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1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9542 del 2023, proposto da: Er. Pa., rappresentata e difesa dall'avvocato Cr. Pe. Qu., con domicilio digitale pec in registri di giustizia contro Università degli studi di Siena, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Il. D'A. e Br. Pi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, sezione prima, n. 945/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Università degli studi di Siena; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 21 maggio 2024, l'avvocato Cr. Pe. Qu.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con atto notificato in data 4 dicembre 2023 la dott.ssa Er. Pa. ha impugnato la sentenza del Tar Toscana, sezione IV, n. 945 del 18 ottobre 2023 con cui è stato respinto il ricorso proposto per l'annullamento: - del provvedimento di mancata iscrizione, in favore di parte appellante, ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia a.a. 2022/2023, in relazione ai posti resi disponibili giusto decreto-bando dell'Università degli Studi di Siena denominato "Corso di laurea in Medicina e chirurgia Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023"; - del decreto di approvazione atti e della graduatoria definitiva degli ammessi ad anni successivi al primo al corso di laurea magistrale a ciclo unico in medicina e chirurgia, emanate con Decreto Rettorale prot. 38971 del 21 febbraio 2023, per il III anno di corso, per il IV anno di corso, per il V anno di corso, nella parte in cui non collocano parte appellante in posizione utile alla iscrizione, nonché, ove occorra, di tutti i provvedimenti in essa richiamati e/o menzionati, nonché dei successivi scorrimenti delle graduatorie predette; - della omessa e/o errata valutazione della domanda di partecipazione della appellante alla procedura concorsuale riferita all'ammissione al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, e/o, comunque, a quella del III o V anno; - del decreto-bando, emanato dal Rettore dell'Università indicata in epigrafe, relativo alle procedure di ammissione ad anni successivi al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia a.a. 2022/2023, nonché, ove occorra, di tutti i provvedimenti in esso richiamati e/o menzionati ovvero delle pregresse relative delibere, ancorché non conosciute, adottate dagli organi accademici competenti; - dei criteri di valutazione delle candidature e dei curricula adottati dall'Ateneo ai fini della predisposizione della graduatoria finale per l'accoglimento o meno delle istanze di iscrizione in questione, nonché di tutti i relativi atti ed i verbali; - della valutazione delle istanze da parte della Commissione all'uopo nominata, nonché di tutti i relativi atti ed i verbali, ivi compresi quelli oggetto di ostensione da parte dell'Università di Siena, giusta nota 2023-UNSISIE-0069989 dell'11 aprile 2023 e, segnatamente, dei verbali della Commissione per l'esame delle domande pervenute per l'accesso agli anni successivi al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia (a.a. 2022-2023) nominata dal Comitato per la didattica nella seduta del 17 novembre 2022: 1. Verbale del 19 dicembre 2022 e relativi allegati; 2. Verbale del 24 gennaio 2023 e relativi allegati; 3. Verbale del 10 febbraio 2023 e relativi allegati; 4. Verbale del 21 marzo 2023 e relativi allegati; - della determinazione dell'Università in epigrafe del numero dei posti per trasferimento e passaggio di sede ad anno successivo al primo, a valere sul corso di laurea in medicina e chirurgia per l'a.a. 2022/2023, degli atti ed i verbali a tale determinazione relativi e dell'istruttoria compiuta a tale riguardo. La domanda di misure cautelari monocratiche è stata respinta con decreto n. 4887 del 5 dicembre 2023. L'Università appellata si è costituita nel presente grado di giudizio con memoria del 27 dicembre 2023, con cui ha chiesto la reiezione dell'appello. Con ordinanza n. 27 del 10 gennaio 2024 la sezione, in considerazione del contenuto della decisione impugnata e del necessario bilanciamento dei diversi interessi, ha fissato l'udienza per la trattazione dell'appello avendo ritenuto che le ragioni fatte valere dall'appellante possano essere efficacemente tutelate attraverso la sollecita definizione del giudizio. In vista della trattazione le parti hanno depositato memorie conclusive. Con atto depositato il 15 maggio 2024 l'amministrazione ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 21 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Oggetto del giudizio è il mancato inserimento dell'appellante, in qualità di candidata già laureata in odontoiatria, nella graduatoria per l'iscrizione al quarto anno del corso di medicina e chirurgia presso l'Università degli studi di Siena per l'anno accademico 2022/2023, in posizione utile per potersi immatricolare, avendo conseguito un punteggio che non la colloca nei primi sei classificati, corrispondenti ai posti disponibili per il quarto anno. Unitamente alla graduatoria, la ricorrente in primo grado ha impugnato anche una serie di atti che, a suo dire, per ragioni di metodo e di merito, avrebbero condizionato negativamente la compilazione della graduatoria. La premessa che precede e l'elencazione degli atti impugnati è essenziale per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per sgombrare il campo da possibili equivoci indotti da alcuni atti depositati e da varie argomentazioni difensive. Rileva il Collegio, infatti, che l'appellante ha depositato nel presente grado di giudizio un documento (doc. B), che indica essere il ricorso di primo grado: tale atto, tuttavia, firmato digitalmente in data 23 ottobre 2024, non corrisponde né per contenuto né per data, al ricorso introduttivo del presente giudizio essendo un ricorso che la parte (verosimilmente) ha proposto o aveva intenzione di proporre al Tar Toscana incardinando un ulteriore giudizio, avente il diverso oggetto concernente il riconoscimento della carriera di provenienza della ricorrente, di cui al provvedimento adottato dal Comitato per la didattica del corso di laurea specialistica/magistrale in medicina e chirurgia dell'Università degli studi di Siena, al relativo verbale recante prot. n. 0155921 del 2 agosto 2023 ed atti successivi. Il contenuto di tale impugnazione non risulta trasfuso nel presente giudizio mediante la proposizione di motivi aggiunti, sicché la tematica del riconoscimento della carriera di provenienza della appellante e della convalida degli esami sostenuti nel corso di laurea in odontoiatria è estranea al thema decidendum. Tali atti successivi, peraltro, in quanto non impugnati nel presente giudizio, assumono comunque rilevanza ai fini della decisione del presente contenzioso. 3. Chiarito e definito l'ambito del giudizio, devono essere riportate le vicende fattuali della presente controversia. L'appellante ha presentato istanza per l'iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia per l'anno accademico 2022/2023, indetta con decreto-bando dell'Università degli studi di Siena denominato "Corso di laurea in Medicina e chirurgia Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023", chiedendo l'iscrizione al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, in quanto studentessa già laureata in odontoiatria e protesi dentaria (conseguita presso l'Università degli studi di Perugia nel 2006) e, pertanto, in ragione del possesso di CFU sufficienti ad ottenere l'immatricolazione richiesta. Nella procedura di iscrizione al IV anno ella ha ottenuto il riconoscimento di 75 punti (a suo dire errati in difetto), calcolati sulla base del criterio e del coefficiente stabilito dall'art. 4, lett. B, del bando, posizionandosi in graduatoria in posizione non utile ai fini della ammissione al relativo corso di laurea. Quindi, avendo rilevato incongruenze nelle graduatorie (incluse quelle del terzo e del quinto anno) e nella propria valutazione, anche in merito all'applicazione dei criteri dettati dal bando, ha presentato all'Università istanza di accesso agli atti, volta a conoscere tutti gli atti e i verbali della commissione di ateneo all'uopo preposta. L'Università ha fornito riscontro, con nota dell'11 aprile 2023, ostendendo i seguenti verbali: 19 dicembre 2022 e relativi allegati; 24 gennaio 2023 e relativi allegati; 10 febbraio 2023 e relativi allegati; 21 marzo 2023 e relativi allegati. Tali atti, unitamente alle tre graduatorie e agli atti di indizione della procedura (in epigrafe elencati), sono stati impugnati dinanzi al Tar Toscana per i seguenti motivi: I. Illegittimità delle graduatorie del III, IV e V anno di cui all'"Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023" dell'Università di Siena. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione - Violazione e falsa applicazione del Bando dell'Università . Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; II. Illegittimità della valutazione della carriera universitaria di provenienza della ricorrente, con particolare riguardo al punteggio attribuitole nella graduatoria del IV anno. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione del decreto interministeriale del 9 luglio 2009 del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Innovazione. Violazione e falsa applicazione del bando dell'Università . Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; III. Illegittimità delle graduatorie del III, IV e V anno di cui all'"Avviso pubblico per l'accesso agli anni successivi al primo - anno accademico 2022/2023" dell'Università di Siena. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione del bando dell'Università . Violazione e falsa applicazione del verbale della commissione del 24 gennaio 2023 prot. n. 24497 dell'8 febbraio 2023. Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; IV. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Eccesso di potere. Illogicità . Violazione del giusto procedimento; V. Illegittima determinazione del contingente di posti per l'ammissione e/o trasferimento e/o passaggio ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia presso l'Università degli Studi di Siena a.a. 2022/2023. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 33, 34 e 97 della costituzione. Violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 264/1999. Violazione e falsa applicazione dell'art. 6 ter del decreto legislativo n. 502/1992. Eccesso di potere. Illogicità . Sviamento per carente od insufficiente motivazione. Violazione del giusto procedimento per carenza di adeguata attività istruttoria. Eccesso di potere. Illogicità e contraddittorietà . Il Tar Toscana con ordinanza n. 179 del 25 maggio 2023 ha accolto l'istanza cautelare, disponendo l'ammissione con riserva della ricorrente al quarto anno del corso di medicina e chirurgia, anche in sovrannumero, con la seguente motivazione: "Considerato che ad un primo esame della fase cautelare appare fondato il primo motivo del ricorso nella parte in cui si deduce la violazione del bando laddove si è previsto che dovevano essere "ammessi alla graduatoria dell IV° anno coloro il cui punteggio calcolato secondo quanto previsto al precedente punto b) sia compreso tra 71 e 105 CFU"; Ritenuto che la previsione del possesso dell'ulteriore requisito delle iscrizioni agli anni precedenti, appare alla base del mancato rispetto delle soglie e degli scaglioni di CFU ai fini dell'inserimento della graduatoria di ciascun anno; Rilevato che, nel contemperamento dei diversi interessi coinvolti, appare prevalente l'interesse a consentire l'immatricolazione, con riserva e in caso anche in sovrannumero della ricorrente, al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia presso l'Università in epigrafe". L'Università di Siena, quindi, in esecuzione dell'ordinanza, ha disposto l'iscrizione dell'appellante al IV anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, con conseguente inserimento della stessa nel percorso formativo di Ateneo. Tuttavia, con sentenza n. 945 del 18 ottobre 2023, il Tar ha respinto il ricorso e, di conseguenza, l'Università di Siena, con decreto rettorale prot. 206848 del 3 novembre 2023, ha disposto l'annullamento dell'iscrizione al corso di laurea in medicina e chirurgia della appellante. 4. Le motivazioni poste alla base della suindicata sentenza possono così schematizzarsi: - sono infondati i primi due motivi con i quali si sostiene che la graduatoria sarebbe illegittima, in quanto contrastante con le prescrizioni del bando e, ciò, in conseguenza dell'introduzione da parte della commissione di un nuovo sottocriterio, non previsto dallo stesso bando, che avrebbe impedito alla ricorrente di essere in posizione utile per essere iscritta al quarto anno del corso di laurea in medicina, in quanto, sebbene "È la stessa Università di Siena ad ammettere che la Commissione ha integrato i criteri del bando prevedendo che, oltre ad essere in possesso dei CFU sopra citati, i candidati dovevano essere iscritti agli anni precedenti a quello nel quale intendevano concorrere", "Ad un più attento esame questo Tribunale ritiene che, malgrado una non chiarissima previsione del bando, la Commissione non avrebbe potuto che applicare il criterio sopra descritto" atteso che il decreto ministeriale del 16 marzo 2007 "prevede che il corso di Laurea in medicina ha una durata pari a sei anni e, in quanto tale, non è suscettibile di essere ridotto ad un numero di anni inferiore", quindi quello contestato "non è suscettibile di essere qualificato quale un "nuovo" criterio, in quanto la Commissione si è limitata ad applicare la disciplina vigente, meglio precisando quanto già contenuto (in modo forse non del tutto intellegibile) nel bando di concorso nella normativa vigente e, ciò, nell'intento di evitare l'abbreviazione della durata del corso di laurea a ciclo unico di Medicina e Chirurgia, avente necessariamente una durata legale di almeno 6 anni"; - "Analoghe considerazioni possono essere estese con riferimento alla conversione dei voti dei candidati provenienti dalle Università straniere che non adottano il sistema in 30esimi, laddove la Commissione ha previsto che, per il calcolo della relativa media, venissero utilizzate le apposite tabelle di conversione allegate al Decreto Direttoriale n. 909 del 2002"; - non è condivisibile l'argomentazione diretta ad affermare che la commissione avrebbe dovuto attribuire alla ricorrente 360 CFU in luogo dei 300 riconosciuti nella valutazione del corso di laurea in odontoiatria (secondo motivo di ricorso), atteso che la valutazione della commissione è stata posta in essere in applicazione del DM n. 583 del 24 giugno 2022 laddove prevede che il giudizio sia strettamente attinente al percorso formativo compiuto dallo studente e che, in ogni caso, non risulta superata la prova di resistenza in quanto, anche laddove alla ricorrente fossero stati riconosciuti i 360 CFU richiesti, ella avrebbe raggiunto un punteggio di 90 (calcolato sempre con il criterio e il coefficiente di cui all'art. 4, lett. B, del bando, comunque non sufficiente a collocarsi nei primi 6 posti; - è infondato il terzo motivo, con il quale si sostiene che sarebbe illegittimo il criterio previsto dalla commissione secondo il quale non potevano essere conteggiati due volte i CFU in caso di presentazione di più carriere da parte di uno studente avendo invece la commissione precisato che in caso di "candidati che abbiano presentato più carriere non sono conteggiati i CFU che risultano chiaramente convalidati dalla carriera pregressa presentata a favore di quella più recente", così evitando di conteggiare due volte gli stessi CFU; - attengono all'esercizio di un potere discrezionale le censure contenute nel quarto e nel quinto motivo con le quali si è contestata l'attribuzione di un coefficiente di 0,25 per la laurea in odontoiatria e, ancora, il numero dei posti messi a concorso dall'amministrazione, essendo congruo il coefficiente "in quanto la commissione ha valutato un percorso di laurea secondo il vecchio ordinamento (quale è quello conseguito dalla ricorrente), corso che non appartiene alla classe di laurea di Medicina e Chirurgia, ma ad una classe di laurea diversa" ed avendo il decreto ministeriale n. 583 del 24 giugno 2022, nel chiarire le modalità concrete con le quali gli atenei devono calcolare i posti disponibili per ciascun anno di corso, escluso la possibilità di iscrivere gli studenti oltre i posti disponibili vietando, altresì, le iscrizioni in sovrannumero. 5. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. 1) Con il primo motivo la sentenza impugnata è censurata per contraddittorietà fra la motivata soluzione adottata in cautelare e la poco motivata soluzione adottata nella decisione di merito, sia con riferimento alla violazione delle regole del bando per quanto riguarda il range di punteggio previsto per l'inserimento in ciascuna graduatoria, sia per l'illegittima introduzione del criterio aggiuntivo da parte della commissione, consistente nel richiedere che i candidati "abbiano almeno 2 anni di iscrizioni pregresse in altro o altri corsi di laurea", per l'iscrizione al terzo anno, ovvero 3 anni per l'iscrizione al quarto anno e 4 anni per l'iscrizione al quinto anno. Lamenta che l'introduzione di tale ulteriore criterio, non indicato nel bando, avrebbe completamente falsato le graduatorie, in quanto avrebbe svilito e disapplicato le soglie e gli scaglioni di CFU per l'ingresso nella graduatoria di un anno piuttosto che in quella di un altro anno. 2) Con il secondo motivo lamenta che la valutazione della sua carriera pregressa e il punteggio attribuitole dalla commissione sarebbe errato, poiché in contrasto con il decreto interministeriale del 9 luglio 2009 del Ministro dell'istruzione dell'università e della ricerca di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Innovazione, il quale all'allegato 1, recante la tabella di equiparazione, stabilisce che la laurea in odontoiatria e protesi dentaria di cui al vecchio ordinamento (52/S Odontoiatria e protesi dentaria) è equiparata a quella del nuovo (LM-46 Odontoiatria e protesi dentaria), la quale ultima prevede un numero di crediti formativi universitari (CFU) pari a 360, come peraltro risulta dalla attestazione del sito dell'Università di Perugia, depositata in atti. Quindi ritiene che quale base di calcolo per il coefficiente moltiplicatore, si sarebbe dovuto assumere il numero di CFU pari a 360 e non 300, come erroneamente avrebbe fatto la commissione. Censura pertanto quanto deliberato dalla commissione nel verbale del 24 gennaio 2023 in cui si legge: "La Commissione, seguendo le indicazioni del detto avviso pubblico e i criteri per l'esame delle domande valide declinati nella seduta del 19 dicembre 2022, precisa inoltre quanto segue: - i candidati laureati nei corsi di laurea appartenenti a ordinamenti nei quali non erano previsti CFU ma solo annualità sono valutate per 60 CFU per ciascun anno della durata legale del corso al momento del conseguimento del titolo". Tale criterio di valutazione (che ha determinato la riduttiva valutazione dei CFU) sarebbe illegittimo sia perché introduce un criterio di valutazione non previsto dal bando, sia perché contrasta con il richiamato decreto interministeriale. 3) Con il terzo motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondato il terzo motivo facendo rilevare che, diversamente da quanto erroneamente interpretato dal Tar, la censura formulata in primo grado riguardava non il criterio (secondo cui chi avesse più lauree non poteva far valere CFU già conteggiati in ragione della prima laurea) in sé, bensì la violazione del suddetto criterio evidenziando che, quanto meno per i concorrenti individuati specificamente nel ricorso, la commissione avrebbe conteggiato per due volte gli stessi CFU. Sostiene che tali candidati, in virtù del sistema di calcolo (moltiplicatore) del punteggio dei CFU previsto dal bando, sarebbero stati avvantaggiati avendo visto considerata una duplicazione delle proprie carriere. 4) Con il quarto motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui avrebbe, a suo dire, liquidato sbrigativamente il quarto motivo di ricorso, sulla scorta della discrezionalità di cui gode la commissione (rectius l'amministrazione). Osserva che la censura, in questo caso, riguardava l'illogicità del coefficiente moltiplicatore indicato dal bando per la laurea in odontoiatria e protesi dentaria. Sostiene che il coefficiente di 0, 25 sarebbe: - riduttivo perché non terrebbe conto che il corso di odontoiatria ha il primo biennio, praticamente, in comune con il percorso di medicina; - illogico perché ha posto sullo stesso piano (indicando lo stesso coefficiente) percorsi di laurea che, invece, sono molto differenti (biotecnologie, scienze biologiche, magistrali in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche, magistrali in psicologia) senza tener conto del fatto che tali ultimi percorsi di laurea hanno una evidente inferiore affinità (in termini di compatibilità di esami) rispetto a quello di odontoiatria; - sproporzionato rispetto allo stesso corso di medicina, ai cui candidati richiedenti trasferimento è stato assegnato un coefficiente moltiplicatore pari a 1,00 (ciò anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei candidati istanti risultava essere proveniente da università straniere, il cui percorso formativo non è propriamente sovrapponibile a quello italiano). Infine osserva che tale criterio di valutazione delle domande è stato introdotto, per la prima volta, nel corrente anno accademico e nella selezione per cui è causa mentre in precedenza, come si evince anche dal bando dell'anno precedente presso il medesimo ateneo (depositato in atti), era stato utilizzato il più equo criterio di conteggio dei CFU corrispondenti agli esami sostenuti nel piano degli studi di ciascun candidato, senza prevedere l'applicazione di alcun coefficiente moltiplicatore. 5) Con il quinto motivo l'appellante censura la sentenza nella parte in cui ha respinto il motivo concernente l'illegittima determinazione dei posti disponibili che sarebbe stata effettuata in carenza di istruttoria. 