Sentenze recenti restituzione somme

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5319 del 2022, proposto da Ge. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co., Gi. Co. e Al. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Co. in Roma, via (...); contro Ivass, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ni. Ge., Da. Ad. Ma. Za. e El. Gi. Mu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ni. Ge. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 03221/2022, resa tra le parti, per l'annullamento, in parte qua, dell'ordinanza-ingiunzione emessa da IVASS con prot. n. 0122245/17 del 21.06.2017, successivamente notificata e ricevuta da Ge. S.p.A. il 27.06.2017, con la quale sono state irrogate alla ricorrente le sanzioni amministrative pecuniarie di cui agli artt. 318, c. 1 e 319, c. 1, d.lgs. 209/2005 complessivamente quantificate in Euro 41.000 (doc. 1); nonché di ogni atto presupposto, connesso e/o consequenziale, quali in particolare: l'atto di contestazione adottato da IVASS prot. n. 0095142/2016 dell'11.05.2016 ed il rapporto ispettivo formato dal Servizio Ispettorato - IVASS (doc. 2). con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate ovvero, in via subordinata, per la rideterminazione dell'importo della sanzione in misura più favorevole alla ricorrente, con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ivass, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti gli avvocati Gi. Co., Ni. Ge. e Da. Ad. Ma. Za.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma Sezione Seconda Ter, n. 01433/2021, di reiezione del ricorso proposto Ge. S.p.A., per l'annullamento in parte qua dell'ordinanza-ingiunzione emessa da IVASS con prot. n. 0122245/17 del 21.06.2017, d'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui agli artt. 318, c. 1 e 319, c. 1, d.lgs. 209/2005 complessivamente quantificate in Euro 41.000. Cumulativamente, oltre ad estendere il gravame all'atto di contestazione adottato da IVASS prot. n. 0095142/2016 dell'11.05.2016 ed al rapporto ispettivo formato dal Servizio Ispettorato - IVASS; la società ricorrente ha chiesto la condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate ovvero, in via subordinata, per la rideterminazione dell'importo della sanzione in misura più favorevole all'appellante, con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate. 2. La sanzione consegue all'accertamento di cinque distinte ipotesi di violazione del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (artt. 182 e 183) e di diverse norme regolamentari poste in essere dalla Società appellante con riferimento alla commercializzazione di "BG Stile Libero", prodotto che combina assicurazioni di ramo I con assicurazioni di ramo III di cui all'articolo 2, c. 1, del d.lgs. 209/2005 ("Codice delle Assicurazioni Private"). Gli illeciti ritenuti sussistenti sono i seguenti: - utilizzo di materiale pubblicitario contenente espressioni che non consentono una chiara comprensione dei rischi finanziari che caratterizzano il prodotto (illecito a); - illustrazione fuorviante del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione (illecito b); - mancata consegna del "Progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata" (illecito c); - non piena attendibilità dell'indicatore "Costo Percentuale Medio Annuo" riportato nella scheda sintetica ("CPMA") (illecito e); - carenti istruzioni alla rete distributiva in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti (illecito f). 3. Con i primi quattro motivi (da I a IV) del ricorso di primo grado la società appellante lamentava "I vizi del provvedimento sanzionatorio"; nei restanti cinque motivi (da V a IX) denunciava l'"Insussistenza delle violazioni"; con il decimo motivo (X) chiedeva in subordine la rideterminazione della sanzione in caso di mancato accoglimento della domanda di annullamento. 4. Il Tar ha respinto il ricorso. Il Giudice di prime cure ha confermato la violazione rubricata sub a) nel testo dell'ordinanza gravata con la quale Ivass ha contestato l'utilizzo di materiale pubblicitario contenente espressioni che non consentivano una chiara comprensione dei rischi finanziari che caratterizzavano il prodotto. Sul punto, il Tar osserva che la broucher del prodotto si presentava inequivocabilmente omissiva sia in ordine alle percentuali con le quali la componente assicurativa e quella finanziaria andavano a comporre il prodotto, sia in ordine alla tipologia di rischio che è sicuramente difforme dal canone di chiarezza indicato dalla disposizione regolamentare, e da quello di correttezza richiamato anche dalla disposizione legislativa. Infatti, sebbene la società ha utilizzato dato atto della natura composita del prodotto, nulla s'è chiarito in ordine all'effettiva composizione del prodotto stesso che presentava una spiccata componente finanziaria e significativi rischi di mercato a carico dei contraenti i quali, per una parte compresa tra 70% e il 95% del premio versato, non avevano alcuna garanzia di capitale né tantomeno di rendimento minimo, così che il prodotto nel suo insieme risultava oggettivamente connotato da un cospicuo rischio di perdita del capitale, non percepibile dalla lettura della brochure. In merito alla violazione rubricata sub b) con la quale Ivass ha ritenuto che la ricorrente abbia illustrato in maniera fuorviante il regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione, il giudice di prime cure osserva che le espressioni utilizzate non erano chiare e comprensibili in punto di informazione fiscale, atteso che le stesse non rendevano agevolmente percepibile quali somme fossero esenti da imposta di successione e quali da Irpef. Il Tar conferma anche la violazione rubricata sub c) con la quale Ivass sanzionava la Società appellante per non avere consegnato ai clienti il "progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata" come prescritto dalla normativa. Dalle risultanze istruttorie acquisite in sede ispettiva emerge che il progetto esemplificativo è stato solo mostrato per presa visione. Analogamente, la violazione rubricata sub e) con la quale Ivass ha ritenuto che Geneterllife non abbia riportato, nella scheda sintetica, l'indicatore Costo Percentuale Medio annuo (CPM) in maniera attendibile, trova conferma, secondo il Tar, nel modo in cui l'indice è stato redato senza che emergano, in maniera chiara, i livelli di onerosità del prodotto "BG Stile Libero". Infine il giudice di prime cure riscontra positivamente anche la violazione rubricata sub f) per aver fornito alla rete distributiva informazioni carenti in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti. Nel respingere i vari motivi di ricorso, il Tar aggiunge che le conclusioni raggiunte dall'Ivass risultano supportate da riscontri documentali acquisiti in sede di visita ispettiva e correttamente inquadrate in fattispecie di illecito sufficientemente specificate. In merito alla quantificazione della sanzione, il Tar richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di motivazione del quantum delle sanzioni amministrative pecuniarie, la scelta tra il minimo ed il massimo di pena pecuniaria risponde allo scopo di rimettere al potere dell'amministrazione la commisurazione della sanzione alla concreta gravità del fatto illecito, senza necessità che sia specificato il criterio seguito. La quantificazione della sanzione costituisce espressione di discrezionalità amministrativa non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie forme sintomatiche. 5. Appella la sentenza Ge. S.p.A. 6. Si è costituito in giudizio l'Ivass. 7. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 8. Con il primo motivo di appello l'appellante censura l'ordine con cui il Giudice di prime cure ha esaminato i motivi di ricorso, anteponendo l'esame delle censure relative all'insussistenza delle violazioni (motivi da V a IX) rispetto alla disamina delle doglianze sui vizi del provvedimento sanzionatorio (motivi da I a IX). In particolar modo l'appellante censura il fatto che il Tar abbia postergato l'esame e respinto il primo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione del principio di legalità, determinatezza e tassatività delle fattispecie sanzionabili, dei principi di certezza del diritto e degli artt. 1 l. n. 689/1981 e 182 e 183 del c.a.p. Contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, nel caso in esame, non si riscontrerebbero fattispecie sanzionatorie astratte, ricostruibili in chiari termini precettivi perfettamente comprensibili da un primario operatore del settore assicurativo. L'appellante, in particolare, in merito alla possibilità di ricostruire gli illeciti sanzionati riconducendoli alle fattispecie sanzionatorie astratte in chiari termini precettivi, osserva che la sentenza (p. 15) ammette che gli artt. 182 e 183 CAP, per la determinazione del loro contenuto, necessitano di una eterointegrazione mediante il rinvio ad una norma diversa da quella "incriminatrice". Nondimeno, alla pagina successiva (p. 16), ad avviso dell'appellante, la pronuncia in maniera criptica e tautologica, afferma che "con riferimento alle cinque figure di illecito ritenute ricorrenti da Ivass, vengono, di volta in volta, in rilievo violazioni di obblighi fondamentali gravanti sull'impresa assicuratrice quali quello di chiarezza, trasparenza e correttezza... la cui violazione - oltre a rilevare su un piano civilistico, ai sensi degli artt. 1337,1366 e 1375 c.c. - integra pure gli illeciti amministrativi delineati dagli artt. 182 e 183 del d,lgs. 209/2005". L'appellante sostiene che il giudice di prime cure avrebbe omesso di esaminare la necessità di eterointegrazione dei precetti normativi; le fonti integrative richiamate non sarebbero dotati di quei caratteri di determinatezza e di tassatività che controparte stessa ritiene indispensabili a suffragare il rispetto della riserva di legge. Sul punto, il Tar avrebbe fatto mal governo dei precedenti giurisprudenziali citati nella sentenza poiché gli addebiti, contrariamente a quanto precisato nelle decisioni, sarebbero formulati facendo sostanzialmente rinvio a clausole generali (diligenza, correttezza, trasparenza) che non sono ancorate ad alcun concreto parametro oggettivo. Pertanto, nemmeno si realizzerebbe un effettivo meccanismo di eterointegrazione della norma sanzionatoria primaria attraverso norme secondarie. In merito all'illecito sub a) (utilizzo di materiale pubblicitario con espressioni fuorvianti), richiamando le norme che l'Ivass assume violate (art. 182 c. 1 CAP; art. 39 c. 1 Reg. 35/2010), l'appellante osserva che le norme impongano il rispetto dei principi generali (correttezza e chiarezza) senza precisarne il contenuto. Il Tar si limiterebbe a rilevare che chiarezza e correttezza impongono che il messaggio pubblicitario sia tale da far comprendere le caratteristiche principali del prodotto, tuttavia non risulterebbe alcun obbligo di precisare nel messaggio pubblicitario le proporzioni tra la componente assicurativa e la componente finanziaria del prodotto. In merito all'illecito sub b) (Illustrazione fuorviante del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione) l'appellante osserva, da un lato, come il Tar si sofferma sull'eccesiva tecnicalità delle espressioni utilizzate dall'appellante (che il provvedimento gravato sanziona), dall'altro lato, come le norme che si assumono violate si caratterizzano per l'elevato tecnicismo delle regole. In secondo luogo la norma che si assume violata (All. 3 punto 8 Reg. 35/2010) stabilisce che deve essere "indicato" il trattamento fiscale applicabile al contratto; al contrario l'illecito è rubricato "illustrazione". I due concetti non sarebbero sovrapponibili: "indicare" significherebbe fornire informazioni; "illustrare" significherebbe chiarire nei particolari. In merito all'illecito sub c) (Mancata consegna del progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata), l'appellante lamenta che la tesi del Tar, secondo cui a norma del regolamento sarebbe necessario che il cliente riceva in consegna il documento in quanto la presa visione non sarebbe sufficiente a rispettare il precetto normativo, è formalistica. La messa a disposizione del progetto, comprovata dall'attestazione di presa visione, indicherebbe che il documento è stato sottoposto al cliente prima di concludere il contratto. In merito all'illecito sub e) (Non piena attendibilità dell'indicatore Costo Percentuale Medio Annuo riportato nella scheda sintetica) l'appellante osserva che non verrebbe indicata quale previsione specifica della normativa regolamentare sia stata violata, di conseguenza resterebbe indeterminato il criterio concretamente prescritto dall'all. 2 Reg. 35/2010 e concretamente disatteso. In merito all'illecito f) (Carenti istruzioni alla rete distributiva in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti) l'appellante sostiene che il Tar si limita a riportare i profili di criticità rappresentati nel provvedimento sanzionatorio, tanto da essere indefinito il quadro delle regole che avrebbe violato. Il giudice di prime cure non affronterebbe la questione relativa alla mancanza di parametri oggettivi che guidino nell'applicazione della normativa alle polizze multi-ramo. 8.1 Il motivo è infondato. Quanto all'ordine d'esame delle censure, va ribadito che non è prescritto da parte del Giudice un ordine preciso di esame dei vari motivi proposti qualora essi non siano stati graduati dal ricorrente o, come nel caso di specie, non siano eccepiti il vizio di incompetenza o il difetto di legittimazione. Viceversa, nell'economia della decisione, il riscontro analitico delle singole violazioni ha evidenziato in modo puntuale, riferito al caso concreto, la sostanziale determinatezza dei precetti sanzionatori applicati. Sul piano generale, quanto alla denunciata violazione della necessaria determinatezza e tassatività delle fattispecie sanzionabili si può osservare che la riserva di legge prevista dall'art. 1 l. 689/81 è precettiva solo per quanto attiene alla determinazione della sanzione, esigendo la norma che la stessa sia comminata sulla base di norma primaria, ma consentendo il rinvio (cfr., Corte Cost. 11 luglio 1961, n. 48) "a provvedimenti amministrativi della determinazione di elementi o di presupposti espressione di discrezionalità tecnica". La riserva di legge - sul presupposto che la sanzione sia comminata direttamente dalla legge -consente l'integrazione meramente tecnica del precetto da parte di fonti non legislative. Le norme di settore contenenti i precetti non possono materialmente declinare tutte le fattispecie di violazione dei princì pi stessi perché ne risulterebbero norme pletoriche e comunque non esaustive di tutte le possibilità . Le norme in esame richiamano princì pi generali, individuabili senza incertezze, in cui il fatto viene accertato e sussunto nella fattispecie normativa per effetto dei rilievi in fatto contenuti nel rapporto ispettivo o azione di vigilanza "off site". In definitiva la contestazione d'addebiti e il provvedimento finale, s'integrano vicendevolmente e la portata lesiva dei fatti ed il loro disvalore nell'ordinamento di settore valutati nella motivazione del provvedimento impugnato.. La portata semantica degli elementi normativi evocati dai ridetti princì pi generali deriva dall'attività interpretativa tecnico-discrezionale dell'autorità procedente di cui il provvedimento e, prima ancora, gli atti prodromici - assunti in regì me di piena trasparenza e di contraddittorio - danno conto in motivazione. 9. Con il secondo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata prova dei supposti illeciti. Il Tar ha sostenuto che le conclusioni di Ivass sarebbero supportate da riscontri documentali e inquadrate in fattispecie sufficientemente specificate, pertanto sarebbero soddisfatti gli oneri istruttori e motivazionali. Il giudizio espresso dal Tar sarebbe sostanzialmente apodittico, in quanto non sorretto da una effettiva dimostrazione. Sul secondo punto rinvia a quanto sostenuto nel primo motivo di appello. 9.1 Il motivo è infondato. Gli atti acquisiti in sede ispettiva e gli atti del procedimento, quali l'atto di contestazione e l'ordinanza gravata, circoscrivono i fatti contestati richiamando le disposizioni violate, anche tramite rinvio al rapporto ispettivo. La prova degli illeciti è stata offerta in concreto, consentendo all'ingiunta di percepire le contestazioni e di controdedurre nel corso del procedimento e corrisponde al paradigma probatorio tipico degli illeciti omissivi. Vale a dire che la prova della condotta positiva di adempimento degli obblighi derivanti dalla collocazione del prodotto finanziario-assicurativo, ai fini del rispetto dei princì pi di tutela in argomento, gravava - a fronte della contestata omissione - sull'impresa (cfr., Cass., Sez. Un., 30/9/2009, n. 20930, cit., anche in richiamo di Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533). 10. Con il terzo motivo di appello, l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il terzo motivo di ricorso con cui aveva lamentato la "Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 326 c. 1, CAP e dell'art. 5, Reg. IVASS 1/2013, nonché dell'art. 11, l. 689/1981. Violazione e/o falsa applicazione del principio di proporzionalità ...". Il Tar ha ritenuto che le fattispecie violate sarebbero ascrivibili a fattispecie di pericolo e che i richiami giurisprudenziali addotti dall'appellante a sostegno delle sue tesi non siano pertinenti. L'appellante censura la ricostruzione delle violazioni in termini di "fattispecie di pericolo" che si porrebbe in contrasto con la normativa di settore. Muovendo dall'analisi del dato normativo, l'appellante sostiene che le sanzioni sono configurate dalla normativa di riferimento come strumento che, oltre a punire, interviene per rimediare alla lesione, pertanto non potrebbero essere disgiunte dalla concreta lesività della condotta. La sentenza sarebbe erronea per aver trascurato la violazione del principio di proporzionalità ; per non aver tenuto conto che la società ha palesato la propria condotta collaborativa nei confronti della Vigilanza, tanto da essere intervenuta con azioni concrete per allinearsi ai rilievi critici prospettati nel rapporto ispettivo. Gli interventi migliorativi attuati dalla società appellante, e valutati positivamente dal Servizio Ispettorato, sarebbero stati travisati dall'Autorità che vi avrebbe ravvisato una sorta di "confessione" implicita o, almeno, di ammissione di responsabilità da cui far scaturire i presupposti per irrogare la sanzione. 10.1 Il motivo è infondato. In contrario a quanto dedotto dall'appellante, in continuità all'indirizzo giurisprudenziale qui condiviso, s'è chiarito che gli illeciti in materia assicurativa - proprio in quanto ritenuti di pericolo - sono perseguiti dall'ordinamento senza richiedere, quali elementi costitutivi, il pregiudizio della clientela o il conseguimento di concreto vantaggio economico (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444; Id.., sez. VI, 26 marzo 2020, n. 2125; Id., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5566; ) Anche il pregiudizio (o, a fortiori, il mero reclamo) dei clienti costituisce dato ultroneo ed estraneo rispetto agli elementi costitutivi dell'illecito, il quale è integrato dalla mera violazione di regole di comportamento che delineano la diligenza professionale esigibile, peraltro espressamente codificate sia a livello primario che regolamentare. La sanzione amministrativa, infatti, "non ha una funzione compensativa (risarcitoria) del danno patrimoniale subito dall'impresa assicuratrice, bensì intende garantire l'effetto di deterrenza a tutela della trasparenza del sistema assicurativo generale" (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444). Né è ravvisabile la violazione del principio di proporzionalità poiché la condotta cautelativa della società è meritevole d'apprezzamento nella graduazione della sanzione, e non nell'adozione della sanzione che non è (affatto) alternativa ai rimedi spontanei adottati dall'incolpata. 11. Con il quarto motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il quarto motivo del ricorso di primo grado. Il Tar si limita a negare che gli elementi prospettati dall'appellante - vale a dire la circostanza che la Società sia stata sanzionata nonostante abbia assunto misure più cautelative per la clientela; ed abbia applicato la normativa in modo più restrittivo di quanto previsto - possano inficiare il provvedimento sanzionatorio. Sicché le presunte violazione in materia di tutela del contribuente non sussisterebbero in ragione della condotta della società sarebbe improntata alla massima protezione della clientela e non risulterebbe in contrasto con le disposizioni di riferimento. 11.1 Il motivo è infondato In contrario a quanto dedotto dall'appellante, in continuità all'indirizzo giurisprudenziale qui condiviso, s'è chiarito che gli illeciti in materia assicurativa - proprio in quanto ritenuti di pericolo - sono perseguiti dall'ordinamento senza richiedere, quali elementi costitutivi, il pregiudizio della clientela o il conseguimento di concreto vantaggio economico (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444; Id.., sez. VI, 26 marzo 2020, n. 2125; Id., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5566; ) Anche il pregiudizio (o, a fortiori, il mero reclamo) dei clienti costituisce dato ultroneo ed estraneo rispetto agli elementi costitutivi dell'illecito, il quale è integrato dalla mera violazione di regole di comportamento che delineano la diligenza professionale esigibile, peraltro espressamente codificate sia a livello primario che regolamentare. La sanzione amministrativa, infatti, "non ha una funzione compensativa (risarcitoria) del danno patrimoniale subito dall'impresa assicuratrice, bensì intende garantire l'effetto di deterrenza a tutela della trasparenza del sistema assicurativo generale" (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444). Né è ravvisabile la violazione del principio di proporzionalità poiché la condotta cautelativa della società è meritevole d'apprezzamento nella graduazione della sanzione, e non nell'adozione della sanzione che non è affatto alternativa ai rimedi spontanei adottati dall'incolpata 12. Con il quinto motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il quinto motivo di ricorso relativo alle pretese carenze del materiale pubblicitario e al preteso carattere ingannevole del messaggio pubblicitario (illecito sub a). Il Tar ha ritenuto che: la brochure rappresentava la natura composita della polizza, ma non precisava l'effettiva composizione; il prodotto presentava un cospicuo rischio di perdita di capitale non percepibile dalla brochure; la brochure era omissiva con riguardo alle informazioni sulle percentuali di composizione assicurativa e finanziaria e sulla rischiosità del prodotto; il supposto deficit informativo non poteva essere colmato dai contenuti della brochure con i riferimenti alla natura ibrida e con il richiamo al fascicolo informativo; sarebbero irrilevanti le considerazioni difensive sul target dei destinatari. Sulla destinazione del messaggio alla clientela e non ai venditori, la sentenza traviserebbe la funzione della brochure di "BG Stile Libero" che, all'opposto, avrebbe dovuto essere valutata in rapporto alle peculiarità del sistema distributivo del prodotto. La sentenza riconosce che dal materiale pubblicitario risultava la natura anche finanziaria del prodotto, ma censura la presunta omissione in ordine alle percentuali assicurativa e finanziaria e in ordine alla tipologia di rischio. Tali criticità non sarebbero indicate nel provvedimento sanzionatorio e dunque la sentenza sarebbe erronea per aver travalicato i limiti derivanti dal contenuto dei provvedimenti impugnati. 