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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Za.Bo. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 22/09/2023 della CORTE APP. SEZ. MINORENNI di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 22.9.2023 la Corte di Appello di Ancona - Sezione Minori - in parziale riforma della pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Za.Bo., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di furto in abitazione, ha revocato la sospensione condizionale della pena concedendo il perdono giudiziale, confermando nel resto la decisione del primo giudice. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo, con l'unico motivo articolato, di seguito enunciato nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., la nullità della sentenza del Tribunale dei minorenni e della Corte di appello di Ancona per violazione degli articoli 420 - bis e seguenti del codice di rito. L'imputato veniva rinviato a giudizio con decreto del P.m. del 3 ottobre 2021, notificato a mezzo P.e.c. in data 8 settembre 2022 al difensore di ufficio nominato in sede di notifica del decreto di convalida del decreto di perquisizione e sequestro eseguito il 1 ottobre 2020, il quale aveva telefonicamente accettato la domiciliazione degli atti ai sensi dell'art. 162, comma 4 - bis del codice di rito. All'esito dell'udienza preliminare celebrata il 4/10/2022, in eccepita, inconsapevole e involontaria assenza dell'imputato, il Presidente del Tribunale dei minori, ritenendo di non dover procedere né alla richiesta sospensione del processo ai sensi dell'allora vigente art. 420 - quater cod. proc. pen. né alla definizione del procedimento in via anticipata ai sensi dell'art. 32 D.P.R. 448/88 in mancanza del necessario consenso dell'imputato alla definizione del processo e dei presupposti per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 del codice di rito, disponeva il rinvio a giudizio del ricorrente. Anche il relativo decreto di fissazione dell'udienza dibattimentale veniva notificato all'imputato al domicilio eletto a mezzo P.e.c. inviata al suo difensore di ufficio domiciliatario il 26/11/2022. All'udienza dibattimentale del 23 Febbraio 2023 il Presidente, dopo aver rigettato l'eccezione preliminare sollevata ancora una volta dalla difesa in merito alla inidoneità, ai fini della celebrazione del processo in assenza, dell'elezione di domicilio presso il difensore di ufficio da parte dell'imputato, senza fissa dimora, con il quale il difensore non era riuscito ad instaurare alcun rapporto professionale ed informativo, procedeva alla celebrazione del giudizio in assenza dell'imputato. Ciò posto si osserva che l'art. 420 - bis, così come modificato dall'art. 23, comma 1, lett. c del decreto legislativo 152/22, a decorrere dal 30 dicembre 2022, consente tuttavia la celebrazione del processo in assenza nei soli casi in cui sia stata provata l'effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell'imputato e la riconduzione della sua assenza ad una scelta volontaria e consapevole, recependo le direttive impartite dalla Corte di Strasburgo. La Suprema Corte dì Cassazione ha, d'altra parte, in merito più volte evidenziato che la sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio da parte dell'indagato non può costituire di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza dovendo il giudice verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l'indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso (Sezioni unite n. 23948 del 17 agosto 2020). Indi si citano le ulteriori pronunce di questa Cotte a sostegno della tesi rappresentata in ricorso, e si procede ad ulteriore analisi della vicenda processuale, evidenziando come, peraltro, l'eccezione in argomento veniva proposta anche dinanzi alla Corte di appello, tenuto conto che ancora una volta il relativo decreto di citazione dell'imputato era stato notificato nel domicilio eletto presso il difensore dì ufficio, ma anche in tal caso l'eccezione veniva rigettata sul rilievo che il difensore di ufficio aveva dato regolarmente consenso all'elezione di domicilio e che alcun dovere di verifica sussisteva all'epoca sull'effettività del rapporto con l'imputato, e che, d'altro canto, sarebbe stato eventualmente onere dello stesso difensore provvedere a prendere contatti con l'assistito. Indi, conclude il ricorso per l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale per i minorenni di Ancona. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d. l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore dell'imputato ha insistito nell'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. Si deve premettere che, nel caso oggetto del presente ricorso, alla data dì entrata in vigore del d.igs. n. 150/2022, era già stata pronunciata una ordinanza con la quale sì era disposto di procedere in assenza. Pertanto, ai sensi dell'art, 89 del citato decreto, devono essere applicate "le disposizioni del codice di procedura penale e delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie dei codice di procedura penale in materia di assenza anteriormente vigenti, comprese quelle relative alle questioni di nullità in appello e alla rescissione del giudicato". La questione processuale qui sollevata deve pertanto essere valutata alla stregua delle disposizioni antecedenti alla c.d. Riforma Cartabia e della giurisprudenza di questa Corte formatasi in relazione ad esse. Ciò posto, premesso che nella fattispecie in esame non trova applicazione il nuovo disposto normativo di cui all'art. 161, comma 1, del codice di rito, relativo all'onere di comunicazione, da parte dell'imputato, al difensore di ogni recapito, anche telefonico, si deve riaffermare che, allo stato, la mera accettazione dell'elezione di domicilio da parte del difensore di ufficio ai sensi dell'art. 162, comma 4 - bis, cod. proc. pen., costituente una mera formalità a cui è subordinata l'efficacia dell'elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, è di per sé inidonea a garantire l'effettiva conoscenza da parte dell'imputato degli atti successivi. Ed invero, così come affermato da Sez. 1 n. 3043 del 15.9.2023, dep. il 24.1.2024, Rv. 285711 - 01, l'esigenza della verifica dell'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra difensore domiciliatario ed assistito, a dimostrazione della sua effettiva conoscenza del processo ovvero della sua volontaria sottrazione ad esso, resta ferma anche dopo l'introduzione dell'indicata disposizione di cui all'art. 162, comma 4 - bis. La disposizione di cui all'art. 162, comma 4 bis, cod. proc. pen., invero, non prevede espressamente che il consenso sia manifestato all'esito di un preventivo contatto tra difensore d'ufficio e imputato, sicché non si può dare per supposto che sia avvenuta una interlocuzione tra essi, tale da permettere al difensore di esprimere un consenso consapevole alla domiciliazione. E, sebbene sia auspicabile che il difensore d'ufficio, seppur non abbia ancora avuto modo di confrontarsi con l'assistito, quanto meno manifesti l'assenso alla domiciliazione nei soli casi in cui ritiene fondatamente di poter tenere aperto un canale di comunicazione con esso, ciò nondimeno non si può, in mancanza di elementi certi al riguardo, desumere dal solo fatto che il difensore abbia accettato la domiciliazione che si sia poi effettivamente instaurato il rapporto processuale tra lo stesso e l'assistito. Se è vero che col consenso il difensore viene in un certo qual modo onerato di compiti informativi in relazione al primo atto propulsivo del processo (solo a partire dalla intervenuta conoscenza dell'avvio del processo può ritenersi - anche - l'imputato onerato di informarsi sul suo sviluppo), è altrettanto vero che ciò non è ancora sufficiente ai fini della dimostrazione della conoscenza del processo da parte dell'imputato non potendo essa essere ricavata da tale compito che potrebbe comunque non essere stato adempiuto, a fronte del preciso dovere del giudice che procede dì verificare, d'ufficio, oltre che la regolarità della notificazione, anche l'effettiva conoscenza, da pare del destinatario, dell'atto contenente l'accusa, la data e luogo dell'udienza, e quindi del processo. Si ritiene pertanto che, mancando, nel caso di specie, in atti, quell'elemento ulteriore indice della effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra legale e proprio assistito, si deve ritenere nulla la dichiarazione di assenza intervenuta in primo grado sulla sola base della notificazione della vocatio in iudicium presso il difensore di ufficio domiciliatario (che aveva accettato la domiciliazione). Tenuto conto dello specifico tema che occupa, viene, altresì, in rilievo la pronuncia di questa Corte, Sez. 4, Sentenza n. 48776 del 15/11/2023, Rv. 285572 - 01, che ha avuto modo di ribadire che in tema di processo in assenza - nel caso in cui la relativa dichiarazione risulti emessa nella vigenza della disciplina antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - il giudice che, nel corso del giudizio, rileva la sussistenza di fatti da cui possa inferirsi, con ragionevole certezza, che l'imputato non ha avuto effettiva conoscenza del processo è tenuto a revocare, anche "ex officio", l'ordinanza dichiarativa dell'assenza (fattispecie relativa alla notifica al difensore d'ufficio dell'atto di citazione per il giudizio di appello, in cui la Corte ha precisato che non sussiste un onere del difensore di provare l'assenza di contatti con l'imputato, né di formulare istanza di revoca dell'ordinanza dichiarativa dell'assenza), laddove nel caso di specie, il giudice non solo ha erroneamente dichiarato l'assenza del ricorrente, nonostante il difensore di ufficio avesse rappresentato di non essere riuscito a mettersi in contatto con l'assistito, ma non ha ritenuto, neppure in seguito, di revocare tale dichiarazione, nonostante la sollecitazione in tal senso più volte effettuata dal difensore, appellandosi all'onere di informazione che incombeva sul difensore (in atti risulta anche una nota del Ministero della Giustizia, del 15.9.2022, indirizzata sia alla Procura che al Tribunale di Ancona, che dava atto del fatto che il difensore non fosse a conoscenza né di un domicilio o residenza né di un riferimento familiare dell'imputato, e che non era, quindi, mai riuscito a rintracciarlo). 2. Per quanto esposto, il ricorso è fondato. Ne consegue l'annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata e della sentenza di primo grado e la trasmissione degli atti, per nuovo giudizio, al Tribunale dei Minorenni di Ancona. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e quella di primo grado e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale dei Minorenni di Ancona. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9394 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. Ma. Fu., Fl. De Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Ministero della Difesa, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. -OMISSIS- resa tra le parti; Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 marzo 2024 il Cons. Raffaello Scarpato e uditi per le parti gli avvocati; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. -OMISSIS-, già titolare di porto d'armi n. -OMISSIS- rilasciato dalla Questura di Potenza e di una distinta licenza permanente per collezione di armi antiche, artistiche e rare, rilasciata dalla Questura di Potenza nell'anno 2001, è stata attinta da un decreto penale di condanna, in ragione della detenzione abusiva di 95 munizioni e dell'omessa denuncia del trasferimento di una pistola Beretta, legalmente detenuta in forza del suddetto porto d'armi, presso un diverso indirizzo di residenza. 2. Interposta opposizione avverso il suddetto decreto penale di condanna, il conseguente procedimento penale si è concluso con l'estinzione del reato contestato per avvenuta oblazione. 3. A seguito di tali accadimenti, la ricorrente è stata attinta, in via amministrativa, dal provvedimento di divieto di detenzione di armi, munizioni o materiali esplodenti, emesso dalla Prefettura di Potenza in data 1.2.2023 ai sensi degli artt. 11, 39 e 43 del R.D. n. 773/1931 (T.U.L.P.S.), non esplicitamente limitato alla pistola Beretta ed alle cartucce già oggetto della vicenda penale e, quindi, esteso a tutte le armi detenute, ivi comprese quelle facenti parte della collezione storica, con obbligo di cessione, ovvero di disattivazione, pena la successiva confisca e distruzione ai sensi dell'art. 6 comma 5 della L. n. 152/1975. 4. La ricorrente ha impugnato il divieto, in quanto illegittimo e carente dei presupposti, sia nella parte in cui è stato applicato alle armi comuni (pistola Beretta e munizioni), sia nella parte in cui l'Amministrazione ne ha esteso lo spettro applicativo anche alle armi storiche, facenti parte della Collezione autorizzata con il decreto questorile sopracitato. 5. Quanto al primo profilo, la ricorrente ha dedotto che il trasferimento della pistola Beretta dalla vecchia alla nuova residenza, risalente all'anno 2000, non era stato comunicato all'Amministrazione in buona fede, senza intenti fraudolenti; in relazione alla mancata denuncia delle cartucce, acquistate nel 1991, la ricorrente ha giustificato il proprio comportamento sotto il profilo dell'errore scusabile, avendo ritenuto che al di sotto delle 200 munizione non vi fossero obblighi di denuncia. 6. Quanto al secondo profilo, la ricorrente, premesso che il riferimento a "qualsiasi arma o munizione" contenuto nel provvedimento fosse idoneo ad estendere il divieto anche alla Collezione di armi storiche, ha eccepito che la licenza relativa a queste ultime non era mai stata formalmente ritirata dal Questore, non risultando il Prefetto competente a disporne il ritiro e non potendo in nessun caso le armi storiche essere passibili di distruzione, in caso di mancata cessione volontaria o disattivazione da parte del titolare, ai sensi dell'art. 32 commi 9 e 10 della L. n. 110/1975. 7. Il Tribunale amministrativo regionale della Basilicata, con la sentenza in epigrafe, ha respinto il ricorso, ritenendo il divieto giustificato dalla condizione di inaffidabilità della ricorrente, siccome emergente dalla vicenda penale, e correttamente esteso anche alle armi facenti parte della Collezione storica, dovendosi ogni ulteriore valutazione relativa all'eventuale distruzione delle stesse ritenere riservata all'Autorità competente per la fase esecutiva. 8. Con atto d'appello ritualmente notificato e depositato, la ricorrente ha impugnato la sentenza, deducendo, quanto al primo profilo, che erroneamente la Prefettura ed il T.a.r. avevano ritenuto la risalente ed isolata condotta penalmente rilevante indice di inaffidabilità, violando i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità . Quanto al secondo profilo, l'appellante ha censurato il provvedimento impugnato e la decisione del primo giudice riproponendo i motivi già posti a fondamento del ricorso di primo grado, deducendo che la Collezione relativa alle armi storiche ha carattere permanente, potendo essere revocata solo mediante un provvedimento espresso, di competenza del solo Questore e non del Prefetto. 9. Il Ministero dell'interno si è costituito in giudizio, depositando la pertinente documentazione. 10. Con ordinanza n. 2023/5166 la Sezione ha sospeso l'efficacia esecutiva della sentenza, nelle more della definizione del giudizio nel merito. 11. All'udienza pubblica del 21 marzo 2024 l'appello è stato introitato per la decisione. 12. L'appello è parzialmente fondato, in relazione alla illegittima estensione del divieto anche alla Collezione di armi storiche, artistiche e rare, mentre la sentenza impugnata merita conferma limitatamente alle statuizioni relative alle armi comuni (pistola Beretta e munizioni), legittimamente colpite dal divieto di detenzione (capo n. 5.1 della decisione impugnata). 13. Deve richiamarsi, preliminarmente, il granitico orientamento della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, in relazione alla discrezionalità amministrativa che connota i provvedimenti relativi alla detenzione delle armi ed al conseguente sindacato del giudice amministrativo. La oramai univoca giurisprudenza ha infatti accertato l'insussistenza di una posizione di diritto soggettivo assoluto in relazione all'ottenimento ed alla conservazione del permesso di detenzione e porto di armi in deroga al generale divieto di cui all'art. 699 c.p. e di cui all'art. 4, comma 1, l. 18 aprile 1970, n. 110 (Corte cost. n. 440 del 1993; Cons. Stato, sez. III, n. 2974 del 2018; n. 3502 del 2018). Pertanto, ai sensi degli artt. 11, 39 e 43 del TULPS, l'Amministrazione può legittimamente fondare il giudizio di "non affidabilità " del titolare del porto d'armi valorizzando il verificarsi di situazioni genericamente non ascrivibili alla "buona condotta" dell'interessato, non rendendosi necessario al riguardo né un giudizio di pericolosità sociale del soggetto né un comprovato abuso nell'utilizzo delle armi (Cons. Stato, sez. III, n. 2987 del 2014; n. 4121 del 2014; n. 4518 del 2016; sez. VI, n. 107 del 2017; sez. III, n. 2404 del 2017; n. 4955 del 2018; n. 6812 del 2018) in quanto, ai fini della revoca della licenza, l'Autorità di pubblica sicurezza può apprezzare discrezionalmente, quali indici rivelatori della possibilità d'abuso delle armi, fatti o episodi anche privi di rilievo penale, indipendentemente dalla riconducibilità degli stessi alla responsabilità dell'interessato, purché l'apprezzamento non sia irrazionale e sia motivato in modo congruo (Cons. Stato, sez. VI, n. 107 del 2017; sez. III, n. 2974 del 2018; n. 3502 del 2018), trattandosi di un provvedimento, privo di intento sanzionatorio o punitivo, avente natura cautelare al fine di prevenire possibili abusi nell'uso delle armi a tutela delle esigenze di incolumità di tutti i consociati (Cons. Stato, sez. III, n. 2974 del 2018). Proprio la natura cautelare del provvedimento fa sì che lo stesso si fondi su considerazioni probabilistiche, basate su circostanze di fatto assistite da sufficiente fumus al momento della loro adozione (Cons. Stato, sez. III, n. 3979 del 2013; n. 5398 del 2014; n. 2404 del 2017; n. 6812 del 2018). In materia di autorizzazioni di polizia inerenti il porto e l'uso delle armi, infatti, l'autorità di pubblica sicurezza dispone, ai sensi degli artt. 10,11, 42 e 43 del T.U.L.P.S., di una lata discrezionalità nell'apprezzare se la persona richiedente sia meritevole del titolo, per le evidenti ricadute che tali atti abilitativi possono avere ai fini di una efficace protezione di due beni giuridici di primario interesse pubblico, quali l'ordine e la sicurezza pubblica (ex plurimis, Con. St., Sez. VI, 06.04.2010, n. 1925). La legislazione affida all'autorità di pubblica sicurezza il compito di valutare con il massimo rigore le eccezioni al divieto di circolare armati e, dunque, qualsiasi circostanza che consigli l'adozione del provvedimento di rigetto della domanda di porto d'armi, onde prevenire la commissione di reati e, in genere, di fatti lesivi della pubblica sicurezza. Infatti, ai sensi dell'art. 39, comma 1, T.U.L.P.S., "Il prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell'articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne". Pertanto, la revoca o il diniego dell'autorizzazione possono essere adottate sulla base di un giudizio ampiamente discrezionale circa la prevedibilità dell'abuso dell'autorizzazione stessa, potendo assumere rilevanza anche fatti isolati, ma significativi (cfr. Cons. Stato, III, n. 5398/2014), e potendo l'Amministrazione valorizzare nella loro oggettività sia fatti di reato diversi, sia vicende e situazioni personali del soggetto che non assumano rilevanza penale, concretamente avvenuti, anche non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa desumere la non completa "affidabilità " all'uso delle stesse (cfr. Cons. Stato, III, n. 3979/2013; n. 4121/2014). Conseguentemente, il divieto non richiede una particolare motivazione e il successivo vaglio del giudice amministrativo deve limitarsi alla sussistenza dei presupposti idonei a far ritenere che le valutazioni effettuate non siano irrazionali o arbitrarie (Consiglio di Stato sez. III, 18 aprile 2016, n. 1536). Alla luce di tali premesse, deve ritenersi che nel caso di specie il divieto risulti sufficientemente motivato rispetto alla mancata denuncia di acquisto di n. 95 cartucce ed alla mancata comunicazione di trasferimento della pistola presso la nuova residenza, che integrano circostanze indicative di una scarsa affidabilità e diligenza nella tenuta delle armi, violando il generale dovere informativo - che incombe su tutti coloro che posseggono armi - nei confronti degli organi di pubblica sicurezza. Proprio a tale riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare la sufficienza del mutamento del luogo di custodia delle armi, omettendone la comunicazione all'Autorità, a sostenere sotto il profilo motivazionale il divieto di detenzione. È, infatti, pacifico che "l'omessa denuncia del trasferimento delle armi, di per sé, evidenzia un comportamento superficiale indicativo di scarsa affidabilità nella custodia delle stesse, come tale sufficiente a legittimare l'imposizione del divieto ex art. 39 del TULPS" (Cons. Stato, sentenze nn. 4621/2018, 4334/2017). Non risultano pertanto fondate le censure relative al carattere non attuale ed isolato delle condotte, ovvero all'erroneo convincimento della titolare circa l'insussistenza dell'obbligo di comunicare all'autorità di pubblica sicurezza lo spostamento dell'arma, ovvero l'acquisto delle munizioni; così come l'esito del procedimento penale, culminato con l'estinzione del reato per avvenuta oblazione, non può privare di rilevanza il comportamento non diligente posto a fondamento del diniego impugnato. 14. Differenti considerazioni devono invece essere riferite all'estensione del divieto anche alla Collezione delle armi storiche. 