6. Le difese dell'amministrazione poggiano essenzialmente sulla tesi, accolta dal Tar, che la commissione non avrebbe introdotto alcun nuovo criterio ma si sarebbe limitata a specificare il portato di una disciplina sovraordinata che, in mancanza di intervento della commissione, avrebbe comunque comportato l'eterointegrazione del bando, osservando che il decreto del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca n. 583 del 24 giugno 2002, all'allegato 12, quanto all'iscrizione agli anni successivi al primo, dispone che: "agli atenei è consentito di procedere all'iscrizione dei candidati collocati in posizione utile in graduatoria ad anni successivi al primo esclusivamente a seguito del riconoscimento dei relativi crediti e delle necessarie propedeuticità previste dai regolamenti di corso di studio di Ateneo" e l'art. 32 del regolamento dell'ateneo di Siena prevede che il corso di laurea in medicina e chirurgia non può essere abbreviato, sicché correttamente la commissione avrebbe previsto che per l'ammissione agli anni successivi è necessario acquisire, oltre che il numero dei crediti previsti dal bando, anche i precedenti anni di iscrizione e, quindi, gli esami compiuti. Fa presente che, come dimostrato nel corso del primo grado di giudizio, la non applicazione del suddetto criterio avrebbe comportato, per tornare all'ipotesi invocata dall'appellante, che il primo candidato in posizione utile nella graduatoria del quarto anno, con un punteggio di 191,5 (derivante dai CFU conseguiti in 3 anni di iscrizione nel corso di laurea in medicina e chirurgia), sarebbe stato inserito nella graduatoria del quinto anno e iscritto a tale annualità di corso, ottenendo illegittimamente ed in spregio alla normativa vigente in materia una abbreviazione del corso di laurea in medicina e chirurgia, frequentando un anno in meno rispetto a quanto previsto a livello comunitario. In ordine all'asserita erroneità della valutazione, effettuata della commissione, della carriera di provenienza della appellante, poiché considerata contrastante rispetto a quanto prescritto dal decreto interministeriale del 9 luglio 2009, ribadisce che l'appellante non ha dimostrato in giudizio il superamento della prova di resistenza. In ogni caso ricorda che l'equiparazione di cui al citato decreto interministeriale è prevista ai soli fini dell'accesso ai pubblici concorsi, mentre in questo caso si tratta dell'ammissione di uno studente alla frequenza delle attività didattiche di un corso di laurea, per le quali si deve applicare quanto prescritto dal decreto ministeriale n. 583 del 24 giugno 2022. La correttezza dell'operazione effettuata dalla commissione sarebbe, peraltro, confermata dalle determinazioni assunte dal Comitato della didattica di ateneo del 22 giugno 2023 e del 17 agosto 2023 (atti depositati nel fascicolo di primo grado), con cui l'organo a ciò espressamente preposto, nel ricostruire la carriera della ricorrente in sede di iscrizione al quarto anno, le ha riconosciuto integralmente solo due degli esami sostenuti nel corso di laurea in odontoiatria, stanti le differenze formative e di ordinamento didattico del corso di studi di odontoiatria vecchio ordinamento rispetto a quello di medicina, così come precisate dai rispettivi decreti ministeriali di riferimento. Contesta, alla luce dei documenti prodotti, la circostanza, peraltro non provata, secondo cui la commissione avrebbe effettuato una valutazione multipla delle carriere dei candidati. In ogni caso rileva che la censura dell'appellante su questo punto sarebbe anche inammissibile non essendo stato provato in giudizio il vantaggio in graduatoria che l'appellante avrebbe potuto conseguire ove fosse stato espunto tale criterio. Osserva che il coefficiente di 0,25 attribuito al corso di laurea in odontoiatria sarebbe coerente con la normativa universitaria di riferimento, attese le indubbie ed evidenti differenze formative dei due corsi di laurea di cui si discute. 7. Nelle memorie conclusive (conclusionale e replica), l'appellante ha sostanzialmente ripetuto le stesse argomentazioni più volte formulate, fra le quali merita di essere segnalata la specificazione, relativa alla censura riguardante la duplicazione di valutazione di CFU asseritamente effettuata dalla commissione per alcuni candidati. Osserva l'appellante che, nella memoria dell'amministrazione depositata in primo grado si legge (pag. 13) che: "Invero, la Commissione espletando il suo potere/dovere di predeterminazione dei criteri da seguire nel valutare le domande ha precisato che in caso di "... candidati che abbiano presentato più carriere non sono conteggiati i CFU che risultano chiaramente convalidati dalla carriera pregressa presentata a favore di quella più recente". (vedi al proposito all.8). In pratica, la Commissione, attenendosi a tale criterio, ha correttamente proceduto a valutare ai fini del punteggio da attribuire tutti i CFU conseguiti dagli studenti nelle diverse carriere universitarie nel frattempo sostenute; essa ha ritenuto, quindi, maggiormente garantista ed equo effettuare un conteggio pieno e completo solo ove non fosse evidente e/o non dichiarato dallo stesso candidato che i CFU conseguiti nella vecchia carriera fossero stati riconosciuti anche nella carriera più recente da parte dell'Ateneo di ultima iscrizione, e ciò al fine di evitare di conteggiare doppiamente lo stesso sforzo compiuto da uno studente per l'ottenimento dei medesimi CFU. Al contrario, nei casi in cui tale evidenza non si evincesse dalla domanda di partecipazione, la Commissione ha considerato, in virtù di un principio generale di favor, che la più recente acquisizione di CFU rappresentasse uno sforzo effettivo dello studente; tale criterio era necessario a fronte della non rara evenienza di ripetizione di un esame, dal momento che ciascuno Ateneo ha piena autonomia nelle modalità di convalida degli esami, soprattutto in un contesto in cui spesso si tratta di Atenei appartenenti a sistemi universitari nazionali ed esteri, con ordinamenti didattici eterogenei e talvolta anche molto diversi fra loro". Quindi l'appellante evidenzia che l'Università avrebbe ammesso che è stata considerata la doppia carriera, a meno che non fosse espressamente dichiarato dal candidato una duplicazione dello stesso esame nei due o più percorsi: ipotesi che ritiene inverosimile. Ciò posto denuncia, ancora una volta, il travisamento del motivo da parte del Tar, l'erroneità della sentenza e l'illegittimità, in via ulteriore, delle graduatorie. 8. Seguendo l'ordine logico, in luogo dell'ordine impresso dall'appellante alle censure, il Collegio ritiene di dover esaminare per primo il quarto motivo con cui è dedotta l'illogicità del coefficiente moltiplicatore di 0,25 indicato dal bando per la laurea in odontoiatria e protesi dentaria. Innanzitutto va osservato che non è dirimente la circostanza che nei bandi degli anni precedenti tale criterio non fosse previsto: non appare illegittima (né peraltro ne è dedotta l'irragionevolezza) l'introduzione nel bando di tale coefficiente moltiplicatore, dal momento che l'amministrazione può discrezionalmente introdurre criteri di calcolo o di valutazione, purché non manifestamente errati o irragionevoli. Nel caso di specie da una parte tale scelta non appare irragionevole e, dall'altra, l'appellante non ha evidenziato come tale coefficiente, peraltro applicato uniformemente a tutti i candidati della medesima provenienza, l'avrebbe penalizzata, essendosi limitata ad argomentazioni generiche e di principio. Quanto alla scelta del coefficiente deve rilevarsi che si tratta di quello più alto, dopo quello di 1, attribuito soltanto ai candidati provenienti dal corso di medicina, ed è attribuito in modo uniforme a discipline che, evidentemente, sulla base dei rispettivi piani di studio, sono state non irragionevolmente ritenute di pari attinenza (biotecnologie, scienze biologiche, magistrali in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche, magistrali in odontoiatria e protesi dentaria, magistrali in psicologia) ma comunque di maggiore vicinanza al corso di medicina rispetto ad altre discipline sanitarie, cui però è stato attribuito il minore coefficiente 0,10 (scienze delle attività motorie, scienze e tecniche psicologiche, scienze e tecnologie farmaceutiche, professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica, professioni sanitarie della riabilitazione, professioni sanitarie tecniche, professioni sanitarie della prevenzione, magistrali biologia, magistrali in farmacia e farmacia industriale, magistrali in ingegneria biomedica, magistrali in medicina veterinaria, magistrali in scienze della nutrizione umana, lauree magistrali nelle scienze infermieristiche e ostetriche, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie della riabilitazione, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie tecniche, magistrali nelle scienze delle professioni sanitarie della prevenzione). Anche la circostanza che il coefficiente 1 sia stato previsto soltanto per i candidati provenienti dal corso di medicina non appare illegittimo, non essendo irragionevole dare precedenza, verosimilmente anche per ragioni di continuità didattica, a chi provenga da altri atenei e stia già seguendo tale corso di laurea. 9. Sempre in ordine logico va esaminato il secondo motivo, con cui l'appellante lamenta l'errata attribuzione in suo favore di 300 CFU e non di 360, come previsto nel decreto interministeriale del 9 luglio 2009. Il motivo è infondato atteso che, come rilevato dalla difesa dell'amministrazione, tale decreto ha ad oggetto le "Equiparazioni tra diplomi di lauree di vecchio ordinamento, lauree specialistiche (LS) ex decreto n. 509/1999 e lauree magistrali (LM) ex decreto n. 270/2004, ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi". Il suddetto decreto, pertanto, sarebbe potuto essere assunto come base di riferimento ma non può considerarsi obbligatorio nei confronti dell'ateneo senese, con riferimento ad una procedura che non riguarda la partecipazione ad un concorso pubblico ma che disciplina l'accesso ad un corso di laurea: nel predisporre tale disciplina l'ateneo, nell'ambito della propria autonomia, può fissare e, nel caso di specie, ha fissato un diverso criterio, valido per tutti i candidati già laureati, attribuendo 60 CFU a ciascun anno del corso di laurea concluso dal candidato. Sotto tale profilo gli atti impugnati si presentano immuni da vizi. D'altra parte non può sottacersi la circostanza, posta in luce anche nella sentenza impugnata, che l'appellante, anche se le fossero stati riconosciuti 360 CFU, avrebbe conseguito un punteggio di 90, comunque insufficiente per collocarsi utilmente in graduatoria. 10. A seguire va esaminato il terzo motivo con cui l'appellante, censurando la sentenza, lamenta la violazione da parte della commissione del criterio autoimpostosi di non conteggiare per due volte gli stessi CFU. L'appellante ha indicato, nel dettaglio, i codici di alcuni candidati che sarebbero stati avvantaggiati da tale doppio conteggio. Il motivo è infondato. Nella documentazione in atti è presente una scheda che elenca le domande in cui la commissione ha semplicemente riportato quanto dichiarato dai candidati; invece, esaminando le graduatorie, è possibile rilevare che, dei codici indicati dall'appellante, soltanto 4 risultano inseriti in una graduatoria e, segnatamente, nella graduatoria del quarto anno, quella di interesse della dottoressa Pa. (ossia il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223325, il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223989, il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0223322 e il candidato n. protoc. 2022-UNISISIE-0226222, i quali tuttavia, al pari dell'appellante, sono tutti collocati in posizione non utile). Ne discende che è palese l'inammissibilità della censura dal momento che, anche escludendo i suddetti candidati, l'appellante comunque non si collocherebbe in posizione utile per immatricolarsi, ossia fra i primi sei. Quanto precede, priva di rilevanza il richiamo fatto dall'appellante alle difese dell'amministrazione, con le quali, a suo dire, la stessa avrebbe ammesso che in alcuni casi vi sia stata duplicazione nella valutazione dei CFU. A prescindere dal rilevo che le affermazioni del difensore dell'ateneo sono espresse in forma meramente ipotetica, è dirimente la circostanza che non risulta provato in concreto quale delle valutazioni della commissione possa aver vulnerato la posizione della ricorrente. 10. Quanto al primo motivo, il Collegio ne rileva innanzitutto l'inammissibilità per carenza di interesse. Va osservato che la dottoressa Pa. non è stata esclusa dalla graduatoria perché, in ipotesi, priva del requisito dell'iscrizione ad anni precedenti; al contrario è stata collocata in graduatoria ma in posizione non utile per insufficienza del punteggio per collocarsi bei primi sei posti. Il suddetto criterio, che l'appellante qualifica illegittimo perché non previsto nel bando, non l'ha in concreto danneggiata, quindi ella non ha interesse a censurarlo. Ciò posto deve anche rilevarsi che la commissione ha specificato espressamente un criterio che, comunque, avrebbe eterointegrato il bando, dal momento che l'art. 32 del regolamento dell'ateneo di Siena prevede che il corso di laurea in medicina e chirurgia non può essere abbreviato. Detta previsione si pone in linea con l'allegato 1 al decreto del Ministero dell'università e della ricerca del 16 marzo 2007, recante "Determinazione delle classi di laurea magistrale", il quale prevede che per la facoltà di medicina e chirurgia sono necessari 6 anni e 360 CFU (60 x anno) di cui 60 acquisiti in attività formative volte alla maturazione di specifiche capacità professionali (cfr. pag. 115 della Gazzetta ufficiale della Repubblica del 9 luglio 2007, n. 157). La regola, va osservato, non è assoluta in quanto in altri atenei è possibile ottenere l'abbreviazione del corso di laurea: per esempio nel "Regolamento per la frequenza dei corsi di laurea e laurea magistrale e contribuzione studentesca" dell'università di Roma "La Sapienza" è previsto all'art. 49, al comma 1 che "1. E' possibile ottenere una abbreviazione di corso a seguito di passaggio ad altro Corso di studio della Sapienza (art. 10), a seguito di trasferimento da altra Università (art. 44), a seguito di riconoscimento esame dopo rinuncia agli studi (art. 48), a seguito di riconoscimento esami dopo la decadenza (art. 34), a seguito di un cambio di ordinamento (art. 38), all'atto di una nuova iscrizione al primo anno di corso, per chi risulta già in possesso di un titolo di studio italiano o estero o, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo, per chi ha terminato un Master o un Corso di perfezionamento. Per questi ultimi due casi sono riconoscibili massimo 12 Cfu" e al comma 5: "Valutazione del percorso formativo e variazione dell'anno di corso. La valutazione della carriera ai fini del riconoscimento dei crediti è effettuata sull'intero percorso formativo pregresso, fatte salve eventuali disposizioni delle strutture didattiche. La struttura didattica del corso, dopo la valutazione della carriera pregressa, definirà l'anno di corso a cui ci si potrà iscrivere, in base al numero di esami riconoscibili e la Segreteria amministrativa effettuerà la variazione". Tanto chiarito in ordine alla carenza di interesse dell'appellante a dolersi del criterio in questione, che non l'ha affatto danneggiata, per completezza deve comunque osservarsi che, così come risultante dalla integrazione operata dalla commissione, il bando risulta piuttosto oscuro e intrinsecamente contraddittorio. Invero, se si ammette, come previsto nel bando, che possa accedere direttamente al terzo, al quarto o al quinto anno di corso, un candidato in possesso di un'altra laurea, implicitamente si esclude (e non potrebbe essere diversamente) che costui sia già iscritto ad un corso di medicina: chiedendo dunque, in aggiunta, anche la pregressa iscrizione a medicina per due, tre o quattro anni, si finirebbe per consentire l'accesso soltanto a candidati già iscritti a medicina, provenienti da altri atenei, italiani o stranieri. Ma, nel bando, così non è . D'altra parte, ammettere, come è previsto nel bando, che un candidato possa accedere al terzo, al quarto o al quinto anno di medicina, perché in possesso di un diploma di laurea i cui CFU siano sufficienti per l'immatricolazione, significa implicitamente consentire (e non potrebbe essere diversamente) che il corso di studi di 6 anni possa essere abbreviato. Dunque è evidente l'aporia rilevabile nel bando, come predisposto dall'Università di Siena e integrato dalla commissione. Pertanto, se lo scopo che l'Università si prefigge di raggiungere, è quello di evitare che lo studente che si iscriva ad anni successivi abbia una preparazione non conforme al percorso di studi che tutti gli studenti di medicina hanno seguito negli anni precedenti, il vincolo da imporre, a parere di questo Collegio, non è quello del numero di anni, bensì quello del numero e del tipo di esami già proficuamente sostenuti nel corso di laurea di provenienza. Non a caso, nella valutazione successiva (la cui tematica è estranea al perimetro di questo giudizio) la commissione ha riconosciuto all'appellante soltanto due degli esami sostenuti nel corso di odontoiatria, vecchio ordinamento: a parere del Collegio questo è il dato da esigere e valorizzare ai fini dell'ammissione ad anni successivi. Il dato numerico è di per sé insignificante, dal momento che chi ha concluso un altro corso di laurea ha certamente svolto, all'interno della struttura universitaria, un numero di anni che, sommato a quelli che andrà a svolgere immatricolandosi al terzo, al quarto o al quinto anno di medicina, coprirà comunque e senza ombra di dubbio i sei anni di corso fissati per la facoltà di medicina. Chiusa questa digressione in punto di metodo, quanto alla doglianza che investe la contraddittorietà nella decisione del Tar laddove, nella sentenza appellata, ha manifestato un orientamento opposto a quello manifestato in sede cautelare, il Collegio deve ricordare che la fase cautelare per sua natura comporta provvedimenti giurisdizionali non definitivi, emanati con riserva di accertamento della fondatezza nel merito, con l'evidente finalità di evitare che la pendenza del giudizio pregiudichi la parte vittoriosa all'esito del processo. Questi provvedimenti dunque sono interinalmente subordinati alla verifica definitiva della fondatezza della tesi del ricorrente e i definitivi effetti di carattere sostanziale conseguono solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea a conformare con effetti permanenti la realtà giuridica interinalmente cristallizzata dal provvedimento cautelare del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448). Da ciò discende che il provvedimento interinale per definizione non può che essere provvisorio e prodromico alla pronuncia che chiude il giudizio (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. II, 13 agosto 2019, n. 5711). Non a caso le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084 e sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847). Un provvedimento di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo si limita ad impedire temporaneamente e con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l'atto ad ulteriore esecuzione e, per questo, è inevitabilmente connesso alla conclusione del giudizio. Quindi gli effetti di carattere sostanziale possono conseguire solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito, che è la sola idonea a rimuovere dalla realtà giuridica l'atto con effetti permanenti ovvero a confermarla (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2019 n. 4461). Sotto il profilo sistematico, poi, la inconfigurabilità di un giudicato cautelare è direttamente dimostrata anche dall'art. 21 septies della legge 241/1990, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l'atto che viola o elude il giudicato sulla sentenza e non anche della pronuncia del giudice che non abbia ancora il carattere della definitività come la pronuncia cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004). Dai principi fin qui declinati emerge con chiarezza come la decisione definitiva non sia in alcun modo condizionata da quella assunta in sede cautelare la quale, infatti, non produce effetti sostanziali, stante la sua naturale interinalità . La possibile divergenza fra decisione cautelare e decisione di merito, lungi dall'essere sintomo di contraddittorietà, è semmai la conferma, ove mai ve ne fosse necessità, di come l'esame approfondito del merito della vicenda dedotta in giudizio possa dar luogo ad un esito diverso da quello conseguente ad una cognizione meramente sommaria (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 10 maggio 2024, n. 4222). 11. Infine, solo per completezza, trattandosi di censura che l'appellante ha sostanzialmente abbandonato, non avendola ribadita nelle memorie conclusive, è inammissibile per genericità il quinto motivo, con cui si lamenta il presunto difetto di istruttoria nella determinazione, da parte dell'ateneo, dei posti disponibili. Osserva il Collegio che l'appellante non ha indicato in alcun modo in cosa consista il lamentato difetto di istruttoria né quali verifiche ulteriori l'ateneo avrebbe in ipotesi dovuto effettuare, onde pervenire ad un numero di posti superiore; fermo restando il rilievo che l'appellante è collocata in graduatoria in posizione piuttosto deteriore, sicché è difficile perfino ipotizzare che, con una istruttoria più approfondita, i posti potessero essere portati da 6 sei a circa 150, fino a raggiungere i candidati con punteggio pari a quello dell'appellante. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 12. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate tenuto conto della novità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.Pi. nato a S il (Omissis) avverso la sentenza del 21/02/2023 della Corte di appello di Bari Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le note di udienza depositate dalla difesa. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza emessa in data 1 febbraio 2022 dal Tribunale di Foggia, che condannava Ma.Pi. per i reati di maltrattamenti nei confronti della compagna convivente, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e danneggiamento, riduceva la pena applicata all'imputato ad anni quattro e mesi tre di reclusione, confermando nel resto. 2. Avverso la sentenza ricorre per Cassazione l'imputato, deducendo, come unico motivo, la violazione di legge e i vizi di motivazione in relazione alla mancata motivazione sugli aumenti di pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2.Le Sezioni Unite, con sentenza n. 47127 del 24/06/2021, hanno statuito che, in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01). In quella sede, il Massimo Consesso ha, altresì, precisato che il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena deve essere correlato all'entità degli stessi, nonché tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall'art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene. 3.Nel caso in esame, la Corte territoriale ha fatto buon governo del dato normativo e dei principi richiamati. In particolare, sul presupposto che si tratta di fatti delittuosi realizzati nell'ambito di un unico disegno criminoso, evidenziata la loro oggettiva gravità, richiamati i criteri di cui all'art. 133 cod. pen., nonché indicate le ragioni per la determinazione della pena base in anni quattro e mesi tre di reclusione determinata partendo dalla pena base per il delitto di maltrattamenti (anni tre e mesi sei), la Corte di Appello di Bari ha proceduto ad "aumenti di esigua entità" per i singoli reati satellite, indicandone la precisa misura: mesi cinque di reclusione per il reato di cui al capo b), mesi uno e giorni quindici per il reato di cui al capo c), mesi uno e giorni quindici per il reato di cui al capo d) e, infine, mesi uno per il reato di cui al capo e). Pertanto, alla luce di quanto sopra rilevato, appare pienamente soddisfatto l'onere motivazionale gravante sul giudice del merito. 4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Giudice Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Giudice Dott. DI GIOVINE Ombretta - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.Vi., nato nella Repubblica Dominicana (...) avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Bologna l'11/04/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Simone Perelli, che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile; lette le conclusioni dell'avv.ta Ga.Gi., difensore dell'imputato, che ha insistito per l'accoglimento del motivo di ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza con cui Ma.Vi. è stato condannato per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e furto aggravato. 2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato articolando due motivi. 2.1. Con il primo si deduce la nullità della sentenza di appello per la omessa trasmissione alla Corte delle conclusioni della difesa; la Corte, in particolare, avrebbe avuto a disposizione solo le conclusioni del Pubblico Ministero e non anche quelle della difesa, con gli allegati. 2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla omessa applicazione della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva breve, ex art 20 bis cod. pen., come richiesta dalla difesa nelle conclusioni. 