12.1. Il motivo è infondato. Né sussiste il denunciato travisamento della funzione della brochure di "BG Stile Libero", da valutare, secondo la censura, "in rapporto alle peculiarità del sistema distributivo del prodotto", visto che era impiegata dai promotori di Banca Generali, quali unici canali di collocamento. La natura ontologicamente e teleologicamente pubblicitaria del documento, congegnato e destinato al pubblico, non muta con riguardo al canale distributivo adottato. Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, non è sufficiente che, dal materiale pubblicitario, risultasse la natura finanziaria del prodotto. Posto che il prodotto presenta "spiccata componente finanziaria e significativi rischi di mercato a carico dei contraenti i quali, per una parte compresa tra 70% e il 95% del premio versato, non avevano alcuna garanzia di capitale né tantomeno di rendimento minimo, così che il prodotto nel suo insieme risultava oggettivamente connotato da un cospicuo rischio di perdita del capitale, non percepibile dalla lettura della brochure". Al di là dell'indicazione delle percentuali della componente assicurativa e di quella finanziaria del prodotto, è stata omessa l'indicazione, perspicua ed inequivoca, della tipologia di rischio, in difformità dal canone di chiarezza indicato dalla disposizione regolamentare e da quello di correttezza, richiamato anche dalla norma primaria di riferimento (art. 182 CAP). La presenza sul mercato d'una gamma vastissima di prodotti c.d. "ibridi" che combinano la componente assicurativa ed quella finanziaria, con gradi di esposizione a rischio assai differenti tra loro in ragione di vari fattori, avrebbe dovuto indurre la ricorrente, nel presentare il prodotto, a rendere edotto il potenziale contraente del rischio affrontato, in ossequio ai principi di chiara e corretta l'informazione, di cui artt. 182, c. 1, CAP e 39, c. 1, Reg. ISVAP n. 35/2010. 13. Con il sesto motivo l'appellante censura il capo di sentenza di reiezione del sesto motivo del ricorso di primo grado relativo all'illecito b) concernente l'illustrazione del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione. La sanzione sarebbe stata irrogata per la pretesa non chiarezza di una parte delle informazioni sul regime fiscale riportate nella Nota Informativa. Il Tar avrebbe omesso di considerare che la descrizione del regime fiscale non si sarebbe esaurita nelle due espressioni oggetto dei rilievi dell'Autorità . I rilievi critici dell'Autorità riguardavano queste due formulazioni: "somme corrisposte in caso di morte" e "capitali percepiti in caso di decesso". Dalla lettura della motivazione del provvedimento sanzionatorio emerge che l'addebito è di aver usato locuzioni che genererebbero equivoci in quanto la prima espressione si riferisce all'intera prestazione assicurativa e la seconda alla copertura in caso di morte. Invece, secondo il Tar le espressioni non renderebbero "agevolmente percepibile quali somme fossero esenti da imposta di successione e quali da Irpef". 13.1. Il motivo è infondato. In merito al trattamento fiscale come rilevato dal giudice di prime cure la prescrizione relativa al trattamento fiscale (All. 3, sezione C, punto 8 Reg. 35/2010 e All. 8, sezione D, punto 13 Circ. ISVAP 551/2005) "va interpretata, proprio in forza del richiamo all'art. 183, nel senso che l'informazione fornita sia conforme a criteri di diligenza e trasparenza, alla quale sono inequivocabilmente contrari l'utilizzo di espressioni, anche parzialmente, omissive o di eccessivo tecnicismo giuridico":.. non è quindi sufficiente l'indicazione, perché "Diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente...la prescrizione secondo cui la nota informativa deve contenere le informazioni necessarie affinché il contraente e l'assicurato possano pervenire ad un fondato giudizio sui diritti e gli obblighi contrattuali anche con riferimento al trattamento fiscale". Prosegue la sentenza "Dalla mera lettura delle espressioni, appare evidente come la compiuta ermeneutica delle stesse richiedesse una particolare competenza tecnica in materia di tassazione o di esenzione dalla stessa o, in alternativa, un intervento interpretativo esterno". Le informazioni in parola paiono effettivamente inadeguate e fuorvianti, tali da non consentire al contraente comune di pervenire ad un fondato giudizio sui diritti e gli obblighi connessi alla stipulazione del contratto, anzi ne alterano la percezione. Il trattamento fiscale "agevolato" costituisce incentivo all'acquisto, da cui il conseguente obbligo d'informazione trasparente, facilmente comprensibile che, nel caso in esame, non è osservato. 14. Con il settimo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il settimo motivo del ricorso di primo grado relativo all'attendibilità del CPMA riportato nella scheda tecnica (illecito sub e). Il Tar ha ritenuto che: l'indicatore sintetico CPMA risulterebbe "... dettagliatamente disciplinato, quanto ai criteri di calcolo..."; alla società sarebbe imputato, oltre alla violazione dei criteri di calcolo pure la prospettazione di un costo significativamente inferiore; gli argomenti difensivi sulla indeterminatezza dei criteri e sul valore solo tendenziale del CPMA sarebbero irrilevanti; come ritenuto da Ivass la condotta di Genertellife sarebbe difforme dai canoni di diligenza, correttezza e trasparenza. Secondo la censura in esame, il convincimento del Tar sulla presunta esaustività della normativa sui criteri di calcolo articolata nell'All. 2 Reg. 35/2010 sarebbe eooroneo. Nel provvedimento sanzionatorio l'Autorità, proprio sul presupposto che mancherebbero criteri specifici di determinazione del CPMA per le polizze multi-ramo, ha giustificato l'addebito sostenendo che non investiva le peculiarità del calcolo dell'indicatore ma la struttura dei costi. Tale rappresentazione sarebbe contraddetta dal fatto che nello stesso provvedimento sanzionatorio le contestazioni riguarderebbero - non genericamente la struttura dei costi bensì specificamente - la percentuale di premio investita nella gestione separata e la percentuale di caricamento iniziale sul premio, giudicate "non coerenti con le medie di portafoglio". L'appellante evidenzia che la pronuncia gravata gli imputa di non aver contestato la non corrispondenza dei costi prospettati rispetto a quelli realmente attendibili, come se la Società avesse riconosciuto di aver calcolato il CPMA in modo non attendibile. Per l'appellante il Tar sembrerebbe aver equivocato il dato di partenza, ossia che il CPMA non avrebbe la funzione di fornire un'informativa completa sui costi. La sentenza incorrerebbe, poi, in errore nel sostenere che il calcolo del CPMA effettuato dalla Società abbia avuto "come risultato pratico, la prospettazione al contraente di un costo significativamente (e non tendenzialmente) inferiore a quello effettivamente rispondente alle caratteristiche del prodotto". Per l'appellante l'assunto è vago, perché ometterebbe di indicare la misura della pretesa discrasia concretamente riscontrata tra i costi effettivi e quelli prospettati, e soprattutto non quanto affermato non sarebbe provato. 14.1. Il motivo è infondato. I criteri generali per il calcolo del CPMA sono definiti dalla normativa (art. 183, c. 1, CAP e allegato 2, Reg. ISVAP n. 35/2010, che richiama all'art. 1 come fonte normativa l'art. 183). A fronte dello sviluppo di prodotto multiramo, che presenta variabilità dell'incidenza percentuale di ogni ramo, con una di "struttura di costi", diversificata in base all'investimento effettuato, la società appellante ha assunto solo le ipotesi estreme e più idonee a far apparire il CPMA quanto più basso possibile. Le allegazioni fornite in proposto dalla resistente sono dirimenti: - la massima possibile aliquota di investimento nella gestione separata prevista dal contratto (il 30%), contenendo al 70% la componente d'investimento con rischio del capitale per l'assicurato, anche se i dati di portafoglio - al momento dell'ispezione - mostravano che tale opzione, in media, riguardava solo il 18% della raccolta, percentuale per nulla corrispondente al segmento più significativo; - il caricamento minimo previsto dal contratto (lo 0% quando lo stesso può giungere fino al 3% e, in ogni caso, come affermato dalla società, quando la media di portafoglio - al momento dell'ispezione - risultava assestata su un valore dello 0,18%, dato che la società ritiene ancor oggi - sorprendentemente - indifferente, per quanto abbia un valore sostanziale diverso da quello comunque assunto). In definitiva, la società ha adottato le percentuali estreme, esclusivamente dirette a far apparire il prodotto con un CPMA più basso rispetto a quello mediamente attendibile 15. Con l'ottavo motivo di appello l'appellante censura il capo di reiezione del settimo motivo di ricorso relativo alla mancata consegna del progetto esemplificativo personalizzato (illecito sub c). Il Tar ha ritenuto che: le disposizioni pongono in maniera assolutamente chiara e inequivoca un obbligo di predisposizione e un successivo e distinto obbligo di consegna; le risultanze istruttorie farebbero emergere che il progetto esemplificativo è stato solo mostrato per presa visione; sarebbe irrilevante la mancanza di un obbligo di conservazione stante la distinzione tra presa visione e consegna; l'adozione da parte della Compagnia della circolare n. 12/2005 non avrebbe valenza scriminante. La pronuncia gravata, lamenta l'appellante, muove dall'erronea premessa chela normativa configurerebbe un obbligo di consegna del Progetto Esemplificativo Personalizzato; e che, non essendo stata trovata la copia del documento nel campione di fascicoli esaminati in sede ispettiva, non vi sarebbe la prova che la società appellante, oltre alla presa visione, abbia provveduto anche alla consegna del Progetto. Ma, aggiunge l'appellante, le norme richiamate nella motivazione dal Tar non prescrivono l'obbligo di consegna in termini tali da far apparire la condotta della società non satisfattiva di una qualche prescrizione. L'art. 9 c. 2 Reg. 35/2010 stabilisce che il progetto sia "da consegnare" al contraente e indica quale termine per adempiere il momento in cui il cliente "è informato che il contratto è concluso". La norma ammette la consegna in un momento successivo alla stipula contrattuale, pare non rispondente al dato normativo la tesi che pretende di penalizzare l'impresa che ha garantito la presa visione prima della stipula. Né si dovrebbe fare leva sulla distinzione fra "consegna" e "presa visione". Sicché, conclude sul punto la società, non è condivisibile l'affermazione del Tar che priva di efficacia l'aver garantito l'effettiva conoscenza del documento prima della sottoscrizione invece che al momento successivo del perfezionamento del contratto. Del pari non è corretto affermare che non ha valenza scriminante la condotta della società appellante che ha fornito le necessarie istruzioni operative alla rete distributiva. 15.1 Il motivo è infondato. Predisporre il progetto esemplificativo in un momento anteriore rispetto a quanto previsto dall'art. 9 Reg. n. 35/2010, ossia all'atto della firma della polizza in luogo che "al momento in cui il cliente è informato che il contratto è concluso"", non soddisfa il precetto d'effettiva tutela del cliente se, come nel caso in esame, il documento stesso non viene consegnato come prescritto dal regolamento. Sottoporre significa presentare qualcosa al giudizio di altri, mentre consegnare significa dare qualcosa in custodia o in possesso a qualcuno perché possa mantenerne disponibilità . Dunque la consegna presuppone la materiale disponibilità del documento al fine di consentirne anche successive consultazioni e analisi, il tutto nel contesto dell'obbligo di conservazione per almeno 5 anni (pro tempore vigente ex art. 57 Reg. ISVAP n. 5/2006), per tutti i contratti conclusi e per la documentazione relativa. 16. Con il nono motivo d'appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il nono motivo del ricorso di primo grado con cui lamentava l'insussistenza dell'illecito sub) f, relativo alla completezza degli adempimenti funzionali alla valutazione di adeguatezza. Il Tar: ha illustrato la contestazione di Ivass in termini di carenze nella struttura organizzativa in ordine alle procedure volte a garantire l'adeguatezza dei contratti alle esigenze dei contraenti, con la distinzione tra condotte fino a luglio 2015 e condotte successive; ritiene inefficace la scelta di utilizzare il questionario MIFID; rileva che non vi sarebbe una discrasia tra contestazione degli addebiti e provvedimento sanzionatorio finale; rappresenta che (i) fino a luglio 2015 l'alta percentuale di rifiuti al rilascio delle informazioni sarebbe sintomatica dell'illecito contestato e (ii) nel periodo successivo rileverebbe la casistica relativa ai prodotti con orizzonti temporali estesi proposti a clienti anziani. Nel respingere la tesi dell'appellante il giudice di prime cure si sarebbe limitato a fare riferimento ai contenuti della contestazione. Quanto alle contestazioni inerenti alle procedure di verifica dell'adeguatezza per il periodo fino al 30 giugno 2015, il Tar non avrebbe tenuto conto della normativa applicabile ratione temporis. L'art. 52 c. 4 Reg. 5/2006 avrebbe consentito di procedere alla stipulazione della polizza anche in caso di rifiuto del cliente di fornire le informazioni richieste, purché lo stesso cliente fosse reso edotto della conseguente impossibilità di valutare compiutamente l'adeguatezza del prodotto. Fin da marzo 2014, Genertellife avrebbe avviato, unitamente al distributore Banca Generali, una serie di azioni finalizzate ad elevare il livello di tutela del cliente e a contenere i casi di rifiuto; dal luglio 2015 sarebbe stata adottata una soluzione "integrata" di valutazione dell'adeguatezza, basata sull'utilizzo del Questionario MIFID e del Questionario IVASS; e si sarebbe introdotto il sistema della c.d. non-adeguatezza bloccante, in virtù del quale la Società appellante si è auto imposta un divieto di collocare il prodotto nel caso di mancata acquisizione o di rifiuto di fornire le informazioni necessarie per l'effettuazione della valutazione di adeguatezza. periodo. 16.1 Il motivo è infondato. A prescindere dal regime normativo che non muta sostanzialmente il contenuto delle prescrizioni contestate, sono dirimenti le risultanze della visita ispettiva effettuate dall'organo di vigilanza che hanno evidenziava, come scorrettamente sottolineato dal Tar, la scelta dell'impresa di utilizzare il questionario MIDIF non si fosse rivelata efficace nel predisporre presidi idonei e prevenire a una congrua valutazione di adeguatezza. Il questionario utilizzato restringeva il novero delle informazioni richieste e utilizzabili in materia di valutazione di adeguatezza, inficiando la correttezza della valutazione. Pertanto, rilievi documentali acquisiti in fase istruttoria smentiscono in fatto la censurata discrasia tra contestazione degli addebiti e provvedimento sanzionatorio finale. Né è censurabile il percorso argomentativo seguito dai giudici di prime cure laddove, con riferimento al primo periodo analizzato fino a luglio 2015, stante l'alta percentuale di soggetti che hanno rifiutato di rilasciare le informazioni presenti nel questionario distribuito dai collocatori del prodotto, da inferire "una indiscutibile valenza sintomatica in ordine alla ricorrenza dell'illecito ravvisato, risultando, in conclusione, dimostrato che non era stata, in concreto, posta in essere la necessaria verifica di adeguatezza su un numero molto alto di contratti". E, con riferimento al periodo successivo, la violazione contestata trova riscontro, come rilevato dal Tar, nella casistica riportata nel verbale ispettivo e dalla quale emerge che, in un significativo numero di casi, a clienti particolarmente avanti negli anni venivano proposti, senza che scattassero alert di adeguatezza, prodotti con orizzonti temporali non compatibili con l'età anagrafica del sottoscrittore. Senza che la violazione venga meno per il fatto che il prodotto "BG Stile Libero", disciplinava espressamente il caso morte, indipendentemente dall'orizzonte temporale assunto con riguardo agli investimenti sottostanti. L'obbligo di chiarezza impone comunque l'adozione delle misure adeguate di tutela del tipo del potenziale sottoscrittore. 17. Con il decimo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia per aver respinto il decimo motivo del ricorso di primo grado con cui, in subordine, aveva richiesto la rideterminazione della sanzione tenuto conto degli interventi effettuati e della tenuità dei fatti contestati. La pronuncia gravata sosterrebbe erroneamente che dalla motivazione del provvedimento impugnato emergono le ragioni del giudizio di gravità delle condotte, al contrario, denuncia la società, tale gravità non sarebbe dimostrata. Nel dettaglio l'appellante ripropone in merito alla quantificazione dei singoli illeciti le argomentazioni già proposte in primo grado. 17.1 Il motivo è infondato. Costituisce orientamento consolidato, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che la scelta tra il minimo ed il massimo di pena pecuniaria risponde allo scopo di rimettere al potere dell'amministrazione la commisurazione della sanzione alla concreta gravità del fatto illecito, senza necessità che sia specificato il criterio seguito (cfr., Cassazione civile, sez. I, 10 dicembre 1996, n. 10976; Cassazione Civile, Sez. I, 24 marzo 2004, n. 5877 e Cass. Civile I, 4 novembre 998, n. 11054). La gravità delle condotte emerge dalla motivazione del provvedimento che, nel riflesso giuridico della quantificazione della sanzione, è espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che, in ipotesi - qui non ricorrenti - di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento. Come condivisibilmente rilevato dal Tar, in ragione della pluralità dei rilevi, è stato adottato un criterio composito: al minimo edittale, moltiplicato per due perché tale era il numero delle violazioni, s'è aggiunto il criterio di valore medio, in sé non irragionevole e, in concreto, proporzionato alla descrizione dei fatti e degli interessi pubblici alla cui tutela sono finalizzate le norme violate. 18. Conclusivamente l'appello deve essere respinto. 19. Le spese del grado di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna Ge. S.p.A. al pagamento delle spese del grado di giudizio in favore di Ivass -Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni liquidate complessivamente in 5000,00 (cinquemila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9863 del 2023, proposto da -OMISSIS- S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Ro. e An. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero delle Imprese e del Made in Italy, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Me. Ce. - Banca del Me. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ia., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati An. Ma., An. Gr. e La. Ro., in sostituzione dell'avvocato Gi. Ia.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Con bando pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 32 del 7 febbraio 2002, il Ministero delle Attività Produttive ha indetto una gara concernente servizi per la gestione degli interventi di cui all'articolo 1, lettera b, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28.3.2001, relativo allo sviluppo di imprese di recente costituzione. Mediante tali atti sono stati disciplinati gli interventi finalizzati allo sviluppo di imprese di recente costituzione attraverso la concessione a soggetti intermediari di anticipazioni finanziarie per l'acquisizione di partecipazioni temporanee e di minoranza in nuove imprese, a fronte di programmi di sviluppo di prodotti e servizi nel campo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ivi comprese quelle relative alle applicazioni di rete (web applications), al software innovativo, allo sviluppo dei contenuti multimediali e alla formazione interattiva a distanza. 1.1 - In data 31.1.2006, la società -OMISSIS- S.p.A. (successivamente denominata -OMISSIS- S.p.A.) ha presentato a Me. Ce. S.p.A, in qualità di soggetto gestore della procedura, una domanda di concessione di un'anticipazione finanziaria per l'acquisizione, per conto del fondo Principia al quale appartiene, di una partecipazione nel capitale di rischio di -OMISSIS- s.r.l. (poi denominata -OMISSIS- s.r.l.) al fine di capitalizzare tale ultimo soggetto per un programma pluriennale di sviluppo, consistente nella realizzazione di un impianto per il trattamento e il riciclaggio dei residui provenienti dalla frantumazione degli autoveicoli a fine vita, nonché per la lavorazione, triturazione e separazione dei metalli ferrosi e non ferrosi dalle materie plastiche e dalle sostanze non riciclabili, con recupero degli stessi metalli e successiva immissione in mercato sotto forma di sfere. 