14.1 Il divieto sub iudice, pur non recando alcuno specifico riferimento alla suddetta Collezione, si riferisce "a qualsiasi specie di armi, munizioni o materiali esplodenti", con lata estensione applicativa anche alle armi storiche, detenute dalla ricorrente in forza di un differente titolo, costituito dall'autorizzazione questorile datata 9.11.2001. Tale estensione non risulta legittima, per le seguenti ragioni. Le armi storiche sono sottoposte ad un regime giuridico parzialmente diverso rispetto a quello delle armi comuni e seguono un differente canale di autorizzazione alla detenzione e di revoca, come emerge: - dall'art. 47 del R.D. 6 maggio 1940, n. 635 e dall'art. 11 del D.M. 14.4.1982, che prevedono il carattere permanente della licenza; - dall'art. 32 della legge n. 110 del 1975, che vieta la distruzione delle armi antiche e artistiche comunque versate all'autorità di pubblica sicurezza o alle direzioni di artiglieria senza il preventivo consenso di un esperto nominato dal sovrintendente per le gallerie competente per territorio, prevedendo che le armi riconosciute di interesse storico e artistico debbano essere destinate alle raccolte pubbliche indicate dalla sovrintendenza; - dall'art. 8 del D.M. 14.4.1982, che disciplina un procedimento ad hoc per l'ottenimento della licenza di "Collezione"; - dall'art. 12 del medesimo D.M. 14.4.1982 "Collezioni - Revoca della licenza", il quale, nel richiamare l'art. 11 ultimo comma del R.D. n. 773/1931 ("Le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego dell'autorizzazione"), affida la revoca alla competenza del Questore, che ha l'obbligo di riferire al Sovraintendente per i beni artistici e storici ed al Prefetto, il quale deve invitare l'interessato a trasferire le armi a persone od enti legittimati, ovvero a depositarle presso un ente di diritto pubblico abilitato, indicato dalla competente sovraintendenza. Tale particolareggiato quadro normativo consente di affermare che, in relazione alle Collezioni di armi storiche, non si applica l'obbligo di cessione a terzi o disattivazione, ovvero in mancanza la confisca con successivo versamento alla competente Direzione di artiglieria per la distruzione. Tali conseguenze, infatti, determinerebbero la compromissione dell'interesse alla conservazione del bene, in ragione del suo intrinseco valore storico artistico, oggetto di specifica tutela da parte del legislatore mediante la soprarichiamata specifica disciplina legislativa e regolamentare. Del resto, com'è stato correttamente evidenziato dall'appellante, il divieto di detenzione impugnato è stato adottato in dichiarata applicazione dell'art. 39 R.D. n. 773/1931, il quale attribuisce al Prefetto il potere di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, "denunciate ai termini dell'articolo precedente", ovverossia dell'art. art. 38, il quale esenta dall'obbligo di denuncia "i possessori di raccolte autorizzate di armi artistiche, rare o antiche" (cfr. comma 2). Ciò conferma che, indubbiamente, il divieto di detenzione impugnato può concernere esclusivamente le armi e munizioni per le quali sussiste l'obbligo di denuncia di detenzione ex art. 38 cit. (nella specie la Beretta e le sue cartucce) ma non anche la collezione di armi artistiche, rare o antiche di proprietà dell'appellante. Per tali ragioni, non può essere condivisa la decisione impugnata nella parte in cui, non considerando il sopradelineato quadro normativo, ha accomunato le armi artistiche, rare o antiche costituenti Collezione alle armi comuni da sparo, estendendo ad esse il divieto di detenzione e relegando ad una fase meramente esecutiva il compimento delle verifiche prescritte dall'art. 32, co. 9 e 10, della L. n. 110/1975. 14.2 A differenti conclusioni non potrebbe peraltro giungersi nemmeno attribuendo al provvedimento impugnato valore e sostanza di provvedimento di revoca implicita della licenza di raccolta e detenzione emessa dal Questore della Provincia di Potenza in data 9.11.2001. Ed infatti, nel tratteggiare i connotati ed i limiti di ammissibilità del cd. "provvedimento implicito", la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito che: "a) deve esistere, a monte, una manifestazione espressa di volontà della pubblica amministrazione (sub specie comportamento concludente o altro atto amministrativo); b) tale atto o comportamento deve provenire da un organo amministrativo competente e nell'esercizio delle sue attribuzioni; c) l'atto implicito deve, a sua volta, rientrare nella sfera di competenza dell'autorità amministrativa che ha emanato l'atto presupposto; d) per l'atto implicito la legge non deve richiedere una forma determinata a pena di nullità, dovendosi, comunque, rispettare le forme procedimentali previste per l'emanazione dell'atto; e) deve sussistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra l'atto implicito e l'atto presupponente, il primo dovendo costituire l'unica conseguenza possibile dell'atto a monte espresso f) che in ogni caso, emergano e factis (avuto riguardo al concreto andamento dell'iter procedimentale e alle effettiva acquisizioni istruttorie) gli elementi necessari alla ricostruzione del potere esercitato" (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1034/2018; Cons. Stato, sez. V, n. 5822/2019). Nel caso oggetto del presente giudizio, difettano i presupposti previsti dalla lettera "c", stante la competenza del Questore, normativamente prevista, per la revoca della licenza, e dalla lettera "e", dovendosi escludere, per le già indicate distinzioni di disciplina e di ratio giustificatrice, che la revoca della licenza della Collezione possa considerarsi l'unica conseguenza possibile dell'atto a monte, concernente le armi comuni detenute dall'appellante e soggiacenti alla disciplina propria delle stesse, non automaticamente estendibile anche alle Collezioni. 15. Per tali ragioni, in parziale riforma della decisione impugnata, l'originario ricorso deve essere accolto ed il provvedimento impugnato deve essere riformato, limitatamente alla parte in cui il divieto è stato esteso anche alla Collezione delle armi antiche, artistiche e rare, autorizzata con la licenza rilasciata dal Questore della Provincia di Potenza in data 9.11.2001. Il divieto rimane pertanto valido ed efficace in relazione alle rimanenti armi comuni e munizioni. 16. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate, in ragione delle motivazioni poste a fondamento della decisione e della peculiarità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l'appellante; Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Giovanni Pescatore - Presidente FF Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere Raffaello Scarpato - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8923 del 2021, proposto da Te. Va. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati St. Ve. e Ma. Pi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gu. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Seconda n. 00487/2021, resa tra le parti, per l'annullamento: a - dell'ordinanza n. 21 del 15.07.2019, successivamente notificata, con la quale il Responsabile dell'Ufficio Urbanistica del Comune di (omissis) ha disposto la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi di alcune opere realizzate presso l'area di proprietà sita alla Loc. (omissis); b - ove e per quanto occorra, della relazione prot. n. 8410 dell'08.07.2019 redatta dall'U.T.C. a seguito di sopralluogo, presupposta all'ordinanza sub a); c - di tutti gli atti, anche non conosciuti, presupposti, collegati, connessi e consequenziali. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Te. Va. S.r.l. il 2\1\2020: a - della determina n. 114 del 24.10.2019 Reg. Servizio e n. 603 del 24.10.2019 Reg. Generale, successivamente notificata, con la quale il Responsabile del Servizio Tecnico del Comune di (omissis) ha irrogato la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00 per "la non osservanza dell'ordinanza di rimessa in pristino per le opere eseguite in assenza del titolo abilitativo"; b - del provvedimento di cui alla nota prot. n. 13168 del 12.11.2019, con il quale la P.A. ha disposto il diniego definitivo dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria depositato ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001; c - ove e per quanto occorra, del verbale di sopralluogo redatto dal Comando di polizia Municipale in data 23.10.2019, assunto a presupposto del provvedimento sub a); non conosciuto; d - ove e per quanto occorra, della nota prot. n. 12772 del 31.10.2019, recante la comunicazione dei motivi ostativi; e - di tutti gli atti, anche non conosciuti, presupposti, connessi, collegati e consequenziali. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Te. Va. S.r.l. il 21\1\2020: avverso e per l'annullamento: a - dell'ordinanza n. 37 del 19.11.2019, con la quale il Responsabile dello Sportello Unico per l'Edilizia del Comune di (omissis), in seguito al diniego dell'istanza di accertamento di conformità depositata dalla ricorrente ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, ha ordinato la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi di alcune opere realizzate nell'ambito di un'area sita alla Loc. (omissis); b - di tutti gli atti, anche non conosciuti, presupposti, connessi, collegati e consequenziali. Per quanto riguarda il ricorso incidentale presentato da Comune di (omissis) il 24/11/2021: per la riforma della sentenza del T.A.R. Campania - Sezione di Salerno, Sez. II n. 00487/2021, pubblicata in data 24.02.2021 nella parte in cui ha accolto i motivi aggiunti proposti avverso la determina n. 114 del 24.10.2019 recante la comminatoria nei confronti Te. Va. S.r.l. (c.f. 05368130653) pecuniaria di Euro 20.000,00 ex art. 31 comma 4 bis del D.P.R. 380/2001 per la mancata riduzione in pristino delle opere abusive sanzionate dell'ordinanza di demolizione precedentemente comminata Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo; Nessuno è comparso per le parti costituite; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.E' appellata la sentenza del T.A.R. Campania - Sezione di Salerno, Sez. II n. 00487/2021, d'accoglimento in parte del ricorso e motivi aggiunti proposti da Te. Va. S.r.l. avverso (una prima) ordinanza di demolizione del Comune di (omissis) - sostituta in pendenza di giudizio da altra ingiunzione a demolire (n. 37 del 19.11.2019), impugnata con motivi aggiunti - nonché avverso la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00, comminata per l'inosservanza dell'ordine di rimessione in pristino. Con ulteriori motivi aggiunti, la società ha impugnato il diniego opposto all'istanza di accertamento di conformità presentata il 16.10.2019, per essere la pratica "carente della documentazione e degli elaborati tecnico-amministrativi". 2. Interventi abusivi realizzati in area agricola, gravata da vincolo paesaggistico e idrogeologico sita alla località (omissis), consistenti: - nella sopraelevazione del piano di campagna di altezza pari a m. 2, di un ampio spazio di circa mq. 1.150 con all'interno la realizzazione di una piscina ornamentale di dimensioni in pianta pari a m. 18,70 x m. 9,90 e per complessivi mq. 185,13 e una profondità di m. 1.40. Per la sopraelevazione del piano di campagna e` stato realizzato un muro di sostegno in calcestruzzo della lunghezza complessiva di m. 54,73 a forma di una "elle" con il lato minore di m. 6.97 e il lato maggiore di m. 47.76, spessore cm. 30 ed un'altezza media di m. 2; - in tre gazebo, che occupano una superficie complessiva di circa mq. 155, nonché nella parte retrostante e nelle immediate vicinanze del torrente Pi. di un manufatto, in legno e parte in muratura, avente destinazione di cucina, servizi igienici, nonché deposito, di complessivi mq. 103,82 e una volumetria complessiva di mc. 303; - in un ulteriore gazebo destinato a bar, in legno, di dimensioni pari a m. 9 x m. 7.20 e per complessivi mq. 64,80 ed un'altezza pari a m. 3; - in area parcheggio di complessivi mq. 4.600. 3. Il Tar, dichiarato improcedibile il ricorso proposto avverso l'originaria ordinanza di demolizione, ha accolto i motivi aggiunti limitatamente all'irrogazione della sanzione pecuniaria per inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 37 del 19.11.2019, "stante l'emanazione dell'atto sanzionatorio allorquando il procedimento di sanatoria non si era ancora concluso":, respingendo nel resto il gravame. Il Tar ha respinto l'impugnazione sia del diniego opposto dal Comune all'istanza di accertamento di conformità presentata, motivato sulla carenza della documentazione e degli elaborati tecnico-amministrativi, che della nuova ordinanza di demolizione, qualificata "come atto dovuto, vertendosi sulla realizzazione, in zona agricola e senza alcun titolo, di un'area attrezzata all'aperto della complessiva estensione di 1150 mq., costituita da una piattaforma in cemento armato sopraelevata e pavimentata, gazebi attrezzati a bar e servizi, piscina ed annesso parcheggio per 4600 mq.; mentre è evidente la sottoposizione delle dette opere al regime del permesso di costruire ed ad autorizzazione paesaggistica, perché ricadenti nella fascia di 150 metri dal torrente Pi.". 4. Appella la sentenza Te. Va. s.r.l.. Resiste il Comune di (omissis) che, a sua volta, ha proposto appello incidentale avverso il capo di sentenza d'annullamento della sanzione pecuniaria. 5. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 6. In limine va respinta la richiesta formulata dall'appellante di sospensione del giudizio, ex art 295 c.p.c., in attesa della definizione innanzi al Tribunale di Salerno della questione - qualificata come pregiudiziale - della natura demaniale o meno delle aree su cui ricadono parte delle opere abusive. In considerazione del fatto che si controverte sulla natura delle opere realizzate senza titolo edilizio in area agricola, gravata da vincolo paesaggistico e idrogeologico, l'accertamento della demanialità delle aree ove ricadono parte dagli abusi edilizi, nell'economia del decidere, non è ex dirimente, sì da non giustificare la sospensione del giudizio in corso. 7. Prima di affrontare i molteplici motivi d'appello principale, è bene richiamare la disciplina urbanistica ed ambientale che governa il territorio. L'area d'intervento ricade parte in zona agricola E5 "Zona Agricola Irrigua" e parte in zona E4 "Zona Agricola Semplice" del vigente Piano Regolatore Generale, in cui sono destinate prevalentemente attività dirette o connesse con l'agricoltura, per cui in esso sono consentite costruzioni a servizio diretto del fondo agricolo - residenza e attrezzature per l'agricoltura. L'area è sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi degli artt. 146 e 167 d.lgs. 4/2004 perché ricadente nella fascia di 150 metri dal torrente Pi., nonché assoggettata alle norme di salvaguardia sancite dal Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico poiché "l'area risulta: parte area a pericolosità potenziale PUtr1 e parte PUtr3... parte area a rischio potenziale da frana RUtr2... parte RUtr3... parte RUtr4... (in) zone di attenzione". 8. Con il primo motivo, l'appellante denuncia l'errore di giudizio in cui sarebbe incorso il Tar nel respingere il gravame avverso il diniego di accertamento di conformità . Il Comune di (omissis), secondo la censura in esame, ha denegato l'accertamento di conformità sul presupposto della mancata allegazione di documentazione," omettendo di richiederla espressamente come era suo precipuo compito". 8.1 Il motivo è infondato. Il Comune resistente, prima di opporre il diniego impugnato, con nota (prot. n. 12023 del 16.10.2019), ha espressamente richiesto l'apporto partecipativo della società appellante che - va sottolineato - è rimasta senza esito. Sicché, la regolarizzazione documentale ex officio è stata richiesta dal Comune, assolvendo al precetto contenuto nell'10-bis l.241/90, 9. Con il secondo motivo d'appello, l'appellante denuncia l'erroneità della sentenza laddove si censura il comportamento della ricorrente per non avere chiesto la concessione del termine per effettuare il deposito della documentazione carente. 9.1 Il motivo è infondato. Contrariamente a quanto dedotto in fatto dall'appellante, il Comune, nell'istruire il procedimento, ha richiesto l'esibizione di documenti essenziali a comprovare la veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. 455/2000 quanto alla legittimazione ad intervenire anche all'interno dell'area demaniale e all'insussistenza di vincoli di natura paesaggistica e ambientale tali da rendere necessario il preventivo conseguimento dei prescritti nulla osta delle autorità preposte alla loro gestione. In risposta, la società ha lasciato scadere il termine, senza presentare alcuna osservazione. 10. Con il terzo motivo di appello, la ricorrente lamenta gli errori di giudizio nel respingere le censure proposte avverso l'ordinanza di demolizione. Le opere contestate, secondo la censura in esame, sarebbero in parte irrilevanti ai fini volumetrici e/o del carico urbanistico e, quindi, non sono assoggettate al regime del permesso di costruire né sanzionabili ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001, e, per altra parte, sarebbero riconducibili al genus degli interventi pertinenziali "minimi", di cui agli artt. 3 e 6 d.P.R. n. 380/2001. 10.1 Il motivo è infondato. Le opere abusive realizzate in zona agricola gravata da vincolo paesaggistico e idrogeologico consistono: nella sopraelevazione del piano di campagna di altezza pari a m. 2, di un ampio spazio di circa mq. 1.150 con all'interno la realizzazione di una piscina ornamentale di dimensioni in pianta pari a m. 18,70 x m. 9,90 e per complessivi mq. 185,13 e una profondità di m. 1.40, nella realizzazione 3 gazebi, che occupano una superficie complessiva di circa mq. 155, nonché nella parte retrostante e nelle immediate vicinanze del torrente Pi. di un manufatto, in legno e parte in muratura, avente destinazione di cucina, servizi igienici, nel deposito, di complessivi mq. 103,82 e una volumetria complessiva di mc. 303; nella edificazione di ulteriore gazebo destinato a bar, in legno, di dimensioni pari a m. 9 x m. 7.20 e per complessivi mq. 64,80 ed un'altezza pari a m. 3 (...); nella realizzazione di un'area parcheggio di complessivi mq. 4.600. Va sottolineato che l'area occupata dalla piattaforma, "ricade per mq. 900 nella proprietà del demanio" (su una estensione di complessivi 1150 mq; mentre l'area occupata dal parcheggio, "risulta, ivi compreso l'ingresso al parcheggio, parzialmente di proprieta` del demanio per mq. 2.200" (su una estensione di complessivi 4600 mq). Il Comune ha accertato la realizzazione, senza alcun titolo autorizzativo, di area attrezzata per ricevimenti all'aperto, costituita da una piattaforma sopraelevata in cemento armato, con gazebi attrezzati a bar e servizi, impianto di illuminazione e piscina monumentale della complessiva estensione di 1150 mq e dell'annesso parcheggio per automezzi di ulteriori 4600 mq. Gli interventi complessivamente considerati incidono pesantemente sull'intero comprensorio, avente oltretutto valenza ambientale (cfr., Cons. Stato, n. 496/2022). In ragione della peculiare disciplina del territorio qui in esame, va ribadito che la valutazione di abusi edilizi e illeciti compiuti richiede una visione d'insieme, e non parcellizzata delle opere eseguite, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva, non da ciascun intervento in sé considerato, ma dall'insieme dei lavori nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni (cfr., Cons. Stato n. 2119/2023; Id., n. 8848/2022; Id., 7601/2019). Correttamente il Tar ha qualificato come "atto dovuto" l'ordinanza di demolizione stante l'avvenuta realizzazione, in zona agricola e senza alcun titolo, "di un'area attrezzata all'aperto della complessiva estensione di 1150 mq., costituita da una piattaforma in cemento armato sopraelevata e pavimentata, gazebi attrezzati a bar e servizi, piscina ed annesso parcheggio per 4600 mq.; mentre è evidente la sottoposizione delle dette opere al regime del permesso di costruire ed ad autorizzazione paesaggistica, perché ricadenti nella fascia di 150 metri dal torrente Pi.". 11. Conseguentemente, anche il quarto motivo dell'appello principale, laddove si deduce che "le opere contestate sono riconducibili al regime sanzionatorio pecuniario di cui all'articolo 37 d.P.R 380/2001", è infondato. Le pluralità degli abusi commessi in zona agricola, gravata da vincoli ambientali, comporta l'applicazione del regime sanzionatorio rispristinatorio di cui agli artt. 31 d.P.R. 380/2001 e 167 d.lgs. 4/2004. 12. Conclusivamente, l'appello principale deve essere respinto. 13. Ad opposta conclusione deve giungersi con riguardo all'appello incidentale Il T.A.R. ha accolto l'impugnativa spiegata dalla società con esclusivo riferimento al provvedimento (n. 114 del 24.10.2019), con la quale il Comune di (omissis) le aveva comminato la sanzione prevista dall'art. 31, comma 4 bis, d.P.R. 380/2001 per non aver ottemperato all'ordinanza di demolizione n. 21 del 15.07.2019. Secondo i giudici di prime cure la sanzione pecuniaria, in pendenza del procedimento di sanatoria, non poteva essere adottata, poiché "il deposito dell'istanza comporta la sospensione dell'efficacia dell'ordinanza di demolizione fino alla definizione del procedimento".. Il Comune appellante deduce che il procedimento attivato dalla società per la sanatoria delle opere sanzionate non aveva alcuna valenza "sospensiva" e/o "interruttiva" del termine di novanta giorni ivi impartito per la riduzione in pristino degli abusi commessi in area demaniale. 13.1 Il motivo è fondato. La sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4° bis, d.P.R. 380/2001 consegue ex lege all'inottemperanza all'ingiunzione a demolire; la quantificazione nella misura massima di Euro 20.000,00 corrisponde al criterio normativo, stante la concorrente violazione della normativa paesaggistico-ambientale. La norma recita: "L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima...". Nessuna norma prevede che l'esecutività della sanzione è sospesa per effetto della presentazione dell'istanza d'accertamento di conformità . 14. Pertanto, l'appello incidentale proposto dal Comune deve essere accolto, e, per l'effetto, in parziale riforma dell'appellata sentenza, devono essere respinti i motivi aggiunti proposti in prime cure avverso la sanzione pecuniaria comminata dal Comune. 