3. È pervenuta una memoria difensiva con la quale si riprendono e si sviluppano ulteriormente gli argomenti posti a fondamento dei motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. È inammissibile il primo motivo. La Corte di cassazione ha già chiarito che l'omessa valutazione delle conclusioni scritte inviate dalla difesa a mezzo PEC ex art. 23-bis d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176, integra un'ipotesi di nullità generale a regime intermedio per lesione del diritto di intervento dell'imputato, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., a condizione che esse abbiano un autonomo contenuto argomentativo volto a sostenere le ragioni del gravame, perché solo in tal caso costituiscono effettivo esercizio del diritto di difesa. (Sez. 6, n. 44424 del 30/09/2022, Manca, Rv. 284004, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la omessa valutazione delle conclusioni da parte della Corte di appello dia luogo ad una irregolarità non invalidante, trattandosi di conclusioni meramente "apparenti"; nello stesso senso, Sez. 2, n. 30232 del 16/05/2023, Naccarato, Rv. 284802). Sul punto nulla di specifico è stato dedotto, non avendo la parte descritto né il profilo ovvero l'argomento dedotto con le conclusioni che non sarebbe stato considerato dalla Corte, e nemmeno spiegato quale sarebbe il pregiudizio in concreto subito. 3. Non diversamente, è inammissibile il secondo motivo di ricorso, essendo chiaramente evincibili, dal complessivo contenuto della sentenza, le ragioni per cui la Corte ha ritenuto di non dover sostituire la pena detentiva. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Giudice Dott. SILVESTRI Pietro - Giudice Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Relatore Dott. DI GIOVINE Ombretta - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Co.Mo., nato in Tunisia (...); avverso la sentenza del 9 gennaio 2023 emessa dalla Corte di appello di Ancona; visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Fabrizio D'Arcangelo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Simone Perelli, che ha chiesto di annullare la sentenza con rinvio limitatamente all'omessa motivazione in ordine alla richiesta di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria; lette le conclusioni dell'avvocato Si.Ma., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la pronuncia impugnata la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza di condanna emessa in data 24 febbraio 2022 all'esito del giudizio abbreviato dal Tribunale di Ancona nei confronti di Co.Mo. per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale commesso in Osimo in data 7 dicembre 2021. 2. L'avvocato An.Ga., difensore dell'imputato, ricorre avverso tale sentenza e ne chiede l'annullamento, deducendo due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo, il difensore deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, alla mancata valutazione della memoria difensiva depositata in data 3 gennaio 2023, e alla conseguente lesione del diritto di difesa di cui all'art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. 2.2. Con il secondo motivo, il difensore censura la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta, formulata dalla difesa con memoria depositata a mezzo posta elettronica certificata in data 3 gennaio 2023, di sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria, ai sensi dell'art. 20-bis cod. pen. 3. Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 9 febbraio 2024, il Procuratore generale, nella persona della dr. Simone Perelli, ha chiesto di annullare la sentenza con rinvio limitatamente all'omessa motivazione in ordine alla richiesta di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ex art. 20-bis cod. pen. Con le conclusioni depositate in data 21 febbraio 2024, l'avvocato Si.Ma. ha chiesto l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto i motivi proposti sono diversi da quelli consentiti dalla legge e, comunque, manifestamente infondati. 2. Con il primo motivo, il difensore deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, alla mancata valutazione della memoria difensiva depositata in data 3 gennaio 2023, e alla lesione del diritto di difesa di cui all'art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. 3. Il motivo è manifestamente infondato. Il ricorrente si duole della genericità della motivazione della sentenza impugnata sul punto del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, ma proprio la censura non reca alcun tratto di specificità, in quanto si risolve nella mera riproposizione di massime della giurisprudenza di legittimità sul punto. È, infatti, inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di ricorso che si risolve nella mera enunciazione dei principi giurisprudenziali (Sez. 4, n. 38202 del 07/07/2016, Ruci, Rv, 267611), non riferiti alla sentenza impugnata e alle risultanze del caso di specie. La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è, del resto, rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell'esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici. Per principio di diritto assolutamente consolidato ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice, dunque, non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (ex plurimis: Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane ed altri, Rv. 248244). Tale obbligo, peraltro, nel caso di specie è stato pienamente assolto, in quanto la Corte di appello ha congruamente motivato il diniego delle attenuanti generiche in ragione dei precedenti penali dell'imputato e dell'assenza di elementi positivi, che sono stati ritenuti prevalenti rispetto alla giovane età dell'imputato e alle sue condizioni di vita disagiate. L'omissione di pronuncia denunciata dal ricorrente è, dunque, insussistente. 4. Con il secondo motivo, il difensore censura la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta, formulata ai sensi dell'art. 20-bis cod. pen., di sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria. 5. Il motivo è inammissibile. In tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen., affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi sulla loro applicabilità come previsto dalla disciplina transitoria contenuta nell'art. 95 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (ed. riforma Cartabia), è necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato, che non dev'essere formulata necessariamente con l'atto di impugnazione o con la presentazione di motivi nuovi ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen., ma deve intervenire, al più tardi, nel corso dell'udienza di discussione del gravame (Sez. 4, n. 4934 del 23/01/2024, Skrzyszewski, Rv. 285751 - 01; Sez. 2, n. 12991 del 01/03/2024, Generali, Rv. 286017-01; Sez. 2, n. 1995 del 19/12/2023 (dep. 2024), Di Rocco, Rv. 285729; Sez. 6, n. 3992 del 21/11/2023, Z., Rv. 285902; Sez. 6, n. 46782 del 29/09/2023, Borazio, Rv. 285564; Sez. 6, n. 33027 del 10/05/2023, Agostino, Rv. 285090 - 01). La richiesta della sanzione sostituita formulata dal difensore nell'interesse del ricorrente è, tuttavia, stata formulata in termini insanabilmente generici e, dunque, inammissibili. Il ricorrente, infatti, nella memoria depositata in data 3 gennaio 2023 non ha neppure allegato la sussistenza dei presupposti specifici per ottenere la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria e l'idoneità delle condizioni patrimoniali del ricorrente ad adempiere, secondo quanto prescritto dall'art. 58, primo comma, della L. 24 novembre 1981, n. 689, in quanto si è limitato a indicare, in modo irrelato rispetto ai presupposti di legge, il "modesto pregiudizio arrecato dei mezzi e/o modalità dell'azione" e "la giovanissima età dell'imputato". Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, il giudice dell'impugnazione non è obbligato a motivare in ordine al mancato accoglimento di istanze, nel caso in cui esse appaiano improponibili per genericità o per manifesta infondatezza (ex plurimis: Sez. 6, n. 20522 del 08/03/2022, Palumbo, Rv. 283268-01; Sez. 5, n. 4115 del 05/03/1999, Tedesco, Rv. 213114 - 01). 6. Alla stregua dei rilievi che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4095 del 2024, proposto dai signori To. Na. e El. Gr., rappresentati e difesi dall'avvocato An. Tr., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore e la Prefettura -Ufficio Territoriale del Governo di Terni (Commissione elettorale circondariale di Terni), in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio; nei confronti il signor Fa. Di Gi., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria, Sez. I, 20 maggio 2024, n. 376, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e della Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Terni (Commissione elettorale circondariale di Terni); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica speciale elettorale del giorno 24 maggio 2024 il Cons. Antonella Manzione e udito per gli appellanti l'avvocato Ri. Ro., su delega dell'avvocato An. Tr.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I signori To. Na. e El. Gr., rispettivamente candidato Sindaco e delegata presentatrice della Lista elettorale "Alternativa per Ar. Na. Sindaco", hanno proposto appello avverso la sentenza segnata in epigrafe con cui è stato respinto il loro ricorso (n. r.g. 234/2024) contro il provvedimento della Commissione elettorale circondariale di Terni (verbale n. 25/CEC/2024 dell'11 maggio 2024) recante la ricusazione della predetta lista dalle elezioni amministrative del Comune di (omissis), ricusazione fondata sul rilievo che il procedimento di autenticazione delle firme, effettuato dal signor Ri. Fo., consigliere comunale di Terni, recava indicato a penna, quale luogo di effettuazione, il Comune di (omissis), con conseguente nullità dell'autenticazione in quanto avvenuta in violazione dell'art. 14, comma 3, della l. n. 53 del 1990, che stabilisce la competenza territoriale limitata dei consiglieri comunali quali pubblici ufficiali certificanti. Il gravame è stato affidato a un unico motivo, di sostanziale sintesi dei tre proposti in primo grado, compendiati in " Error in iudicando, erroneità della sentenza appellata per intrinseca illogicità della motivazione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 21, comma 1 e 38 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. Violazione e falsa applicazione dell'art. 14 della Legge n. 53/1990. Violazione e falsa applicazione dell'art. 21 septies della Legge n. 241/1990. Evidente irragionevolezza della ricusazione. Violazione della strumentalità delle forme e del principio del favor partecipationis. Violazione dei principi della Corte Costituzionale e della Corte Europea sui diritti dell'uomo in tema di applicazione del principio di favor partecipationis". 2. Si sono costituiti in resistenza il Ministero dell'interno e la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Terni (Commissione elettorale circondariale di Terni). 3. La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 24 maggio 2024. 4. L'appello è infondato. 5. Punto essenziale della vicenda è la rivendicata circostanza, che a detta degli appellanti renderebbe il caso di specie non assimilabile a quelli di cui alla giurisprudenza richiamata dal primo giudice, che l'autenticazione sarebbe avvenuta a Terni, e non ad (omissis), come erroneamente indicato. A conferma di ciò, invocano l'avvenuto inoltro in data 12 maggio 2024 da parte del medesimo signor Fo. di una PEC di rettifica ad entrambi gli enti coinvolti (Comune di Terni e di (omissis)). Invocano altresì le dichiarazioni sostitutive di atto notorio rese in data 15 maggio 2024 dagli originari firmatari della lista che confermerebbero in Terni il luogo di avvenuta effettuazione dell'autentica: l'indicazione di (omissis) sarebbe frutto di un mero refuso ? un lapsus calami ? che non avrebbe dovuto essere valorizzato, non rendendo incerto il contenuto dell'autenticazione, e comunque essendo stato corretto ("rettificato"), con efficacia ex tunc. 6. La doglianza è infondata. 7. Al riguardo si osserva che del tutto correttamente il T.a.r. ha reputato, in linea con il richiamato indirizzo giurisprudenziale, che le invalidità che inficiano il procedimento di autenticazione delle firme dei cittadini che accettano la candidatura o che presentano come delegati le liste non assumono un rilievo meramente formale, giacché le minute regole da esse presidiate mirano a garantire la genuinità delle sottoscrizioni, impedendo abusi e contraffazioni. Ne consegue che l'autenticazione, seppure distinta sul piano materiale dalla sottoscrizione, rappresenta un elemento essenziale non integrabile della presentazione della lista o delle candidature (per una fattispecie sovrapponibile finanche in punto di fatto v. Cons. Stato, sez. II, 13 settembre 2021, n. 6280). 8. Va altresì rilevato che i pubblici ufficiali menzionati nell'art. 14 l. 21 marzo 1990, n. 53 (tra cui figurano i consiglieri comunali) sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni esclusivamente all'interno del territorio di competenza dell'ufficio al quale appartengono. Pertanto, il signor Ri. Fo. era sfornito di potere di certazione fuori dell'area dell'ente da egli rappresentato (Comune di Terni), in guisa che l'autenticazione in (omissis), ovvero l'indicazione di quella città come luogo di effettuazione della stessa, la rende radicalmente nulla e insanabile, poiché "l'indicazione del luogo di attestazione della sottoscrizione, nella relazione di autentica, costituisce non già elemento estrinseco, bensì parte essenziale dell'atto pubblico" (Cons. Stato, A.P., 9 ottobre 2013, n. 22, richiamata anche nel verbale impugnato). 9. Sono infatti elementi essenziali costitutivi della procedura di autenticazione, l'apposizione del timbro - nel caso di specie peraltro mancante, anche in riferimento al c.d. timbro datario -, l'indicazione del luogo, appunto, e della data della sottoscrizione del pubblico ufficiale procedente, le modalità di identificazione del sottoscrittore, l'accertamento della sua identità e dell'apposizione della sottoscrizione in sua presenza, il nome, il cognome e la qualifica rivestita dal pubblico ufficiale che procede all'autenticazione, la legittimazione di quest'ultimo, nonché, infine, la redazione della autenticazione di seguito alla sottoscrizione (Cons. Stato, sez. V, 15 maggio 2015, n. 2490; sez. III, 9 maggio 2019, n. 3022). A fronte, quindi, della rilevata indicazione di un luogo estraneo a quello di esercizio del potere certificante, le dichiarazioni sostitutive sopravvenute rese dalle parti non possono in alcun modo sanare tale vizio radicale originario. Quanto detto a prescindere dalla assoluta genericità del loro contenuto, che nulla dice, ad esempio, circa il luogo, pubblico o privato, ove sarebbe avvenuta l'operazione di autentica, non identificabile neppure attraverso un qualche timbro d'ufficio, come detto, sicché lo stesso andrebbe collocato in una qualche imprecisata località nell'ambito dell'intera estensione territoriale del comune di Terni. Esse dunque, al pari del resto della comunicazione PEC del signor Fo., non possono assumere la pretesa portata di "rettifica" della precedente certificazione in senso formale, non essendo neppure state prodotte agli organismi preposti nei termini fissati dalla legge a presidio della tempestività e puntualità della procedura elettorale. Tale valore non può del resto essere tratto, come pure preteso dagli appellanti, dal richiamo al combinato disposto degli artt. 21, comma 1, e 38 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che si limita a dettare le regole di redazione e trasmissione alle Amministrazioni delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio, senza con ciò avallarne la portata correttiva, per giunta in forma retroattiva, di precedenti diverse attestazioni fidefacenti. 10. Nessun rilievo, infine, può essere attribuito al mancato esercizio del soccorso istruttorio da parte del Segretario Comunale, cui le Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature a Sindaco e consigliere comunale redatte dal Ministero dell'Interno "raccomandano" di "far rilevare quelle palesi irregolarità che gli sia eventualmente dato di conoscere". Ciò in quanto trattasi, appunto, di una raccomandazione, che non può onerare ridetto funzionario comunale di intervenire a supporto di qualsivoglia inadempienza o irregolarità di parte, configurando addirittura, in caso negativo, una sorta di scriminante del mancato rispetto di regole cui devono attenersi i protagonisti del procedimento elettorale, ovvero i candidati, alla cui competizione gli uffici pubblici devono garantire trasparenza e legalità, proprio attraverso la vigilanza sulle stesse, per quanto in apparenza minimali. 11. Con riferimento a tale doglianza, si osserva inoltre che in generale non è predicabile la sussistenza di un obbligo di soccorso istruttorio in relazione a formalità indefettibili, pena la violazione della par condicio tra i candidati e del principio di autoresponsabilità . Ciò anche in ragione della particolare natura del procedimento pre-elettorale, caratterizzato da una stringente esigenza di celerità e di tempestiva definizione, secondo scansioni cronologiche normativamente definite, a prescindere peraltro dalle dimensioni dell'ente chiamato alle elezioni (cfr., ex aliis, Cons. Stato, sez. II, 15 settembre 2021, n. 6312; sez. III, 7 maggio 2019, n. 2940). 12. Quanto detto è sufficiente a respingere l'appello, giusta la genericità del richiamo, posto a chiusura della sua prospettazione, ai motivi di ricorso già avanzati in primo grado, comunque sussumibili alle considerazioni sopra sviluppate. 13. La ribadita portata non formale dei vizi di autenticazione della firma, inerendo all'esistenza stessa della candidatura, non può in alcun modo essere sanata, diversamente da quanto gli appellanti hanno cercato di sostenere. Ciò neppure in applicazione di un generale principio ispiratore della legislazione elettorale, quale quello del favor partecipationis, tra l'altro non esattamente perimetrato e di contenuto non puntuale. Le deduzioni circa il bilanciamento degli interessi in gioco e l'asserito pericolo di vulnus alla partecipazione democratica, giusta l'estromissione dell'unica lista alternativa a quella ammessa alla competizione elettorale, pertanto, non possono che costituire " fattori - in ogni caso, fisiologicamente correlati alle competizioni elettorali e alle esclusioni di candidati - esterni al procedimento di verifica delle candidature e non in grado di consentire un sovvertimento delle stringente disciplina in tema di autenticazione delle firme dei candidati" (v. ancora Cons. Stato, sez. II, 13 settembre 2021, n. 6280). L'adempimento richiesto, cioè, trasmoda da mera forma e procedura in sostanza, garantendo la tutela di un diritto fondamentale dei cittadini, quale quello elettorale, espressamente tutelato dalla Costituzione, in quanto strettamente funzionale non soltanto alla garanzia dell'intervenuta formazione della lista dei candidati in epoca antecedente all'inizio della raccolta delle firme di presentazione della lista stessa, ma anche e soprattutto ad assicurare la certa direzione delle manifestazioni di volontà espresse dagli elettori sottoscrittori e il controllo estrinseco delle medesime da parte della commissione (cfr. Cons. St., sez. II, sent. 13 settembre 2021, n. 6273) 14. In conclusione l'appello va respinto. 15. La peculiarità della materia trattata giustifica la compensazione delle spese processuali del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli - Presidente Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Giancarlo Carmelo Pezzuto - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 379 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ar. Pr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., Br. Cr. e Fa. Ma. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Le. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta, -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, il signor -OMISSIS- chiede la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta, -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso proposto dall'odierno appellante per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Napoli, n. 21 del 10 gennaio 2011, recante l'ordine di sgombero dell'immobile sito in Napoli alla via (omissis) - (omissis), in quanto occupato abusivamente. Secondo il giudice di prime cure, l'immobile in questione, oggetto di occupazione sine titulo, rientra fra quelli di edilizia residenziale pubblica, rientranti nel patrimonio indisponibile comunale con la possibilità di esercitare poteri di autotutela esecutiva ai sensi dell'art. 823 c.c., come nel caso di specie. L'ordinanza impugnata, pertanto, non deve essere qualificata come ordinanza contingibile e urgente (ai sensi dell'art. 54 d.lgs. n. 267 del 2000), ma rientra nei provvedimenti di esercizio del generale potere di autotutela patrimoniale esercitabile nei confronti di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell'ente. 2. Il signor -OMISSIS-, rimasto soccombente, ha proposto appello riproponendo i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Comune di Napoli, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza per aver affermato che l'immobile rientra nel patrimonio indisponibile del Comune, pur se l'amministrazione nulla avrebbe dimostrato su detta appartenenza dell'immobile. 5. Con il secondo motivo, sul presupposto che l'immobile rientri nel patrimonio disponibile del Comune di Napoli, censura la sentenza per non aver rilevato come l'ordinanza impugnata sia in contrasto col generale principio di proporzionalità, che impone all'amministrazione di individuare le soluzioni congrue ed adeguate alla circostanza concrete, infliggendo il solo sacrificio che sia indispensabile al perseguimento del pubblico interesse. Nel caso di specie non sarebbe riscontrabile un pericolo attuale ed imminente che minacci l'interesse pubblico; di qui la lampante sproporzione della misura amministrativa emessa nei confronti del ricorrente a cui è stato perentoriamente intimato di rilasciare l'immobile senza alcuna alternativa di sistemazione, anche solo temporanea. Sotto altro profilo, ribadisce la censura con cui ha dedotto l'illegittima compressione del diritto di difesa, per l'esiguità del termine concesso per lo sgombero, e data la natura dell'ordinanza, che non avrebbe consentito al signor -OMISSIS- di poter dimostrare che la sua occupazione ricadeva nell'ambito delle occupazioni sanabili. Ribadisce la natura di ordinanza contingibile e urgente, adottata ai sensi dell'art. 54 del Tuel, adottata tuttavia in difetto o totale omissione della fase istruttoria e in assenza delle ragioni di necessità e urgenza. 6. Col terzo motivo, impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto il vizio di incompetenza relativa dell'organo che l'ha adottata, posto che - contrariamente a quanto statuito dal primo giudice - trattandosi di esercizio dei poteri di ordinanza di cui al citato art. 54 è affetta da incompetenza poiché risulta emanata per il Sindaco dall'assessore al patrimonio, mentre detto potere spetterebbe esclusivamente al Sindaco quale ufficiale del Governo. 7. L'appello è infondato alla stregua delle seguenti considerazioni: - secondo la costante giurisprudenza (per tutte cfr. Cass. civ., sez. II, 12 maggio 2003, n. 7269) gli immobili dell'edilizia residenziale pubblica appartengono al patrimonio indisponibile degli I.A.C.P. o, come nel caso di specie, del Comune; il che consente l'esercizio dell'autotutela esecutiva ai sensi dell'art. 823, secondo comma, cod. civ.; - ne deriva come conseguenza che l'ordinanza impugnata non ha natura contingibile e urgente; non sono pertanto pertinenti i rilievi basati sul difetto dei presupposti normativi di cui all'art. 54 del Tuel, né appare calzante la dedotta violazione del principio di proporzionalità (non venendo in questione l'esercizio di poteri discrezionali); - parimenti non coglie nel segno la dedotta violazione del diritto di difesa, non risultando in alcun modo che al ricorrente sia stata conculcata la possibilità di difesa in giudizio avverso l'ordinanza; - anche il lamentato difetto di istruttoria è palesemente infondato, posto che alcuno dei presupposti fattuali in base ai quali è stata adottata l'ordinanza è stato revocato in dubbio dal ricorrente. 8. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 9. La disciplina delle spese giudiziali per il presente grado segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del grado di appello in favore del Comune di Napoli, liquidate in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024, tenuta da remoto, con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. CORBO Antonio - Relatore Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRI' Ubalda - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Lo.An., nato a Reggio Calabria il 13/05/1993 avverso la sentenza del 06/06/2023 della Corte d'appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; lette conclusioni, per il ricorrente, dell'avvocato Gi.Mo., che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa 6 giugno 2023, la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria che aveva dichiarato la penale responsabilità di Lo.An. per il delitto di violenza sessuale in danno di persona minore di diciotto anni, e, ritenuta la recidiva specifica, gli aveva irrogato la pena di quattordici anni di reclusione. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, Lo.An., in data 1 luglio 2020, avrebbe costretto la minore Do.An. a subire baci sulla labbra e penetrazione vaginale, dopo averla condotta con la propria auto in un luogo isolato, minacciata ripetutamente anche di morte, presa con forza per le braccia e per i polsi, e infine spogliata dei jeans e delle mutandine. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Lo.An., con atto sottoscritto dall'avvocato Gi.Mo., articolando quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, decisiva fonte di prova a carico. Si deduce, innanzitutto, che erroneamente sono state valorizzate, a conferma dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, le deposizioni del perito del giudice, incaricato di assistere all'incidente probatorio, e del consulente tecnico del pubblico ministero, cui era stato il compito di esaminare la capacità a deporre della persona offesa, sebbene le stesse non possano essere risolutive, la prima perché si limita ad attestare la regolarità dell'incidente probatorio, la seconda perché dà conto semplicemente di una situazione di turbamento emotivo, suscettibile di molteplici spiegazioni. Si deduce, poi, che la sentenza impugnata ha omesso di confrontarsi con le incongruenze del racconto della persona offesa, puntualmente denunciate nell'atto di appello, in quanto ha semplicemente asserito la "marginalità" delle discrasie, senza null'altro aggiungere. Si segnala, in particolare, che, come già indicato nell'atto di appello, la vittima, mentre in sede di denuncia aveva detto di conoscere a mala pena l'imputato, rendendo dichiarazioni al Pubblico Ministero aveva cambiato versione, e ammesso di avere un rapporto di frequentazione con lo stesso. Si osserva che questo "aggiustamento" e l'originario mendacio, spiegato con il timore di non essere altrimenti creduta, avrebbero dovuto essere messi in relazione con le perplessità espresse dalla sorella della vittima, la quale, in considerazione degli atteggiamenti disinibiti da questa più volte tenuti, ad esempio nei rapporti con il "fidanzatino", e delle fughe da casa della stessa, ha affermato di aver temuto che il racconto della violenza fosse una grossa bugia per giustificare il mancato rientro a casa in quei primi giorni del luglio 2020. Si rappresenta, quindi, che anche altri testimoni hanno riferito la tendenza della vittima a dire bugie a scuola ed agli amici, e che, proprio per questa ragione, il teste Ba.An., il quale aveva ospitato la minore subito dopo il fatto, il 2 e il 3 luglio 2020, ha affermato di aver ritenuto bugie le confidenze in quel momento ricevute in ordine alla violenza; si aggiunge che, secondo il teste Ba.An., e la di lui madre, la persona offesa, a casa loro, in quei giorni, aveva manifestato tranquillità e spensieratezza. Si rileva, poi, che il racconto della persona offesa è intrinsecamente contraddittorio ed inverosimile, quando riferisce del momento centrale della vicenda: la minore afferma di essere stata presa per il braccio da parte dell'imputato e trascinata verso la panchina dove era stata costretta a distendersi, e però poi ammette di essersi seduta sulla panchina con l'imputato per consumare alcune vivande. Si evidenzia, ancora, che perplessità emergono con riguardo alle affermazioni della ragazza di essere stata costretta a rimanere nell'autovettura in cui l'imputato l'aveva trasportata per la presenza di una chiusura con un "sistema a doppia sicurezza", quando i due erano giunti in prossimità di una pizzeria, dove avevano comprato delle vivande, in quanto l'autovettura in questione non era munita di tale tipo di sistema; si aggiunge che gli investigatori hanno omesso di acquisire le immagini delle telecamere presenti sul luogo per verificare se effettivamente in quel momento la minore fosse rimasta in auto o fosse scesa in strada. Si espone, infine, che nessuno degli amici incontrati dalla persona offesa ha detto di aver notato ecchimosi al collo, escoriazioni o ematomi, quali quelli implicati dalle modalità con le quali era stata realizzata la violenza sessuale. 2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in considerazione degli accertamenti medico-legali e biologici. Si deduce che il medico legale: a) non ha escluso una violenza sessuale, ma di certo non la ha ritenuta accertata; b) non ha escluso la riconducibilità delle perdite ematiche subite dalla ragazza al ciclo mestruale, ma ha semplicemente preso atto delle dichiarazioni della stessa, la quale aveva detto di avere avuto il ciclo alcuni giorni prima, ed ha inoltre rilevato l'assenza di alterazioni o disturbi incidenti sullo stesso. Si osserva, poi, che appare illogico il collegamento tra la violenza sessuale e le difficoltà di deambulazione della minore riscontrate il 5 luglio, posto che la stessa non ha avuto analoghe difficoltà nei giorni precedenti, come si desume dalle dichiarazioni del teste Ba.An.. Si evidenzia, quindi, che gli accertamenti biologici non hanno consentito di rinvenire sugli indumenti della persona offesa tracce di liquido seminale dell'imputato e che le tracce di DNA rinvenute possono essere spiegate in molti modi, ad esempio perché lasciate da sudore o da formazioni pilifere. 2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 99, secondo comma, n. 1, cod. pen., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva specifica. , Si deduce che illegittimamente il reato in contestazione è stato ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio di cui alla precedente condanna. Si osserva che la stessa indole non può essere desunta dal fatto che entrambi i reati sono reati contro la persona, o sono stati commessi nella stessa area geografica. Né è significativo che la violenza sessuale sia stata commessa a soli diciotto mesi dalla fine dell'espiazione della pena per il tentato omicidio. 2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla determinazione della pena. Si deduce che la pena irrogata, pari a quattordici anni di reclusione, è sproporzionata e contrastante con la finalità di rieducazione che deve perseguire a norma dell'art. 27, terzo comma, Cost. 3. Con memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale della Corte di cassazione, il difensore de! ricorrente ha riproposto le osservazioni formulate nei quattro motivi del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, o comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nei primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, in quanto entrambe relative al giudizio sull'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, ritenuto viziato perché avrebbe minimizzato le rilevanti incongruenze ed inverosimiglianze del racconto della stessa, da valutare anche alla luce delle condotte pregresse e successive della medesima, e perché avrebbe valorizzato come riscontri elementi equivoci e privi di concreta efficacia indiziante. 2.1. Ai fini dell'esame delle censure indicate, è utile dare indicazione dei criteri metodologici cui il Collegio deve attenersi, in considerazione della consolidata e condivisa elaborazione della giurisprudenza in materia. Innanzitutto, va evidenziato che, in tema di valutazione della prova testimoniale, la valutazione dell'attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accìdit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (cfr., tra le tantissime, Sez. 4, 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01, e Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575-01, ma anche Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623-01). Va poi aggiunto che, ai fini dell'affermazione di responsabilità penale, le dichiarazioni della persona offesa non debbono essere corroborate da riscontri estrinseci, essendo sufficiente una approfondita verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (cfr., per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214-01, e Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558-01). Ancora, va rilevato che, come ulteriormente precisato da una decisione, qualora risulti "opportuna" l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S. Rv. 275312-01). 2.2. La sentenza impugnata ha ricostruito i fatti ascritti all'attuale ricorrente, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute attendibili all'esito di un dettagliato esame delle censure formulate negli atti di appello, ed in linea con le articolate osservazioni esposte nella sentenza di primo grado. 2.2.1. La sentenza impugnata, innanzitutto, riporta in modo analitico il contenuto delle dichiarazioni, estremamente dettagliate, della persona offesa, in ordine al fatto e delle vicende immediatamente successive fino alla presentazione della denuncia alle autorità di polizia. In sintesi, secondo quanto esposto dalla Corte d'appello, la persona offesa, all'epoca dei fatti quindicenne, ha premesso di aver conosciuto l'imputato in occasione della festa per il compleanno di una sua amica, di averlo incontrato altre due o tre volte, e di aver avuto, con lo stesso, scambi di messaggi, alcuni dei quali di contenuto allusivo. La dichiarante ha poi raccontato, con riferimento a quanto accaduto il giorno 1 luglio 2020, che: a) nel pomeriggio, ella aveva chiamato telefonicamente l'imputato per chiedergli in prestito ottanta euro al fine di comprare un cellulare, aveva informato di ciò la sorella alla quale era affidata e con la quale conviveva, ne era stata rimproverata ed aveva ricevuto da questa la somma di quaranta euro; b) ricevuto il denaro, ella era uscita di casa per comprare un costume da bagno ed aveva contattato l'imputato, il quale, dopo averla raggiunta, aveva insistito per pagare quanto da lei acquistato e l'aveva poi portata presso un bar dove entrambi avevano consumato qualche alimento; c) intorno alle 20,00, l'imputato, da lei richiesto di accompagnarla a casa, l'aveva fatta salire sulla sua auto, durante il viaggio le aveva chiesto un bacio, ricevendone un rifiuto, e poi aveva preso una strada isolata, dove si era fermato, adducendo il surriscaldamento della batteria, aveva stretto al collo la ragazza e le aveva detto che, se non avesse fatto quanto lui voleva, l'avrebbe uccisa o comunque non le avrebbe fatto più rivedere la famiglia, provocando in lei grida e pianti; d) subito dopo, l'imputato era ripartito ed aveva condotto la ragazza in un altro luogo isolato, e, poi, di fronte alla nuova crisi di pianto della stessa, aveva ribadito l'inutilità di quei lamenti, in quanto non sarebbero stati uditi da alcuno, aveva aggiunto di non sapere se ucciderla, o non riportarla a casa, o di "farsi la galera", e le aveva chiesto un rapporto orale; e) subito dopo, l'auto con a bordo i due giovani era ripartita e, intorno alle 21,30, aveva raggiunto un bar pizzeria, dove l'uomo, chiusa l'auto a chiave e intimato a lei di non scendere dalla vettura, aveva comprato cibi e bevande; f) effettuato l'acquisto, l'imputato si era rimesso alla guida del veicolo, dicendo di non sapere se l'avrebbe riportata a casa, ed aveva raggiunto un luogo isolato, dove aveva fermato l'auto, e, poi, insieme con lei, a piedi, aveva raggiunto un spiazzo, nel quale c'era anche una panchina; g) in quel frangente, l'imputato aveva iniziato a bere birra e ad abbracciarla, e poi, nonostante le sue proteste, le sue grida ed i suoi pianti, profferendo bestemmie, l'aveva afferrata per i polsi, trascinata verso la panchina, dove l'aveva distesa, e, quindi, ponendosi sopra di lei, l'aveva costretta a subire un rapporto sessuale completo; h) ella, mentre si era rivestita, si era sentita bagnata e, chiesto all'imputato di farle luce con il cellulare, aveva notato di avere perdite di sangue; i) l'uomo, a quella vista, aveva deciso di accompagnarla a casa dei suoi nonni; I) ella, prima di partire, di nascosto, aveva lasciato gli slip presso la panchina, per lasciare una prova della violenza subita. La persona offesa, con riguardo al successivo svolgimento dei fatti, ha dichiarato che: a) giunti a casa dei nonni dell'imputato, la nonna, informata dal nipote delle sue perdite di sangue, le aveva dato una pillola per l'emorragia e dei pannoloni; b) subito dopo, l'uomo si era addormentato, mentre lei era rimasto un poco sul balcone piangendo; c) la mattina seguente, dapprima era stata invitata dalla nonna dell'imputato a raccontare a casa di essere stata da un'amica per non rovinare il nipote, e, poi, approfittando del sonno di questi, aveva prelevato il cellulare del medesimo, lo aveva sbloccato ed era entrata nel proprio profilo Instagram, attraverso il quale aveva informato due amiche di quanto aveva subito; d) poco dopo, l'imputato, svegliatosi, su sua richiesta, aveva acconsentito ad accompagnarla presso un bar dove avrebbe incontrato delle amiche, per poi poter riferire alla sorella di aver domito a casa di queste; e) ella, prima di partire, aveva lasciato dietro la lavatrice della casa in cui aveva trascorso la notte un fazzoletto intriso del proprio sangue; f) raggiunti alcuni compagni scuola, ella era scesa dall'auto dell'imputato ed aveva preso un autobus, sul quale aveva incontrato il cognato, a cui aveva consegnato una busta contenente jeans e maglietta indossati al momento dello stupro; g) ella, tuttavia, non era tornata a casa, temendo di non essere creduta dalla sorella e dal cognato, per i suoi precedenti allontanamenti, ma si era recata presso alcuni amici, ed aveva trovato ospitalità presso Ba.An., al quale aveva confidato le violenze subite, ed a casa del quale era rimasta per due giorni; h) la mattina del 4 luglio, però, l'amico, vedendo vari post sui social network denuncianti la di lei scomparsa, l'aveva convinta a rientrare a casa; i) ella, però, preso l'autobus, aveva deciso di recarsi a presentare denuncia alla polizia, e, durante il viaggio, aveva incontrato un'amica, alla quale inizialmente non aveva raccontato nulla, salvo poi confidarsi alla discesa dall'autobus, per farsi accompagnare dalla stessa, siccome maggiorenne, presso la polizia; I) nell'immediato prosieguo, ella, con questa giovane ed un'altra amica incontrata per strada, si era recata in Questura dove aveva presentato denuncia. 2.2.2. La sentenza impugnata, dopo aver riportato il contenuto delle altre fonti di prova acquisite, tra cui le dichiarazioni dell'imputato, indica le ragioni per le quali ritiene attendibili le dichiarazioni della persona offesa. In particolare, la Corte d'appello rappresenta che il racconto è estremamente preciso e dettagliato, è intrinsecamente coerente ed è avvalorato dal contegno tenuto nel corso della deposizione resa nell'incidente probatorio, oggetto di visione diretta in dibattimento, siccome indicativo di genuina e profonda sofferenza, e caratterizzato da cambio di voce, vergogna, inibizione, prolungati silenzi e copiose lacrime. Segnala, poi, che il perito nominato dal giudice ha affermato la piena capacità a testimoniare della vittima, e che il consulente tecnico nominato dal Pubblico Ministero ha confermato l'esistenza di elementi chiaramente sintomatici di un trauma subito e non elaborato. Il Giudice di secondo grado, inoltre, evidenzia come la scelta della persona offesa di presentare denuncia sia stata sofferta e ponderata, per il timore non solo delle minacce dell'imputato, ma anche dei rimproveri della sorella cui era stata affidata dalla madre, stante la problematicità dei loro rapporti. Segnala, in proposito, che la vittima decise di confidarsi da subito, e nei limiti consentiti dal controllo cui era sottoposta da parte dell'imputato, con due amiche, precisamente indicate, tramite Instagram, e poi, quando era ormai lontana dal medesimo, con l'amico Ba.An., il quale l'aveva ospitata per due giorni. Aggiunge, ancora, che l'atteggiamento timoroso e diffidente della vittima è emerso anche in occasione della presentazione della denuncia in Questura, come indicato dalla consulente tecnica del Pubblico Ministero. Conclude che tali circostanze escludono anche qualunque intento calunnioso. La Corte distrettuale, poi, espone che il racconto della persona offesa ha trovato conferma in numerosi dati oggettivi. In particolare, segnala che: a) il percorso effettuato con l'auto è stato riscontrato da immagini riprese dalle telecamere in più luoghi indicati e negli orari riferiti; b) sulla panchina segnalata come luogo della violenza sono state trovate tracce di sangue, e nelle immediate vicinanze della stessa sono stati rinvenuti gli slip della minore e due bottiglie di birra; c) nella stanza da letto dell'imputato, sono stati trovati pannoloni intrisi di sangue e tracce ematiche; d) il pernottamento a casa dei nonni dell'imputato è stato confermato dalla nonna dello stesso. La sentenza impugnata, quindi, rappresenta che le aporie e discordanze delle dichiarazioni della vittima sono "minime". Precisa, innanzitutto, che il silenzio della persona offesa, in occasione della denuncia, sul fatto di aver richiesto denaro all'imputato e di aver accettato il pagamento dei suoi indumenti è spiegabile con il timore di rimproveri, da parte della sorella, per essersi accompagnata ad un adulto: questo timore non solo era coerente con la conflittualità dei rapporti tra le due, dimostrati anche dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella, ma era giustificato sia dai plurimi allontanamenti della ragazza da casa, sia dai ripetuti contatti telefonici con uomini adulti, e dallo scambio di fotografie in pose intime con l'ex-fidanzato, fatti entrambi "scoperti" dalla parente. Osserva, poi, che il racconto delle modalità dello stupro è rimasto immutato, ed è coerentemente costituito, in successione, dai primi approcci dell'imputato, dal netto rifiuto della vittima, dalla violenta reazione verbale dell'imputato, dalle spinte della ragazza per allontanarlo, e poi dall'azione violenta dell'uomo costituita dalla presa per un braccio e dalla coazione a distendersi sulla panchina. Espone, quindi, che la vittima ha affermato di essere rimasta nell'autovettura quando l'imputato era sceso per entrare in un bar pizzeria e comprare delle vivande perché lo stesso le aveva detto di fare la brava, e non ha mai riferito di aver tentato di aprire la portiera. Evidenzia, ancora, che il diniego della ragazza di aver già avuto in precedenza rapporti sessuali, sebbene smentito dagli accertamenti medici compiuti, lungi dallo screditare il suo racconto, "denota come la stessa non avrebbe disvelato particolari della propria vita intima qualora avesse intrattenuto un rapporto consensuale, trovando, di contro, il coraggio e la forza di raccontare unicamente per denunciare l'atrocità dell'abuso sessuale subito". La Corte d'appello, ancora, sottolinea che gli accertamenti medici e biologici non smentiscono, ma anzi confermano il racconto della persona offesa. Quanto agli accertamenti e profili medici, segnala, in particolare, che: a) le perdite dì sangue non possono essere spiegate come il risultato del flusso mestruale, perché, come confermato dagli accertamenti specialistici effettuati, questo era regolare, e la sua datazione era coerente con quanto riferito dalla minore; b) l'assenza di tracce della violenza sessuale sono spiegabili in quanto la ragazza, come indicato negli accertamenti specialistici effettuati, presentava una vagina tipica di donna che aveva già avuto rapporti sessuali; c) l'assenza di segni esteriori sul corpo della vittima sono compatibili con la maggiore prestanza fisica dell'imputato, la quale rendeva non necessario l'esercizio di una particolare forza per consumare la violenza; d) le difficoltà di deambulazione della persona offesa, ed i forti dolori addominali avvertiti dalla stessa, sono circostanze confermate dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella. Quanto agli accertamenti biologici, rimarca che il profilo genetico dell'imputato è stato rinvenuto nei jeans della vittima, e ciò smentisce il racconto dell'uomo, secondo cui, nelle tante ore trascorse insieme, c"erano stati effusioni, baci e carezze consensuali, ma non approcci più intimi. Aggiunge che l'assenza di tracce di liquido seminale sui reperti "può al più eventualmente collegarsi all'assenza di eiaculazione". 2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine al giudizio di attendibilità del racconto della minore in ordine alla violenza denunciata sono immuni da vizi. La Corte d'appello, infatti, ha spiegato perché ritiene che le stesse siano intrinsecamente attendibili e pienamente coerenti con le altre risultanze istruttorie, sulla base di elementi precisi e congrui rispetto alle conclusioni raggiunte, rispondendo inoltre in modo analitico, e con argomentazioni corrette, a tutte le deduzioni formulate dalla difesa dell'imputato. 3. Manifestamente infondate sono le censure formulate nel terzo motivo di ricorso, che contestano l'applicazione della recidiva specifica, deducendo che il reato di violenza sessuale per cui si procede non può essere ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio, oggetto di precedente condanna. 3.1. In forza della disposizione di cui all'art. 101 cod. pen., per "reati della stessa indole", devono intendersi non solo quelli che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti - per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati - caratteri fondamentali comuni (così, tra le tantissime, Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166-06, e Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C., Rv. 266545-01). In giurisprudenza, si è espressamente precisato che la "stessa indole" prescinde dall'identità del bene giuridico protetto dalle diverse disposizioni incriminatrici violate e sulla cui base di applica la recidiva (Sez. 2, n. 40105 del 21/10/2010, Apostolico, Rv. 248774-01). E, in questa prospettiva, si è affermato, ad esempio, che, ai fini della recidiva specifica, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, siccome connotato da violenza o minaccia alla persona, presenta caratteri fondamentali comuni rispetto ai reati di detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo, che pure sono indicativi dell'intenzione di recare offesa alla persona (Sez. 1, n. 3435 del 08/07/1994, Capitale, Rv. 199863-01). Si è inoltre osservato che più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l'inclinazione verso un'identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell'altrui diritto rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa e che, per l'individuazione e per l'esclusione dei caratteri anzidetti è necessaria una specifica indagine rimessa alla valutazione discrezionale del giudice e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata (così Sez. 3, n. 11954 del 16/12/2010, dep. 2011, L., Rv. 249744-01, e Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996, Barrese, Rv. 206531-01). 