotta illecita del Ri.Me. e delle minacce che questi avrebbe rivolto all'estorto); - violazione di legge circa la qualificazione giuridica dei fatti contestati nei termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario nonché erronea applicazione dei princìpi stabiliti dalle sezioni unite sul punto, posto che il sostegno al Ri.Me., amico e padre di famiglia, si giustificava per la convinzione che costui stesse agendo per ottenere quanto dovutogli in virtù di un accordo; - insussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen. in relazione al delitto di concorso in estorsione, in quanto non era mai stata prospettata l'immunità del cantiere da eventuali episodi criminosi in cambio di una somma di danaro, come risultava dai dialoghi intercettati, ai quali spesso il ricorrente non aveva partecipato; - violazione di Legge con riferimento all'art. 114 cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in ordine al diniego dell'applicazione dell'attenuante, nonostante il rilievo del tutto marginale della condotta nella vicenda estorsiva; - violazione di Legge con riferimento all'art. 62 bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, risultando dagli atti la collaborazione processuale e lo status di incensurato nonché le difficoltà economiche determinate dalla momentanea disoccupazione; - violazione dell'art. 133 cod. pen. e manifesta carenza della motivazione in ordine all'aumento di pena di un anno e sei mesi di reclusione rispetto al minimo edittale previsto dall'art. 629 cod. pen. e dell'aumento massimo per l'aggravante; - violazione ed erronea applicazione dell'art. 240-bis cod. pen. e illegittimità della confisca nonché carenza e manifesta illogicità della motivazione sul punto, con riferimento alla riscontrata sperequazione reddituale in relazione all'acquisto di un'autovettura, risalente al 2021, senza accertamento dei redditi relativi agli anni di imposta 2020 e 2021 e senza considerare il reddito di cittadinanza percepito dal nucleo familiare dal 2019, in grado di assicurare il pagamento del prezzo rateale del bene, garantito peraltro dalla sorella del ricorrente. 2.1.2. Sempre nell'interesse di Or.Di. è proposto altro ricorso, dallo stesso difensore, per far valere un decimo motivo, con il quale si eccepisce il vizio di motivazione circa l'accoglimento delle richieste di risarcimento delle parti civili, pur in carenza di prova sul danno, e circa la determinazione di una provvisionale. 2.2. Nell'interesse di Ri.Me. con due motivi di ricorso si eccepisce: - la violazione di Legge per travisamento della prova e l'illogicità della motivazione con riferimento alla confermata responsabilità per il reato di estorsione aggravata, senza tener adeguato conto delle censure difensive, tese a far valere la mancanza di rigore nella valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile, da ritenersi inattendibili e non veritiere (era stata eccepita l'incompletezza della trascrizione dei dialoghi intercettati, solo parzialmente trasmessi dalla P.G. alla Procura, e il travisamento del contenuto delle conversazioni, prive di frasi minatorie nei confronti della persona offesa; inoltre, non si era tenuto conto delle captazioni presentate dalla difesa che screditavano la vittima; - la violazione di Legge e il vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, all'applicazione della contestata recidiva senza specificazione delle ragioni, all'entità del trattamento sanzionatorio. 2.3. Le parti civili Fa.In., (...) Onlus, (...) - (...) Associazione di promozione sociale, tramite il comune difensore, con separati ricorsi e con motivi sovrapponibili eccepiscono la violazione di legge in relazione all'art. 12 commi 1 e 2, D.M. 55/2014, modificato dal D.M. 147/22, nonché vizio di motivazione con riferimento all'art. 546, lett. e, cod. proc. pen. in ordine alla liquidazione delle spese sostenute nel giudizio di appello, in violazione dei minimi tariffari inderogabili, con esclusione del rimborso forfettario del 15% per spese generali e dell'aumento previsto per l'assistenza di una parte contro più imputati, senza alcuna esplicazione delle ragioni di tale determinazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi degli imputati sono inammissibili perché presentati per motivi non consentiti e, comunque, privi della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, e 591, cod. proc. pen., in quanto reiterativi di doglianze già correttamente disattese dalla Corte di appello, con argomentazioni con le quali i ricorrenti non si confrontano. 1.1. Va altresì ribadito che il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso - come quello in esame - di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (ex multis Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 - 01), sì che non hanno rilevanza le censure che si limitino ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione, pur dopo le novelle codicistiche, si risolve pur sempre in un giudizio di mera legittimità. 2. I primi tre motivi del ricorso del Or.Di. (che riproducono, ampliandolo, il secondo motivo di appello) e il primo motivo del ricorso del Ri.Me. tendono, invece, ad introdurre valutazioni attinenti al merito ossia alla ricostruzione fattuale della condotta, attraverso una diversa analisi delle prove dichiarative, tesa a screditare la persona offesa e ad escludere la responsabilità concorsuale per l'estorsione aggravata contestata. La corte territoriale - a seguito delle censure degli imputati - ha ritenuto che la prova di piena colpevolezza di entrambi sia costituita da plurime e convergenti risultanze a loro carico, costituite, in particolare, dal racconto della persona offesa Fa.In. e da diverse conversazioni intercettate, dialoghi - secondo la valutazione del Tribunale - "che, oltre a costituire formidabile riscontro del predetto racconto, forniscono altresì diretta rappresentazione di plurime e significative porzioni dell'articolata condotta estorsiva posta in essere dai due imputati". 2.1. Punto centrale dell'accertamento in fatto è l'arresto in flagranza di reato di Ri.Me., l'11 marzo 2021, trovato in possesso delle banconote in precedenza possedute dalla vittima e fotocopiate dal personale della Guardia di Finanza che, a seguito della denunzia dell'Fa.In., aveva attivato un servizio di osservazione; questi aveva in precedenza riferito alla polizia giudiziaria che la richiesta di danaro gli era stata rivolta al fine di garantirsi la tranquillità in cantiere, a seguito anche di due furti subiti qualche tempo prima. La responsabilità concorsuale del Or.Di. si basa sulle dichiarazioni della persona offesa che ha riconosciuto nell'imputato il soggetto che aveva insistito perché fosse consegnato il danaro al Ri.Me., assistendo alle richieste di costui. Le conversazioni intercettate hanno confermato che entrambi gli imputati si erano presentati come persone in grado di offrire protezione (pag. 11 della sentenza di appello). Il giudice di secondo grado, nell'esaminare l'appello del Or.Di. aveva in realtà rilevato che il motivo relativo all'accertamento di responsabilità era ai limiti dell'ammissibilità per aspecificità cd. estrinseca, non essendo stata offerta dall'appellante alcuna attendibile prova a discarico, nè allegazioni idonee ad inficiare le prove di colpevolezza, plurime e convergenti, orali e documentali. In particolare, non aveva trovato il minimo supporto probatorio la tesi difensiva secondo cui il Ri.Me., a seguito della presentazione dell'Fa.In. avvenuta per il tramite del Or.Di., avrebbe stipulato un accordo per lo smaltimento del materiale edile del cantiere, poi pretendendo la somma di danaro all'atto del recesso della persona offesa: la giustificazione della pretesa di pagamento, riproposta in sede di legittimità, non ha trovato riscontro se non nelle dichiarazioni degli stessi imputati sì che non vi è motivo di ritenere che il Or.Di. fosse convinto della legittimità della richiesta, a fronte del suo incontestato coinvolgimento personale nella vicenda estorsiva (circostanza che esclude una diversa qualificazione del reato contestato; quarto motivo del ricorso del Or.Di., che solo con il ricorso in cassazione ha prospettato la possibilità di inquadrare la fattispecie ai sensi dell'art. 393 cod. pen.). Tutte le deduzioni difensive dirette a screditare la credibilità della persona offesa, a dubitare della completezza dei dati istruttori (in particolare, della trascrizione dei dialoghi intercettati), a privare di rilevanza i passaggi significati delle conversazioni di riscontro hanno trovato adeguato esame nella sentenza impugnata, con riferimento ad entrambi gli imputati, in una rappresentazione dell'azione estorsiva concretizzata nella imposizione della cd. guardiania per evitare il rischio continuo di danni (par. 7, pagine da 16 a 33 per il Or.Di., con particolare riferimento alla mancanza di prove a discarico, a fronte delle risultanze istruttorie costituite dalle dichiarazioni della persona offesa e dagli specifici passi della conversazioni captate che confermano l'interessamento al pagamento e l'interlocuzione di entrambi gli imputati circa la garanzia di tranquillità; par. 8, pagine da 33 a 37 per il Ri.Me., rispetto al quale si è sottolineato il fatto di essere stato colto in possesso del provento del delitto, di essere stato riconosciuto dalla persona offesa, di aver proferito frasi dal chiaro contenuto intimidatorio per giustificare la richiesta di danaro - in tal senso, il dialogo del 9 marzo 2021, riportato a pagina 35). 2.2. La circostanza aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso (quinto motivo del ricorso del Or.Di., primo motivo del ricorso del Ri.Me.) si basa sull'aver prospettato alla vittima di essere i garanti dell'immunità del cantiere da episodi delittuosi o, comunque, da eventi dannosi, secondo il modello della guardiania mafiosa, in ragione altresì della capacità in concreto dimostrata dagli imputati di essere in grado di presidiare il territorio per controllare i movimenti della vittima sul luogo di lavoro, sì da incuterle la convinzione di non potersi sottrarre a tale controllo e di dover sottostare all'offerta di protezione. La condotta è stata quindi commessa utilizzando la forza intimidatrice riconducibile ad un'associazione mafiosa, in un territorio notoriamente interessato da un simile fenomeno criminale, nell'irrilevanza a tal fine dalla effettiva esistenza di una compagine di riferimento. Il collegamento del comportamento con la forza intimidatrice del vincolo associativo, funzionale a creare nella vittima la peculiare condizione di assoggettamento derivante dal prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici derivanti non dal singolo ma dall'intero gruppo, ha determinato l'affermazione dell'esistenza della circostanza aggravante a carico non solo del Ri.Me. ma anche del Or.Di., a seguito del ruolo concorsuale delineato (quinto motivo del ricorso di quest'ultimo). 3. I rilievi sul trattamento sanzionatorio sono del pari reiterativi e, in ogni caso, manifestamente infondati (sesto, settimo e ottavo motivo del ricorso del Or.Di., secondo motivo del ricorso del Ri.Me.). Nell'ambito della cornice edittale prevista dall'art. 629, primo comma, cod. pen. la pena base è stata determinata in termini superiori al minimo ma di gran lunga inferiori alla media, sottolineandosi la gravità del fatto delittuoso; l'aumento per l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen. è pressoché coincidente con il minimo di Legge (un terzo). Il diniego delle circostanze ex art. 62 bis cod. pen. nella valutazione discrezionale dei giudici di merito è stato motivato con l'assenza di elementi sintomatici di valori attenuanti e con la personalità negativa degli imputati, desumibile dall'intensità del dolo e dalle caratteristiche della pressione estorsiva nei confronti di un imprenditore della zona, a prescindere dallo stato di incensurato del Or.Di. L'esclusione per quest'ultimo dell'attenuante speciale di cui all'art. 114 cod. pen. si fonda su argomentazioni congrue, tese a evidenziare il contributo causale determinante nella commissione del reato ("aver assunto l'iniziativa prendendo contatti per primo con la persona offesa...aver proposto e presentato il Ri.Me....aver sollecitato l'Fa.In. all'immediata consegna di almeno una parte della somma richiesta...essere stato presente negli incontri di maggior rilievo in cui venivano avanzate le richieste di denaro...aver esposto all'Fa.In. che era stato raggiunto un accordo e che bisognava onorarlo...aver accondisceso alla proposta di rimandare la consegna del denaro e alla possibilità di ricevere direttamente, in luogo del Ri.Me., la consegna del denaro...l'aver chiesto spiegazioni alla persona offesa, che per qualche giorno non si era presentata in cantiere, circa la mancata consegna del denaro al Ri.Me. e di essersi auto-attribuito il ruolo di intermediario.." - pag. 26); al contrario, il ricorrente si sofferma su frammenti della condotta, proponendo una lettura alternativa delle risultanze istruttorie che non inficia il tenore logico della motivazione. La recidiva infraquinquennale applicata al Ri.Me. è stata valutata considerando - correttamente - le pregresse condotte criminose, sintomatiche di una pervicace capacità a delinquere e, quindi, di una perdurante inclinazione al delitto che ha influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato in argomento, (pagina 38). 4. Il nono e il decimo motivo del ricorso del Or.Di. attengono, rispettivamente, alla confisca di un'autovettura (ai sensi degli artt. 321, comma 2, cod. proc. pen., e 240 bis cod. pen.) e alle statuizioni civili. L'alternativa ricostruzione della capacità reddituale per il periodo di riferimento - a fronte degli accertamenti - è stata esclusa dalla corte territoriale con adeguata motivazione (pagina 31), in linea con gli accertamenti della Guardia di Finanza. In particolare, la concessione di un finanziamento per l'acquisto non si giustificava con i proventi leciti accertati nel biennio precedente oltre nel periodo ancora più remoto, non rilevando sul piano dell'interferenza logica le ipotetiche entrate sottolineate dalla difesa (le dichiarazioni dei redditi degli anni 2020 e 2021, non allegate agli atti e genericamente richiamate in ricorso; la percezione del reddito di cittadinanza). Aspecifica anche l'ultima censura relativa alla mancanza di prova di un effettivo danno subito dalle parti civili, a fronte del pregiudizio economico, pari all'esborso della somma estorta e al danno non patrimoniale, causato dalla condotta delittuosa degli imputati; si giustifica anche la liquidazione del danno, in misura simbolica e contenuta, in favore degli enti costituitisi parti civili. Circa la provvisionale, il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Cass. sez. 2, n. 43886 del 26/04/2019, Saracino, Rv. 277711). 5. Restano da esaminare i ricorsi delle parti civili che, in termini sovrapponibili, lamentano la liquidazione delle spese di lite nel giudizio di appello, liquidate "nella somma di euro 900,00, oltre IVA e CPA come per Legge, per ciascuna delle parti civili", in violazione dei parametri generali per la determinazione dei compensi e dei minimi inderogabili; richiamano a tal fine i criteri di liquidazione per i giudizi penali ed i principi di diritto elaborati a riguardo dalla giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento al perimetro di discrezionalità giudiziale. Si sostiene, infine, che a fronte della nota spesa per un importo complessivo di euro 6.359,73 per ciascuna parte civile, non vi sarebbe stata motivazione in ordine alla drastica riduzione. 5.1. Va ribadita, innanzitutto, l'ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso il capo della sentenza di condanna relativo alla rifusione delle spese in suo favore quando sia dedotta la mancanza assoluta di motivazione della statuizione per l'omessa indicazione, anche in modo sommario, dei criteri di determinazione adottati per la liquidazione, con riferimento ai limiti tariffari, per le attività difensive svolte (Sez. 1, n. 7900 del 12/12/2019, dep. 2020, Lomma, Rv. 278474). I ricorsi sono altresì fondati, in quanto nella sentenza impugnata non risultano enucleati i criteri di determinazione adottati per la quantificazione delle spese processuali delle suddette parti civili, non essendo esplicitato il percorso attraverso cui si determinava la somma di euro 900,00 oggetto di liquidazione, occupandosi la Corte di appello di Palermo di tale determinazione esclusivamente nella parte dispositiva della decisione. Deve, invero, rilevarsi che, relativamente a tale profilo valutativo, i doveri motivazionali del giudice si caratterizzano per un minore rigore argomentativo, che tuttavia non consente l'elusione dell'obbligo di indicare sia pure sommariamente i parametri tariffari usati per giungere a una determinata liquidazione delle spese della parte civile, tenuto conto delle indicazioni contenute nel D.M. n. 155 del 2014, così come modificato dal d.m. n.147 del 2022. Per converso, le parti civili ricorrenti hanno evidenziato le ragioni di illegittimità della liquidazione, indicando l'attività difensiva espletata in appello, la richiesta di liquidazione in base ai parametri tariffari e la violazione dei limiti minimi inderogabili, l'ingiustificato omesso riconoscimento del rimborso generale e il mancato riscontro della richiesta di aumento per l'assistenza di una parte nei confronti di più imputati, conformandosi al dovere di specificità previsto a riguardo dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 42543 del 15/09/2016, C., Rv. 268443-01). All'accoglimento dei ricorsi in esame, consegue il rinvio al giudice civile competente in grado di appello, non residuando, ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen., profili valutativi sui quali il giudice penale può intervenire in sede di rinvio. 6. L'inammissibilità dei ricorsi degli imputati determina, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna degli stessi al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria. Gli imputati sono altresì condannati in solido alla rifusione delle spese processuali sostenute nel giudizio di legittimità dalla parte civile non ricorrente Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie "an.Ca." nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla liquidazione delle spese delle parti civili Fa.In., (...) - Onlus in persona del Leg. rappr. p.t. ed (...) - (...) in persona del Leg. rappr. p.t., con rinvio per nuovo giudizio sul punto al giudice civile competente in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità. Dichiara inammissibili i ricorsi di Or.Di. e Ri.Me., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le Mafie "an.Ca." ente generico in persona del Leg. rappr. p.t., che liquida in complessivi euro 2.700/00, oltre accessori di Legge. Così deciso in Roma il 18 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Br.Pi., nata a M il (omissis); avverso la sentenza del 12/10/2023 della CORTE APPELLO di BRESCIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE COSCIONI; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale LUIGI CUOMO, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 12 ottobre 2023, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava Br.Pi. responsabile del reato di cui all'art. 7 del D.L. n. 4/2019 (capo 1), in esso assorbito il reato di cui agli artt. 81 comma 2 e 640 comma 2 n. 1 cod. pen. contestato al capo 2). 1.1 Avverso la sentenza ricorre per cassazione il difensore dell'imputata, osservando che il giudice di primo grado aveva constatato che il reato contestato al capo 1) sarebbe stato abrogato con decorrenza dal l°gennaio 2024, ma la Corte di appello aveva escluso di ritenere che la norma, al momento della sentenza impugnata, non fosse più vigente; il ricorso veniva quindi proposto per ottenere una sentenza di non doversi procedere per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato. 1.2 Il difensore lamenta il travisamento dei fatti relativamente al reato di truffa contestato: il giudice di primo grado aveva correttamente preso atto della circostanza che la residenza indicata dalla imputata nella dichiarazione presentata al fine di richiedere il reddito di cittadinanza era solo virtuale, visto che tale indirizzo era stato assegnato dall'Ufficio Anagrafe all'imputata, così come ad altre persone prive di fissa dimora; pertanto, come rilevato dal giudice di primo grado, appariva del tutto presuntiva e non suscettibile di accertamento la circostanza che il nucleo familiare di Br.Pi. fosse composto da dieci persone, che corrispondevano a tutti i nomadi senza fissa dimora a cui era stata assegnata la residenza virtuale da parte del Comune di D; erroneamente era quindi stato ritenuto che le dichiarazioni dell'imputata fossero mendaci. 1.3 Il difensore rileva che il venir meno del reato di cui al capo 1) comportava necessariamente una autonoma valutazione del fatto contestato sub 1) da ricomprendersi nel motivo secondo, anche se nella ipotesi suddetta venivano a mancare le finalità specifiche assolutamente poste in essere dalla imputata e cioè l'avere agito per l'ottenimento del reddito di cittadinanza; in questo caso pertanto non poteva sussistere come forma di reato autonoma la fattispecie contestata e tantomeno sia l'aggravante di cui all'art 81 comma 2 cod. pen., sia l'aggravante di avere commesso il fatto in danno di un ente pubblico. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 1.1 La prospettazione della prossima futura abrogazione dell'istituto del reddito di cittadinanza con conseguente venir meno delle normative penali è manifestamente infondata e inconducente, in quanto l'art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l'art. 7 d.l. n. 4 del 2019, a decorrere, dall'1 gennaio 2024 e, nell'introdurre il c.d. "assegno di inclusione" destinato a sostituire integralmente il RDC ha contestualmente ed espressamente previsto che al RDC continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'art. 7 di. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023. Inoltre, già alla data della sentenza impugnata, era vigente il d.l. 4 maggio 2023 n. 48, recante "misure urgenti per l'inclusione e l'accesso al mondo del lavoro", conv., con modiff., dalla L. 3 luglio 2023 n. 85. Dopo aver riproposto, all'art. 8, commi 1 e 2, previsioni incriminatrici per le false od omesse comunicazioni concernenti l'ottenimento o il mantenimento dei nuovi benefici economici previsti dagli artt. 3 e 12 della legge, previsioni sostanzialmente identiche a quelle già contenute nell'art. 7, commi 1 e 2, d.l. 4/2019 con riguardo al reddito di cittadinanza, l'art. 13, comma 3, d.l. 48/2023, collocato tra le disposizioni transitorie e finali, statuisce che "al beneficio di cui all'articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni dì cui all'articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023". Sul punto anche le Sezioni Unite hanno osservato che "L'art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l'art. 7 d.l. n. 4 del 2019, a decorrere, però, dal 1 gennaio 2024. Il legislatore, peraltro, nell'introdurre il ed. "assegno di 3 inclusione" (misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale destinata a sostituire integralmente il RDC e definita dall'art. 1, comma 1, decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, "quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all'esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro"), ha contestualmente ed espressamente previsto che al RDC continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'art. 7 d.l. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023 (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Rv.285435 - 01, in motivazione); si deve infine rilevare che il reato di truffa è stato ritenuto assorbito da quello di cui all'art. 7 del D.L. n. 4/2019, che è rimasto inalterato nella sua struttura materiale. 1.2 Relativamente al secondo motivo di ricorso, si deve precisare la natura del sindacato di legittimità e si riporta ai principi che questa Corte ha più volte ribadito, a mente dei quali gli aspetti del giudizio che si sostanziano nella valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi probatori attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, a meno che risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguente inammissibilità, in sede di legittimità, di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una rivalutazione del risultato probatorio. Non va infatti dimenticato che "...sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito" (cfr. Sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099). Nel caso in esame, il motivo chiede a questa Corte una serie di accertamenti di fatto, (relativi alla dichiarazione dell'imputata, al fatto che la residenza le era stata assegnata dal Comune di D, agli accertamenti effettuati) che non possono essere compiuti in sede di legittimità, senza neppure provvedere ad allegare al ricorso atti o documenti dai quali sarebbe possibile accertare il travisamento denunciato. 2. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato; ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 12 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI LOCRI SEZIONE CIVILE Controversie di (...) e (...) in persona del Giudice del lavoro, dott. (...) all'esito della camera di consiglio dell'udienza del 19 aprile 2024, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. (...)/2021 R.G. vertente T R A (...) (C.F.: (...)), elettivamente domiciliato in (...) di (...) alla via (...) n. (...), presso lo studio dell'avv. (...) che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso introduttivo, pec: (...); Ricorrente CONTRO INPS, in persona del l.r.p.t., con sede (...)(...) alla via (...) il (...) elettivamente domiciliato nell'(...) di (...) via (...) n. (...), con l'avv. (...) giusta procura generale alle liti del 21.07.2015, al rogito del notaio (...) in (...) rep. (...), pec: (...); Convenuto OGGETTO: azione di accertamento - reddito di cittadinanza d.l. 4/2019 ESPOSIZIONE DEI FATTI E RAGIONI DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 7 dicembre 2021, (...) ha esposto che ha presentato in data (...) domanda all'(...) convenuto al fine di ottenere il cd. reddito di cittadinanza, così come istituito dal d.l. 4/2019; che l'(...) ritenendo sussistente tutti i requisiti di legge, le ha attribuito il beneficio di legge; che tuttavia, con comunicazione del 03/07/2021 le ha comunicato la revoca del beneficio del reddito di cittadinanza; che la motivazione di tale provvedimento è stata individuata nel fatto che il di lei marito, (...) si trovava, al momento della presentazione della domanda, in stato di detenzione; che ella ha avversato tale determinazione con i rimedi amministrativi rappresentando che suo marito non si trovava in uno stato di detenzione al momento della domanda; che l'(...) in data (...) ha confermato la revoca del beneficio in esame; che ella è incensurata; che ai fini delle condizioni del beneficio richiesto, il suo nucleo familiare si compone da tre figli minori e dal marito; che al momento della presentazione della domanda non ha indicato lo stato di detenzione poiché non in atto, essendo lui stato scarcerato in data (...), dunque prima della domanda del 12 marzo 2019; che ella ha diritto di vedersi riconosciuta la somma percepita a tale titolo da gennaio 2021 ad aprile 2021. Ha pertanto rassegnato le seguenti conclusioni "accertare e dichiarare, per i motivi meglio esposti in narrativa, il diritto della sig.ra (...) a percepire, per come ha percepito, per il periodo ricompreso tra gennaio 2021 ed aprile 2021, le somme corrisposte a seguito della domanda di reddito di cittadinanza da lei presentata in data (...) e, per l'effetto, dichiarare illegittima la pretesa restituzione dell'importo di Euro 3.3337,67 avanzata dall'(...) a mezzo raccomandata n. (...) e, conseguentemente condannare l'(...) in persona del legale rappresentante pro tempore al pagamento delle spese di lite da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore antistatario". Ritualmente instaurato il contraddittorio, l'(...) si è tempestivamente costituito ed ha eccepito l'infondatezza del ricorso, ha sostenuto che il presente giudizio deve investire per l'interezza il diritto della ricorrente a percepire il beneficio indicato, ed ha contestato che non ha provato la sussistenza di tutti i requisiti previsti per ottenere il reddito di cittadinanza. Nel merito ha ritenuto che la richiedente ha violato l'obbligo di comunicare se uno dei componenti del nucleo familiare abbia riportato condanne in via definitiva per i reati previsti dall'art. 7 comma 3 del d.l. 4/2019, e che comunque la condanna riportata in sede penale avente la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici comporta, quale effetto e(...) lege, art. 25 comma 2, n.5 c.p., la privazione degli stipendi, pensioni ed assegni che siano a carico dello stato o di altri enti pubblici. Ha pertanto concluso chiedendo di "respingere il ricorso attesa l'assenza di allegazione e prova dei requisiti costitutivi del diritto; in via subordinata, nonché se del caso ammesse le istanze istruttorie indicate in memoria, dichiarare inammissibile e/o respingere il ricorso e(...) avverso proposto e tutte le domande proposte da (...) contro l'(...) in quanto infondate e comunque non provate. Spese di legge". La domanda è fondata e va accolta per i motivi di seguito esposti. Il reddito di cittadinanza è uno strumento di sostegno economico di contrasto alla povertà e alla disuguaglianza, introdotto al fine di garantire l'effettività del diritto al lavoro ed all'istruzione, ed è stato introdotto per mezzo del d.l. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019, n. 26 (in G.U. 29/03/2019, n. 75). In tal senso, l'art. 2 della legge n.26/2019 istitutiva del (...) di cittadinanza stabilisce che: "1. Il Rdc è riconosciuto ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, dei seguenti requisiti: a) con riferimento ai requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere cumulativamente: 1) in possesso della cittadinanza italiana o di (...) facenti parte dell'(...) europea, ovvero suo familiare , come individuato dall'articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di (...) terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; 2) residente in (...) per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo; b) con riferimento a requisiti reddituali e patrimoniali, il nucleo familiare deve possiede (...)valore dell'(...) della situazione economica equivalente ((...), di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, inferiore a 9.360 euro ; nel caso di nuclei familiari con minorenni, l'(...) e' calcolato ai sensi dell'articolo 7 del medesimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013; 2) un valore del patrimonio immobiliare, in (...) e all'estero, come definito a fini (...) diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad una soglia di euro 30.000; 3) un valore del patrimonio mobiliare, come definito a fini (...) non superiore a una soglia di euro 6.000, accresciuta di euro 2.000 per ogni componente il nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo di euro 10.000, incrementato di ulteriori euro 1.000 per ogni figlio successivo al secondo; i predetti massimali sono ulteriormente incrementati di euro 5.000 per ogni componente in condizione di disabilità e di euro 7.500 per ogni componente in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza, come definite a fini (...) presente nel nucleo; 4) un valore del reddito familiare inferiore ad una soglia di euro 6.000 annui moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza di cui al comma 4. La predetta soglia è incrementata ad euro 7.560 ai fini dell'accesso alla (...) di cittadinanza. In ogni caso la soglia è incrementata ad euro 9.360 nei casi in cui il nucleo familiare risieda in abitazione in locazione, come da dichiarazione sostitutiva unica ((...) ai fini (...) c) con riferimento al godimento di beni durevoli: 1) nessun componente il nucleo familiare deve essere intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di autoveicoli immatricolati la prima volta nei sei mesi antecedenti la richiesta, ovvero di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 cc motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati la prima volta nei due anni antecedenti, esclusi gli autoveicoli e i motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità ai sensi della disciplina vigente; 2) nessun componente deve essere intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di navi e imbarcazioni da diporto di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171. c-bis) per il richiedente il beneficio, la mancata sottoposizione a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell'arresto o del fermo, nonché la mancanza di condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3". (...) che ne deriva è di accertamento del diritto e compete pertanto alla parte che agisce in giudizio fornire prova dei presupposti per la sussistenza del diritto. Anche in questa sede, va riaffermato il principio per il quale il processo avente ad oggetto l'accertamento del diritto a prestazioni previdenziali/assistenziali, è giudizio sul diritto e sul rapporto, non di impugnazione del provvedimento amministrativo. Ancora in via generale, va ricordato che la misura in esame vede quale beneficiario non il richiedente, ma il suo nucleo familiare, ed a tal fine il valore economico si calcola in relazione alla sua composizione. In questo senso, lo stato di detenzione, attuale o sopravvenuto del familiare determina la riduzione dell'importo del beneficio economico. In merito, il d.l. n. 4 del 2019 art. 2 prevede che i requisiti per l'ottenimento del beneficio economico devono essere in possesso del nucleo familiare cumulativamente, ovvero al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio. Si ritiene pertanto che il non informare l'ente erogatore del sopravvenuto o attuale status detentivo di un componente del nucleo familiare rientri tra le "altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del benefici", la cui omessa comunicazione è sanzionata dal d.l. 4 del 2019, art. 7 comma 2. Tanto premesso, va inoltre considerato che è documentale che la domanda del reddito di cittadinanza è stata proposta in un momento successivo alla scarcerazione. Ed infatti il marito della richiedente ha riacquistato la libertà per espiazione pena in data 25 gennaio 2019, mentre la domanda all'(...) è stata inoltrata il successivo 12 marzo. In tal senso, va inoltre rilevato che la parte ha dato conto del possesso, mediante produzione documentale, di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi per l'accesso al beneficio invocato, né parte convenuta ha allegato o provato circostanza contraria. Esaminando i fatti di causa, l'ente erogatore, dopo aver accolto e liquidato la prestazione, ha ritenuto di revocarla in forza della sentenza di condanna passata in giudicato per uno dei reati previsti dall'art.7, comma 3, d.l. 4/2019 di cui è gravato il marito dell'odierna ricorrente, che ha rilevanza in questo giudizio in quanto membro del nucleo familiare. (...) ha infatti eccepito che ai sensi dell'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., l'interdetto perpetuo o temporaneo è privato durante tale pena accessoria degli stipendi, pensioni e/o assegni a carico dello Stato, di tal che, quale componente del nucleo beneficiario, non poteva godere della prestazione assistenziale e la coniuge richiedente era tenuta a comunicare all'(...) quanto in esame. (...) non può essere convalidato. In tema di effetti derivanti dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici il codice penale all'art. 28, comma 2, n. 5 dispone che il condannato è privato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni a carico dello Stato o di altro ente pubblico. Occorre tuttavia ricordare, a tal fine, che il criterio ermeneutico da adottare per l'esegesi della disposizione in esame non può che essere quello di stretta interpretazione che governa le norme penali. Ed infatti, come noto, in tale materia vige il principio di tassatività della norma incriminatrice e della sanzione. Ne consegue che l'art. 28 c.p., e la sua analisi, non può che essere governata dai detti principi. La natura afflittiva delle pene accessorie impone una interpretazione letterale delle relative norme, nel rispetto del principio di tassatività delle sanzioni penali, cosicché già risulta dubbio che il beneficio economico di cui si tratta sia ricompreso nella nozione di "assegni", considerato che esso viene erogato attraverso la "(...) (l. n. 26 del 2019, art. 5, comma 6), caratterizzata dalla prevalente finalità di soddisfazione di bisogni primari mediante la copertura delle spese di acquisto. Va dunque esclusa ogni lettura che consenta interpretazioni analogiche o estensive. La dizione dei termini "stipendi", "pensioni" ed "assegni" è dunque da intendersi letteralmente, trattandosi peraltro di lemmi da un definito significato giuridico che, in quanto tale, non possono essere analogicamente interpretati. Esula pertanto da tale triade il reddito di cittadinanza, qualificato come misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro. Il reddito di cittadinanza, inoltre, ha natura e funzione ibride, come si evince dallo stesso incipit della legge (art. 1, comma 1), là dove viene definito quale "misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro". (...) assunta è del resto suffragata dalla giurisprudenza di legittimità, che ha in merito affermato che: "Il principio di tassatività impone un'interpretazione restrittiva della disposizione di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., che stabilisce che l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge non sia altrimenti disposto, priva il condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico di ogni altro ente pubblico, di modo che non è consentito ricomprendere il reddito di cittadinanza nella nozione di "assegni", considerata la sua erogazione attraverso la cd. "carta Rdc", funzionale al soddisfacimento di bisogni primari del beneficiario mediante la copertura di spese di acquisto. Inoltre, l'espressa qualificazione del sussidio, quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, ne impedisce la sussunzione nelle categorie di provvidenze economiche elencate dalla disposizione di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., avuto riguardo al ridimensionamento operatone dalla Corte Costituzionale. Infine, la previsione di specifici casi ostativi all'ammissione al beneficio (da parte dell'art. 2, comma 1, lett. c-bis, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito in legge, con modificazioni dall'art. 1, comma 1, l. 28 marzo 2019, n. 26) funge da deroga alla previsione generale di cui alla disposizione del codice penale, consentita alla stregua della clausola di riserva contenuta in quest'ultima contenuta", (cfr. Cassazione penale sez. II, 05/07/2022, n.(...)). Il ricorso, pertanto, è accolto. Le spese di lite seguono la regola della soccombenza e, in considerazione della natura previdenziale della materia trattata e dello scaglione di riferimento nei parametri minimi, esse sono determinate, visto il DM 55/2014, come aggiornato dal D.M. 147/2022, in complessivi in complessivi Euro1.056,16 di cui Euro918,40 a titolo di compensi ed Euro137,76 a titolo di spese, oltre IVA e (...) da riconoscersi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario. P.Q.M. Il Tribunale di (...) in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1.- accerta e dichiara il diritto di (...) alla percezione -già goduta delle somme corrisposte a titolo di reddito di cittadinanza e(...) d.l. 4/2019 da gennaio 2019 ad aprile 2019; 2.- per l'effetto dichiara non dovute le somme richieste a tale titolo con nota del 3.7.2021; 3.- condanna l'(...) alla refusione delle spese di lite che si liquidano in complessivi Euro1.056,16 di cui Euro918,40 a titolo di compensi ed Euro137,76 a titolo di spese, oltre IVA e (...) da riconoscersi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. STANISLAO SCARLINI Enrico Vittorio - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ro.Um. nato a C il (Omissis); avverso l'ordinanza del 19/10/2023 del TRIB. LIBERTA' di CATANZARO; udita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO VITTORIO STANISLAO SCARLINI; lette le conclusioni del PG PAOLA MASTROBERARDINO che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria del difensore del ricorrente che ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 19 ottobre 2023, il Tribunale di Catanzaro rigettava l'appello proposto ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. da Ro.Um. avverso l'ordinanza del Gip del medesimo Tribunale di reiezione dell'istanza avanzata dal medesimo allo scopo di ottenere l'autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio in cui era ristretto agli arresti domiciliari (per il delitto di atti persecutori consumato ai danni della ex convivente) per svolgere attività lavorativa. Aveva rilevato il Tribunale che: - sull'ordinanza genetica si era formato il giudicato cautelare; - la difesa non aveva adeguatamente attestato il preteso stato d'indigenza del Ro.Um.; - nell'attualità il prevenuto dimorava nel domicilici dei genitori che provvedevano pertanto al suo sostentamento; - il versamento dell'assegno di mantenimento dei figli minori, di cui il prevenuto era onerato, doveva considerarsi sospeso dall'attuale stato detentivo; - i limiti spazio-temporali dell'attività lavorativa per la quale si era chiesta l'autorizzazione erano troppo ampi, e tali da vanificare le esigenze di cautela tuttora sussistenti. 2. Propone ricorso l'imputato, a mezzo del proprio difensore, articolando le proprie censure in due motivi. 2.1. Con il primo deduce il vizio di motivazione posto che il Tribunale aveva affermato sussistesse il giudicato cautelare sull'ordinanza genetica, giudicato che, però, si era formato solo un mese più tardi rispetto alla pronuncia dell'ordinanza impugnata. 2.2. Con il secondo motivo lamenta, ancora, il difetto di motivazione non avendo il Tribunale considerato che il prevenuto aveva perso il suo precedente reddito - il reddito di cittadinanza - e non godeva di introiti ulteriori (almeno tali da imporre la dichiarazione degli stessi) così che doveva considerarsi indigente ai fini dell'applicazione dell'art. 284 comma 3 cod. proc. pen., dovendo anche corrispondere l'assegno dovuto per il mantenimento dei figli minori. Si citavano i precedenti di legittimità che imponevano l'autorizzazione a prestare attività lavorativa del detenuto agli arresti domiciliari quando questa sia resa necessaria dal dovere di sostentare la propria famiglia. 3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto Paola Mastroberardino, ha inviato requisitoria scritta con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso. 4. Il difensore del ricorrente ha inviato memoria con la quale ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso proposto nell'interesse del prevenuto è infondato. 1. L'art. 284, comma 3, cod. proc. pen. prevede che "se l'imputato non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versa in situazione di assoluta indigenza, il giudice può autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa". Se ne deduce che il giudice della cautela conserva il potere (visto l'utilizzo della forma verbale "può" e non "deve", come, in sostanza, assume la difesa) di verificare non la sola indigenza della persona sottoposta agli arresti domiciliari che ne costituisce il presupposto (e che deve essere vagliato anche tenendo conto del complessivo reddito familiare, pur non dovendo consistere in una situazione di totale indigenza: Sez. 6, n. 1200 del 04/12/2023, dep. 2024, Tahiri, Rv. 285885) ma anche se l'autorizzazione richiesta non vanifichi quelle esigenze di cautela che la restrizione domiciliare è destinata a salvaguardare (e che, nel caso concreto, non vengono neppure negate). Esigenze di cautela, del resto, che erano state definitivamente accertate (rendendo così privo di concreto rilievo il primo motivo di ricorso in cui si lamenta l'errore materiale di avere considerato un giudicato cautelare che si era, invece, formato solo qualche giorno dopo) e che il Tribunale aveva considerato totalmente vanificate qualora si fosse autorizzata la prospettata attività lavorativa. Motivazione che appare priva di manifesti vizi logici se si considera che, nell'offerta di collaborazione lavorativa in atti, si legge che l'attività che il ricorrente avrebbe dovuto svolgere era quella di agente di commercio, da esercitare nella città di C e nei suoi dintorni e nelle province di C, C e V, dalle 8.00 alle 17.00 di tutti i giorni feriali, sabato compreso. Una fascia oraria ed un ambito territoriale che, con tutta evidenza, non avrebbero preservato alcune delle esigenze di recente definitivamente ritenute, e non avrebbero neppure consentito i dovuti controlli da parte delle forze dell'ordine a ciò incaricate. E si è invece affermato che, in tema di arresti domiciliari, la valutazione da compiere ai fini della concessione dell'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione ex art. 284, comma terzo, cod. proc. pen., deve essere improntata a criteri di particolare rigore, tenendo conto della compatibilità cell'attività lavorativa proposta rispetto alle esigenze cautelari poste a base della misura coercitiva (Sez. 2, n. 9004 del 17/02/2015, Prago, Rv. 263237; Sez. 5, n. 27971 del 01/07/2020, G., Rv. 279532). 2. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente; al pagamento delle spese processuali. Dispone l'oscuramento dei dati identificativi considerando il titolo dei reati ed il rapporto personale fra le parti. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso, in Roma l'I 1 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GALTERIO Donatella Presidente Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere-Rel. Dott. DI STASI Antonella - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere MOTIVAZIONE SEMPLIFICATA ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: Co.An., nata a N il (Omissis) avverso la sentenza emessa il 23 gennaio 2023 dalla Corte d'Appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pazienza Vittorio; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Molino Pietro, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 23 gennaio 2023, la Corte d'Appello di Napoli ha confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia emessa dal G.u.p. del Tribunale di Napoli Nord nei confronti di Co.An., in data 12/02/2021, in relazione al reato continuato di cui all'art. 7 D.L. n. 4 del 2019 (convertito dalla L. n. 26 del 2019). 2. Ricorre per cassazione la Co.An., a mezzo del proprio difensore, deducendo: 2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta rilevanza penale dell'omessa dichiarazione, da parte della ricorrente, dell'essere socia della (...) Sas di v, (la dichiarazione, su modulo prestampato, era stata tra l'altro redatta avvalendosi di un CAF). 2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione della sospensione condizionale. Si contesta la sussistenza di un precedente per furto, non riportato nel certificato penale. 2.3. Violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Si censura la genericità della motivazione adottata al riguardo, e la doppia valutazione dei parametri utilizzati per la quantificazione della pena. 3. Con requisitoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, per la manifesta infondatezza delle questioni prospettate. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. L'odierna ricorrente è stata tratta a giudizio con riferimento a due ordini di condotte omissive poste in essere con la presentazione delle dichiarazioni sostitutive uniche, funzionali all'ottenimento indebito del reddito di cittadinanza. Da un lato, l'omessa indicazione della propria qualità di socia accomandataria della (...) Sas di Co.An.; dall'altro, la mancata indicazione dei redditi dell'attività illecita svolta dal coniuge di Co.Gi. 2.1. Quanto al primo aspetto, deve osservarsi che la non contestata mancata assenza di effettiva operatività dalla predetta società, in concordato preventivo, era stata ritenuta dal primo giudice priva di conseguenze liberatorie per la Co.An.: il G.i.p. del Tribunale di Napoli Nord aveva infatti ritenuto sufficiente, ad integrare il reato, la mancata indicazione della titolarità della carica amministrativa e l'essere la società formalmente attiva all'epoca dei fatti (cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado). Nel medesimo senso si era poi orientata la Corte d'Appello di Napoli (cfr. pago 2 della sentenza impugnata). Tale prospettazione non può peraltro essere condivisa, alla luce del principio di recente affermato dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, secondo cui "integrano il delitto di cui all'art. 7 D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell'autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza solo se funzionali a ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge" (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Giudice, Rv. 285435 - 01). È invero evidente che il mancato richiamo, da parte della Co.An., della propria qualità di accomandataria della predetta società - non essendo stata barrata la casella relativa alla dicitura "lavoratore autonomo, libero professionista, imprenditore" (cfr. pago 4, cit.) - non appare in alcun modo connotata nel senso richiesto dalle Sezioni Unite, avuto riguardo alla concreta ed effettiva situazione in cui versava la società in accomandita. 2.2. Quanto al secondo aspetto, assume rilievo assorbente il fatto che la sentenza di primo grado, non impugnata dall'Accusa sul punto, ha escluso in termini inequivoci la responsabilità della Co.An. per omissioni correlate al reddito del coniuge (cfr. pag. 5 della sentenza del G.i.p. del Tribunale di Napoli Nord): ben si comprende, quindi, che tale aspetto non sia stato preso in considerazione dalla Corte territoriale. 3. Le considerazioni fin qui svolte impongono l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra Aeroporto di Genova spa e Alitalia Linee Aeree Italiane spa in amministrazione straordinaria, con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale «conseguenziale» dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, nella parte in cui prevede che le disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350», «si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». 1.1.– Il rimettente espone in punto di fatto che: – nel 2012 Aeroporto di Genova spa aveva insinuato al passivo di Alitalia Linee Aeree Italiane spa in amministrazione straordinaria (d’ora in avanti: Alitalia) il credito di euro 3.150.581,09, in via privilegiata, e di euro 714.242,53, in prededuzione; – il giudice delegato aveva ammesso il credito di euro 3.278.237,70, in via chirografaria, escludendo, in primo luogo, il privilegio speciale di cui all’art. 1023 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327 (Approvazione del testo definitivo del Codice della navigazione), sulla somma di euro 484.531,11, fatta valere per «diritti di approdo e partenza, diritti di sosta, diritti di imbarco passeggeri, corrispettivo controlli di sicurezza sui passeggeri e bagagli al seguito, corrispettivo di controllo di sicurezza dei bagagli di stiva»; – il medesimo giudice aveva in secondo luogo escluso – «ritenendolo applicabile solamente nei confronti dell’erario» – il privilegio generale di cui al terzo (già quarto) comma dell’art. 2752 del codice civile sul credito di euro 279.580,00, azionato a titolo di addizionale comunale sui diritti di imbarco dei passeggeri sugli aeromobili (d’ora in avanti, anche: addizionale comunale), prevista dall’art. 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)»; – Aeroporto di Genova spa aveva proposto opposizione avverso lo stato passivo, in parte accolta dal Tribunale ordinario di Roma; – in particolare, il Tribunale aveva, da un lato, confermato il diniego del privilegio di cui all’art. 1023 cod. nav., per mancanza di prova del collegamento tra i crediti iscritti e i singoli aeromobili che avevano formato oggetto dei servizi resi, e, dall’altro, riconosciuto, ai sensi dell’art. 2752, terzo comma, cod. civ., il privilegio generale sui beni mobili in relazione al credito di euro 279.580,00 per addizionale comunale; – ancora più in particolare, secondo il Tribunale, quest’ultimo privilegio andrebbe riconosciuto poiché il citato art. 2752, terzo comma, cod. civ., nel fare riferimento ai «crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge per la finanza locale», rinvierebbe, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali, così come chiarito dall’art. 13, comma 13, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214; – avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione Aeroporto di Genova spa e ricorso incidentale Alitalia; – la ricorrente principale, con un unico motivo relativo al diniego del privilegio speciale sul menzionato credito di euro 484.531,11, ha lamentato la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 93 n. 4, 96 e 97 legge fall., nonché dell’art. 1023 cod. nav. e dell’art. 116 cod. proc. civ.», osservando che l’ammissione al passivo in via chirografaria del credito comporterebbe un giudicato endofallimentare sull’effettivo svolgimento delle prestazioni secondo la documentazione prodotta, la cui efficacia probatoria non potrebbe essere «scissa e negata» ai soli fini della collocazione privilegiata; – la medesima ricorrente ha ribadito, in ogni caso, che nell’istanza di ammissione al passivo erano state analiticamente indicate le sigle di immatricolazione identificative di tutti gli aeromobili in relazione ai quali erano sorti i crediti privilegiati e di aver specificato, in un apposito prospetto, l’esatto ammontare del credito garantito da privilegio con riferimento ad ogni volo operato dal vettore; – la ricorrente incidentale, dal canto suo, ha lamentato la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, dell’art. 13, comma 13, del d.l. n. 201 del 2011, dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007 e dell’art. 2752, ult. comma, cod. civ.», poiché il credito per addizionale comunale non avrebbe natura tributaria, come espressamente significato dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito; – sempre secondo la ricorrente incidentale, l’addizionale comunale avrebbe natura di corrispettivo di un servizio imprenditoriale, dal momento che il relativo importo viene versato allo Stato e da esso devoluto principalmente alla Società nazionale per l’assistenza al volo (ENAV spa), per compensare i costi sostenuti al fine di garantire la sicurezza ai suoi impianti e la sicurezza operativa. 1.2.– Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente ritiene che «il tema sotteso al ricorso incidentale induca a sollevare d’ufficio una questione di legittimità costituzionale conseguenziale», ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). 1.2.1.– A tal fine, occorrerebbe muovere dal rilievo che, successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, questa Corte, con la sentenza n. 167 del 2018, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 1, comma 478, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)». Tale disposizione stabiliva: «[a]ll’articolo 39-bis, comma 1, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, dopo le parole: “della legge 24 dicembre 2003, n. 350,” sono inserite le seguenti: “e di corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti, di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296,”». Due – prosegue il rimettente – sono «le disposizioni implicate da detta norma»: l’art. 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», e l’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito. La prima, per quanto qui rileva, prevede che, «[a]l fine di ridurre il costo a carico dello Stato del servizio antincendi negli aeroporti, l’addizionale sui diritti d’imbarco sugli aeromobili, di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni, è incrementata a decorrere dall’anno 2007 di 50 centesimi di euro a passeggero imbarcato. Un apposito fondo, alimentato dalle società aeroportuali in proporzione al traffico generato, concorre al medesimo fine per 30 milioni di euro annui». Con tale disposizione, il legislatore avrebbe istituito «due canali di finanziamento della riduzione della spesa pubblica» per il servizio antincendi negli aeroporti: a) il fondo alimentato dalle società di gestione aeroportuale; b) l’incremento dell’addizionale comunale prevista dall’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003 e pagata dal vettore aereo, che ne trasla il costo sul passeggero, mediante integrazione del prezzo del biglietto. La seconda disposizione presa in considerazione dall’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015, ossia l’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, a sua volta, prevede che «[l]e disposizioni in materia di tassa d’imbarco e sbarco sulle merci trasportate per via aerea di cui al decreto-legge 28 febbraio 1974, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 aprile 1974, n. 117, e successive modificazioni, di tasse e di diritti di cui alla legge 5 maggio 1976, n. 324, di corrispettivi dei servizi di controllo di sicurezza di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 29 gennaio 1999, n. 85, nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e di corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti, di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». L’inserimento nel citato art. 39-bis dei corrispettivi relativi al servizio antincendi (d’ora in avanti, anche: contributi al fondo antincendi), che le società aeroportuali hanno l’obbligo di alimentare in proporzione al traffico generato, avrebbe avuto l’effetto di escluderne la natura tributaria. Osserva poi il giudice a quo che nella citata sentenza n. 167 del 2018 questa Corte: – ha innanzitutto richiamato il suo costante orientamento in base al quale «una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti»: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico e le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti da tale decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese; – ha poi affermato, disattendendo la prospettiva della natura sinallagmatica offerta dall’Avvocatura generale dello Stato, che tutte le suddette caratteristiche del tributo ricorrono nel caso del contributo al fondo antincendi, istituito con l’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006; – ha ancora osservato che la norma ivi scrutinata afferma la natura non tributaria del contributo in parola, ma tale qualificazione legislativa si risolve in una operazione meramente nominalistica, che non si accompagna alla modifica sostanziale degli elementi strutturali della fattispecie tributaria; – ha pertanto concluso che «la norma interpretativa censurata, […] lungi dall’esplicitare una possibile variante di senso della norma interpretata, incongruamente le attribuisce un significato non compatibile con la intrinseca ed immutata natura tributaria della prestazione, così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico», in violazione del principio di ragionevolezza. 1.2.2.– Secondo il rimettente, verrebbe allora in rilievo l’eventualità che l’art. 39-bis citato sia affetto da illegittimità costituzionale anche in relazione alla dichiarata natura non tributaria delle obbligazioni che sorgono dalle disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco». Difatti, i sopra cennati elementi strutturali dei tributi, riconosciuti dalla sentenza n. 167 del 2018 con riferimento ai contributi al fondo antincendi, «dovrebbero a maggior ragione ravvisarsi» nell’addizionale comunale sui diritti di imbarco, di cui l’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006 ha disposto la maggiorazione proprio al fine di alimentare il predetto fondo. 1.3.– La questione sarebbe «sicuramente e immediatamente» rilevante nel giudizio a quo. La «persistente vigenza» dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, nella parte in cui esclude la natura tributaria delle obbligazioni derivanti dall’addizionale comunale, confliggerebbe con quella natura per contro ravvisata dal Tribunale, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2752, terzo comma, cod. civ. L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, dunque, risolverebbe in senso negativo la questione posta con il ricorso incidentale, diretto a conseguire l’esclusione del cennato privilegio. 1.4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene che sia «prospettabile un’ipotesi di illegittimità costituzionale conseguenziale della norma interpretativa» di cui all’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, in quanto, «laddove esclude la natura tributaria delle obbligazioni “derivanti dall’addizionale comunale sui diritti di imbarco […]”, risulta affetto dalla stessa irragionevolezza […] che la sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 2018 ha ravvisato nella medesima norma interpretativa, con riguardo ai “corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti […]”». Considerato in diritto l.- Con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, nella parte in cui prevede che le disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350», «si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». Secondo il rimettente, l’addizionale in parola presenterebbe tutti «gli elementi strutturali dei tributi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza costituzionale», sicché la disposizione censurata, nell’escludere la sua natura tributaria, lederebbe la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, in violazione dell’art. 3 Cost. Tanto si ricaverebbe, in via «conseguenziale», anche dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale recata dalla sentenza n. 167 del 2018, avente ad oggetto la porzione dello stesso art. 39-bis che (in seguito alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015) escludeva la medesima natura tributaria per i corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativi al servizio antincendi negli aeroporti; e ciò a maggior ragione perché «sia questi ultimi corrispettivi, sia la maggiorazione dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco […] sono destinati ad alimentare il fondo antincendi» istituito dall’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006. 2.- È preliminare l’esatta perimetrazione dell’odierno thema decidendum. 