15. Le spese del presente grado di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello principale, come in epigrafe proposto, lo respinge. Accoglie l'appello incidentale proposto dal Comune e, per l'effetto, in parziale riforma dell'appellata sentenza, respinge i motivi aggiunti proposti in prime cure avverso la sanzione pecuniaria comminata. Condanna Te. Va. s.r.l. al pagamento delle spese del grado di giudizio in favore del Comune di (omissis) liquidate complessivamente in 3000,00 (tremila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8922 del 2021, proposto da Te. Va. S.r.l., Fi. Ca., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati St. Ve., Ma. Pi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gu. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Seconda n. 00486/2021, resa tra le parti, per l'annullamento per quanto riguarda il ricorso introduttivo: A) del provvedimento n. 36 del 15.11.2019, con il quale si è ingiunta la demolizione di pretese opere abusive sul complesso immobiliare della società ricorrente, alla Località (omissis); B) ove occorra, del provvedimento n. 8436 del 9.07.2019, di comunicazione d'avvio del procedimento di demolizione, ai sensi dell'art. 7 l. 241/1990; C) ove occorra, ancora, della relazione di sopralluogo, n. 11966 del 15.10.2019, non conosciuta; Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da SOCIETÀ Te. Va. S.R.L. il 2\7\2020: D) del silenzio-rigetto formatosi sull'istanza di permesso di costruire in sanatoria presentata dal ricorrente in data 7.02.2020, per modeste opere sul complesso immobiliare alla Località (omissis), ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001; per quanto riguarda i motivi aggiunti: E) del silenzio-rigetto formatosi sull'istanza di permesso di costruire in sanatoria presentata dal ricorrente in data 7.02.2020, per modeste opere sul complesso immobiliare alla Località (omissis), ai sensi dell'art. 36 d.p.r. 380/2001; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo; Nessuno è comparso per le parti costituite; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.E' appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno Sezione Seconda n. 00486/2021, di parziale accoglimento del ricorso e motivi aggiunti proposti da Te. Va. s.r.l. avverso, rispettivamente, l'ordinanza di demolizione (n. 36 del 15.11.2019), adottata dal Comune di (omissis), ed il silenzio-rigetto formatosi sull'istanza di permesso di costruire in sanatoria presentata in data 07.02.2020. 2. Interventi abusivi realizzati in area agricola, gravata da vincolo paesaggistico e idrogeologico sita alla località (omissis), quali: a) manufatto con struttura portante in legno a forma di poligono dodecagono di superficie pari a mq. 384,46 con una altezza variabile tra m. 3 e m. 5.35 al colmo e una volumetria complessiva pari a mc. 1.408,57; b) la realizzazione, in difformità rispetto alla menzionata C.E. n. 34 del 22.09.1995: Al Piano terra: 1) ingresso di mq. 12,45, altezza m. 2,70 e volumetria di mc. 33,61 in struttura in alluminio e vetrate; 2) corpo di fabbrica destinato a cucina di mq. 62,17, altezza m. 3,25 e volumetria pari a mc. 202,05 in cemento armato... ad una distanza inferiore a quella prescritta dalle norme (m. 20) dalla strada comunale (omissis) o (omissis); 3) portico con pilastri in cemento armato di mq. 67,44; 4) ampliamento della sala ricevimenti di mq. 184,36, altezza media m. 3,40 e volumetria pari a mc. 626,82 in struttura amovibile ed infissa al suolo in legno e pareti perimetrali in vetro. L'ampliamento e` stato realizzato ad una distanza di m. 1,70 dal torrente Pi.... posizionato su un canale Ir. interrato di proprieta` del Demanio o di Consorzio Ir.; 5) ampliamento della struttura di mq. 338,76, altezza media 2,82 e volumetria di mc. 955,30 in struttura mista cemento armato, legno e vetrate. L'ampliamento e` stato realizzato ad una distanza, rispettivamente, di m. 4,40, m. 8,40, m. 4 e m. 4,35 dal torrente Pi.; 6) struttura metallica poggiata sulla parete del fabbricato e aperta su tre lati di mq. 35,88, infissa al suolo a mezzo di bulloni. La struttura e` stata realizzata ad una distanza inferiore a quella prescritta dalle norme (m. 20) dalla strada comunale (omissis) o (omissis); Al Piano primo: 7) ampliamento dell'unita` abitativa sul lato opposto all'ingresso principale della sala ricevimenti di mq. 100,09, altezza m. 3 e una volumetria di mc. 300,27, in cemento armato e destinano a soggiorno. L'ampliamento e` stato realizzato ad una distanza di m. 4,05 dal torrente Pi.; 8) scala d'ingresso all'unita` abitativa di mq. 11,46 in cemento armato ad una distanza inferiore a quella prescritta dalle norme (m. 20) dalla strada comunale (omissis) o (omissis); Al Piano sottotetto: 9) ampliamento sul lato opposto all'ingresso principale della sala ricevimenti di mq. 45,12, altezza media m. 2,65 e una volumetria di mc. 119,56, con struttura in legno lamellare aperta su tre lati. L'ampliamento e` stato realizzato ad una distanza di m. 9,40 dal torrente Pi.; 10) balcone di mq. 6,16 sul lato verso la strada comunale (omissis) o (omissis); la realizzazione di un corpo scala in legno che dal soggiorno del primo piano collega il sottotetto di mq. 21,37. 2.1 La ricorrente, oltre denunciare lo scarso rilievo edilizio delle opere, ha lamentato che parte delle opere oggetto dell'ordinanza di demolizione erano state oggetto della concessione edilizia in sanatoria n. 150 del 04.08.2004, rilasciata in accoglimento dell'istanza d'accertamento di conformità (prot. n. 2406 del 31.03.1987). 3. Il Tar ha accolto il ricorso limitatamente a quest'ultimo profilo, respingendo nel resto il ricorso principale ed i motivi aggiunti, rilevando la pluralità delle opere abusive realizzate senza titolo in area agricola eseguite, "al più, in un periodo compreso tra il 2011 ed il 2018", ossia in epoca successiva l'entrata in vigore del d.lgs. 157/2006 ha introdotto il divieto di sanatoria successivo alla realizzazione dei lavori nelle zone vincolate. 4. Appella la sentenza Te. Va. s.r.l. Resiste il Comune di (omissis). 5. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 6. In limine va respinta la richiesta formulata dall'appellante di sospensione del giudizio, ex art 295 c.p.c., in attesa della definizione innanzi al Tribunale di Salerno della questione - qualificata come pregiudiziale - della natura demaniale o meno delle aree su cui ricadono parte delle opere abusive. In considerazione del fatto che si controverte sulla natura delle opere realizzate senza titolo edilizio in area agricola, gravata da vincolo paesaggistico e idrogeologico, l'accertamento della demanialità delle aree ove ricadono parte dagli abusi edilizi, nell'economia del decidere, non è ex dirimente, sì da non giustificare la sospensione del giudizio in corso. 7. Prima di affrontare i molteplici motivi d'appello, è bene richiamare la disciplina urbanistica ed ambientale che governa il territorio. L'area d'intervento ricade parte in zona agricola E5 "Zona Agricola Irrigua" e parte in zona E4 "Zona Agricola Semplice" del vigente Piano Regolatore Generale, in cui sono destinate prevalentemente attività dirette o connesse con l'agricoltura, per cui in esso sono consentite costruzioni a servizio diretto del fondo agricolo - residenza e attrezzature per l'agricoltura. L'area è sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi degli artt. 146 e 167 d.lgs. 4/2004 perché ricadente nella fascia di 150 metri dal torrente Pi., nonché assoggettata alle norme di salvaguardia sancite dal Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico poiché "l'area risulta: parte area a pericolosità potenziale PUtr1 e parte PUtr3... parte area a rischio potenziale da frana RUtr2... parte RUtr3... parte RUtr4... (in) zone di attenzione". Va altresì precisato, al fine di delimitare il campo d'indagine dello scrutinio di legittimità qui esperito, che in forza delle allegazioni contenute nella relazione tecnica di accertamento del Comune (prot. n. 11966 del 15.10.2019) risulta che tutte le opere oggetto della sanzione demolitoria sono state realizzate entro l'arco temporale compreso tra il 2011 e il 2018. Il dato di fatto, avallato dai giudici di prime cure, trova conferma nell'allegazione dei rilievi aereofotogrammetrici storici presenti sul portale istituzionale Geosit e dalle foto munite di datario comunemente reperibili sul servizio Go. Ma. / St. Vi.. Sicché il compendio immobiliare e le opere realizzate sono ricomprese nella disciplina di cui agli artt. 146, comma 1, lett. c) e 167, comma 4, d.lgs. 4/2004. Conseguentemente, va affermato che le opere abusive sono state realizzate in assenza dei prescritti nulla osta e/o pareri da parte dell'autorità preposta gestione del vincolo idrogeologico; e,che esse, qualora abbiano generato nuove superfici o nuovi volumi, non sono suscettibili di sanatoria ex post. A questo riguardo, sotto il profilo urbanistico-edilizio, non va passato sotto silenzio che le opere abusive, quanto all'impatto sul tessuto urbanistico, vanno considerate complessivamente, non già atomisticamente in modo parcellizzato, frazionando i singoli interventi. 8. A questa stregua, l'unica che assicura il corretto governo del territorio, deve essere respinto il primo motivo d'appello. L'appellante, nel motivo in esame, contesta il capo della sentenza ove si afferma che quelle sanzionate dall'ordinanza n. 36/2019 sono "opere di stabile trasformazione del suolo, implicanti nuovi volumi o superfici e realizzate senza alcun titolo, tanto da necessitare la presentazione di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria". In realtà, secondo il motivo in esame, le opere avrebbero scarso o nullo impatto sul tessuto urbanistico e paesaggistico. 8.1 Il motivo è infondato. La censura, di fatto, scinde i singoli interventi, prescindendo dall'impatto complessivo prodotto sull'intero comprensorio, avente oltretutto rilievo ambientale (cfr., Cons. Stato, n. 496/2022). Viceversa, proprio in ragione della peculiare disciplina del territorio qui in esame, va ribadito che la valutazione di abusi edilizi e illeciti compiuti richiede una visione d'insieme, e non parcellizzata delle opere eseguite, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva, non da ciascun intervento in sé considerato, ma dall'insieme dei lavori nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni (cfr., Cons. Stato n. 2119/2023; Id., n. 8848/2022; Id., 7601/2019). 9. Con il secondo motivo di appello, l'appellante denuncia che erroneamente, ed in maniera tranciante, il TAR ha ritenuto che le immagini tratte da portali internet fossero attendibili circa l'epoca di realizzazione dei manufatti. L'attività istruttoria posta in essere dal Comune sarebbe stata smentita dalla "perizia (depositata) in data 21.01.2021...che ha puntualmente dato conto della realizzazione dei lavori in data precedente all'anno 2000". 9.1 Il motivo è infondato. A fronte delle precise allegazioni contenute nella relazione tecnica del Comune, la perizia di parte non assolve l'onere probatorio gravante sulla ricorrente quanto alla data d'ultimazione delle opere abusive. Va data continuità all'indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, a mente del quale - richiamando gli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c. p. a. - pone in capo al ricorrente l'onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità : quindi, l'onere di provare la data di realizzazione di un'opera spetta al ricorrente, perché solo questi può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione dell'intervento edilizio (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2019 n. 3696; Id., sez. VI,5 marzo 2018 n. 1391). In aggiunta, va sottolineato che le fotografie, richiamate dal Comune, tratte da google earth e da google street view costituiscono, prova precostituita della loro conformità alle cose ed ai luoghi rappresentati, sicché chi voglia inficiarne l'efficacia probatoria ha l'onere di disconoscere tale conformità (cfr. Cass. civ., Sez. trib., 10 gennaio 2020, n. 308; T.A.R. Campania, Sez. II, 24 aprile 2015, n. 2380). 10. Negli ulteriori motivi d'appello, si lamenta la violazione dell'art. 10 bis l. 241/1990 con riferimento silenzio-significativo serbato dal Comune di (omissis) sulla istanza di accertamento di conformità presentata in data 07.02.2020; nonché l'illegittimità della sanzione ripristinatoria "perché le modeste opere di ampliamento non possono essere demolite senza pregiudizio per la porzione di fabbricato lecito"; ed infine che il dirigente comunale non ha proceduto ad alcuna necessaria comunicazione alla Soprintendenza che, "in virtù della normativa vigente, può e deve intervenire nel relativo procedimento repressivo". 10.1 I motivi sono infondati. Nell'ordine. Ai sensi dell'art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001, "sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata". Poiché la norma disciplina (nel tempo) la formazione del silenzio-diniego sull'istanza d'accertamento di conformità, non trova applicazione l'art. 10 bis l. 241/90 che scandisce il contraddittorio sul presupposto dell'esercizio di valutazioni discrezionali sottese all'adozione del provvedimento espresso. Quanto alla denunciata impossibilità di demolire senza pregiudizio per la porzione di fabbricato lecito, va osservato che la circostanza di fatto non inficia la legittimità della sanzione ripristinatoria. L'eventuale emersione di pregiudizio alle opere legittime, laddove fosse eseguita la demolizione, rileva ed inerisce alla fase esecutiva, con la conseguente possibilità di dare eventualmente corso alla c.d. f(omissis)lizzazione dell'abuso, ex artt. 33 o 34 d.P.R.. 380/2001. In definitiva, il previo accertamento dell'impossibilità di rimuovere la parte abusiva senza pregiudizio della parte conforme non costituisce requisito di legittimità dell'ordine di demolizione. Analogamente, l'invocato onere procedimentale del dirigente a sollecitare la valutazione della Soprintendenza si colloca nella fase esecutiva della riduzione in pristino del manufatto abusivo in danno dell'autore dell'abuso e non in quella, logicamente e cronologicamente presupposta, della fase di emissione dell'ordinanza di demolizione. 11. Conclusivamente l'appello deve essere respinto. 12. Le spese del presente grado di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna Te. Va. s.r.l. al pagamento delle spese del grado di giudizio in favore del Comune di (omissis) liquidate complessivamente in 3000,00 (tremila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere - Relatore Dott. TRAVAGLINI Paola Di Nicola - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da Di.Ma. , nata a R C il (Omissis) Mo.Lu. , nato a V V il (Omissis) avverso l'ordinanza del 7/12/2023 del Tribunale di Reggio Calabria Visti gli atti, l'ordinanza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Giuseppina Anna Rosaria Pacilli; udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Nicola Lettieri, che ha concluso chiedendo di dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi; udito l'Avv. Gi.Ia., difensore dei ricorrenti, che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 7 dicembre 2023 il Tribunale di Reggio Calabria ha confermato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari della stessa città ha applicato a Di.Ma. e Mo.Lu. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai delitti di cui agli artt. 591 e 572 cod. pen. 2. Avverso l'anzidetta ordinanza gli indagati, tramite difensore, hanno proposto due ricorsi per cassazione, sovrapponibili tra loro, deducendo i motivi di seguito indicati. 2.1. Con il primo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 273 cod. proc. pen. , per non avere il Tribunale valutato che le persone ospitate nella struttura non erano mai state prive di assistenza né esposte a una rilevante possibilità di danno per la vita o l'incolumità personale, anche perché mai sarebbe venuto meno il numero di personale adeguato alla loro cura. Peraltro, se i familiari degli ospiti avessero riscontrato le condizioni descritte nel provvedimento impugnato, avrebbero sicuramente trasferito i propri parenti in altre strutture. Per di più, il quadro indiziario, valorizzato dal Tribunale, sarebbe stato tratto da una singola ispezione dei Nas, operata nelle prime ore della mattina, quando ancora il personale della struttura si sarebbe dovuto attivare per le pulizie. 2.2. Con il secondo motivo hanno dedotto la violazione dell'art. 274 cod. proc. pen. , per avere il Tribunale desunto le plurime condotte degli indagati soltanto da una singola ispezione dei Nas e dalle sommarie informazioni di alcuni familiari degli ospiti e per non avere valutato l'attualità e la concretezza del pericolo. Sarebbe poi illogica la conclusione secondo cui sarebbe inadatta allo scopo cautelare la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali, atteso che non risulterebbe alcun dato da cui trarre che gli indagati abbiano concretamente assunto accordi con soggetti terzi, a cui riservare il ruolo di teste di legno in una futura gestione di altre strutture o a cui affidare la formale amministrazione di ulteriori case di cura. Anche alla luce della rinuncia alle cariche da parte degli indagati non potrebbe dirsi sussistente il concreto e attuale pericolo di reiterazione dei reati. 3. Sono pervenute memorie nell'interesse dei ricorrenti, in cui si deduce che il Tribunale non avrebbe considerato che le condizioni, in cui sono stati trovati i locali della struttura al momento dell'accesso dei Nas, erano dovute all'orario mattutino, in cui è stata effettuata l'ispezione. Inoltre, il Tribunale non avrebbe argomentato in ordine al pericolo per l'incolumità del soggetto, che è elemento richiesto per la configurabilità del reato di cui all'art. 591 cod. pen. , e non avrebbe indicato quale fosse stata la condotta dei ricorrenti produttiva di un tale pericolo; per di più, non avrebbe considerato che nessuno avrebbe mai avvisato i ricorrenti della sussistenza di criticità, che avrebbero imposto un intervento. In considerazione delle caratteristiche della struttura, non sarebbe ravvisabile nemmeno l'esistenza di un rapporto di parafamiliarità. In ultimo, il Tribunale avrebbe errato nel non riconoscere un rapporto di consunzione tra i due reati contestati ai ricorrenti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili. 2. Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 - 01; Sez. 6, n. 11194 dell'8/3/2012, Lupo, Rv. 252178 - 01). 3. Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che il provvedimento impugnato è immune da vizi, rilevabili in questa sede. Il Tribunale, infatti, nell'affermare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dei ricorrenti con riferimento ai reati loro contestati ai capi 1) e 2) della provvisoria imputazione, ha rilevato che il resoconto sulle condizioni di salute degli ospiti, offerto dai parenti di alcuni degli stessi, le dichiarazioni di Sa.Ar. , An.Ma. e dello stesso ospite An.Ma. nonché gli esiti degli accertamenti svolti dai Nas avevano consentito di accertare che i residenti della struttura erano abbandonati in uno stato di forte incuria e degrado, privati delle più basilari tutele igieniche, alloggiati in una struttura di fatto abusiva e priva di adeguato personale, costretti così a vivere in ambienti nauseabondi tra le proprie deiezioni, a contatto con lenzuola e abiti non lavati, in assenza dei minimi presidi di controllo e in violazione delle più basilari regole sanitarie. Le modalità di gestione e organizzazione del personale, l'assenza di figure professionali specializzate per la cura e l'assistenza degli anziani, lo stato di sporcizia e degrado, in cui versavano tutti gli anziani, costituivano elementi dai quali trarre incontrovertibili indizi circa la sussistenza a carico dei ricorrenti della gravità indiziaria del delitto di abbandono di incapaci. Il Tribunale ha aggiunto che le condotte di mancata cura, di privazioni igieniche, sanitarie, assistenziali, perpetrate dagli indagati nei confronti di anziani non autosufficienti, o comunque di disabili loro affidati e che vivevano presso la residenza dagli stessi diretta e organizzata, peraltro dietro pagamento di una retta mensile da parte delle famiglie, integravano gli estremi oggettivi anche del reato di maltrattamenti. Le condotte lesive e mortificanti erano spalmate lungo un arco temporale di vari mesi, che avevano costretto gli ospiti, persone fragili in condizioni di soggezione e minorità rispetto agli indagati, a un regime intollerabile di vita, privati di dignità, di sicurezza alimentare e medica, di igiene, del diritto a vivere la propria quotidianità in un ambiente salubre e non pericoloso per la loro salute fisica e psichica. 4. Trattasi di argomentazioni che sfuggono a ogni rilievo censorio. Il Tribunale, infatti, nell'indicare le ripetute condotte, poste in essere dagli indagati, di mancata cura e assistenza, che avevano creato un complessivo clima vessatorio e di sistematica sopraffazione ed umiliazione, per giunta in danno di soggetti inermi e incapaci di reagire, ha correttamente e convincentemente sottolineato che gli elementi probatori acquisiti (dettagliatamente analizzati) non solo conclamavano la sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie tipica prefigurata nell'art. 572 cod. pen. , ma consentivano anche di ribadire la sussistenza dell'elemento psicologico correlativo (potendosi inferire dalle circostanze esteriori, dalla reiterazione degli atti e dal loro carattere, la volontà unitaria di vessare abitualmente i soggetti passivi). Non è superfluo ricordare al riguardo che il delitto di maltrattamenti è integrato dalla sottoposizione dei soggetti tutelati a una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo: è, pertanto, necessario che la condotta sia abituale e si estrinsechi in una pluralità di atti (Sez. 6, n. 7192 del 4/12/2003, dep. 19 febbraio 2004, Camiscia, Rv. 228461). Sotto il profilo psicologico, il reato è integrato dal dolo generico; non occorre, quindi, che l'agente sia animato dal fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un'abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza con la propria condotta abitualmente offensiva (Sez. 6, n. 15680 del 28/3/2012, F. , Rv. 252586 - 01; Sez. 6, n. 27048 del 18/3/2008, D.S. , Rv. 240879 - 01). 