3.2. La sentenza impugnata ritiene che il reato di violenza sessuale per il quale ha confermato la decisione di condanna sia della stessa indole del reato di tentato omicidio commesso dall'imputato in danno di minore infraquattordicenne, accertato dal Tribunale dei Minorenni con sentenza irrevocabile. La Corte d'appello, in particolare, a fondamento di tale conclusione, osserva che i due reati sono entrambi contro la persona, e sono stati entrambi commessi in danno di una persona adolescente, con modalità violente, e nella medesima area territoriale isolata, ben conosciuta dall'imputato e idonea a ridurre al minimo la possibilità di interferenze di terzi e di reazione delle vittime. Aggiunge che il secondo reato, quello di violenza sessuale, è stato commesso dall'imputato solo diciotto mesi dopo l'espiazione della precedente condanna, così da evidenziare una continuità di condotte illecite ed una proclività delinquenziale espressa attraverso la medesima tecnica delittuosa. Precisa che il precedente reato di tentato omicidio aveva lasciato la vittima quasi in fin di vita, con il volto totalmente tumefatto nella parte destra con fuoriuscita di sostanza ematica ed escoriazioni ed ematomi sul resto del corpo, determinandone uno stato di coma protrattosi per due settimane. 3.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi. Il reato oggetto della sentenza impugnata e quello per il quale è già stata pronunciata sentenza irrevocabile legittimamente possono ritenersi, per come ricostruiti dalla Corte d'appello, presentare "caratteri fondamentali comuni", quanto meno "per la natura dei fatti che li costituiscono". Precisamente, le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati e le modalità di aggressione rivelano, con riguardo ad entrambi i reati, una propensione verso la medesima tecnica delittuosa. I due fatti di reato, inoltre, consistono entrambi in condotte di aggressione fisica in danno di una persona. Inoltre, va considerato che il delitto di violenza sessuale è di poco successivo alla espiazione della pena per il precedente reato di tentato omicidio, e, anzi, l'imputato, più volte ha dimostrato assolta indifferenza e piena consapevolezza in ordine alle conseguenze delle sue azioni, terrorizzando la vittima con l'affermazione di non sapere se ucciderla, non riportarla a casa, o "farsi la galera". 4. Del tutto prive di specificità sono le censure enunciate nel quarto motivo, che contestano l'entità della pena irrogata, ritenuta del tutto sproporzionata ed in contrasto con la finalità di rieducazione spettante alla stessa. Invero, la sentenza impugnata, in modo pienamente corretto, ha motivato la scelta di applicare sia una pena base di poco superiore al minimo edittale, sia un aumento nel massimo per la recidiva, facendo riferimento alla gravità dei fatti in contestazione, alla gravità e specificità del precedente, ed alla vicinanza tra la fine dell'espiazione della pena per il pregresso reato e la commissione dei nuovo delitto. Né è allegata, o rilevabile, l'omessa considerazione di elementi favorevoli all'imputato. 5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Nessuna valutazione, poi, può essere espressa in ordine alla richiesta del difensore del ricorrente di liquidazione delle sue spettanze per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di questione estranea alle competenze della Corte di cassazione. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso il 02 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Co.Fa., nato a R il Omissis avverso la sentenza del 17/04/2023 della Corte d'appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ombretta Di Giovine; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Piccirillo, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza limitatamente all'aggravante dell'art. 61, comma 5, cod. pen. e l'annullamento con rinvio in riferimento al contributo causale delle lesioni di cui al capo b); uditi gli Avvocati Lo.Co. e Ca.Ta. che chiedono l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava la condanna in primo grado di Co.Fa. per resistenza a pubblico ufficiale aggravata, perché, in concorso con un numero indeterminato di altri soggetti, comunque superiore a dieci - nel corso di una manifestazione non autorizzata composta da alcune centinaia di persone, diretta minacciosamente verso Palazzo Chigi, in cui i manifestanti si opponevano alle forze dell'ordine in tenuta antisommossa -, dapprima usava violenza o minaccia nei confronti degli agenti, lanciando verso di loro vari oggetti contundenti e gli stessi lacrimogeni in precedenza usati dalle forze dell'ordine; poi, usava violenza, in particolare, nei confronti di quattro agenti, mentre compivano atti d'ufficio. In particolare, mentre i predetti ufficiali di polizia giudiziaria procedevano al fermo di altra persona, l'imputato si scagliava, unitamente ad un numero indeterminato di persone, comunque superiore a dieci, con i pugni e calci contro gli operanti, cagionando loro lesioni (capo a). Confermava inoltre la condanna dell'imputato per lesioni aggravate perché, al fine di commettere il delitto di cui al capo a), cagionava lesioni a agli agenti Ca., Ca. e Ma. (capo b). 2. Ha presentato ricorso Co.Fa., per il tramite dei suoi difensori, Avvocati Al.Ca. e Lo.Co., articolando i seguenti cinque motivi. 2.1. Errata valutazione del concorso formale di reati in relazione al capo a) dell'imputazione. Il giudice di primo grado, con sentenza totalmente confermata in sede di appello ha ravvisato un concorso formale di reati in ordine al capo a) dell'imputazione, in quanto Co.Fa. avrebbe usato violenza per opporsi a più pubblici ufficiali mentre compivano un atto d'ufficio. Tuttavia, dalla lettura del capo a) non si evince alcun richiamo all'art. 81 cod. pen., a dimostrazione del fatto che la contestazione ha riguardato un fatto di resistenza globalmente considerato. Né si tratterebbe di mera dimenticanza, essendo invece l'art. 81 cod. pen. espressamente menzionato al capo b). 2.2. Errata valutazione del contributo concorsuale sia in relazione alle resistenze di cui al capo a) sia in relazione alle lesioni del capo b), con riflessi sulle aggravanti ex art. 339, commi 2 e 3, cod. pen. contestate al capo a) e delle aggravanti di cui agli artt. 61, n. 2, cod. pen. e 112, comma 1, n. 1, cod. pen. contestate al capo b). Sebbene non venne colpito personalmente gli agenti, la pronuncia ha ritenuto "indiscutibile" che l'imputato fosse concorso con altri soggetti non identificati, per aver rafforzato l'altrui azione offensiva aggravandone gli effetti, desumendo tale conclusione dal filmato, da cui emergerebbe il movimento delle forze dell'ordine in direzione diversa da quella in cui si trovava l'imputato. Invero, dal filmato emerge piuttosto che i manifestanti indietreggiarono all'avanzare degli agenti di pubblica sicurezza senza porre in essere alcuna aggressione. In particolare, il Co.Fa. fu spintonato da uno degli agenti operanti per essere poi immediatamente bloccato, come riconosciuto dalla stessa sentenza di appello. Né sarebbe vero che il verbale di arresto non sia stato contestato dalla difesa dell'imputato, posto che nell'atto di appello si revocava in dubbio la ricostruzione corretta degli eventi per come ricavata dal video. I Giudici sarebbero, quindi, incorsi anche in un travisamento della prova. Inoltre, ammesso che, subito dopo l'arresto dell'imputato si siano realizzate le lesioni di cui al capo b) da parte dei manifestanti verso cui si dirigono alcuni agenti, non si comprende in che cosa consista il contributo causale dell'imputato, dal momento che gli agenti erano in numero sufficiente a far indietreggiare i manifestanti e che questi ultimi si agitavano per il fermo di altra persona (Ca.) e non di Co.Fa.. Difetterebbe, comunque, il dolo del concorso, emergendo dalle immagini che l'imputato era scattato verso le forze dell'ordine quando fu portato via il Ca., evidentemente spinto dall'istintivo desiderio di difenderlo (Ca. era il compagno della madre). D'altronde, diversamente non si comprenderebbe perché Co.Fa. si sarebbe scagliato a mani nude contro una trentina di agenti in tenuta antisommossa, i quali, infatti, impiegarono pochi secondi per bloccarlo. Né il dolo dell'imputato può essere desunto da altre immagini del filmato che lo ritraggono mentre partecipava personalmente ad episodi di violenza, tali episodi non essendo stati contestati. A monte, dalle immagini emerge come Co.Fa. fosse solo nella sua condotta sicché non si comprende in che cosa consista il contributo atipico alla resistenza. Di conseguenza, nemmeno sussistono i presupposti dell'aggravante di cui all'art. 339, comma 3, cod. pen., in ordine alla quale la Corte d'appello non motiva. 2.3. Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alla mancata applicazione dell'art. 62, n. 6, cod. pen. Secondo la Corte d'appello, agli atti risulterebbe che l'assegno offerto per il risarcimento del danno tornò indietro, di talché non sarebbe stato possibile apprezzare la congruità e l'adeguatezza dell'offerta. Tuttavia, non è vero che il plico contenente l'offerta tornò indietro, come dimostrato dall'estratto del sito di Poste italiane, che attesta come le raccomandate con ricevuta di ritorno fossero state regolarmente consegnate. Agli atti, si trova pure la prova del deposito di offerta risarcitoria del 22/11/2021, inviata per PEC nella stessa data, e la ricevuta dalla PEC del Tribunale di Roma. I quattro plichi furono quindi consegnati, come d'altronde ammesso dalla sentenza di primo grado, che tuttavia omise il nominativo di uno degli agenti (Ca.). 2.4. Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione in rapporto alla sussistenza delle aggravanti di cui agli artt. 61, n. 5, e 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen. La Corte di appello ha risposto alle deduzioni difensive, in modo apodittico, che le aggravanti sussistono perché i filmati mostrano il fronteggiarsi continua di gruppi diversi con le forze dell'ordine. Tuttavia, al di là di quanto già rilevato, secondo l'insegnamento di legittimità, la circostanza aggravante prevista dall'art. 61, n. 5, cod. pen. è configurabile solo quando ricorrano condizioni oggettive idonee ad abbattere o affievolire le capacità reattive della vittima, ciò che non risulta dalla visione del filmato. La Corte d'appello omette poi qualunque motivazione sull'eccepita insussistenza dell'aggravante prevista dall'art. 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen. in ordine all'invocato assorbimento delle lesioni nel reato di resistenza. 2.5. Violazione della legge penale sostanziale e vizio di motivazione quanto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e all'aumento operato per la continuazione tra i singoli episodi di resistenza e le lesioni. In appello si era dedotto il buon comportamento processuale dell'imputato (che interrogatorio e partecipò al processo presenziando tutte le udienze) che peraltro ha risarcito il danno, oltre alla giovane età e al particolare momento storico in cui ebbe luogo la condotta delittuosa. Si era inoltre dedotta l'eccessività dell'aumento di pena operata per la continuazione tra i diversi capi di imputazione. Tuttavia, la Corte d'appello non ha motivato su alcuno dei due profili. 3. Il ricorrente ha presentato altresì due motivi nuovi, per il tramite dell'Avvocato Ca.Ta., successivamente nominato suo difensore in sostituzione dell'Avvocato Ca. 3.1. Errata applicazione degli artt. 337, 339, commi 1, 2 e 3, 61, n. 5, cod. pen., per avere, con motivazione apparente e con travisamenti probatori, affermato la responsabilità dell'imputato in relazione a condotta diversa da quella contestatagli. La condotta attribuita all'imputato diverge totalmente da quella ascrittagli nel capo di imputazione. La contestazione del capo a) dell'imputazione riferisce la minaccia e la violenza verso degli operanti esclusivamente al lancio nei confronti dei predetti di oggetti contundenti vari e degli stessi lacrimogeni utilizzati dalle forze dell'ordine. Tuttavia, già la sentenza di primo grado parlava dello spintonamento dell'operante - invece non contestato -, aggiungendo che "l'attività del pubblico ufficiale è stata comunque disturbata perché alcuni degli agenti hanno dovuto interrompere l'atto che stavano compiendo per fronteggiare l'aggressione": ove, per ammissione della sentenza stessa, il "disturbo" non integra né violenza né minaccia. Peraltro, la pronuncia del Tribunale - integralmente confermata dalla Corte d'appello - dava atto (p. 17) che "Co.Fa. fu immediatamente bloccato dalle forze dell'ordine", il che impedisce di attribuire a Co.Fa. spintonamenti, lancio di corpi contundenti e/o lacrimogeni. Nell'integrare la motivazione del Giudice di primo grado, la Corte di appello afferma che "l'imputato non si è limitato a correre verso le forze dell'ordine (comportamento questo che è certamente interpretabile come gesto ostile) ma ha violentemente spintonato uno degli agenti della Polizia di Stato". In disparte la considerazione che nemmeno il "correre verso le forze dell'ordine" è in grado di integrare violenza o minaccia, anche tale fatto non è stato contestato tuttavia all'imputato Co.Fa.. Così come neppure il "violento spintonamento" è stato contestato al capo a), tanto è vero che risulta contestato al capo b) dell'imputazione. Dal che la contraddizione tra motivazione e dispositivo con cui si condanna il ricorrente. Inoltre, la sentenza impugnata aggiunge elementi di novità al fatto accertato in primo grado. I Giudici dell'appello ritengono infatti che si sarebbe trattato di un gesto "di per sè idoneo ad essere qualificato come atto violento volto ad ostacolare o impedire l'atto delle forze dell'ordine", senza spiegare come e rispetto a che cosa lo spintonamento - accadimento ineludibile nei contesti come quello di cui si tratta - si sia frapposto all'operato delle forze dell'ordine, vieppiù considerato che il Co.Fa. fu "immediatamente bloccato". Ciò dimostrerebbe che nessun atto delle forze dell'ordine fu mai ostacolato per l'incompatibilità tra i due gesti o quanto meno per la modestia di un contatto che certamente non può integrare una condotta di violenza. 3.2. Violazione degli artt. 582, 585, 576, comma 1 e 5-bis, 61, n. 2 e 5, cod. pen., per aver, con motivazione inesistente, affermato la partecipazione materiale psichica dell'imputato alla produzione degli eventi lesivi. In particolare, la sentenza di primo grado, rispetto alla contestazione per cui Ca., Ca. e Ma. sarebbero stati feriti con spintonamenti, calci e pugni, ritiene invece che il Co.Fa. avesse apportato invece un contributo morale alla realizzazione del fatto da parte altrui, rafforzando l'altrui proposito criminoso, trascurando tuttavia che a tal fine non è sufficiente partecipare alla manifestazione e voler evitare l'azione di contrasto delle forze dell'ordine, tanto più che gli autori delle lesioni sono rimasti ignoti. Tale nodo non è stato sciolto dalla Corte di appello, che ha contraddittoriamente accertato una sola condotta di presunto spintonamento consumata nei confronti di un solo operante, senza dimostrare perché essa si sarebbe tradotta in un contributo morale alle realizzazione delle lesioni da parte di soggetti rimasti ignoti, e dedicando al capo b) pochi cenni quando, dopo aver affermato, a proposito della resistenza, che le forze dell'ordine sarebbero andate in "una direzione diversa da quella in cui si trovava il Co.Fa.", ha ritenuto -anche qui senza dimostrarlo - "indiscutibile, in siffatto contesto, che il Co.Fa. (avesse), in concorso con altri soggetti rimasti non identificati, procurato le lesioni agli agenti operanti che si sono trovati a dover fronteggiare questo gruppo di soggetti violenti che si opponevano al tentativo di contenimento posto in essere dalle forze di polizia". Peraltro, l'imputato - come riconosciuto in entrambe le sentenze di merito - fu "immediatamente bloccato", il che rendeva impossibile anche la realizzazione della condotta di lesioni. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è complessivamente infondato e va, quindi, rigettato. 2.1. Quanto al ricorso principale, infondato è il primo motivo con cui si contesta l'applicazione del concorso formale di reati in relazione alle condotte di resistenza (capo a). In disparte la considerazione che la difesa non contesta alcun effetto sfavorevole in termini di aumento nella determinazione della pena - che peraltro non risulta operato dalla sentenza di primo grado, integralmente confermata in appello -, sicché il motivo sarebbe sotto questo aspetto anche generico, i Giudici di merito (vd. p. 22 sentenza Tribunale) si sono correttamente ed espressamente conformati all'insegnamento di questa Corte, secondo cui, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un concorso formale di reati, a norma dell'art. 81, comma 1, cod. pen., la condotta di chi, nel medesimo contesto fattuale, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio (Sez. U, n. 40981 del 22/02/2018, Apolloni, Rv. 273771), sicché le deduzioni difensive risultano destituite di fondamento e le circostanze aggravanti di cui all'art. 339, commi 2 e 3, cod. pen. correttamente applicate. 2.2. Nel secondo motivo di ricorso - reiterativo delle deduzioni in appello - si eccepisce il travisamento delle prove rappresentate dal filmato che riprese i movimenti del ricorrente, nell'intento di denunciare l'erronea valutazione del contributo concorsuale offerto dall'imputato alla realizzazione delle condotte contestate in entrambi i capi di imputazione. Il ricorrente trascura tuttavia che, vieppiù in presenza di una doppia valutazione conforme, come nel caso di specie, tale sollecitazione si traduce in un'inammissibile richiesta al giudice di legittimità affinché questi valuti le prove in modo diverso da quanto ritenuto nei due giudizi di merito: in assenza, peraltro, di vizi della motivazione. La Corte d'appello ha infatti ricostruito le condotte dell'imputato in modo analitico e dunque completo, desumendole dal verbale di arresto e precisando che questo trova il riscontro di filmati i quali confermano come, di fronte all'ordine di Ca., di non arretrare, la folla sarebbe rimasta tutt'altro che pacifica. In particolare, ha ritenuto accertata la condotta del Co.Fa., che diede calci e pugni agli agenti, obiettando come la ricostruzione difensiva (secondo cui l'imputato avrebbe levato le braccia in segno di resipiscenza) si fondi su fotogrammi statici che non colgono la dinamica del fatto quale invece emerge dalla visione del filmato. I Giudici di merito reputano indiscutibile pure che l'imputato avesse, in concorso con altri soggetti non identificati, procurato lesioni agli agenti operanti ed esclude espressamente che l'atto di resistenza avesse costituito un fatto isolato. Da ciò desumono, quindi, in modo coerente e non contraddittorio, che le circostanze aggravanti siano state correttamente ritenute dal giudice di primo grado, dai filmati essendo emerso come non si fosse trattato di un episodio isolato bensì del fronteggiarsi continuo di gruppi diversi con le forze dell'ordine, che cercavano di contenere i tentativi dei manifestanti di superare il cordone creato dalla polizia, allo scopo di avvicinarsi alla sede del Governo. II secondo motivo di ricorso è, dunque infondato. 2.3. Inammissibile è il terzo motivo, con cui si deduce errore di diritto in relazione alla mancata applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., deduzione cui la Corte d'appello ha obiettato l'intempestività del risarcimento (che non è intervenuto prima del dibattimento). Né è sufficiente allegare copia della spedizione e degli assegni offerti. Infatti, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, affinché operi l'attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62, comma 1, n. 6, prima patte, cod. pen. la riparazione del danno mediante le restituzioni o il risarcimento, deve essere anche integrale (e volontaria, seppur non necessariamente spontanea) (Sez. 2, n. 46758 del 24/11/2021, S., Rv. 282321). Ma nel ricorso non si allega né che il risarcimento fu accettato dalle persone offese - scrive anzi la Corte di appello che fu il difensore ad affermare che i plichi tornarono indietro - né, di conseguenza, che fu satisfattivo. 2.4. Infondato è il quarto motivo con cui il ricorrente si duole dell'applicazione delle aggravanti di cui art. 61, n. 5, cod. pen. e 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen. Quanto alla c.d. minorata difesa, va precisato che il riconoscimento dell'aggravante presuppone una valutazione concreta e non astratta (come precisato in Sez. U, n. 40275 del 15/07/2021, Cardellini, Rv. 282095), sicché nemmeno lo schieramento delle forze dell'ordine in tenuta antisommossa è sufficiente ad escluderne la configurabilità, ove i Giudici di merito abbiano ravvisato - come, evidentemente, nel caso di specie - una sproporzione numerica e sul piano dell'attitudine, per le forze dell'ordine, oppositiva alla violenza. Ciò premesso, il ricorrente reitera in questa sede le osservazioni già svolte in appello sul contegno "pacifico" dei manifestanti. A tale rilievo la Corte di appello ha replicato come i filmati rassegnino, per contro, il fronteggiarsi continuo di gruppi diversi con le forze dell'ordine che cercano di contenere i tentativi dei manifestanti di superare il cordone della polizia per avvicinarsi alla sede del Governo. Ha così svolto una valutazione di fatto non sindacabile in questa sede, risultando la motivazione sintetica, ma pur sempre compiuta e non manifestamente illogica. Quanto poi all'aggravante dall'art. 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen., è vero che la sentenza impugnata non replica quanto al dedotto - in appello - sull'assorbimento di tale circostanza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale. Va però considerato che la giurisprudenza di legittimità più recente è orientata in modo compatto nel ritenere l'aggravante di cui all'art. 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen., configurabile in relazione al delitto di lesioni personali volontarie anche quando lo stesso concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale (tra le tante, Sez. 6, n. 19262 del 20/04/2022, Cevallos Delgado, Rv. 283159; Sez. 6, n. 2608 del 17/12/2021, dep. 2022, Tomasìn, Rv. 282423; Sez. 6, n. 57234 del 09/11/2017, De Feo, Rv. 272203), in tal senso argomentando, tra l'altro, che l'aggravante in esame introduce un elemento specializzante, riferito alle condotte poste in essere contro una particolare categoria di pubblici ufficiali ("un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza"), il cui disvalore non è assorbito da quello della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 cod. pen. che fa genericamente riferimento al "pubblico ufficiale" e all'"incaricato di pubblico servizio". Ne deriva l'inammissibilità, per difetto di interesse, della deduzione relativa alla mancata risposta ad una deduzione manifestamente infondata (Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, Bercigli, Rv. 277281). 2.5. Venendo al quinto ed ultimo motivo e premesso che il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.) non è obbligatorio, bensì subordinato al discrezionale apprezzamento degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., questo Giudice non può certo sostituire la propria valutazione a quella della Corte d'appello quando afferma che il primo Giudice le ha correttamente negate a fronte della pessima personalità dell'imputato che, nonostante la giovane età, risulta compiutamente formata in termini pericolosamente antisociali, per come si desume dai precedenti penali, specifici e recenti, per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e tentato omicidio: precedenti da cui si desume una personalità stabilmente incline alla violenza. Analoghi rilievi valgono infine quanto alla determinazione della pena, avendo la Corte d'appello dichiarato, seppur senza fare specifico richiamo alla continuazione, di condividere anche sul punto le valutazioni del primo giudice, ed evidenziato come le specifiche modalità del fatto e la partecipazione dell'imputato a tutte le fasi più violente della vicenda, compreso l'assalto alla sede della CGIL, unitamente ai precedenti penali, denotino l'elevata pericolosità del soggetto, peraltro fornito di notevole intensità di dolo, che pare aver elevato la violenza a stile di vita. Il motivo risulta, dunque, inammissibile. 