2.1.– La disposizione censurata, rubricata «Diritti aeroportuali di imbarco», afferma la natura non tributaria di diversi prelievi: a) la tassa d’imbarco e sbarco sulle merci trasportate per via aerea «di cui al decreto-legge 28 febbraio 1974, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 aprile 1974, n. 117, e successive modificazioni»; b) i diritti aeroportuali (ossia i diritti di approdo, di partenza e di sosta o ricovero per gli aeromobili e di imbarco per i passeggeri) «di cui alla legge 5 maggio 1976, n. 324»; c) i corrispettivi dei servizi di controllo di sicurezza «di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 29 gennaio 1999, n. 85»; d) l’addizionale comunale sui diritti d’imbarco dei passeggeri sugli aeromobili «di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350»; e) i corrispettivi posti a carico delle società di gestione aeroportuale relativi al servizio antincendi «di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296». Dai lavori parlamentari emerge che l’art. 39-bis era stato inserito, con apposito emendamento, al Senato, sul presupposto che i (soli) «diritti e le tasse aeroportuali non sembrano pienamente ascrivibili ad ambiti tributari, ma si configurano prevalentemente come vere e proprie tariffe per servizi resi in specifici ambiti territoriali da soggetti determinati o comunque come oneri dovuti in relazione ad attività od operazioni svolte in spazi riservati agli aerodromi» (così il dossier del Servizio bilancio dello Stato della Camera dei deputati 30 ottobre 2007, n. 124). La disposizione, pertanto, avrebbe «lo scopo di evitare lo sviluppo di problematiche interpretative anche ed in particolare con riferimento agli aspetti relativi alle competenze giurisdizionali» (ibidem). 2.2.– Questa Corte si è già occupata dell’art. 39-bis, riconoscendone la natura interpretativa (sentenze n. 251 del 2014, n. 335 e n. 102 del 2008), in relazione ai diritti aeroportuali, dei quali in diverse occasioni ha affermato la natura non di tributi, ma di corrispettivi di diritto privato (determinati secondo il meccanismo del cosiddetto price cap) di alcuni servizi forniti dalle società di gestione aeroportuale (prima con la sentenza n. 51 del 2008 e poi con le citate sentenze n. 102 e n. 335 del 2008, e n. 251 del 2014). 2.3.– La medesima disposizione è stata poi scrutinata con riferimento ai contributi al fondo antincendi. In particolare, con la sentenza n. 167 del 2018 citata dal rimettente, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015, che aveva incluso tali contributi nel catalogo recato dall’art. 39-bis, affermando che l’esclusione legislativa della loro natura tributaria si risolveva in una operazione meramente nominalistica, che non si accompagnava alla modifica sostanziale degli elementi strutturali della fattispecie tributaria, «così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico», in violazione dell’art. 3 Cost. 2.4.– L’odierna questione sollevata dalla Corte di cassazione riguarda, invece, l’art. 39-bis nella sola parte in cui afferma la natura non tributaria dell’addizionale comunale sui diritti d’imbarco dei passeggeri sugli aeromobili, che il rimettente per contro ritiene sussumibile tra i tributi e, in particolare, tra quelli locali. 3.– Ancora in via preliminare, è necessario ricostruire l’articolato quadro normativo di riferimento, per come dipanatosi a seguito dei molteplici interventi legislativi che nel tempo hanno riguardato l’addizionale in parola, con la precisazione che oggetto della disamina saranno esclusivamente le disposizioni che riguardano la sua istituzione, la modifica dell’entità e l’individuazione del soggetto deputato alla riscossione e dei beneficiari del prelievo. 3.1.– L’addizionale è stata istituita dall’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, che l’ha fissata nella misura di un euro per passeggero imbarcato, prevedendo, altresì, che essa «è versata all’entrata del bilancio dello Stato» per la sua «successiva riassegnazione quanto a 30 milioni di euro», in un apposito fondo istituito presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti destinato a compensare ENAV spa «per i costi sostenuti […] per garantire la sicurezza ai propri impianti» e la «sicurezza operativa»; quanto alla residua quota, in un apposito fondo istituito presso il Ministero dell’interno e ripartito, «sulla base del rispettivo traffico aeroportuale», secondo i seguenti criteri: il venti per cento a favore dei comuni del sedime aeroportuale o con lo stesso confinanti e il restante ottanta per cento per il finanziamento di misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie. Con l’art. 6-quater, comma 2, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7 (Disposizioni urgenti per l’università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 31 marzo 2005, n. 34, l’addizionale è stata incrementata di un euro per passeggero. Tale incremento è stato destinato ad alimentare il Fondo speciale per il sostegno del reddito e dell’occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del settore del trasporto aereo, costituito ai sensi dell’art. 1-ter del decreto-legge 5 ottobre 2004, n. 249 (Interventi urgenti in materia di politiche del lavoro e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 3 dicembre 2004, n. 291. Contestualmente, il citato art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, ha modificato, con il comma 3, le percentuali di assegnazione dell’addizionale “base” di cui all’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, innalzando quella devoluta ai comuni e riducendo quella volta al finanziamento delle misure di contrasto alla criminalità (fissate, rispettivamente, nel quaranta e nel sessanta per cento della quota eccedente trenta milioni di euro). In seguito, il già citato art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006 ha ulteriormente incrementato l’addizionale di cinquanta centesimi di euro per passeggero, destinando il relativo introito al finanziamento della riduzione del costo a carico dello Stato del servizio antincendi negli aeroporti (alla medesima finalità ha concorso, sino all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante «Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 28 gennaio 2009, n. 2, il fondo antincendi alimentato con i corrispettivi posti a carico delle società aeroportuali di cui si è occupata la sentenza n. 167 del 2018). Il successivo art. 2, comma 5-bis, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 27 ottobre 2008, n. 166, ha innalzato a tre euro per passeggero l’incremento dell’addizionale già disposto dall’art. 6-quater, comma 2, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, prevedendo altresì che – ferma la destinazione al Fondo ivi menzionato – le somme dovute a tale titolo sono versate «dai soggetti tenuti alla riscossione direttamente su una contabilità speciale aperta presso la Tesoreria centrale dello Stato gestita dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS)» e intestata al detto Fondo speciale. L’art. 4, comma 75, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), ha poi disposto un ulteriore incremento dell’addizionale di due euro per passeggero imbarcato, stabilendo che le maggiori somme da esso derivanti sono versate all’INPS, per essere anch’esse destinate al menzionato Fondo speciale. L’art. 2, comma 48, lettera b), della medesima legge ha anche inserito nell’art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, tre commi, i quali prevedono che: a) la riscossione dell’incremento dell’addizionale avviene a cura dei gestori di servizi aeroportuali, con le modalità in uso per la riscossione dei diritti di imbarco, e il versamento da parte delle compagnie aeree avviene entro tre mesi dalla fine di quello in cui sorge l’obbligo (comma 3-bis); b) le somme riscosse sono comunicate mensilmente all’INPS da parte dei gestori di servizi aeroportuali con le modalità stabilite dall’Istituto e ad esso riversate, entro la fine del mese successivo a quello di riscossione, «secondo le modalità previste dagli articoli 17 e seguenti del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241», e a tali somme «si applicano le disposizioni sanzionatorie e di riscossione previste dall’articolo 116, comma 8, lettera a), della legge 23 dicembre 2000, n. 388, per i contributi previdenziali obbligatori» (comma 3-ter); c) la comunicazione di cui al comma 3-ter costituisce accertamento del credito e dà titolo, in caso di mancato versamento, ad attivare la riscossione coattiva, «secondo le modalità previste dall’articolo 30 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni» (comma 3-quater). I commi 5 e 6 dell’art. 13-ter del decreto-legge 24 giugno 2016, n. 113 (Misure finanziarie urgenti per gli enti territoriali e il territorio), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2016, n. 160, hanno previsto, per il solo 2019, un nuovo incremento dell’addizionale comunale pari a 0,32 euro, «acquisito a patrimonio netto dal Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale» di cui all’art. 1-ter del d.l. n. 249 del 2004, come convertito. L’art. 26, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, ha previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2020, le maggiori somme derivanti dall’incremento dell’addizionale di cui all’art. 6-quater, comma 2, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, «sono riversate alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS». Da ultimo, ai sensi dell’art. 204, comma 1, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, al fine di «far fronte alle esigenze straordinarie e urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 e della conseguente riduzione del traffico aereo, a decorrere dal 1° luglio 2021, le maggiori somme derivanti dall’incremento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco» previsto dal citato art. 6-quater, comma 2, «sono riversate, nella misura del 50 per cento, alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS di cui all’articolo 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, e nella restante misura del 50 per cento sono destinate ad alimentare il Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale». 3.2.– Dal sopra descritto quadro normativo emerge, dunque, che, nonostante l’addizionale «comunale» sia stata in origine pensata come prelievo volto a fare fronte alle esigenze finanziarie dei comuni su cui insistono gli aeroporti e di quelli confinanti (dossier del Servizio studi della Camera dei deputati 30 aprile 2004, n. 518/6), essa, sin dalla sua istituzione, è stata in realtà devoluta solo in parte ai predetti comuni. Tale devoluzione, peraltro, è rimasta nel tempo quantitativamente immutata, nonostante l’addizionale sia stata via via incrementata dalla misura iniziale di un euro all’attuale di sei euro e cinquanta centesimi per passeggero. 4.– In punto di rilevanza, il rimettente afferma che la disposizione censurata, nella parte in cui esclude la natura tributaria delle obbligazioni derivanti dall’addizionale comunale, confliggerebbe con quella natura per contro ravvisata dal Tribunale di Roma, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2752, terzo comma, cod. civ. L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – aggiunge il giudice a quo – risolverebbe in senso negativo la questione posta con il ricorso incidentale, diretto a conseguire l’esclusione del cennato privilegio e la conseguente ammissione, in via chirografaria, al passivo dell’amministrazione straordinaria di Alitalia del credito della società di gestione aeroportuale, vantato a titolo di addizionale comunale. 4.1.– La motivazione del rimettente supera il vaglio esterno di non implausibilità rimesso a questa Corte (tra le tante, sentenze n. 50 del 2024, n. 164 del 2023, n. 192 del 2022 e n. 32 del 2021), poiché, per decidere sulla spettanza del privilegio – che è il thema decidendum posto dal ricorso incidentale su cui si innesta la questione di costituzionalità – esso deve verificare, ai sensi dell’art. 2752, ultimo comma, cod. civ., che quello vantato nel giudizio a quo sia un credito di un ente locale avente natura di tributo «locale», e quindi deve fare applicazione della disposizione censurata, che ne esclude in radice la natura tributaria. 4.2.– Non incide sulla rilevanza della questione la circostanza che a fare valere in giudizio il credito per addizionale comunale non sia l’ente locale ma la società aeroportuale, perché quest’ultima agisce quale soggetto deputato alla riscossione, per come espressamente chiarito dall’art. 6-quater, comma 3-bis, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito (comma, questo, inserito dall’art. 2, comma 48, lettera b, della legge n. 92 del 2012). 4.3.– Nemmeno incide sulla rilevanza la circostanza che il giudice a quo non abbia ancora sciolto il nodo interpretativo della effettiva riconducibilità dell’addizionale in parola alla nozione di tributo locale, ai sensi dell’art. 2752, terzo comma, cod. civ., nonostante essa si configuri come un prelievo interamente istituito, regolato e riscosso dallo Stato (a mezzo delle società aeroportuali), e che solo in minima parte è destinato a confluire nelle casse dei comuni nel cui territorio insistono gli aeroporti e di quelli limitrofi. Il riconoscimento del menzionato privilegio, su cui verte il ricorso incidentale all’esame del rimettente, presuppone, infatti, sia il riconoscimento della natura tributaria del credito che la sua riconducibilità – ovviamente per la sola parte devoluta ai comuni – alla nozione di tributo «locale», ai sensi della menzionata disposizione codicistica. Ne consegue che la pronuncia di questa Corte sulla disposizione censurata che esclude la natura tributaria dell’addizionale comunale può comunque incidere sul percorso argomentativo che sosterrà la decisione del giudizio a quo e tanto basta, anche da questa angolazione, a fondare la rilevanza della questione (tra le tante, sentenze n. 50 del 2024, n. 164 del 2023, n. 19 del 2022, n. 215, n. 157 e n. 59 del 2021, e n. 254 del 2020). 5.– Nel merito, la questione – al di là dell’improprio riferimento alla illegittimità costituzionale in via conseguenziale che, come è noto, non dà luogo ad una diversa modalità di rimessione da parte del giudice comune, ma è un istituto processuale nella esclusiva disponibilità di questa Corte – è fondata. 5.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino i seguenti indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico, e le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese (ex plurimis, sentenze n. 182, n. 128 e n. 27 del 2022, n. 149 del 2021, n. 263 del 2020, n. 167 e n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017). 5.2.– Nel caso di specie, ricorrono tutte le caratteristiche del tributo. 5.2.1.– Sussiste, in primo luogo, una (articolata) disciplina legale diretta a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo (art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, e successive modificazioni, quanto all’addizionale “base”; art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006, art. 2, comma 5-bis, del d.l. n. 134 del 2008, come convertito, e art. 4, comma 75, della legge n. 92 del 2012, quanto ai successivi incrementi), ossia il vettore aereo, che è tenuto a corrispondere la somma di sei euro e cinquanta centesimi per ogni passeggero imbarcato (ferma la traslazione sui passeggeri medesimi). 5.2.2.– Non ricorre un rapporto sinallagmatico tra il vettore e i vari destinatari del gettito sopra indicati: il primo, infatti, è doverosamente soggetto al tributo a prescindere dalla sua volontà e senza che fruisca dei “servizi” che l’addizionale va ad alimentare (e che sono per contro rivolti alla collettività indifferenziata, ovvero al personale del settore del trasporto aereo, ovvero, ancora, a tutti gli utenti delle strutture aeroportuali e ferroviarie o del sistema previdenziale). Né, ancora, la misura dell’addizionale è in alcun modo commisurata al costo di quei servizi. 5.2.3.– Il prelievo è connesso ad un presupposto economicamente rilevante, essendo ancorato al numero dei passeggeri imbarcati e quindi, in definitiva, al fatturato realizzato dal vettore (sia pure al netto dei passeggeri che, pur avendo pagato il biglietto, decidono di non volare: così detto no-show), ed è finalizzato a sovvenire pubbliche spese. L’addizionale, più in particolare, è volta a sostenere: a) i costi di sicurezza delle strutture e degli impianti di ENAV spa; b) i maggiori costi dei comuni sede di aeroporti e limitrofi, relativi alle infrastrutture e ai servizi indotti dalla presenza sul territorio degli aeroporti medesimi; c) il finanziamento di misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e ferroviarie; d) dal 2005, il finanziamento del Fondo speciale per il sostegno del reddito, dell’occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del settore del trasporto aereo; e) dal 2006, i costi del servizio statale antincendi; f) dal 2019, il finanziamento della gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS. 5.3.– L’affermazione della natura non tributaria dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco dei passeggeri sugli aeromobili, operata dalla disposizione censurata, si risolve, anche in questo caso, in «una operazione meramente nominalistica, che non si accompagna alla modifica sostanziale dei ricordati elementi strutturali della fattispecie tributaria» (sentenza n. 167 del 2018). La norma interpretativa censurata, dunque, «lungi dall’esplicitare una possibile variante di senso della norma interpretata, incongruamente le attribuisce un significato non compatibile con la intrinseca ed immutata natura tributaria della prestazione, così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (tra le tante, sentenze n. 73 del 2017, n. 170 del 2013, n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010)» (ancora, sentenza n. 167 del 2018). Da tale lesione, che si traduce in una violazione del principio di ragionevolezza (sentenze n. 167 del 2018, n. 86 del 2017, n. 87 del 2012 e n. 335 del 2008), consegue l’illegittimità costituzionale, in parte qua, della disposizione censurata. 6.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, limitatamente alle parole «nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350,». per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, limitatamente alle parole «nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350,». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giovanni PITRUZZELLA, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ACIERNO Maria - Presidente Dott. MELONI Marina - Consigliere Dott. TRICOMI Laura - Consigliere Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere - Rel. Dott. AMATORE Roberto - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 22518/2021 R.G. proposto da: MINISTERO DELL'INTERNO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO ((...)) che lo rappresenta e difende - ricorrente - contro Ke.Mo., rappresentata e difesa dall'avvocato Se.Gi. (Omissis), - contro ricorrente - avverso SENTENZA della CORTE D'APPELLO CATANZARO, nel proc.to n. 1488/2019, pubblicata il 15/02/2021. Sentito il Procuratore Generale, nella persona della Dott. ssa De.Lu., che chiede l'accoglimento del ricorso. Nessuno presente per il Ministero ricorrente. Sentito il difensore della controricorrente che chiede il rigetto del ricorso. Udita la relazione svolta all'udienza pubblica del 06/03/2024 dalla Consigliera Giulia Iofrida. FATTI DI CAUSA La Corte d'appello di Catanzaro, con sentenza n. 185/2021 pubblicata il 15/2/2021, ha riformato la decisione del Tribunale di Catanzaro del 2019 che aveva respinto il ricorso di Ke.Mo., cittadina colombiana, avverso diniego da parte del Questore di Vibo Valentia di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari, in base a D.Lgs. 30/2007 o a D.Lgs. 286/1998, in quanto (entrata in Italia con un visto turistico nell'ottobre 2017) conviveva di fatto con un cittadino italiano, tale Me.Sm.. Il tribunale aveva respinto il ricorso in assenza di una certificazione amministrativa comprovante la stabilità della convivenza. In particolare, i giudici di appello, premesso che sia ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari, sulla base di un'interpretazione conforme ai principi costituzionali e comunitari, sia ai fini del rilascio della carta di soggiorno per motivi familiari ex artt. 3 e 10 D.Lgs. 30/2007, emanato in attuazione della Direttiva 2004/38/CE, occorre una prova rigorosa di una stabile convivenza more uxorio, hanno affermato che tale prova, tuttavia, oltre a potere essere attestata dalla pubblica amministrazione, può anche essere accertata giudizialmente; nella specie, l'esistenza di un rapporto stabile di convivenza more uxorio era emersa dalla testimonianza del Me.Sm., il quale aveva confermato "in maniera credibile...la genesi e l'evoluzione del loro rapporto, nonché la l'attuale loro convivenza", anche spiegando di non potere "regolarizzare" la suddetta convivenza, in quanto coniuge separato ma non divorziato con altra donna (e "la ricorrente, entrata in Italia con visto turistico di comodo, per vivere con lui, avrebbe potuto, proprio per tale ragione, avere ripercussioni sfavorevoli in caso di dichiarazione di convivenza"). Avverso la suddetta pronuncia, il Ministero dell'Interno propone ricorso per cassazione, notificato il 6/9/2021, affidato a unico motivo, nei confronti di Ke.Mo. (che resiste con controricorso). Entrambe le parti hanno depositato memoria. Con ordinanza interlocutoria n. 29893/2023, la causa è stata rimessa all'udienza pubblica del 6/3/2024. Il PG ha depositato memoria, chiedendo l'accoglimento del ricorso. La controricorrente ha depositato ulteriore memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1 .Il Ministero ricorrente lamenta, con unico motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c,p.c. degli artt. 1, 2 e 3 della Direttiva 38/2004, 1 e 2 D.Lgs. 30/2007, 1 l. 76/2016, per avere la Corte d'appello, riformando la decisione di primo grado, ritenuto che, in relazione a istanza di rilascio di permesso di soggiorno per motivi familiari, nell'ambito di applicazione della Direttiva 38/2004/CE e del D.Lgs. 30/2007, non sia necessario un rapporto qualificato, di coniugio o di unione civile o al più convivenza registrata ai sensi della l.76/2016, ma sia sufficienza una convivenza more uxorio di fatto con cittadino europeo (italiano), dimostrata con prova per testi. 2.La censura è infondata. 2.1.La Corte d'appello ha ritenuto che la ricorrente sia in possesso dei requisiti per ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari, richiesta inoltrata prima dalla ricorrente al Questore e da questi respinta e quindi avanzata in sede giurisdizionale. II Ministero ricorrente sostiene che il titolo di soggiorno in esame, stante la necessità di assicurare "un doveroso controllo dei flussi di entrata nel territorio della UE", debba essere rilasciato soltanto a quei soggetti che vantino un rapporto qualificato, tipizzato e oggettivamente accertabile con cittadino europeo e quindi, oltre ai casi di rapporto coniugale o unione civile registrata secondo la 1.76/2016, al più, nell'ipotesi di stabile convivenza che risulti da dichiarazione anagrafica (in atto pubblico che lo certifichi esponendo il dichiarante, in caso di dichiarazione falsa, a responsabilità) non anche in quella "di conio giurisprudenziale", con conseguente impossibilità di fare ricorso ad una prova testimoniale ai fini della dimostrazione del suddetto rapporto qualificato. Il P.G., concludendo per il rigetto del ricorso, richiama il comma 37 dell'art. 1 l. 76/2016 (secondo cui per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'art.4 ed alla lett. b) del comma 1 dell'art.13 del Regolamento di cui al D.P.R. n. 223/1989), nonché l'art. 2, comma 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE e l'art.2, comma 1 lett. b), del D.Lgs. 30/2007, rilevando che la formalità della registrazione della dichiarazione anagrafica, prevista dalla normativa nazionale e da quella eurounitaria, pur volendola considerare, come ritenuto dalla Corte d'appello, "una mera presunzione di legge sulla serietà e sulla stabilità del rapporto", è necessaria per attestare effettività, stabilità e credibilità della convivenza di fatto e non può essere sostituita da prove di diversa natura, come prove testimoniali, stante l'evidente necessità di garanzia di un effettivo controllo dei flussi di entrata nel territorio comunitario. 2.2. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), firmata a Roma il 4 novembre 1955, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, dedica alla famiglia gli artt. 8 e 12, che rispettivamente sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare (oltre che del domicilio e della corrispondenza) e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. La Corte Edu ha da tempo affermato che il diritto alla vita privata e familiare non implica un obbligo generale degli Stati di rispettare la scelta operata dagli stranieri circa il Paese in cui risiedere . In particolare, la Corte ha ribadito che, in materia di immigrazione, l'art. 8, isolatamente considerato, non può imporre ad uno Stato un obbligo generale di rispettare la scelta del paese di residenza dei coniugi o di autorizzare il ricongiungimento familiare nel suo territorio (Biao v. Denmark, App. No. 38590/10, par. 117). Tuttavia, è stato anche precisato che, qualora una causa riguardi sia la vita familiare che l'immigrazione, la portata dell'obbligo dello Stato di accogliere nel proprio territorio i congiunti di persone residenti varia in ragione delle particolari circostanze in cui si trovano le persone coinvolte e dell'interesse generale (Jeunesse v. Netherlands, par. 107, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, par 67-68; Gul c. Svizzera, par 38; Ahmut c. Paesi Bassi, par 63; Osman c. Danimarca, par 54; Berisha c. Svizzera, par 60.) 2.3. L'art. 10 del D.Lgs. 30/2007, emanato in attuazione della Direttiva 2004/38/CE, recita: "Carta di soggiorno per i familiari del cittadino comunitario non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dell'Unione europea 1. I familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all'articolo 2, trascorsi tre mesi dall'ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la "Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione", redatta su modello conforme a quello stabilito con decreto del Ministro dell'interno da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo. ... 3. Per il rilascio della Carta di soggiorno, è richiesta la presentazione: a) del passaporto o documento equivalente, in corso di validità; b) di un documento rilasciato dall'autorità competente del Paese di origine o provenienza che attesti la qualità di familiare e, qualora richiesto, di familiare a carico ovvero di membro del nucleo familiare ovvero del familiare affetto da gravi problemi di salute, che richiedono l'assistenza personale del cittadino dell'Unione, titolare di un autonomo diritto di soggiorno; c) dell'attestato della richiesta d'iscrizione anagrafica del familiare cittadino dell'Unione; d) della fotografia dell'interessato, in formato tessera, in quattro esemplari; d-bis) nei casi di cui all'articolo 3, comma 2, lettera b), di documentazione ufficiale attestante l'esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell'Unione)). 4. La carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione ha una validità di cinque anni dalla data del rilascio...... L'art.2 del D.Lgs. 30/2007 stabilisce che, ai fini del decreto legislativo, si intende, per "cittadino dell'Unione", qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro, e per "familiare", il coniuge ovvero "il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante". Deve rilevarsi che il considerando 5 della Direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, così recita: "Il diritto di ciascun cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. Ai fini della presente direttiva, la definizione di "familiare" dovrebbe altresì includere il partner che ha contratto un'unione registrata, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio". L'art.2 (Definizioni) della Direttiva 2004/38/CE definisce quindi come familiare, anzitutto, il "partner", vale a dire il soggetto " che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante". L'art. 3, intitolato "Aventi diritto", della suddetta Direttiva, al comma 2, prevede, poi, che lo Stato membro ospitante debba agevolare "conformemente alla sua legislazione nazionale, ...l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone: a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, punto 2, se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente; b) il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata" e, al comma 3, si precisa che lo Stato membro ospitante debba effettuare un esame approfondito della situazione personale e giustificare l'eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno. L'Art.10 della Direttiva , al par. 2, prevede che " Ai fini del rilascio della carta di soggiorno, gli Stati membri possono prescrivere la presentazione dei seguenti documenti:. b) un documento che attesti la qualità di familiare o l'esistenza di un'unione registrata". Il Considerando 6 precisa poi che "Per preservare l'unità della famiglia in senso più ampio senza discriminazione in base alla nazionalità, la situazione delle persone che non rientrano nella definizione di familiari ai sensi della presente direttiva, e che pertanto non godono di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante, dovrebbe essere esaminata dallo Stato membro ospitante sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l'ingresso e il soggiorno possano essere concessi a tali persone, tenendo conto della loro relazione con il cittadino dell'Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell'Unione". L'art. 3 dello stesso D.Lgs. 30/2007 in esame prevede poi che il decreto legislativo si applica "a qualsiasi cittadino dell'Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera b), che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo" e che lo Stato membro ospitante, senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno di "ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, comma 1, lettera b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente" ovvero del "partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)". Tale ultimo inciso è stato introdotto per effetto della Legge europea n. 97 del 6/8/2013 ("Disposizioni volte a porre rimedio al non corretto recepimento della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari. Procedura di infrazione 2011/2053"), nata da una procedura di infrazione elevata contro l'Italia per non corretto recepimento della Direttiva 2004/38/CE, con sostituzione delle parole: "dallo Stato del cittadino dell'Unione", presenti nel precedente testo normativo, con quelle "con documentazione ufficiale". L'art. 3, co. 2, lett. b), del D.Lgs. 30/2007, prima della Novella del 2013, in attuazione dell'art. 3, par. 