5. Giova inoltre precisare che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l'art. 572 cod. pen. è applicabile anche quando le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di para familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all'azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 3, n. 13815 del 4/02/2021, P. , Rv. 281588 - 01). Situazioni queste che è innegabile sussistono nel caso in esame, in cui gli ospiti della struttura erano affidati ai gestori della stessa in un contesto di prossimità permanente. 6. Posto poi che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 591 cod. pen. , il necessario "abbandono" è integrato da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o per l'incolumità del soggetto passivo, deve rilevarsi che il Tribunale, in piena consonanza con tale disposizione normativa, ha affermato che gi indagati, pur avendo - sulla base dei contratti sottoscritti con gli ospiti della struttura o nell'interesse di questi ultimi - il dovere di cura nei loro confronti, avevano posto in essere una serie di condotte di mancanza di adeguata cura e assistenza, tali da avere creato condizioni di scarsa igiene, pericolose per la salute. Né tale conclusione può essere scalfita dal rilievo difensivo sulla mancata segnalazione di criticità da parte dei familiari degli ospiti. È agevole, infatti, osservare che i ricorrenti erano i gestori della struttura e, dunque, avevano una posizione di garanzia che li rendeva obbligati ad assicurare condizioni di cura e assistenza adeguate, senza necessità che qualcuno segnalasse criticità, che loro stessi erano tenuti non solo a verificare ed eliminare,ma anche, ove possibile, a prevenire. 7. A fronte della motivazione del provvedimento impugnato i ricorrenti hanno proposto doglianze tese ad ottenere una diversa ricostruzione della vicenda e una diversa valutazione degli elementi acquisiti: operazione, questa, non consentita al giudice di legittimità. 8. Né coglie nel segno la deduzione secondo cui fra i reati ascritti agli indagati sussiste un rapporto di consunzione. 8.1. Le pronunce più recenti delle Sezioni unite di questa Corte, al fine della soluzione del problema relativo alla selezione delle fattispecie penali astrattamente applicabili a fronte della realizzazione di un'unica condotta materiale, sono partite dalla considerazione dei principi vigenti sul concorso apparente di norme, regolamentato dall'art. 15 cod. pen. , e hanno affermato che da tale norma si trae il principio generale che, ove si escluda il concorso apparente, è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga l'espressione delle c.d. clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l'applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente, che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità. Le Sezioni unite hanno escluso la possibilità di ricorrere alle figure dell'assorbimento, della consunzione e dell'ante - fatto o post - fatto non punibile, ritenute prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l'identità del bene giuridico, tutelato dalle norme in comparazione, e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti (tra le altre: Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 - 01; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865 - 01; Sez. U. , n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962 - 01). Posto, quindi, che il principio di specialità assurge a criterio euristico di riferimento, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.). In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico - formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, cit.). 8.2. Tale elaborazione, fondata sul principio di specialità quale criterio dirimente, consente di escludere che tra le due fattispecie di cui agli artt. 572 e 591 cod. pen. , sussista un rapporto di specialità. Le figure di reato in questione sono caratterizzate da condotte diverse (non riguardando, quindi, lo "stesso fatto"), poiché l'una è integrata dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico - fisici ai danni di persone di famiglia, l'altra dall'abbandono ingiustificato di un soggetto incapace di provvedere a sé stesso e che si abbia l'obbligo giuridico di custodire, che lo esponga ad un pericolo anche solo potenziale. In questo senso si è già espressa questa Corte (Sez. 2, n. 10994 del 6/12/2012, Rv. 255174 - 01) e tale conclusione, per le ragioni anzidette può essere ora ribadita. 9. Anche il motivo dei ricorsi sulle esigenze cautelari è teso ad ottenere una inammissibile rivalutazione. Il Tribunale ha posto in evidenza che le plurime condotte, poste in essere dagli indagati, connotate da forte gravità e allarme sociale in quanto perpetrate in danno di persone fragili e incapaci di reagire ai soprusi, subiti lungo un apprezzabile arco temporale, senza soluzione di continuità, dimostravano l'assoluta spregiudicatezza di entrambi i ricorrenti nel portare avanti il loro progetto criminoso di incontrollato arricchimento a discapito della salute, della fiducia, del benessere psicofisico e della dignità di anziani e disabili, affidati alle loro cure. Peraltro, le condotte, fotografate nell'odierno procedimento, lungi dal costituire una isolata parentesi nella storia degli indagati, rappresentavano, invece, soltanto uno dei tasselli di un già rodato schema imprenditoriale che aveva già condotto al sequestro preventivo di due strutture socioassistenziali per anziani, precedentemente gestite dagli stessi con le stesse spregiudicate modalità operative. Siffatta motivazione, con cui il Collegio del riesame ha dato contezza del pericolo concreto e attuale di reiterazione del reato, in quanto logica e non inficiata da violazioni di legge, è esente da ogni vizio rilevabile in questa sede. 10. In definitiva, i ricorsi sono inammissibili e ciò comporta la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese processuali nonché - non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost. , 13 giugno 2000 n. 186) - della sanzione pecuniaria di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta da Biagio Virgilio- Presidente - Giovanni La Rocca- Consigliere -R.G.N. 13356/2021 Giuseppe Fuochi Tinarelli- Consigliere -Cron. Pierpaolo Gori- Consigliere Rel. -PU - 14/2/2024 Salvatore Leuzzi- Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 13356/2021 R.G. proposto da ANTONIO PAPADIA, ARTY SHOW S.A.R.L., in persona del legale rap- presentante p.t. ELISABETH SCHRURS, rappresentati e difesi dall’Avv. Massimo Mambelli, domiciliati presso la Cancelleria della Corte di cas- sazione; – ricorrenti – Oggetto: dogane - san- zioni amministrative - cir- colazione veicoli extra UE in Italia –principi di diritto contro AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12; – controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, n.1516/4/2020 depositata il 22 dicembre 2020, non notifi- cata. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14 febbraio 2024 dal consigliere Pierpaolo Gori. Udita per la controricorrente l’Avv. Eva Ferretti. Udite le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Pro- curatore Generale dott. Tommaso Basile, nel senso del rigetto del ri- corso. Fatti di causa 1. Con sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Ro- magna veniva rigettato l’appello proposto dalla società di diritto sviz- zero ARTY SHOW S.A.R.L., Papadia Antonio, in proprio, e da Schrurs Elisabeth, n.q. di legale rappresentante della società, avverso la sen- tenza n.12/1/2020 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Forlì la quale aveva rigettato il ricorso dei contribuenti avverso l’atto di contestazione al Papadia, avente ad oggetto le sanzioni amministrative ex art.216 d.P.R. n.43/1973 (TULD) n.24100-3-2019 prot. 5193/RU e il provvedimento di confisca amministrativa ex art.301 TULD dell’auto- veicolo Land Rover tg. VD76196 immatricolato in Svizzera di cui la so- cietà era proprietaria. 2. In particolare, le riprese traevano origine dalla contestazione da parte della polizia municipale di Forlì al Papadia della violazione della normativa doganale per la circolazione in territorio italiano del veicolo svizzero, al di fuori dei presupposti per il regime di ammissione tem- poranea del mezzo per sei mesi. 3. Il giudice di prime cure, premessa la legittimazione del Papadia in qualità di autore materiale della condotta e della Schrurs quale legale rappresentante della società, rigettava il ricorso introduttivo in appli- cazione del d.P.R. n.43/1973 per il mancato rispetto delle formalità doganali prescritte per la circolazione in territorio nazionale di veicoli appartenenti a soggetti non residenti. 4.Il giudice d’appello condivideva la sussunzione della fattispecie, ra- tione temporis, nel Regolamento UE n.2013/952 (CDU) e nel Regola- mento delegato UE n.2015/2446 integrativo, ricostruzione proposta dai contribuenti in luogo di quella, considerata parzialmente erronea- mente, individuata dalla CTP. Tuttavia, il giudice rigettava il gravame ritenendo in primo luogo che non potesse trovare concreta applicazione l’art.212 del Regolamento n.2015/2446, dal momento che il Papadia, autore materiale della condotta contestata, era cittadino italiano paci- ficamente residente in Italia e non una persona stabilita fuori dal ter- ritorio doganale UE. Inoltre, non ricorrevano le eccezioni di cui agli artt.214 e 215 del Regolamento delegato. Infine, il giudice riteneva generica la contestazione circa la misura della sanzione applicata, ed esplorativa la richiesta di CTU avanzata a riguardo. 5. Avverso la sentenza i contribuenti hanno proposto ricorso, affidato a tre motivi illustrati con memoria, cui replica l’Agenzia con controri- corso. Ragioni della decisione 6. Con il primo motivo di ricorso, in relazione all’art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ., viene prospettata la violazione o falsa applicazione dell’art. 212 Reg. UE 2446/2015, avendo la CTR fornito un’interpreta- zione del tutto erronea e non condivisibile della normativa di riferi- mento. I ricorrenti censurano il capo di decisione, riportato alle pagg.5 e 6 del ricorso, nel quale il giudice ritiene che la disposizione suddetta vada interpretata nel senso che non legittima, al di fuori del regime di ammissione temporanea per sei mesi, la circolazione in ambito UE dell’automezzo immatricolato al di fuori dello spazio doganale UE allor- quando, come nel caso di specie, sia intestato ad una persona giuridica e il legale rappresentante della società e conducente sia residente in Stato UE. Con il secondo motivo i ricorrenti, ai fini dell’art.360 primo comma nn.3 e 4 cod. proc. civ., lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 215 Reg. UE 2446/2015, per aver la CTR ritenuto insussistenti anche i presupposti di cui alla previsione citata. 7. I motivi, connessi, possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati. 7.1. È opportuna una breve ricostruzione del complesso normativo eu- ropeo applicabile, contenuto negli artt.212-218 del Regolamento Dele- gato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, nel quadro del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Con- siglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il Codice doganale dell’Unione. 7.2. In particolare, l’articolo 212 del Regolamento Delegato, nel testo in vigore dal 31/07/2018 e vigente ratione temporis, fissa le condizioni per la concessione dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto, in relazione all’articolo 250, paragrafo 2, lettera d), del Codice doganale. L’esenzione totale dal dazio all’importazione è concessa per i mezzi di trasporto purché soddisfino le seguenti due condizioni (paragrafi 2 e 3 dell’art.212 cit.): in primo luogo siano im- matricolati al di fuori del territorio doganale dell’Unione a nome di una persona stabilita fuori di tale territorio o, se non sono immatricolati, siano di proprietà di una persona stabilita al di fuori del territorio do- ganale dell’Unione; in secondo luogo, siano utilizzati da una persona stabilita al di fuori del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le di- sposizioni di cui agli articoli 214, 215 e 216. 7.3. Con riferimento all’Articolo 250, paragrafo 2, lettera d) invocato nel primo motivo di ricorso, tali condizioni devono sussistere in concor- renza e non alternatività tra loro, e sono ulteriormente specificate dall’ultima parte del paragrafo 3 dell’art.212 cit. nel senso che: «Se tali mezzi di trasporto sono utilizzati per uso privato da una terza persona stabilita al di fuori del territorio doganale dell’Unione, la concessione dell’esenzione totale dal dazio all’importazione è subordinata alla con- dizione che tale persona sia debitamente autorizzata per iscritto dal titolare dell’autorizzazione.». 8. La regola così delineata, trova delle eccezioni agli artt.214, 215 e 216 del Regolamento Delegato, previsioni rispettivamente rubricate “Condizioni per la concessione dell’esenzione totale dal dazio all’impor- tazione alle persone stabilite nel territorio doganale dell’Unione” (214), “Uso di mezzi di trasporto da parte di persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione” (215) ed “Esen- zione dal dazio all’importazione per i mezzi di trasporto in altri casi” (216). 8.1. Le eccezioni più rilevanti sono contenute ai paragrafi 1 e 3 dell’art.215, il primo dei quali dispone che le persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione, su richie- sta del titolare dell’immatricolazione, godono di un’esenzione totale dal dazio all’importazione per i mezzi di trasporto che utilizzano privata- mente e occasionalmente, e sempre se il titolare dell’immatricolazione si trovi nel territorio doganale dell’Unione al momento dell’uso. 8.2. Inoltre, per quanto qui interessa, il terzo paragrafo dell’art.215 cit., invocato nel secondo motivo di ricorso, prevede che le persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione possano beneficiare di un’esenzione totale dai dazi all’im- portazione per i mezzi di trasporto adibiti ad uso commerciale o privato a condizione che siano alle dipendenze del proprietario, del locatario o dell’affittuario dei mezzi di trasporto, e purché il datore di lavoro sia stabilito al di fuori di tale territorio doganale. Il mancato rispetto del complesso dei presupposti sopra richiamati fa scattare la fattispecie del contrabbando doganale. 9. Alla luce del quadro come sopra ricostruito, il Collegio ritiene che la regola fissata dall’art.212 del Regolamento Delegato non può essere interpretata, come ritiene parte ricorrente, nel senso che allorquando il mezzo di trasporto immatricolato al di fuori del territorio doganale UE sia intestato a nome di una persona giuridica stabilita fuori di tale ter- ritorio, il fatto che il conducente sia il legale rappresentante consenta di per sé di fruire dell’agevolazione doganale oltre il periodo di sei mesi del regime di ammissione temporanea. Ritiene il Collegio che il requisito non possa essere considerato soddi- sfatto allorquando l’utilizzatore del mezzo, anche se legale rappresen- tante della persona giuridica intestataria, sia una persona residente, ossia “stabilita” ai fini dell’art.212 cit., all’interno e non all’esterno del territorio doganale dell’Unione. Tale interpretazione è infatti coerente con la ratio legis, come già correttamente colto dal giudice d’appello, volta al contrasto di abusi dell’agevolazione doganale, come nel caso di immatricolazione extra UE di mezzi di trasporto intestati a società off shore o con sede legale al difuori dello spazio doganale unionale e concretamente utilizzati da residenti in Italia ben oltre il periodo seme- strale di ammissione temporanea del veicolo nello spazio doganale UE. 10. Dev’essere così affermato il seguente principio di diritto: «Ai fini dell’agevolazione doganale dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto oltre i sei mesi del regime di ammissione temporanea, i requisiti di cui all’art. 212 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, nel quadro del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il Codice doganale dell’Unione, non sono soddisfatti allorquando il mezzo di trasporto immatricolato al di fuori del territorio doganale dell’Unione a nome di una persona giuridica stabilita fuori da tale territorio è utilizzato da soggetto residente, e dunque “stabilito”, all’interno del territorio doga- nale dell’Unione, anche se ricopre la carica di legale rappresen- tante della persona giuridica extra UE.». In applicazione del principio, il Collegio ritiene che correttamente il giu- dice d’appello a pag.6 della sentenza impugnata ha ritenuto che la con- dizione per fruire del beneficio di cui all’art.212 cit. non sussistesse nella fattispecie, in quanto il veicolo in questione al momento del con- trollo è pacificamente stato utilizzato da una persona, Antonio Papadia, cittadino italiano residente in Italia e, dunque, persona “stabilita” all’in- terno del territorio doganale dell’Unione e non al di fuori di esso. 11. Venendo al secondo motivo di ricorso e così alle eccezioni alla re- gola dell’art.212 previste all’articolo 215 paragrafo 3 del Regolamento Delegato, la CTR a pag.7 della sentenza censurata ha accertato che non vi è il presupposto del rapporto di lavoro dipendente tra società e contribuente. Non si tratta di una motivazione apparente, contraddit- toria o perplessa e quindi nulla come sostiene parte ricorrente, in quanto il ragionamento seguito dal giudice non si risolve in una statui- zione apodittica né contiene alcun contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili né è perplessa o apparente essendo la ratio immediata- mente comprensibile al lettore. 12. Piuttosto, la statuizione è fondata sul principio di non contestazione e determina un accertamento fattuale che non è neppure stato speci- ficamente impugnato dai ricorrenti sul piano fattuale, ma solo conte- stato sul piano interpretativo. A questo proposito, non è condivisibile la linea difensiva di parte ricorrente, perché la nozione di “dipendente” non coincide con quella di legale rappresentante della persona giuri- dica, come conferma anche il fatto che l’art.215 paragrafo 3 del Rego- lamento Delegato prevede espressamente che la prova di tale causa di esclusione ai fini del godimento dell’agevolazione doganale possa es- sere data attraverso una copia del “contratto di lavoro”. Al proposito va affermato l’ulteriore principio di diritto: «Ai fini dell’agevolazione doganale dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto oltre i sei mesi del regime di ammissione temporanea, l’eccezione alla regola fis- sata dall’art. 212 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, contenuta nel paragrafo 3 dell’art.215 del Regolamento va interpretata nel senso che il legale rappresentante della persona giuridica stabilita fuori da tale territorio intestataria del mezzo di trasporto non può es- sere considerato “dipendente” del proprietario, del locatario o dell’affittuario dei mezzi di trasporto ai fini della fruizione del beneficio.». 13. Il terzo motivo, ex art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ., pro- spetta la violazione o falsa applicazione dell’art.115 cod. proc. civ. con riferimento alla misura della determinazione della sanzione, rapportata al valore del veicolo determinato sulla base di indici ritenuti non atten- dibili. 14. Il mezzo di impugnazione è inammissibile, per più concorrenti pro- fili. Innanzitutto, perché ripropone in sede di legittimità una questione di merito coperta dall’accertamento fattuale della CTR, che ha espresso una argomentazione razionale basata su una fonte editoriale speciali- stica di stima di una comune autovettura (AutoScout24). In secondo luogo, perché non impugna tale accertamento sotto l’angolo del vizio motivazionale nei limiti in cui ciò è ammesso dall’art.360 primo comma n.5 cod. proc. civ.. Infine, perché non allega specificamente neppure e tanto meno dimostra il fatto decisivo e contrario, ossia il fatto che il valore dell’automezzo sarebbe stato davvero sostanzialmente diverso da quello fatto proprio dalla CTR. 15. In conclusione il ricorso dev’essere rigettato e le spese di lite se- guono la soccombenza, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di lite, liquidate in Euro 2.500 per compensi, oltre Spese preno- tate a debito. Si dà atto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, sussistono i presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma in data 14 febbraio 2024 Il Relatore est. Il Presidente Pierpaolo Gori Biagio Virgilio