3. Inammissibili sono anche i motivi aggiunti. Va innanzitutto ricordato che i motivi "nuovi" presentati a sostegno dell'impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, solo i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati già enunciati nei motivi originariamente proposti a norma dell'art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen. (exmultis, Sez. 3, n. 18293 del 20/11/2013, dep. 2014, G., Rv. 259740, che precisa come l'ammissibilità di censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l'impugnazione determinerebbe una irragionevole estensione dei tempi di definizione del processo oltre allo scardinamento del sistema dei termini per impugnare). Il che non è accaduto per nessuno dei due motivi presentati. 3.1. Anche a ritenere diversamente, d'altronde, con entrambi i motivi - rispettivamente dedicati alle ipotesi di cui ai capi a) e b) - si deduce in sostanza il difetto di correlazione tra accusa e sentenza che, integrando una nullità a regime intermedio, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non è però deducibile per la prima volta in sede di legittimità (Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017, Privitera, Rv. 269886; Sez. 5, Sentenza n. 9281 del 08/01/2009, Parente, Rv. 243161; Sez. 5, n. 44008, del 28/09/2005, Di Benedetto, Rv. 232805) e che comunque - a monte - non sussiste. La sua prospettazione discende, infatti e piuttosto, da un'artificiosa parcellizzazione della motivazione dei Giudici di merito, i quali hanno, in coerenza con la peculiarità di questa fenomenologia reato (segnata dall'avvicendarsi concitato e sovente indistinguibile di violenze), correttamente apprezzato le condotte dell'imputato nella loro complessità. Né risulta alcuna compressione del diritto di difesa dell'imputato per il fatto che la responsabilità per le lesioni, ipotizzata nel capo di imputazione come realizzate personalmente, sia stata invece attribuita in forma di contributo morale, a titolo di concorso nel fatto altrui (art. 110 cod. pen.), come dimostra il fatto che il Co.Fa. ha avuto modo di difendersi in entrambi i gradi del giudizio di merito. 4. Il ricorso deve essere, dunque, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 18 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente - Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Relatore - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ka.Wa. (CUI Omissis), nato a C il Omissis avverso la sentenza del 20/03/2023 della Corte d'appello di Ancona; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ombretta Di Giovine; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Piccirillo, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o rigettato. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Ancona confermava la condanna di Ka.Wa. per resistenza a pubblico ufficiale (artt. 337 cod. pen.) per essersi opposto a due agenti in servizio presso il Commissariato dove si trovava, mentre procedevano al suo foto-segnalamento, in più occasioni alzandosi dalla sedia e avvicinandosi a mo' sfida agli operatori intenti nella stesura degli atti, minacciandoli ed ingiuriandoli, al punto che si rendeva necessario impiegare un operatore fisso per la vigilanza; quindi, scagliandosi contro tale operatore insultandolo, minacciandolo di morte e spintonandolo violentemente sino a sferrargli prima un pugno e poi un forte calcio al fianco sinistro (capo 3). Confermava altresì la condanna dell'imputato in relazione all'episodio di lesioni da ultimo descritto (artt. 582, 585 in relazione all'art. 576 n. 1 cod. pen.) (contusioni multiple guaribili in 10 giorni) (capo 4). Revocava, infine, la sospensione condizionale della pena disposta in primo grado, a seguito di giudizio abbreviato. 2. Avverso la sentenza presenta ricorso Ka.Wa., per il tramite dell'Avvocato An.Ub., deducendo due motivi. 2.1. Errata applicazione della legge penale con riferimento all'affermazione di responsabilità ed alla revoca della sospensione condizionale della pena nonché vizio di motivazione. La Corte di appello avrebbe disatteso le deduzioni difensive volte a dimostrare che il comportamento del ricorrente non integrava il reato di resistenza a pubblico ufficiale in quanto, come spiegato dallo stesso imputato nell'interrogatorio, egli aveva semplicemente sentito la necessità di alzarsi, di muoversi per sgranchirsi le gambe, essendo stato trattenuto in commissariato per ore. Anche le lesioni all'operante furono involontarie e determinate da un comportamento scomposto indotto dalla stanchezza e dalla paura. Sarebbe stato poi violato l'art. 597 cod. proc. pen., là dove la Corte d'appello ha revocato la sospensione condizionale della pena disposta dal giudice di primo grado, richiamando il combinato disposto degli artt. 168, comma 3, e 164, comma 4, cod. pen. e rilevando come il beneficio fosse precluso in quanto già concesso in due precedenti occasioni. Tuttavia, la concessione della sospensione condizionale della pena dipende da una valutazione discrezionale del giudice di primo grado, che tiene conto del ravvedimento dell'imputato e della gravità del reato (Sez. 2, n. 34727 del 30/06/2022, Pastore, Rv. 283845), e può essere revocata d'ufficio in appello, in mancanza di impugnazione della parte pubblica - come nel caso di specie -, soltanto se riguarda condizioni ostative sopravvenute alla sentenza di primo grado che non fossero documentalmente note al primo giudice. Nel caso di specie, il Giudice per le indagini preliminari aveva a disposizione il casellario giudiziario dell'imputato e deve supporsi lo abbia consultato. Quindi, le cause dovevano essergli note. Di conseguenza, la revoca della sospensione condizionale ha realizzato una non consentita reformatio in peius. 2.2. Errata applicazione della legge penale con riferimento alla mancata conversione della pena detentiva in pena pecuniaria. A seguito della c.d. riforma Cartabia, i giudici avrebbero dovuto disporre la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. 3. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate. Il ricorrente ha presentato una memoria d'udienza in cui insiste per l'annullamento della sentenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. 1.2. Per la prima parte, il ricorrente propone un'inammissibile rilettura dei fatti valutati dai giudici di merito con motivazione completa e coerente, come tale insindacabile in questa sede. 1.3. Quanto alla revoca della sospensione condizionale della pena ad opera del giudice dell'appello, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di rinvio che revochi il beneficio della sospensione condizionale, nelle ipotesi previste dai commi primo e terzo dell'art. 168 cod. pen., in quanto, in entrambi i casi, si tratta di provvedimenti dichiarativi, riguardanti effetti che si producono ope legis e presuppongono non un'attività discrezionale o valutativa, bensì puramente ricognitiva, con cui si accerta il venir meno delle preesistenti condizioni legittimanti (Sez. 6, n. 51131 del 15/11/2019, Niasse, Rv. 277570; Sez. 3, n. 56279 del 24/10/2017, Principalli, Rv. 272429; Sez. 2, n. 37009 del 30/06/2016, Seck, Rv. 267913). Pur ribadendo il carattere meramente ricognitivo dell'attività del secondo giudice, un recente orientamento ha tuttavia svolto alcune precisazioni. In particolare, argomentando da Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381, i cui principi sono stati ritenuti estensibili al giudizio di cognizione, ha precisato che il giudice di appello può sì revocare di ufficio la sospensione condizionale della pena concessa in violazione dell'art. 164, quarto comma, cod. pen., ma sempre che le cause ostative non fossero documentalmente note al giudice di primo grado, aggiungendo che, a tal fine, il giudice dell'appello ha l'onere dì procedere ad una doverosa verifica al riguardo (Sez. 3, n. 42004 del 05/10/2022, Maggio, Rv. 283712. Nello stesso senso, più di recente, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, Bevilacqua, Rv. 284768, la quale del pari subordina la revoca della sospensione condizionale all'accertamento che le cause ostative non fossero documentalmente emerse nel corso di quel giudizio). 1.4. Ebbene, mentre nella sentenza di appello si parla di due precedenti risultanti dal casellario giudiziale, da quella di primo grado si ricava che il Tribunale concesse il beneficio "in considerazione dell'unico" (p. 16) precedente a carico dell'imputato. Dal passaggio riportato tra virgolette si evince come il Tribunale non fosse a conoscenza della seconda condanna. Correttamente il giudice dell'appello ha, dunque, revocato la sospensione condizionale della pena, essendo venuto a conoscenza della seconda condanna, condizione ostativa alla sospensione. 1.5. Dunque, il motivo di ricorso, per tale parte, è pertanto infondato. 2. Analogamente deve dirsi del secondo motivo di ricorso. 2.1. Il D.Lgs. 10/10/2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia) ha certamente espresso un favore per il contenimento della pena detentiva, ma si è pur sempre mosso nel solco della continuità con i principi e le linee operative essenziali del sistema di cui agli artt. 53 ss. della I. 24/11/1981, n. 689 di cui Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125, che ha escluso il potere del giudice di appello di applicare d'ufficio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi se nell'atto di appello non risulta formulata alcuna specifica e motivata richiesta con riguardo a tale punto della decisione (l'ambito di tale potere essendo circoscritto alle ipotesi tassativamente indicate dall'art. 597, comma quinto, cod. proc. pen., che costituisce una eccezione alla regola generale del principio devolutivo dell'appello). Non si è spinto, dunque, a prevedere un diritto dell'imputato alla sostituzione della pena. Di conseguenza, la valutazione del giudice resta espressione di un potere discrezionale che va motivato soltanto nel caso di diniego ad una espressa richiesta dell'imputato. 2.2. Dalle conclusioni in appello riportate nella sentenza impugnata non emerge che il difensore avesse chiesto la sostituzione della pena. Ne consegue che la mancata motivazione del Giudice sul punto equivale a tacito diniego. 3. Per le ragioni espresse, il ricorso è rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 18 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente - Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Relatore - Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Be.Da., nato a R il Omissis avverso la sentenza del 20/02/2023 della Corte di appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Costantini; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Raffaele Piccirillo, che ha chiesto l'annullamento della sentenza limitatamente all'aumento di pena irrogato in ordine al capo C), con rinvio alla Corte di appello e la declaratoria di inammissibilità o il rigetto nel resto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 20 febbraio 2023 la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione assunta ex art. 442 cod. proc. pen. dal Tribunale di Roma in data 28 maggio 2020 ha rideterminato la pena nei confronti di Be.Da. in anni uno e mesi due di reclusione in ordine ai delitti di cui agli artt. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 (capo A), art. 337 (capo B) e 582 e 585 cod. pen. con riferimento all'art. 576 in relazione all'art. 61 n. 2 e 5-bis cod. pen. (capo C). Secondo l'ipotesi di accusa, il 27 maggio 2020, Be.Da. sarebbe stato trovato in possesso di circa 60 grammi di sostanza stupefacente del tipo marijuana (THC pari al 17 per cento ed in quantità idonea alla predisposizione di 314 dosi singole) asseritamente destinata allo spaccio (capo A); si sarebbe reso, inoltre, responsabile di resistenza a pubblico ufficiale nei confronti del Carabiniere Pi.Ma., minacciato, graffiato e colpito con una testata al mento (capi B e C). La Corte di appello ha confermato la declaratoria di responsabilità del Be.Da. secondo quanto già rilevato dal primo giudice che, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero utilizzati in ragione del rito prescelto, ha ritenuto che l'involucro contenente sostanza stupefacente, in quanto rinvenuto nelle immediate vicinanze durante il controllo, appartenesse al Be.Da. e che la droga fosse destinata allo spaccio in considerazione del quantitativo, del rinvenimento di un bilancino di precisione nell'abitazione e dei precedenti specifici per cui era stato poco tempo prima arrestato; la sentenza ha confutato l'accidentalità delle lesioni aggravate sia dalla connessione teleologica che ex art. 61, primo comma, n. 5-bis, cod. pen. in quanto cagionate ai danni di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, riducendo la pena. La Corte di appello, preso atto che il Tribunale, nonostante la riqualificazione della condotta del ricorrente di cui al capo A) nell'ipotesi lieve di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, avesse ritenuto tale ipotesi più grave rispetto al delitto di quello di cui al capo B) di resistenza a pubblico ufficiale e su detta prima fattispecie avesse applicato gli aumenti in continuazione per i capi B) e C) di due mesi di reclusione ed euro 250 ciascuno (pervenendo alla pena finale anche in ragione della riduzione per il rito di un anno e mesi quattro di reclusione ed euro tremila di multa), ha rideterminato la pena individuando, invece, come reato più grave il delitto ex art, 337 cod. pen. di cui al capo B), la cui pena base è stata quantificata in un anno di reclusione, aumentata per la continuazione di sei mesi e tre mesi di reclusione, rispettivamente, per i capi A) e C), così pervenendo alla pena complessiva di anni uno e mesi due di reclusione. 2. Be.Da., per il tramite del difensore, impugna l'indicata sentenza deducendo sette motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo si deducono vizi di motivazione e violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990. Il ricorrente censura sia la parte della sentenza che ha ritenuto di individuare nel ricorrente il possessore della sostanza stupefacente sia quella che ha ritenuto che la stessa fosse destinata allo spaccio. È stata illogicamente assegnata rilevanza alla condotta nervosa stimata dagli operanti ed all'affermazione resa nell'immediatezza del rinvenimento dello stupefacente dal ricorrente secondo cui si era detto estraneo all'involucro ("la roba non è mia") rinvenuto vicino alla pensilina posta sulla strada e deputata all'attesa dei mezzi pubblici di trasporto, attraverso la valorizzazione di una condotta insignificante e ad una frase che, per genericità, risulta equivoca. Analoga inadeguata presunzione viene effettuata in ordine all'apprezzamento dei precedenti penali del ricorrente e del rinvenimento del bilancino all'interno dell'abitazione utilizzato, invero, per pesare lo stupefacente di cui era assuntore. L'assenza di elementi emerge dal fatto che l'altra persona che era presente sulla stessa panchina in occasione del controllo era stato ritenuto estraneo alla vicenda che ha visto il ricorrente, a parità di situazione, coinvolto nel possesso della sostanza. Non sussistono elementi che depongano per la finalità di spaccio dello stupefacente, che si assume fosse detenuto dal Be.Da., non venendo costui notato cedere ad alcuno la sostanza stupefacente che, per il fattore ponderale e la mancata suddivisione in dosi, non risulta fosse destinata allo spaccio. Non significativa risulta il possesso della somma di denaro di euro 150 trovata indosso al ricorrente che il Tribunale aveva ritenuto di restituire in quanto non costituente provento di spaccio. 2.2. Con il secondo motivo di deducono vizi di motivazione e violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta responsabilità per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale. La difesa rileva come la condotta violenta si sarebbe realizzata durante la perquisizione presso l'abitazione quando l'arresto era ormai avvenuto e, pertanto, a conclusione dell'attività di ufficio; la circostanza che l'arresto fosse stato eseguito presso il domicilio smentisce che il ricorrente volesse, in detta occasione, darsi alla fuga. 2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. nella parte in cui è stata ritenuta possibile la coesistenza tra aggravante della connessione teleologica ex art. 576, comma primo, n. 1, cod. pen. e quella de successivo n. 5-bis cod. pen. dell'aver commesso il fatto "contro il pubblico ufficiale". La Corte di appello si è limitata ad enunciare le ragioni della sussistenza dell'aggravante del nesso teleologico, omettendo però di fornire risposta al distinto rilievo con cui, in sede di gravame, si metteva in discussione la possibile contemporanea contestazione delle citate aggravanti. La difesa richiama, a conferma della tesi, la decisione di questa Corte che ha rilevato come l'aggravante del nesso teleologico tra il reato di lesioni personali e quello di resistenza a pubblico ufficiale assorbe necessariamente l'aggravante di avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale di cui all'art. 576, comma primo, n. 5-bis (Sez. 5, n. 25533 del 03/06/2015, Almi, Rv. 263913). 2.4. Con il quarto motivo si deduce ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. l'erronea applicazione dell'aggravante di cui all'art. 576, comma primo, n. 5-bis), cod. pen.. Poiché la qualifica di pubblico ufficiale è elemento costitutivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, in ipotesi di condotta come quella contestata, verrebbe a realizzare per gli stessi fatti una doppia sanzione. 2.5. Con il quinto motivo si deduce violazione dell'art. 529 cod. proc. pen. quanto alla mancata declaratoria di improcedibilità del reato di lesioni lievi (cinque giorni di prognosi) per il venir meno delle citate aggravanti. 2.6. Con il sesto motivo si deduce violazione dell'art. 597 cod. proc. pen. La Corte territoriale, pur avendo ridotto complessivamente la pena, ha provveduto ad aumentare la stessa in ordine al delitto di lesioni aggravate di cui al capo C (due mesi di reclusione ed euro 250 di multa a tre mesi di reclusione), ipotesi costituente reato satellite sia nella decisione impugnata che in quella precedente. Ferma restando la possibilità di rideterminare in misura maggiore la pena per il nuovo reato ritenuto più grave, risulta invece preclusa la possibilità di aumentare la pena in ordine al reato satellite estraneo a detta operazione venendosi in tal modo a realizzare una non consentita reformatio in peius della decisione di primo grado. 2.7. Con il settimo ed ultimo motivo si deducono vizi di motivazione e violazione dell'art. 175 cod. pen. ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, in quanto infondato, deve essere rigettato. 2. Il primo motivo attraverso cui si censura, da un canto, l'individuazione del ricorrente quale titolare dello stupefacente recuperato e sequestrato dal personale di polizia, dall'altro, la ritenuta destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente è infondato. 2.1. Deve rilevarsi come dalla congiunta lettura delle sentenze di merito (in ordine all'integrazione delle sentenze quando quella di primo grado ha già affrontato i temi proposti in sede di impugnazione ex multis, Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615) emerge che il Be.Da. fosse seduto in corrispondenza dell'involucro rinvenuto (venti centimetri, pag. 4, primo capoverso del punto 2 della sentenza del Tribunale); le decisioni danno conto che all'atto dell'intervento e prima ancora che gli fosse mostrato il contenuto, Be.Da. riferiva di non essere il titolare della "roba", aggiungendo - elemento determinante omesso nel ricorso , ma che conferisce logico significato alla frase pronunciata - che i Carabinieri volevano "accollarglielo"; tentava immediatamente la fuga, ma veniva bloccato e trovato in possesso della somma di euro 150. Le decisioni danno atto della circostanza che, a seguito di perquisizione presso l'abitazione, dopo che gli operanti avevano incontrato una condotta ostruzionistica frapposta dalla madre, veniva rinvenuto e sequestrato un bilancino nascosto nell'armadio della camera da letto dal medesimo occupata. Con valutazione in fatto logica e completa, insindacabile in sede di legittimità, la Corte territoriale ha dato complessivo rilievo a tutti gli elementi della condotta, compresa la reazione del ricorrente all'atto del rinvenimento dello stupefacente ritenuta significativa della esatta cognizione del contenuto dell'involucro rinvenuto nelle sue immediate vicinanze. I Giudici di merito hanno logicamente escluso la possibilità che lo stupefacente potesse essere, anche per la posizione assunta, di altro soggetto che era rimasto immobile ed in silenzio per tutto il tempo del controllo. 2.2. Analogo limite incontra la parte del motivo che rivolge censure là dove la decisione che ha ritenuto il possesso della sostanza stupefacente finalizzato allo spaccio. La sentenza fa leva e valorizza, ritenendo detti elementi significativi della destinazione allo spaccio, il dato ponderale della sostanza stupefacente rinvenuta dotata di significativo principio attivo (17 % di THC), le modalità della condotta percome sopra brevemente illustrate, il rinvenimento indosso della somma di euro 150 che già il Tribunale aveva rilevato fosse incompatibile con il modesto reddito del nucleo familiare (pag. 4, ultimo capoverso punto 2 sentenza Tribunale) ed il sequestro di un bilancino di precisione rinvenuto all'interno dell'armadio della stanza da letto. Irrilevante, a detti fini, risulta la circostanza che lo stesso Tribunale, che pure aveva valorizzato - come sopra ricordato - il ritrovamento della somma di denaro indosso al Be.Da., avesse poi restituito la stessa in assenza di dimostrazione che costituisse provento dell'attività di spaccio, espressione funzionale alla necessità di disporre la restituzione del denaro, comunque rinvenuto indosso nella circostanza di tempo in cui era stato rinvenuto lo stupefacente, alla luce della contestata condotta di mera detenzione riqualificata ex art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 in luogo della più grave ipotesi di cui al comma 4 della citata norma penale. 3. Afferente al precluso merito e manifestamente infondato risulta il secondo motivo con cui si rivolgono censure alla ritenuta responsabilità per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale e, seppure in forma generica ed indirettamente, alle contestate lesioni. Il ricorrente, pur evocando vizi della motivazione e violazione di legge sul presupposto che la condotta violenta sarebbe seguita all'arresto in flagranza ed alla perquisizione, sollecita una rilettura delle prove acquisite nel giudizio di merito; detta operazione si pone in contrasto con il consolidato orientamento interpretativo secondo cui è preclusa alla Corte di Cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (cfr. tra le tante, Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482). Adeguata risulta la risposta della Corte territoriale che ha rappresentato come le minacce ("ti ammazzo, prima o poi ti prendo") e lesioni provocate (una testata al mento, colpi e graffi), descritte nelle relazioni di servizio utilizzate in ragione del rito prescelto, fugassero ogni dubbio in ordine alla volontarietà del comportamento ed alla realizzazione delle condotte nel corso della perquisizione, operazione che la condotta era finalizzata ad ostacolare. 