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE, - il quale stabilisce che il diritto di ingresso e di soggiorno, in uno Stato membro UE ospitante un cittadino di altro Stato membro, viene riconosciuto anche al partner di quest'ultimo, a condizione che fra i due soggetti sussista una relazione stabile "debitamente attestata" (essendo qualificato familiare "il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata"), - aveva introdotto una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare detta "stabile relazione": infatti, si disponeva che tale rapporto - fra il cittadino dell'altro Stato membro e il suo partner - dovesse essere attestato dallo Stato al quale appartiene il primo, con esclusione, pertanto, non soltanto del documenti ufficiali dello Stato di provenienza del partner (se diverso dall'altro), ma anche dei mezzi di prova non costituiti da documenti. L'espressione "documentazione ufficiale" utilizzata dall'art. 3, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 30/2007, nel testo introdotto, a seguito di procedura di infrazione apertasi contro l'Italia, dalla legge europea n. 97/2013 ("Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato, lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone: a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, comma 1, lettera b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente; b) il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale"), non contiene alcuna definizione di "ufficialità". Queste, peraltro, sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE (di cui il D.Lgs. 30/2007 e atto di recepimento in Italia), al punto 2.1.1, in relazione alla nozione di familiare relativamente al "partner": "il partner con cui un cittadino dell'Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell'articolo 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo. Il requisito della stabilità della relazione va valutato alla luce dell'obiettivo della direttiva di preservare l'unità della famiglia in senso ampio. Le norme nazionali per determinare la stabilità dell'unione possono prevedere come criterio che l'unione duri da un certo periodo minimo di tempo, ma devono comunque tener conto anche di altri aspetti pertinenti (ad esempio, ipoteca congiunta per l'acquisto di una casa)". Se ne deve trarre che la Commissione europea consente l'imposizione di oneri documentali, purché ragionevoli, ma salvaguarda la possibilità di prova, da parte dell'interessato, con "qualsiasi idoneo mezzo". 2.4. Al riguardo, occorre anche sottolineare che, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C-27 del 25 luglio 2008 (caso Metock), negli orientamenti successivi, questa Corte, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che "al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell'Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell'interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell'Unione, ai sensi dell'art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell'Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d'ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall'aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell'arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell'Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo" (principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis c.p.c., n. 1, Cass. n. 13112 del 2011; Cass. n.3210 del 2011; Cass.n. 12745 del 2013). Si è, in conclusione, definitivamente escluso il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare (Cass. n. 12745 del 2013 cit.). La Corte di Giustizia, nella sentenza 12.7.2018, Secretary of State for the Home Department c/ Ba.Ro., causa (Omissis) - chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da una cittadina del Sudafrica, partner di un cittadino del Regno Unito i quali avevano vissuto dapprima nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Regno Unito ove la ricorrente aveva poi richiesto la carta di soggiorno - ha affermato che l'articolo 21 TFUE obbliga lo Stato membro di cui un cittadino dell'Unione possiede la cittadinanza ad agevolare il rilascio di un titolo di soggiorno al partner, cittadino di uno Stato terzo, con il quale il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile, quando detto cittadino dell'Unione abbia esercitato il suo diritto di libera circolazione e faccia ritorno con il suo partner nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza per soggiornarvi. Nella stessa pronuncia, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che un provvedimento di diniego di rilascio di un'autorizzazione al soggiorno per il partner non registrato, cittadino di un Paese terzo, di un cittadino dell'Unione il quale, dopo aver esercitato il suo diritto di libera circolazione in un altro Stato membro, faccia ritorno nello Stato membro di cui ha la cittadinanza, deve essere fondato su un esame approfondito della situazione personale del richiedente e deve essere motivato. In una recente pronuncia del 15/9/2022 la Corte di Giustizia (Causa C-22/21, caso SRS) ha affermato che "L'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, ... dev'essere interpretato nel senso che: la nozione di "ogni altro familiare convivente con un cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale", menzionata in tale disposizione, designa le persone che intrattengono con tale cittadino un rapporto di dipendenza, basato su legami personali stretti e stabili, creati all'interno di uno stesso nucleo familiare, nell'ambito di una comunione di vita domestica che va al di là di una mera coabitazione temporanea, determinata da motivi di pura convenienza". Il richiamo è utile perché è si verteva sul legame di convivenza esistente tra due cugini (pakistani) e si è chiarito (par. 24) che, a differenza dei familiari del cittadino dell'Unione definiti all'articolo 2, punto 2, della direttiva 2004/38 (tra i quali rientrano il coniuge e il "partner"), gli "altri familiari" di tale cittadino, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), di tale direttiva, "non beneficiano di un diritto di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante di detto cittadino, bensì della possibilità di ottenere tale diritto, come enunciato dal considerando 6 di detta direttiva, tenendo conto della loro relazione con il cittadino dell'Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell'Unione". Al par. 24, si è chiarito che una siffatta interpretazione - della nozione di "altri familiari" del cittadino UE, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), di tale direttiva - è "corroborata dall'obiettivo perseguito dall'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38, letto alla luce del suo considerando 6, il quale precisa che tale direttiva ha lo scopo di "preservare l'unità della famiglia in senso più ampio", agevolando l'ingresso e il soggiorno delle persone che, pur non rientrando in una delle categorie di "familiare" di un cittadino dell'Unione definite all'articolo 2, punto 2, della suddetta direttiva, tuttavia presentano vincoli familiari stretti e stabili con tale cittadino in ragione di specifiche circostanze di fatto"; nei successivi paragrafi, si è precisato che l'"altro familiare", per poter essere considerato convivente, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38, di un cittadino dell'Unione che gode di un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, "deve fornire la prova di un legame personale stretto e stabile con tale cittadino, che attesti una situazione di effettiva dipendenza tra tali due persone nonché la condivisione di una comunione di vita domestica che non sia stata determinata dallo scopo di ottenere l'ingresso e il soggiorno in tale Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 5 settembre 2012, Rahman e a., C-83/11, EU:C:2012:519, punto 38)", e che importanti elementi da prendere in considerazione sono il grado di parentela e la durata della comunione di vita domestica. 2.5. Nella distinta Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, che fissa le condizioni dell'esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri, all'art. 5 è stabilito "... La domanda è corredata dei documenti che comprovano i vincoli familiari ed il rispetto delle condizioni previste dagli articoli 4 e 6 e, nel caso siano applicabili, dagli articoli 7 e 8, e di copie autenticate dei documenti di viaggio del membro o dei familiari. Ove opportuno, per ottenere la prova dell'esistenza di vincoli familiari, gli Stati membri possono convocare per colloqui il soggiornante e i suoi familiari e condurre altre indagini che ritengano necessarie. Nell'esaminare una domanda concernente il partner non coniugato del soggiornante, gli Stati membri tengono conto, per stabilire se effettivamente esista un vincolo familiare, di elementi quali un figlio comune, una precedente coabitazione, la registrazione formale della relazione e altri elementi di prova affidabili.". 2.6.Come già ricordato il diritto di soggiorno del familiare del cittadino italiano è regolato dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 7, comma 1, lett. d) ("Il cittadino dell'Unione ha diritto di soggiornare nel territorio nazionale per un periodo superiore a tre mesi quando:. d) è familiare, come definito dall'articolo 2, che accompagna o raggiunge un cittadino dell'Unione che ha diritto di soggiornare ai sensi delle lettere a), b) o c)") e dall'art. 10. Le due disposizioni normative riguardano specificamente il cittadino dell'Unione e i suoi familiari e sono inserite in un contesto legislativo che mira a garantire la circolazione in ambito UE. Il requisito della convivenza tra il familiare extracomunitario e cittadino italiano, residente in Italia, costituisce dunque un presupposto del rilascio della carta, non trattandosi di coniugi (invece, come da tempo chiarito da questa Corte, il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni familiari in favore di un cittadino extraeuropeo, coniuge di un cittadino italiano o dell'UE, disciplinato dal D Igs. n. 30 del 2007, non richiede il requisito della convivenza tra i coniugi, salve le conseguenze dell'accertamento di un matrimonio fittizio o di convenienza, ai sensi dell'art. 35 della direttiva 2004/38/CE e, dunque, dell'art. 30, comma 1 bis del D Lgs. n. 286 del 1998, essendo tale presupposto del tutto estraneo al disposto degli articoli, 7 comma 1, lett. d) e 12 e 13 del D.Lgs. citato, Cass. 10925/2019; Cass. 5303/2014). In tema, con sentenza n. 3876/2020 di questa Corte, si è affermato (in fattispecie in cui si discuteva del diritto al rilascio di una carta di soggiorno "per congiunti della UE", in favore di cittadino ecuadoregno genitore di un figlio nato in Italia da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, essendo stata respinta, nel 2013, dal Questore competente la relativa richiesta inoltrata in sede amministrativa) il seguente principio di diritto: "in materia di riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2, 3 e 10, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all'Unione Europea, di minore, cittadino dell'Unione, e convivente con cittadina dell'Unione, pur costituendo un presupposto la convivenza tra il familiare non appartenente all'U. E. e la cittadina dell'Unione, residente in Italia, non trattandosi di coniugi, la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta ed il cittadino dell'Unione, "debitamente attestata" con "documentazione ufficiale", ai sensi dell'art. 3, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 30/2007, nel testo introdotto dalla legge europea n. 97/2013, può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla legge n. 76/2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l'epoca di presentazione dell'istanza, e quindi vagliando anche l'atto di nascita del minore o altra documentazione idonea". Sul contenuto dei diritti di cui godono coloro che sono in possesso dei requisiti per ottenere la carta di soggiorno, si è soffermata anche Cass. n. 20856 del 2022, decidendo sul ricorso proposto da un cittadino brasiliano, in possesso dei requisiti per ottenere la predetta carta di soggiorno (in quanto figlio infraventunenne di una cittadina di un paese terzo coniugata regolarmente con un cittadino italiano e pacificamente divenuta da tempo cittadina italiana per matrimonio) avverso il provvedimento di diniego emesso in ragione del fatto che il ricorrente, in sede amministrativa, si era limitata a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari e non invece la carta di soggiorno. Nella decisione in esame questa Corte, dopo aver ricordato che, come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 25 luglio 2008, Blaise e altri, relativa alla causa C-127/08, "i cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell'Unione, ricavano dalla direttiva 2004/38 il diritto di raggiungere il detto cittadino dell'Unione nello Stato membro ospitante, a prescindere dal fatto che quest'ultimo si sia ivi stabilito prima o dopo aver costituito una famiglia" (punto 90), ha precisato che la carta di soggiorno attribuisce al titolare dei diritti di gran lunga più incisivi di quelli di un comune permesso di soggiorno per motivi familiari o umanitari. Da tale premessa, i giudici di legittimità hanno concluso - interpretando l'art. 10 del D.Igs. n. 30 del 2007 "in modo conforme all'impianto della normativa UE in materia (volta ad assicurare in modo sostanziale il diritto all'unità familiare)" - che nel giudizio in esame il giudice può attribuire qualunque forma di protezione ritenga adeguata ai fatti allegati dell'interessato, riguardando tale facoltà anche la fase amministrativa del procedimento, sulla base del ruolo attivo di cooperazione istruttoria svolto dalle diverse autorità -amministrative e giurisdizionali - nell'individuare la tipologia di misura di protezione adottabile in concreto, e senza che il riconoscimento di un "diritto fondamentale e autodeterminato", come quello in esame, possa essere escluso dando prevalenza a meri formalismi. 2.7. L'art. 30 del D.Lgs. 286/1998 disciplina poi il "permesso di soggiorno per motivi familiari", prevedendo che esso possa essere rilasciato (lett. b) agli stranieri "regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell'UE ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti" o (lett. c) al "familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell'UE residenti in Itala ovvero con straniero regolarmente soggiornante in Italia.". Va ricordato che l'art. 28 del T.U.I. ("Diritto all'unità familiare"), al comma 2, stabilisce che "Ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione Europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1656, - oggi sostituito dal D.Lgs. n. 30 del 2007 -fatte salve quelle più favorevoli della presente legge o del regolamento di attuazione". Per effetto di tale disposizione quindi è consentito ai familiari stranieri del cittadino italiano di utilizzare i diversi strumenti di accesso al ricongiungimento familiare e di mantenimento dell'unità familiare offerti di volta in volta sia dal Testo unico sull'immigrazione sia della disciplina di recepimento del diritto europeo in materia di coesione familiare. Ogni concreta situazione deve essere quindi esaminata alla luce della normativa più favorevole che entrambe le discipline (D.Lgs. n. 286/1998 e D.Lgs. n.30/2007) possano offrire. 2.8. Orbene, nel precedente del giudice amministrativo richiamato dalla controricorrente (Consiglio Stato n. 5040/2017), si è affermato che, anche in assenza di un reale rapporto di lavoro subordinato, qualora sussista un rapporto di convivenza "evidente e dichiarato", la Questura non può emanare un provvedimento espulsivo basandosi sulla sola assenza dei requisiti di reddito. Il Consiglio di Stato si è pronunciato in favore di una cittadina extracomunitaria contro la decisione del Tar Lombardia che aveva confermato il diniego al rilascio del permesso della questura di Brescia. Per il giudice amministrativo, nonostante la sostanziale natura fittizia del rapporto di lavoro di collaborazione domestica, il rapporto di convivenza onerava comunque l'Amministrazione a valutare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari e, nell'interpretazione della normativa sui permessi di soggiorno,non può non tenersi in considerazione il principio di eguaglianza sostanziale di cui all'articolo 8 Cedu, ormai altresì consacrato, a livello di legislazione interna, anche dall'articolo 1, comma 36, legge 20 maggio 2016 n. 76. Di conseguenza, "non può non applicarsi, in base ad una interpretazione analogica anche al partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale", secondo la formula prevista, seppure in riferimento al diritto di soggiorno di un cittadino di uno Stato membro UE dei suoi familiari in un altro Stato membro, dall'art. 3, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 30 del 2007. Il Consilio di Stato , pur avendo proceduto ad una interpretazione analogica estendendo l'ipotesi del permesso di soggiorno per motivi familiari anche a favore di cittadino extracomunitario convivente con cittadino UE o italiano, ha comunque ribadito la necessità che si tratti di convivenza stabile "dichiarata", con documentazione ufficiale. Ne consegue che tale pronuncia non è comunque dirimente in relazione alla questione oggetto della presente causa. 2.9.Nella sentenza n. 35684/2023 questa Corte ha, di recente, affermato, con riguardo alla protezione speciale nazionale dello straniero, che " In materia di immigrazione, ai sensi dell'art. 19, comma 1.1., del D.Lgs. n. 286/1998, nel testo vigente ratione temporis, nonché ai sensi dell'art. 13 comma 2 bis del medesimo decreto, integra causa ostativa all'espulsione del cittadino straniero la sussistenza di "legami familiari" nel territorio dello Stato, con le concrete connotazioni previste da tali norme, in quanto espressione del diritto di cui all'art. 8 CEDU, bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati, ma da declinarsi secondo i principi dettati dalla Corte di Strasburgo, in particolare dovendo perciò attribuirsi la nozione di "famiglia" non soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio, ma anche ad altri "legami familiari" di fatto. In motivazione, in relazione al disposto dell'art.19, comma 1.1., del T.U.I .a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 130 del 2020 (conv. con modif. dalla l. n. 173 del 2020 e vigente ratione temporis, ossia prima dell'entrata in vigore del D.L. 10.3.2023 n. 20, conv. nella L. 5.5.2023 n. 50), richiamata la necessità di un'interpretazione rispettosa delle coordinate ermeneutiche e le specificazioni indicate dalla Corte di Strasburgo, in relazione all'art.8 della CEDU, si è affermato che con l'introduzione del comma 1.1. dell'art. 19 T.U.I., il legislatore, nell'attribuire diretta rilevanza non solo alla tutela della vita familiare, ma anche a quella privata, in attuazione dell'articolo 8 CEDU, abbia inteso attribuire autonoma rilevanza al parametro dei "legami familiari" e si e precisato che "non rileva, quanto all'accertamento del requisito del "vincolo familiare", la circostanza che il cittadino straniero non sia unito in matrimonio alla donna che allega essere la sua compagna", alla luce anche di consolidata giurisprudenza della Corte EDU (vedi Johnston e altri c. Irlanda del 18 dicembre 1986 par 56, Serie A n. 112), in quanto "la nozione di "famiglia" di cui all'art. 8 della Convenzione non è limitata soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio e può comprendere altri "legami familiari" di fatto, in cui le parti convivono fuori dal matrimonio (è stato finanche ritenuto nelle cause Kroon e altri c. Paesi Bassi, del 27 ottobre 1994, serie A n. 297-C, e Vallianatos e altri c. Grecia, Grande Camera, ric. n. 29381/09 32684/09, che possono esistere legami sufficienti per una vita familiare anche in assenza di convivenza)". 2.10. Venendo al caso che qui interessa, occorre chiarire se la dichiarazione anagrafica, ai fini della convivenza di fatto, rappresenta uno strumento privilegiato di prova ma non l'unico, potendo i conviventi, dimostrare la relazione con "ogni mezzo idoneo", quale, nella specie, una prova testimoniale. E' utile, al riguardo, rammentare che la legge n. 76 del 2016, rubricata "Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze", ha dato spazio, anche, alla "convivenza di fatto", che integra una situazione fattuale da cui da cui discendono effetti giuridici, che necessitano di essere regolati. La legge non ha imposto per la sua costituzione alcun adempimento formale, come si può evincere dal combinato disposto dei commi 36 e 37, art. 1. Nello statuire, infatti, al comma 36, che: "si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile", il disposto del comma 37 rimanda proprio a tale definizione per l'individuazione dei presupposti affinché detta convivenza appaia rispondente ai requisiti normativi: "ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223". Il tutto, in relazione ai vari diritti riconosciuti al convivente di fatto (in caso di malattia, in caso di morte, quanto al diritto di abitazione nella casa di comune residenza di proprietà del de cuius e quanto all'assegnazione degli alloggi popolari), ove non si dia luogo anche al contratto di convivenza ivi previsto come facoltativo. L'art. 4 del D.P.R. n. 223 del 1989 (regolamento anagrafico), come modificato per effetto della l.76/2016, intende per famiglia, agli effetti anagrafici, "un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune". Esiste dunque un discrimen tracciato dal legislatore del 2016 tra le famiglie di fatto e le famiglie di fatto registrate, al fine del prodursi di determinati effetti, ma entrambe si riferiscono ad una formazione sociale nella quale si svolge la personalità dell'individuo meritevole comunque di una disciplina di tutela nel nostro ordinamento in forza dell'art. 2 della Costituzione. Al fine del prodursi degli effetti giuridici descritti dalla legge n 76, il comma 37 richiede comunque l'iscrizione anagrafica quale unico mezzo di accertamento della convivenza (presupponendo che essa sia "in fedele corrispondenza" al fatto), salvo la prova contraria. Si è comunque osservato, in dottrina, che la qualità di convivente preesiste alla dichiarazione anagrafica, "recando con sé il diritto procedimentale alla certazione stessa, coerentemente del resto con la più generale configurabilità dell'iscrizione anagrafica come un diritto soggettivo corrispondente alla situazione di fatto ad essa logicamente preesistente e perciò doverosamente dichiarata dall'interessato". E nella giurisprudenza di merito si è così affermato che " La dichiarazione anagrafica è dunque un elemento per accertare la stabile convivenza ma non il presupposto". 2.11. Orbene, il Ministero ricorrente (e il PG) obiettano che, nella materia specifica, occorre dare rilievo alla esigenza di ordine pubblico, cosicché si deve considerare che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari avvenga in forza di una verifica amministrativa condotta ex ante, al fine di evitare meccanismi elusivi dei decreti sui flussi migratori. Si rileva poi che l'atto pubblico che certifica il rapporto qualificato espone i dichiaranti a responsabilità in caso di dichiarazione falsa. Ma, a tale ultimo riguardo, si deve obiettare che anche una deposizione testimoniale espone il testimone che dichiari il falso a responsabilità penale. Deve pertanto ritenersi che, in caso di rifiuto da parte dell'amministrazione, diniego motivato dalla mancata allegazione di "documentazione ufficiale" attestante la convivenza tra il familiare richiedente il permesso e il cittadino italiano, e di impugnazione del diniego, il "diritto" soggettivo al soggiorno dovrà essere accertato nel giudizio dinanzi al giudice ordinario e nell'ambito del giudizio può essere dato ingresso anche a una prova testimoniale, ai fini di offrire una prova, sera e rigorosa, della convivenza e del legame famigliare esistente tra lo straniero e il cittadino UE. Giova aggiungere che, in controricorso, si deduce che il sig. Me.Sm. avrebbe comunque anche sottoscritto "dichiarazione di convivenza e presa a carico del 16/03/2018, già acquisita agli atti del procedimento", con allegazione di sentenza di separazione relativa al precedente matrimonio. Trattasi di circostanza non riportata però nella decisione impugnata e a cui il ricorrente non ha ritenuto di replicare. 3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Ricorrono giusti motivi, in considerazione della complessità e novità della specifica questione di diritto, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si dà atto della non ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, trattandosi di ricorso proposto da un'Amministrazione statale. P.Q.M. La Corte respinge il ricorso e dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, da atto della non ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 6 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. FLORIT Francesco - Relatore Dott. NICASTRO Giuseppe - Consigliere Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ca.Ro., nato a V il (omissis), Lo.Fr., nata a L il (omissis); avverso l'ordinanza del 31/10/2023 del TRIB. della LIBERTÀ di VIBO VALENTIA; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO FLORIT; lette le conclusioni del PG RAFFAELE GARGIULO che ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e del sequestro disposto nei confronti degli imputati, con conseguente restituzione delle somme agli aventi diritto; Ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23 co. 8 D.L. n. 137/2020 e del successivo art. 8 D.L. 198/2022. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnato provvedimento il Tribunale di Vibo Valentia, sezione del riesame, ha confermato nei confronti dei due odierni ricorrenti il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari vibonese delle somme indebitamente conseguite a titolo di reddito di cittadinanza, come descritto nelle imputazioni formulate a carico degli imputati per il reato di truffa aggravata (art. 640-bis c.p.) in relazione all'art.483 c.p. 2. Lo.Fr. e Ca.Ro. hanno presentato distinti ricorsi lamentando la carenza del fumus boni iuris del reato in contestazione, non essendo stata fornita la prova che le false rappresentazioni di circostanze familiari e reddituali abbiano avuto una specifica incidenza sull'ottenimento del reddito di cittadinanza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Va detto in premessa che il dilemma giuridico che occupa quasi per intero i ricorsi dei due indagati e che, ancor prima, era stato oggetto centrale della discussione di fronte al tribunale del riesame, è stato risolto nel senso propugnato dal difensore degli indagati. Infatti, questa Corte, nel suo più alto consesso, ha affermato che "integrano il delitto di cui all'art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell'autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza solo se funzionali a ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023 Imp. Giudice Rv. 285435 - 01-"). Occorre però subito precisare che il punto non pare risolutivo, nel senso auspicato dai ricorrenti. Infatti, non solo (come si sottolinea anche nell'ultima pagina dei ricorsi) si tratta di due fattispecie di reato differenti (truffa aggravata, la prima, reddito di cittadinanza e patrocinio a spese dello Stato la seconda) ma, soprattutto, nel presente caso, viene contestato un ulteriore reato, quello di falsità in certificazioni (art.483 c.p.). Ciò perché, a differenza del caso trattato nel precedente esaminato dalle Sezioni Unite, la truffa aggravata (art. 640 bis c.p.) non è stata realizzata, secondo la prospettazione dell'accusa, dalla mera omissione di dati (nel caso citato, concernenti la comproprietà di alcuni terreni, assieme alla moglie), bensì dalla falsificazione di certificazioni. A pg. 2 dell'ordinanza impugnata si trova scritto che le imputazioni fanno "riferimento al reato di cui all'art. 640-bis in relazione all'art. 483 c.p.". In effetti, come si legge nel provvedimento impugnato (pg.6 per Lo.Fr. e pg.7 per Ca.Ro.), le truffe architettate (separatamente) dai due indagati si sono concretizzate con la esibizione di dichiarazioni ISEE contenenti dati falsi sulla residenza e sulla composizione del nucleo familiare, artifici ritenuti idonei a trarre in inganno l'INPS. Ciò è sufficiente a dimostrare la estraneità al caso che ci occupa della questione inerente alla spettanza in ogni caso del beneficio ottenuto, e conseguentemente della 'superfluità' o 'inutilità' dell'omissione o della dichiarazione non veritiera. Non vi può essere dubbio che il falso in certificazione sia un elemento ulteriore, e quindi differenziante, della fattispecie in esame. 2. Il provvedimento impugnato descrive compiutamente le condotte truffaldine ascritte ai due indagati, indicando le fonti di prova e fornendo così adeguata e logica base al fumus boni iuris necessario per giustificare l'ordinanza adottata. I due ricorsi tuttavia non si confrontano affatto con la motivazione, poiché nulla viene detto, tanto nel ricorso di Ca.Ro. come in quello di Lo.Fr. per contestare la ricostruzione fattuale operata dal Tribunale del riesame di Vibo Valentia. Da ciò l'inammissibilità dei due ricorsi, per violazione del requisito di specificità dei motivi, ex artt. 591 e 581, comma 1-bis c.p.p. 2. All'inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 29 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 918 del 2022, proposto da Partito Radicale non violento transpartitico e Associazione politica nazionale lista Ma. Pa., in persona del legale rappresentante pro tempore Ma. Tu., rappresentati e difesi dall'avvocato Gu. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni - Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Ra. - Ra. It. s.p.a., rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Lu., Pi. Ch. e Pa. Iv. D'A., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ma. Lu. in Roma, (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 11327/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorita per le Garanzie nelle Comunicazioni - Roma e della Ra. - Ra. It. s.p.a.; Visto l'art. 114 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Giovanni Pascuzzi. Nessuno è presente per le parti costituite. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il Partito Radicale non violento transpartitico e l'Associazione politica nazionale lista Ma. Pa. propongono ricorso in appello ex art. 114, comma 8, c.p.a., perché, in riforma della sentenza del Tar per il Lazio n. 11327/2021: - sia dichiarata la nullità della delibera dell'AGCOM n. 82/21/CONS del 4 marzo 2021 perché emessa in violazione o elusione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020; - in subordine, sia annullata, perché illegittima, la stessa delibera AGCOM n. 82/21/CONS. 2. Parte appellante espone le seguenti premesse in fatto: - con esposto del 12 febbraio 2019 gli odierni appellanti denunciavano all'AGCOM il silenzio mantenuto dai telegiornali Ra., e in particolare dal TG1, sulle loro iniziative sin dal 2016, anno in cui dal Partito radicale (il più antico partito italiano tra quelli ancora in vita, nato nel 1956) si erano staccati gli esponenti che hanno formato i partiti "Radicali italiani" e poi "+ Europa". La denuncia si concludeva con l'invito all'Autorità ad esaminare l'informazione offerta dai telegiornali nel periodo indicato; - con delibera n. 58/19/CONS del 22 febbraio 2019 l'Autorità prendeva in considerazione quattro segnalazioni, ritenendo di "disporre la trattazione congiunta (...) stante la sostanziale identità delle questioni sollevate"; - detta delibera: (i) prendeva in esame nel merito i primi tre esposti per respingerli con ampia motivazione; (ii) ignorava la denuncia del Partito radicale; (iii) si concludeva con un "richiamo" alla Ra. - Ra. It. s.p.a. "a garantire il più rigoroso rispetto dei principi sanciti a tutela del pluralismo informativo"; - gli odierni appellanti proponevano ricorso al Tar avverso la appena citata delibera AGCOM n. 58/19/CONS; - con sentenza n. 9337/2020 il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso annullando la delibera AGCOM n. 58/19/CONS; - AGCOM ha quindi adottato la delibera n. 82/21/CONS avente ad oggetto: "Esecuzione della sentenza del Tar Lazio, Sez. III ter, n. 09337/2020 del 10 giugno 2020 (delibera n. 58/19/CONS - Esposto Partito Radicale nonviolento transnazionale transpartito e dell'Associazione politica nazionale lista Ma. Pa.) "; - gli odierni appellanti, convinti che la delibera costituisca una flagrante violazione del giudicato, hanno proposto ricorso ex art. 112 c.p.a., proponendo in subordine un'azione di annullamento della citata delibera; - con la sentenza n. 11327/2021 il Tar per il Lazio ha respinto il ricorso per ottemperanza e la domanda, proposta in via subordinata con lo stesso ricorso, volta all'annullamento della nuova delibera. 