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Pa. nato a M il (Omissis) avverso il decreto del 16/06/2023 della Corte di appello di Reggio Calabria Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro Cimmino, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. De.Pa. ricorre avverso il decreto emesso dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, in data 16 giugno 2023, che ha rigettato il ricorso e confermato il decreto emesso dal Tribunale di Reggio Calabria in data 10 novembre 2021, con il quale era stata applicata al predetto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di anni quattro, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza. 2.Il ricorrente deduce, come unico motivo, la violazione di legge, anche processuale, in relazione all'art. 4 del D.Lgs. n. 159/2011. Il decreto si limita a valorizzare i carichi pendenti del ricorrente senza considerare l'epoca di verificazione delle condotte: le vicende attenzionate nell'ambito del procedimento cosiddetto "Trash" si attestano in epoca assai risalente, ossia al 2011, mentre gli esiti investigativi compendiati nel procedimento cosiddetto "Nuovo Corso" risalgono al 2016 e non stigmatizzano, peraltro, una condotta di partecipazione ex art. 416-bis cod. pen. Emerge, dunque, la sussistenza di un evidente iato temporale tra il momento della verificazione delle condotte e il momento dell'odierno giudizio. E non si tratta soltanto di un lasso temporale di tenore neutro. Durante tale periodo, infatti, il ricorrente pativa un considerevole periodo detentivo, dando prova di una attiva volontà di reinserimento. De.Pa. ha, infatti, intrapreso un percorso di studio poi culminato nel conseguimento della laurea e nel successivo accesso a un master di primo livello. Si era, comunque, data prova dell'attività lavorativa svolta dal ricorrente durante il periodo attenzionato. A fronte di tali rilievi, il decreto impugnato pretende di valorizzare, in chiave di conferma del giudizio di pericolosità sociale del proposto, quella che viene ricostruita sotto il profilo interpretativo come una presunzione semplice di attualità della pericolosità, senza analizzare, come richiesto dalla giurisprudenza, tutti gli indicatori comportamentali successivi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. La Corte di Appello ha evidenziato come il proposto, dopo aver scontato la detenzione carceraria in relazione a condanna per associazione mafiosa, avesse proseguito nello svolgere un ruolo di primo piano nella cosca imperante sul territorio di Reggio Calabria, indicando, in particolare, la condanna (confermata in appello) per il delitto di estorsione aggravata dal metodo mafioso nell'ambito dell'operazione "Trash", commessa dal 2002 al 2011, gli esiti dell'indagine "(Omissis)", conclusasi con l'emissione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del proposto, imputato nel relativo procedimento per il delitto di estorsione consumata pluriaggravata commessa tra il 2015 ed il 2018, e per un ulteriore episodio di tentata estorsione risalente al 2016. Sulla base di tali elementi la Corte territoriale, confermando il decreto emesso dal Tribunale, ha ritenuto sussistente la pericolosità qualificata, ai sensi sia della lettera b), sia della lettera a) dell'art. 4 del D.Lgs. 159/2011, in presenza di gravi indizi della commissione di reati-fine, manifestazione del programma associativo mafioso della cosca, dell'assunzione di un ruolo centrale da parte del proposto, presentato dagli altri sodali quale "capo della famiglia", in occasione della realizzazione di alcune condotte, della diretta esternazione del potere intimidatorio della cosca. La Corte di Appello ha, inoltre, ritenuto sussistente l'attualità della pericolosità, in ragione, in particolare, della vicinanza nel tempo delle condotte indicate. 2.1. Orbene, come ribadito da questa Corte, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso - con scelta ritenuta non irragionevole da Corte cost. n. 321 del 2004 e n. 106 del 2015 - soltanto per violazione di legge, giusta il disposto degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dall'art. 10, comma 8, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente, che ricorre anche "quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio" (Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080), mentre il travisamento della prova rileva, solo qualora abbia investito plurime circostanze decisive totalmente ignorate ovvero ricostruite dai giudici di merito in modo totalmente erroneo (Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, Noviello, Rv. 279435 -01). 2.2. In detta prospettiva, oltre ad essere esclusi i vizi tipici concernenti la tenuta logica del discorso giustificativo, è improponibile, sotto forma di violazione di legge, anche la mancata considerazione di prospettazioni difensive, quando le stesse, in realtà, siano state prese in considerazione dal giudice o risultino assorbite dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato o comunque non siano potenzialmente decisive ai fini della pronuncia sul punto attinto dal ricorso. 2.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale attraverso un percorso argomentativo congruo e coerente - anche con richiamo ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di "appartenenza" al sodalizio mafioso -, ha evidenziato gli elementi posti a fondamento della ritenuta pericolosità - con riferimento, in particolare, allo svolgimento da parte del proposto di compiti essenziali agli interessi dell'associazione mafiosa, ed alla piena collocazione dello stesso nell'organigramma criminale -, nonché, al di là della presunzione semplice, della ritenuta attualità della pericolosità. La motivazione espressa nel decreto impugnato appare immune da vizi di ordine logico-giuridico, come tale incensurabile in sede di legittimità. 2.4. Quanto al profilo dell'attualità, occorre ribadire che, ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità del proposto, sicché, a fronte di elementi positivi denotanti l'abbandono di logiche criminali di appartenenza all'associazione, l'applicazione della misura nei confronti di soggetti già detenuti per lunghi periodi temporali non può essere fondata sulla presunzione di permanenza desunta dalla condotta precedente alla pronuncia di condanna emessa nel separato giudizio penale (Sez. 2, n. 8541 del 14/01/2020, Capizzi, Rv. 278526 - 01). 2.5.Gli elementi positivi dedotti dal ricorrente, con i quali la Corte di Appello ha mostrato di confrontarsi, e, in particolare, il percorso di studi e di inserimento lavorativo, non sono stati ritenuti idonei ad esprimere l'abbandono delle logiche criminali, a fronte dei numerosi elementi indicati, desumibili concretamente dalle condotte contestate. Anche in relazione a tale profilo, pertanto, in assenza di ulteriori elementi di valutazione tali ad incidere sul percorso argomentativo espresso dalla Corte di Appello, il decreto impugnato appare immune da censure. 3. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila a favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7197 del 2017, proposto da Je. Du. e Do. Du., rappresentati e difesi dagli avvocati Ar. Po., Ug. Fr. e La. El. Pr., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ar. Po. in Roma, viale (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 283/2017. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e udito per le parti l'avvocato Ar. Po., anche per delega dell'avvocato Ug. Fr.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Gli appellanti sono proprietari di un appartamento presente all'interno del complesso residenziale e turistico denominato "Sa. Gi.", posto nel territorio comunale di (omissis). Il suddetto complesso è composto da diversi appartamenti terra-tetto, la metà dei quali con destinazione residenziale e l'altra metà turistico-ricettiva. L'appartamento di proprietà dei ricorrenti ricade nell'area turistico-ricettiva del complesso. 2 - Con comunicazione di avvio del procedimento n. 6022 del 20.11.2014, il Comune di (omissis) ha contestato di aver illegittimamente modificato la destinazione d'uso dell'unità abitativa di cui sono proprietari gli appellanti "da turistico alberghiera in residenziale, in violazione della disciplina urbanistica di zona e della convenzione urbanistica che ha regolato l'edificazione del comparto". In data 31.3.2015 il Comune ha concluso il procedimento, ritenendo sussistenti i presupposti per la violazione dell'art. 30 DPR 380/2001 e con provvedimento prot. n. 1560/2015 ha ordinato "di non utilizzare le unità immobiliari ad uso residenziale esclusivo, facendo obbligo agli stessi di garantirne l'uso turistico-alberghiero con affidamento a soggetto gestore e pertanto di garantire il rispetto della convenzione urbanistica 25 maggio 1993 e dello strumento regolatore vigente", avvertendo che "decorsi 90 giorni dalla notifica", "qualora non maturino le condizioni per la revoca del presente provvedimento, si procederà alla acquisizione al patrimonio disponibile del Comune". 3 - Gli appellanti hanno impugnato tale provvedimento avanti il Tar per la Lombardia, sezione di Brescia, che con la sentenza indicata in epigrafe ha respinto il ricorso. 4 - Gli originari ricorrenti hanno proposto appello avverso tale pronuncia per i motivi di seguito esaminati. 4.1 - Con il primo motivo gli appellanti censurano la sentenza nella parte in cui ha rigettato il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso. Per l'appellante, il Tar avrebbe erroneamente negato che la Convenzione del 1993, posta a fondamento del provvedimento impugnato e l'ivi previsto vincolo alberghiero a RTA, siano ad oggi inefficaci e decaduti. Per gli appellanti il Tar, nel richiamare la disciplina del Piano di Governo del Territorio, oltre a contraddirsi in punto di motivazione, avrebbe integrato la motivazione dell'ordinanza di confisca, la quale si fonderebbe esclusivamente sul contenuto della Convenzione e non sulle norme del PGT. Gli appellanti sostengono che la Convenzione sarebbe decaduta, in quanto questa prevedeva un termine di validità di 5 anni decorrente dalla stipula dell'atto (cfr. art. 13 Convenzione) avvenuta nel 1993. Tale termine sarebbe spirato nel 25.05.1998. Da tale data sarebbe iniziato a decorrere il termine di 10 anni entro il quale l'Amministrazione avrebbe potuto esigere l'adempimento degli obblighi e delle prescrizioni contenute nella Convenzione. Tale termine sarebbe spirato il 25.05.2008. Inoltre, la Convenzione del 1993 non potrebbe più ritenersi valida anche perché con essa è stato costituito un vincolo di destinazione turistico-alberghiera ai sensi della L. 217/1983. La richiamata normativa è stata abrogata dalla successiva L. 135/2001 e non potrebbe essere presa a presupposto per procedimenti e atti adottati dopo la sua abrogazione. Gli appellanti invocano anche l'art. 23 ter del d.P.R. n. 380/2001, introdotto dal d.l. n. 133/2014, in forza del quale nessuna norma urbanistica potrebbe confermare la sub-destinazione a RTA, ma solo una macro destinazione turistico ricettiva. 5 - La censura è infondata. Nel 1993 veniva definitivamente approvato il piano attuativo relativo al comparto sito in (omissis) ed azzonato come D4, meglio individuato come P.L. n. 25, in località (omissis). Nella zona in esame era ammessa, previa approvazione di piano esecutivo, la realizzazione di strutture per complessivi 20.000 mc. a volumetria definita, dei quali il 65% con destinazione alberghiera, il 30% con destinazione residenziale ed il 5% con destinazione commerciale. In esecuzione dei provvedimenti approvativi del piano attuativo veniva stipulata Convenzione urbanistica 25 maggio 1993 n. 44363 (rep. notaio Pa.) tra il Comune di (omissis) ed i lottizzanti Soc. An. To. Li. Im. & Tu. s.r.l., Soc. Tu. del Ga. s.r.l., Gi. On. e Al. Pa.. L'art. 12/a della convenzione urbanistica contemplava un vincolo di destinazione sugli edifici con destinazione alberghiera ed in particolare statuiva che "i lottizzanti si impegnano a mantenere a destinazione turistico- alberghiera gli immobili edificandi nel comparto ed evidenziati con la simbologia "X" (contornata in rosso) nella planimetria 1-A allegata alla presente convenzione sub "F", debitamente controfirmata dalle parti" e statuiva altresì che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale". In esecuzione della Convenzione urbanistica veniva rilasciata concessione edilizia, avente ad oggetto l'edificazione di "albergo residenziale", e veniva rilasciata la licenza di pubblico esercizio con classificazione "categoria 4 stelle" alla Immobiliare Sa. Gi. s.r.l., relativa ad "albergo residenziale di 97 unità abitative". Negli anni sono stati perfezionati svariati atti traslativi della proprietà con intestazione a vari soggetti di unità immobiliari all'interno delle strutture, aventi destinazione di residenza turistica alberghiera. Tutti gli atti traslativi hanno sempre contemplato il richiamo alla convenzione urbanistica di cui all'atto 25.05.93 n. 44363 rep. notaio Pa., rendendo pertanto edotti i singoli acquirenti della esistenza del vincolo di destinazione turistico-alberghiera. Anzi, gli atti traslativi richiamavano il "Regolamento del Villaggio Turistico", qualificando la struttura come "Albergo residenziale", con ogni onere connesso alla specifica destinazione della struttura. I predetti atti traslativi hanno dunque sistematicamente individuato le unità immobiliari oggetto di compravendita quali unità "facenti parte del complesso denominato Vi. Tu. Al. Re. Sa. Gi.", con contestuale indicazione anche dell'obbligo di rispettare l'annesso Regolamento del Vi. Tu. Al. Re. Sa. Gi., che ribadiva la natura dell'immobile quale residenza turistico-alberghiera. L'art. 27 del Regolamento precisava che "il condominio S. Gi. nasce come albergo residenziale e come tale è strutturato per la locazione degli appartamenti. I proprietari che volessero utilizzare tale servizio dovranno concordarne di volta in volta il costo con la società di gestione". 5.1 - Riassumendo, è stato pacificamente dimostrato che: a) l'edificazione del complesso Sa. Gi. venne autorizzato nel 1993 solo ed in quanto veniva edificata una struttura destinata come RTA (residenza turistica alberghiera) con un indice edificatorio assai superiore rispetto a quello previsto per l'edificazione ad uso residenziale; b) la convenzione urbanistica del 1993, collegata al piano di lottizzazione, richiamava la disciplina propria delle RTA, imponeva tale destinazione e faceva obbligo ai lottizzanti (e ai loro aventi causa) di destinare le strutture a quello scopo; c) la concessione edilizia rilasciata nel 1994 confermava tale destinazione funzionale; d) tutti gli atti di acquisto (originari o successivi delle unità immobiliari) confermavano la destinazione turistico ricettiva delle unità immobiliari e richiamavano il contenuto della convenzione urbanistica e della concessione edilizia. Ne deriva che la modifica della destinazione da alberghiera in residenziale deve ritenersi illegittima. 5.2 - Avuto riguardo alle censure svolte dall'appellante va infatti precisato che la destinazione turistica ricettiva è categoria funzionale del tutto diversa ed autonoma rispetto alla destinazione residenziale. La giurisprudenza ha precisato che "la possibilità di vincolare in tal modo la destinazione d'uso di un immobile emerge anche dall'art 23 ter n. 1-bis del D.P.R. 380/01, che prevede la destinazione la turistico-ricettiva distinguendola da quella residenziale, così disciplinandola quale destinazione urbanistica avente funzionalità differente da quella residenziale" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 agosto 2022, n. 6824). 6 - Il giudizio di illeceità della modifica di destinazione d'uso non risulta incrinato dalle doglianze degli appellanti. In primo luogo, deve precisarsi come sia del tutto inconferente l'argomento facente leva sull'abrogazione della legge n. 217/1983 in tema di vincolo alberghiero, essendo pacifico che la licenza edilizia era stata rilasciata per un determinato uso dell'immobile. Per altro, la destinazione dell'area a tale uso (turistico) risulta conforme agli strumenti urbanistici vigenti. È il loro utilizzo residenziale, piuttosto che turistico, a porsi in contrasto con il titolo autorizzatorio, in forza del quale è stato realizzato l'immobile, nonché con l'attuale disciplina dell'area. 6.1 - Non appare condivisibile neppure il rilievo facente leva sulla supposta scadenza della convenzione di lottizzazione in forza della quale sono stati realizzati gli immobili. Invero, nel caso in esame, non viene in rilievo alcun obbligo soggetto ad un termine di adempimento, bensì la destinazione impressa all'area, la quale resta attuale e vigente sino alla sua modifica da parte di un nuovo strumento urbanistico che la regoli diversamente. In giurisprudenza si afferma che "il piano particolareggiato (a voler ritenere ascrivibile a tale genus anche il Piano di lottizzazione) diventa sì inefficace decorso il termine di dieci anni, ma rimane fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (art. 17 l. n. 1150 del 1942). La disposizione esprime il principio secondo cui la maglia pianificatoria delineata dal Piano...rimane comunque efficace sino all'adozione di un diverso strumento urbanistico attuativo, quand'anche il piano che la prevede non possa più trovare attuazione per decorso del tempo. In altra prospettiva, la scadenza decennale di un piano riguarda le sole previsioni vincolistiche, ferma restando l'efficacia delle previsioni propriamente pianificatorie" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 aprile 2021, n. 3257). In conformità ai principi innanzi ricordati, nello specifico, la convenzione urbanistica prevedeva che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale" (art. 12/a). 6.2 - Alla luce della disamina delle vicende che hanno interessato l'immobile, appare del tutto condivisibile anche la considerazione del Tar per cui la presenza del vincolo di destinazione era conosciuta, o poteva essere conosciuta utilizzando l'ordinaria diligenza, anche dagli aventi causa dei costruttori, che risultano aver sempre rispettato l'obbligo di richiamare gli effetti della convenzione in ogni atto di vendita. 6.3 - Non rileva, poi, che il mutamento della destinazione d'uso sia stato realizzato con o senza l'esecuzione di opere. Sul punto, come più volte statuito in giurisprudenza, va ricordato che "il mutamento della destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, ove realizzato senza permesso di costruire, è sanzionabile con la misura ripristinatoria. (Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). La circostanza che la modifica non abbia comportato la realizzazione di opere edilizie è dunque irrilevante, in quanto l'art. 23 ter D.P.R. 380/01 definisce come mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale (Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). Ai sensi dell'art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, inoltre, il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, costituisce una variazione essenziale rispetto al titolo edilizio" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6823). 7 - Con il secondo motivo gli appellanti censurano la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il primo motivo di ricorso con cui avevano lamentato la violazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001. Per gli appellanti la sentenza sarebbe viziata, poiché il Tar non avrebbe preso in considerazione che il provvedimento impugnato è stato notificato solo agli appellanti e non a tutti i condomini del complesso immobiliare. L'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 sanzionerebbe la trasformazione del territorio e non il singolo abuso edilizio, pertanto, la lottizzazione abusiva non potrebbe essere fatta valere solo per alcuni e non per tutti i condomini del complesso edilizio. I soggetti non sanzionati sarebbero quelli che avrebbero, dopo l'avvio del procedimento, "confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a destinazione turistico-alberghiera conferendone la gestione a soggetto qualificato". Sul punto, gli appellanti sostengono che se l'Amministrazione comunale ritiene che la legittima destinazione urbanistica del complesso Sa. Gi. sia quella di RTA, a gestione unitaria, non apparrebbe legittima la contestazione mossa nei confronti di alcuni soltanto dei proprietari delle unità comprese nel piano la lottizzazione abusiva. Sotto altro profilo, gli appellanti evidenziano che il Giudice di prime cure non avrebbe tenuto conto della disciplina legislativa (regionale e statale) in punto di variazioni essenziali rilevanti ai fini della lottizzazione abusiva, per cui nel caso di specie il Comune avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria. Per gli appellanti, posto che, nel caso di specie, non sarebbe stata realizzata alcuna opera e l'abuso consisterebbe nel mutamento di destinazione d'uso, la sanzione non poteva consistere nella confisca degli immobili ma, al più, avrebbe dovuto essere irrogata una sanzione di natura pecuniaria. 7.1 - Con il terzo motivo gli appellanti lamentano l'erroneità della pronuncia gravata per omessa pronuncia sul secondo motivo di impugnazione del ricorso di primo grado con cui avevano lamentato la carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Al riguardo, parte appellane deduce che il provvedimento impugnato sarebbe stato genericamente motivato sul solo rilievo che la destinazione del complesso immobiliare Sa. Gi. sarebbe stata abusivamente mutata da turistico-alberghiera a residenziale, senza svolgere alcun ulteriore approfondimento istruttorio. Per l'effetto, il Comune avrebbe sanzionato con la confisca anche soggetti che, vista l'impossibilità di utilizzare gli immobili come RTA, li avevano chiusi per anni. 8 - Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, devono trovare accoglimento nei termini di seguito esposti. L'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che: "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio". La norma disciplina due diverse ipotesi di lottizzazione abusiva. Ricorre la lottizzazione abusiva cd. "materiale" con la realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione. Si ha invece lottizzazione abusiva "formale" o "cartolare" quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne sono già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita - o altri atti equiparati - del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l'ubicazione e la previsione di opere urbanistiche, o per altri elementi, evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio. L'interesse protetto dalla norma è quello di garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell'amministrazione. Avuto riguardo al caso di specie, si osserva che la giurisprudenza ha ritenuto che configura il reato di lottizzazione abusiva anche la modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il frazionamento di un complesso immobiliare, di modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione (cfr. Corte Cass. n. 38799 del 16/9/2015). 