1.2 - Medio Credito ha erogato due distinte anticipazioni finanziarie di Euro.1.400.000 e di Euro. 600.000, rispettivamente in data 16.2.2006 e 18.7.2008, e -OMISSIS- ha iniziato la capitalizzazione di -OMISSIS- s.r.l. mediante quattro, progressivi, aumenti di Euro. 1.200.000, di Euro. 600.00 e due da Euro. 400.000, a valere a titolo di MC11 (c.d. "prima anticipazione"). Si è, poi, proceduto alla cd. "seconda anticipazione" (MC45), originariamente determinata in Euro600.000, (con la conseguenza che è stato fissato in Euro.300.000, a valere sull'anticipazione MC45, come erogazione parziale al 50% prevista dalla legge 388/2000), ma, in concreto, erogata in misura parziale per interventi legislativi che hanno inciso sulla distribuzione della misura su altri interventi, nonché per verifiche sul progetto oggetto del finanziamento: il che ha determinato una svalutazione del contributo fino ad Euro172.800. In sostanza, -OMISSIS-, per quanto dalla stessa affermato, a partire dal 2006 ha acquisito quote della -OMISSIS- s.r.l. per complessivi euro 3.450.000, di cui euro 1.725.000, provenienti da anticipazioni ex L. 388/2000 somma da rideterminarsi in euro 1.225.500, in quanto, in data 23.1.2008, la -OMISSIS- aveva ceduto il 16,67% della propria partecipazione per euro 1.000.000, destinando euro 500.000,00 al Ministero delle attività produttive a parziale restituzione delle somme anticipate. 2 - Non sono stati corrisposti al Ministero gli importi previsti dal contratto di cessione a partire dalla prima rata in scadenza e l'appellante ha chiesto l'applicazione delle clausole risarcitorie previste nell'ambito della compravendita della -OMISSIS- s.r.l. e relative garanzie, tenuto conto che questa è stata dichiarata fallita con sentenza n. 65/2014 del Tribunale di Milano. 2.1 - Nel 2013 il legale rappresentante di -OMISSIS- s.r.l. è stato coinvolto in un procedimento penale nell'ambito del quale è stata contestata la commissione dei reati di cui agli artt. 640 bis, 640 e 61 n. 7 del c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e truffa, con l'aggravante di aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità ) sul presupposto che lo stesso avesse indotto in errore l'allora Ministero delle Attività produttive il quale, tramite la -OMISSIS-, aveva erogato a favore della -OMISSIS- un finanziamento complessivo di Euro3.400.000, costituito per il 50% da fondi messi a disposizione attraverso anticipazioni finanziarie ai sensi della legge 388/2000, e che il medesimo avrebbe dirottato gli utili della -OMISSIS- a società a sé riconducibili, così sottraendoli alla distribuzione a favore della -OMISSIS-, cui spettavano per patti parasociali e, per essa, al Ministero finanziatore. Il tutto sulla circostanza pacifica che l'impianto industriale, che si sarebbe dovuto realizzare per mezzo dei predetti fondi, non è mai entrato in funzione. La posizione dell'imputato, nel predetto procedimento, è stata definita con una sentenza di applicazione della pena su richiesta (cd. patteggiamento), emessa dal Tribunale di Milano in data 16.3.2015. 2.2 - L'appellante ha inoltre riferito che, nel 2015, ha agito giudizialmente nei confronti del legale rappresentante di -OMISSIS- s.r.l. ex art. 2935 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dagli atti gestori illeciti e distrattivi dallo stesso posti in essere e che tale procedimento si è concluso con la sentenza del Tribunale di Milano n. 11923/2018, con la quale è stata respinta la domanda, accertandosi la legittimazione attiva della -OMISSIS- limitatamente alla porzione di investimento derivante da fondi propri della medesima -OMISSIS-, non in relazione ai fondi erogati dal Ministero. 3 - Il Ministero, con nota del 30.9.2022 di avvio del procedimento di revoca delle anticipazioni finanziarie precedentemente concesse, ha evidenziato che in conseguenza dei "fatti emersi nell'ambito degli accertamenti istruttori del procedimento penale instaurato innanzi il Tribunale di Milano nei confronti dell'impresa beneficiaria "-OMISSIS- s.r.l. in fallimento" e del legale rappresentante della stessa..." si sarebbero concretizzati "in capo all'impresa beneficiaria e al suo legale rappresentante la mancata realizzazione del progetto nei termini in cui è risultato ammesso all'agevolazione con conseguente sviamento del denaro pubblico. La capacità e la professionalità della -OMISSIS-, unita alle circostanze emerse con la sentenza del Tribunale di Milano, n. 11923/2018, pubblicata il 27/11/2018, ove si conferma che la -OMISSIS- entrava fin dal giugno 2006 nel capitale sociale di -OMISSIS- s.r.l. dopo aver condotto una due diligente durata ben nove mesi, e dunque dovendo essere ben consapevole della rispondenza o meno del progetto effettivo, rispetto a quello previsto per la fruizione dell'intervento agevolativo, implicano che la stessa avrebbe dovuto avvedersi già sul piano tecnico delle richiamate difformità ". Ha, quindi, comunicato che "alla luce delle dette risultanze, appaiono concretizzatisi i motivi di revoca dell'anticipazione erogata di cui al punto 16, rubricato "Revoca delle anticipazioni", delle "Condizioni di ammissibilità e disposizioni di carattere generale per gli interventi di concessione di anticipazioni finanziarie per l'acquisizione di partecipazioni temporanee e di minoranza nel capitale di rischio di imprese di cui agli articoli 103, comma 1, e 106 della legge 23 dicembre 2000, n. 388" adottate dal Ministero Delle Attività Produttive con decreto 19 gennaio 2004 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 23 del 29-01-2004); in particolare, appaiono realizzatisi i motivi per procedere alla revoca dell'anticipazione previsti dai punti 16.1.1, 16.1.3 e 16.1.9, del citato decreto del 19 gennaio 2004, quali rispettivamente: percepimento dell'anticipazione, da parte dei soggetti accreditati, sulla base di notizie, dichiarazioni o dati falsi, inesatti o reticenti; mancata destinazione dell'anticipazione agli scopi previsti dalla legge, dalla normativa di attuazione e dalle disposizioni dello stesso decreto 19 gennaio 2004; qualsiasi violazione od omissione degli obblighi derivanti dalle norme di legge, regolamentari e dall'intera normativa di riferimento in genere". 3.1 - Quindi, con il Decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy prot. n. 0001378 del 2 maggio 2023 è stata disposta la revoca delle anticipazioni finanziarie, pari ad Euro928.393,00 (posizione MC 11) ed Euro325.500,00 (posizione MC 45); e si è disposto il "recupero della cifra complessiva di Euro4.326.012,07 corrispondente alla somma dei seguenti importi: a) importo di Euro928.393,00 relativo alla somma erogata alla ditta -OMISSIS--OMISSIS- in data 16 febbraio 2006 (posizione MC 11); b) importo di Euro325.500,00 relativo alla somma erogata alla ditta -OMISSIS--OMISSIS- in data 18 luglio 2008 (posizione MC 45); c) importo di Euro359.631,47 corrispondente alla maggiorazione, a titolo di interessi, da applicarsi all'importo di cui al punto a) sulla base di quanto previsto dal comma 4, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; d) importo di Euro204.701,60 corrispondente alla maggiorazione, a titolo di interessi, da applicarsi all'importo di cui al punto b), sulla base di quanto previsto dal comma 4, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; e) importo di Euro1.856.786,00 riferito alla pozione MC 11, a titolo di sanzione, sulla base di quanto previsto dal comma 2, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; f) importo di Euro651.000,00 riferito alla pozione MC 45, a titolo di sanzione, sulla base di quanto previsto dal comma 2, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123". 4 - -OMISSIS- S.p.A. ha impugnato avanti il Tar per il Lazio tale provvedimento. Con successivi motivi aggiunti ha esteso l'impugnazione alla nota del 21.3.2023, con cui Me. Ce. S.p.A., nell'ambito del procedimento di revoca dell'anticipazione finanziaria precedentemente erogata, ha trasmesso al Ministero delle imprese le proprie osservazioni conclusive, secondo quanto previsto al punto 16.3 del DM 16.1.2004, nonché alla nota del 2.5.2023, con cui il predetto Ministero ha riscontrato tale nota. 4.1 - Il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti. 5 - La società originariamente ricorrente ha impugnato tale pronuncia per i motivi di seguito esaminati. 5.1 - Con il primo motivo ("Erronea applicazione dell'art. 34 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Erronea applicazione dell'art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241. Erronea applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c.. Erronea applicazione degli artt. 63 e 64 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Erronea applicazione dell'art. 296 del TFUE. Erronea applicazione dell'art. 41 della Carta Fondamentale dei Diritti dell'Uomo. Violazione del divieto di integrazione postuma della motivazione. Violazione del divieto di ultrapetizione. Difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, incongruità della motivazione, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante rileva che la decisione di rigetto del ricorso di primo grado assunta dal Tar poggia sostanzialmente su un unico elemento e, segnatamente, sulla circostanza che, alle vicende criminose che hanno coinvolto il legale rappresentante della -OMISSIS-, avrebbe partecipato anche l'amministratore delegato di -OMISSIS- S.p.A. fino al 23 luglio 2008. 5.2 - L'appellante evidenzia che dagli elementi versati in giudizio, il Giudice di prime cure avrebbe potuto acquisire contezza del fatto che l'amministratore delegato di -OMISSIS- è stato riconosciuto del tutto estraneo alle vicende criminose in questione, come risulta dalla richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero l'8 dicembre 2013 e dal decreto di archiviazione successivamente emesso in data 8 gennaio 2014. 5.3 - La censura è infondata. La questione del coinvolgimento del legale rappresentante dell'appellante ha una rilevanza trascurabile rispetto all'oggetto del giudizio, costituito dalla revoca del finanziamento. Il Tar si è limitato a dare atto del coinvolgimento del legale rappresentante di -OMISSIS-, come in effetti verificatosi all'inizio del procedimento penale, senza trarre automaticamente da tale circostanza il rigetto del ricorso di primo grado. In questa sede deve darsi atto dell'archiviazione della sua posizione come evidenziato dall'appellante. Come anticipato tale aspetto non è, tuttavia, determinante ai fini della decisione, che deve aver riguardo alla sussistenza dei presupposti dell'atto di ritiro del finanziamento a prescindere dalla specifica posizione assunta dal legale rappresentante del procedimento penale. 6 - Con il secondo motivo ("Violazione, falsa applicazione degli artt. 7 e 10 della L. 7 agosto 1990, n. 241. Violazione, falsa applicazione del punto 16 del D.M. del Ministero delle Attività 25 Produttive del 19 gennaio 2004. Violazione, falsa applicazione dell'art. 97 della Costituzione. Violazione, falsa applicazione dell'art. 24 della Costituzione. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento e correttezza dell'azione amministrativa. Eccesso di potere sotto i profili di difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, carenza di motivazione, contraddittorietà manifesta, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante rileva che in base al decreto del Ministero del 19 gennaio 2004, ai fini della revoca dell'anticipazione, il Comitato di Gestione non può limitarsi - in ossequio ai più basilari e minimali principi di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa - a prendere atto delle osservazioni conclusive formulate dal Soggetto Gestore, essendo piuttosto tenuto a vagliare accuratamente siffatte osservazioni, nonché, in sede di adozione del provvedimento conclusivo, a dare espressamente conto delle valutazioni compiute al riguardo e ad esplicitare le ragioni per cui le abbia ritenute eventualmente fondate. Secondo l'appellante, tanto MCC, all'atto della formulazione delle osservazioni conclusive, quanto il Ministero, all'atto della adozione del Provvedimento, avrebbero agito in violazioni di tali principi. Nello specifico, il Soggetto Gestore ha proceduto a segnalare che "la motivazione da porre a fondamento del provvedimento definitivo di revoca è quella evidenziata nell'atto di avvio dello stesso", secondo l'appellante, con ciò dando erroneamente per assunto che il Ministero avrebbe dovuto semplicemente aderire a tale posizione. 6.1 - Sotto altro profilo, l'appellante prospetta che l'avvenuto riscontro da parte di MCC, con la nota prot. n. 0010966 del 22 dicembre 2022, alle deduzioni formulate dalla società non poteva consentire al Ministero di esimersi dall'entrare nel merito delle deduzioni presentate dalla società, ivi comprese quelle relative alla non assimilabilità dell'Anticipazione MC11 rispetto all'Anticipazione MC45 e alla conseguente necessità di differenziare le due posizioni. Secondo la società, il Ministero si sarebbe limitato ad adottare il provvedimento "sulla (sola) base delle informazioni trasmesse con la... nota del 21.03.2023", tralasciando integralmente, come invece avrebbe dovuto, di esaminare e valutare autonomamente l'intero corredo documentale, di prendere puntualmente posizione sulle singole contestazioni mosse da MCC e sulle relative deduzioni della società . 6.2 - La censura è infondata. Il provvedimento impugnato è stato adottato sulla base di una motivazione che richiama espressamente "la nota del 22 dicembre 2022 con cui Me. Cr. Ce. s.p.a. ha puntualmente esposto i motivi per i quali le memorie difensive prodotte non possono ritenersi idonee al fine dell'archiviazione dell'avvio del procedimento di revoca". Tale nota è stata inviata dal MCC, quale Soggetto Gestore, dopo aver ricevuto dalla società ricorrente la nota "del 29 ottobre 2022 con cui la -OMISSIS--OMISSIS- s.p.a. ha trasmesso a Me. Cr. Ce. s.p.a. le proprie memorie difensive all'avvio del procedimento di revoca". Tanto precisato, i rilievi di parte appellante non possono trovare accoglimento, dovendosi ricordare, da un lato, che la motivazione dell'atto può essere anche data "per relationem", nel senso che la motivazione può essere espressa anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo, giacché tale richiamo sottintende l'intenzione dell'autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata (cfr. Consiglio Stat, sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 1156). Da un altro punto di vista, deve in ogni caso ricordarsi che l'onere di spiegare le ragioni per le quali non si è tenuto conto delle osservazioni presentate dai privati non deve essere inteso in senso formalistico, considerato che tale obbligo viene meno qualora le stesse non avrebbero potuto influenzare effettivamente la concreta portata del provvedimento finale (cfr. Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 20 febbraio 2020, n. 1306). 7 - Con il terzo motivo ("Violazione, falsa applicazione del punto 6 del D.M. del Ministero delle Attività Produttive del 19 gennaio 2004. Violazione, falsa applicazione dell'art. 5 della Direttiva del Ministero delle Attività Produttive del 3 febbraio 2003. Violazione, falsa applicazione dell'art. 9 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 123. Violazione, falsa applicazione dell'art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241. Violazione del principio del legittimo affidamento. Eccesso di potere sotto i profili di difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, incongruità della motivazione, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante deduce l'illegittimità dell'intervento del Ministero - da cui l'erroneità, anche sotto tale profilo, della sentenza impugnata - stante, da un lato, il decorso del termine di durata della partecipazione, originariamente fissato in un periodo massimo di 7 anni dalla data di acquisizione e poi elevato, per effetto dell'art. 4, comma 11 octies, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, a 10 anni dalla stessa data ovvero, nel caso di -OMISSIS-, alla data di effettiva scadenza (già intervenuta) del fondo mobiliare gestito che ha acquisito la partecipazione - e, dall'altro lato, l'avvenuta cessione definitiva, in data 26 settembre 2012, dell'intera partecipazione residua inerente alle anticipazioni. Nello specifico, posto che la -OMISSIS- ha provveduto il 16 giugno 2006 ad acquisire la partecipazione in -OMISSIS- a valere inizialmente sull'Anticipazione MC11 - poi cedendola parzialmente (con profitto assegnato ritualmente al Ministero) a gennaio 2008 e dismettendola integralmente il 26 settembre 2012 - e tenuto conto, altresì, che in data 21 novembre 2013 è stato dichiarato il fallimento di detta società, secondo l'appellante dovrebbe concludersi che la posizione relativa alle anticipazioni non può che considerarsi definitivamente chiusa, con la conseguenza che il Ministero e MCC non vantavano, né vantano alcun titolo per procedere legittimamente alla revoca delle stesse anticipazioni. Al riguardo, sarebbero privi di pregio l'assunto contenuto nella nota di MCC prot. n. 0010956/22 del 22 dicembre 2022, ove si legge che è solo la sentenza civile ad avere "evidenziato in più punti argomentativi che non potesse evincersi l'assoluta disinformazione della -OMISSIS- nell'effettuazione del suo investimento in -OMISSIS- originata dall'illecito del leg. Rapp.te -OMISSIS-", nonché le argomentazioni secondo cui di tale sentenza le parti appellante avrebbero acquisito conoscenza solo in seguito alla pubblicazione della sentenza della Corte dei Conti. 7.1 - Anche volendo ritenere che l'intervenuto decorso del termine di 7 anni dalla data di acquisizione, da parte della -OMISSIS-, della partecipazione nel capitale di -OMISSIS- o l'intervenuta cessione totale, nel 2012, della partecipazione detenuta dalla stessa -OMISSIS- nella predetta società non consentano di poter ritenere "chiusa" e "definita" la posizione in questione, l'appellante prospetta che il provvedimento sia comunque illegittimo, in quanto assunto ben oltre un termine ragionevole, tanto più a fronte dell'operato, appunto "inerte", della stessa MCC. Invero, l'atto di ritiro si porrebbe in contrasto con l'art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241 - dovendosi qualificare l'atto in questione quale annullamento d'ufficio e non come erroneamente ritenuto dal Tar alla stregua di una revoca - nonché con la tutela del legittimo affidamento ad esso sottesa. 7.2 - L'appellante evidenzia inoltre il ruolo di mero soggetto intermediario assunto nell'ambito dell'operazione in questione dalla -OMISSIS-, rispetto alla quale, pertanto, MCC e il Ministero non possono fondatamente vantare il diritto alla restituzione delle anticipazioni erogate. L'unico soggetto dal quale il Ministero avrebbe potuto legittimamente pretendere la restituzione delle somme erogate, a risarcimento del danno subito, è -OMISSIS-, non potendo diversamente ipotizzarsi che, in ragione dell'impossibilità di agire in tal senso per l'intervenuta prescrizione di tale azione, a causa dell'inerzia dello stesso Ministero, quest'ultimo possa oggi, nell'ambito di un procedimento di revoca (per di più successivo di oltre 10 anni rispetto alla cessione delle partecipazioni e di 4 anni dalla sentenza civile), fondatamente pretendere la restituzione di tali somme dalla -OMISSIS- che, quale soggetto intermediario, ha ritualmente e correttamente eseguito il suo compito e alla quale, pertanto, non sono ascrivibili responsabilità, come del resto evidenziato anche dalla Corte dei Conti. 