3. Avverso la citata sentenza il Partito Radicale non violento transpartitico e l'Associazione politica nazionale lista Ma. Pa. propongono ricorso in appello ex art. 114, comma 8, c.p.a. 4. Si sono costituiti in giudizio l'AGCOM e la Ra. chiedendo il rigetto dell'appello. 5. All'udienza del 4 aprile 2024 l'appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO 1. I ricorrenti ripropongono le domande di primo grado: di nullità della delibera dell'AGCOM per violazione ovvero elusione del giudicato; e in via subordinata, per l'annullamento della delibera per violazione degli artt. 3, 7, 45 e 48 del d.lgs. n. 177/2005 e s.m.i. ed eccesso di potere per travisamento. I ricorrenti sostengono che: - in sede di ottemperanza l'Autorità avrebbe dovuto tener conto delle ragioni che il Tar per il Lazio aveva posto a fondamento della prima sentenza: l'avere omesso l'Autorità "l'analitico esame della denuncia dei ricorrenti e la correlativa puntuale sua confutazione", avendo essa prospettato, nell'unico passo del provvedimento dedicato all'esposto del Partito Radicale, "assunti generici, non supportati da elementi fattuali e documentali e dunque non equivalenti ad analitica disamina e correlativa parimenti analitica confutazione dell'esposto dei ricorrenti"; - nell'esposto era stato denunciato l'assoluto silenzio mantenuto dai telegiornali Ra. e in particolare dal TG1 su tutte le iniziative di rilievo nazionale prese dal Partito Radicale nel periodo che va dal 2016 al momento dell'esposto: dalle proposte di riforma su giustizia, carceri, amnistia e indulto alle iniziative sull'ordinamento penitenziario, dalle otto proposte di legge di iniziativa popolare presentate nel 2018 (giustizia, sistema elettorale, servizio pubblico radiotelevisivo) alla protesta contro l'alterazione delle regole che governano la competizione elettorale (elezioni politiche del 2018), corroborata dai dati del monitoraggio televisivo; - poiché al silenzio della Ra. aveva corrisposto il silenzio dell'AGCOM (che nulla aveva detto, con la delibera n. 58/19/CONS del 22 febbraio 2019, sul merito della denuncia del Partito Radicale), ci si aspettava che, in sede di esecuzione del giudicato, l'Autorità colmasse il vuoto, esaminando il merito della denuncia: per accertare se effettivamente i telegiornali Ra. avessero ignorato tutte le iniziative del partito e se in ipotesi, tale silenzio fosse lecito. E tale accertamento avrebbe dovuto essere compiuto con i criteri imposti dal giudice amministrativo con la sentenza n. 9337/2020: "analitica disamina e correlativa parimenti analitica (eventuale) confutazione dell'esposto"; - viceversa l'AGCOM: (i) ha eccepito l'inosservanza da parte degli esponenti dell'art 10 della l. n. 28/2000 che consente a ciascun soggetto politico di denunciare le violazioni di detta legge entro dieci giorni dal fatto (pp. 5-6); (ii) ha escluso che il Partito Radicale potesse essere considerato "soggetto politico" (delibera 22/06/CSP), "non vantando alcuna rappresentanza parlamentare" (pag. 7), con implicito diniego della sua legittimazione; (iii) ha segnalato che il periodo 2016-2019, nel quale ricadono gli eventi segnalati dagli esponenti sui quali è stato mantenuto dalla Ra. il più assoluto silenzio, è un periodo di tempo molto ampio, segnato peraltro dall'alternarsi di vari governi e dall'insediarsi di un nuovo Parlamento a seguito delle elezioni politiche del 2018 (pag. 16); (iv) ha limitato lo scrutinio al periodo dicembre 2018-gennaio 2019 (pagine 7-8); - anche se la delibera si conclude con la reiterazione dell'invito alla Ra. a "garantire il più rigoroso rispetto dei principi sanciti a tutela del pluralismo informativo" (così il dispositivo), nessuna risposta viene data alle due domande implicite nell'esposto: (i) è vero o non è vero che tutte le iniziative del Partito Radicale sono state totalmente ignorate nel periodo 2016-2019?; (ii) e se è vero, è lecito questo comportamento omissivo da parte del servizio pubblico radiotelevisivo?; - quel che dalla delibera si evince è, all'opposto, una vera e propria marcia indietro rispetto alla precedente delibera annullata dal Tar per il Lazio; - con detta delibera l'Autorità : (i) aveva dichiarato di voler esaminare l'esposto del Partito Radicale assieme agli altri tre, "ritenuto di disporre la trattazione congiunta delle segnalazioni, stante la sostanziale identità delle questioni sollevate" (pag. 8 della delibera n 58/19/CONS del 22.02.2019); (ii) non aveva sollevato la pregiudiziale del "soggetto politico" tanto è vero che aveva esaminato gli esposti di due professori universitari e di due parlamentari che agivano uti singuli, e non come rappresentanti del partito di appartenenza; (iii) non aveva sollevato la questione della tardività dell'esposto (oltre i 10 giorni); (iii) non aveva sollevato la questione della lunghezza del periodo in cui si era verificata l'omissione lamentata (che è casomai un'aggravante, e non una circostanza che autorizza l'omessa informazione); (iv) non aveva limitato l'indagine agli ultimi tre mesi (nei quali, peraltro, non ricade nessuno degli eventi indicati nell'esposto del partito del 12 febbraio 2019). 1.1 Parte appellante afferma che il Tar per il Lazio, nella sentenza n. 11327/2021, ha fatto proprie tutte le argomentazioni dell'Autorità volte ad aggirare l'obbligo di ottemperanza stabilito dalla sentenza n. 9337/2020. 1.1.1 Sotto un primo profilo parte ricorrente afferma che: - il Tar per il Lazio ha mostrato di condividere l'eccezione di tipo procedurale (tardività della denuncia fatta oltre dieci giorni) fondata sull'art. 10 della l. 28/2000; - in questo modo ha equivocato sul contenuto, e quindi sull'ambito di applicazione della l. 28/2000: la quale contiene "disposizioni generali in tema di parità di accesso ai mezzi d'informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica"; - le omissioni denunciate dal Partito Radicale non riguardano né sono legate alla campagna elettorale (al di fuori della denuncia delle violazioni delle regole elettorali fatte nel 2018) né riguardano la comunicazione politica: termine che definisce la diffusione sui mezzi radiotelevisivi di programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche (art. 2, comma 2, l. cit); - con l'esposto del 2019 il Partito Radicale ha denunciato il silenzio mantenuto dai TG della Ra. non su opinioni e valutazioni politiche, ma su fatti ed eventi rilevanti, conseguenti a iniziative del partito; - conseguentemente l'art. 10 della L. 28/2000, che prevede il termine di 10 gg. per la presentazione dell'esposto, non c'entra nulla nel nostro caso. 1.1.2 Sotto un secondo profilo parte ricorrente sostiene che: - il Tar ha condiviso l'argomento dell'Autorità circa la necessità di una limitazione temporale del monitoraggio (il trimestre per i notiziari e il ciclo per i programmi extra TG); - tale limitazione è stabilita con "disposizioni attuative" della l. 28/00 (così pag. 5 della sentenza) e quindi attuative di una legge che disciplina fattispecie diverse da quelle di cui all'esposto del Partito Radicale perché siamo al di fuori delle campagne elettorali e referendarie e della comunicazione politica, così come intesa da detta legge (comunicazione di opinioni e valutazioni politiche). 1.1.3 Sotto un terzo profilo parte ricorrente sostiene che: - la sentenza mostra di condividere l'assunto dell'Autorità circa l'eccessiva ampiezza del periodo di tempo cui l'esposto fa riferimento (un triennio): come se, quanto più lungo è il lasso di tempo in cui un colpevole silenzio viene mantenuto, tanto più si diluisce la responsabilità del servizio pubblico, quando è evidente che vale proprio il contrario; - il Tar ritiene giustificata la limitazione del monitoraggio ad un trimestre (novembre 2018 - gennaio 2019): un trimestre che è perfettamente inutile monitorare perché in esso non ricade nessuno degli eventi di cui l'esposto ha denunciato l'omessa menzione da parte del TG Ra.; - la limitazione sarebbe giustificata, secondo l'AGCOM (con una valutazione che il TAR condivide) perché "il periodo (è ) alquanto ampio (3 anni) e disomogeneo contrassegnato oltretutto dall'alternanza tra i vari Governi e dall'insediamento di un nuovo Parlamento" (pag. 7); - non esiste relazione tra il fatto che nel triennio ci siano stati vari governi e si sia insediato un nuovo Parlamento e il fatto che i TG Ra. abbiano taciuto sistematicamente su fatti indicati nell'esposto del Partito Radicale. 1.1.4 Sotto un quarto profilo parte ricorrente sostiene che: - pretestuoso e fuori centro è l'argomento fondato sulla qualifica di "soggetto politico": qualifica di cui il Partito Radicale sarebbe privo perché non ha rappresentanza parlamentare; - si rinnova l'equivoco: lo status di soggetto politico rileva ai fini della applicazione della l. 28/2000 (artt. 1, comma 1 e art. 4, comma 2): ma l'esposto del Partito Radicale riguarda fatti ed eventi che non ricadono nell'ambito di applicazione della l. 28/2000 (campagne elettorali, campagne referendarie e comunicazione politica); - la normativa rilevante, nel nostro caso, è quella contenuta nel d.lgs. n. 177/2005 (T.U. del servizio di media audiovisivi e radiofonici): (i) l'art. 3 che sancisce il diritto di ogni individuo "di ricevere o comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere", e il diritto alla "obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione"; (ii) l'art. 7 secondo cui la disciplina dell'informazione radiotelevisiva garantisce "la presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti, in modo da favorire la libera formazione delle opinioni" (così il comma 2, lett. a); (iii) l'art. 48: se, a seguito dell'istruttoria, l'Autorità ravvisa infrazioni agli obblighi di cui al comma 1, fissa alla società concessionaria un termine per l'eliminazione delle infrazioni e nei casi di infrazioni gravi, dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (così il comma 7). 1.1.5 Sotto un quinto profilo parte ricorrente sostiene che: - particolarmente grave è il silenzio mantenuto dai TG, e in particolare dal TG1, sulle otto proposte di legge di iniziativa popolare, di cui cinque dedicate alla giustizia, una alla riforma del sistema elettorale per le elezioni europee, una alla riforma del sistema elettorale italiano, una alla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo; - si tratta dell'applicazione di un istituto previsto dall'art. 71, comma 2, Cost. che riconosce al popolo un potere di iniziativa legislativa che affianca (o più spesso sostituisce) il potere riconosciuto dall'art. 71, comma 1, al governo e a ciascun membro del Parlamento; - ancor più grave è che una di queste proposte di legge riguardi il servizio pubblico radiotelevisivo: rispetto al quale l'apparato della Ra. - TV di Stato è portatore di un evidente interesse contrario; - dei principi di cui all'art. 3 e all'art. 7 del T.U. ha diritto di avvalersi "ogni individuo" (come si legge nell'art. 3): sicché è del tutto oziosa la discussione fatta in sentenza volta ad escludere nel Partito Radicale la natura di "soggetto politico"; - argomento che, peraltro, l'AGCOM non aveva ritenuto di utilizzare in presenza degli esposti che aveva esaminato nel merito (sia pure per respingerli) nonostante si trattasse di persone non qualificabili come "soggetti politici" (intesi come partiti aventi una rappresentanza parlamentare). 1.1.6 Parte ricorrente sostiene infine che: - le due domande formulate dagli appellanti nel ricorso originario e riproposte in questo grado di giudizio (accertamento della nullità della sentenza perché adottata in violazione o elusione del giudicato, art. 21-septies l. 241/90; annullamento della delibera n. 82/21/Cons del 4 marzo 2021, per violazione dei citati articoli del T.U. oltre che per eccesso di potere) sono strettamente connesse: nel senso che la seconda domanda andrebbe esaminata se la prima, a giudizio del giudice d'appello, non dovesse trovare ingresso; - della delibera in questione tutto si può dire tranne che contenga "un articolato e fitto corredo motivazionale che si dipana in una dettagliata intelaiatura espositiva e argomentativa" (così la sentenza, a pag. 3). 2. AGCOM si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. 2.1 Con riferimento alla censura che fa leva sull'erroneo esame di un periodo di soli due mesi per valutare il deficit informativo, l'Autorità sostiene che: - ai sensi dell'art. 10, comma 1, della legge n. 28/2000, "(l)e violazioni delle disposizioni di cui alla presente legge, nonché di quelle emanate dalla Commissione e dall'Autorità sono perseguite d'ufficio da quest'ultima secondo le disposizioni del presente articolo. Ciascun soggetto politico interessato può, comunque, denunciare tali violazioni entro dieci giorni dal fatto (...)"; - come ampiamente argomentato nella delibera n. 82/21/CONS, nonostante l'Autorità abbia chiarito in diverse occasioni che il termine di dieci giorni non ha natura perentoria, è evidente che tale disposizione si ispira ad un criterio di ragionevolezza in considerazione della specificità della materia che è connessa all'attualità della cronaca e a un determinato contesto politico; (questo trova conferma anche nel carattere ripristinatorio delle sanzioni previste dalla norma: affinché tali misure siano efficaci esse devono intervenire entro un arco temporale che consenta di assolvere alla loro funzione "riparatoria"; ed è per questo che le disposizioni attuative della legge n. 28/2000 adottate dall'Autorità per i periodi non elettorali à ncorano a periodi ben definiti l'attività di monitoraggio e di vigilanza); - con riferimento ai telegiornali, la delibera Agcom n. 243/10/CSP prevede che l'Autorità effettui d'ufficio la valutazione del rispetto del pluralismo politico e istituzionale di ciascun telegiornale sottoposto a monitoraggio nell'arco di ciascun trimestre; - per quanto riguarda, invece, i programmi di approfondimento informativo, la delibera Agcom n. 22/06/CSP prevede che l'equilibrio delle presenze debba essere assicurato durante il "ciclo" della trasmissione; - nella fattispecie in esame le denunce dei ricorrenti si riferiscono ad un periodo di tempo molto ampio (compreso tra il 2016 e il 2019), segnato peraltro dall'alternarsi di vari governi e dall'insediamento di un nuovo Parlamento a seguito delle elezioni politiche del 2018; - gli esponenti - per ottenere i provvedimenti conformativi di cui alla legge n. 28/2000 - avrebbero dovuto rivolgersi all'Autorità nel termine previsto dalla normativa di riferimento (ossia, i 10 giorni di cui all'art. 10, comma 1, della legge n. 28/2000); - non avendo gli esponenti provveduto in tal senso ed essendosi, invece, limitati a segnalare nel febbraio del 2019 fatti avvenuti nel triennio precedente, l'Autorità ha legittimamente tenuto conto dei soli dati più recenti, ossia di quelli relativi ai mesi di dicembre 2018 e gennaio 2019, in linea con quanto previsto dalla citata delibera n. 243/10/CSP sui tempi di monitoraggio dei telegiornali; - con la delibera impugnata l'Autorità ha compiuto un'approfondita disamina dell'esposto dei ricorrenti che, oltre ad ottemperare alla sentenza del Tar, è esente dall'illegittimità denunciata nel motivo in esame. 2.2 Con riferimento alla censura che fa leva sul possesso della qualifica di "soggetto politico", l'Autorità sostiene che: - la delibera Agcom n. 22/06/CSP si riferisce a tutte le trasmissioni di informazione, compresi i telegiornali (art. 2, comma 1); - essa, quindi, trova senz'altro applicazione nel caso in esame considerato che i ricorrenti lamentano proprio la loro esclusione dai notiziari Ra.; - ai sensi dell'art. 2, comma 4, della delibera Agcom n. 22/06/CSP, sono soggetti politici: a) le forze politiche che costituiscono un autonomo gruppo in almeno un ramo del Parlamento nazionale; b) le forze politiche che, pur non costituendo un autonomo gruppo in uno dei due rami del Parlamento nazionale, sono rappresentate nel Parlamento europeo; - nel caso in esame è pacifico che i ricorrenti non hanno alcuna rappresentanza parlamentare; - sul punto si richiama la sentenza Tar per il Lazio n. 8064 del 2011 (resa a seguito di un ricorso presentato da soggetti riconducibili all'area radicale) in cui si osserva che tra i ricorrenti soltanto l'Associazione politica nazionale lista Ma. Pa. poteva "essere ricompresa tra i soggetti politici di cui all'art. 7, comma 2, lett. c) d.lgs n. 177/2005 e tra i gruppi rappresentati in Parlamento di cui all'art. 45, comma 2, lett. d) Dlgs cit.", in quanto avente una propria rappresentanza nel Parlamento italiano; - lo stesso Tar ha ritenuto legittima l'estensione, operata dalla delibera Agcom n. 22/06/CSP, "dei principi in materia di comunicazione politica e parità di accesso anche alle altre trasmissioni (diverse cioè da quelle di informazione politica), costituenti il momento, potremmo dire, ordinario dell'attività radiotelevisiva (e quindi senz'altro anche i notiziari e i programmi di approfondimento giornalistico, n. d.r.), in quanto ciò non determina una compressione della possibilità di trasmettere notizie nell'esercizio della libertà di cronaca, in un contesto narrativo rimesso all'autonomia editoriale ed alla connessa responsabilità della testata" (TAR Lazio, III ter, 22 giugno 2006, n. 5038, punto 5); - è del tutto irrilevante, quindi, la presenza nel Partito radicale di parlamentari appartenenti ad altri gruppi presenti in Parlamento in ragione della natura "transpartitica" del gruppo radicale in quanto ciò che rileva, ai sensi della normativa vigente, è che la forza politica come tale costituisca un autonomo gruppo nel Parlamento nazionale ovvero sia rappresentata nel Parlamento europeo; - non si comprende sulla base di quale presupposto i ricorrenti sostengono che la definizione di soggetto politico possa variare a seconda che si tratti di programmi di informazione o di programmi di comunicazione politica, nonostante l'attività di monitoraggio dell'Autorità interessi in entrambi i casi i periodi non elettorali; - la comunicazione politica e l'informazione trovano il loro minimo comune denominatore nel rispetto dei princì pi dell'obiettività e della completezza (come ha confermato anche la giurisprudenza amministrativa con riferimento all'art. 2, comma 1, della legge n. 28/2000 (ove è sancito che "le emittenti radiotelevisive devono assicurare a tutti i soggetti politici con imparzialità ed equità l'accesso all'informazione e alla comunicazione politica"), tale norma "con riferimento tanto all'informazione, quanto alla comunicazione politica, esprime, con formulazione sintetica, gli stessi principi fondamentali di obiettività, completezza, lealtà ed imparzialità dell'informazione proclamati, con maggiore solennità, dall'art. 3 del T.U., e, prima, dalla legge 3/5/2004, n. 112 (c.d. "legge Gasparri")" (Tar Lazio, sez. III, 22 giugno 2006, n. 5038)); - quanto alla invocata applicazione dell'art. 45 del TUSMAR (che, al comma 2, lett. d), nel definire i compiti del servizio pubblico televisivo, garantisce l'accesso alla programmazione non solo in favore dei partiti e dei gruppi rappresentati in Parlamento, ma anche dei sindacati e delle associazioni politiche e culturali), si evidenzia che il rispetto del pluralismo informativo, se da un lato comporta l'obbligo di invitare più voci a livello della programmazione radiotelevisiva globale, dall'altro non può fondare il diritto di un'associazione di essere invitata in specifiche trasmissioni (Tar Lazio, sez. III, 12 dicembre 2017, n. 12274). 3. La Ra. - Ra. It. s.p.a. si è costituita in giudizio chiedendo che l'appello venga dichiarato inammissibile e infondato. La difesa della Ra. esamina in maniera disgiunta le due domande proposte (elusione del giudicato e annullamento della delibera 82/21/CONS dell'AGCOM). 3.1 La Ra. sostiene innanzitutto l'infondatezza della censura di violazione o elusione del giudicato. 3.1.1. Sotto un primo profilo, dopo aver ricordato che nel giudizio di ottemperanza occorre valutare quale sia il perimetro della sentenza di cognizione e il contenuto del provvedimento amministrativo successivamente adottato dall'Amministrazione al fine di accertare se tale provvedimento si ponga in contrasto con la regola giudiziale, la Ra. sostiene che: - la sentenza del Tar per il Lazio 4 settembre 2020, n. 9337 ha annullato in parte qua la delibera n. 58/19/CONS rilevando "l'omessa disamina della denuncia dei ricorrenti e la conseguente omessa pronuncia sulla stessa"; - sul punto, è stata ritenuta fondata la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, osservandosi che l'AGCOM avrebbe dovuto esaminare l'esposto dei ricorrenti così come aveva esaminato quelli (poi dichiarati infondati) degli altri denuncianti; - nella pronuncia si legge, infatti, che "dalla disamina della impugnata delibera del 22 febbraio 2019 si evince che solo i tre esposti presentati dagli altri tre denuncianti, diversi dai ricorrenti, sono stati esaminati dettagliatamente e solo su di essi l'Autorità resistente ha preso espressa e motivata posizione, non esaminando, invece, quello presentato dal Partito Radicale non violento transnazionale transpartito e dalla Associazione politica nazionale "Lista Pa.""; - scrutinato il contenuto della delibera impugnata con specifico riferimento alla parte ch'essa dedicava all'esposto dei ricorrenti, si è infine rilevato che "tali assunti si profilano generici, non supportati da elementi fattuali e documentali e dunque non equivalenti ad analitica disamina e correlativa parimenti analitica confutazione dell'esposto dei ricorrenti". 3.1.2 Sotto un secondo profilo la Ra. sostiene che: - il provvedimento originariamente impugnato è stato annullato nella parte in cui (e solo nella parte in cui) aveva omesso di esaminare l'esposto degli odierni appellanti; - nel caso di specie è pacifico che, in sede di esecuzione della suddetta pronuncia, l'AGCOM era chiamata semplicemente a esaminare l'esposto presentato dai ricorrenti in cui essi lamentavano la loro esclusione dal TG1 e a svolgere un'"analitica disamina e correlativa parimenti analitica confutazione dell'esposto dei ricorrenti"; - tanto è proprio quanto l'AGCOM ha fatto nella nuova delibera, sicché la censura di elusione o violazione del giudicato è del tutto infondata; - il mancato provvedere dell'AGCOM e la contestuale omissione istruttoria e motivazionale censurata dalla sentenza ottemperanda (e puntualmente ottemperata) è stata colmata dalla seconda deliberazione dell'AGCOM, tanto sul piano del dispositivo quanto sul piano istruttorio-motivazionale; - parte appellante la contesta, ma le sue censure sono necessariamente diverse e ulteriori rispetto a quelle accolte dalla sentenza (pretesamente ancora) ottemperanda. 3.1.3 Sotto un terzo profilo, con riferimento al contenuto della delibera n. 82/21/CONS, la Ra. afferma che: - con la delibera n. 82/21/CONS, l'Autorità ha in primo luogo ritenuto, "in esecuzione della menzionata sentenza di dover procedere a motivare, illustrandolo, l'iter argomentativo sotteso alla decisione assunta con l'impugnata delibera n. 58/19/CONS avuto specifico ed esclusivo riguardo a quanto lamentato dal Partito Radicale non violento transnazionale transpartito e dalla Associazione politica nazionale "Lista Pa." negli esposti presentati all'Autorità nel febbraio 2019"; - entro tali confini l'AGCOM ha effettuato la richiesta "analitica disamina" e la "parimenti analitica confutazione" dell'esposto dei ricorrenti; infatti, dopo aver richiamato il contenuto di tale esposto e la normativa rilevante, l'AGCOM ha specificato che: (i) quanto al profilo procedurale, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 28 del 2000, le violazioni delle disposizioni a tutela dell'accesso paritario ai mezzi d'informazione sono denunciabili entro il termine di giorni 10 dal fatto; (ii) "(...) è indubbio che tale previsione miri ad introdurre un canone di ragionevolezza anche in considerazione della specificità della materia la quale (...) è connessa all'attualità della cronaca e a un determinato contesto politico"; (iii) "Tale affermazione riceve conferma dal fatto che le sanzioni previste dalla medesima norma hanno natura ripristinatoria" e tali sanzioni, per essere efficaci, devono ovviamente intervenire entro un arco temporale sufficientemente ravvicinato al "fatto", in modo da garantire l'effettività della tutela; (iv) "Le disposizioni attuative della legge n. 28/00 adottate da questa Autorità per i periodi non elettorali (243/10/CSP e 22/06/CSP) ancorano infatti a periodi ben definiti la valutazione (il trimestre per i notiziari e il ciclo per i programmi extra tg)"; (v) i telegiornali, oggetto esclusivo delle doglianze della controparte, "in quanto strettamente correlati ai temi dell'attualità e della cronaca, si caratterizzano per l'esposizione generale delle principali notizie di attualità politica-istituzionale mentre i programmi di approfondimento informativo sono dedicati alla trattazione specifica ed approfondita di notizie o temi legati all'attualità politico-istituzionale con la presenza di soggetti politici le cui iniziative afferiscono a quelle tematiche"; (vi) attenendosi dunque ai princì pi sanciti dal Consiglio di Stato nelle sentt. 9 ottobre 2014, nn. 6066 e 6067, l'Autorità "nei periodi non elettorali, à ncora la propria valutazione sul rispetto del pluralismo nei telegiornali al dato quantitativo, fornito dal monitoraggio, letto alla luce dell'agenda politica e dei fatti di attualità, nel rispetto della autonomia editoriale di ogni testata"; - sulla base di tali presupposti, l'AGCOM ha chiarito che quanto lamentato dagli allora esponenti, cioè l'assenza dai notiziari della Ra. per il periodo 2016-2019, "si riferisce ad un periodo di tempo molto ampio, segnato peraltro dall'alternarsi di vari Governi e dall'insediarsi di un nuovo Parlamento a seguito delle elezioni politiche (2018)", di talché "i periodi oggetto di contestazione sono stati già oggetto di esame secondo la scansione temporale sopra ricordata", ossia con cadenza trimestrale; - i soggetti interessati, pertanto, avrebbero avuto l'onere di denunciare la mancata adozione di provvedimenti conformativi da parte dell'Autorità nei termini previsti dalla normativa di riferimento; - l'esposto è invece pervenuto all'Autorità nel mese di febbraio 2019, di talché essa - si legge nella delibera - "ha (...) tenuto conto dei dati di monitoraggio più recenti ai fini della valutazione (quelli relativi ai mesi di dicembre 2018 e gennaio 2019 (...))". 3.1.3.1 La difesa della Ra. prosegue affermando che: - l'Autorità ha dato puntualmente conto - con osservazioni che non figuravano ovviamente nella precedente delibera annullata dal Tar - del fatto che: (i) gli esposti dei ricorrenti riguardavano genericamente un periodo assai esteso (3 anni) e tutt'altro che omogeneo (basti pensare che nel triennio considerato si sono alternati vari Governi e si è insediato un nuovo Parlamento); (ii) il termine previsto dal legislatore per far valere le violazioni lamentate nell'esposto è di 10 giorni dal fatto e, in ogni caso, le violazioni di cui alla legge n. 28 del 2000 sono perseguite d'ufficio dall'Autorità, con valutazioni effettuate, quanto ai notiziari, in base a monitoraggi trimestrali; (iii) per l'effetto, i periodi oggetto di contestazione erano stati già oggetto di esame trimestrale da parte dell'Autorità (e i ricorrenti avrebbero dovuto denunciare nei termini di legge eventuali violazioni); - per tale ragione l'Autorità specifica di aver tenuto conto, nell'esaminare l'esposto dei ricorrenti, dei dati di monitoraggio più recenti, procedendo a ritroso dal febbraio 2019, momento di ricevimento dell'esposto (i.e. dati relativi ai mesi di dicembre 2018 e gennaio 2019). 3.1.3.2 La Ra. sostiene inoltre che: - la delibera si sofferma, poi, sullo status di "soggetto politico", alla luce della disciplina vigente (delibera 22/06/CSP e d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177), esponendo le ragioni che depongono per l'impossibilità di assegnare tale qualificazione agli esponenti, atteso che costoro nel periodo considerato non vantavano alcuna rappresentanza parlamentare; - l'assenza di rappresentanza parlamentare degli esponenti nel periodo qui rilevante è un punto incontroverso, sul quale convengono anche gli appellanti; - tale circostanza, peraltro, non ha impedito all'AGCOM di esaminare nel merito l'esposto avversario, come richiesto dal giudicato. 3.1.3.3 La difesa della Ra. sostiene ancora che: - l'Autorità rileva, nella delibera qui gravata, che la Ra. "deve assicurare un'adeguata e completa informazione su tutte quelle tematiche di interesse anche sociale, politico, culturale e religioso che caratterizzano l'attualità della cronaca" e che, di conseguenza, "il pluralismo va inteso anche come pluralismo di argomenti assicurando la rappresentazione dei diversi punti di vista"; - tanto precisato, l'AGCOM osserva che nell'arco temporale rilevante ai fini dell'esame dell'esposto dei ricorrenti (dicembre 2018 e gennaio 2019, per le ragioni viste), "l'informazione diffusa dai notiziari Ra. si è, tra l'altro, focalizzata sui seguenti eventi di natura politico/istituzionale: (i) Dicembre 2018: G20, Decreto sicurezza, caso Regeni, legge di bilancio, tragedia di Corinaldo, proteste gilet gialli in Francia, indagini sul sequestro di Silvia Romano, Brexit, Tav, Ddl anticorruzione, attentato di Strasburgo, attentato in Egitto; (i) Gennaio 2019: discorso di fine anno del presidente Ma.; Decreto sicurezza, immigrazione, caso nave Se. Wa., reddito di cittadinanza e quota 100, Tav, arresto Battisti, Brexit, proteste gilet gialli in Francia"; - tanto osservato, l'AGCOM ha richiamato la Ra. "a garantire il più rigoroso rispetto dei principi sanciti a tutela del pluralismo informativo"; - l'Autorità, dunque, in esecuzione della sentenza n. 9337 del 2020 del TAR Lazio, ha esaminato l'esposto degli odierni ricorrenti, ritenendo le doglianze ivi contenute non meritevoli d'accoglimento; - a tale conclusione è pervenuta a seguito di un itinerario logico-argomentativo puntualmente sviluppato anche attraverso l'esame (e la confutazione) delle doglianze degli odierni appellanti, in perfetto ossequio alla sentenza del Tar per il Lazio, n. 9337 del 2020. 