8.1 - Tenuto conto della specificità del presente giudizio deve anche precisarsi che ciò che qualifica la lottizzazione abusiva è la trasformazione complessiva di un determinato lotto in violazione della destinazione a suo tempo impressa dall'amministrazione; invero, l'art. 30 cit. sanziona la trasformazione globale di un'area e non il singolo intervento edilizio, differenziandosi dagli artt. 31 e ss. che riguardano, invece, l'abuso relativo alla singola opera abusiva; ne deriva che la lottizzazione abusiva dovrebbe ragionevolmente essere contestata a tutti i proprietari dell'area interessata dall'illegittima trasformazione e non solo ad alcuni di essi, proprio perché ciò che viene in rilievo è l'illegittima destinazione impressa all'intera area - o, nel caso di specie, all'intera struttura originariamente destinata ad albergo residenziale - in spregio agli strumenti urbanistici. Alla luce di tale precisazione emerge una prima criticità del provvedimento impugnato nel momento in cui vi si prospetta, per la medesima struttura di cui si contesta la modifica dell'originaria destinazione d'uso, una violazione diretta solo a taluni proprietari e non ad altri, pur titolari di unità abitative facenti parte dell'originaria struttura turistica. Al riguardo, non appare convincente il rilievo del Comune volto a differenziare la posizione di coloro che avrebbero "confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a destinazione turistico-alberghiera conferendone la gestione a soggetto qualificato". Invero, tale discrimine, che tra l'altro non oblitera l'originaria violazione posta in essere da coloro che hanno fruito delle unità immobiliare a scopo abitativo in violazione della disciplina dell'area, non appare idoneo a giustificare l'evidenziata anomalia. La contestazione, diretta solo ad alcuni proprietari, si rivela invece contraddittoria, riflettendosi, per l'effetto, sulla tenuta dei presupposti del provvedimento, che avrebbe dovuto interessare - nel momento in cui si accerta la violazione di cui all'art. 30 cit., da ritenersi riferita alla struttura globalmente intesa, e non un singolo abuso relativo a ciascuna unità abitativa - tutti i soggetti proprietari delle unità immobiliari del complesso turistico nelle medesime condizioni degli appellanti. 8.2 - Oltre all'aspetto che precede, anche la considerazione globale dei fatti che caratterizzano la fattispecie in esame e di seguito illustrati portano ad incrinare in modo decisivo la prospettazione comunale facente leva sull'art. 30 cit, ferma l'eventuale integrazione di singole violazioni alla stregua degli art. 31 e ss. del TU Edilizia. In particolare, deve essere posto in evidenza che la stessa amministrazione negli anni 2000, 2005 e 2010 ha rilasciato ai soggetti gestori dell'albergo licenze alberghiere incompatibili con la gestione unitaria a RTA di tutto il complesso, segnatamente per otto camere doppie, sedici suites e diciotto appartamenti, a fronte di una pretesa destinazione alberghiera che avrebbe dovuto coinvolgere la totalità delle novantasette unità (vedasi al riguardo anche la relazione comunale da ultimo depositata in giudizio, che conferma tale circostanza e dove si dà atto del fatto che le licenze sono state "rimodulate" dalla medesima Amministrazione Comunale, con il rilascio di titoli per 8 camere doppie, 16 suite e 18 appartamenti). In definitiva, risulta confermato che, da anni, il complesso Sa. Gi. non è stato gestito come RTA unitaria. Non solo, risulta che il Comune di (omissis) ha percepito per anni ICI e IMU sul presupposto della natura di "appartamenti residenziali" delle unità abitative; ha applicato la tassa per lo smaltimento dei rifiuti come "residenze"; ha addirittura concesso la residenza a taluni proprietari negli appartamenti. Tali circostanze stridono in modo insuperabile con la successiva contestazione per cui l'utilizzo residenziale di talune unità immobiliare - ma, inspiegabilmente, non di tutte, come innanzi già sottolineato - integrerebbe un'ipotesi di lottizzazione abusiva. Non solo, in base alle circostanze innanzi riferite è possibile finanche ipotizzare che il mancato funzionamento della struttura turistica nella sua consistenza originaria sia stato, negli anni, indirettamente incoraggiato dalla stessa amministrazione. In tale prospettiva deve anche osservarsi che, a monte delle predette circostanze, non appare in sintonia con la destinazione recettiva del complesso, unitariamente considerato, l'avvenuto frazionamento in singole unità intestate a distinti proprietari, anche in tal caso avallato dal Comune, tenuto conto della giurisprudenza per cui "l'unitarietà della struttura e dell'attività gestionale delle residenze turistico-alberghiere appare del tutto incompatibile con qualsiasi ipotesi di frazionamento della proprietà del complesso immobiliare in cui esse operano (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29 maggio 2008, n. 2584)" (Cons. St. 998 del 7.2.2020). 8.3 - Le circostanze che precedono fanno emergere, sotto i diversi profili innanzi delineati, l'ambiguità dell'atteggiamento comunale in riferimento alla struttura per cui è causa, minando i presupposti della contestazione portata dal provvedimento impugnato. Come anticipato, questa appare invece contraddittoria e, in ogni caso, sorretta da una motivazione deficitaria, siccome non spiega, in concreto, le ragioni della contestazione mossa ai sensi dell'art. 30 cit., non potendosi a tal fine ritenere sufficiente il mero richiamo a precedenti giurisprudenziali, stanti le peculiarità del caso di specie innanzi evidenziate. 9 - L'accoglimento dell'appello sotto il profilo che precede rende superfluo l'esame delle ulteriori censure dedotte con l'appello. Per quanto si è sopra rilevato scrutinando il primo motivo, resta non di meno confermato il carattere abusivo, e quindi illecito, delle avvenute modifiche alla destinazione d'uso prevista, da ciò conseguendone la necessità che, all'indomani della presente decisione, il Comune ponga in essere un'attività amministrativa che valga a rimuovere l'illecito ovvero i suoi presupposti, in ogni caso ripristinando la legalità . Ad una valutazione complessiva della vicenda le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta accoglie l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, annullando l'atto impugnato. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente Dott. CENTOFANTI Francesco - Giudice Dott. POSCIA Giorgio - Giudice Dott. CURAMI Micaela Serena - Relatore Dott. ALIFFI Francesco - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: DI.PA. nato il 01/06/1981 avverso l'ordinanza del 12/09/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di CAMPOBASSO udita la relazione svolta dal Consigliere MICAELA SERENA CURAMI; lette le conclusioni del PG, M. FRANCESCA LOY, che ha chiesto il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di sorveglianza di Campobasso ha respinto le istanze di affidamento in prova, di detenzione domiciliare o di semilibertà avanzate da Di.Pa., in relazione alla condanna alla pena di anni due di reclusione inflitta con sentenza del Tribunale di Larino del 03/06/2021. A fondamento del provvedimento reiettivo il Tribunale ha osservato come, stante l'irreperibilità in Italia del condannato (trasferitosi in Romania ove stabilmente lavora presso una ditta nel settore della panificazione e dove egli stabilmente vive e dimora con il proprio nucleo famigliare, anch'esso ivi radicato), non è stato possibile effettuare gli indispensabili accertamenti da parte dell'UEPE, necessari per vagliare la concreta applicabilità delle misure richieste. 2. Di.Pa. propone, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione, deducendo nullità dell'ordinanza per erronea applicazione della legge penale e per manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen.. Premesso che Di.Pa. ha regolarmente eletto domicilio in Italia, presso il difensore, osserva la Difesa ricorrente come erroneamente il Tribunale abbia affermato che il condannato non aveva collaborato, in quanto in realtà egli aveva fatto pervenire tutte le informazioni richieste in ordine alla sua residenza, al luogo ove lavora, al suo nucleo famigliare; aveva inoltre, dalla Romania, interloquito con l'UEPE di Foggia. Evidenzia poi come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia affermato che l'affidamento in prova può avere luogo in un altro stato dell'Unione Europea che abbia dato attuazione alla decisione quadro n. 2008/947/GAI (sez. 1, 18/03/2022 n. 14799). L'interpretazione fornita dal Tribunale di sorveglianza nell'impugnata ordinanza vanifica di fatto le disposizioni contenute nel D.Lgs. 38 del 2016. 3. Il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte, dott.ssa M. Francesca Loy, ha fatto pervenire requisitoria scritta con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. A seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38, recante disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/947/GAI, è consentita l'ammissione alla misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale la cui esecuzione debba svolgersi in uno Stato estero membro dell'Unione Europea, che abbia dato attuazione alla decisione quadro (come effettivamente avvenuto nel caso di specie), e dove il condannato abbia residenza legale ed abituale, in conformità a quanto disposto dal menzionato D.Lgs. (così Sez. 1 n. 20977 del 15/06/2020, Arrighi, Rv. 279338 - 01). Ciò in quanto l'affidamento in prova, quale misura alternativa alla detenzione, deve ritenersi assimilabile, al di là del dato letterale, a una "sanzione sostitutiva" come descritta dall'art. 2, lett. e), D.Lgs. n. 38 del 2016, ovvero a una sanzione (misura) che impone obblighi e impartisce prescrizioni compatibili con quelli elencati nel successivo art. 4 e che costituiscono di norma il contenuto del "trattamento alternativo al carcere". La medesima sentenza Sez. 1 n. 20977 del 15/06/2020, Arrighi, Rv. 279338 - 01, ha tuttavia chiarito in motivazione che "la necessità che, nella fase istruttoria, l'Ufficio esecuzione penale esterna possa compiere in maniera adeguata gli accertamenti funzionali alla decisione del Tribunale di sorveglianza non è condizionata dalla prospettiva che, in caso di ammissione, la misura venga eseguita all'estero. Permane l'obbligo, a pena di inammissibilità della istanza, per il condannato libero di elezione di domicilio sul territorio nazionale (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.), ed è evidente che l'eventuale mancata collaborazione, anche conseguente alla assenza dal territorio nazionale, da parte del condannato istante all'indagine dell'Ufficio esecuzione penale esterna potrà concorrere a giustificare il rigetto, nel merito, della richiesta. Dall'altra, il controllo sull'osservanza del contenuto prescrittivo della misura attiene all'esecuzione della stessa e costituisce, dunque, l'oggetto della attribuzione allo Stato di esecuzione". Se quindi non vi è dubbio che, nella sua fase esecutiva, la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale possa svolgersi in altro stato membro dell'Unione, cionondimeno permangono i requisiti previsti a pena di inammissibilità per accedere alla misura alternativa, sanciti dall'ordinamento interno e tra questi l'obbligo per il condannato libero di eleggere domicilio sul territorio nazionale, ex art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen., nonché di prestare la doverosa collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna investiti degli accertamenti istruttori. 3. Nel caso che ci occupa, il Tribunale di sorveglianza è pervenuta al rigetto dell'istanza argomentando, in modo congruo, sul fatto che l'irreperibilità (da intendersi quale non presenza sul territorio) in Italia del condannato non avesse consentito all'UEPE di effettuare verifiche in fatto e di redigere le indagini socio familiari previste per la concessione delle misure richieste. Deve quindi ritenersi corretta la decisione assunta dal Tribunale di sorveglianza di Campobasso nella decisione impugnata: se infatti il controllo sull'osservanza del contenuto prescrittivo della misura attiene all'esecuzione della stessa e costituisce, dunque, l'oggetto della attribuzione allo Stato di esecuzione, la predisposizione invece dei contenuti prescrittivi della misura spettano allo Stato italiano, e implicano necessariamente l'instaurarsi - con modalità che potranno variare di caso in caso - di un rapporto diretto tra il condannato e gli uffici di esecuzione penale esterna di riferimento; rapporto che, nel caso che ci occupa, è risultato insufficiente per la redazione dell'indagine socio famigliare richiesta, essendosi esso estrinsecato, come si legge nella nota dell'UEPE di Foggia, in meri contatti telefonici nel corso dei quali il condannato aveva minimizzato il reato commesso, affermando di abitare e lavorare in Romania e di non avere intenzione di tornare in Italia. 4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso l'8 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. MARI Attilio - Relatore Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ru.Da. nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 17/01/2024 della CORTE APPELLO di ROMA; udita la relazione svolta dal Consigliere ATTILIO MARI; lette le conclusioni del PG che ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata con trasmissione degli atti alla Corte di appello di Roma. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Roma ha dichiarato inammissibile l'appello proposto da Ru.Da. avverso la sentenza emessa il 22/02/2023 dal Tribunale di Roma e con la quale il suddetto imputato era stato condannato alla pena di mesi uno di arresto ed Euro 2.600,00 di ammenda, in relazione al reato previsto dall'art. 116, commi 15 e 17, D.Lgs. 30 aprile 1992, n.285. La Corte territoriale ha osservato che la motivazione della sentenza appellata era stata tardivamente depositata il 15/06/2023 e che il relativo avviso era stato comunicato al p.m. e notificato alla parte (al difensore a mezzo PEC e all'imputato, ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., presso il difensore medesimo) alla data del 28/06/2023; conseguendone - con il computo del termine di sospensione feriale e di ulteriori quindici giorni, trattandosi di imputato giudicato in assenza - che il termine per impugnare andava a scadere il 27/09/2023; con l'effetto che l'atto di appello, depositato il 09/10/2023, doveva ritenersi tardivo. 2. Avverso la predetta ordinanza ha presentato ricorso per cassazione Ru.Da., tramite il proprio difensore, articolando un unitario motivo di impugnazione, nel quale ha dedotto - ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. - la violazione di norme processuali in riferimento agli artt. 157, comma 8 bis, 544, 548, 585, 591 e 154, comma 4 bis, disp. att., cod. proc. pen. Ha dedotto che il termine per il deposito della sentenza, stante quello indicato dal giudice, andava a scadere il 23/05/2023; che, in data 24/05/2023, lo scrivente difensore aveva richiesto alla Cancelleria del Tribunale copia della citata sentenza e che la Cancelleria medesima - con mail del 26/05/2023 - aveva notificato al richiedente che, in relazione al termine di deposito, sarebbe stata concessa una proroga di novanta giorni e che il termine di deposito era quindi da intendersi come cadente al 21/08/2023; che, in data 28/06/2023, era stato notificato l'avviso di deposito della motivazione; che, in relazione al termine di scadenza notificato dalla Cancelleria, doveva ritenersi che il termine per il deposito dell'atto di impugnazione (tenendo conto della sospensione feriale e degli ulteriori quindici giorni previsti dall'art. 585, comma 1 bis, cod. proc. pen.) sarebbe andato effettivamente a scadere il 30/10/2023 e non il 27/09/2023, come ritenuto dall'ordinanza impugnata; conseguendone che l'appello, essendo stato depositato il 09/10/2023, doveva ritenersi tempestivo. Ha altresì rilevato che l'imputato, in sede di indagini, avesse eletto domicilio presso la propria residenza; dovendosi quindi considerare tamquam non esset la notifica eseguita ai sensi dell'art. 548 cod. proc. pen. effettuata presso il difensore di fiducia ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., essendo la relativa disposizione stata abrogata a decorrere dal 30/12/2022 ai sensi dell'art. 98, comma 1, lett. a), D.Lgs. 10 ottobre 2022 e dell'art. 6 del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162; conseguendone che il termine previsto a favore dell'imputato non poteva considerarsi ancora scaduto. 3. Il Procuratore generale ha concluso per l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato con trasmissione degli atti alla Corte d'appello di Roma. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, 2. Va premesso che, in tema di impugnazioni, allorché sia dedotto mediante ricorso per cassazione - come nel caso di specie - un error in procedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. - la Corte è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 273525). 3. Nel caso, di specie, dal fascicolo processuale emerge che la sentenza di primo grado è stata emessa il 22/02/2023 e che, in tale sede, il giudice aveva fissato il termine per il deposito della motivazione in giorni novanta, andanti quindi a scadere il 23/05/2023. Risulta quindi che, con provvedimento del 19/05/2023 - emesso ai sensi dell'art. 154, comma 4 bis, disp. att., cod. proc. pen. - il Presidente del Tribunale di Roma aveva disposto, per il procedimento in questione, la proroga di ulteriori giorni novanta per il deposito della sentenza, andanti pertanto a scadere il successivo 21/08/2023; mentre, alla antecedente data del 28/06/2023, era stato notificato alle parti l'avviso di deposito della sentenza in relazione al disposto dell'art. 548, comma 3, cod. proc. pen. 4. Va quindi richiamato quanto espresso in parte motiva da Sez. 6, n. 29150 del 09/05/2017, Briganti Rv. 270697; in tale sede, era stato rilevato come, secondo quanto disposto dal richiamato art. 154, comma 4 bis, disp. att. cod. proc. pen., il provvedimento di proroga del termine per il deposito della sentenza pronunciato dal Presidente della Corte d'appello ovvero dal Presidente del Tribunale non debba essere notificato alle parti, dovendo essere soltanto comunicato al CSM, per finalità di natura amministrativa (eventualmente disciplinari). Peraltro, detto provvedimento di proroga può nondimeno assumere rilievo processuale allorquando sia stato comunicato ovvero notificato alle parti, nel quale caso il termine per impugnare la sentenza, di cui all'art. 585, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., decorre dalla nuova data fissata per il deposito della sentenza a norma del comma 2 lett. c) dello stesso art. 585 (Sez. 6, n. 15477 del 28/02/2014, P.G. in proc. Ambrosino e altri, Rv. 258963). In altri termini, la notifica alle parti del provvedimento di proroga del termine per il deposito della sentenza produce l'effetto di partecipare ad esse lo spostamento in avanti del termine per il deposito della sentenza e, dunque, di formalizzare il differimento del dies a quo ai fini della presentazione dell'impugnazione. Diversamente, nel caso in cui il provvedimento ex art. 154, comma 4 bis non sia comunicato alle parti, il termine per impugnare la sentenza decorre dall'avviso di deposito della sentenza stessa a norma del combinato disposto degli artt. 548, comma 2, e 585, comma 2 lett. d) cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 1514 del 21/10/2005 - dep. 2006, P.G. in proc. Cangiano ed altri, Rv. 233325). Pertanto, allorquando il provvedimento di proroga del termine per il deposito della sentenza non sia comunicato alle parti, il termine per impugnare la sentenza non può non decorrere dalla data della notifica dell'avviso di deposito del provvedimento in cancelleria, analogamente ai casi di deposito "tardivo" della motivazione della decisione. Dovendosi concludere che il nostro codice di rito non impone la comunicazione alle parti del provvedimento ex art. 154, comma 4 bis, disp. att. cod. proc. pen. e che, pertanto, nessuna nullità o altra sanzione processuale discende dall'omissione di tale adempimento partecipativo; adempimento che, qualora compiuto, produce peraltro effetto processuale di fissare il dies a quo ai fini della presentazione dei mezzi d'impugnazione (espressiva di principi analoghi, successivamente, Sez. 4, n. 58249 del 17/10/2018, Albanese, Rv. 274966). 5. Nel caso di specie, risulta quindi dagli atti che - in allegato a messaggio di posta elettronica del 26/05/2023 - la Cancelleria dibattimentale presso il Tribunale di Roma aveva comunicato al difensore dell'odierno ricorrente che era stata disposta la suddetta proroga di novanta giorni per il deposito della sentenza. A propria volta, trattandosi di messaggio comunicato mediante le modalità della posta elettronica certificata - come risultante dal complesso della documentazione depositata - la stessa deve ritenersi conforme al vigente disposto dell'art. 148, comma 1, cod. proc. pen., in relazione all'art. 157 bis, comma 1, cod. proc. pen.; rilevando, sul punto che - proprio per la sua intrinseca natura interna - non è prevista una specifica forma di comunicazione del relativo provvedimento di proroga nei confronti delle parti. 6. Dal complesso delle predette considerazioni consegue quindi che, andando effettivamente a decorrere il termine per la proposizione dell'impugnazione dalla data del 21/08/2023, ai sensi del combinato dell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. (in relazione all'art. 154, comma 4 bis, disp. att., cod. proc. pen.), il termine per la presentazione dell'appello, in riferimento al disposto dell'art. 585, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., andava a scadere - tenendo conto del periodo di sospensione feriale e della proroga applicabile ai sensi dell'art. 585, comma 1 bis, cod. proc. pen., trattandosi di imputato giudicato in primo grado in assenza - il 30/10/2023; con conseguente tempestività dell'impugnazione, in quanto proposta il 09/10/2023. 7. Pertanto, l'ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti alla Corte d'appello di Roma affinché proceda al giudizio. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello di Roma per l'ulteriore corso. Così deciso il 16 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Consigliere Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere Dott. PATERNO RADDUSA Benedetto - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ou.Ja. nato in Gambia il (omissis) avverso la sentenza emessa il 18 aprile 2024 dalla Corte di appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Debora Tripiccione udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Simone Perelli, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ou.Ja. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Torino che ne ha disposto la consegna all'Autorità giudiziaria finlandese in esecuzione del mandato di arresto Europeo relativo alla esecuzione della sentenza di condanna emessa dalla Corte di appello di Turku il 14 marzo 2024 con la quale è stata inflitta al ricorrente la pena detentiva di anni due per il reato di traffico di sostanze stupefacenti, pena di cui residuano da scontare anni uno e mesi undici. Deduce quattro motivi di ricorso di seguito riassunti nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 1.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell'art. 18-ter della legge n. 69 del 2005 in quanto dal mandato di arresto non risulta la notifica al consegnando della data dell'udienza fissata per il procedimento finlandese né emerge con certezza se lo stesso è stato assistito da un difensore di fiducia o di ufficio. La Corte territoriale ha, inoltre, omesso di valutare la rilevanza sulla legittimità del processo in assenza celebrato in Finlandia dell'avvenuta espulsione da detto Paese del consegnando. 1.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dell'art. 24 della legge n. 69 del 2005 in quanto la Corte territoriale ha escluso l'opportunità di un rinvio della consegna solo perché i procedimenti pendenti in Italia si trovano ancora nella fase delle indagini preliminari senza, tuttavia, effettuare, un adeguato bilanciamento della diversa gravità dei fatti oggetto del mandato di arresto Europeo e di quelli per cui pendono due diversi procedimenti penali a carico del consegnando in Italia. Sostiene, infatti, il ricorrente che mentre il fatto di cui al mandato di arresto sarebbe qualificabile, secondo la giurisprudenza italiana, quale fatto di lieve entità, ben più complessi sono i due procedimenti pendenti in Italia, relativi a fatti di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. Ciò non solo per l'entità della pena che potrebbe essere comminata in detti procedimenti, ma, più in generale, per l'interesse del ricorrente a partecipare a tali procedimenti e ad esercitare la possibilità di scelta di riti alternativi. 1.3. Con il terzo motivo deduce la violazione dell'art. 18-bis, commi 2 e 2-bis, della legge n. 69 del 2005, in quanto la Corte territoriale ha omesso di valutare l'applicabilità del motivo di rifiuto relativo alla condizione personale del consegnando, cittadino di uno Stato terzo, legittimamente ed effettivamente residente sul territorio italiano, omettendo, così, di considerare la recente sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2023. 1.4. Con il quarto motivo deduce la violazione dell'art. 7 della legge n. 69 del 2005 in quanto la legge finlandese punisce il reato ascritto al consegnando con la pena alternativa della multa o della reclusione fino a due anni. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato ed aspecifico. Risulta sia dalla sentenza impugnata che dal mandato di arresto Europeo che il ricorrente non è comparso personalmente al processo e che, essendo al corrente della data fissata, ha conferito un mandato ad un difensore, nominato dall'interessato o dallo Stato, dal quale è stato in effetti patrocinato. Sulla base di tale attestazione, rispondente ai requisiti richiesti dall'art. 6, comma 1-bis, lett. a e b, legge n. 69 del 2005, la Corte territoriale ha, dunque, legittimamente escluso la configurabilità del motivo di rifiuto invocato dal ricorrente. Va, peraltro, considerato che il motivo in esame, trascurando il chiaro dettato normativo contenuto alla lett. b dell'art. 6, comma 1-bis, insiste su una circostanza (l'incertezza sul patrocinio da parte di un difensore di fiducia o di ufficio) che, di per sé, stante l'attestazione contenuta nel mandato di arresto in esame, è irrilevante ai fini della configurabilità del motivo di rifiuto. Rileva, inoltre, il Collegio che la questione relativa all'avvenuta espulsione del ricorrente è stata introdotta in termini vaghi e meramente esplorativi nel motivo in esame, senza alcuna allegazione documentale a sostegno della censura né alcuna specifica deduzione in ordine alle circostanze di tempo in cui sarebbe avvenuta l'asserita espulsione, non specificandosi, ad esempio, se e in quale data il ricorrente abbia ottemperato all'ordine di espulsione ovvero lo stesso sia stato accompagnato alla frontiera dello Stato emittente. In ogni caso, si tratta di una questione di fatto che deve essere dedotta dinanzi all'Autorità giudiziaria dello Stato emittente. 3. Il secondo motivo è inammissibile in quanto, di fatto, si risolve in una non consentita censura della motivazione. Il ricorrente, infatti, a fronte dell'argomentazione posta a fondamento del mancato esercizio del potere discrezionale di rinvio della consegna, fondato sul diverso stadio dei procedimenti pendenti in Italia (ancora in fase di indagini preliminari) rispetto a quello cui si riferisce il mandato di arresto, si limita a censurare detta valutazione sollecitando una non consentita diversa valutazione comparativa tra i fatti oggetto di detti procedimenti. 4. Il terzo motivo è manifestamente infondato ed aspecifico. Va, innanzitutto, premesso che a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Grande Sezione, 6 giugno 2023, C-700/21, e della successiva sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2023, il legislatore, con il D.L. 13 giugno 2023, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 103, ha modificato l'art. 18, comma 2, legge n. 69 del 2005, estendendo il motivo di rifiuto ivi previsto anche al cittadino di uno Stato terzo. Il citato D.L. n. 69 del 2023, recependo sostanzialmente un consolidato indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, ha, inoltre, introdotto all'art. 18-bis il comma 2-bis, in cui sono stati positivizzati gli indici sintomatici del legittimo ed effettivo radicamento dell'interessato. La norma prevede, infatti, che ai fini della verifica della legittima ed effettiva residenza o dimora sul territorio italiano della persona richiesta in consegna, la corte di appello accerta se l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza sul territorio sia in concreto idonea ad accrescerne le opportunità di reinserimento sociale, tenendo conto della durata, della natura e delle modalità della residenza o della dimora, del tempo intercorso tra la commissione del reato in base al quale il mandato d'arresto Europeo è stato emesso e l'inizio del periodo di residenza o di dimora, della commissione di reati e del regolare adempimento degli obblighi contributivi e fiscali durante tale periodo, del rispetto delle norme nazionali in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, dei legami familiari, linguistici, culturali, sociali, economici o di altra natura che la persona intrattiene sul territorio italiano e di ogni altro elemento rilevante. La sentenza è nulla se non contiene la specifica indicazione degli elementi di cui al primo periodo e dei relativi criteri di valutazione. 4.1 Tenendo ferme dette coordinate normative, ritiene il Collegio che la Corte territoriale, pur facendo erroneamente riferimento alla condizione del consegnando, quale cittadino di uno Stato terzo, ha, comunque, adeguatamente argomentato in ordine alla insussistenza degli elementi fattuali necessari a ritenere che lo stesso sia radicato nel territorio in italiano. In particolare, la Corte ha reputato non rilevante l'unico documento prodotto dalla difesa, sulla cui rilevanza insiste il motivo in esame, rilevando che la comunicazione dell'assunzione a tempo indeterminato del consegnando, datata 26 febbraio 2024, non solo è in contrasto con la dichiarazione resa da costui all'udienza di convalida di non svolgere alcun lavoro, ma è, comunque, inidonea a dimostrare la sussistenza dei presupposti della legittima ed effettiva residenza o dimora nel territorio da almeno cinque anni. 5. Il quarto motivo è inammissibile in quanto dedotto per la prima volta in questa Sede e, comunque, manifestamente infondato. Va, infatti, considerato che l'art. 7 della legge n. 69 del 2005 prevede che la verifica del requisito della doppia punibilità deve essere effettuata indipendentemente dalla qualificazione giuridica e dai singoli elementi costitutivi del reato, avendo riguardo al fatto, come descritto nel mandato di arresto Europeo sul piano naturalistico-strutturale, ed alla sua previsione come reato dalla legge nazionale. A tale proposito, questa Corte ha già condivisibilmente affermato che ai fini della verifica del requisito della doppia punibilità, presupposto indispensabile per potersi far luogo alla consegna, non è necessario che coincidano la qualificazione giuridica ed i singoli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici previste dallo Stato richiedente e da quello richiesto (cfr. Sez. 6, n. 21336 del 26/05/2021, Brocai, Rv. 281509). Accanto alla astratta punibilità del fatto, l'art. 7 richiede, inoltre, che questo sia punito con pena o una misura di sicurezza privativa della libertà personale non inferiore a dodici mesi (comma 3) e che, qualora si tratti di un m.a.e. esecutivo, la pena o la misura di sicurezza inflitte abbiano una durata non inferiore a quattro mesi (comma 4). Con riferimento a tale ultima ipotesi, contrariamente a quanto deduce il ricorrente, occorre fare riferimento non alla pena edittale, ma a quella concretamente comminata dall'autorità giudiziaria straniera (cfr. Sez. 6, n. 13867 del 22/03/2018, Clinck, Rv. 272721), pena che, nel caso di specie, è superiore al limite previsto dal citato art. 7, comma 4. 6. All'inammissibilità del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila da versare in favore della Cassa delle ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, legge n. 69/2005. Così deciso il 28 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. FIORDALISI Domenico - Consigliere-Rel. Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - Consigliere Dott. TOSCANI Eva - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ko.Mo. nato il (Omissis) avverso l'ordinanza del 20 settembre 2023 del Trib. Sorveglianza di Salerno; udita la relazione svolta dal Consigliere Fiordalisi Domenico; lette le conclusioni del PG. Il Procuratore generale, Giorgio Lidia, chiede dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ko.Mo. ricorre avverso l'ordinanza del 20 settembre 2023 del Tribunale di sorveglianza di Salerno, che ha rigettato la richiesta di applicazione di misura alternativa alla detenzione con riferimento alla complessiva pena residua di anni due, mesi dieci e giorni ventotto di reclusione di cui alla sentenza del Tribunale di Salerno del 20 luglio 2016, divenuta definitiva e di cui alla sentenza del G.i.p. del Tribunale di Salerno del 13 aprile 2021, divenuta definitiva. Il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato che la richiesta di rinvio dell'udienza non poteva essere accolta, posto che l'allegata istanza ex art. 17 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 doveva considerarsi generica, poiché priva di allegazioni, e tardiva, poiché recante la data del 14 settembre 2023. 2. Il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, e inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 17 T.U. imm., 71 -bis L. 25 luglio 1975, n. 286, 666, 678 cod. proc. pen., 24, 111 Cost., 6 CEDU e 14, par. 3, lett. d), Patto internazionale sui diritti civili e politici, e vizio di motivazione dell'ordinanza impugnata, perché il Tribunale di sorveglianza avrebbe omesso di considerare che la difesa aveva tempestivamente depositato al Questore di Salerno un'istanza con la quale era stata chiesto che Ko.Mo., che si trovava in M, fosse autorizzato a rientrare in I per il tempo strettamente necessario per partecipare all'udienza. Il giudice di merito, quindi, rigettando in maniera immotivata la richiesta di rinvio dell'udienza, avrebbe leso il diritto di difesa del condannato, in violazione dei principi cardine del giusto processo, applicabili anche ai procedimenti in camera di consiglio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. Giova in diritto premettere che, tra i requisiti del ricorso per cassazione, vi è anche quello, sancito a pena di inammissibilità, della specificità dei motivi: il ricorrente ha non soltanto l'onere di dedurre le censure su uno o più punti determinati della decisione impugnata, ma anche quello di indicare gli elementi che sono alla base delle sue lagnanze. In tal senso, rientra nella ipotesi della genericità del ricorso, non solo la aspecificità dei motivi stessi, ma anche la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione (Sez. 1, n. 4521 del 20/01/2005, Orrù, Rv. 230751), che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. all'inammissibilità del ricorso (Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634). Nel caso di specie, quindi, il ricorso è fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice di merito, sicché gli stessi devono considerarsi non specifici. In particolare, il ricorrente non si confronta con l'ordinanza impugnata, nella parte in cui il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato che all'istanza ex art. 17 T.U. imm. non fossero stati allegati documenti dai quali emergesse il fatto che lo stesso si trovava effettivamente in M: agli atti, infatti, non risultava la residenza né l'esatto indirizzo del condannato. Secondo il giudice di merito, inoltre, nonostante il rinvio all'udienza del 20 settembre 2023 fosse stato fissato sin dalla precedente udienza del 7 giugno 2023, l'istanza ex art. 17 T.U. imm. riportava la data del 14 settembre 2023 e, quindi, era stata depositata pochi giorni prima dell'udienza camerale. Il Tribunale di sorveglianza, pertanto, preso atto dell'irreperibilità di Ko.Mo., ha correttamente applicato al caso di specie il principio di diritto secondo il quale la concessione di una misura alternativa alla detenzione presuppone la reperibilità del soggetto per la realizzazione dei fini della risocializzazione. Pertanto, l'opposta situazione di fatto della irreperibilità è incompatibile con la struttura dell'istituto in esame e tale, quindi, da giustificare una declaratoria di inammissibilità de plano da parte del Presidente del Tribunale di sorveglianza (Sez. 1, n. 1676 del 06/03/2000, Omari, Rv. 215819). 2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in Euro 3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità" (Corte cost. n. 186 del 13 giugno 2000). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. FIORDALISI Domenico - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - Consigliere-Rel. Dott. TOSCANI Eva - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul conflitto di competenza sollevato da: Tribunale Sorveglianza Bari nei confronti di: Tribunale Sorveglianza Napoli con l'ordinanza del 14 settembre 2023 del Trib. Sorveglianza di Bari udita la relazione svolta dal Consigliere Cappuccio Daniele; lette le conclusioni del PG Tocci Stefano, il quale ha chiesto dichiararsi la competenza del Tribunale di sorveglianza di Napoli. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di sorveglianza di Napoli, con ordinanza del 31 ottobre 2022, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio nel procedimento promosso da Ru.Vi. ed inteso all'ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in relazione alla pena di sei mesi di arresto, irrogatagli con sentenza del Tribunale di Benevento del 28 aprile 2017, divenuta irrevocabile il 7 settembre 2017. Ha, a tal fine, rilevato che, ai sensi dell'art. 677, comma 2, cod. proc. pen. "Quando l'interessato non è detenuto o internato, la competenza, se la legge non dispone diversamente, appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l'interessato ha la residenza o il domicilio" e che, essendo Ru.Vi. residente in C (F), comune in cui, peraltro, dovrebbe avere esecuzione la misura richiesta, la competenza per territorio appartiene al Tribunale di sorveglianza di Bari, cui ha disposto trasmettersi gli atti. 2. Il Tribunale di sorveglianza di Bari, ricevuti gli atti, ha sollevato, con ordinanza del 14 settembre 2023, conflitto negativo di competenza, osservando che il criterio indicato dall'art. 677, comma 2, cod. proc. pen. è derogato, nel caso di istanza finalizzata all'ammissione ad una misura alternativa alla detenzione, presentata da condannato che sia stato raggiunto da ordine di esecuzione per la carcerazione con contestuale sospensione, dall'art. 656, comma 6, cod. proc. pen., che attribuisce la competenza "al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero", ovvero, nel caso di specie, al Tribunale di sorveglianza di Napoli (procedendo, per l'esecuzione, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Benevento). 3. Disposta la trattazione scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, il Procuratore generale ha chiesto, il 12 gennaio 2024 2023, dichiararsi la competenza del Tribunale di sorveglianza di Napoli. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il conflitto affidato alla risoluzione di questa Corte sussiste, in quanto due giudici contemporaneamente hanno ricusato la cognizione del procedimento nei confronti delle stesse persone, dando così luogo alla situazione prevista dall'art. 28 cod. proc. pen. 2. La competenza per territorio spetta al Tribunale di sorveglianza di Napoli. È, invero, pacifico che "La competenza all'applicazione delle misure alternative alla detenzione, in ipotesi di soggetto che fruisca della sospensione della pena, appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo ove ha sede l'ufficio del pubblico ministero preposto all'esecuzione, in forza della regola posta dall'art. 656, comma 6, cod. proc. pen., la quale deve ritenersi speciale rispetto al principio generale di cui all'art. 677 stesso codice" (Sez. 1, n. 8000 del 28/09/2018, dep. 2019, Bellassai, Rv. 276398 - 01; Sez. 1, n. 53177 del 08/10/2014, Travaglini, Rv. 261606 - 01; Sez. 1, n. 24106 del 26/05/2009, Omoregbee, Rv. 243971 - 01). Nel caso di specie, essendo stata promossa, mediante l'emanazione di ordine di carcerazione soggetto a sospensione, l'esecuzione della sentenza di condanna emessa nei confronti di Ru.Vi. dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Benevento, il Tribunale di sorveglianza competente deve essere individuato in quello di Napoli, che esercita la giurisdizione in relazione, tra l'altro, al territorio della provincia sannita. 3. Per quanto esposto, il conflitto negativo di competenza deve essere risolto a favore del Tribunale di sorveglianza di Napoli. Seguono le comunicazioni di cui all'art. 32, comma 2, cod. proc. pen. P.Q.M. Decidendo sul conflitto, dichiara la competenza del Tribunale di sorveglianza di Napoli cui dispone trasmettersi gli atti. Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente - Dott. CAPOZZI Angelo - Relatore - Dott. PACILLI Giuseppina Anna R. - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da No.Ma., nato a V il Omissis avverso la ordinanza del 08/09/2023 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal componente Angelo Capozzi; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Nicola Lettieri, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe la Corte di appello di Milano ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello proposto dall'imputato No.Ma. avverso la sentenza emessa il 10 gennaio 2023 dal Tribunale di Varese con la quale il predetto è stato dichiarato colpevole de delitti di cui agli artt. 572,582 e 585 cod. pen. e condannato a pena di giustizia, sul rilievo della omessa dichiarazione o elezione di domicilio da parte dell'appellante. 2. Avverso la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato che con atto del difensore deduce i seguenti motivi: 2.1. Con il primo motivo inosservanza dell'art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. essendosi realizzato l'adempimento che si assume omesso, come si desume dalla pagina 1 dell'atto di appello in cui è detto "il sig. No.Ma., nato a Varese il 03.09.1979, ivi residente e domiciliato in via B n. 126", non necessitando la predetta elezione di domicilio essere contenuta in atto a parte rispetto alla impugnazione, potendo esserne incorporata. Inoltre, deve escludersi che una dichiarazione di tale genere sia un atto personalissimo e che, pertanto, non sia delegabile dall'interessato ad altro soggetto in particolare, trattandosi di atto processuale, al difensore di costui munito di procura speciale, nella specie rilasciata all'atto di nomina. 2.2. Con il secondo motivo si deduce l'illegittimità costituzionale dell'art. 581, comma 1 -ter, cod. proc. pen. in relazione agli artt. 24, 27 e 111 Cost. in relazione all'ingiustificata compressione del diritto di accesso all'impugnazione e del diritto di difesa. 3. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e succ. modd., in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate. 4. E' pervenuta memoria di replica della difesa a sostegno della fondatezza del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Va premesso che la maggiore garanzia rappresentata dal rito di pubblica udienza non rende necessaria la conversione del rito in quello ex art. 611 cod. proc. pen. auspicata in sede di conclusioni dal Procuratore generale. 