8 - La censura deve trovare accoglimento nei termini di seguito esposti. Il Giudice di primo grado ha ritenuto che nella specie non è stato applicato l'art. 21 nonies della legge 241/1990, avendo l'Amministrazione applicato il diverso istituto della cd. revoca - sanzione, stante l'espresso richiamato al d.lgs. 123/1998 ("Disposizioni per la razionalizzazione degli interventi di sostegno pubblico alle imprese"), che all'art. 9, rubricato "revoca dei benefici e sanzioni", prevede che "in caso di revoca degli interventi, disposta ai sensi del comma 1, si applica anche una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l'importo dell'intervento indebitamente fruito" (comma 2). In disparte il fatto che anche la difesa del Ministero invoca l'applicazione dell'art. 21 nonies cit., l'assunto in base al quale il Tar ha rigettato la censura in esame non appare risolutivo, posto che, anche laddove si ritenga che la base legale del potere esercitato non sia rintracciabile nell'art. 21 nonies, che limita temporalmente il potere di annullamento di un precedente provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario, ciò non significa che sia sempre possibile un intervento, sine die, dell'amministrazione su un beneficio in precedenza attribuito. A prescindere dalla questione se il potere esercitato sia riconducibile all'istituto generale di cui all'art. 21 nonies, piuttosto che ad una specifica ipotesi di revoca-decadenza (vedasi al riguardo Cons. St. Ad. Plen n. 18/2020 secondo la quale "la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc (o in alcuni casi ex nunc), di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio), è istituto che, pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell'autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l'espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall'art. 21 nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti; b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall'istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti") deve comunque esigersi che questo vada esercitato entro un termine ragionevole, avuto riguardo alle circostanze del caso. Ciò che emerge dalla vicenda oggetto di causa appare sintomatico di uno svolgersi dell'attività amministrativa secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente. Modello in cui, alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell'interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l'intrapresa di iniziative private, alla quale si collega direttamente la necessità di certezza del quadro giuridico di riferimento che non può, senza una valida giustificazione, essere alterato ad anni di distanza dalla sua originaria stabilizzazione. I princì pi generali di economicità, di efficacia, di buon andamento ed imparzialità, che devono sempre presidiare l'attività amministrativa, impongono che l'amministrazione (pur in assenza della predeterminazione legale del termine massimo per la conclusione del procedimento) deve agire comunque in modo tempestivo, rispettando l'esigenza del cittadino di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, delle conseguenze derivanti dall'esercizio dei pubblici poteri (cfr. Consiglio di Stato, sez. VII, 14.02.2022, n. 1081). Nel caso in esame, l'amministrazione, essendone nelle condizioni, doveva agire in modo tempestivo al fine di preservare la specifica esigenza alla certezza economico-giuridica del soggetto direttamente inciso, nonché, indirettamente, al fine di garantire una condizione generale di stabilità del mercato nel quale lo stesso opera e sul quale possono riflettersi gli effetti dell'atto impugnato. Alla luce dei principi innanzi esposti, deve ritenersi che il provvedimento impugnato, comunque lo si voglia qualificare, sia intervenuto immotivatamente in un tempo eccessivamente lontano dai fatti che lo giustificano, rendendo pertanto il ritardo intollerabile e suscettibile di determinare l'illegittimità dell'atto. 8.1 - In fatto: l'appellante ha terminato di acquisire partecipazioni in -OMISSIS- nel 2008. E' pacifico che le partecipazioni sono stata dismesse nel 2012 ed è altrettanto pacifico che, in data 29/11/2012, era pervenuta al soggetto Gestore comunicazione da parte della -OMISSIS- con cui si informava che era stata conclusa la cessione della residua partecipazione complessiva dalla stessa detenuta. A decorrere da quella data non sussisteva più alcuna partecipazione da gestire da parte dell'appellante, il rapporto di partecipazione societaria che aveva avuto origine dalla concessione dell'anticipazione si era dunque chiuso. Il fatto, allegato dal Ministero, per cui l'intermediario non avrebbe fornito notizie in merito all'effettivo incasso delle somme alle scadenze non rileva ai fini del presente giudizio, ove si consideri che la contestazione mossa all'appellante non attiene a tale aspetto, né tale aspetto, per quel che consta, è mai stato formalmente contestato dal Ministero. Anzi, tale circostanza riferita dall'amministrazione doveva costituire un evidente campanello di allarme per quest'ultima che avrebbe potuto e dovuto attivarsi già allora per tutelare la propria posizione. Tanto precisato, l'avvio del procedimento poi sfociato nel provvedimento impugnato è del 30.9.2022; è quindi intervenuto circa dieci anni dopo che la partecipazione in -OMISSIS- era stata liquidata e definitivamente chiusa; durante tale decennio, la -OMISSIS- non aveva ovviamente più svolto alcuna attività connessa all'originario rapporto che ha dato luogo al provvedimento impugnato. 8.2 - Il dato per cui nel 2012 il rapporto doveva ritenersi ormai chiuso si desume dalle seguenti disposizioni del Decreto 19 gennaio 2004 che regola lo specifico finanziamento per cui è causa: - il punto 6 del Decreto prevede che le partecipazioni devono, tra l'altro, "avere una durata massima di sette anni a decorrere dalla data di acquisizione della partecipazione risultante dall'estratto notarile del libro soci"; - il punto 13 prevede che, "Dismessa la partecipazione, il soggetto accreditato deve restituire al Gestore un importo pari al valore di cui al punto 12.2.2 ridotto della commissione di gestione di cui al punto 12.1 e del premio di cui al punto 12.2 con valuta di accredito al Gestore entro un mese dalla data di dismissione risultante dall'estratto notarile del libro soci"; - il punto 14 (Mancata dismissione delle partecipazioni) prevede che: "qualora i soggetti accreditati non abbiano dismesso la partecipazione nel termine di sette anni a decorrere dalla data di acquisizione della partecipazione, risultante dall'estratto notarile del libro soci, sono tenuti a restituire al Gestore l'importo della anticipazione calcolato alla data di scadenza. La restituzione dell'anticipazione deve avvenire con le modalità di cui al punto 13.1. entro il termine di un mese dalla data di scadenza del periodo massimo di detenzione della partecipazione". Dalle disposizioni innanzi richiamate emerge, in primo luogo, come la durata della partecipazione avesse un termine massimo di durata di sette anni (poi elevato, per effetto dell'art. 4, comma 11 octies, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, a 10 anni); emerge inoltre che, una volta dismessa la partecipazione, scattano gli adempimenti restitutori in favore del Ministero da parte della -OMISSIS- "entro un mese dalla data di dismissione risultante dall'estratto notarile del libro soci" o "entro il termine di un mese dalla data di scadenza del periodo massimo di detenzione della partecipazione". Alla luce delle scansioni temporali predeterminate dal Decreto che regola il finanziamento in questione, siccome l'ingresso in -OMISSIS- risale al 2006, non è dato comprendere per quale ragione il Ministero abbia atteso sino al 2022 per revocare il finanziamento a suo tempo concesso, ovvero dieci anni dopo la dismissione della partecipazione e ben diciotto anni dopo l'iniziale concessione del finanziamento. Seppure a rigore la prospettazione del Ministero - secondo il quale il termine di 7 anni regolerebbe la detenzione della partecipazione e non l'esercizio del potere di revoca - appaia condivisibile, resta il fatto che, siccome nel caso di specie la posizione era stata incontestabilmente liquidata sin dal 2012, da tale data, in base alle disposizioni citate, avrebbero comunque dovuto aprirsi le procedure di chiusura anche dei rapporti tra la -OMISSIS- e il Ministero (entro il termine di un mese) ed in tale frangente avrebbero verosimilmente potuto emergere i fatti poi oggetto degli addebiti di cui al provvedimento impugnato emesso nel 2022. 8.3 - La giustificazione addotta dal Ministero per cui avrebbe acquisito conoscenza dei motivi di revoca solo in seguito alla pubblicazione della sentenza della Corte dei Conti n. 220/2022 non appare sostenibile per le ragioni di seguito spiegate: - lo stesso Ministero ha affermato di avere trasmesso al Gestore, a settembre 2013, l'informativa riservata pervenuta dalla Guardia di Finanza il 24 settembre 2013, recante gli esiti delle indagini condotte nell'ambito del procedimento penale; tale circostanza è valorizzata anche nella sentenza della Corte dei Conti cit.; - nel 2013 la -OMISSIS-, società beneficiaria dell'anticipazione, è stata dichiarata fallita; - la sentenza penale con la quale il legale rappresentante di -OMISSIS- ha patteggiato la pena risale al 15 marzo 2015 e il Mise era stato indicato tra le parti offese nella richiesta di rinvio a giudizio, che risale al 7 maggio 2014; - la sentenza del Tribunale civile di Milano relativa all'azione di responsabilità promossa nei confronti dello stesso risale al 27 novembre 2018. In definitiva: le vicende relative al procedimento penale, i cui fatti sono sostanzialmente i medesimi di quelli portati a giustificazione del provvedimento impugnato, sono emerse ben prima della sentenza della Corte dei Conti e della sentenza del Tribunale civile di Milano (che comunque risale al 2018), dovendosi per l'effetto ragionevolmente ritenere che il Ministero ne dovesse essere consapevole, se non dalla trasmissione della relazione della Guardia di Finanza, quanto meno dall'intervenuta sentenza in sede penale che risale al 2015, rendendo ingiustificato ed intollerabile il ritardo con il quale è stato avviato, solo nel 2022, il successivo procedimento di revoca. 8.4 - Alla luce delle circostanze innanzi evidenziate non risulta risolutivo il richiamo del Ministero al secondo comma dell'art. 21 nonies della L. n. 241 del 1990, che regola l'annullamento del provvedimento illegittimo conseguito sulla base di false rappresentazioni dei fatti (o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci). Tale richiamo non appare pertinente ove si consideri che: - da un lato, il legale rappresentate dell'appellante è stato completamente scagionato dall'iniziale imputazione penale, non potendosi pertanto ritenere che l'appellante abbia posto in essere un'attività insidiosa atta a giustificare la dilazione del potere di autotutela, dovendosi anzi evidenziare che l'appellante, in qualità di danneggiata, si è costituita parte civile nel procedimento penale ed ha ivi ricevuto parziale ristoro; - in ogni caso, come già osservato, il Ministero già nel 2013 era stato notiziato dalla Giardia di Finanza dei fatti penalmente rilevanti e nel 2015 è intervenuta la sentenza penale di patteggiamento, non essendo dato comprendere le ragioni dell'attesa, sino al 2022, per l'avvio del procedimento di revoca. 9 - L'accoglimento dell'appello nei termini che precedono è idoneo ad esaurire la materia del contendere, non residuando alcun interesse all'esame degli ulteriori motivi di appello con i quali la società contesta la sussistenza di una sua responsabilità per la mancata attuazione del progetto al quale era funzionale l'erogazione dell'anticipazione poi revocata. In ogni caso, si osserva che non era la società di gestione la beneficiaria ultima del finanziamento di cui trattasi. La -OMISSIS-, infatti, ha ricevuto il denaro pubblico non per un vantaggio proprio, ma per investirlo, quale intermediario, in conformità ai modi stabiliti dall'amministrazione in un progetto che quest'ultima ha approvato (ai sensi del punto 8.5 del Decreto, la valutazione dei programmi di sviluppo è effettuata dal Comitato di Gestione). Al riguardo, la Corte dei Conti ha precisato che "l'unico legittimato ad interrompere la prescrizione dell'azione di responsabilità era il titolare del diritto, ossia l'ente danneggiato MISE, per la quota di sua competenza", concludendo nel senso che "L'inerzia del Ministero ha, quindi, causato un danno erariale costituito dalla prescrizione dell'azione di responsabilità esercitata dalla Procura nei confronti di -OMISSIS- e del fall. -OMISSIS- srl" (sentenza n. 220/2022). 10 - Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2019, n. 3110). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 10.1 - Le spese di lite del doppio grado di giudizio, ad una valutazione complessiva della controversia, possono essere compensate. 11 - Deve infine disporsi la trasmissione della presenta sentenza, unitamente agli atti della causa, alla competente Procura della Corte dei Conti, per ogni eventuale valutazione in riferimento ai fatti emersi nel corso del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta accoglie l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla l'atto impugnato. Spese di lite compensate. Dispone la trasmissione a cura della Segreteria della presente sentenza e degli atti di causa alla competente Procura della Corte dei Conti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone fisiche citate nel provvedimento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3117 del 2022, proposto da Vi. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Vi. Sc., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Regione Campania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ma., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato - Sez. V, n. 6618 del 2021, resa tra le parti; Visti il ricorso per revocazione e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Campania; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 gennaio 2024 il Cons. Stefano Fantini e udito per le parti l'avvocato Sc.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.- La Vi. s.r.l., quale organismo intermediario, ha svolto attività di soggetto attuatore della "sovvenzione globale" disposta dalla Commissione CEE con decisione C/93256/5 del 16 febbraio 1993; con provvedimento in data 29 giugno 1998 la Regione Campania, in sede di rendicontazione finale, formulava dei rilievi sul suo operato, con conseguente richiesta di restituzione di euro 525.370,00, in considerazione del pagamento delle spese in favore delle imprese destinatarie dei contributi comunitari oltre i termini stabiliti dalla convenzione. La società Vi. ha impugnato detto provvedimento lamentando che l'ordine di recupero non ha valutato l'imputabilità del ritardo; con un successivo ricorso ha poi gravato la determinazione regionale del 3 luglio 2000, recante alcune variazioni in rettifica e la richiesta di rimborso; con i motivi aggiunti ha poi impugnato anche la determinazione in data 2 maggio 2002. 2. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno, con sentenza n. 2919 del 2004, previa riunione, ha respinto i ricorsi. 3.- Avverso tale sentenza ha esperito appello la Vi. s.r.l., allegando di avere portato a termine le attività delegatele e che il superamento dei termini, presupposto del recupero, non era imputabile alla sua condotta, ma alla Regione Campania, che aveva tardato nel corrispondere il secondo acconto. 4. - Con la sentenza 14 gennaio 2009, n. 142 questa V Sezione ha accolto l'appello e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, ha annullato i provvedimenti gravati; ha in particolare rilevato che, ferma l'insindacabilità in sede di giurisdizione amministrativa della decisione finale della Commissione CEE, gli atti assunti dalle Autorità italiane chiamate ad operare nel quadro della c.d. coamministrazione (tipica dei procedimenti nazional-comunitari) restano soggetti alle regole dell'ordinamento interno, e non può pertanto essere negato il fondamentale diritto alla tutela giurisdizionale. La sentenza ha inoltre ritenuto che il mancato rispetto dei termini della convenzione sia imputabile alla Regione Campania, e non già a negligenza dell'organismo intermediario, precisando altresì che gli interessi attivi sono imputati alla sovvenzione globale e non all'organismo intermediario. 5. - A seguito della sentenza n. 142 del 2009, da ultimo indicata, la società Vi. ha adito il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione di Salerno, chiedendo la condanna della Regione Campania al risarcimento del danno da illegittimità provvedimentale; con sentenza n. 2038 del 2013 il ricorso è stato dichiarato inammissibile per violazione dell'art. 30, comma 5, cod. proc. amm. La Vi. s.r.l. ha esperito appello avverso detta decisione, che è stata riformata dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 4 ottobre 2021, n. 6618, la quale ha dichiarato il ricorso di primo grado ammissibile, respingendolo però nel merito. In particolare, la sentenza della Sezione, chiarito che doveva aversi riguardo al termine di prescrizione per la proposizione della domanda (trattandosi di azione di risarcimento antecedente all'introduzione del termine di decadenza da parte del cod. proc. amm.), ha però respinto il ricorso ritenendo non configurabile il danno reputazionale e il danno da perdita della chance di partecipare ad altri programmi di attuazione di fondi europei, in quanto non conseguenza immediata e diretta della mancata disponibilità del denaro. Con riguardo alla domanda di pagamento degli interessi attivi e della rivalutazione monetaria, la sentenza ha poi affermato che si tratta di pretesa già azionata in sede di ottemperanza alla sentenza n. 142 del 2009 e ritenuta parzialmente fondata (con esclusione della rivalutazione monetaria) dalla sentenza n. 3800 del 2010, con la conseguenza che la presente domanda incorre in violazione del principio del ne bis in idem. Infine la sentenza ha ritenuto inammissibile, in quanto proposta per la prima volta in sede di appello, la domanda di Vi. diretta ad ottenere la liquidazione, da parte della Regione, delle somme che aveva rendicontato e ritenuto inammissibili in sede di verifica, in quanto sostenute dopo la data limite di spesa del 30 giugno 1997. 6. - La Vi. s.r.l. chiede in questa sede in via rescindente la revocazione della predetta sentenza, deducendo: a) con riguardo alla statuizione di cui al punto 2.4 della motivazione, di reiezione della domanda di pagamento degli interessi in quanto già proposta in sede di ottemperanza alla sentenza n. 142 del 2009 della Sezione, definita con la sentenza n. 3800 del 2010, che la sentenza non ha considerato che l'importo di euro 143.181,29, relativo al primo acconto, non era voce di danno, ma riattribuzione della somma spettante all'organismo intermediario, mentre la domanda di risarcimento di euro 229.440,24 riguardava gli interessi maturati sul ritardato accreditamento del secondo acconto, dovendosi dunque ritenere estranea alla richiesta avanzata in sede di ottemperanza alla sentenza n. 142 del 2009. L'errore revocatorio, per la ricorrente, consisterebbe nell'avere ritenuto la domanda di risarcimento per euro 229.440,24 già proposta in sede di ottemperanza, a causa di un difetto di lettura dell'oggetto del predetto giudizio. Parimenti erronea, per la ricorrente, è la statuizione di reiezione della richiesta di rimborso della polizza assicurativa per euro 43.899,00, che sarebbe già stata valutata e riconosciuta dalla sentenza della Sezione n. 3854 del 2015, la quale, al contrario, si è interessata della questione dei premi pagati dal consorzio alla propria compagnia assicuratrice; b) con riguardo al capo 3 della sentenza, che ha ritenuto inammissibile (in quanto proposta per la prima volta in appello) la domanda volta ad ottenere il pagamento delle somme rendicontate e ritenute inammissibili in quanto pervenute oltre la data del 30 giugno 1997, la ricorrente deduce di avere proposto in primo grado la domanda di risarcimento pari ad euro 428.834,15. 7. - Si è costituita in resistenza la Regione Campania eccependo l'inammissibilità e comunque l'infondatezza nel merito del ricorso. 8.- All'udienza pubblica del 18 gennaio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.- Il ricorso per revocazione è inammissibile. Rileva il Collegio che, in termini generali, l'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395 n. 4 cod. proc. civ., è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto allo loro esistenza ed al significato letterale, senza coinvolgere la successiva attività di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione di errore di fatto revocatorio i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronuncia od abbia esteso la decisione a domande e ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo. Viceversa esso non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto od incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi, queste, che danno luogo, eventualmente, ad un errore di giudizio, non censurabile mediante il rimedio della revocazione (in termini Cons. Stato, V, 29 ottobre 2014, n. 5347; V, 11 giugno 2013, n. 3210; Ad. plen., 10 gennaio 2013, n. 1; Ad. plen., 17 maggio 2010, n. 2; Ad. plen., 11 giugno 2001, n. 3). 2. - Nella fattispecie in esame non si rinvengono gli elementi tipici dell'errore di fatto revocatorio. 3. - In particolare, procedendo alla disamina della prima doglianza, la ricorrente ritiene frutto di abbaglio l'assunto contenuto nel paragrafo 2.4 della sentenza impugnata, secondo cui la "domanda (di pagamento degli interessi attivi e della rivalutazione monetaria) è già stata formulata in sede di ottemperanza alla sentenza di questa Sezione n. 142 del 2009 e riconosciuta ammissibile (...) e fondata (...) dalla sentenza (...) n. 3800 del 2010" limitatamente agli interessi e con esclusione della rivalutazione monetaria, con conseguente preclusione alla riproposizione della stessa domanda. Deduce in particolare che il riconoscimento della somma di euro 143.181,29 consisteva nella riattribuzione dell'importo spettante all'organismo intermediario, e non già in una voce di danno, come sancito dalla sentenza n. 142 del 2009; il secondo errore consisterebbe nel ritenere che la domanda di risarcimento per euro 229.440,24 sia stata già proposta nella sede di ottemperanza, definita con la sentenza n. 3800 del 2010, così confondendo l'importo di euro 143.181,29 (relativo al primo acconto) con la somma di euro 229.440,24 riferita al secondo acconto (il secondo acconto era estraneo alla sentenza n. 142 del 2009 e dunque al giudizio di ottemperanza). Di conseguenza, la richiesta risarcitoria sarebbe stata proposta solo con il ricorso conclusosi con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale di Salerno n. 2038 del 2013, e poi reiterata in appello. Lamenta la ricorrente un ulteriore errore revocatorio in relazione alla richiesta di rimborso della seconda polizza assicurativa, che, secondo la sentenza impugnata, sarebbe stata già esaminata e riconosciuta dalla sentenza della Sezione n. 3854 del 2015; al contrario, quest'ultima pronuncia ha riguardato il danno subito da Vi. per la stipula della polizza fideiussoria sul primo acconto. La prima critica è inammissibile, in quanto non attiene ad un errore di fatto revocatorio, né ad un punto non controverso, ma impinge nella successiva attività di interpretazione del giudice e di qualificazione giuridica della fattispecie. E' indubbio che la sentenza n. 3800 del 2010 abbia affermato che "nella specie sono dovuti gli interessi legali sulla somma relativa al debito da restituzione degli interessi attivi, riconosciuto dalla sentenza n. 142/2009, e pari ad euro 143.181,29, mentre su tale somma non è dovuta la rivalutazione monetaria, in quanto non vi è stata la dimostrazione da parte della società creditrice di aver subito un danno maggiore". Non merita positiva valutazione in sede revocatoria neppure l'allegazione che contesta la sentenza nella parte in cui avrebbe confuso tra importo dovuto con il primo e il secondo acconto, solamente il primo essendo stato oggetto della sentenza n. 142 del 2009, e dunque del giudizio di ottemperanza. Anche in tale caso il Collegio non può esimersi dal rilevare che tale doglianza non enuclea un'errata percezione, di immediata e semplice rilevabilità, del contenuto materiale degli atti del giudizio, ma coinvolge l'attività valutativa del giudice. Si tratta dunque di doglianza inammissibile, essendo la revocazione il mezzo processuale previsto dall'ordinamento per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o dell'abbaglio dei sensi, e non già per sottoporre ad ulteriore sindacato giurisdizionale una valutazione giuridica delle domande e delle eccezioni, ovvero del materiale probatorio, che, in astratto, potrebbe anche avere dato luogo ad un errore di giudizio, in quanto altrimenti si tradurrebbe in un inammissibile terzo grado di giudizio. Non è ravvisabile neppure il secondo errore revocatorio con riguardo alla richiesta di rimborso della seconda polizza assicurativa, che, secondo la sentenza impugnata, sarebbe stata già esaminata e riconosciuta dalla sentenza della Sezione n. 3854 del 2015; non si evince infatti una svista nella percezione del portato della sentenza da ultimo indicata e comunque l'erronea interpretazione del giudicato, se del caso, dà luogo ad un errore di diritto. Non può, inoltre, trascurarsi di considerare che il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e quindi non solo le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le questioni proponibili sia in via di azione, che di eccezione, le quali, anche se non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici necessari della pronuncia. Ciò comporta che, per definire la regola dell'autorità del giudicato, è sufficiente l'individuazione dell'interesse e del bene della vita tutelato dalla pronuncia del giudice, il quale non può essere rimesso in discussione in un successivo giudizio (Cass., I, 15 giugno 2022, n. 19302). 