3.1.4 Sotto un quarto profilo, con riferimento alla tesi secondo cui la delibera n. 82/21/CONS sarebbe una "marcia indietro" rispetto al giudicato amministrativo, la Ra. afferma che: - la delibera parzialmente annullata dal Tar per il Lazio constava di 18 pagine, in cui all'esposto oggetto di causa era dedicato solo un passaggio, di poco meno di una pagina; - la delibera oggetto della presente controversia consta di 9 pagine, tutte dedicate esclusivamente all'esposto degli appellanti; - ciò significa che certamente la delibera 82/21/CONS non costituisce affatto una mera replica di quella pro parte annullata e certamente contiene un quid pluris: l'analitica disamina e confutazione delle doglianze degli esponenti attraverso rilievi e argomentazioni che non figuravano nella delibera annullata, e perciò esattamente ciò che il Tar per il Lazio aveva richiesto nella sentenza del 2020. 3.1.5 Sotto un quinto profilo, al fine di prevenire eventuali contestazioni di parte avversaria, la Ra. afferma che: - la sentenza passata in giudicato ha richiesto che la disamina e la confutazione delle doglianze contenute nell'esposto fossero "analitiche"; - più sono circostanziate e precise le doglianze, più possono essere dettagliati e puntuali il loro esame e la loro (eventuale) confutazione; - nella prima delibera AGCOM l'Autorità ha confutato con estrema precisione le doglianze contenute negli altri tre esposti (il carattere puntuale e dettagliato delle doglianze aveva allora consentito all'Autorità una altrettanto analitica e specifica verifica e valutazione dei fatti); - l'esposto degli odierni appellanti, invece, denuncia genericamente "una totale esclusione dei soggetti denuncia(n)ti dall'informazione Ra." (p. 2) che si sarebbe protratta dal 2016 sino a quel momento; - il carattere approssimativo della doglianza è palese giacché si sostiene, in buona sostanza, che vi sarebbe stato il totale silenzio, per ben tre anni, del TG1 sul Partito Radicale; - così non è, come risulta per tabulas dai dati versati in atti, relativi al monitoraggio della presenza di soggetti appartenenti al movimento dei "Radicali" nei notiziari Ra. nel periodo oggetto dell'esposto; - un conto è esaminare e confutare "analiticamente" doglianze puntuali e circostanziate, altro è esaminare e confutare "analiticamente" censure che analitiche non sono e che riguardano un arco temporale prolungato, limitandosi a prospettare apoditticamente una "totale censura delle iniziative, dei temi, e dei rappresentanti dei soggetti denuncianti"; - l'analiticità dell'esame delle doglianze è condizionata dalla parallela analiticità delle doglianze medesime, non potendo logicamente darsi un esame "analitico" di ciò che resta "generico"; - sono le caratteristiche oggettive delle doglianze che determinano il modus del loro esame; - gli stessi appellanti, nell'esposto, invitano "l'Autorità a rianalizzare l'informazione del Tg1 dei trimestri precedenti ricompresi nell'arco del tempo da noi indicato, rimanendo sempre possibile a Codesta Autorità di restringerlo nel caso lo ritenga necessario (cosa su cui le scriventi associazioni non concordano per le ragioni esposte al precedente paragrafo)"; - ciò è proprio quanto ha fatto l'AGCOM nella (seconda) delibera 82/21/CONS, ove sono state puntualmente esposte le (già richiamate) ragioni alla base della scelta di considerare, ai fini della valutazione, i dati di monitoraggio più recenti rispetto al ricevimento dell'esposto; - anche per tale specifico profilo, quindi, la delibera 82/21/CONS si pone esattamente nel solco delle indicazioni fornite dal Tar per il Lazio con la sentenza n. 9337 del 2020 e adempie compiutamente al dovere - ivi sancito e discendente, comunque, dalla legge - di esame analitico delle doglianze, alle condizioni date in ragione del contenuto dell'esposto presentato dagli odierni ricorrenti. 3.2 La Ra. eccepisce poi l'inammissibilità della domanda di annullamento, per travisamento del contenuto del provvedimento impugnato e per difetto di interesse. 3.2.1 Si eccepisce l'inammissibilità della domanda di annullamento sostenendo che: - gli allora ricorrenti sostengono che l'Autorità avrebbe ritenuto inammissibile il loro esposto per tardività della denuncia e per il difetto della loro qualificazione quali "soggetto politico"; - nel medesimo senso si orienta l'appello cui qui si resiste, tutto inteso a dimostrare l'inapplicabilità dell'art. 10 della l. n. 28 del 2000 e, dunque, l'irrilevanza della tardività della segnalazione e del difetto di status di soggetto politico; - la piana lettura del provvedimento impugnato, tuttavia, dimostra che l'AGCOM non ha mai dichiarato inammissibile l'esposto dei ricorrenti e, anzi, lo ha puntualmente esaminato, adottando infine un richiamo nei confronti della Ra.; - la circostanza è puntualmente rilevata dalla stessa sentenza impugnata, ove si afferma che la nuova delibera "si connota per la analitica disamina e correlativa parimenti analitica confutazione dell'esposto dei ricorrenti, imposte dalla sentenza ottemperanda"; - per tale ragione la Ra. ripropone anche in questa sede l'eccezione di difetto d'interesse alla domanda d'annullamento (sostanzialmente assorbita dal Tar, che ha ritenuto di procedere allo scrutinio del merito, ritenute le doglianze di pronta evasione); - non è dato comprendere quale sia l'interesse degli odierni appellanti all'annullamento del provvedimento originariamente gravato, giacché dall'adeguamento della Ra. al richiamo formulato nella delibera dovrebbero anch'essi trarre beneficio. 3.3 La Ra. sostiene poi l'infondatezza della domanda di annullamento. 3.3.1 Sotto un primo profilo si contesta l'affermazione di parte appellante secondo cui l'AGCOM avrebbe erroneamente applicato il limite temporale di cui all'art. 10 della l. n. 28 del 2000, nonostante che l'esposto oggetto di causa non fosse correlato allo svolgimento di campagne referendarie o elettorali, sostenendo che: - la doglianza è inammissibile perché introduce un novum in appello; - in primo grado gli allora ricorrenti lamentavano che l'Autorità avesse "sorvolato" sulla prima parte del citato art. 10, ove si dispone che le violazioni "sono perseguite d'ufficio", per focalizzare l'attenzione solo sull'onere degli interessati di denunciare le violazioni entro dieci giorni dal fatto; - solo ora, invece, si lamenta l'inapplicabilità tout court dell'art. 10. 3.3.2 Sotto un secondo profilo si denuncia l'infondatezza della doglianza affermando che: - l'art. 10 della l. n. 28 del 2000 non si applica solamente alle campagne elettorali e referendarie, ma alla generale attività delle emittenti radiotelevisive; - tale affermazione è confortata: (i) dal titolo del Capo I della legge, che fa riferimento non solo alla parità di accesso ai mezzi d'informazione durante le campagne referendarie ed elettorali, ma anche in generale alla "comunicazione politica"; (ii) dall'art. 1 della legge, che, nel dettarne le finalità e l'ambito d'applicazione, precisa ch'essa "promuove e disciplina, al fine di garantire la parità di trattamento e l'imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici, l'accesso ai mezzi di informazioni per la comunicazione politica" (comma 1) e che "promuove e disciplina altresì, allo stesso fine, l'accesso ai mezzi di informazione durante le campagne per l'elezione al Parlamento europeo, per le elezioni politiche, regionali e amministrative e per ogni referendum" (comma 2), così chiaramente indicando i due ambiti di applicazione della legge; (iii) dall'art. 2 che assicura "parità di condizioni nell'esposizione di opinioni e posizioni politiche nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nelle presentazioni in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l'esposizione di opinioni e valutazioni politiche"; - correttamente l'Autorità ha fatto riferimento al dovere di segnalare le violazioni della legge entro 10 giorni dal fatto. 3.3.3 Sotto un terzo profilo la difesa della Ra. afferma che l'Autorità ha dato conto di aver puntualmente esercitato il proprio potere /dovere di agire d'ufficio. In particolare si sostiene che: - nel "considerato" di pag. 2 si legge che "il provvedimento impugnato trae origine dall'attività di monitoraggio e verifica sul rispetto dei principi del pluralismo informativo da parte delle emittenti televisive che l'Autorità svolge sia d'ufficio che su segnalazione di eventuali soggetti interessati"; - ancora, a p. 5 si richiama testualmente e integralmente il testo dell'art 10 della legge n. 28 del 2000, ivi compresa la parte relativa alle verifiche effettuate d'ufficio dall'Autorità ; - tali verifiche sono state regolarmente effettuate dall'Autorità come attestato espressamente a p. 6 della delibera, ove si legge che "(...) i periodi oggetto di contestazione sono stati già oggetto di esame secondo la scansione temporale sopra ricordata; i soggetti interessati avrebbero dunque avuto l'onere di denunciare la mancata adozione di provvedimenti conformativi da parte di questa Autorità nei termini previsti dalla normativa di riferimento"; - l'Autorità si è premurata anche di chiarire quale sia la ratio della previsione di un termine ravvicinato per la denuncia delle violazioni; - l'Autorità ha puntualmente applicato l'art. 10 della legge n. 28 del 2000. 3.3.4 Sotto un quarto profilo la difesa della Ra. contesta l'assunto secondo cui l'AGCOM si sarebbe limitata a verificare l'adeguata copertura informativa per un solo trimestre, affermando che: - l'Autorità ha affermato di avere adeguatamente effettuato la verifica della parità di condizioni di accesso al mezzo radiotelevisivo per tutti e tre gli anni oggetto dell'esposto, attraverso le scansioni temporali con le quali, ciclicamente, esercita le prerogative di vigilanza ex officio; - considerato che l'esito di quelle verifiche condotte d'ufficio non era stato contestato dagli esponenti, l'AGCOM ha (correttamente) ritenuto di potersi concentrare solamente sul trimestre precedente alla formulazione dell'esposto da parte degli odierni appellanti; - non è dunque vero che l'AGCOM non abbia ritenuto di valutare il rispetto della l. n. 28 del 2000 nell'arco di un intero triennio; - l'Autorità ha valutato tutte le annualità in contestazione d'ufficio e poi, sulla base dell'esposto oggetto di causa, ha specificamente esaminato il periodo dicembre 2018 - gennaio 2019. 3.3.5. Sotto un quinto profilo la difesa della Ra. sottolinea la legittimità e la ragionevolezza della scelta effettuata dall'Autorità sostenendo che: - gli stessi appellanti, a p. 5 dell'esposto, avevano previsto questa possibilità, invitando "l'Autorità a rianalizzare l'informazione del Tg1 dei trimestri precedenti ricompresi nell'arco del tempo da noi indicato, rimanendo sempre possibile a Codesta Autorità di restringerlo nel caso lo ritenga necessario"; - la necessità di restringere l'arco di tempo oggetto di interesse si fonda sulla circostanza che l'ampio periodo oggetto dell'esposto era stato già oggetto di verifica trimestrale effettuata d'ufficio dall'Autorità e che gli esponenti non avevano denunciato, nei termini di legge o comunque in tempi ragionevolmente ravvicinati rispetto ai fatti, violazioni di sorta; - sostenere il contrario equivale ad ammettere esposti su (presunte e generiche) violazioni perpetrate, poniamo, negli ultimi dieci anni, imponendo all'Autorità di svolgere nuovamente le verifiche già effettuate d'ufficio con cadenza trimestrale, sin lì mai messe in discussione; - così facendo si porrebbero nel nulla sia l'art. 10 della l. n. 28 del 2000 che ogni più banale principio di efficienza, efficacia ed economicità dell'attività amministrativa, oltre che di certezza del diritto; - come chiarito nella delibera gravata, la previsione del termine dei 10 giorni mira a introdurre "un canone di ragionevolezza anche in considerazione della specificità della materia la quale, come è evidente, è connessa all'attualità della cronaca e a un determinato contesto politico". E infatti - prosegue la delibera - "tale affermazione riceve conferma dal fatto che le sanzioni previste dalla medesima norma hanno natura ripristinatoria: ora, perché tali misure ove disposte siano efficaci devono intervenire entro un arco temporale ragionevole tale da garantirne l'effettività "; - l'Autorità non ha travisato alcunché ed era, anzi, ben consapevole dell'oggetto e del contenuto dell'esposto. A p. 6 della delibera si legge infatti che: (i) "quanto lamentato dai ricorrenti, vale a dire l'assenza dai notiziari della Ra. per il periodo 2016-2019, si riferisce ad un periodo di tempo molto ampio, segnato peraltro dall'alternarsi di vari Governi e dall'insediarsi di un nuovo Parlamento a seguito delle elezioni politiche (2018)"; (ii) "Ne consegue che i periodi oggetto di contestazione sono stati già oggetto di esame secondo la scansione temporale sopra ricordata; i soggetti interessati avrebbero dunque avuto l'onere di denunciare la mancata adozione di provvedimenti conformativi da parte di questa Autorità nei termini previsti dalla normativa di riferimento"; - tutto ciò considerato, risulta assolutamente corretta e condivisibile la statuizione della sentenza gravata in cui si afferma quanto segue: "Nel merito della doglianza rileva il Collegio che a pag. 6 della delibera l'Autorità chiarisce che "(...) i periodi oggetto di contestazione sono stati già oggetto di esame secondo la scansione temporale sopra ricordata; i soggetti interessati avrebbero dunque avuto l'onere di denunciare la mancata adozione di provvedimenti conformativi da parte di questa Autorità nei termini previsti dalla legge". Da tanto consegue l'avvenuta osservanza dell'art. 10 della legge n. 28 del 2000". 3.3.6. Infine, la difesa della Ra. ritiene infondata la censura che fa leva sulla natura di soggetto politico di parte appellante sostenendo che: - nell'esposto prima e nelle difese dispiegate nel presente giudizio poi gli appellanti offrono un diverso inquadramento del problema; - alle pp. 6 e 7 dell'esposto si richiama l'art. 7, comma 2, lett. c), del Testo Unico, infatti, si afferma quanto segue: "Si vuole richiamare qui in particolare l'importanza del comma 2 dell'art. 7, lettera c) laddove la legge richiama espressamente l'accesso di TUTTI i soggetti politici all'informazione, e questo mette in mora il comportamento della Ra. nei confronti delle iniziative e degli esponenti del Partito Radicale e della Lista Pa." (enfasi aggiunta); - nel ricorso, invece, si afferma che nel caso degli esponenti "valgono i "principi fondamentali" di cui all'art. 3 del T.U. (libertà dell'utente e di essere informato, obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione)" in ragione dei quali la legge "garantisce l'accesso alla programmazione non solo ai "partiti e gruppi rappresentati in parlamento", ma anche ai sindacati, alle confessioni religiose, ai movimenti politici, alle associazioni politiche e culturali etc. etc. (art. 45 cit., co. 2 lett. d)" (p. 7 del ricorso di prime cure, analogamente alle pp. 6 sg. dell'appello); - tale circostanza sarebbe sufficiente a dimostrare l'inammissibilità della censura per come articolata in primo grado e coltivata in appello; - in ogni caso, il rilievo è infondato, atteso che l'art. 45 del Testo unico stabilisce che "Il servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, ai sensi dell'articolo 7, comma 4, comunque garantisce: (...) d) l'accesso alla programmazione, nei limiti e secondo le modalità indicati dalla legge, in favore dei partiti e dei gruppi rappresentati in Parlamento e in assemblee e consigli regionali, delle organizzazioni associative delle autonomie locali, dei sindacati nazionali, delle confessioni religiose, dei movimenti politici, degli enti e delle associazioni politici e culturali, delle associazioni nazionali del movimento cooperativo giuridicamente riconosciute, delle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionale e regionali, dei gruppi etnici e linguistici e degli altri gruppi di rilevante interesse sociale che ne facciano richiesta"; - il menzionato art. 7, comma 4, del Testo Unico prevede che quest'ultimo individui "ulteriori e specifici compiti e obblighi di pubblico servizio che la società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo è tenuta ad adempiere nell'ambito della sua complessiva programmazione, anche non informativa (...)"; - tuttavia, né nell'esposto né nel ricorso né nel gli odierni appellanti fanno alcun cenno, tra quelle indicate, alla loro categoria di riferimento, né alle eventuali richieste di accesso alla programmazione menzionate dall'art. 45, comma 2, lett. d), del Testo Unico e - soprattutto - non indicano il fondamento della pretesa di imporre una loro sistematica presenza nei TG Ra. indipendentemente dalle tematiche che in ciascun momento storico caratterizzano l'attualità della cronaca; - la funzione dei TG (che non sono programmi di approfondimento informativo) - come puntualmente osservato a p. 6 della delibera oggetto di causa - "è quella di informare quasi in tempo reale i cittadini sui principali fatti di attualità e di cronaca"; - non si comprende su quali basi giuridiche, quindi, la Ra. dovrebbe venir meno a tale missione per imporre a priori una determinata presenza degli appellanti nei TG; - in ogni caso, va ribadito che il difetto dello status di "soggetto politico" (status che, si badi, è legislativamente definito secondo puntuali criteri) in capo al Partito Radicale non ha impedito all'Autorità l'esame nel merito dell'esposto, di talché non si comprende di cosa essi tuttora si dolgano. 4. La domanda tesa a far dichiarare la nullità della delibera dell'AGCOM n. 82/21/CONS del 4 marzo 2021 perché emessa in violazione o elusione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020 è fondata. 5. AGCOM era chiamata a dare esecuzione a quanto statuito nella sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020. Nella sentenza appena citata si legge testualmente quanto segue: "4.1 Con l'unico motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 3,7 e 48 del d.lgs. n. 177 del 2005, dell'art. 2 della delibera dell'AGCom n. 243/10/CSP e di vari articoli del contratto di servizio 2018 - 2022 stipulato con la Ra. nonché eccesso di potere.... ... Si dolgono i ricorrenti che l'Autorità ha esaminato i predetti tre esposti argomentandone l'infondatezza, laddove la loro denuncia circa l'assoluto silenzio della Ra. sulle loro attività e rilevanti iniziative politico - sociali (sui problemi della giustizia, delle carceri, del sistema elettorale), denuncia con cui viene segnalato quindi un deficit di informazioni che si protrae da oltre due anni sull'attività di un soggetto politico che ha una storia rilevante nell'Italia repubblicana e che "continua ad agitare temi pubblici di grande importanza politica e sociale "(ricorso pag. 8), non è stata esaminata e non ha ricevuto "risposta". Siffatto omesso esame e la correlativa mancata pronuncia sostanzierebbero un evidente eccesso di potere. 5. Come avvertito, il Collegio reputa che la riassunta censura si presti a favorevole considerazione e debba essere pertanto accolta. Come noto, la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento postula assoluta identità di situazioni poste a confronto, "tali da far ritenere del tutto incomprensibile ed arbitraria una successiva valutazione negativa" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7147), valutazione negativa in cui si sostanzia l'omessa disamina della denuncia dei ricorrenti e la conseguente omessa pronuncia sulla stessa (sebbene anche gli esposti degli altri tre denuncianti siano stati valutati infondati). Orbene, denota il Collegio che nel caso all'esame è la stessa Agcom ad attestare l'identità delle situazioni costituite dai quattro esposti presentati, affermando a pag. 8 che "RITENUTO di disporre la trattazione congiunta delle segnalazioni, stante la sostanziale identità delle questioni sollevate e per ragioni di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa". 5.1. Purtuttavia, dalla disamina della impugnata delibera del 22 febbraio 2019 si evince che solo i tre esposti presentati dagli altri tre denuncianti, diversi dai ricorrenti, sono stati esaminati dettagliatamente e solo su di essi l'Autorità resistente ha preso espressa e motivata posizione, non esaminando, invece, quello presentato dal Partito Radicale non violento transnazionale transpartito e dalla Associazione politica nazionale "Lista Pa.". ... Difetta invece, dal corpo della delibera del 22.2.2019 impugnata, l'analitico esame della denuncia dei ricorrenti e la correlativa puntuale sua confutazione, che non emergono, infatti, dall'unico passo della motivazione nel quale è parola dell'esposto dei ricorrenti, a tenore del quale: "d) Quanto all'esposto del Partito Radicale non violento transnazionale Transpartito -Ass. politica Ma. Pa.: - in via del tutto preliminare, si rileva l'assoluta infondatezza in fatto degli esposti considerato che da agosto 2016 a febbraio 2019 la copertura informativa assicurata all'attività e alle posizioni politiche dei soggetti esponenti da parte delle tre testate e in generale dei programmi Ra. è stata costante in rapporto alle inderogabili esigenze informative di attualità . Le tabelle di monitoraggio fornite dall'Osservatorio di Pavia danno conto di questa copertura; - invero tali presenze andrebbero sommate anche a quelle di taluni esponenti politici di + Europa le cui posizioni sono "vicine" a quelle degli esponenti; " (delibera Agcom 22 febbraio 2019, pag. 7). Tali assunti si profilano generici, non supportati da elementi fattuali e documentali e dunque non equivalenti ad analitica disamina e correlativa parimenti analitica confutazione dell'esposto dei ricorrenti. In definitiva, sulla scorta delle considerazioni finora svolte il ricorso si prospetta fondato e va accolto nei sensi fin qui esposti". Il Tar per il Lazio ha imposto ad AGCOM di rispondere nel merito all'esposto proposto dagli odierni appellanti. Ma la delibera dell'AGCOM n. 82/21/CONS del 4 marzo 2021 ha eluso tale indicazione. In particolare l'AGCOM ha basato la risposta sui seguenti elementi: a. ha eccepito l'inosservanza da parte degli esponenti dell'art 10 della l. n. 28/2000; b. ha escluso che il Partito Radicale possa essere considerato "soggetto politico"; c. ha ritenuto troppo ampio il periodo 2016-2019 limitandosi a scrutinare il periodo da dicembre 2018 a febbraio 2019. Ma la sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020 non aveva in alcun modo fatto riferimento a questi elementi né li aveva ritenuti come preclusivi o ostativi (applicabilità della legge n. 28/2000; natura o meno di soggetto politico dell'esponente; periodo da esaminare). Ne deriva che AGCOM non poteva fare leva sugli stessi in seconda battuta essendo stato il perimetro del suo intervento ben individuato dal Tar, definendo l'obbligo conformativo nei seguenti termini: analizzare l'esposto nel merito per appurare se un oscuramento ci fosse stato oppure no. A conforto della conclusione testé raggiunta, nel senso che tutti quegli elementi erano oramai da considerarsi "alle spalle", esistono precise circostanze, da valutare al lume dei principi sul giudicato. 4.1 Il Tar, in motivazione (p. 3 della sentenza n. 9337/2020), aveva puntualmente dato conto della tesi sostenuta dalla difesa della Ra. secondo cui "A far data dalla convocazione dei comizi elettorali era divenuta invece applicabile la normativa speciale per l'accesso ai mezzi di comunicazione nel corso delle campagne elettorali, disciplinata dalle Leggi nn. 515/1993 e 28/2000". Ma, nel decidere, non ha dato seguito a questa tesi: evidentemente non ha ritenuto di doverla accogliere e, quindi, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie la l. 28/2000. Non a caso il Tar aveva ricordato che gli autori dell'esposto avevano lamentato la violazione degli artt. 3, 7 e 48 del d.lgs. n. 177 del 2005 e AGCOM - che non aveva appellato la sentenza, lasciando che su di essa si formasse il giudicato - non avrebbe potuto attingere, nell'esaminare l'esposto, a normative diverse ovvero ritenute non applicabili dal Tar. 4.3 Una seconda circostanza degna di nota è rappresentata dalle contraddizioni in cui cade AGCOM. Nella delibera 82/21/CONS si esclude la natura di "soggetto politico" degli odierni ricorrenti (in quanto privi di rappresentanza parlamentare) ma nel dispositivo si conferma il richiamo rivolto alla società Ra.-Ra. It. s.p.a., di cui alla delibera 58/19/CONS. Se il parametro del possesso della natura di "soggetto politico" fosse stato davvero un elemento da prendere in considerazione alla luce della pronuncia del Tar per il Lazio n. 9337/2020, evidentemente si sarebbe dovuto concludere per l'infondatezza, ovvero per l'inammissibilità, dell'esposto tout court. Ma, ancora una volta, ben diversa era stata la statuizione del Tar che, a pag. 4, aveva affermato quanto segue: "Rileva sul punto il Collegio che a prescindere dai contenuti che possono ascriversi all'atto impugnato, l'interesse dei deducenti va individuato nella censura di omessa disamina della denuncia dei ricorrenti, che hanno segnalato l'assoluto silenzio della Ra. sulle loro attività e sulle loro rilevanti iniziative politico - sociali (sui problemi della giustizia, delle carceri, del sistema elettorale) con la conseguente mancata "risposta" in ordine a siffatta denuncia". Ancora una volta, il Tar, ancorché implicitamente, ha escluso che, nella specie, potesse assumere rilevanza la natura di soggetto politico (nei ristretti limiti prospettati da AGCOM) a meno degli odierni appellanti, accertando l'obbligo in capo ad AGCOM di dare una risposta nel merito dell'esposto. Peraltro, l'intervenuta riforma costituzionale che ha ridotto in misura significativa il numero dei Parlamentari dovrebbe portare a rimeditare una nozione di soggetto politico, racchiusa nella delibera AGCOM del 2006, all'apparenza molto restrittiva laddove à ncorata alla rappresentanza parlamentare, e priva di un fondamento normativo di rango primario (siccome non se ne trova corrispondenza nel testo unico). 4.3 Una ulteriore circostanza è rappresentata dal fatto che il Tar ha più volte ribadito che l'esposto si riferiva ad un arco temporale di quasi un triennio (2016-2019) senza minimamente lasciare intendere che l'estensione del periodo potesse dare adito a problemi di sorta. Al contrario, il Tar ha affermato che occorreva procedere ad una analitica disamina dell'esposto lasciando chiaramente intendere che la disamina doveva riguardare l'intero periodo indicato, ed anche tale aspetto deve ritenersi coperto dal giudicato. Sotto questo profilo appare davvero una non risposta affermare (come AGCOM ha fatto) che il "periodo 2016-2019, si riferisce ad un periodo di tempo molto ampio, segnato peraltro dall'alternarsi di vari Governi e dall'insediarsi di un nuovo Parlamento a seguito delle elezioni politiche". Gli odierni appellanti non stanno né al governo né all'opposizione proprio perché sono fuori dal Parlamento, costituendo una forza politica (in questa fase) di natura "extraparlamentare" come peraltro ce ne sono state sempre nella storia d'Italia, nel periodo liberale come in quello repubblicano. Le omissioni denunciate dal Partito Radicale non riguardano né sono legate alla campagna elettorale né riguardano la comunicazione politica. Con l'esposto del 2019 il Partito Radicale ha denunciato il silenzio mantenuto dai TG della Ra. non su opinioni e valutazioni legate alla dialettica maggioranza di governo-opposizione, ma su fatti ed eventi comunque rilevanti politicamente, conseguenti a iniziative del partito. La normativa rilevante, nel nostro caso, è quella contenuta nel d.lgs. n. 177/2005 (T.U. del servizio di media audiovisivi e radiofonici) il cui articolo 3 sancisce il diritto di ogni individuo "di ricevere o comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere", e il diritto alla "obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione", mentre tocca all'informazione radiotelevisiva garantire "la presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti, in modo da favorire la libera formazione delle opinioni" (art. 7, comma 2, lett. a). 5. Alla luce di quanto esposto, deve essere accolta la domanda volta a far dichiarare la nullità della delibera dell'AGCOM n. 82/21/CONS del 4 marzo 2021 perché emessa in violazione o elusione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020. Resta dunque assorbita la domanda di annullamento della stessa delibera AGCOM n. 82/21/CONS, e restano assorbite le controdeduzioni delle parti appellate sul punto, non senza richiamare, per completezza, quanto si è comunque osservato al punto precedente sulla non condivisibilità dei rilievi - si direbbe, in rito - dell'Autorità . Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Nel termine di 90 giorni AGCOM deve rivalutare nel merito l'esposto a suo tempo presentato dagli odierni ricorrenti. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, accoglie il ricorso per l'ottemperanza e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara la nullità della delibera dell'AGCOM n. 82/21/CONS del 4 marzo 2021 perché emessa in violazione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tar per il Lazio n. 9337/2020. Assegna ad AGCOM 90 giorni per rivalutare nel merito l'esposto a suo tempo presentato dagli odierni ricorrenti. Condanna AGCOM al pagamento delle spese di giudizio in favore di parte ricorrente, liquidate in complessivi euro 3.000,00 (tremila\00), oltre accessori dovuti per legge. Condanna la Ra. - Ra. It. s.p.a. al pagamento delle spese di giudizio in favore di parte ricorrente, liquidate in complessivi euro 3.000,00 (tremila\00), oltre accessori dovuti per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Giovanni Pascuzzi - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Padova, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) aps e altri, Regione Veneto e Comune di Venezia, con ordinanza del 22 maggio 2023, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visti gli atti di costituzione della Regione Veneto, di ASGI, di Razzismo Stop onlus, di G.A. G.F., di R.S. N. e di J. E.; udita nell'udienza pubblica del 6 marzo 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta; uditi gli avvocati Alberto Guariso per ASGI, per R.S. N. e per J. E.; Marco Ferrero per Razzismo Stop onlus e per G.A. G.F.; Giacomo Quarneti e Marcello Cecchetti per la Regione Veneto; deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 113 del 2023), il Tribunale ordinario di Padova, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica (di seguito: ERP), quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni». 2.- In punto di fatto, il rimettente riferisce di essere stato adito con ricorso promosso ai sensi degli artt. 702-bis del codice di procedura civile e 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69). 2.1.