2. li ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato. 3. Deve preliminarmente essere affermata la manifesta infondatezza della eccezione di incostituzionalità dell'art. 583, comma I-ter, disp att. sulla base del condiviso orientamento secondo il quale è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 581, commi 1 -ter e 1-quater, cod. proc. pen., introdotti dagli artt. 33 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, e dell'art. 89, comma 3, del medesimo D.Lgs., per contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 111 Cost. e art. 6 CEDU, nella parte in cui richiedono, a pena di inammissibilità dell'appello, che, anche nel caso in cui si sia proceduto in assenza dell'imputato, unitamente all'atto di appello, sia depositata la dichiarazione o l'elezione di domicilio, ai fini della notificazione dell'atto di citazione, e lo specifico mandato ad impugnare rilasciato successivamente alla sentenza, trattandosi di scelta legislativa non manifestamente irragionevole, volta a limitare le impugnazioni che non derivano da un'opzione ponderata e personale della parte, da rinnovarsi "in limine impugnationis" ed essendo stati comunque previsti i correttivi dell'ampliamento del termine per impugnare e dell'estensione della restituzione nel termine (Sez. 4, n, 43718 del 11/10/2023, Ben Khalifa, Rv. 285324 - 01). 4. Deve essere poi ribadito il condivisibile principio secondo il quale l'elezione di domicilio è un atto personale a forma vincolata, non surrogabile da una dichiarazione fatta dal difensore, nemmeno se in presenza dell'imputato. Ne consegue che non può essere considerata una valida elezione di domicilio la menzione di essa contenuta nell'atto di appello redatto dal difensore (Sez. 4, n. 7118 del 23/05/2000, Bibolotti, Rv. 216607); ancora, l'elezione di domicilio è un atto personale a forma vincolata, espressione della volontà dell'imputato di ricevere ogni notificazione o comunicazione presso quel domicilio e non surrogabile da una dichiarazione del difensore, con la conseguenza che non può essere considerata come valida elezione di domicilio ai sensi dell'art. 162 cod. proc. pen. la mera indicazione del luogo di residenza dell'imputato, da questi non sottoscritta, contenuta nell'atto di appello redatto dal difensore (Sez. 2, n. 7834 del 28/01/2020, Simone, Rv. 278247). Cosicché del tutto correttamente l'ordinanza impugnata ha rilevato l'assenza della necessaria dichiarazione o elezione di domicilio da parte dell'imputato appellante non potendosi individuare questa nella indicazione contenuta nell'incipit dell'atto di appello proposto dal difensore dell'imputato. 5. Alla declaratoria dì inammissibilità dei ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si stima equo determinare in euro tremila in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5487 del 2023, proposto da Do. Gi., rappresentato e difeso dall'avvocato Or. Ab., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Fr. Del Mo., rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Del Mo., An. Zo., Se. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Comune di (omissis), rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Ge., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Pa. Le., An. Lo., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza, redatta in forma semplificata, del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata n. 00222/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Fr. Del Mo. e del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 dicembre 2023 il Cons. Antonino Masaracchia e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con la sentenza oggetto del presente gravame, meglio individuata in epigrafe, il TAR Basilicata, in accoglimento delle doglianze avanzate da un candidato che non aveva superato le prove scritte, ha annullato l'intero concorso bandito dal Comune di (omissis) (PZ) per l'assunzione del Comandante della Polizia municipale con rapporto a tempo indeterminato e parziale al 50% (18 ore settimanali). Il TAR ha accolto tre dei numerosi motivi di gravame, assorbendo gli altri, giungendo così all'annullamento del concorso per le seguenti ragioni: incompetenza del Segretario comunale quanto alla nomina della commissione esaminatrice; incompatibilità di uno dei commissari per "grave inimicizia" con il ricorrente (candidato non ammesso alle prove orali), derivante da una pregressa vicenda caratterizzata da numerose denunce/querele; violazione delle regole del bando di concorso, quanto alla scelta dei membri della commissione esaminatrice. In particolare, in ordine a quest'ultimo profilo, la sentenza ha rilevato che, mentre il bando aveva previsto una scelta comparativa tra gli aspiranti membri basata sulla valutazione dei curricula, il Segretario comunale avrebbe ritenuto di procedere valorizzando un diverso criterio, quello "oggettivo" della "minor distanza" tra il luogo di residenza/ abitazione del prescelto e il Comune di (omissis). Con l'atto di appello richiamato in epigrafe - proposto dal vincitore del concorso, rimasto soccombente in primo grado - è stata domandata la riforma della sentenza del TAR, previa sua sospensione cautelare. Le censure sono articolate su due motivi di impugnazione, con i quali, nella sostanza, vengono sottoposte a critica le motivazioni spese dal Giudice di prime cure a sostegno della ritenuta illegittimità delle operazioni concorsuali. 2. - Nel presente giudizio di appello si è costituito il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, chiedendo l'accoglimento dell'appello e proponendo, con deposito del 21 luglio 2023, appello incidentale volto, analogamente all'altro, alla riforma della sentenza del TAR. Si è anche costituita la parte privata ricorrente in primo grado, chiedendo la conferma della sentenza del TAR, non senza sollevare, con memoria depositata il 22 agosto 2023, alcune eccezioni di inammissibilità dei due appelli, principale e incidentale. Mediante la medesima memoria, inoltre, la parte appellata ha anche riproposto, ai sensi dell'art. 101, comma 2, cod. proc. amm., i motivi del proprio ricorso di primo grado che il TAR, nell'ambito della statuizione di accoglimento, ha dichiarato assorbiti. In vista della discussione sulla domanda cautelare, l'amministrazione e la parte privata appellata hanno svolto ulteriori difese, con memorie di replica depositate - rispettivamente - il 24 e il 25 agosto 2023. Alla camera di consiglio del 29 agosto 2023, chiamata per la discussione dell'incidente cautelare, la causa è stata rinviata al merito. 3. - Nell'approssimarsi della discussione sul merito, il Comune di (omissis) e la parte privata appellata hanno svolto difese, anche nella forma delle repliche, con atti depositati il 16 e il 25 novembre 2023, ciascuno insistendo sulle già spiegate argomentazioni. Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. - Vanno anzitutto trattate le eccezioni preliminari, sollevate dalla parte privata appellata. 4.1. - Quest'ultima, anzitutto, ha eccepito l'inammissibilità dei due appelli per mancanza di alcuna critica nei confronti di una delle plurime rationes decidendi poste a fondamento della decisione appellata. Il riferimento è al passaggio della sentenza del TAR che, a pag. 18, nell'affrontare le censure di incompetenza, rivolte contro la determinazione del segretario comunale di nomina della commissione esaminatrice, ha ritenuto fondata la dedotta violazione dell'art. 101, comma 1, del contratto collettivo degli Enti locali del 17 dicembre 2020, rilevando che la pur prevista sostituzione nelle incombenze relative alla complessiva gestione dell'ente, nella specie, sarebbe stata "incongruamente esercitat[a]". L'eccezione non è fondata. Occorre invero rilevare che, alla luce dei motivi di appello spiegati dalle controparti, la menzionata ratio decidendi non è tale da sorreggere, da sola, il rilevato vizio di incompetenza del segretario comunale. I motivi di appello hanno infatti fatto valere ulteriori ragioni che, se fondate, condurrebbero comunque al rigetto dell'originario motivo di incompetenza: sono stati invocati, in proposito, sia il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 (che aveva previsto, in caso di assenza o di impedimento del responsabile del servizio, e quindi anche per l'ipotesi delle ferie che viene in rilievo nel caso di specie, la sua sostituzione attraverso il segretario comunale), sia alcuni successivi atti adottati dal responsabile del servizio che - in tesi - avrebbero comportato una "ratifica implicita" delle nomine compiute dal segretario comunale. Anche a voler ritenere che l'incombenza espletata dal segretario fosse in violazione delle regole di competenza indicate dalla fonte collettiva, ne discende che la nomina dei membri della commissione sarebbe comunque salva qualora la relativa competenza del segretario comunale trovi titolo nel richiamato decreto del Sindaco ovvero sia stata "ratificata" successivamente dall'organo competente. 4.2. - Né può giovare alla parte privata appellata quanto essa (sempre nella memoria depositata il 28 agosto 2023) ulteriormente eccepisce - peraltro, limitatamente al rilievo avversario che fa valere, ai fini della disamina sul profilo di incompetenza, il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 - in ordine alla "novità " dei fatti introdotti per la prima volta in appello a sostegno del primo motivo dell'appello incidentale, con asserita violazione dell'art. 104 cod. proc. amm. Invero, deve ricordarsi che tali argomenti, e i relativi fatti e documenti a sostegno, costituiscono non un'eccezione in senso tecnico non rilevabile d'ufficio (la quale, come tale, deve rispettare il divieto dei nova in appello), ma una mera difesa che la parte, resistente e soccombente in primo grado, ben è legittimata a proporre in grado di appello. Come più volte rammentato da questa Sezione, "la preclusione o il divieto di nova in appello di cui all'art. 104, comma 1, cod. proc. amm., si applica all'appellante che nel giudizio di primo grado abbia assunto la posizione processuale del ricorrente; non già a chi in primo grado sia stato chiamato in giudizio come parte resistente (è il caso dell'odierno appellante) o come controinteressato (principio pacifico: ex multis Cons. Stato, sez. IV, 29 dicembre 2020, n. 8475)" (così, da ultimo, della Sezione, la sentenza n. 5042 del 2022). 5. - Nel merito, i due appelli - principale e incidentale - sono fondati. 5.1. - La prima ragione di illegittimità rinvenuta dal TAR, riguardante il profilo dell'incompetenza del segretario comunale nella nomina dei componenti della commissione esaminatrice, non resiste alle precise deduzioni delle parti appellanti. In proposito, Comune fa notare che, ai fini degli atti di nomina così posti in essere, il segretario comunale aveva piena facoltà di sostituirsi al dirigente responsabile; quest'ultimo, infatti, si trovava in ferie nel giorno in cui la commissione è stata formata e, quindi, la sostituzione poteva adottarsi alla stregua di quanto aveva stabilito il decreto del Sindaco n. 3, del 19 marzo 2018 (la cui produzione nell'odierno giudizio può essere ammessa, in quanto documento indispensabile alla decisione, ai sensi dell'art. 104, comma 2, cod. proc. amm., per di più a sostegno di argomento difensivo non precluso alla parte). Tale decreto, infatti, con formulazione generale, applicabile anche al caso delle ferie del responsabile, stabiliva che, "in caso di assenza o di impedimento del Responsabile del Settore, fatta salva la possibilità di diversi provvedimenti, la relativa sostituzione avviene attraverso il SEGRETARIO COMUNALE Pro- Tempore". Deve dunque ritenersi che il segretario comunale, nel caso di specie, si trovava a svolgere una funzione esplicitamente conferitagli dal Sindaco, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lettera d), del d.lgs. n. 267 del 2000, a norma del quale il segretario comunale "esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia". Anche a voler prescindere da ciò, comunque, deve rilevarsi che il vizio di incompetenza non può che ritenersi sanato, nel caso di specie, per effetto dei successivi atti posti in essere dall'organo che si assume competente (ossia, il responsabile del servizio), il quale ha dapprima provveduto a sostituire un membro dimissionario della commissione, senza nulla modificare quanto agli altri (ciò, con determina n. 28, del 7 febbraio 2023), e ha poi approvato tutti gli atti e i verbali della commissione stessa (ciò, con determina n. 44, del 1° marzo 2023). Come correttamente ritenuto dalle parti appellanti, questi atti comportano una sostanziale ratifica dell'operato della commissione, come composta dai membri nominati dal segretario comunale, e quindi anche una implicita conferma della nomina di questi ultimi. Va invero preferita - come da ultimo statuito da questa Sezione in tema di ratifica dell'operato dell'organo incompetente - "una prospettiva sostanziale e non meramente formale", che valorizza l'operato del dirigente "dominus della procedura concorsuale" le cui determinazioni confermano l'operato altrui superando l'originario vizio di incompetenza, dovendosi affermare l'ammissibilità del provvedimento implicito "qualora l'Amministrazione, pur non adottando formalmente la propria determinazione, ne determini univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un contegno conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del corrispondente provvedimento formale non adottato: le quante volte, cioè, emerga senza equivoco un collegamento biunivoco tra l'atto adottato o la condotta tenuta e la determinazione che da questi si pretende di ricavare, onde quest'ultima sia l'unica conseguenza possibile della presupposta manifestazione di volontà " (così, da ultimo, della Sezione, la sentenza n. 3817 del 2023, che richiama, sempre di questa Sezione, la sentenza n. 589 del 2019). 5.2. - Fondate sono, altresì, le censure riguardanti la seconda ragione di illegittimità individuata dal TAR, afferente alla rimarcata "situazione di incompatibilità " di uno dei membri della commissione, per asserita sua "grave inimicizia" con il candidato ricorrente in primo grado. In proposito le parti appellanti hanno riferito che le denunce/querele, dalle quali simile situazione di "inimicizia" è stata fatta discendere, hanno avuto unilaterale provenienza (sono state presentate, cioè, unicamente dal candidato, mentre non ne risulterebbero sporte ad opera del commissario di concorso) e sono oltretutto significativamente risalenti nel tempo. Si tratta, hanno aggiunto gli appellanti, di episodi risalenti a più di dieci anni prima del concorso, quando furono presentate alcune denunce, da parte dell'odierno appellato, per le attività svolte dal suo antagonista come commissario di (altra) selezione concorsuale e come comandante della Polizia municipale; essi hanno anche riferito che tutte le suddette rinunce sono state poi archiviate. La loro controparte, in replica, si è limitata ad affermare il fatto contrario positivo - ossia, che le denunce sarebbero state "reciproche" - ma ha omesso di provarlo, non avendo menzionato alcun particolare episodio a sostegno delle proprie affermazioni ed essendosi, piuttosto, limitata a richiamare una congerie di documenti che sono stati depositati in questo giudizio di appello. Tali documenti non possono essere ammessi nel presente grado, per disposto dell'art. 104, comma 2, cod. proc. amm., in quanto - considerata la loro mole, e considerato altresì che la parte non ha provveduto a dettagliarne il deposito indicando quali, tra di essi, fossero davvero rilevanti ai fini di introdurre elementi di prova di quanto affermato - non possono ritenersi indispensabili ai fini della decisione. Deve, pertanto, riconoscersi credito a quanto affermato dalle parti appellanti, il che - peraltro - trova anche conferme nella sentenza di primo grado, la quale, nella disamina del motivo poi accolto, ha elencato una serie di denunce, tutte risalenti a più di dieci anni prima lo svolgimento del concorso e tutte presentate dall'odierna parte appellata. Questi dati di fatto rendono oggettivamente inconsistente il profilo di illegittimità lamentato in primo grado, anche a prescindere dalle circostanze ambientali di contorno valorizzate dal TAR (l'esiguo numero dei partecipanti al concorso e le piccole dimensioni del Comune di (omissis)); in definitiva, deve concludersi che non si hanno elementi sufficienti per poter sostenere che il commissario di concorso serbasse, personalmente, un atteggiamento di inimicizia nei confronti del candidato ricorrente in primo grado. 5.3. - Fondate sono anche le censure che hanno sottoposto a critica l'ultima delle ragioni individuate dal TAR ai fini dell'annullamento degli atti in primo grado. Non emerge, invero, alcun profilo di violazione delle regole, fissate del bando di concorso, per la scelta dei commissari. Dalla determinazione n. 7, del 6 dicembre 2022, risulta, infatti, che il segretario comunale ha conferito rilievo al criterio della minor distanza di provenienza solo in quanto, tra tutti gli aspiranti, emergeva la "parità di requisiti": il che presuppone l'esistenza di una valutazione comparativa tra i vari aspiranti che deve presumersi eseguita, in mancanza di evidenze diverse, secondo le indicazioni del bando. 6. - La fondatezza delle censure di appello comporta il vaglio degli ulteriori motivi del ricorso di primo grado, rimasti assorbiti dalla decisione del TAR e in questa sede riproposti con la memoria della parte appellata depositata il 22 agosto 2023. 6.1. - Il primo dei motivi riproposti attiene ad una presunta illogicità e incongruità del punteggio attribuito alle prove scritte del ricorrente in primo grado. In particolare, si sostiene che tali prove sarebbero esaustive, pertinenti e pienamente rispondenti ai quesiti che erano stati proposti ai candidati, tanto da risultare inspiegabile l'attribuzione, da parte della commissione, di un punteggio largamente insufficiente. Inoltre, si lamenta una disparità di trattamento, a danno dell'esponente, rispetto ai punteggi attribuiti agli altri candidati (tra i quali, anche l'odierno appellante, vincitore del concorso), facendosi notare alcune "criticità " negli elaborati di questi ultimi che ulteriormente dimostrerebbero l'illegittimità dell'operato della commissione. Il motivo - che, nonostante quanto sostenuto in replica dall'amministrazione appellata, non risulta essere stato trattato dal TAR - non può essere condiviso. Deve infatti ricordarsi, sulla base del tradizionale e fermo orientamento della giurisprudenza amministrativa, che va riconosciuta, di norma, amplia discrezionalità alla commissione esaminatrice nell'attribuzione dei punteggi: e ciò, sia nella fase a monte che consiste nell'individuazione dei criteri secondo le indicazioni provenienti dal bando, sia nella fase a valle di effettiva attribuzione dei punteggi ai singoli candidati. L'esercizio di tale discrezionalità, come è noto, è sottratta al puntuale sindacato di legittimità del giudice amministrativo, riguardando piuttosto il merito dell'azione amministrativa, salvo che siano apprezzabili macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza, manifesta iniquità e palese arbitrarietà (tra le tante, cfr. Cons. Stato, questa sez. V, sentenza n. 9531 del 2023; sez. II, sentenza n. 10684 del 2023; sez. IV, sentenza n. 2754 del 2016). Inoltre, la predeterminazione di criteri di massima, da parte della stessa commissione, funge da adeguato parametro di riscontro, mettendo il candidato nella possibilità di comprendere le valutazioni riferite alla propria prova, pur se tradotte nell'assegnazione di un voto numerico il quale, in mancanza di una contraria disposizione, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione di concorso, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni (cfr., di recente, ex aliis, Cons. Stato, sez. VII, sentenza n. 1291 del 2024). Nel caso di specie è pacifico che la commissione avesse prestabilito i criteri di giudizio e che, conseguentemente, il voto numerico attribuito agli elaborati consentisse la ricostruzione dell'iter logico-motivazionale. Non emergono, peraltro, aspetti di macroscopica illogicità e/o iniquità nelle valutazioni compiute dalla commissione, neanche in prospettiva di comparazione tra i vari candidati: le contestazioni, in proposito mosse dal ricorrente, non fanno emergere palesi errori di fatto o travisamenti tali da fondare le censure di ingiustizia manifesta. 6.2. - Quanto al secondo dei motivi riproposti - attinente alla mancata apposizione, sui fogli degli elaborati scritti, del timbro dell'ente e della firma di almeno un componente della commissione - il Collegio non può esimersi da una diagnosi di inammissibilità, in accoglimento della corrispondente eccezione sollevata dal Comune. La sentenza del TAR, sia pure nella parte in fatto, ha invero trattato e deciso tale censura: a pag. 14 si legge che la dedotta circostanza "risulta smentita dagli elaborati della prova scritta del ricorrente e degli altri 4 candidati ammessi alla prova orale, depositati in giudizio, tutti recanti il timbro e la firma di una dei componenti della Commissione giudicatrice". Ciò avrebbe richiesto di introdurre la censura in esame con specifico motivo di appello, e non attraverso la riproposizione ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm. L'inammissibilità, peraltro, travolge anche la parte del motivo in esame in cui si accenna ad un'ulteriore carenza formale che sarebbe stata commessa nel procedimento, quella cioè della mancata indicazione "del numero dei fogli complessivamente consegnati ai candidati o a ciascun candidato e, finanche, di quelli residuati alla fine della prova scritta": si tratta, infatti, di un profilo di censura solo genericamente accennato, senza il riscontro di alcun parametro di legittimità, e meramente ancillare all'altro, del quale segue la sorte. 7. - Le spese del doppio grado seguono la soccombenza e vanno dunque poste a carico dell'originario ricorrente in primo grado, secondo la liquidazione di cui al dispositivo della presente sentenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, definitivamente pronunciando, Accoglie l'appello principale e l'appello incidentale e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado. Condanna il ricorrente in primo grado alla refusione delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in euro 3.000,00 (tremila/00) in favore di ciascuna delle due controparti, odierne appellanti principale e incidentale, per un totale di euro 6.000,00 (seimila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Antonino Masaracchia - Consigliere, Estensore

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