4. - Con il secondo motivo si lamenta poi, con riguardo al capo 3 della sentenza, come erroneamente la sentenza abbia ritenuto inammissibile (in quanto proposta per la prima volta in appello) la domanda volta ad ottenere il pagamento delle somme rendicontate e ritenute inammissibili in quanto pervenute oltre la data del 30 giugno 1997, avendo la ricorrente proposto in primo grado la domanda di risarcimento pari ad euro 428.834,15. Il motivo è inammissibile, in quanto la sentenza di cui si chiede la revocazione ha enucleato l'ambito oggettivo della domanda svolta in giudizio (essenzialmente in termini di inadempimento, da parte della Regione, della convenzione), mentre in primo grado la domanda era stata proposta come domanda di risarcimento per costi aggiuntivi sostenuti in dipendenza dei ritardi nel versamento delle somme della "sovvenzione globale". E' evidente come dunque, anche in tale prospettiva, la pronuncia non sarebbe frutto di un errore revocatorio, ma di interpretazione e valutazione del contenuto delle domande. 5. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile, ciò precludendo il riesame del merito della controversia già precedentemente decisa. La particolare complessità della vicenda processuale costituisce ragione giustificatrice della compensazione tra le parti delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Compensa tra le parti le spese di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Stefano Fantini - Consigliere, Estensore Alberto Urso - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto SOCIETA’ DI CAPITALI. AZIONE EX ARTT. 2467, 2497-QUINQUIES E 2033 C. C. O ARTT. 2497 E 2043 C.C. Dott. Carlo De Chiara Presidente Dott. Massimo Falabella Consigliere Dott. Eduardo Campese Consigliere - rel. Dott. Luigi D’Orazio Consigliere Ud. 09/04/2024 PU Cron. R.G.N. 32864/2019 Dott. Paolo Fraulini Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 32864/2019 r.g. proposto da: FALLIMENTO METAL CHAIN S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del curatore dott. Massimo di Luzio, rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dagli Avvocati Marco De Rosa ed Alfredo Irti, con cui elettivamente domicilia presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla Via Andrea Vasalio n. 22. -ricorrente - contro TRAFILERIE VENETE S.A.S. DI ZANETTI PAOLO & C., con sede in Santa Lucia di Piave (TV), alla via Trieste n. 10, in persona del legale rappresentante pro tempore, e ZANETTI PAOLO, entrambi rappresentati e difesi, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Marco Francescon, con cui elettivamente domiciliano in Roma, al Viale Liegi n. 58, presso lo studio dell’Avvocato Vincenzo Cancrini. - controricorrenti - avverso la sentenza n. 3412/2019 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA, pubblicata il 29/08/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 09/04/2024 dal Consigliere dott. Eduardo Campese; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso; udito, per il ricorrente, l’Avv. Marco De Rosa, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso; udito, per la controricorrente, l’Avv. Marco Francescon, che ha concluso chiedendo il rigetto dell’avversa impugnazione; letta la memoria ex art. 378 cod. proc. civ. depositata dalla parte ricorrente. FATTI DI CAUSA 1.Il 13 aprile 2005, Metal Chain s.r.l. ricevette da Trafilerie Venete (all’epoca s.p.a.) un finanziamento di € 2.000.000,00. Le due società non erano collegate, ma il socio di maggioranza, nonché amministratore, era in entrambe Paolo Zanetti. Il denaro fu parzialmente (€ 500.000,00) utilizzato per restituire un precedente finanziamento dalla prima ottenuto da Weissenfels s.p.a. 1.1. Il 12 gennaio 2006, Metal Chain s.r.l. ricevette da quest’ultima un ulteriore finanziamento di € 2.200.000,00, subito utilizzato per rimborsare quello precedentemente concessole da Trafilerie Venete. Successivamente, il 2 ottobre 2007, fu messa in liquidazione e, nel 2011, lo Zanetti ne divenne socio unico, vendendo poi, nel 2012, le quote alla madre, che fu nominata liquidatrice. Il 31 gennaio 2013, la medesima società fu dichiarata fallita. 1.2. Il Fallimento Metal Chain s.r.l., pertanto, agì in giudizio, innanzi al Tribunale di Venezia, Sezione Impresa, chiedendo la condanna di Trafilerie Venete s.a.s. e del socio accomandatario Paolo Zanetti a restituirgli la somma di € 2.000.000,00, invocando l’applicazione del combinato disposto degli artt. 2467, 2497-quinquies e 2033 cod. civ. e, in subordine, la loro responsabilità per fatto illecito ex artt. 2497 e 2043 cod. civ. 1.3. Costituitisi i convenuti, che contestarono integralmente le avverse pretese, l’adito tribunale, con sentenza del 26 luglio /19 settembre 2017, n. 2044, disattese l’eccezione di incompetenza da essi formulata e rigettò le domande attoree. 1.3.1. In particolare, ravvisò la legittimazione del curatore fallimentare ad agire ex art. 2497 cod. civ. “solo con riferimento all’azione dei creditori” ed escluse l’applicabilità dell’art. 2467 cod. civ., poiché Trafilerie Venete s.a.s. non era socia di Metal Chain s.r.l. ed il rimborso era avvenuto molti anni prima della dichiarazione di fallimento. Negò, inoltre, l’applicabilità dell’art. 2497- quinquies cod. civ., atteso che la direzione sarebbe stata svolta da persona fisica, cioè dal socio amministratore della prima, e non da una società capogruppo. 2. Pronunciando sul gravame promosso dal menzionato Fallimento contro detta decisione, l’adita Corte di appello di Venezia lo respinse con sentenza del 25 luglio/29 agosto 2019, n. 3412, resa nel contraddittorio con Paolo Zanetti e Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. 2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte: i) considerò corretto l’assunto del tribunale che aveva negato al curatore fallimentare la legittimazione ad agire, in rappresentanza della fallita, per la responsabilità del soggetto che avrebbe esercitato poteri di direzione e coordinamento e riconosciuto al medesimo curatore soltanto la legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità spettante ai creditori; ii) rimarcò, comunque, che, in base all’art. 2497 cod. civ., è il legislatore a prevedere che al curatore spetti l’esercizio dell’azione dei creditori e non anche quella dei soci, i quali mantengono la legittimazione ad agire nei confronti dell’ente che esercita la direzione anche in caso di fallimento della società eterodiretta; iii) ritenne che correttamente il tribunale aveva escluso la ripetizione della restituzione del finanziamento anomalo erogato da Trafilerie Venete (all’epoca s.p.a.) a Metal Chain s.r.l. nell’aprile del 2005, poiché avvenuta oltre un anno prima del fallimento della società finanziata. Opinò, infatti, che la restituzione del finanziamento non costituiva un indebito oggettivo ma un atto di adempimento; iv) negò l’applicabilità dell’art. 2497-quinquies cod. civ. a Paolo Zanetti, che era stato amministratore di entrambe le società e che, in forza dei poteri gestori derivatigli di tali funzioni, aveva deciso ed attuato le operazioni di finanziamento e di rimborso in oggetto; v) osservò che, non trovando applicazione, per quanto si è detto, l’art 2467 cod. civ., era priva di rilevanza, per la decisione del giudizio, la questione dell’utilizzazione dell’art. 2497-quinquies cod. civ. in relazione a persone fisiche; vi) evidenziò, quanto al preteso esercizio, da parte dello Zanetti, di poteri di direzione e coordinamento della società di cui era socio di maggioranza e, quindi, dell’ipotizzata esistenza di una holding individuale, che la presenza di un socio dominante non era sufficiente per affermare l’esistenza di una holding di fatto; vii) con riguardo, infine, alla richiesta, formulata in via subordinata, di condanna di Trafilerie Venete s.a.s. e di Paolo Zanetti al risarcimento dei danni subiti da Metal Chain s.r.l., negò la sussistenza dei relativi presupposti per la mancanza di un illecito in quanto la restituzione del finanziamento aveva costituito l’adempimento di una obbligazione, sicché neppure era ipotizzabile qualsivoglia danno. 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione, affidandosi a quattro motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ.. Hanno resistito, con unico controricorso, Paolo Zanetti e Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. 3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria del 21 aprile/19 giugno 2023, n. 17531, ha ritenuto «che le tematiche introdotte con questo giudizio, specie con riferimento alla questione della legittimazione attiva del curatore riconosciuta unicamente per l’azione dei creditori (art. 2497 c.c.) e non anche nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’abusiva attività di eterodirezione nonché alla questione relativa al rimborso del finanziamento senza postergazione meritino un approfondimento ad una pubblica udienza per il rilievo nomofilattico ed in ragione dell’assenza di precedenti specifici». Pertanto, ha rinviato la causa a nuovo ruolo, disponendone la trattazione in pubblica udienza, in occasione della quale il Fallimento ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso denuncia la «Violazione degli artt. 2497, 2043 c.c. e 24 Cost. per la negata legittimazione attiva della società (per essa: del curatore fallimentare) a chiedere il risarcimento del danno da abuso dei poteri di eterodirezione. Omesso esame di un fatto che ha formato oggetto della discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.››. Viene censurata l’affermazione della corte distrettuale secondo cui non sarebbe stato indicato l’interesse del curatore fallimentare ad agire, per conto della società, al fine di ottenere un risarcimento per i danni conseguenti all’abuso dei poteri di eterodirezione stante l’azione riconosciuta ai creditori. Si sostiene di aver fatto riferimento ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2497 cod. civ., richiamando esplicitamente l’ordinanza emessa in sede cautelare dal Tribunale di Venezia che aveva respinto l’eccezione di carenza di legittimazione nonché le ordinanze emesse con riguardo al caso Ligresti ed alla vigenza attuale dell’interpretazione autentica della menzionata disposizione imposta dal d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009. Si critica, inoltre, l’assunto della medesima corte secondo cui costituirebbe una inammissibile duplicazione di risarcimento riconoscere direttamente ai soci il ristoro della perdita di valore della partecipazione sociale e, poi, anche alla società il diritto alla reintegrazione del patrimonio da cui dipende quello stesso valore delle partecipazioni la cui perdita è già stata autonomamente risarcita. Si osserva, in linea generale, che l’azione risarcitoria promossa dai soci di minoranza nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’abusiva attività di eterodirezione deve ritenersi inammissibile quando la società si è già attivata eventualmente anche in sede giudiziale nei confronti della propria controllante al fine di ottenere un risarcimento conseguente a detta attività. 1.1. Tale doglianza si rivela in parte inammissibile ed in parte infondata. 1.2. È inammissibile laddove denuncia un vizio motivazionale, atteso che: i) l'attuale testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (come modificato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012 e qui applicabile, ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 29 agosto 2019), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest'ultimo profilo (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6127 del 2024; Cass. nn. 28390, 27505, 4528 e 2413 del 2023; Cass. n. 31999 del 2022; Cass., SU, n. 23650 del 2022; Cass. nn. 9351, 2195 e 595 del 2022; Cass. nn. 4477 e 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) come ancora recentemente ricordato, in motivazione, da Cass. n. 2607 del 2024, «giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per la conformità della sentenza al modello di cui all'art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., non è indispensabile che la motivazione prenda in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti al fine di condividerle o confutarle, essendo necessario e sufficiente, invece, che il giudice abbia comunque indicato le ragioni del proprio convincimento in modo tale da rendere evidente che tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse siano state implicitamente rigettate (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 13408 del 2023; Cass. n. 9021 del 2023; Cass. n. 6073 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 956 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 29860 del 2022; Cass. n. 3126 del 2021; Cass. n. 25509 del 2014; Cass. n. 5586 del 2011; Cass. n. 17145 del 2006; Cass. n. 12121 del 2004; Cass. n. 1374 del 2002; Cass. n. 13359 del 1999)». 1.3. La censura è infondata, invece, laddove insiste nell’affermare la riconoscibilità della legittimazione ad agire del curatore fallimentare, in rappresentanza della società fallita, al fine di ottenere il risarcimento dei danni cagionati alla società medesima dall’attività di eterodirezione e coordinamento su di essa esercitata. 1.3.1. Invero, l’art. 2497 cod. civ., – inserito nel Capo IX (come sostituito dal d.lgs. n. 6 del 2003, con decorrenza dall’1 gennaio 2004), intitolato “Direzione e coordinamento di società”, del Titolo V, del Libro Quinto del codice civile – rubricato “Responsabilità”, così testualmente dispone (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportata al suo comma 3, dal d.lgs. n. 14 del 2019): “1. Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. 2. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. 3. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento. 4. Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di società soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori di questa è esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario”. Va ricordato, inoltre che ai sensi dell'art. 19 del d.l. n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, il riportato comma 1 si interpreta nel senso che «per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria». 1.4. Tanto premesso, rileva, innanzitutto, il Collegio che l’appena riportata disposizione codicistica – chiara nel suo tenore letterale – attribuisce la legittimazione all’esercizio dell’azione ivi prevista ai soci ed ai creditori della società soggetta all'altrui attività di direzione e coordinamento. 1.4.1. Più precisamente, la norma disciplina espressamente la responsabilità, nei confronti dei soci della società eterodiretta, “per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale” e, verso i creditori sociali, “per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società”. 1.4.2. Con riguardo alla posizione del socio, la dottrina ha evidenziato che trattasi di un’ipotesi di risarcibilità del danno meramente riflesso da lui subito, in deroga, quindi, al principio di generale irrisarcibilità di tale tipo di danno. 1.4.2.1. Infatti, il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale altro non è che il riflesso del danno subito (direttamente) dalla società eterodiretta, che importa una riduzione del valore del patrimonio sociale e, dunque, una riduzione del valore delle partecipazioni dei soci. 1.4.2.2. L'azione di responsabilità riconosciuta ai soci dall'art. 2497 cod. civ. consente al socio della società soggetta ad altrui direzione e coordinamento di agire nei confronti dell'ente che tale direzione e coordinamento abbia malamente esercitato, al fine di ottenere, in proprio favore, il risarcimento di danni incidenti sostanzialmente sul patrimonio della società e, così, per conseguenza solo indiretta, su quello suo personale, avendo il legislatore richiamato il concetto di pregiudizio arrecato al valore o alla redditività della partecipazione sociale. 1.4.3. Quanto alla posizione dei creditori sociali, invece, perché possa essere affermata la responsabilità derivante dall’illecito esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di società, occorre che il patrimonio della società eterodiretta sia stato danneggiato. In altri termini, deve esserne stata lesa l’integrità, con conseguente annientamento o riduzione della generica garanzia patrimoniale (art. 2740 cod. civ.). 1.4.3.1. Pertanto, il pregiudizio ai creditori, ai sensi dell’art. 2497, comma 1, cod. civ., è quello all’interesse, che loro pertiene, strumentale alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale della loro debitrice, quale presupposto per favorire il buon esito del proprio credito. 1.4.4. La norma non prevede, per contro, la legittimazione ad agire della società sottoposta all'attività di direzione e coordinamento, titolare del patrimonio direttamente danneggiato dalle condotte abusive della controllante. Essa, inoltre, attribuisce al curatore fallimentare la legittimazione all’esercizio della sola azione dei creditori sociali, non anche di quella sociale, né di quella dei soci, quest’ultimi mantenendo, come si è già riferito, la legittimazione ad agire nei confronti dell’ente che esercita la direzione anche in caso di fallimento della società eterodiretta. 1.5. La mancata previsione di detta società tra i soggetti titolari dell’azione di cui all’art. 2497 cod. civ. non appare in contrasto con l’art. 24 Cost., atteso che, come affatto condivisibilmente opinato dalla corte lagunare, «la fattispecie tutela beni che fanno capo direttamente ai soci: la redditività ed il valore della partecipazione sociale. La tutela, invece, dell’integrità del patrimonio è riconosciuta nell’interesse dei creditori sociali e – come si è detto – il curatore è legittimato ad agire in rappresentanza della collettività. Nell’insieme, la tutela apprestata dal legislatore è completa, poiché, riconoscendosi il diritto sia dei soci sia dei creditori ad ottenere il risarcimento dal soggetto esercitante l’attività di direzione e coordinamento, non rimangono esclusi soggetti danneggiati. Rappresenterebbe, invece, una inammissibile duplicazione di risarcimento riconoscere direttamente ai soci il ristoro della perdita di valore della partecipazione sociale e poi anche alla società il diritto alla reintegrazione del patrimonio, da cui dipende quel medesimo valore delle partecipazioni la cui perdita è già stata (o può essere) autonomamente risarcita» (cfr. pag. 8-9 della sentenza impugnata). 1.5.1. Anche i lavori preparatori, del resto, depongono nel senso che il curatore è legittimato a proporre unicamente l’azione spettante ai creditori sociali. Da essi, infatti, – come opportunamente rimarcato anche dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta – si desume agevolmente la piena consapevolezza del legislatore delegato del 2003 nella propria scelta definitiva: basti pensare, da un lato, alla cancellazione del terzo comma dello schema, con conseguente soppressione della legittimazione della società eterodiretta a promuovere l’azione di responsabilità contro la società dominante, già concessa ad azionisti “esterni” e creditori della società abusata; dall’altro, alla riconduzione di tale azione (degli azionisti “esterni” e dei creditori) alla violazione di una regola di condotta stabilita dal legislatore in funzione di una tutela diretta degli interessi che ad essi fanno capo (rispettivamente, redditività e valore della partecipazione, e solvibilità della società). 1.5.2. In altri termini, il dato letterale dell’art. 2497, comma 4, cod. civ., che espressamente si riferisce alla sola azione dei creditori sociali (la quale, effettivamente, con il fallimento o l’amministrazione straordinaria della società eterodiretta, diviene azione di massa, al pari dell’azione ex art. 2394 cod. civ.), nemmeno è superabile alla luce dei criteri interpretativi di cui all’art. 12 delle Preleggi. Esso, invero, è collocato all’interno della norma che disciplina, ai commi precedenti, la responsabilità della società che esercita illegittimamente attività di direzione e coordinamento verso la controllata per i pregiudizi arrecati sia ai soci, sia ai creditori sociali dell’ente eterodiretto, sicché l’attribuzione della legittimazione al curatore o al commissario straordinario della sola azione dei creditori, manifesta, come ritiene anche la dottrina maggioritaria, una precisa scelta del legislatore e non la si può ritenere una mera omissione. 1.6. Neppure persuade, infine, la tesi secondo cui le critiche derivanti dalla mancata previsione della legittimazione dell’organo della procedura nella fattispecie in esame avrebbero trovato riscontro nella formulazione dell’art. 291 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14): formulazione, che, data l’omnicomprensività, potrebbe essere interpretato nel senso dell’ampliamento della legittimazione del curatore. 1.6.1. Invero, proprio la nuova normativa del CCII si presta a diverse ed opposte interpretazioni, sollecitate dalla più attenta dottrina. 