- Secondo quanto riporta il giudice a quo, i ricorrenti - Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) aps, Razzismo Stop Onlus, SUNIA-Federazione di Padova, G.A. G.F., R.S. N. e J. E. - hanno chiesto di «accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta» dalla Regione del Veneto e dal Comune di Venezia nell'aver approvato ed emanato l'art. 4, comma 1, del regolamento regionale 10 agosto 2018, n. 4 (Regolamento Regionale in materia di edilizia residenziale pubblica. Articolo 49, comma 2, legge regionale 3 novembre 2017, n. 39), nonché il «bando di concorso per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica anno 2022 sotto ambiti: Venezia centro storico e isole; terra ferma veneziana». I ricorrenti hanno segnalato che entrambi i citati atti, nel richiedere, ai fini dell'accesso all'ERP, il requisito della residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni, riproducevano il contenuto precettivo dell'art. 25, comma 1, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017. Pertanto, hanno prospettato possibili questioni di legittimità costituzionale di tale previsione, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, nonché all'art. 11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Da ultimo, hanno chiesto che fosse rimossa l'asserita discriminazione e che venissero riaperti i termini per la partecipazione al bando impugnato. Nel giudizio principale si sono costituite la Regione Veneto e il Comune di Venezia, facendo valere l'inammissibilità del ricorso e adducendo, comunque, ragioni a sostegno del rigetto. 2.2.- Il Tribunale di Padova riferisce di avere respinto l'eccezione di difetto di giurisdizione, ritenendo che il giudizio spettasse al giudice ordinario sulla base di quanto sostenuto, con costante orientamento, dalla giurisprudenza di legittimità (vengono richiamate, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 febbraio 2021, n. 3842, e sezioni unite civili, ordinanza 15 febbraio 2011, n. 3670). Parimenti, il rimettente dà conto di aver respinto l'eccezione di difetto di interesse ad agire con riguardo sia alle persone fisiche sia agli enti ricorrenti. Quanto ai primi, rileva che trattandosi di azione antidiscriminatoria, l'interesse ad agire sussiste indipendentemente dalla presentazione della domanda di partecipazione al bando, considerato che «è la stessa previsione di un requisito “escludente” […] a tradursi nella lesione del diritto dei ricorrenti alla parità di trattamento in relazione all'accesso alle abitazioni di edilizia residenziale pubblica». Osserva, inoltre, che i ricorrenti non avrebbero potuto inviare le domande secondo la modalità prevista dal bando, perché avrebbero dovuto falsamente dichiarare di essere in possesso dei requisiti censurati; pertanto, reputa legittimo il ricorso a modalità equipollenti, quale l'invio «di una pec o di una raccomandata a.r. (come verificatosi nel caso di specie)». Con riferimento agli enti ricorrenti, il giudice a quo osserva che essi agiscono per tutelare «l'interesse di tutti i soggetti, non immediatamente e direttamente identificabili, a non subire discriminazioni nell'accesso a beni e servizi, incluso l'alloggio, in ragione della nazionalità». 3.- Così riferite le premesse in fatto, il Tribunale di Padova, preso atto che il tenore testuale della disposizione censurata non ammette margini ermeneutici idonei a renderlo conforme alla Costituzione, se non accedendo a «interpretazioni “creative” di dubbia ammissibilità», argomenta la rilevanza e la non manifesta infondatezza dei dubbi che solleva in riferimento all'art. 3 Cost. 4.- In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che «la decisione delle domande proposte dai ricorrenti» richiede necessariamente l'applicazione nel giudizio principale della norma censurata, avendo questa «“orientato” la condotta tanto della Regione quanto del Comune». Il Tribunale di Padova - dopo aver preso atto «che i ricorrenti lamentano l'esistenza di una discriminazione indiretta, individuale e collettiva, derivante dalla applicazione da parte del Comune di Venezia e della Regione del Veneto, dell'art. 25 comma 2, lett. a) della L.R. Veneto 3.11.2017 n. 39» - ritiene che la citata previsione costituirebbe «l'indefettibile presupposto normativo del Regolamento e del Bando per mezzo dei quali, nella prospettiva dei ricorrenti, [sarebbe] stata attuata la discriminazione nell'accesso ai servizi di edilizia residenziale pubblica». I ricorrenti persone fisiche - prosegue il rimettente - sono impossibilitati a partecipare al bando ERP emanato dal Comune di Venezia per l'anno 2022 «esclusivamente in ragione della mancanza del requisito delle pregressa residenza quinquennale in Veneto», essendo pacifico, «perché non contestato specificamente dai convenuti ai sensi dell'art. 115 comma 1 c.p.c., il possesso in capo ai ricorrenti di tutti gli altri requisiti richiesti dal bando, ossia i requisiti di cittadinanza o di soggiorno e quelli di reddito». Nello specifico, il rimettente riferisce che G.A. G.F., «cittadino venezuelano, risulta titolare dello status di rifugiato e di permesso di soggiorno; [R.S. N.], cittadina camerunense, risulta titolare di un permesso per protezione internazionale; [J. E.] risulta titolare di un permesso per motivi di lavoro subordinato» e che tutti i ricorrenti rientrano nei requisiti reddituali previsti dal bando. 5.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama le argomentazioni di cui alla sentenza n. 44 del 2020 di questa Corte, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 22, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), nella parte in cui prevedeva il requisito della residenza ultraquinquennale per l'accesso ai servizi abitativi pubblici. Il rimettente ritiene che tale pronuncia abbia costituito il punto di approdo di una più ampia giurisprudenza costituzionale sui requisiti di accesso ai servizi sociali (vengono richiamate le sentenze n. 166, n. 107 e n. 106 del 2018, n. 168 e n. 141 del 2014, n. 222, n. 172, n. 133 e n. 2 del 2013, n. 40 del 2011, n. 107 del 2010, n. 32 del 2008 e n. 432 del 2005, nonché le successive pronunce n. 9 e n. 7 del 2021, n. 281 del 2020). In tale percorso giurisprudenziale, questa Corte avrebbe ascritto il diritto all'abitazione tra i «requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sono richiamate le sentenze n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009, n. 404 e n. 217 del 1988) e lo avrebbe qualificato quale diritto inviolabile (sono richiamate le sentenze n. 151 del 2013, n. 51 del 2011 e n. 404 del 1988, nonché l'ordinanza n. 76 del 2010), avente a oggetto un «bene di primaria importanza» (sono richiamate le sentenze n. 166 del 2018, n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009). Il rimettente, proseguendo nella sua ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, ritiene, di seguito, che questa Corte abbia considerato l'edilizia residenziale pubblica uno strumento vòlto a garantire in concreto il soddisfacimento del primario bisogno abitativo, onde «assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (è richiamato in proposito l'art. 34 CDFUE). 5.1.- Così inquadrato il servizio sociale ERP, il rimettente sintetizza i criteri progressivamente adottati da questa Corte per verificare la conformità a Costituzione dei criteri di accesso a tale beneficio. Il giudice a quo precisa che i requisiti «devono presentare un collegamento con la funzione del servizio» (sono richiamate, ex plurimis, le sentenze n. 166 e n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013, n. 40 del 2011) e che il vaglio di «ragionevolezza e adeguatezza», in base alla struttura tipica del giudizio ex art. 3 Cost., dovrebbe muovere «dall'identificazione della ratio della norma di riferimento», per poi passare a valutare la coerenza «del filtro selettivo introdotto». Applicando tale modello di scrutinio, il rimettente esclude qualsivoglia «ragionevole connessione» fra «la ratio del servizio relativo alla edilizia residenziale pubblica [che] è quella di garantire “il soddisfacimento del bisogno abitativo”» e «la condizione della pregressa residenza nella regione», che non sarebbe «indice “di alcuna condizione rilevante in funzione del bisogno che il servizio tende a soddisfare”» (si richiama in proposito ancora la sentenza n. 107 del 2018). 5.2.- Di conseguenza, il Tribunale di Padova ritiene che la norma censurata condivida gli stessi vizi di illegittimità costituzionale delle altre previsioni concernenti la prolungata residenza che questa Corte ha già avuto modo di dichiarare costituzionalmente illegittime sulla base del vaglio sopra richiamato. In particolare, il requisito contemplato dalla legge veneta - vale a dire la residenza ultraquinquennale nell'arco degli ultimi dieci anni - sarebbe, ad avviso del giudice a quo, privo di «collegamento con la ratio del servizio» ERP, «non potendo ragionevolmente ritenersi che coloro che vivono nella regione Veneto da meno di cinque anni versino in una situazione di bisogno “affievolita” rispetto a chi vi risiede da più anni» (è richiamata sul punto la sentenza di questa Corte n. 222 del 2013). Il rimettente ritiene ormai superata la giurisprudenza, richiamata dalla difesa della Regione nel giudizio principale, che ha reputato «ragionevole e legittima la previsione di un requisito di pregressa residenza nella regione ai fini dell'accesso al servizio di edilizia residenziale pubblica, valorizzando il radicamento territoriale prolungato quale criterio selettivo per l'accesso ai servizi abitativi pubblici» (il riferimento è ancora alla sentenza n. 222 del 2013, avente a oggetto una legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia). Tale orientamento sarebbe stato «definitivamente superato alla luce delle considerazioni espresse» da questa Corte nella sentenza n. 44 del 2020, ove si sarebbe chiarito che «[l]a previa residenza ultraquinquennale non è di per sé indice di un'elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben più significativi altri elementi sui quali si può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità. In altri termini, la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro». Di seguito, il giudice a quo considera non dirimente il fatto che, nel caso in esame, il requisito della residenza protratta per almeno cinque anni possa realizzarsi non continuativamente nell'arco temporale dei precedenti dieci anni: tale modulazione del requisito non inciderebbe, infatti, sulle considerazioni svolte, lasciando il criterio di selezione privo di ragionevole collegamento con la ratio della disciplina. Ad avviso del rimettente, i dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, lettera a) della legge reg. Veneto n. 39 del 2017 sarebbero dunque non manifestamente infondati, in riferimento: sia ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3, primo comma, Cost., in quanto la norma censurata produrrebbe «una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non sia in possesso del requisito ivi previsto», sia con il principio di eguaglianza sostanziale, di cui all'art. 3, secondo comma, Cost., poiché si porrebbe in contrasto «con la funzione sociale dell'edilizia residenziale pubblica». 6.- Con atto depositato il 26 settembre 2023, si è costituita in giudizio la Regione Veneto, eccependo l'inammissibilità e la non fondatezza delle questioni. 6.1.- In rito, la Regione Veneto rileva che, a fronte di un articolato quadro di dati introdotto dai ricorrenti per comprovare fatti da cui sarebbe dato desumere il carattere discriminatorio della norma censurata, il Tribunale di Padova avrebbe omesso di farvi qualunque riferimento, limitandosi ad affermare che la decisione sulla domanda dei ricorrenti implicherebbe l'applicazione di tale previsione. Ad avviso della difesa regionale, il giudice rimettente sarebbe in tal modo incorso in un «grave difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni» sollevate, che si apprezzerebbe sotto un duplice profilo. Da un lato, il giudice a quo non avrebbe adeguatamente descritto la fattispecie, in quanto avrebbe omesso di «offrire una qualche rappresentazione dei dati statistici forniti dai ricorrenti a sostegno della presunta discriminazione». Simile omissione non sarebbe emendabile attraverso l'accesso al fascicolo di causa, stante la preclusione derivante dal principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione (sono richiamate le ordinanze di questa Corte n. 64 del 2019, n. 242 del 2018 e n. 185 del 2013). Da un altro lato, la mancata valutazione preliminare della compiutezza e correttezza del quadro di fatto su cui è basata la prospettazione dei ricorrenti avrebbe determinato una erronea anticipazione del giudizio di applicabilità al caso di specie della norma censurata. Tale giudizio sarebbe un passaggio logico successivo rispetto all'accertamento degli elementi presuntivi da cui inferire la discriminazione lamentata nel ricorso che ha introdotto il processo principale, «tenuto conto, altresì, che lo stesso rimettente non ha ritenuto, in alcun passo dell'ordinanza, che quella stessa disposizione legislativa possa o debba essere considerata, in sé e per sé, come avente carattere discriminatorio». 6.2.- Nel merito, la difesa della Regione Veneto ritiene che le questioni debbano essere dichiarate non fondate. La norma censurata, ad avviso della difesa regionale, non sarebbe assimilabile a quelle relative al requisito di residenza ultraquinquennale per accedere all'ERP, che questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime. In quei casi (vengono citate le sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, n. 44 del 2020), le norme dichiarate costituzionalmente illegittime non stabilivano che la residenza ultraquinquennale potesse essere maturata in forma discontinua nell'arco degli ultimi dieci anni. Simile possibilità, prevista invece dalla norma censurata, consentirebbe, secondo la difesa regionale, di soddisfare la «necessità - più volte sottolineate da questa Corte - di contemplare, nell'ambito della introduzione di requisiti basati sulla residenza per l'accesso all'ERP, soluzioni che “non corrano il rischio di privare certi soggetti dell'accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di avere esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza” (sentenza n. 145 del 2023)». Il legislatore veneto si sarebbe limitato a richiedere, «quale indicatore sintomatico di un animus di stabilità per il godimento di un beneficio di carattere continuativo, un periodo di residenza, anche non continuativo, in misura contenuta (5 anni) e comunque maturata, anche in forme di discontinuità, in un lasso temporale senz'altro congruo e più che significativo rispetto alla sua ratio (10 anni)». Tale specificità sarebbe idonea a evitare la lesione della libertà di circolazione e, al contempo, costituirebbe un indicatore sviluppatosi nel passato, ma «senza dubbio ragionevolmente predittivo di un comportamento futuro», quello di radicarsi nel territorio regionale. 7.- Con atti di identico tenore, depositati il 2 ottobre 2023, si sono costituiti in giudizio tutti i ricorrenti del giudizio principale. Nelle memorie di costituzione, la parti private aderiscono alle motivazioni dell'ordinanza di rimessione, evocando la recente giurisprudenza costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del requisito della residenza ultraquinquennale. Sostengono, inoltre, che la variante introdotta dalla norma censurata - che consente di maturare il requisito in forma discontinua negli ultimi dieci anni - non possa in alcun modo essere ritenuta decisiva per approdare a esiti diversi. Nello specifico, la difesa delle parti private rileva che, «se anche si dovesse ritenere che il “radicamento territoriale” possa costituire un requisito di accesso e possa essere dimostrato dalla mera presenza pregressa sul territorio, è di tutta evidenza che la presenza discontinua è di per sé ancor meno significativa di quella continua». La difesa delle parti private sostiene, inoltre, che il giudizio di ragionevolezza non può essere impermeabile all'evoluzione del contesto economico e sociale. A tal fine, viene richiamata l'attenzione: a) sulla «mobilità come un valore positivo, sia sotto il profilo dell'interesse individuale, sia sotto il profilo dell'interesse collettivo»; b) sulla inesistenza di «una norma di analogo rilievo che tuteli un consociato per il solo fatto di essere rimasto stanziale in un determinato luogo»; c) sul rilievo per cui la Corte di giustizia dell'Unione europea avrebbe «sempre censurato i requisiti “troppo esclusivi” di lungo-residenza per l'accesso a diritti sociali proprio facendo leva sul principio di libera circolazione all'interno dell'Unione che trova perfetta corrispondenza nell'analogo principio da applicarsi all'interno del territorio nazionale. (CGUE 14.6.2012, Commissione c. Paesi Bassi, causa C-542/09; CGUE 20.6.2013, C-20/12; come pure, al di fuori dell'ambito dei diritti sociali, 11.6.2020 C-206/19).»; d) sulla maggiore «propensione alla mobilità» da parte di chi sia in «condizioni sociali più precarie»; e) sulla trasformazione della realtà nel mondo del lavoro, con il «progressivo incremento dei contratti a termine e, più in generale, la minor durata dei rapporti di lavoro»; f) sull'esistenza di fattori di futura stabilità marcatamente più idonei rispetto alla pregressa residenza (ad esempio la tipologia e durata contrattuale, l'esistenza di bambini in età scolare nel nucleo familiare, e l'età stessa del richiedente). Le parti private rilevano, infine, che l'indirizzo giurisprudenziale, che si sarebbe assestato con la citata sentenza n. 44 del 2020, avrebbe progressivamente indotto la maggior parte delle regioni a modificare la propria normativa in conformità a tale indirizzo, e che a oggi «le uniche Regioni presso le quali il requisito è ancora in essere sono, a quanto risulta, il Veneto, il Piemonte e l'Umbria». 8.- Con atto depositato il 12 febbraio 2024, ASGI ha prodotto memoria integrativa di replica alle argomentazioni della Regione Veneto. 8.1.- Quanto alle eccezioni di inammissibilità dedotte dalla difesa regionale, rileva che il giudice comune, essendo stato investito di una discriminazione sulla base della nazionalità, sarebbe chiamato preliminarmente a verificare «la sussistenza e la legittimità della “copertura normativa” della differenza di trattamento, perché, ove sussista una norma che legittima la differenza e detta norma sia conforme ai precetti costituzionali o eurounitari, il problema della discriminazione non [potrebbe] neppure porsi». Dunque, il controllo sulla «legittimità costituzionale della norma contestata [sarebbe] condizione preliminare e necessaria per procedere oltre nel giudizio avanti il giudice comune». La difesa di ASGI ritiene dunque che, ove il rimettente avesse già ritenuto sussistente la discriminazione, in presenza di una norma di legge che autorizza la differenza di trattamento, «sarebbe probabilmente incorso in una fondata censura di irrilevanza, avendo anticipato un giudizio sulla sussistenza della discriminazione che invece […] può essere formulato solo una volta che sia rimossa la norma che autorizza la differenza di trattamento». Quanto all'asserita «necessità di una ulteriore e più ampia motivazione relativa ai dati forniti dai ricorrenti nel giudizio a quo», la difesa della parte osserva che il carattere potenzialmente discriminatorio della pregressa e prolungata residenza sarebbe «un dato talmente radicato nella comune esperienza e talmente notorio» da poter «essere acquisito al giudizio, anche di costituzionalità, senza necessità di specifiche argomentazioni» e da poter essere considerato «implicito nelle argomentazioni svolte dal giudice rimettente in punto di rilevanza». 8.2.- Nel merito, la difesa di ASGI rileva che il criterio adottato dalla norma censurata sarebbe persino più rigido di quello presente in altre normative regionali esaminate e dichiarate costituzionalmente illegittime da questa Corte, posto che non considera l'attività lavorativa in Regione come requisito alternativo alla residenza. Inoltre, la previsione introdurrebbe elementi di ulteriore illogicità, considerando meritevoli di accesso alla provvidenza coloro che hanno maturato una residenza quinquennale in un passato relativamente remoto. Da ultimo, contesta l'asserito radicamento territoriale rispetto all'incidenza sulla contribuzione alle risorse regionali, posto che non esisterebbe «alcuna norma che preveda la devoluzione della tassazione regionale alla costruzione di alloggi di edilizia pubblica, per i quali i finanziamenti sono di esclusiva competenza nazionale», e perché in ogni caso «il sistema di welfare non [potrebbe] essere costruito quale “corrispettivo” di un contributo pregresso o futuro». 9.- La Regione Veneto ha depositato memoria integrativa il 13 febbraio 2024, insistendo sulle ragioni già esposte in sede di costituzione. In punto di ammissibilità, la difesa regionale ribadisce il difetto di motivazione della rilevanza in cui sarebbe incorso il giudice rimettente. La struttura del giudizio riferito a una discriminazione indiretta implicherebbe l'accertamento di «due presupposti parimenti necessari e concorrenti: 1) la disparità di trattamento apparentemente neutra; 2) il fatto o i fatti discriminatori, ovvero gli elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico (art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011) dai quali si possa presumere l'effetto di “particolare svantaggio” che quella disparità di trattamento produce a carico dei titolari del fattore protetto (in questo caso lo status di non cittadino)». Il rimettente avrebbe omesso di fare qualunque riferimento ai dati statistici prodotti e alla «loro idoneità a fare almeno “presumere” il fatto discriminatorio». Nel merito, la difesa regionale insiste sulla «esigenza di distinguishing», già invocata in sede di atto di costituzione, «rivolta a compiere un'attenta valutazione degli elementi differenziali che connotano la norma regionale oggetto di censura rispetto a quelle già scrutinate […] e dichiarate incostituzionali con le sentenze nn. 44/2020, 77/2023 e 145/2023». In particolare, la difesa della Regione insiste sui «diritti e la posizione costituzionale della comunità regionale di cui la Regione è ente esponenziale, anch'essi parimenti richiamati e valorizzati - a più riprese e sotto molteplici profili - dalla giurisprudenza di questa Corte, nei quali, sul fondamento basilare del principio autonomistico sancito dall'art. 5 Cost., trovano espressione gli elementi dell'identità collettiva, dell'appartenenza, dell'integrazione e dell'impegno del singolo (e delle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità) a concorrere al progresso morale e materiale di quella comunità territoriale, nonché, con specifico riferimento agli amministratori titolari di mandato elettivo, della responsabilità nell'uso delle risorse pubbliche disponibili nel bilancio dell'ente». La difesa contesta quindi l'argomento della parte privata sull'inesistenza di un legame tra il servizio reso e la finanza regionale, perché «contrariamente a quanto affermano le controparti, non si tratt[erebbe] affatto di “risorse statali” appartenenti alla comunità nazionale, risultando evidentemente irrilevante, sotto questo profilo, la circostanza che a tutt'oggi la finanza delle autonomie territoriali che dovrebbe assicurare (ai sensi dell'art. 119, quarto comma, Cost.) l'esercizio ordinario delle funzioni pubbliche loro attribuite sia ancora una finanza sostanzialmente “derivata”, come tale alimentata, in larghissima prevalenza, da trasferimenti a carico del bilancio dello Stato e da risorse reperite mediante la fiscalità di livello nazionale». Infine, la difesa regionale ritiene che gli argomenti di ASGI sull'intrinseca irragionevolezza del requisito di residenza discontinua «ai fini di comprovare il “radicamento territoriale” […] si risolv[erebbero] in meri inconvenienti di fatto fisiologicamente conseguenti a qualunque previsione di un discrimine temporale». 10.- Nel corso dell'udienza pubblica del 6 marzo 2024 le parti hanno insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Considerato in diritto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 103 del 2023), il Tribunale di Padova, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni». 2.- Secondo il giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost. sotto plurimi profili: da un lato, contrasterebbe con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, di cui al primo comma, in quanto produrrebbe «una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non sia in possesso del requisito ivi previsto»; da un altro lato, violerebbe il principio di eguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma, poiché determinerebbe «effetti contrastanti con la funzione sociale dell'edilizia residenziale pubblica». 3.- In rito, la Regione Veneto obietta che il rimettente avrebbe omesso di fare qualunque riferimento a elementi idonei a suffragare il carattere discriminatorio di una norma che, in astratto, trova applicazione sia a cittadini sia a non cittadini. Di conseguenza, il giudice rimettente sarebbe incorso in un «grave difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni» sollevate, che si apprezzerebbe sotto un duplice aspetto. In primo luogo, l'ordinanza risulterebbe gravemente carente «nella descrizione della fattispecie», in quanto non avrebbe offerto una «rappresentazione dei dati statistici forniti dai ricorrenti a sostegno della presunta discriminazione». Simile mancanza non sarebbe emendabile attraverso l'accesso al fascicolo di causa, stante la preclusione derivante dal principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione (sono richiamate in proposito le ordinanze di questa Corte n. 64 del 2019, n. 242 del 2018 e n. 185 del 2013). L'omessa valutazione preliminare della compiutezza e correttezza del quadro di fatto, su cui sarebbe basata la prospettazione dei ricorrenti nel giudizio principale, avrebbe poi determinato una erronea anticipazione del giudizio di applicabilità al caso di specie della norma censurata, che costituirebbe un passaggio logico successivo rispetto all'accertamento degli elementi presuntivi da cui inferire la discriminazione lamentata nel ricorso che ha introdotto il giudizio principale. 4.- L'eccezione non è fondata, in relazione a entrambi i profili contestati. Gli indici rivelatori dell'impatto potenzialmente discriminatorio, rispetto alla nazionalità, del requisito della residenza protratta in una regione italiana non sono specifici della norma censurata, ma sono gli stessi che hanno indotto questa Corte a ritenere potenzialmente discriminatorie previsioni parimenti incentrate sulla prolungata residenza. Pertanto, il rimettente - nel precisare che i ricorrenti lamentano la «esistenza di una discriminazione indiretta, individuale e collettiva, derivante dalla applicazione [del] requisito della residenza quinquennale in Veneto» e nel richiamare giurisprudenza di questa Corte, che ha riconosciuto il carattere potenzialmente discriminatorio di discipline analoghe (da ultimo, sentenze n. 145 e n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020) - ha implicitamente condiviso l'assunto secondo cui il requisito della residenza protratta, benché formalmente neutro, sia suscettibile di determinare un indiretto effetto discriminatorio sulla base della nazionalità. E, tuttavia, tale effetto discriminatorio non si produce, in alcun modo, se la norma non si pone in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Di conseguenza, il giudice a quo, nel sottoporre a questa Corte il vaglio sulla conformità della disciplina censurata ai citati principi, ha seguito un corretto iter logico e non è incorso in alcuna anticipazione del giudizio di applicabilità della norma al caso di specie. 5.- Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all'art. 3, commi primo e secondo, Cost. sono fondate. 6.- Questa Corte ha da tempo riconosciuto che il bisogno abitativo esprime un'istanza primaria della persona umana radicata sul fondamento della dignità. Per questo ha ravvisato nel diritto all'abitazione i tratti di un diritto sociale inviolabile (fra le altre, sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988, nonché ordinanza n. 76 del 2010), funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana» (sentenza n. 217 del 1988; nello stesso senso sentenze n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988). Vari sono i percorsi pubblici e privati tesi a garantire, tramite l'interazione con le categorie del contratto o della proprietà, il nesso funzionale fra l'istanza di natura personale e i beni destinati al bisogno abitativo. Fra questi spicca l'edilizia residenziale pubblica, che consente a persone in situazioni economiche disagiate di stipulare contratti di locazione o di compravendita a condizioni agevolate, aventi a oggetto beni immobili di proprietà pubblica. Gli alloggi ERP assicurano, in tal modo, a persone che non hanno la capacità economica di accedere al mercato, di soddisfare in concreto il loro fondamentale bisogno (sentenza n. 44 del 2020), conseguendo quel «bene di primaria importanza» che è l'abitazione (sentenza n. 166 del 2018; si vedano anche le sentenze n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009). 7.- La finalità di assicurare il diritto inviolabile all'abitazione deve coniugarsi con il rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza nella selezione dei criteri che regolano l'accesso al servizio sociale. Deve, pertanto, sussistere un rapporto di coerenza tra i requisiti di ammissione ai benefici dell'ERP e la ratio dell'istituto protesa al soddisfacimento del bisogno abitativo. 7.1.- Ebbene - come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare - non si ravvisa alcuna ragionevole correlazione fra l'esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza - comunque la si declini (infra, punto 7.2.) - nel territorio regionale (sentenze n. 145 del 2023, n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 168 del 2014). 7.1.1.- Il criterio della prolungata residenza si risolve nella previsione di «una soglia rigida che porta a negare l'accesso all'ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)» (sentenza n. 44 del 2020, nello stesso senso, sentenze n. 145 e n. 77 del 2023). La durata della permanenza nel territorio regionale non incide in alcun modo sullo stato di bisogno e, pertanto, lo sbarramento che comporta tale requisito nell'accesso al bene casa è «incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale, […] destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli» (ancora sentenza n. 44 del 2020). 7.1.2.- Inoltre, occorre rilevare che la residenza prolungata nel territorio regionale non considera che proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all'altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro (sentenza n. 53 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto, e sentenze ivi richiamate). In sostanza, «se la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d'identificare l'ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è invece possibile che l'accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso per il solo fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza» (sentenza n. 199 del 2022; in senso analogo sentenza n. 7 del 2021). 7.1.3.- Ciò chiarito, non sfugge a questa Corte che i flussi migratori comportano un costante movimento di persone, talora solo in transito talora con una qualche prospettiva di stabilità nel territorio nazionale, e che si assiste a un continuo incremento di coloro che competono nel far valere il medesimo bisogno rispetto a risorse comunque limitate. E tuttavia anche questo non giustifica la previsione del requisito della residenza prolungata per accedere agli alloggi ERP. 7.1.3.1.