4. Motivi di ordine logico impongono di esaminare prima il quarto motivo attraverso il quale il ricorrente rivolge censure alla ritenuta possibile sussistenza dell'aggravante prevista dall'art. 576, primo comma, n. 5-bis), cod. pen. nonostante la qualità di pubblico ufficiale del soggetto passivo connoti il reato di cui all'art. 337 cod. pen. Nonostante debba darsi atto della sussistenza di precedente difforme indirizzo interpretativo di questa Corte di legittimità (Sez. 5, n. 25533 del 03/06/2015, Almi, Rv. 263913, decisione che la difesa richiama), si osserva come consolidato risulta il differente ed ormai maggioritario orientamento esegetico a mente del quale "l'aggravante di cui all'art. 576, comma primo, n. 5-bis, cod. pen., consistente nell'aver commesso il fatto nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio, è configurabile in relazione al delitto di lesioni personali volontarie anche quando lo stesso concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale" (Sez. 6, n. 2608 del 2022, Tomasin, Rv. 282423; Sez. 6, n. 19262 del 2022, Cavallos, Rv. 283159; Sez. 6, n. 57234 del 09/11/2017, De Feo, Rv. 272203). Ed infatti, contrariamente a quanto si rileva nel ricorso in cui si assume che detta aggravante consista nell'aver commesso il fatto "contro il pubblico ufficiale", così ipotizzando che detto elemento coincida con quello costitutivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, l'interpretazione ormai prevalente assegna valenza rilevante all'elemento specializzante dell'aggravante che trova applicazione quando le lesioni attingono, non la generale categoria di pubblici ufficiali, ma, segnatamente, quella degli ufficiali e degli agenti di polizìa giudiziaria o di pubblica sicurezza. 5. Ciò detto in ordine all'infondatezza della censura rivolta alla parte della decisione che ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui all'art. 576, primo comma 5-bis, cod. pen. in ragione della pacifica giurisprudenza che ammette la possibile integrazione dell'aggravante della connessione teleologica (che il ricorrente non censura sotto il profilo della materiale sussistenza, ma sotto quello eminentemente giuridico dell'ipotizzata contemporanea coesistenza) quanto a motivazione tra il delitto di lesioni e la resistenza a pubblico ufficiale, nessuna preclusione risulta ipotizzabile in concreto. Secondo pacifico indirizzo ermeneutico di questa Corte di legittimità, infatti, poiché il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe il delitto di percosse e non anche quello di lesioni personali in danno dell'interessato, detto reato concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale e se l'atto di violenza, con il quale l'agente ha consapevolmente prodotto le lesioni è stato posto in essere allo scopo di resistere al pubblico ufficiale, sussiste la circostanza aggravante della connessione teleologica di cui all'art. 61, n. 2, cod. pen.. (Sez. 6, n. 27703 del 15/04/2008, Dallara, Rv. 240880). Non si intravedono, pertanto, ostacoli di sorta o preclusioni in ordine alla possibilità di ritenere contestualmente integrate le due distinte aggravanti di cui al n. 1 e 5-bis, previste entrambe dall'art. 576, primo comma, cod. pen. e, per ciò solo, non incompatibili alla luce della differente incidenza afferente, da un canto, al profilo finalistico dell'azione, dall'altro, all'individuazione della specifica qualifica rivestita dalla persona offesa destinataria della condotta lesiva. 6. La rilevata sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 576, primo comma, n. 1, e la procedibilità d'ufficio delle lesioni ai sensi del novellato art. 582 secondo comma, cod. pen. fa ritenere manifestamente infondato il quinto motivo con cui si censura la mancata declaratoria di improcedibilità ex art. 529 cod. proc. pen. 7. Infondato risulta il sesto motivo di ricorso con cui si censura l'intervenuta reformatio in peius del trattamento sanzionatorio che ha riguardato, specificamente, il delitto di lesioni che assume il carattere di reato satellite in entrambe le sentenze di merito. 7.1. Costituisce ormai principio sufficientemente solido, seppure si rilevino decisioni di questa Corte di segno inverso, quello secondo cui contravviene al divieto di "reformatio in peius" il giudice dell'impugnazione che, dopo aver riqualificato in termini di minore gravità il fatto sul quale è commisurata la pena base, pur irrogando una sanzione complessivamente inferiore a quella inflitta in primo grado, applichi per i reati satellite - già in precedenza unificati dalla continuazione - un aumento di pena maggiore rispetto a quello praticato dal giudice della sentenza riformata (Sez. 2, n. 16995 del 28/01/2022, Somma, Rv. 283113; Sez. 5, n. 34497 del 07/07/2021, Maccarrone, Rv. 281831; quanto a poteri in ordine al trattamento sanzionatorio in sede di rinvio cfr. Sez. 4, n. 13806 del 07/03/2023, Clemente, Rv. 284601). Tali decisioni, precedute da altre dello stesso tenore che statuiscono come il divieto di "reformatio in peius" della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione e, quindi, anche l'aumento conseguente al riconoscimento della continuazione (cfr. Sez. 5, n. 50083 del 29/09/2017, D'Ascanio, Rv. 271626), si pongono sulla scia della sentenza assunta da questa Corte nel suo massimo consesso che rileva come il divieto di un trattamento deteriore rispetto a quello determinato dalla decisione di primo grado riguarda tutti gli elementi autonomi che concorrono alla determinazione della pena, non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066). 7.2. Il principio enunciato dalla sentenza Morales, citata dal Procuratore generale a sostegno della richiesta di annullamento su detto punto della sentenza impugnata, non esaurisce, però, il vaglio della questione sottoposta all'attenzione del Collegio. La sentenza Morales del 2005, che ha ispirato le pronunce citate di questa Corte di legittimità, è stata oggetto di puntualizzazione da questa Corte che, sempre a Sezioni Unite, ha avuto modo di affermare, proprio partendo dai principi enunciati dalla sentenza Morales, ma esaminando e disciplinando la particolare figura del reato continuato, aspetto che in questa sede è di interesse, che non viola il divieto di "reformatio in peius" previsto dall'art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C. Rv. 258653 - 01) La citata ultima decisione delle Sezioni Unite (punto 10. del "ritenuto in diritto"), proprio prendendo le mosse dai principi espressi dalla Sentenza Morales, sulla premessa della doppia possibile lettura atomistica o unitaria a seconda degli obbiettivi che si intendono perseguire e sul presupposto che detta figura realizzi un concorso materiale dei reati, unificati dalla identità del disegno criminoso e assoggettati al cumulo giuridico delle pene, secondo il meccanismo sanzionatorio previsto per il concorso formale (cfr. Sez. U, n. 25939, del 28/02/2013, Ciabotti), giunge a ribadire come la unificazione delle pene, tratto caratteristico della continuazione, realizzi, una volta prescelto il reato più grave, la perdita di individualità dei reati satellite "divenendo semplici componenti di un aumento di pena, al punto da riacquistare la loro "identità" solo agli effetti della determinazione del limite agli aumenti, che non deve comunque superare quello del cumulo materiale, a norma dell'art. 81 c.p., comma 3" (in motivazione, Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, cit.). Ne consegue, secondo le Sezioni Unite, che unico elemento di confronto non può che essere costituito "dalla pena finale, dal momento che è solo questa che "non deve essere superata" dal giudice del gravame (...)". L'affermazione trova fondamento nell'esegesi letterale dell'art. 597, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui si fa riferimento alla corrispondente diminuzione della "pena complessivamente irrogata", ciò che, in caso di rimodulazione del trattamento sanzionatorio, limita la portata del divieto al solo approdo conclusivo del nuovo giudizio di determinazione della pena, senza estendersi ai singoli segmenti o passaggi di esso. Alla luce di quanto sopra osservato in ordine all'impossibilità, in ipotesi di più reati avvinti dalla continuazione, di operare una parcellizzato esame dei singoli aumenti individuati per i reati ormai unitariamente valutati nella loro complessiva pena, unico elemento che può essere soggetto a comparazione tra le due sentenze, deve rilevarsi come l'operazione compiuta dalla Corte di appello si riveli corretta. La Corte di appello, dovendo correggere l'errore effettuato dal primo giudice nella quantificazione della pena determinata sull'erroneo presupposto che il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 fosse più grave di quello di cui all'art. 337 cod. pen., ha rideterminato la pena addivenendo a quella minore di un anno e due mesi di reclusione a fronte della precedente pena di anni uno e mesi quattro ed euro 3.000 di multa. Il rispetto di quanto previsto dall'art. 597, comma 4, cod. proc. pen., secondo l'interpretazione assegnata dalla giurisprudenza di questa Corte che si è sopra richiamata, implica che nessuna rilevanza assuma la circostanza che, in ordine al solo reato satellite di cui al capo C, sia stata individuata una pena maggiore (tre mesi in luogo di due mesi di reclusione ed euro 250 di multa). 8. Manifestamente infondato e riproduttivo di identica censura risulta il settimo ed ultimo motivo con cui si deducono vizi di motivazione e violazione dell'art. 175 cod. pen. avendo la Corte territoriale preso in esame le circostanze di cui all'art. 133 cod. pen. richiamati dal comma primo dell'art. 175 cod. pen. attraverso il pertinente riferimento alla negativa prognosi di recidiva già posta a fondamento del diniego della sospensione condizionale, alla luce dei tre precedenti giudiziari per reati della stessa indole e della condotta aggressiva tenuta nella presente vicenda. 9. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, secondo quanto previsto dall'art. 616, comma 1, cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 18 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente - Dott. MASINI Tiziano - Consigliere - Dott. SESSA Renata - Consigliere Dott. BRANCACCIO Matilde - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: De.Fr. nato Omissis avverso la sentenza del 25/10/2023 della CORTE APPELLO di TRIESTE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore ALDO CENICCOLA, il quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 25 ottobre 2023, la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma del provvedimento di primo grado, ha assolto De.Fr.dal reato di cui al capo b) (resistenza al pubblico ufficiale), confermando la condanna per il reato di violenza privata nei confronti del padre, De.Pi., alla pena ritenuta di mesi sette di reclusione. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l'imputato, posizionandosi all'interno dell'abitazione dei propri genitori, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, impediva al padre di fare ingresso nell' abitazione, costringendo i carabinieri a forzare la porta d'ingresso, perché allarmati per le condizioni di salute dell'anziana madre dell'imputato. 2. Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge processuale e vizio di motivazione, per carenza della necessaria condizione di procedibilità. Più in particolare, si osserva come la Corte territoriale non abbia rilevato la mancanza di querela relativa ai fatti del 20 febbraio 2021. Le uniche due querele presenti in atti sono infatti relative a fatti non accaduti nella data relativa all'ascritto delitto. 2.2 Col secondo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento degli artt. 52 e 59 cod. pen., per avere la Corte d'appello immotivatamente disatteso l'ipotesi della legittima difesa, fondatamente dedotta dalla difesa alla luce della volontà dell'imputato di difendere la propria madre, Lo.Sa., da condotte maltrattanti del padre, De.Pi.. e del narrato della. Lo.Sa. che aveva riferito di angherie e violenze subite dal marito, De.Pi.. 2.3 Col terzo motivo, si deduce violazione di legge, in relazione agli artt. 495 e 195 del codice di rito. L'ordinanza di ammissione dei testi della difesa (segnatamente, della teste Lo.Ro.) è stata revocata dal giudice di primo grado con motivazione inadeguata, con conseguente lesione del diritto della parte di difendersi provando, stabilito dall'art. 495, comma 2 cod. proc. pen. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Aldo Ceniccola, il quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso; memoria dell'Avv. Ge., nell'interesse dell'imputato, in replica alle conclusioni scritte del Procuratore generale. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è infondato, dovendosi intendere la volontà di "sporgere formale denuncia/querela nei confronti dei responsabili dei reati che si possono ravvisare nei fatti esposti ... (chiedendone) la punizione", manifestata dal querelante nell'atto di denuncia-querela del 23 febbraio 2021, inequivocabilmente riferita anche all'episodio relativo al giorno 20 febbraio. Dall'atto di querela sporto da De.Pi. in data 23 febbraio 2021, allegato agli atti processuali (cui questa Corte ha accesso, attesa la natura processuale della dedotta censura: sul punto, v. Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092 - 01), risulta infatti il chiaro riferimento, operato dalla persona offesa, all'episodio del 20 febbraio 2023 e alla costrizione subita in quell'occasione, per effetto del comportamento del figlio (l'odierno ricorrente); in seguito a tale evento, il querelante narrava di aver dovuto lasciare l'abitazione di residenza, per la propria salvaguardia, trasferendosi presso quella della figlia. Inoltre, come osservato dal Sostituto Procuratore generale di questa Corte nella requisitoria agli atti, l'episodio del 20 febbraio non solo si salda con quello (descritto con maggiori particolari da parte della vittima) avvenuto il successivo giorno 23, risultando altresì di identico tenore. Risulta, infine, dagli atti processuali copia di una denuncia querela (con contestuale atto di nomina di difensore e richiesta di applicazione di misura cautelare) indirizzata alla Procura del Repubblica presso il Tribunale di Pordenone del 20 febbraio 2023. 2. Il secondo motivo è infondato. Diversamente da quanto eccepito dal ricorrente, la Corte territoriale ha motivato adeguatamente il diniego dell'applicazione della causa di giustificazione, anche putativa, segnatamente attraverso il riferimento alle dichiarazioni (confuse e decontestualizzate rispetto ai fatti ascritti all'imputato) della madre e dell'imputato stesso. Quest'ultimo -ha osservato il giudice dell'appello- non ha indicato i precipui motivi per i quali egli avrebbe ritenuto sussistente un pericolo per la propria madre, così attuale e concreto da impedirgli di allertare le forze dell'ordine e di costringerlo, invece, ad agire con la descritta, immediata reazione (asseritamente) difensiva (v. Sez. 5, n. 3507 del 04/11/2009, dep. 2010, Siviglia, Rv. 245843 - 01). Correttamente applicati al caso di specie risultano, pertanto, i principi elaborati da questa Corte in tema di legittima difesa (cfr., ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 48291 del 21/06/2018, Gasparini, Rv. 274534 - 01: "l'attualità del pericolo richiesta per la configurabilità della scriminante della legittima difesa implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, così da rendere necessaria l'immediata reazione difensiva, sicché resta estranea all'area di applicazione della scriminante ogni ipotesi di difesa preventiva o anticipata"). Quanto all'esclusione dell'invocata applicazione della legittima difesa putativa, va ricordato che tale circostanza "postula i medesimi presupposti di quella reale, con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente ma è supposta dall'agente sulla base di un errore scusabile nell'apprezzamento dei fatti, determinato da una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza del pericolo attuale di un'offesa ingiusta; sicché, in mancanza di dati di fatto concreti, l'esimente putativa non può ricondursi ad un criterio di carattere meramente soggettivo identificato dal solo timore o dal solo stato d'animo dell'agente" (Sez. 1, n. 3898 del 18/02/1997, Micheli, Rv. 207376 - 01). In altre parole, ai fini della legittima difesa putativa, "l'errore scusabile che può giustificare la scriminante putativa deve trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, seppure malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell'agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un'offesa ingiusta sulla base di dati di fatto concreti, e cioè di una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza di un pericolo presente ed incombente, non futuro o già esaurito, di un'offesa ingiusta". (Sez. 1, n. 4337 del 06/12/2005, La Rocca, Rv. 233189 - 01). A tali principi può senz'altro dirsi informata l'impugnata decisione, avendo la Corte di appello escluso, con motivazione esente dai dedotti vizi di illogicità, che un siffatto errore possa essere stato ingenerato dal comportamento attuale e concreto del padre dell'imputato; in maniera altrettanto argomentata è stata rimarcata l'inattualità -e, quindi, la mancata decisività ai fini della sussistenza dell'invocata causa di giustificazione - di condotte pregresse tenute dal padre idonee a giustificare il convincimento dell'imputato di trovarsi esposto al pericolo attuale di un'offesa ingiusta. 3. Il terzo motivo è manifestamente infondato, in quanto generico e aspecifico. Premesso che il potere giudiziale di revoca, per superfluità, delle prove già ammesse è, nel corso del dibattimento, più ampio di quello esercitabile all'inizio del dibattimento stesso, momento in cui il giudice può non ammettere soltanto le prove vietate dalla legge o quelle manifestamente superflue o irrilevanti; con la conseguenza che la censura di mancata ammissione di una prova decisiva si risolve, una volta che il giudice abbia indicato in sentenza le ragioni della revoca della prova già ammessa, in una verifica della logicità e congruenza della relativa motivazione, raffrontata al materiale probatorio raccolto e valutato (v. Sez. 3, n. 13095 del 17/01/2017, S., Rv. 269331 - 01), va rilevato, nel caso di specie, un argomentato apprezzamento circa la superfluità della testimonianza - sulla base di tutti gli elementi istruttori raccolti, considerati esaurienti- nel quale non è dato cogliere alcun profilo di illogicità. La decisione del giudice di primo grado di revocare l'ammissione della teste Lo.Ro. è stata razionalmente giustificata, alla luce del fatto che la testimonianza diretta (resa dalla persona offesa, vittima degli asseriti maltrattamenti) era stata già acquisita; sicché risultava recessiva -sovrabbondante, come ritenuto dai giudici di merito- la testimonianza de relato che avrebbe fornito Lo.Ro.. A fronte di tale ratio giustificatrice, la difesa, eludendo il confronto con la motivazione dell'impugnata sentenza, si limita a osservare, genericamente (v. Sez. 1, n. 49799 del 11/10/2023, Lollo, Rv. 285580 - 01, sull'onere di specificità che incombe sul ricorrente nell'illustrare la decisività, ai fini della decisione, della deposizione ritenuta superflua dal giudice), che la teste non escussa avrebbe potuto riferire circa il rapporto conflittuale tra coniugi. Se è vero che la revoca dell'ordinanza ammissiva dei testi della difesa, in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità, produce una nullità di ordine generale a regime intermedio (integrando una violazione del diritto della parte di "difendersi provando" stabilito dall'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., dal corrispondente principio della "parità delle armi" sancito dall'art. 6, comma 3, lett. d), della CEDU, al quale si richiama l'art. Ili, comma 2, della Costituzione in tema di contraddittorio tra le parti: ex plur., Sez. 5, n. 16976 del 12/02/2020, Polise, Rv. 279166 - 01), è anche vero che, nel caso in esame, la Corte territoriale ha fornito adeguata motivazione sul punto. 4. Per i motivi fin qui esposti, il Collegio rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 17 aprile 2024 Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7183 del 2020, proposto da Az. Agr. Ca. Pa. e An. S.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Da. Ma. Bi., Fa. To., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Da. Ma. Bi. in Roma, via (...); contro Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Seconda n. 01044/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Stefano Lorenzo Vitale e udito per l'Avvocato dello Stato Lo. Vi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L'Azienda Agricola Ca. Pa. e An. S.s. (di seguito anche "azienda" o "Ca.") impugna la sentenza del Tar Lombardia (sezione staccata di Brescia) n. 1044/2019, che ha respinto il ricorso dalla stessa proposto avverso la cartella con cui AGEA ha chiesto il pagamento, per prelievo latte, della somma, non ancora corrisposta, pari a 508.739,94 euro. Il credito riguarda più annualità di prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari (segnatamente: 1997, 1998, 2000, 2001 e 2007), il cui versamento era stato chiesto con un'intimazione di pagamento del 25 settembre 2014 per la sola annata 2001 e del 10 luglio 2014 per tutte le altre. 2. A fondamento del ricorso introduttivo erano state articolate le seguenti censure: 1. illegittimità per inesistenza della notificazione, in quanto il concessionario non potrebbe notificare la cartella "in proprio", dovendo avvalersi di un ufficiale giudiziario; 2. violazione dell'art. 2909 c.c. e dell'art. 324 c.p.c., per non aver considerato gli effetti della sentenza del Tribunale di Cassano d'Adda n. 5/2009, che avrebbe riconosciuto il diritto delle imprese ricorrenti (tra cui figura l'azienda Ca.) a "essere integralmente pagate per le consegne di latte effettuate nel corso delle annate dal 1995/1996 alla 2002/2003 senza trattenute"; 3. eccesso di potere per mancato accertamento delle somme già corrisposte dalla ricorrente: l'azienda, infatti, avrebbe già versato all'Agea, attraverso la compensazione della PAC (cioè di tutti quegli importi che la Regione avrebbe dovuto pagare a titolo di indennità /integrazione del reddito che, invece, sono stati trattenuti a compensazione), dal 2006 ad oggi, l'importo di euro 440.667,92 e, di conseguenza, esclusa la possibilità di pretendere la riscossione dei prelievi supplementari relativi alle annate dal 1995 al 2003, in ragione del giudicato del Tribunale di Cassano d'Adda, quanto trattenuto risulterebbe superiore al prelievo supplementare relativo all'annata residuale 2007/2008; 4. eccesso di potere per illogicità, manifesta ingiustizia e sviamento di potere, oltre che violazione del comma 34 dell'art. 10 della legge n. 119/2003, in forza della quale il versamento di quanto dovuto per le annate comprese tra il 1995-96 e il 2001-02 avrebbe dovuto avvenire senza interessi; 5. carenza di motivazione e violazione dell'art. 24 Cost., per effetto della mancata esplicazione nella cartella delle modalità di calcolo degli interessi applicati; 6. violazione dell'art. 3, lett. b), del d.l. 28 febbraio 2005, n. 22, in relazione al regolamento CE n. 595/2004, in quanto, per le annate casearie di cui alla cartella di pagamento, sarebbe stato omesso ogni controllo della produzione lattiera e dell'esubero dei limiti, tant'è vero che è stata avviata una indagine sulla correttezza dell'operato di AGEA; 7. illegittimità della procedura di riscossione esattoriale; 8. violazione dell'art. 7 della legge n. 241/90 e dell'obbligo di informazione in esso previsto; 9. prescrizione del credito fatto valere; 10. illegittimità ed eccesso di potere per assenza di verifica della debenza degli importi; 11. violazione e falsa applicazione degli artt. 8 ter, 8quater e 8quinquies della legge n. 33/2009, poiché AGEA non avrebbe tenuto conto delle richieste di rateizzazione, rispetto a cui la ricorrente "non ha mai ricevuto alcuna comunicazione e/o provvedimento di decadenza". 