1.6.1.1. Infatti, l’art. 255 di detto Codice, rubricato “Azioni di responsabilità” (“1. Il curatore, autorizzato ai sensi dell’articolo 128, comma 2, può promuovere o proseguire, anche separatamente: a] l’azione sociale di responsabilità; b] l’azione dei creditori sociali prevista dall’articolo 2394 e dall’articolo 2476, sesto comma, del codice civile; c] l’azione prevista dall’articolo 2476, ottavo comma, del codice civile; d] l’azione prevista dall’articolo 2497, quarto comma, del codice civile; e] tutte le altre azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge”) detta le disposizioni per la legittimazione generale alle azioni di responsabilità da parte del curatore della liquidazione giudiziale, analogamente a quanto previsto dall’art. 307 CCII per il commissario della liquidazione coatta amministrativa (“L’azione di responsabilità contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo dell’impresa o dell’ente in liquidazione, a norma degli articoli 2393, 2394, 2476, primo, sesto e ottavo comma, 2497 del codice civile, è esercitata dal commissario liquidatore, previa autorizzazione dell’autorità che vigila sulla liquidazione”). 1.6.1.2. Non si rinviene, dunque, come è evidente, la previsione di una legittimazione generale ed indistinta, ma, come sottolineato dalla più accorta dottrina, un’enunciazione puntuale delle azioni di responsabilità esperibili. Invero, anche la norma di chiusura di cui alla lett. e) dell’art. 255 ha una finalità volta a circoscrivere le azioni risarcitorie spettanti alla curatela alle sole ipotesi espressamente previste dalla legge, così superandosi la legittimazione del curatore ad esercitare le azioni di responsabilità senza ulteriori precisazioni. 1.6.2. In definitiva, è delineata un’impostazione più rigorosa che non riconosce al curatore un generalizzato potere di rappresentanza. Con la conseguenza che le disposizioni che attribuiscano tale potere al curatore debbono considerarsi quali norme eccezionali, al di fuori delle quali la legittimazione della curatela quale organo rappresentativo della massa dei creditori deve essere esclusa. 2. Il secondo motivo di ricorso lamenta la «Violazione di legge per interpretazione ed applicazione errate degli artt. 2033, 2467 e 2497- quinquies c.c.››. Si deduce che l’art. 2033 cod. civ. deve trovare applicazione non solo laddove la causa manchi totalmente ma anche allorquando il pagamento indebito sia riferibile ad una ragione genetica nulla ed inefficace. Si sostiene che, nel caso della restituzione di finanziamento “anomalo”, non viene in essere un pagamento prima della scadenza, bensì l’assenza di un elemento sostanziale (il mancato avverarsi della condizione legale dell’assenza di sovraindebitamento o di tensione finanziaria della società) perché possa configurarsi l’attualità del debito stesso di restituzione. Si precisa, altresì, che la postergazione legale dei finanziamenti “anomali” riguarda tutti i finanziamenti del genere, non solo quelli restituiti entro l’anno anteriore al fallimento, e deve essere assistita da una normativa che la salvaguardi. Si puntualizza pure che, «In realtà, il Fallimento attore non ha esercitato l’azione prevista dal primo comma, parte seconda, dell’art. 2467 c.c. per la retroversione “automatica” di finanziamenti “anomali” rimborsati nell’anno anteriore al fallimento: ha esercitato domanda di ripetizione per un rimborso avvenuto anteriormente». 2.1. Tale doglianza si rivela infondata. 2.2. Invero, il Fallimento ricorrente, come si è appena riferito, ha sottolineato di non aver esercitato l’azione prevista dall’art. 2467, comma 1, seconda parte, cod. civ. (per la retroversione automatica di finanziamenti anomali rimborsati nell’anno anteriore al fallimento), ma di aver promosso, in via concorrente con l’azione ex art. 2497 cod. civ., la domanda di ripetizione ex art. 2033 cod. civ. in relazione ad un “finanziamento anomalo” rimborsato anteriormente all’anno predetto. 2.3. Giova premettere, allora, che: i) l’art. 2467, comma 1, cod. civ. nel testo, qui applicabile ratione temporis, risalente al d.lgs. n. 6/2003, prevede che il diritto dei soci al rimborso di un finanziamento concesso alla società in una situazione di squilibrio finanziario, o in un contesto che avrebbe richiesto un aumento di capitale, è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e deve essere restituito alla massa qualora effettuato nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; ii) giusta l’art. 2497-quinquies cod. civ., le regole relative ai finanziamenti dei soci nell’ambito della società a responsabilità limitata sono richiamate nel caso di finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti (finanziamenti discendenti o orizzontali). Da tale previsione consegue, allora, che la disciplina in esame si applica ai finanziamenti effettuati non solo a favore della società a responsabilità limitata, ma anche di società di altro tipo; inoltre, le medesime regole assumono rilievo non soltanto nel caso in cui il finanziamento sia effettuato dal socio, ma anche da terzi, purché si tratti o della società che esercita attività di direzione e coordinamento nei confronti della società finanziata o da altri soggetti comunque sottoposti a tale società; iii) nel caso di specie, la corte territoriale ha accertato che Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. aveva concesso un finanziamento alla Metal Chain s.r.l., poi fallita, senza esserne socia (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). La stessa corte, inoltre, ha ritenuto che correttamente il tribunale aveva escluso la ripetizione della restituzione di detto finanziamento, erogato nell’aprile del 2005, poiché avvenuta oltre un anno prima del fallimento della società finanziata e considerato, altresì, che la restituzione del finanziamento non costituiva un indebito oggettivo ma un atto di adempimento. 2.4. Fermo quanto precede, opina il Collegio che, tra le differenti ricostruzioni interpretative che hanno interessato l’art. 2467 cod. civ. nel testo in precedenza indicato (quella che, privilegiando il dato letterale, qualifica l’azione attribuita al curatore come ripetizione dell’indebito e quella che, in una differente prospettiva, riconduce la regola ai principi del diritto concorsuale, configurandola alla stregua di un’azione revocatoria di carattere speciale, trattandosi di un’inefficacia ex lege del rimborso, supportata da una presunzione assoluta della scientia decotionis), è senz’altro preferibile quella che riconduce il rimedio ivi disciplinato ad una fattispecie di revocatoria speciale. 2.4.1. Ciò non soltanto perché lo stesso art. 70, comma 2, l.fall. sancisce un obbligo di restituzione da revocatoria allorché si riferisce a “colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto”, ma anche, e soprattutto, perché opinare diversamente (qualificando, cioè, il rimedio de quo come azione di ripetizione dell’indebito) risulterebbe in chiaro contrasto proprio con quanto previsto dallo stesso art. 2467 cod. civ., laddove, al comma 1, seconda parte, limita l’obbligo di restituzione al rimborso percepito nell’anno anteriore al fallimento: previsione, questa, che si rivelerebbe assolutamente inutile se la ricostruzione del rimedio in termini di azione ex art. 2033 cod. civ. fosse fondata, giacché quest’ultima dovrebbe portare, di per sé, ad ammettere che anche i rimborsi effettuati oltre l’anno prima dall’apertura del fallimento siano oggetto di ripetizione, sulla base, appunto, della disposizione indiscriminata di cui all’articolo 2033 cod. civ. 2.4.2. In altri termini, come condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta, è proprio «la limitazione temporale dell’obbligo di restituzione al solo rimborso percepito nel periodo sospetto di un anno anteriore al fallimento, insieme con la complessiva destinazione della disciplina contenuta nell’art. 2467 alla tutela dei creditori, a far piuttosto propendere per la tesi che vede nel suddetto obbligo l’espressione di una vera e propria revocatoria fallimentare ex lege del tutto simile, quanto a meccanismo operativo (inefficacia automatica), a quella dei pagamenti di cui all’art. 65 l.fall.». 2.5. Resta solo da ricordare, a conferma della correttezza della soluzione ermeneutica qui prescelta, che il CCII ha abrogato, all’interno dell’art. 2467 cod. civ. (e, quindi, anche dell’art. 2497-quinquies cod. civ.), la regola di diritto concorsuale, ponendola nell’ambito dell’art. 164 CCII, rubricato “Pagamenti di crediti non scaduti e postergati”, che, ai commi 2 e 3, sancisce che “2. Sono privi di effetto rispetto ai creditori i rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società se sono stati eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della procedura concorsuale o nell’anno anteriore. Si applica l’art. 2467 secondo comma, codice civile. 3. La disposizione di cui al comma secondo si applica anche al rimborso dei finanziamenti effettuato a favore della società assoggettata alla liquidazione giudiziale da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti”. 2.5.1. Il legislatore, dunque, non colloca più la norma, chiaramente di diritto concorsuale, all’interno del codice civile, ma la inserisce nell’ambito della disciplina dell’azione revocatoria, equiparandola a quella relativa ai pagamenti di crediti non scaduti. Viene confermata, così, l’inefficacia del pagamento, rectius del rimborso dei finanziamenti, ampliandosi il periodo preso in considerazione, che decorre non più dall’apertura della procedura, ma dal deposito della domanda e, quindi, ricomprende l’anno anteriore a quest’ultimo nonché il periodo intercorrente tra il deposito della domanda e l’apertura della procedura concorsuale. 3. Il terzo motivo di ricorso prospetta la «Violazione di legge per falsa interpretazione ed applicazione degli artt. 2497, 2467 e 2497-quinquies c.c. e per disapplicazione dell’art. 1218 c.c. - Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.». Si contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il soggetto eterodirigente debba essere necessariamente una società o un ente e non una persona fisica, sicché, in assenza di tale organismo, non si potrebbe invocare l’art. 2497, comma 2, cod. civ. Si ascrive alla corte lagunare di non aver fatto corretta applicazione dei principi affermati da Cass. n. 26785 del 2016, secondo cui, nel caso di eterodirezione su base personale, i requisiti della spendita del nome e della struttura organizzativa vanno valutati con “minor rigore” perché, in tali casi, ben vi può essere una “organizzazione coincidente con quella delle tre società coordinate”. Quanto, poi, alla spendita del nome, si critica la medesima corte per avere omesso di considerare che Paolo Zanetti aveva esplicitamente speso il suo nome nell’operazione Weissenfels, prima di una assunzione di cariche amministrative nella newco che ne sarebbe stata protagonista. 3.1. Questa doglianza risulta complessivamente inammissibile. 3.2. Lo è, innanzitutto, laddove lamenta un vizio motivazionale, potendosi ragionevolmente richiamare, in proposito, le stesse considerazioni esposte nel precedente § 1.2. per disattendere la medesima tipologia di vizio di cui al primo motivo. 3.3. Lo è anche, però, nella parte in cui denuncia la pretesa violazione di legge, atteso che, in realtà, la censura si rivela chiaramente volta ad ottenere l’applicazione di quanto sancito dall’art. 2467 cod. civ. sul presupposto che, nella specie, si sia al cospetto di finanziamenti effettuati, in favore della società poi fallita (Metal Chain s.r.l.), da chi (Paolo Zanetti o Trafilerie Venete s.a.s., società di cui quest’ultimo era amministratore), asseritamente, esercitava attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti (art. 2497-quinquies cod. civ.). 3.3.1. La sentenza impugnata, tuttavia (cfr. pag. 11) ha escluso che lo Zanetti avesse deciso ed attuato le operazioni di rimborso e finanziamento per cui è causa in forza dell’esistenza di un vincolo di sottoposizione. Secondo la corte veneziana, infatti, «Zanetti era amministratore di entrambe le società (oltre che socio di maggioranza), ed in forza dei poteri gestori che gli derivavano dalla funzione di amministratore (e non certo per l’esistenza di un vincolo di “sottoposizione”, quale può sussistere tra una società capogruppo e le partecipate), egli ha deciso ed attuato le operazioni di finanziamento e di rimborso di cui è causa». 3.3.2. Trattasi, come è palese, di un accertamento di evidente natura fattuale, non ulteriormente sindacabile in questa sede. Non resta, dunque, che prenderne atto e rilevare che, rispetto ad esso, le argomentazioni del motivo appaiono, sul punto, sostanzialmente volte ad ottenerne un inammissibile riesame. Il giudizio di legittimità, invero, non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043 e 6257 del 2024). 3.4. A tanto deve aggiungersi soltanto che è lo stesso Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione ad aver puntualizzato (cfr. pag. 23 del suo ricorso) di non aver esercitato l’azione prevista dall’art. 2467, comma 1, seconda parte, cod. civ. (bensì quella di ripetizione di indebito ex art. 2033 cod. civ., in relazione ad un rimborso avvenuto anteriormente all’anno di cui al menzionato art. 2467 cod. civ.), sicché la questione concretamente posta dal motivo, come già condivisibilmente rilevato dalla corte di appello (cfr. pag. 11-12 della sentenza impugnata.) – oltre che dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta – diviene assolutamente irrilevante. 4. Il quarto motivo di ricorso, infine, è così rubricato: «Violazione di legge per errata interpretazione ed applicazione degli articoli 2467, 2497, 2497- quinquies, 2043 ovvero 1218 c.c. e 216 l.f.». Assume il ricorrente che l’art. 2467 cod. civ., nel prevedere la postergazione necessaria del “finanziamento anomalo”, introduce un divieto di rimborso fintantoché permanga la situazione di sovraindebitamento della società finanziata e che la violazione di tale divieto costituisce un comportamento antigiuridico che, se accompagnato dall’esercizio di poteri di direzione e coordinamento di società, costituisce abuso della società eterodiretta fonte di responsabilità ex art. 2497 cod. civ. ed anche 2497-quinquies cod. civ., inquadrabile come responsabilità contrattuale ex art 1218 cod. civ. o come responsabilità ex art. 2043 cod. civ. 4.1. Questa doglianza si rivela complessivamente insuscettibile di accoglimento. 4.2. Invero, la corte territoriale ha escluso la configurabilità dell’illecito sia per mancanza del profilo dell’antigiuridicità, essendosi al cospetto, a suo dire, di un adempimento di obbligazione (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata), sia, in concreto, per insussistenza di danno, trattandosi di operazione cd. a “saldo invariato” (cfr. pag. 14 della medesima sentenza). 4.3. Tanto premesso, rileva il Collegio che il verificarsi delle ipotesi di cui all’art. 2467, comma 2, cod. civ. produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata, che diviene inesigibile quand’anche sia spirato il termine previsto per l’adempimento ex art. 1813 c.c. 4.3.1. Come significativamente sancito da Cass. n. 12994 del 2019, «la postergazione disposta dall'art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma; ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento, ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell'organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi». 4.3.2. Posto, allora, che la disciplina della postergazione dei finanziamenti dei soci è volta a tutelare le aspettative dei creditori terzi e della società, a fronte di richieste di rimborso relative a crediti non ancora esigibili, la violazione della regola di cui all’art. 2467 cod. civ. può dar luogo a plurime forme di tutela, tra le quali, senz’altro, – come rimarcatosi anche nella requisitoria scritta del sostituto procuratore generale – la responsabilità (per violazione di doveri tipicamente previsti dalla legge), nei confronti dei creditori (e, dunque, del fallimento), degli amministratori di una società fallita che abbiano restituito ai soci somme in violazione della norma predetta 4.3.3. Nella specie, tuttavia, il fallimento ricorrente, lungi dall’invocare la responsabilità ex art. 2394 cod. civ. e 146 l.fall., ha inteso agire, dichiaratamente, nei confronti di Paolo Zanetti, ex art. 2497 cod. civ. (cfr. pag. 6 del ricorso). 4.3.4. La corte di merito, però, ha escluso l’esistenza di attività di direzione e coordinamento da parte di quest’ultimo, sicché la censura si rivela sostanzialmente diretta ad ottenere una rivisitazione di quello stesso accertamento fattuale – non ulteriormente sindacabile, invece, in questa sede – già descritto nel precedente § 3.3.1. Non resta resta che ribadire, allora, quanto si è osservato, in proposito, nel successivo § 3.3.2., da intendersi qui richiamato. 4.4. Nemmeno può essere invocata, infine, la violazione delle norme di cui agli artt. 1218 o 2043 cod. civ., perché, come ancora una volta condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta, solo se l’atto illecito (nei confronti della società o dei creditori sociali) costituisce violazione di doveri diversi da quelli tipicamente previsti dalla legge o dallo statuto in funzione dell’amministrazione della società (ma questo non è il caso di specie, integrando il rimborso di un credito inesigibile una tipica violazione dell’art. 2467 cod. civ. che concorre a conformare lo statuto dell’amministratore), ed è compiuto, quindi, al di fuori ed indipendentemente dall’esistenza e dal collegamento con il rapporto di amministrazione, gli amministratori rispondono dei danni conseguentemente arrecati alla società in sede contrattuale o extracontrattuale secondo le norme ordinarie del diritto comune. 5. In definitiva, quindi, l’odierno ricorso promosso dal Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione deve essererespinto, restando a suo carico le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, rimarcandosi, in proposito, che il patrocinio a spese dello Stato (spettante exlege al Fallimento che agisca munito del decreto del giudice delegato ex art. 144 del d.P.R. n. 115 del 2002. Cfr., in motivazione, Cass. n. 27310 del 2020), non vale ad addossare all'Erario anche le spese che la parte ammessa sia condannata a pagare all'altra risultata vittoriosa (cfr. Cass. n. 25653 del 2020; Cass. n. 8388 del 2017). 5.1. Infine, deve darsi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del medesimo ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento». PER QUESTI MOTIVI La Corte rigetta il ricorso proposto dal Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione e lo condanna al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, liquidate in complessivi € 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera del medesimo ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 aprile 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Dott. Eduardo Campese Dott. Carlo De Chiara

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. MARI Attilio - Relatore Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Fi.Pa. nato a N il (Omissis); Ba.Ma. nato a N il (Omissis); avverso la sentenza del 08/01/2024 del GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di NOVARA; udita la relazione svolta dal Consigliere ATTILIO MARI; lette le conclusioni del PG, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla statuizione riguardante la confisca e con dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il GUP presso il Tribunale di Novara ha applicato, ai sensi degli artt. 444 e ss., cod. proc. pen., nei confronti di Fi.Pa. (imputato dei reati previsti: dagli artt. 110 e 628 cod. pen.; dagli artt. 1, 2, 4 e 7 della L. n. 895/1967; dagli artt. 81 e 648 ter, comma 1, cod. pen.; dagli artt. 110 cod. pen. e 73, commi 1 e 4, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; dagli artt. 81 e 110 cod. pen., 73, comma 1 e 80, comma 2, T.U. stup.) la pena di anni cinque di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa, così determinata previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e con diminuzione determinata dalla scelta del rito; ha altresì applicato nei confronti di Ba.Ma. (imputato dei reati previsti: dagli artt. 110 cod. pen. e 73, commi 1 e 4, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; dagli artt. 110 e 379 cod. pen.) la pena di anni uno di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa, così determinata - previo riconoscimento dell'ipotesi di cui all'art.73, comma 5, T.U. stup. - con applicazione delle circostanze attenuanti generiche e con diminuzione determinata dalla scelta del rito; ha altresì disposto la confisca e la devoluzione all'Erario del denaro in sequestro e la confisca e distruzione di tutto quanto altro ancora in sequestro. 2. Avverso la sentenza hanno proposto separati ricorsi per cassazione i due imputati, tramite i rispettivi difensori 2.1 II ricorso di Ba.Ma. si fonda su due motivi. Con il primo motivo la difesa ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 240 cod. pen. in relazione all'art. 322 cod. proc. pen. Ha dedotto che l'importo di Euro 1.000,00, già sottoposto a sequestro preventivo, era stato rinvenuto nell'abitazione della compagna dell'imputato, presso la quale quest'ultimo risiedeva; che vi era la prova della sussistenza di una fonte lecita di reddito, prestando l'imputato e la sua compagna regolare attività lavorativa sin dal 2018 con contratto a tempo indeterminato, come da documentazione prodotta nel corso del processo; esponeva altresì che il ruolo del ricorrente era stato del tutto marginale in relazione alle vicende oggetto del processo e che l'imputazione era stata riqualificata sotto la specie di quella prevista dall'art.73, comma 5, T.U. stup.; ha quindi dedotto l'assenza di uno specifico percorso motivazionale alla base della statuizione di confisca. Con il secondo motivo di impugnazione ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 444 cod. proc. pen., in riferimento all'art. 129 cod. proc. pen. Ha dedotto che, nel caso di specie, si ravvisavano errori di calcolo nella pena finale e che emergeva comunque la mancanza di una completa ed esaustiva analisi logica in ordine ai passaggi posti alla base del computo finale della sanzione. 