- Anzitutto, è evidente che gli strumenti di tutela dell'istanza abitativa ben possono modularsi in funzione della assenza o presenza di una prospettiva di radicamento nel territorio, procedendo dalla previsione di centri di accoglienza, adeguati al rispetto della dignità umana, all'accesso all'ERP o ad altri servizi sociali, diretti alla stipula di contratti di locazione o di compravendita e, dunque, rivolti a chi è orientato a una qualche prospettiva di stabilità nel territorio. Nondimeno, non è dalla pregressa permanenza in una regione che è dato inferire una simile prospettiva di radicamento (sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, nonché sentenza n. 44 del 2020), poiché, viceversa, conta principalmente che sia stato avviato un percorso di inclusione nel contesto ordinamentale statale. Inoltre, questa Corte non ha escluso che, in sede di formazione delle graduatorie, sia possibile valorizzare indici ragionevolmente idonei «a fondare una prognosi di stanzialità» (sentenza n. 44 del 2020), purché compatibili con lo stato di bisogno e, dunque, tali da non privarlo di rilievo (sentenze n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020). 7.1.3.2.- Infine, la durata della residenza nel territorio regionale non ha rilievo neppure al fine di valorizzare il tempo dell'attesa per poter accedere al beneficio che realizza il bisogno abitativo (sentenza n. 9 del 2021). Piuttosto - come questa Corte ha già sottolineato - il protrarsi dell'attesa può opportunamente riflettersi nell'anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione, in quanto circostanza che documenta l'acuirsi della sofferenza sociale dovuta alla mancata realizzazione dell'istanza abitativa e che, dunque, dà effettiva «evidenza a un fattore di bisogno rilevante in funzione del servizio erogato» (ancora sentenza n. 9 del 2021). 7.2.- Per le ragioni esposte, questa Corte ha più volte sostenuto, anche nella recente giurisprudenza (sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, n. 44 del 2020 e n. 166 del 2018), e non può che ribadire, il carattere irragionevole del requisito della residenza quinquennale in un territorio regionale ai fini dell'accesso al beneficio dell'alloggio ERP. Né l'esito è destinato a mutare sol perché la norma censurata diluisce nel tempo il criterio della residenza protratta nel territorio regionale, consentendo di maturare il requisito quinquennale nell'arco degli ultimi dieci anni. Al contrario, la soluzione adottata dal legislatore veneto continua a rifarsi a un criterio di pregressa residenza prolungata nel territorio regionale - privo di alcuna correlazione con lo stato di bisogno e insensibile alla condizione di chi è costretto a muoversi proprio per effetto della sua condizione di fragilità economica - e non fa venire meno l'irragionevolezza del medesimo criterio. Se, infatti, dalla protratta residenza passata non è dato inferire alcunché in merito alle prospettive future di stabilità, nemmeno assume valore indiziario, rispetto alle medesime prospettive, il comportamento di chi - pur sommando il quinquennio di residenza regionale nell'arco di dieci anni - si allontana dal territorio e, dunque, non mantiene con esso un rapporto costante neppure nella proiezione del passato. Sennonché è proprio la pregressa e prolungata residenza, pur se verificabile nell'ambito di un più ampio arco temporale, a disegnare uno scenario privo di collegamento funzionale con la finalità di soddisfare il «bisogno abitativo» di «soggetti economicamente deboli» (ancora sentenza n. 145 del 2023). 8.- L'effetto dell'adozione di un criterio irragionevole rispetto alla ratio della prestazione sociale si traduce, dunque, nella violazione del principio di eguaglianza fra chi può o meno vantare una condizione - quella della prolungata residenza nel territorio regionale - del tutto dissociata dal suo stato di bisogno. E questo chiaramente può riguardare tanto i cittadini italiani quanto gli stranieri, salvo potersi ulteriormente colorare di tratti discriminatori nei confronti di questi ultimi. 9.- Infine - come questa Corte ha già in passato evidenziato (sentenze n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020) - il criterio della residenza protratta per accedere ai servizi sociali dell'ERP tradisce il principio di eguaglianza non solo rispetto al primo comma dell'art. 3 Cost., ma anche con riguardo al suo secondo comma, che affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Una norma che prevede quale criterio di accesso ai servizi dell'ERP la residenza protratta nel territorio regionale equivale, infatti, ad aggiungere agli ostacoli di fatto costituiti dal disagio economico e sociale un ulteriore e irragionevole ostacolo che allontana vieppiù le persone dal traguardo di conseguire una casa, tradendo l'ontologica destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all'abitazione della proprietà pubblica degli immobili ERP. 10.- In conclusione, l'art. 25, comma 2, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017 è costituzionalmente illegittimo, per violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza formale e sostanziale, di cui all'art. 3 Cost., nella parte in cui richiede che la residenza nel Veneto debba protrarsi da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni. Resta fermo il requisito della residenza anagrafica nel Veneto alla data di scadenza del bando di concorso. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), limitatamente alle parole «nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni, fermo restando che il richiedente deve essere, comunque, residente». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Emanuela NAVARRETTA, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. CIRILLO Ettore - Presidente Dott. CATALDI Michele - Consigliere Dott. DE ROSA Maria Luisa - Consigliere Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere Dott. LUME Federico - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12859/2022 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis; - ricorrente - contro Ni.Ad., rappresentata e difesa dagli avv.ti Lo.Lo. e Lo.Ma., in forza di procura allegata alla memoria di costituzione dei nuovi difensori; indirizzi p.e.c. omissis, omissis; - controricorrente - avverso la sentenza n. 457/2022 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 22/03/2022; udita la relazione della causa nella pubblica udienza del 17/11/2023 tenuta dal consigliere dott. Federico Lume; udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale, dott. Giuseppe Locatelli che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avv. De.Be. per l'Avvocatura dello Stato; udito l'avv. Lo.Lo. per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. Ni.Ad. dichiarava nel modello Unico per gli anni di imposta 2012, 2013, 2014, redditi di fonte estera al rigo RM12 (relativo ai redditi di capitale soggetti a imposizione sostitutiva costituiti da utili di società di persone statunitensi di cui era socia e dividendi da partecipazioni non qualificate in società di capitali), presentando poi istanza di rimborso della complessiva somma di Euro 382.095,00, sulla quale si formava silenzio rifiuto; l'istanza muoveva dalla ritenuta necessaria applicazione dell'art. 23, comma 3, della Convenzione Italia-Stati Uniti contro le doppie imposizioni; avendo ella versato su tali redditi le imposte negli Usa chiedeva di beneficiare del credito per le imposte versate all'estero. 2. Formatosi il silenzio rifiuto, la contribuente proponeva ricorso davanti alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Pescara, che si dichiarava incompetente; il giudizio era riassunto davanti alla CTP di Venezia. L'ufficio si difendeva deducendo che all'imposta sostitutiva non si applicasse la Convenzione e che il credito di imposta non spettasse ove il reddito non concorresse alla formazione del reddito complessivo. La CTP accoglieva il ricorso. 3. L'ufficio proponeva appello alla Commissione tributaria regionale (CTR) del Veneto, deducendo che la Convenzione non si applicasse all'imposta sostitutiva e che anche la norma convenzionale richiedesse il concorso del reddito estero alla formazione del reddito complessivo L'appello era rigettato dalla CTR. In particolare, i giudici di appello, individuata la questione nella possibilità che un provento tassato nello Stato in cui una persona non è residente possa essere nuovamente tassato nello Stato di residenza, ritenevano: a) la prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno, ai sensi dell'art. 169 t.u.i.r. e dell'art. 75 d.P.R. n. 600 del 1973; b) che l'art. 18, comma 1, ultimo periodo, t.u.i.r., che impediva alla contribuente di usufruire del credito di imposta, recedesse quindi rispetto all'art. 23, par. 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti ratificata con l. n. 20/2009; c) che le imposte sostitutive delle imposte sui redditi alle quali sono assoggettati i redditi di capitale corrisposti da soggetti non residenti a soggetti residenti devono ricomprendersi tra le "imposte considerate" di cui all'art. 2 della Convenzione; d) che, non avendo ai sensi dell'ultimo periodo dell'art. 18, comma 1, t.u.i.r., la contribuente la facoltà di scelta tra imposta sostitutiva e imposizione ordinaria con credito di imposta, deve impedirsi che ella sia costretta a subire una doppia imposizione, con conseguente necessità di riconoscerle il credito anche in tal caso. 4. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate, sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la contribuente La causa è stata trattata all'udienza pubblica del 17/11/2023, per la quale entrambe le parti hanno depositato memoria. Il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale, dott. Giuseppe Locatelli, ha concluso per l'accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Appare opportuno premettere che la domanda di rimborso della contribuente attiene al credito di imposta per le imposte pagate negli Stati Uniti d'America su redditi (da partnership e dividendi) soggetti obbligatoriamente a imposta sostitutiva in Italia. Costituisce dato pacifico tra le parti e ritenuto in sentenza che si verta su redditi oggetto di imposta sostitutiva obbligatoria, circostanza sulla quale non v'è alcuna censura. Ora, poiché secondo il diritto interno il rimborso non spetterebbe, in base alle disposizioni successivamente riportate, la domanda si fonda sulla loro disapplicazione, poiché recessive rispetto a quanto previsto dalla Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia e Stati Uniti d'America, in particolare all'art. 23, par. 3; tale tesi è stata integralmente recepita dalla CTR. 2. Sempre preliminarmente va infatti osservato che costituiscono premesse incontestate le seguenti. 2.1. Nel diritto interno, la norma di riferimento è l'art. 165 del d.P.R. n. 917 del 1986, che regola il cd. credito di imposta, quale rimedio prescelto dall'ordinamento fiscale per evitare la doppia imposizione (c.d. foreign tax credit). Tale norma, tra le condizioni per potere usufruire del credito d'imposta per i redditi prodotti all'estero, prevede quella che tali redditi concorrano alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente ("Se alla formazione del reddito complessivo concorrono i redditi prodotti all'estero "...""). In base a tale disposizione, dunque, il credito d'imposta non è applicabile in presenza di redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta o a imposta sostitutiva, i quali non concorrono alla formazione del reddito complessivo (art. 3, comma 2, lett. a, e art. 91, comma 1, lett. b, del d.P.R. n. 917 del 1986). La circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, al paragrafo 2.2, che fornisce i chiarimenti in merito al concetto di "reddito complessivo", ribadisce che è nozione che non include i redditi assoggettati a ritenuta a titolo di imposta, ad imposta sostitutiva o a imposizione sostitutiva operata dal contribuente in sede di dichiarazione dei redditi ai sensi dell'art. 18 del t.u.i.r. 2.2. Ciò è quanto avviene ai sensi dell'art. 27, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, che, nel caso in cui si tratti di redditi derivanti da partecipazioni di fonte estera non qualificate, percepiti non direttamente, ma per il tramite di un intermediario residente, sostituto d'imposta, prevede una ritenuta alla fonte a titolo d'imposta. In particolare, i commi 4, 4-bis e 5 della disposizione in parola, prevedono l'assoggettamento dei dividendi esteri a ritenuta a titolo di imposta del 26%, se al momento dell'incasso interviene un intermediario residente, da calcolarsi sui dividendi percepiti al netto delle ritenute subite nello Stato estero di residenza della società erogante (la base imponibile rappresenta il c.d. "netto frontiera"). 2.3. Egualmente nel caso - che qui interessa - in cui i redditi derivanti da partecipazioni di fonte estera non qualificate siano percepiti non tramite un intermediario residente ma direttamente dallo stesso contribuente, ipotesi nella quale l'art. 18, comma 1, t.u.i.r. prevede l'assoggettamento degli stessi redditi "ad imposizione sostitutiva delle imposte sui redditi con la stessa aliquota della ritenuta a titolo d'imposta" (sicché il contribuente deve riportare tali redditi nella dichiarazione ai fini dell'autoliquidazione di detta imposta sostitutiva). Pertanto, nel caso in cui l'incasso dei dividendi avvenga senza l'intervento di un intermediario residente, esso va assoggettato, ai sensi della citata disposizione, ad imposta sostitutiva, nella stessa misura della ritenuta a titolo d'imposta. 2.4. L'art. 18, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 prevede altresì che "il contribuente ha la facoltà di non avvalersi del regime di imposizione sostitutiva ed in tal caso compete il credito d'imposta per i redditi prodotti all'estero". Ai sensi dell'ultimo periodo del medesimo comma, però, tale facoltà di opzione non opera nel caso di distribuzioni di utili di cui all'art. 27, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973. 2.5. Da tale ordito normativo deriva che, in base alle regole della legislazione interna, il contribuente persona fisica che percepisca direttamente, cioè senza intermediario, redditi derivanti da partecipazioni di fonte estera non qualificate non ha la possibilità di usufruire della detrazione delle imposte pagate all'estero su detti redditi. 2.6. Premessa tale impossibilità di ricorrere alle norme interne, la CTR ha ritenuto applicabile l'art. 23, par. 3, della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito del 25/08/1999, ratificata con l. 3/03/2009, n. 20, ritenendo la prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno, in forza degli artt. 169 t.u.i.r. e 75 d.P.R. n. 600 del 1973. L'art. 23, par. 3, prevede che ove un residente in Italia possegga redditi imponibili negli Stati Uniti ai sensi della Convenzione, l'Italia possa includere nella base imponibile dell'imposta sui redditi anche tali elementi (a meno che norme convenzionali non lo impediscano); nel caso in cui l'Italia scelga di assoggettare a tassazione tali elementi di reddito, però, dovrà riconoscere un credito di imposta pari all'imposta versata negli Stati Uniti. L'ammontare della deduzione non potrà essere eccedente rispetto alla quota di imposta italiana attribuibile ai predetti elementi di reddito nella proporzione in cui essi concorrono alla formazione del reddito complessivo. Tuttavia, la deduzione non spetterà ove l'elemento di reddito sia assoggettato in Italia ad imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario. 3. L'Agenzia delle Entrate propone due motivi di ricorso. Occorre premettere che non è oggetto di censura la primazia del diritto sovranazionale, che sancisce il divieto di doppia imposizione, rispetto al diritto interno; tale primazia, del resto, recentemente ribadita da Cass. n. 25698/2022 e da Cass. n. 1002/2023, ha un riscontro testuale nel dettato esplicito dell'art. 75 (rubricato "Accordi internazionali") d.P.R. n. 600 del 1973, per il quale ""n"ell'applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia", ed a contrario nell'art. 169 (rubricato "Accordi internazionali") t.u.i.r., per il quale le disposizioni del medesimo testo unico delle imposte sui redditi "si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione". I motivi attengono invece all'applicabilità e all'interpretazione del testo convenzionale. 3.1. Con il primo motivo, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ., l'Agenzia deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2 della l. 11/12/1985, n. 763 nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 23 e 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti d'America, nonché dell'art. 18 d.P.R. n. 917 del 1986. Il motivo si compone di diverse doglianze. Con la prima doglianza, l'Agenzia evidenzia l'inapplicabilità dell'art. 23, comma 3, della Convenzione, in quanto i dividendi non sarebbero stati oggetto di imposizione negli Stati Uniti in forza della Convenzione, come richiesto dal primo periodo dell'art. 23, comma 3, bensì in ragione della cittadinanza della ricorrente, ai sensi dell'art. 1, par. 2, lett. b); l'art. 10 della Convenzione, infatti, prevede per i dividendi la potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza del percettore. Con la seconda doglianza, l'Agenzia deduce che poiché per i dividendi l'art. 10 della Convenzione prevede la sola potestà impositiva dello Stato di residenza del percipiente, è applicabile la sola normativa interna e quindi l'art. 18 t.u.i.r. Con la terza doglianza l'Agenzia deduce che l'interpretazione della CTR violi anche il criterio di interpretazione che impone di far riferimento al contesto di riferimento nell'interpretazione delle espressioni "elementi di reddito", "base imponibile", "deduzione". 3.2. Con il secondo motivo, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3) cod. proc. civ., l'Agenzia deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2 della l. 11/12/1985, n. 763 nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 2 e 3, comma 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti d'America, nonché degli artt. 18 e 165 d.P.R. n. 917/1986. 3.3. Preliminarmente occorre evidenziare che i motivi di ricorso fanno esclusivo riferimento all'applicazione dell'"art. 2 della l. 11/12/1985, n. 763" nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 23 e 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti d'America (primo motivo) e nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 2 e 3, par. 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti d'America (secondo motivo). In realtà dal controricorso e dagli atti di causa emerge che la domanda di rimborso era formulata in riferimento ad una Convenzione diversa (quella del 1999, ratificata con l. 20/2009) e ciò è confermato dalle richieste delle parti, esposte a pagina 2 della sentenza, e dal tenore letterale della sentenza. I motivi fanno riferimento quindi a normativa convenzionale diversa da quella applicata al caso di specie ma ciò non osta all'ammissibilità dei medesimi, in quanto questa Corte ha ritenuto che l'indicazione, ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione, sicché la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l'inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del "quid disputandum" (Cass. n. 12929/2007; Cass. n. 23961/2010). 4. Il primo motivo esprime, come premesso, tre diverse doglianze, che appaiono però inammissibili. 4.1. Le prime due doglianze, in primo luogo, a fronte della ritenuta applicazione dell'art. 23 della Convenzione che presuppone il riparto della potestà impositiva tra gli stati contraenti, introducono difese del tutto diverse da quelle esaminate dalla CTR, senza alcun riferimento, rilevante a tali fini, al contenuto delle istanze di rimborso, ai fatti da esse dedotti, alla circostanza di averne fatto motivo di appello, invocando solo un passaggio delle deduzioni in appello della controparte. Del resto, lo stesso art. 1, par. 3, della Convenzione prevede che le disposizioni del par. 3 non pregiudicano i benefici concessi da uno Stato contraente ai sensi dell'art. 23 (eliminazione della doppia imposizione). L'art. 3 della Convenzione provvede alle cd. definizioni generali (persona, società, impresa etc.); altre definizioni sono contenute poi nelle singole specifiche disposizioni (per es. l'art. 10 definisce i dividendi, l'art. 11 gli interessi); ove non vi sia alcuna definizione convenzionale, l'art. 3 par. 3 rimanda alla definizione dello Stato; ciò premesso il motivo non individua con precisione quale sia la espressione che occorra interpretare secondo il diritto interno. Né pare pertinente l'affermazione che i dividendi in quanto tassabili in Italia lo siano esclusivamente secondo il diritto interno, in quanto l'art. 10, par. 2, prevede la potestà impositiva anche dello Stato della fonte (la stessa memoria della difesa erariale esplicita che l'art. 10 della Convenzione attribuisce potestà impositiva concorrente ai due Stati contraenti). La terza doglianza poi è del tutto aspecifica, ove deduce che l'interpretazione della CTR violi anche il criterio di interpretazione che impone di far riferimento nella interpretazione delle espressioni "elementi di reddito", "base imponibile" e "deduzione", al contesto della Convenzione. 5. Col secondo motivo l'Agenzia deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2 della l. 11/12/1985, n. 763 nella parte in cui dà esecuzione agli artt. 2 e 3, par. 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti d'America, nonché degli artt. 18 e 165 d.P.R. n. 917 del 1986. In particolare, l'Agenzia censura la decisione laddove ha ritenuto applicabile la norma convenzionale benché l'art. 2 della stessa Convenzione delimiti il suo ambito applicativo all'imposta sul reddito delle persone fisiche; tale nozione non è espressamente definita dalla Convenzione, ragione per cui si applicherebbe l'art. 3, par. 2, della medesima, che impone di dare alle espressioni non definite il significato che ad esse è attribuito dalla legislazione dello Stato; la definizione di imposta sulle persone fisiche andrebbe cercata pertanto nel d.P.R. n. 917 del 1986 in forza del quale l'Irpef è l'imposizione legata al possesso di redditi in denaro o natura di cui alle categorie dell'art. 6 mentre l'imposta sostitutiva applicata alla contribuente trova la propria fonte nell'art. 2, comma 1-bis, D.Lgs. n. 230 del 1996, diverse essendo la ratio e la fonte nonché la finalità. Il motivo non è fondato. 5.1. Si premette che l'art. 2, par. 2, prevede che la Convenzione si applichi all'Irpef "anche se riscossa con ritenuta alla fonte" mentre l'art. 3 prevede che essa si applichi anche alle imposte di natura identica o sostitutiva delle imposte attuali, introdotte successivamente alla firma della Convenzione, avvenuta nel 1999. 5.2. Ciò premesso, questa Corte (Cass. n. 25698/2022, sebbene in riferimento alla previgente Convenzione tra Italia e Stati Uniti per evitare le doppie imposizioni, ma il testo, sul punto rilevante, è il medesimo) ha già ritenuto, di recente, che l'imposta sostitutiva prevista dall'art. 18 del d.P.R. n. 917 del 1986 ha una funzione del tutto sovrapponibile alla ritenuta alla fonte a titolo d'imposta prevista dall'art. 27, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 per il caso in cui i redditi derivanti da partecipazioni di fonte estera non qualificate siano percepiti tramite un intermediario residente. Laddove infatti la Convenzione prevede che il credito di imposta non spetti ove "l'elemento di reddito sia assoggettato in Italia ad imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario", affermando che la causa di esclusione della deduzione opera solo ove l'imposizione, mediante ritenuta a titolo di imposta o mediante l'analoga imposta sostitutiva, avvenga su richiesta del beneficiario, ha evidenziato che nel caso di specie la richiesta del beneficiario non è possibile, ai sensi del precitato quadro normativo; pertanto da tale disposizione pattizia si ricava a contrario che, qualora l'assoggettamento a imposizione mediante ritenuta a titolo d'imposta, come nell'ipotesi di cui all'art. 27, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, o mediante imposta sostitutiva, come nella fattispecie, del tutto sovrapponibile alla prima in ragione dell'identità di funzione, di cui all'art. 18, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, quando il contribuente sia una persona fisica, avvenga non "su richiesta del beneficiario d"el" reddito" ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente chiedere l'imposizione ordinaria, l'imposta sul reddito pagata negli Stati Uniti d'America si deve considerare detraibile. Tale interpretazione trova conferma nella diversità del testo vigente degli accordi bilaterali contro le doppie imposizioni conclusi con altri Paesi, secondo cui "nessuna detrazione sarà accordata ove l'elemento di reddito venga assoggettato in Italia ad imposizione mediante imposta sostitutiva o ritenuta a titolo di imposta, ovvero ad imposizione sostitutiva con la stessa aliquota della ritenuta a titolo di imposta, anche su richiesta del contribuente, ai sensi della legislazione italiana" (art. 23, comma 2, quarto capoverso, della Convenzione tra Italia e Cipro, ratificata e resa esecutiva dalla legge 10 luglio 1982, n. 564; art. 22, comma 2, terzo capoverso, dell'Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica di Malta, ratificato e reso esecutivo dalla legge 2 maggio 1983, n. 304; punto 11 del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo del Regno dell'Arabia Saudita, ratificato e reso esecutivo dalla legge 23 ottobre 2009, n. 159; art. 22, comma 2, quarto capoverso, della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica di Singapore, ratificata e resa esecutiva dalla legge 26 luglio 1978, n. 575; art. 12, comma 1, lett. a), secondo capoverso, dell'Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo del Principato di Monaco, ratificato e reso esecutivo dalla legge 1° dicembre 2016, n. 231) Ed invero, in base ad una interpretazione conforme della norma pattizia (prevalente) la locuzione "anche su richiesta del contribuente", che figura nel testo di tali accordi, conferma che quando l'Italia ha inteso negare il credito d'imposta non solo nei casi in cui l'assoggettamento dell'elemento di reddito a imposta sostitutiva o a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta avvenga su richiesta del contribuente, ma anche nei casi in cui esso sia obbligatorio in base alla legge italiana, lo ha previsto espressamente. 5.3. Non depongono in senso contrario gli argomenti sviluppati nella memoria dall'Agenzia, secondo la quale una lettura complessiva dell'art. 23 della Convenzione deporrebbe nel senso dell'inapplicabilità del credito di imposta convenzionale in quanto anche tale norma ritiene necessario, al fine del riconoscimento del credito di imposta, che il reddito estero concorra a formare il reddito complessivo, al pari della disposizione interna, contenuta nell'art. 165 t.u.i.r., con la conclusione che norma interna e norma convenzionale in realtà non rechino regole diverse; ciò escluderebbe ogni contrasto tra tali disposizioni e quindi la necessità di disapplicare le prime in favore delle seconde. In linea di principio deve evidenziarsi che nella Convenzione non vi è un rinvio esplicito alle norme interne italiane, come invece previsto per le norme interne americane dallo stesso art. 23; e anche a voler ritenere che comunque la normativa italiana sia presupposta, ciò, come segnalato in dottrina, non deve impedire di attribuire benefici previsti dalla Convenzione; le disposizioni interne non debbono porsi in contrasto con le finalità proprie delle Convenzioni in materia fiscale e, in primis, con la finalità di evitare la doppia imposizione internazionale connaturale a questa species di trattati. Esclusa la sussistenza di un rinvio all'art. 165 t.u.i.r. (come nel caso della cd. Euroritenuta, ove si è peraltro precisato che le regole procedimentali nazionali non debbono essere discriminatorie o eccessive, e nemmeno possono negare tout court il diritto al rimborso di fonte unionale o convenzionale: Cass. n. 1002/2023; Cass. n. 33282/2023), deve escludersi anche che la norma convenzionale postuli che il reddito estero debba essere inserito nel reddito complessivo, come dedotto dalla difesa erariale, invocando il principio di diritto dell'Agenzia delle entrate n. 15 del 29 maggio 2019. Mentre l'art. 165 t.u.i.r., e prima l'art. 15, prevedono espressamente che il reddito concorra nella formazione della base imponibile, al comma 1, la Convenzione, all'art. 23, par. 3, primo periodo, richiede solo il concorso dei redditi esteri nella formazione della base imponibile delle imposte che rientrano nell'ambito applicativo della stessa. Neanche sembra deporre in tal senso la previsione, contenuta nel secondo periodo del par. 3 dell'art. 23, secondo cui l'ammontare della deduzione non possa eccedere la quota di imposta italiana attribuibile ai predetti elementi di reddito nella proporzione in cui gli stessi concorrono alla formazione del reddito complessivo, questione particolarmente sviluppata nella memoria, con il rischio di un integrale rimborso dell'imposta estera. Posto che l'accreditabilità della imposta estera (i cui requisiti sono percezione di un reddito da un residente in Italia, inclusione del reddito nella base imponibile ai sensi della Convenzione, imposizione nello Stato della fonte) è questione diversa dal quantum della detraibilità, la disposizione in parola opera sul quantum cioè sul criterio di calcolo (del resto la stessa nozione di imposta italiana è generica al punto da poter comprendere sia l'imposta corrispondente all'applicazione delle aliquote Irpef che le eventuali imposte sostitutive); in realtà sul punto la difesa erariale introduce una questione fattuale nuova, non oggetto di ricorso, relativa al criterio di calcolo utilizzato ai fini della richiesta di rimborso, senza però compiere alcun riferimento al caso concreto. Infine, un elemento evidentemente rilevante in senso contrario alla tesi erariale è che l'esclusione prevista dal terzo periodo dell'art. 23, par. 3, della Convenzione è preceduta dalla congiunzione "tuttavia" ("however", nel testo inglese), che, per via del suo valore avversativo, ha l'effetto di evidenziare che l'esclusione stessa costituisce una deroga rispetto al sistema altrimenti applicabile anche nei riguardi dell'oggetto della deroga, cioè dei redditi assoggettati a imposte sostitutive che non concorrono alla formazione del reddito complessivo; trattasi di espressione che conferisce valore avversativo-limitativo a una frase o sequenza di discorso rispetto a quanto precede e che quindi non avrebbe avuto senso ove la previsione derogatoria fosse implicita nella regola prevista dal secondo periodo. 6. Il ricorso va quindi respinto. Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese di lite. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, spese che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, spese forfettarie al 15 per cento, Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori. Così deciso in Roma, il 17 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2024.
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