3. Ad esito del relativo giudizio, il Tar competente ha rigettato il ricorso sulla scorta delle seguenti considerazioni che di seguito si riportano in sintesi: - la disposizione, applicabile ratione temporis, di cui all'art. 8quinquies, comma 10 bis, d.l. n. 5/2009 (ai sensi del quale "la notificazione della cartella di pagamento prevista dall'articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazione e ogni altra attività contemplata dal titolo II del medesimo decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, e successive modificazioni, sono effettuate dall'AGEA, che a tal fine si avvale del Corpo della Guardia di Finanza"), perseguendo una finalità ampliativa e non restrittiva delle modalità notificatorie esperibili da AGEA (le quali comprendono pacificamente la possibilità per l'agente per la riscossione di effettuare direttamente la notificazione della cartella di pagamento) rende priva di pregio la tesi per cui la notifica a mezzo posta sarebbe riservata esclusivamente agli uffici finanziari; - il diritto delle aziende agricole ricorrenti di essere integralmente pagate per le consegne di latte effettuate nel corso delle annate 1997, 1998, 2000, 2001 senza trattenute, come effettivamente riconosciuto dalla sentenza del Tribunale di Cassano D'Adda invocata, non può ritenersi esteso ai rapporti creditori diversi da quelli dedotti in giudizio; nel caso di specie, dal momento che la sentenza ha accertato il diritto della Ca. al pagamento integrale di quanto dovuto, ma solo dal primo acquirente (La Cooperativa La Lo.) e, quindi, solo in relazione ai conferimenti effettuati presso di essa in relazione alla campagna 2002/2003 (che esula però dalle annualità prese in considerazione da AGEA), ne discende che l'intimazione di pagamento contenuta nella cartella gravata non sarebbe preclusa dal giudicato; - stante l'impossibilità di estendere il giudicato a soggetti terzi rispetto al giudizio civile di cui sopra, non può ritenersi sussistere il lamentato esubero nella compensazione, con conseguente infondatezza anche della pretesa restitutoria; - quanto alla contestazione circa la legittimità del meccanismo della compensazione impropria tra aiuti e prelievi, lo stesso trova copertura normativa direttamente nel diritto comunitario, ed è stato recepito a livello interno attraverso il comma 5, dell'art. 8 ter, del D.L. n. 5/2009, convertito in legge n. 33/2009 e l'azienda non ha fornito alcun principio di prova che i contributi PAC portati in compensazione siano stati posti a scomputo anche delle uniche imputazioni sospese dal giudice amministrativo (e cioè dei debiti derivanti dalle campagne 1995/1996 e 1996/1997); - l'esonero dal pagamento degli interessi è subordinato al fatto che le somme fossero liquidate in un'unica soluzione o, quantomeno, il versamento fosse effettuato in forma rateale in un periodo non superiore a trenta anni e la ricorrente non ha fornito alcun principio di prova del fatto di essere stata ammessa alla rateizzazione, essendosi limitata a dare conto dell'avvenuta presentazione dell'istanza di ammissione alla rateizzazione; - ogni questione attinente alla quantificazione degli interessi richiesti con la cartella di pagamento impugnata avrebbe dovuto essere sollevata in relazione all'intimazione del 2014, richiamata nella cartella stessa, ovvero entro sessanta giorni dalla notificazione delle intimazioni di pagamento di cui AGEA lamenta il mancato adempimento con i solleciti anch'essi impugnati, con la conseguenza che la censura è comunque tardiva; in ogni caso, la censura si appalesa infondata anche nel merito, atteso che il tasso di interesse applicato è corrispondente al tasso legale, così come previsto dalle modalità di calcolo degli interessi inderogabilmente stabilite dalla normativa comunitaria (Reg. CE n. 536/1993, n. 1392/2001, n. 1468/2006); - la questione relativa all'omesso controllo da parte del Governo della produzione lattiera e dell'esubero dei limiti, così come la pretesa violazione dell'obbligo di informazione, avrebbero dovuto essere fatte valere in sede di contestazione di legittimità dell'imputazione dei prelievi, e non nei confronti della cartella di pagamento; - la doglianza avente ad oggetto l'asserita prescrizione del credito è infondata in quanto il diritto di AGEA di procedere al recupero delle somme dovute per le eccedenze produttive nel settore lattiero-caseario annotate nel Registro Nazionale dei Debiti tenuto da Agea stessa ex art. 8 ter, L. n. 33/2009 è soggetto al termine di prescrizione decennale, sia in riferimento alla sorte capitale che agli interessi, non trattandosi di un'obbligazione periodica ex art. 2948 n. 4 (per cui operano i termini prescrizionali ridotti), bensì di un'obbligazione unitaria e ne discende che non può ritenersi prescritto il credito relativo alle somme di cui è stato chiesto il pagamento con la cartella del 6 novembre 2018, sorto nel momento della notificazione delle intimazioni del giugno e del settembre 2014, e lo stesso vale per i solleciti di pagamento delle intimazioni risalenti al 2009 (21 marzo 2009 e 18 luglio 2009), laddove la documentazione in atti dimostra che, al momento della trasmissione via PEC degli atti impugnati (29 gennaio 2019), il termine non poteva considerarsi ancora spirato; - non può spiegare incidenza sul giudizio in corso la recente pronuncia della Corte di Giustizia europea circa la non conformità al diritto comunitario della previsione delle categorie privilegiate di produttori che usufruiscono della compensazione nazionale in via prioritaria, trattandosi ancora una volta di un profilo inerente alla sussistenza dei presupposti relativi al debito imputato e non più rilevante in fase di riscossione. 4. Avverso detta pronuncia, la Ca. ha proposto appello articolando otto motivi rubricati come segue: 1. Incompatibilità comunitaria della disposizione di legge relativa alla redistribuzione delle quote non utilizzate, che avrebbe escluso da essa tutte le aziende cui era stato contestato il superamento della quota assegnata; 2. Violazione di legge - Violazione dell'articolo 2909 codice civile e dell'articolo 324 codice procedura civile - Eccesso di potere - Manifesta irragionevolezza; 3. Eccesso di potere, Illegittimità per mancato accertamento delle somme già corrisposte dalla ricorrente; 4. Illegittima intimazione degli interessi, eccesso di potere per illogicità manifesta e manifesta ingiustizia, sviamento di potere e la carenza di motivazione negli atti impugnati; Violazione del comma 34 dell'art. 10 della l. n. 119 del 2003; 5. Violazione di legge (Art. 3 della Legge 241 del 1990 e dell'articolo 24 Cost.) - Carenza di motivazione; 6. Violazione dell'art. 7 Legge 241/90. Violazione dell'obbligo di informazione; 7. Eccesso di potere- Violazione di legge in relazione all'art. 3 del Decreto Legge 28 febbraio 2005, n. 22, lettera b); in relazione al Regolamento CE n. 595/ 2004; 8. Illegittimità e eccesso di potere per assenza di verifica circa la debenza degli importi al capitale e gli interessi da parte dei primi acquirenti. Si è costituita in resistenza Agea e, all'udienza del 4 aprile 2024, la causa è stata trattenuta in decisione DIRITTO 1. Con il primo motivo parte appellante ribadisce l'incompatibilità comunitaria della disposizione di legge interna relativa alla redistribuzione delle quote non utilizzate. In considerazione di due pronunce della Corte di Giustizia (Sez. VII, 27 giugno 2019, C-348/18, Barausse; Sez. II, 11 settembre 2019, C-46/18, San Rocco) intervenute in corso di causa, l'appellante deduce che la disciplina nazionale che regola il procedimento di "compensazione" dovrebbe essere disapplicata, per contrasto con il diritto europeo, ed il giudice di prime cure avrebbe errato nel non disporre tale disapplicazione. Il motivo è infondato. L'impugnativa in esame, infatti, ha ad oggetto non l'atto di quantificazione del prelievo supplementare, provvedimento tipicamente amministrativo, ma la cartella di pagamento riguardante la fase esecutiva della riscossione del prelievo dovuto. Oggetto dell'impugnazione, pertanto, è un atto riferito a pregresse debenze già accertate con provvedimenti inoppugnabili e, peraltro, la sentenza di primo grado (pag. 9), non contestata sul punto dall'appellante, evidenzia che molteplici crediti sono altresì coperti da precedenti giudicati amministrativi. Di contro, i profili asseritamene vizianti la cartella sono stati dedotti dalla azienda, anche invocando le due sentenze della Corte di Giustizia citt., come l'effetto derivato di improprie modalità applicative della quota supplementare e di un errato calcolo delle quote di prelievo e, comunque, come frutto di aspetti relativi a tematiche concernenti la determinazione sostanziale del debito, non già ad irregolarità proprie della fase esecutiva (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 14 dicembre 2022; Cons. Stato, sez. III, 17 maggio 2022, n. 3910). D'altra parte, in ordine al regime dei provvedimenti amministrativi nazionali assunti in violazione del diritto europeo, la giurisprudenza ampiamente prevalente ha evidenziato che il contrasto di un atto amministrativo con il diritto europeo costituisce sempre e solo motivo di annullabilità e non di nullità . Ne consegue che la nullità è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento amministrativo nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere incompatibile con il diritto europeo e quindi disapplicabile, la cui ipotesi non ricorre nella fattispecie in esame. La violazione del diritto europeo, quindi, implica un vizio d'illegittimità con conseguente annullabilità dell'atto amministrativo con esso contrastante e da ciò discende un duplice ordine di conseguenze: sul piano processuale l'onere dell'impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto europeo davanti al giudice amministrativo entro il termine di decadenza; sul piano sostanziale, l'obbligo per l'amministrazione di dar corso all'applicazione dell'atto, fatto salvo l'esercizio del potere di autotutela. La natura autoritativa di un provvedimento amministrativo, infatti, non viene meno se la disposizione attributiva di potere è poi dichiarata incostituzionale o si manifesta in contrasto con il diritto europeo (Cons. St., sez. III, 29 settembre 2022, n. 8380; Cons. St., sez. II, 7 aprile 2022, n. 2580; id. 25 marzo 2022, n. 2194; id. 16 marzo 2022, n. 1920), a maggior ragione quando, come nel caso di specie in materia di quote latte, il contrasto con il diritto europeo non ha riguardato la disposizione attributiva del potere, ma una regola sui criteri da seguire per il legittimo esercizio del potere (Cons. St., sez. III, 20 luglio 2022, n. 6333); più nel dettaglio, le due sentenze della Corte di giustizia sopra richiamate hanno accertato l'incompatibilità della normativa interna concernente (non già il prelievo supplementare a monte, ma) i criteri di riassegnazione dei quantitativi inutilizzati ovvero i (criteri relativi ai) rimborsi delle eccedenze dei prelievi supplementari. Anche la giurisprudenza europea, nell'esercizio della sua funzione nomofilattica, ha posto ugualmente in rilievo che la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario, sicché "il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini ragionevoli di ricorso in seguito all'esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo" (Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, causa C-453-00, Kuhne & Heitz). La giurisprudenza europea successiva ha evidenziato come, nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, il principio della certezza nei rapporti giuridici non determina che gli stessi, una volta esauriti, debbano essere messi nuovamente e continuamente in discussione per effetto di una sentenza della Corte di Giustizia che sancisca la sostanziale incompatibilità di un determinato atto con la normativa europea (cfr. Corte di giustizia, 21 dicembre 2021, causa C-497/20, Randstad Italia; Id., 7 luglio 2022, causa C-261/21, Hoffmann-La Roche). Per le ragioni esposte, il Collegio ritiene che non vi siano i presupposti per accogliere la richiesta (avanzata con la memoria del 4 marzo 2024) con cui l'appellante chiede di rimettere alla Corte di giustizia una questione interpretativa riguardante, in sintesi, la possibilità o meno per il giudice nazionale di "disapplicare" l'atto amministrativo divenuto inoppugnabile laddove contrastante con il diritto euro-unitario. Alla luce di quanto esposto e della giurisprudenza comunitaria citata, la corretta interpretazione del diritto dell'Unione s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (teoria dell'atto chiaro, su cui cfr. Corte di Giustizia, 6 ottobre 2021, causa C-561/19, Consorzio Italian Management, punto 66) apparendo, dunque, superfluo sollevare la questione pregiudiziale prospettata dall'appellante Pertanto, proprio in ragione del carattere ormai incontestabile dei provvedimenti impositivi, in vari casi anche coperti da precedenti giudicati, deve concludersi nel senso dell'infondatezza del primo motivo. 2. Il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il settimo e l'ottavo motivo - che, peraltro, si pongono in alcuni casi ai limiti dell'ammissibilità per difetto di sinteticità e chiarezza, particolarmente evidente laddove omettono di confrontarsi in modo specifico con l'ampio corredo motivazionale della sentenza gravata - sono del pari infondati per le ragioni esposte al punto che precede, dal momento che fanno valere asserite illegittimità dei provvedimenti amministrativi, ormai divenuti inoppugnabili, che "a monte" hanno determinato nel quantum il credito erariale. Fermo quanto appena esposto in via assorbente, il Collegio, con riguardo ai motivi dal secondo al quinto, per completezza osserva altresì nel merito quanto segue. 2.1. Con il secondo motivo l'appellante ripropone il vizio di violazione di legge, violazione dell'articolo 2909 codice civile e dell'articolo 324 codice procedura civile, eccesso di potere, manifesta irragionevolezza. Come rilevato dal Tar, la sentenza del Tribunale di Cassano d'Adda n. 5/2009, invocata dalla Ca. quale giudicato, precludendo ad AGEA di pretendere il pagamento del prelievo supplementare riguarda la posizione dell'azienda odierna appellante solo per il conferimento alla Cooperativa La Lo. nelle annate comprese tra il 1995/1996 e il 2002/2003. Pertanto, il credito per cui è causa ha ad oggetto esclusivamente prelievi relativi ai conferimenti effettuati tra il 1997 e il 2007 dall'azienda ricorrente a soggetti diversi da "La Lo.", che non sono mai stati citati nel giudizio esitato nell'emissione della sentenza del Tribunale di Cassano d'Adda e a cui, quindi, non possono estendersi gli effetti di quel giudicato. 2.2. Con il terzo motivo, l'appellante lamenta eccesso di potere e illegittimità per mancato accertamento delle somme dalla medesima già corrisposte a titolo di compensazione della Pac. Tale censura si fonda sul presupposto erroneo secondo cui, dovendo ritenersi inesigibili le somme dovute al prelievo relativo alle annate tra il 1995 e il 2003 in forza dell'accertamento contenuto nella sentenza del Tribunale di Cassano D'Adda, più volte richiamata, quanto trattenuto in compensazione in relazione ai contributi PAC richiesti e riconosciuti all'odierna appellante si rivelerebbe eccedente rispetto al debito (residuo) facente capo alla Ca.. È evidente che, non potendo validamente invocarsi l'estensione degli effetti del giudicato civile in esame, il rigetto nel merito di tale doglianza non consente di ritenere sussistente il lamentato esubero nella compensazione, con conseguente infondatezza anche della pretesa restitutoria. 2.3. Con il quarto motivo, la Ca., con riferimento agli interessi relativi agli importi imputati e non pagati a titolo di prelievo supplementare latte per i periodi di commercializzazione compresi tra gli anni 1995-1996 e 2001-2002, eccepisce l'erronea applicazione del comma 34 dell'art. 10 della l. n. 119 del 2003, secondo cui, in relazione a dette annate, il versamento di quanto complessivamente dovuto era da effettuarsi senza interessi. Il motivo è infondato atteso che l'esenzione dagli interessi prevista dall'art. 10, comma, 34 del D.L. n. 49/2003 rappresenta un incentivo collegato alla rateizzazione prevista dalla medesima norma con riferimento alle campagne dal 1995-1996 al 2001-2002, ma nel caso di specie la parte appellante non ha fornito alcuna prova di aver aderito ad un piano di rateizzazione. Essendosi limitata a dare conto della semplice presentazione dell'istanza di ammissione alla rateizzazione, su cui l'Amministrazione è rimasta inerte, e non potendosi desumere da tale contegno alcuna volontà, l'azienda produttrice resta obbligata al pagamento degli interessi. In proposito, peraltro, occorre sottolineare che la rinuncia agli interessi da parte delle autorità nazionali costituisce aiuto di Stato, e dunque richiede un'apposita deroga in sede europea (per la rateizzazione del 2003, v. l'accordo Ecofin del 3 giugno 2003, e la decisione del Consiglio dell'Unione n. 2003/530/CE del 16 luglio 2003). 2.4. È infondato anche il quinto motivo con cui l'appellante deduce violazione di legge e carenza motivazionale con riferimento al computo degli interessi esigibili da AGEA: ferma restando la possibilità per l'appellante di contestare, nella presente sede, solamente il conteggio degli interessi maturati successivamente ai precedenti provvedimenti divenuti inoppugnabili, nel caso di specie il Tar ha correttamente osservato che il tasso di interesse applicato è quello corrispondente al tasso legale. 3. Con il sesto motivo l'appellante deduce la violazione dell'art. 7 Legge n. 241/90 e la violazione dell'obbligo di informazione. Secondo la Ca., il mancato invio dell'avviso di avvio del procedimento, in difetto dei presupposti di celerità che possano legittimarne l'omissione, ha viziato l'attività amministrativa, in quanto è stato impedito all'odierna appellante di partecipare al procedimento e, in tal modo, non è stato assicurato l'effettivo conseguimento dell'interesse pubblico. Il motivo è infondato. Il Collegio osserva, in via assorbente, che la cartella di pagamento rappresenta un provvedimento vincolato, con cui viene intimato il pagamento di somme che, come si è già esposto, sono state determinate in precedenza con provvedimenti presupposti divenuti inoppugnabili, e in alcuni casi coperti da giudicato e, pertanto, ai sensi dell'art. 21-ocites, comma 2, L. n. 241/1990, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento non comporta l'annullamento della cartella impugnata. 4. In conclusione, l'appello va integralmente respinto, con conferma della sentenza impugnata. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte appellante a rifondere all'appellata le spese di lite quantificate in euro 7.000,00 (settemila) oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Stefano Lorenzo Vitale - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere Dott. RUSSO Carmine - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul conflitto di competenza proposto da: TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE nei confronti di TRIBUNALE DI SALERNO nel procedimento a carico di Ca.Gi. nato a C il (Omissis) con la ordinanza del 12/01/2024 del TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere CARMINE RUSSO; lette le conclusioni del PG, Simone Perelli, che ha chiesto sia riconosciuta la competenza del Tribunale di Salerno. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 20 luglio 2016 il Tribunale di Nocera Inferiore, in funzione di giudice del giudizio direttissimo, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio per giudicare dei reati attribuiti a Ca.Gi. (furto aggravato commesso in S il 19 luglio 2016; resistenza a pubblico ufficiale commessa in S il 19 luglio 2016; lesioni aggravate in danno di pubblico ufficiale commessa in S il 19 luglio 2016), in quanto il reato più grave di furto risulta esser stato commesso a S, ed ha disposto a trasmettersi gli atti al pubblico ministero presso il Tribunale di Salerno. Con sentenza del 25 maggio 2022 il Tribunale di Salerno, in funzione di giudice del dibattimento, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio per giudicare degli stessi reati, sostenendo che, poiché i reati sono stati commessi tutti lo stesso giorno, la competenza dovrebbe essere radicata, in base al criterio dell'art. 9, comma 1, cod. proc. pen., nel luogo in cui è stata commessa una parte dell'azione, ovvero in S, ed ha disposto trasmettersi gli atti al pubblico ministero presso il Tribunale di Nocera Inferiore. Con ordinanza del 12 gennaio 2024 il Tribunale di Nocera Inferiore, in funzione del giudice del dibattimento, rilevato che il Tribunale di Salerno aveva dichiarato l'incompetenza senza sollevare conflitto negativo davanti alla Corte di Cassazione, ha disposto trasmettersi gli atti alla Corte di Cassazione denunciando il conflitto, e chiedendo di dichiarare quale sia il giudice competente. 2. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, dr. Simone Perelli, ha concluso chiedendo che sia riconosciuta la competenza del Tribunale di Salerno. Considerato in diritto 1. Il conflitto sussiste, in quanto due giudici hanno ricusato contemporaneamente di prendere cognizione della stessa questione processuale, determinando una situazione di stasi processuale, prevista dall'art. 28 cod. proc. pen., la cui risoluzione è demandata a questa Corte dalle norme successive. Il conflitto deve essere risolto dichiarando la competenza del Tribunale di Salerno. 2. I criteri di attribuzione della competenza agli organi giurisdizionali sono individuati negli artt. 8, 9 e 16 cod. proc. pen. Nel caso di reati connessi, quali quelli in esame, in cui l'imputato ha commesso a poche ore di distanza prima in S il furto aggravato dell'autovettura, e poi in S la resistenza e le lesioni volontarie in danno del personale di polizia che stava procedendo al suo arresto in flagranza per tale furto, l'art. 16, comma 1, cod. proc. pen. dispone che "la competenza per territorio per i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia appartiene al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato". Nel caso in esame, il reato più grave è il furto aggravato dell'autovettura, di cui al capo A, avvenuto in S (artt. 110, 624, 625 cod. pen., contestato con l'aggravante della violenza sulle cose e con quella dell'esposizione alla pubblica fede), punito con la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da 206 Euro a 1.549 Euro, che è più grave sia del reato di resistenza a pubblico ufficiale, di cui al capo B (art. 337 cod. pen.), punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni, che di quello di lesioni volontarie aggravate di cui al capo C (artt. 61 n. 2, 582, 585 cod. pen., in fatto è da ritenersi contestata anche l'aggravante dell'art. 576, comma 1, n. 5-bis, cod. pen. in quanto commesso contro ufficiale o agente di polizia giudiziaria), punito con la reclusione da 8 mesi a 4 anni e 6 mesi. La diversa tesi sostenuta dal Tribunale di Salerno della necessità di determinare la competenza in base ai criteri suppletivi dell'art. 9 cod. proc. pen. non è corretta in diritto, essendo applicabili i criteri suppletivi soltanto quando non sia possibile determinare il luogo di consumazione di nessuno dei reati connessi. 3. Il conflitto negativo dedotto deve essere, pertanto, risolto, dichiarando la competenza del Tribunale di Salerno. Il processo dinanzi al Tribunale di Salerno riprende dal punto in cui si trovava nel momento in cui è stato emesso il provvedimento che ha declinato la competenza a provvedere (Sez. 1, n. 1569 del 9/11/2023, dep. 2024, confl. comp. in proc. Nardi, n.m.), a nulla rilevando che, nel caso in esame, il Tribunale di Salerno, anziché procedere ad attivare la procedura di cui all'art. 28 cod. proc. pen. e demandare la soluzione del conflitto alla Corte di cassazione, abbia illegittimamente restituito gli atti all'autorità giudiziaria di Nocera Inferiore tramite sentenza di incompetenza determinando in questo modo la indebita retrocessione del processo. Ai sensi dell'art. 32, comma 2, cod. proc. pen. l'estratto della sentenza è immediatamente comunicato ai giudici in conflitto e al pubblico ministero presso i medesimi giudici ed è notificato alle parti private. P.Q.M. Decidendo sul conflitto, dichiara la competenza del Tribunale di Salerno, cui dispone trasmettersi gli atti. Così deciso il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2024.
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