2.2 II ricorso proposto dalla difesa di Fi.Pa. si fonda su due motivi. Con il primo motivo, ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) c) ed e), cod. proc. pen. - l'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, carenza e illogicità della motivazione in relazione alla confisca della somma di denaro. Ha dedotto che il giudice di merito aveva omesso di motivare sulle allegazioni e le produzioni della difesa utili a dimostrare la provenienza lecita del denaro, richiamando sul punto la documentazione allegata al ricorso. Con il secondo motivo di impugnazione ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 444 cod. proc. pen., in riferimento all'art. 129 cod. proc. pen. Ha dedotto che, nel caso di specie, si ravvisavano errori di calcolo nella pena finale e che emergeva comunque la mancanza di una completa ed esaustiva analisi logica in ordine ai passaggi posti alla base del computo finale della sanzione. 3. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni inerenti alla confisca e per la declaratoria, nel resto, di inammissibilità dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono parzialmente fondati in riferimento al rispettivo primo motivo, recante censure tra loro pienamente sovrapponibili e relative alla legittimità del provvedimento di confisca del denaro sequestrato agli imputati. 2. In ordine al relativo profilo di diritto, deve quindi essere premesso che - sulla base dell'arresto espresso da Sez. U, n. 21368 del 26/09/2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348 - la sentenza di patteggiamento che abbia applicato una misura di sicurezza è ricorribile per cassazione nei soli limiti di cui all'art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen., ove la misura sia stata oggetto dell'accordo tra le parti, diversamente essendo ricorribile per vizio di motivazione ai sensi della disciplina generale prevista dall'art. 606 cod. proc. pen.; conseguendone l'astratta ammissibilità del motivo che, come nel caso di specie e sul presupposto della mancata formazione dell'accordo in ordine alle determinazioni inerenti alla confisca (in relazione al vigente testo dell'art. 444, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 25, comma 1, lett. a), n.2), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n.150), deduca il vizio di motivazione in ordine a tale specifico profilo. Deve quindi osservarsi che - in tema di confisca diretta del profitto del reato adottata in sede di sentenza di patteggiamento, presupponente nel caso di specie la derivazione del denaro dalla contestata attività di cessione di sostanza stupefacente - sussiste comunque un obbligo di congrua motivazione in capo al giudice procedente, pur se parametrato alla particolare natura della sentenza, rispetto alla quale - pur non potendo ridursi il compito del giudice a una funzione di semplice presa d'atto del patto concluso tra le parti - lo sviluppo argomentativo della decisione è necessariamente correlato all'atto negoziale con cui l'imputato dispensa l'accusa dall'onere di provare i fatti dedotti nell'imputazione (Sez. 2, n. 28850 del 05/06/2019, Bushi, Rv. 276574; Sez. 2, n. 13915 del 05/04/2022, Anastasio, Rv. 283081, specificamente resa in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la dizione, contenuta in sentenza, "va disposta la confisca di quanto sequestrato agli odierni imputati" non rispettasse il requisito motivazionale). Applicando i principi suddetti al caso di specie, deve quindi ritenersi che la mera argomentazione contenuta in sentenza, in base alla quale la confisca del denaro si giustificava sulla provenienza illecita del denaro "non essendo stati allegati elementi tali da far ritenere che il denaro in sequestro fosse di derivazione lecita" non rispetti adeguatamente l'onere motivazionale esistente nel caso di specie; ciò anche a fronte delle motivate e documentate istanze di restituzione che - come risulta dagli atti - erano state proposte dalle parti in sede di udienza. 3. I rispettivi secondi motivi di ricorso, pure prospettanti ragioni giuridiche reciprocamente sovrapponibili, sono inammissibili. Sul punto, va premesso che in tema di patteggiamento, anche dopo l'introduzione dell'art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, non sono deducibili con il ricorso per cassazione gli errori commessi nelle operazioni di calcolo funzionali alla determinazione della pena concordata, se il risultato finale non si discosta da quello concordato dalle parti e non si traduce in una pena illegale (Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915). In ogni caso, i motivi di ricorso risultano intrinsecamente aspecifici, non indicando in quale parte dell'accordo - poi recepito dal giudice - si sarebbero concretamente verificati gli (del tutto genericamente dedotti) errori di calcolo della pena. 4. La sentenza impugnata, fermo restando l'irrevocabilità dell'accertamento della penale responsabilità dei ricorrenti, va quindi annullata con rinvio all'ufficio GIP presso il Tribunale di Novara, diversa persona fisica, affinché provveda a colmare la riscontrata lacuna motivazionale in riferimento alla confisca delle somme di denaro in sequestro; i ricorsi vanno altresì dichiarati inammissibili nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Fi.Pa. e di Ba.Ma. limitatamente alla statuizione concernente la confisca del denaro con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Novara in diversa persona fisica. Dichiara i ricorsi inammissibili nel resto. Così deciso il 16 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI GENOVA Sezione III Civile Composto dai (...) Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa RG (...)/2020 promossa da: (...) rappresentato e difeso dall'avv. (...) ed elettivamente domiciliat (...) presso l'avv. (...) per mandato in atti (...) contro (...) e (...) rappresentati e difesi dall'avv. (...) ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo in (...), per mandato in atti (...)(...) "Voglia l'(...)ma Corte d'Appello adita, contrariis reiectis, in accoglimento del proposto gravame ed in riforma dell'impugnata sentenza n. (...)/2020 del 05.11.2020, depositata in pari data, notificata a mezzo pec in data (...), emessa dal Tribunale Civile della (...) in composizione monocratica, resa nel giudizio recante R.G. n. (...)/2015, per l'effetto: - in via principale: per le ragioni partitamente esposte nel corpo del presente atto, in accoglimento del proposto gravame e previa ammissione delle istanze istruttorie richieste e non ammesse in primo grado, ritrascritte di seguito in calce: - accertata e dichiarata la nullità dell'atto a rogito Notaio Dott. (...) di (...) del 04.03.2010 - Rep. n. (...), Racc. n. (...), registrato in data (...) - denominato "Vitalizio", stipulato tra la sig.ra (...) ed il sig. (...) giusta sentenza parziale n. (...)/2023 del 7/2/2023 emessa da codesta (...)ma Corte d'Appello nel presente giudizio RG (...)/2020; - Conseguentemente accertare e dichiarare, anche per accertata e dichiarata malafede del terzo, l'inesistenza/nullità/annullabilità, totale e parziale / inefficacia anche dei successivi atti dispositivi sull'immobile de quo, ovvero dei contratti di vitalizio a rogito Notaio Dott. (...) di (...) del 06.09.2013 - Rep. n. (...), Racc. n. (...), registrato a (...) il (...) e trascritto in pari data presso la (...) di (...) al (...) Gen. n. (...), Reg. Part. n. (...) - e di compravendita a rogito Notaio Dott. (...) del 12.02.14, stipulati tra il sig. (...) e la sig.ra (...) - Condannare il terzo possessore, anche per accertata e dichiarata malafede del terzo, condannare il terzo possessore alla restituzione ed all'immediato rilascio, libero da persone e vuoto da cose, dell'immobile sito in (...) n. 6, in favore dell'eredità della sig.ra (...) - ricostruire l'intera massa ereditaria (relictum e donatum) della de cuius, sig.ra (...) tenendo conto di tutti i cespiti ed in particolare dell'immobile de quo, con i relativi frutti, nonché dei denari dalla stessa posseduti derivanti dalla vendita degli immobili palermitani di cui in narrativa; - attribuire all'attore, (...) una quota pari ad un terzo dell'eredità, salva quota diversa ritenuta giusta ed equa; - condannare il sig. (...) nonché, in caso di accertata malafede, la sig.ra (...) al risarcimento, in solido o pro quota, dei danni patiti dall'attore in conseguenza del mancato godimento dell'immobile da quantificarsi nella misura di un terzo, salvo diversa quota ritenuta di giustizia, dell'indennità di occupazione, pari ad Euro. 550,00 mensili, salvo maggiore o minore determinazione in corso di causa, dalla data del decesso della sig.ra (...) (04.12.2012) fino all'effettivo rilascio, o in quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, se ed in quanto dovuta; - in ogni caso: con vittorie di spese e spettanze di entrambi i gradi di giudizio, nonché delle spese di Ctu espletata in primo grado. In via istruttoria: si insiste per l'ammissione dei mezzi istruttori già richiesti e non ammessi in primo grado e reiterati in sede di precisazione delle conclusioni ovvero: I) Si chiede ammettere interrogatorio formale della sig.ra (...) sui seguenti capitoli: a) alla data di settembre 2013 era disoccupata; b) dica comunque a quanto ammontavano le sue entrate mensili; c) alla data di febbraio 2014 era sempre disoccupata; d) dica comunque a quanto ammontavano le sue entrate mensili; e) ad oggi è tuttora disoccupata; f) dica comunque a quanto ammontano le sue entrate mensili; g) la sua relazione sentimentale con il sig. (...) è iniziata nel luglio 2012. Si chiede, altresì, ammettersi interrogatorio formale del sig. (...) sui seguenti capitoli: h) percepisce uno stipendio/pensione di circa Euro. 2.000,00 mensili. II) Si chiede ammettersi prova per testi sulle circostanze di seguito capitolate, da intendersi precedute dal rituale "vero che", ad eccezione di quelle vertenti su fatti che il (...) ritenesse già provati documentalmente e/o pacifici e/o incontestati: 1. DVC: conferma in ogni sua parte la perizia di stima che le viene rammostrata quale doc. 6 fasc. Avv. (...) Si indicano a testi, sui capitoli che precedono, il (...) da (...), salvo se altri. III) Si chiede ammettersi Ctu contabile, volta a ricostruire l'intero patrimonio della defunta (relictum e donatum) stabilendone la divisibilità o meno in quote, fissazione dell'entità delle quote, previa riduzione delle disposizioni lesive nei modi di legge, pervenendo alla quota da assegnare all'attore. - IV) Si chiede emettersi ordine d'esibizione, ex art. 210 cpc, nei confronti dell'ASL 5 "Spezzino", del fascicolo sanitario e dei nominativi dei medici che hanno seguito nei suoi ultimi cinque anni di vita la sig.ra (...) c.f. (...), già oggetto di specifica richiesta a mezzo pec del 10.05.17 e successivo rifiuto da parte dell'(...) (cfr. doc. 16 e 29, qui prodotti) al fine di sentirli a testimoni in ordine al quadro clinico ed alle eventuali patologie cui la stessa era affetta in detto periodo, ed in particolare sui seguenti capitoli, salvo di ulteriori a seguito dell'esame del fascicolo sanitario: 2. DVC: descriva il quadro clinico e dica di quali patologie era affetta la sig.ra (...) dall'anno 2008 sino alla data del decesso. Si chiede emettersi ordine d'esibizione, ex art. 210 cpc, nei confronti della sig.ra (...) e di (...) spa, dell'estratto di conto corrente dal quale è stato emesso l'assegno bancario non trasferibile n. 8234667749-09 tratto su banca (...) spa in data (...) in favore del sig. (...) nonché ordine d'esibizione, ex art. 210 cpc, nei confronti del medesimo (...) e di (...) spa, dell'estratto di conto corrente dal quale risulta l'incasso ed il successivo accreditamento del predetto assegno. - Si chiede emettersi, altresì, ordine d'esibizione, ex art. 210 cpc, nei confronti del sig. (...) e della banca (...) spa, dell'estratto di conto corrente avente (...) n.(...), risultante aperto sulla filiale di (...) (conto corrente sul quale sono stati effettuati da parte dell'attore i due bonifici delle somme spettanti al sig. (...) ed alla sig.ra (...) in virtù del verbale di conciliazione giudiziale di cui sub doc. 10) relativo al quinquennio antecedente la data di decesso della sig.ra (...) (04.12.12). Si chiede, da ultimo, emettersi ordine d'esibizione, ex art. 210 cpc, nei confronti di banca (...) spa, dell'estratto di conto corrente (da giugno 2007 a dicembre 2008) cointestato ai sigg.ri (...) e (...) sul quale risultano essere stati incassati i bonifici bancari della (...) di (...) spa, filiale di (...) in data (...) e in data (...), entrambi della somma di Euro. 40.000,00, aventi rispettivamente n. CRO (...) e n. CRO (...), risultanti dall'atto di compravendita a rogito (...) del 22.07.08 (cfr. doc. 7 fasc. Avv. (...). In caso d'ammissione di eventuali capitoli avversari, si chiede sin d'ora di sentire i testi in controprova sui medesimi capitoli avversari". (...) "Piaccia alla (...)ma Corte, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione reiecta, previa, ove ritenuto, ammissione delle prove per interpello e testi, di cui alla memoria ex art. 183, comma VI, n. 2, c.p.c. del 1/6/2017, rigettare l'appello ex adverso interposto nei confronti della sentenza del Tribunale della (...) n. 2(...)/2020, pubblicata in data (...), in quanto i residui motivi di gravame ex avverso proposti sin qui non esaminati da (...)ma Corte sono inammissibili e/o invalidi e/o infondati in fatto ed in diritto, nonché carenti di supporto probatorio, con conseguente conferma della predetta sentenza in parte qua. Vinte le spese, compensi e accessori del presente grado di giudizio. Clausola concessa come per legge". FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE Il sig. (...) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale della (...) il fratello (...) e la signora (...) e, in contraddittorio con gli eredi della sorella (...) chiedeva: l'accertamento della qualità di erede della madre (...) la nullità dell'atto notarile denominato "vitalizio" del 4/3/2010 stipulato tra la madre (...) ed il fratello (...) per mancanza requisiti di legge e insussistenza della causa; (...) della malafede del terzo ((...) con conseguente invalidità dei successivi atti dispositivi dell'immobile, e cioè il vitalizio del 6/9/2013 stipulato tra il sig. (...) e la signora (...) e l'atto di compravendita stipulato tra il sig. (...) e la signora (...) del 12.2.2014; La condanna alla restituzione dell'immobile a carico del terzo possessore; La ricostruzione della massa ereditaria, attribuzione della quota di un terzo, il risarcimento dei danni per mancato godimento dell'immobile. Nel giudizio di primo grado si costituivano i signori (...) e (...) che chiedevano il rigetto della domanda, nonchè i signori (...) e (...) rispettivamente marito e figli della defunta signora (...) che formulavano domande analoghe a quelle di (...) Innanzi al Tribunale veniva esperita la mediazione obbligatoria, che dava esito negativo; veniva disposta CTU sul valore dell'immobile oggetto di vitalizio ed erano respinte tutte le altre istanze istruttorie. LA SENTENZA N. (...)/2020 PUBBLICATA IL (...) TRIBUNALE (...) dava atto dell'apertura della successione della signora (...) (madre); dichiarava la validità del contratto del 4/3/2010 di vitalizio stipulato tra la signora (...) ed il figlio convivente (...) riteneva il Tribunale che l'età anagrafica della signora (...) (88 anni) di per sé sola non costituisse elemento atto a far venir meno il requisito dell'alea; che non risultava che la (...) fosse affetta da malattie o patologie da far presumere un imminente decesso; che sussistesse dunque incertezza in merito alla possibilità di sopravvivenza, e che le addotte difficoltà di deambulazione non fossero rilevanti; che il prezzo indicato in atto pubblico fosse congruo, come confermato dalla CTU esperita in corso di causa; che risultava che il (...) avesse sempre assistito la madre, sostenendo le relative spese, mentre nessuna delle altre parti aveva prodotto ricevute di spese mediche; che con la pensione di Euro 1.300,00 la (...) potesse solo sostenere i costi vivi della badante signora (...) che assisteva l'anziana dal 2009, mentre per il periodo precedente risultava vi avesse provveduto il figlio convivente (...) respingeva la domanda di accertamento della malafede della signora (...) e di accertamento della nullità/invalidità/inefficacia del contratto di vitalizio del 6/9/2013 stipulato tra il sig. (...) e la signora (...) avente ad oggetto il diritto di usufrutto sull'immobile a suo tempo oggetto del vitalizio stipulato tra (...) e la propria madre in data (...), nonché dell'atto di compravendita del 12/2/2014 avente ad oggetto la nuda proprietà del medesimo immobile; il giudice rilevava in particolare che quest'ultimo atto risultasse giustificato da motivi fiscali comprovati dal fatto che due giorni dopo il (...) acquistava altro immobile in (...) il Tribunale della (...) non riteneva sussistenti elementi per valutare la malafede della (...) Il giudice respingeva la domanda subordinata di simulazione dell'atto di vitalizio del 2010; respingeva tutte le altre domande (di restituzione e rilascio immobile, ricostruzione massa ereditaria, attribuzione della quota e risarcimento del danno). Con atto d'appello il sig. (...) impugnava la predetta sentenza del Tribunale della (...) svolgendo sette motivi d'appello: 1° MOTIVO (...) censura la statuizione del Tribunale che ha qualificato l'atto del 4/3/2010 come vitalizio improprio e che ha rigettato le istanze istruttorie, consistenti nell'interrogatorio e prova per testi, nonché gli ordini di esibizione ex art. 210 c.p.c. Il Tribunale avrebbe illegittimamente e contraddittoriamente respinto le istanze istruttorie e contemporaneamente addebitato all'attore ed agli intervenuti il mancato assolvimento dell'onere probatorio; l'appellante insiste per l'ammissione delle prove per interrogatorio e testi, per l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. di documenti medici e bancari, ritenendo le richieste fondate e necessarie. 2° MOTIVO (...) contesta la sussistenza dell'alea del contratto di vitalizio, considerata l'età avanzata (88 anni) e le condizioni della signora (...) desumibili dalla assunzione di una badante, dal riconoscimento di una pensione di invalidità, dal fatto che avesse conferito procura per la stipula per la vendita degli immobili palermitani, che la predetta fosse stata sottoscritta presso la propria abitazione, che nel contratto di vitalizio si fosse dato atto dell'impossibilità di firmare. In considerazione di tali elementi, l'appellante insiste per l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. dei documenti medici. 3° MOTIVO Con il terzo motivo l'appellante contesta la sentenza nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la dichiarazione del valore dell'immobile nell'atto di vitalizio; l'appellante richiama la valutazione del prezzo dell'immobile da parte del CTU in Euro 143.000,00, lamenta la fittizietà del prezzo indicato nell'atto di vitalizio (Euro 53.550,00) ed insiste nella domanda di nullità dell'atto per l'inesistenza del prezzo anche per la "confessione" del (...) di aver indicato la somma ai soli fini fiscali. La differenza del prezzo indicato in atto pubblico rispetto al valore dell'immobile sarebbe indicativa della simulazione del contratto di vitalizio del 4/3/2010; in ogni caso, sarebbe indicativa della sproporzione tra le prestazioni. 4° MOTIVO (...) contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto insussistente la sproporzione tra il valore del bene e le prestazioni del (...) il sig. (...) contesta che solo il sig. (...) si sarebbe occupato della madre dal 2004 in quanto anch'egli avrebbe contribuito alle spese di assistenza; in ogni caso, rileva che la circostanza non sarebbe oggetto di esame nel presente giudizio; osserva che la signora (...) era assistita da una colf fino al 2009 e, dopo tale data, dalla badante ((...); che la madre godeva di pensione e poteva contare sulla rendita degli immobili palermitani. In definitiva, in detto contratto di vitalizio mancherebbe l'alea e la proporzionalità tra le prestazioni. 5° MOTIVO (...) censura la motivazione del Tribunale in ordine al rigetto dell'accertamento della mala fede del terzo signora (...) in relazione alla stipula dei successivi atti di disposizione dell'immobile, nonché al rigetto delle domande di restituzione, rilascio e risarcimento dei danni. Con riferimento al successivo atto di vitalizio del 6/9/2013 con cui il (...) aveva ceduto alla signora (...) la nuda proprietà nonché all'atto del 12/2/2014 di cessione dell'usufrutto dell'immobile oggetto del vitalizio, l'appellante lamenta la mancata prova del pagamento del prezzo da parte della (...) al (...) ed insiste sulle istanze istruttorie, cioè l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. nei confronti della (...) ed (...) dell'estratto del conto corrente dal quale è stato emesso l'assegno bancario in pagamento del prezzo, nonché analoga richiesta ex art. 210 c.p.c. nei confronti del (...) dedurrebbe la malafede della (...) dal fatto che nel contratto di vitalizio stipulato tra la (...) ed il sig. (...) si dava atto che la prima sin dal 2009 avrebbe fornito prestazioni assistenziali, in contraddizione con il fatto che nel contratto di vitalizio del 2010 il (...) affermava di aver fornito prestazioni assistenziali alla propria madre. 6° MOTIVO (...) insiste per l'accoglimento della domanda subordinata di simulazione del contratto del 4/3/2010 per essere una donazione o un vitalizio misto a donazione e per l'accoglimento della "conseguente domanda di riduzione ex art. 555 e ss c.c."; chiede che venga dichiarato che la predetta donazione dissimulata eccede la quota di cui la de cuius poteva disporre, al fine di reintegrare la quota di legittima spettante al (...) (1/3 del patrimonio). 7° MOTIVO (...) impugna la condanna alle spese, chiedendone la riforma in ragione dell'accoglimento dei motivi d'appello. Si costituivano in giudizio nel presente grado (...) e (...) che chiedevano il rigetto dell'appello. La Corte con ordinanza del 25/3/2021 la Corte dichiarava la contumacia di (...) e (...) All'udienza del 15/9/2022 le parti precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte e la Corte tratteneva la causa in decisione, concedendo i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche. Con sentenza parziale del 7/2/2023 la Corte, in parziale accoglimento dei motivi d'appello proposti e, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della (...) n. (...)/2020 pubblicata il (...), così decideva: - dichiara la nullità dell'atto a rogito (...) di (...) del 04.03.2010 - Rep. n. 139.397, Racc. n. 29.320, registrato in data (...) - denominato "Vitalizio", stipulato tra la sig.ra (...) ed il sig. (...) - Rimette la causa in istruttoria con separata ordinanza; - Spese al definitivo. Con ordinanza in pari data, vista la domanda di ricostruzione dell'asse ereditario formulata dall'appellante e ritenuta incontestata la qualità di eredi delle odierne parti in causa, la Corte rimetteva la causa in istruttoria con separata ordinanza per il conferimento al CTU dell'incarico di ricostruire la massa ereditaria. Il CTU depositava la relazione peritale. All'udienza del 15/9/2023 le parti precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte e la Corte tratteneva la causa in decisione, concedendo i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche. Il presente giudizio trae origine dal contratto di c.d. "vitalizio alimentare" stipulato con atto per (...) dott. (...) in data (...), denominato "Vitalizio", con il quale la signora (...) cedeva al figlio sig. (...) l'intero diritto di proprietà del bene immobile sito in (...) privata (...) n. 6, riservandosi l'usufrutto; quale corrispettivo, il sig. (...) si impegnava a provvedere al completo mantenimento della cedente (...) per tutta la di lei vita, sia in stato di salute che di infermità, fornendole assistenza, alloggio, vitto e cure. Detto contratto è stato dichiarato nullo con la sentenza parziale di questa Corte del 7/2/2023 in quanto, considerata l'età della vitaliziata e l'aspettativa di vita, nonché le condizioni di estrema debolezza di cui essa era attinta, si riteneva ravvisabile una palese sproporzione tra le prestazioni di cura ed assistenza poste a carico del sig. (...) ed il valore del cespite oggetto di trasferimento, determinato dalla CTU esperita in primo grado, con riferimento alla nuda proprietà, alla data della stipula del contratto (2010), in Euro 143.000,00. Tali elementi consentivano di affermare l'insussistenza dell'alea e la sproporzione tra il valore del bene ceduto con il contratto di vitalizio e l'obbligo assunto dal (...) che era anche coadiuvato da una colf e/o da una badante, che viveva insieme alla madre nell'alloggio di proprietà di quest'ultima, non completamente priva di redditi, in quanto titolare di pensione; risultava inoltre che alcune spese erano state suddivise con il fratello (...) I primi quattro motivi d'appello sono stati esaminati e decisi dalla sentenza parziale del 7/2/23 che ha dichiarato la nullità dell'atto notarile denominato "vitalizio" del 4/3/2010 di cui sopra. La Corte esamina il motivo quinto e lo respinge in quanto infondato. Il sig. (...) proprietario dell'alloggio sito in (...) in virtù del vitalizio stipulato il (...) con la propria madre, dopo il decesso di quest'ultima avvenuto il (...), il (...) stipulava a sua volta un contratto di vitalizio con la signora (...) con detto vitalizio il sig. (...) cedeva l'usufrutto dell'alloggio di (...) in cambio dell'assistenza vita natural durante da parte della (...) con successivo atto pubblico del 12/2/2014 il (...) cedeva la nuda proprietà del medesimo alloggio alla signora (...) La domanda di nullità degli atti di vitalizio del 2013 e di vendita del 2014, previo accertamento della malafede del terzo signora (...) non può essere accolta per la mancanza di prova sul punto, in quanto la parte appellata non ha assolto all'onere probatorio e non risultano elementi dai quali desumere la mala fede della signora (...). 1445 c.c. prevede l'inopponibilità dell'annullamento ai terzi acquirenti in buona fede a titolo oneroso, fatti salvi gli effetti della preventiva trascrizione della domanda di annullamento rispetto all'atto d'acquisto. A riguardo va considerato che costituisce principio generale quello secondo cui la buona fede si presume (v. Cass. 8258/1997, secondo cui il principio della presunzione di buona fede ha portata generale). Pur essendo possibile offrire la prova contraria mediante presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., la presunzione in questione non è vinta dall'allegazione del mero sospetto di una situazione illegittima essendo, invece, necessario che l'esistenza del dubbio promani da circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da colui che intenda contrastare detta presunzione legale di buona fede (v. Cass. 6648/2000). La signora (...) veniva assunta come badante della signora (...) nel 2009 e - per stessa impostazione delle difese dell'appellante - non ha rivestito alcun ruolo nella stipula del contratto di vitalizio del 2010 tra (...) e la madre (...) Deve sottolinearsi che il contratto di vitalizio del 4/3/2010 è stato dichiarato nullo in considerazione della mancanza dell'alea, in accoglimento della domanda in via principale formulata dal (...) rimanendo incontestato che (...) conviveva con la madre dal 2004 e che quantomeno da tale data, seppure con la collaborazione di una colf prima e della badante in seguito, le aveva prestato assistenza. Il contratto di vitalizio non va confuso con il mantenimento, che è circoscritto ad un esborso di denaro periodico; il dovere del vitaliziante non contiene una semplice prestazione materiale, e pertanto non riguarda solo la sfera economica, ma anche, e principalmente, interessa una continuativa assistenza ed altre utilità, come il sostegno morale e spirituale, essendo anzi questi secondi aspetti ritenuti prevalenti. Pertanto, alcuna contraddizione o anomalia come affermato dall'appellante - può rinvenirsi tra le prestazioni assistenziali prestate dal (...) alla propria madre, di natura anche affettiva ed oggetto del vitalizio e l'assistenza prestata dalla colf e dalla badante all'anziana, in quanto si tratta di prestazioni ontologicamente differenti e non sovrapponibili. Le stesse considerazioni valgano in relazione al contratto di vitalizio stipulato tra il sig. (...) e la signora (...) nel 2013, quando essa non era più badante dell'anziana, deceduta nel 2012. Alla data della stipula del vitalizio - che contemplava il trasferimento della nuda proprietà dell'immobile di (...) - il sig. (...) ne era legittimo proprietario da circa tre anni, né risultano avanzate eventuali richieste formali da parte dell'appellante sino al 28/9/2015, data dell'introduzione del presente giudizio, neppure preceduto dalla mediazione, esperita in corso di causa innanzi al Tribunale. Di nessun rilievo deve ritenersi la dichiarazione in atto pubblico da parte della (...) di aver prestato assistenza al (...) sin dal 2009, circostanza confermata dal fatto che ella continuava a risiedere presso l'abitazione di questi anche dopo il decesso della madre. Risulta documentale che il (...), solo due giorni dopo il successivo trasferimento dell'usufrutto dell'immobile alla signora (...) in data (...), il sig. (...) acquistava un altro immobile, a sé solo intestato; considerato la pressoché contestualità dei due atti, l'operazione appare giustificata dai motivi fiscali addotti dalle parti contraenti e richiamati dal Tribunale. Il prezzo di vendita dell'usufrutto sull'immobile indicato in atto pubblico (Euro 70.000,00) può considerarsi aderente al valore di mercato; le modalità di pagamento del prezzo, consistenti nel pagamento di un acconto di Euro 10.000,00, e saldo a mezzo pagamenti rateali, sono coerenti con la disponibilità patrimoniale della signora (...) A ciò si aggiunga che i signori (...) e (...) contraevano matrimonio dopo qualche mese, in data (...) (v. Atto matrimonio doc. 5 appellante), per cui i trasferimenti immobiliari descritti nel presente giudizio si inserivano nella definizione dei rapporti patrimoniali tra i predetti. (...) insiste nell'accoglimento delle prove orali, consistenti nella richiesta di interrogatorio formale di entrambi gli appellati, già ritenute irrilevanti ed inammissibili dal primo giudice con ordinanza del 16/10/2017: le circostanze capitolate con interrogatorio formale riguardano principalmente la condizione economica della signora (...) - in maniera generica - nonché l'inizio della relazione sentimentale della medesima con l'attuale coniuge (...) che - in ogni caso - viene individuata dagli stessi appellanti al 2012, cioè in epoca successiva alla stipula del vitalizio tra il (...) e la madre, avvenuta nel 2010. Devono essere altresì respinte le richieste ex art. 210 c.p.c. di ordine di esibizione dei conti correnti al fine di verificare l'incasso dell'assegno del pagamento del prezzo nel 2014 e la produzione di documenti medici della de cuius. Tali circostanze devono ritenersi tutte irrilevanti ai fini della prova della supposta mala fede della signora (...) di cui, anche considerando la mancanza di contestualità della stipula degli atti impugnati, non risultano evidenze. Il motivo deve pertanto essere respinto. La Corte ritiene assorbito il motivo sesto relativo alla domanda subordinata di simulazione del vitalizio del 2010, essendo già stata accolta la domanda principale di dichiarazione di nullità del vitalizio del 2010 per mancanza di alea. La Corte esamina la domanda di ricostruzione dell'intera massa ereditaria (relictum e donatum) della de cuius, sig.ra (...) da accogliersi per i motivi infra indicati. In conseguenza della dichiarazione di nullità del contratto di vitalizio del 4/3/2010, il bene immobile oggetto del predetto vitalizio rientra nell'asse ereditario della defunta signora (...) Il sig. (...) ha richiesto, in via sussidiaria, graduata e subordinata, già nell'atto di citazione in primo grado, di "ricostruire l'intera massa ereditaria (relictum e donatum) della de cuius, sig.ra (...) tenendo conto di tutti i cespiti ed in particolare dell'immobile de quo, con i relativi frutti, nonché dei denari dalla stessa posseduti derivanti dalla vendita degli immobili palermitani di cui in narrativa; - attribuire all'attore, (...) una quota pari ad un terzo dell'eredità, salva quota diversa ritenuta giusta ed equa". Nel presente grado è stata esperita (...) la quale ha ricostruito l'asse ereditario, che risulta costituito dall'immobile sito in (...) e dai denari provenienti dalla vendita degli immobili palermitani. Quanto all'esame di eventuali conti correnti intestati o cointestati alla defunta, il (...) in aderenza a quanto disposto dalla Corte con ordinanza dell'8/6/2023 in risposta a specifico quesito, non ha tenuto conto di documenti non prodotti ritualmente agli atti; la consulenza d'ufficio è difatti un mezzo di ausilio per il giudice e non mezzo di prova a disposizione delle parti. Il CTU ha stimato la proprietà in capo alla de cuius dell'immobile sito in (...) in (...) civ. 6 - che secondo quanto disposto con sentenza parziale rientra nell'asse ereditario attribuendole il valore di Euro 143.700,00, richiamandosi alla consulenza dell'arch. (...) all. 10; la predetta perizia è corredata da fotografie, planimetrie e calcoli, nonchè indagini di mercato da ritenersi attendibili e condivisibili. Il CTU ha ipotizzato spese per la regolarizzazione urbanistico/catastale dell'immobile in Euro 3.000,00 oltre eventuali oneri fiscali, nonchè il valore finale delle migliorie apportate dal sig. (...) in Euro 5.209,61 (Euro 5.850,00 per la sostituzione degli infissi, Euro 3.000,00 per l'impianto di climatizzazione ed Euro 5.000,00 per il rifacimento del servizio igienico, con applicazione del deprezzamento per la vetustà dei componenti e dell'usura); si tiene conto del valore dell'immobile alla data dell'espletamento della CTU secondo quanto statuito dalla Suprema Corte, Cassazione 8/11/23 (...), secondo cui "ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli arti. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell'asse ereditario al tempo dell'apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell'art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conforme Cass n. 739/1977)". Pertanto, detraendo dalla stima i costi necessari per la regolarizzazione nonchè le migliorie apportate, il valore finale dell'immobile ammonta ad Euro 135.490,39. Il CTU ha verificato l'importo ricavato dalla vendita degli immobili in (...) piazza (...) come ricostruito alle pagine 12 e ss, che ha tenuto in conto l'atto pubblico del 22/7/2008 (...) (doc. 7 appellante) ed il verbale di conciliazione 1 giugno 2011 (doc. 10 appellante). La signora (...) era proprietaria per una quota indivisa dei predetti immobili pari a 9/72 nonchè per l'usufrutto uxorio dell'intero; l'usufrutto deve essere calcolato per 1/3 in quanto l'immobile perveniva alla de cuius quale eredità del marito deceduto nel 1975, prima della riforma del diritto di famiglia . (...) l'art.127 del Codice civile anteriore alla riforma del diritto di famiglia del 1975: "(...) con il coniuge concorrono figli legittimi, soli o con figli naturali, il coniuge ha il diritto all'usufrutto di una quota di eredità. (...) è della metà dell'eredità, se alla successione concorre un solo figlio, e di un terzo negli altri casi. (...)". Pertanto, la somma spettante alla signora (...) e caduta in successione è pari ad Euro 31.162,00, e cioè Euro 9.900,00 (1/3 dell'usufrutto sull'intero) più Euro 21.262,50 (quota 9/72 della proprietà), come risulta dalla tabella del CTU alla pagina 15, che si richiama. La Corte ritiene la CTU esaustiva ed attendibile, basata sui documenti agli atti, espletata nel contraddittorio delle parti ed in aderenza al quesito posto. Pertanto, il valore della massa ereditaria può essere quantificato nella complessiva somma di Euro 166.652,39, così dettagliata: Euro 143.700,00 pari al valore dell'immobile in (...) da cui devono essere detratti Euro 3.000,00 per le necessarie spese da sostenere per la regolarizzazione ed Euro 5.209,61 per le migliorie apportate dall'appellato (...) giungendo alla somma di Euro 135.490,39. A tale cifra deve aggiungersi la quota spettante alla de cuius dalla vendita degli immobili palermitani, per Euro 31.162,00, secondo il dettaglio sopra specificato. La Corte accoglie la domanda del sig. (...) quale erede della madre (...) di attribuzione dell'eredità per la quota pari ad un terzo: la signora (...) non ha lasciato testamento e le succedono ex lege ex art. 566 c.c. in parti uguali i figli (...) e (...) (per quest'ultima, deceduta, i figli ed il marito). Non sono state formulate domande di condanna al pagamento e/o di divisione. La Corte respinge la domanda di risarcimento dei danni per mancato godimento dell'immobile in quanto il godimento del bene da parte del coerede non comporta di per sè, in assenza di titolo o di prova dell'opposizione degli altri eredi, alcun obbligo di corrispondere un'indennità per l'occupazione esclusiva (Cass. 9/2/2015 n. 2423 secondo cui "L' uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all'art. 1102 cod. civ., non è idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l'occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso"), e considerato inoltre che l'immobile è divenuto di proprietà di un terzo che lo ha acquistato in buona fede. SPESE DEL GIUDIZIO All'esito del gravame, in virtù del parziale accoglimento dell'appello e della parziale soccombenza dell'appellante, consegue la condanna della parte appellata al pagamento delle spese di lite in favore della parte appellante, secondo i principi dell'art. 92 c.p.c., nella misura di un mezzo, con compensazione dell'altra metà; le spese si liquidano secondo i parametri di cui al DM 147/2022, con riferimento al valore indeterminabile, complessità bassa, tenuto conto delle questioni trattate e dell'impegno profuso dal legale. E precisamente, quanto al primo grado, per l'intero: 1.Fase di studio Euro 1.701,00; 2. Fase introduttiva Euro 1.204,00; 3. Fase istruttoria Euro 1.806 4.Fase decisionale Euro 2.905,00; Totale Euro 7.616,00 oltre rimb. forf. 15%, iva e cpa. Quanto al grado d'appello, per l'intero: 1.Fase di studio Euro 2.058,00; 2. Fase introduttiva Euro 1418,00; 3. Fase istruttoria 3045 Fase decisionale Euro 3470,00; Totale Euro 9.991,00 oltre rimb. forf. 15%, iva e cpa. P.Q.M. LA CORTE D'APPELLO DI GENOVA definitivamente deliberando, contrariis rejectis, respinta ogni contraria istanza, eccezione e deduzione: 1) in parziale accoglimento dell'appello proposto da (...) e in parziale riforma della gravata sentenza del Tribunale della (...) n. (...)/2020 del 05.11.2020 depositata in pari data attribuisce all'appellante (...) una quota pari ad un terzo dell'eredità della de cuius (...) come determinata dalla CTU esperita in grado d'appello richiamata in motivazione; 2) Dichiara tenuti e condanna (...) e (...) in solido tra loro, a pagare a (...) le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio pari ad un mezzo, con compensazione della residua metà; liquida detta frazione, quanto al primo grado, in Euro 3.808,00 oltre rimborso forf. 15% iva e cpa; quanto al secondo grado, liquida detta frazione in Euro 4.995,00 oltre rimb. forf 15%, iva e cpa; 3) Pone le spese di CTU a carico delle parti nella misura di 1/2 ciascuna. 4) Conferma nel resto l'impugnata sentenza.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE composta dai magistrati: dott. (...) - Presidente relatore dott. (...) - (...) dott. (...) - (...) all'udienza del 29.05.2024 ha pronunciato - ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. - la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile in grado di appello iscritta al n. (...) registro generale degli affari contenziosi dell'anno 2019, vertente tra (...) c.f. (...), rappresentato e difeso dall'Avv.to (...) c.f. (...) con studio in (...) in virtù di mandato in atti presso cui è elett.te domiciliato, - (...) - e (...) S.p.A. (già (...) S.p.A.) (Codice Fiscale e P. IVA (...)), iscritta al n. (...)/99 del Registro delle (...) di (...) - REA n. (...), con sede (...)(...) n. (...) ((...)) che agisce a mezzo del procuratore speciale (...) in persona del legale rappresentante pro tempore (...) Dott. (...) con sede (...)(...) n.7 ((...)), (...) di iscrizione nel (...) di (...) e (...), iscritta presso la C.C.I.A.A. di (...) al n. 2015 ((...)- Racc. (...)), rappresentata e difesa unitamente e disgiuntamente dagli Avv.ti (...) ((...) - pec: (...)) e (...) ((...)# - pec: (...)) ed elettivamente domiciliat (...)(...) via (...) n. 26 ((...)), giusta procura allegata ex art. 83, comma 3, c.p.c., al ricorso per decreto ingiuntivo; - APPELLATA - MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Par. 1. - Con atto di citazione notificato in data (...), l'avvocato (...) ha proposto appello avverso la sentenza definitiva del Tribunale ordinario di (...) n. (...)/2019, pubblicata in data (...), resa all'esito del procedimento r.g. n. (...)/2016, promosso dall'odierno appellante nei confronti di E-(...) s.p.a. Par. 2. - I fatti di causa sono esposti nella sentenza impugnata come qui di seguito viene riportato. "Con atto di citazione in opposizione ritualmente notificato, l'Avv. (...) ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal Tribunale di (...) in data (...), avente ad oggetto la restituzione, in favore di E (...) S.p.a., della somma di Euro 228.085,92 da quest'ultima versata all'Avv. (...) ex art. 93 c.p.c. in forza di numerose sentenze di primo grado successivamente riformate in appello, oltre interessi come da domanda e spese della procedura. A fondamento dell'opposizione l'Avv. (...) ha dedotto: 1) preliminarmente l'incompetenza per territorio del Tribunale di (...) in favore del Tribunale di Napoli; 2) nel merito, l'inammissibilità della domanda di restituzione delle somme percepite a titolo di onorari in quanto non formulata nell'atto di appello; 3) l'assoluta genericità della domanda e infondatezza della stessa in ragione del diritto del difensore al compenso e della mancanza di adeguata prova del credito; 5) l'erroneità delle somme ingiunte in quanto comprensive di IVA e spese di precetto. E-(...) S.p.a. si costituiva in giudizio e, contestato tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito, ha concluso chiedendo il rigetto dell'opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo o, in subordine, la condanna dell'opponente alla restituzione della somma accertata all'esito dell'istruttoria. Rigettata la richiesta di concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, la causa veniva istruita con la produzione di documenti e trattenuta in decisione all'udienza del 11.02.2019 con concessione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica". Par. 3. - Il Tribunale adito, con l'impugnata sentenza, ha così deciso: "- In parziale accoglimento dei motivi di opposizione, revoca il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 (R.G. n. (...)/2016) emesso dal tribunale di (...) in data (...); - Condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo; - (...) l'Avv. (...) alla refusione, in favore della parte opposta, delle spese del giudizio che ex D.M. n. 37/2018 liquida in Euro 13.430,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa, come per legge". Par. 4. - Con l'atto di appello l'avvocato (...) ha chiesto di accogliersi le seguenti conclusioni : "(...) la Corte adita: a) Preliminarmente, sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado n. (...)/2019, RG (...)/2016, emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) pubblicata il 24 settembre 2019, non notificata, con fissazione immediata dell'udienza di sospensiva ex artt.283 c.p.c. e 351 c.p.c. b) Nel merito, in via preliminare, accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui il giudice ha rigettato l'eccezione di incompetenza territoriale in favore del Tribunale di Napoli e, per l'effetto, dichiararla, secondo quanto previsto al punto n. 1 del presente atto; c) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa indicazione nell'atto di appello della domanda di ripetizione di somme e conseguente decadenza dalla proposizione della stessa: per l'effetto, dichiarare la domanda monitoria inammissibile per quanto esposto al punto n. 2 del presente atto; d) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) in merito agli importi da restituire, secondo quanto esposto al punto n. 3 del presente atto; e) accertare e dichiarare l'erroneità della sentenza di primo grado per omessa pronuncia in merito al diritto ai compensi ed all'onorario, maturati in capo al professionista, per quanto esposto al punto n. 4 del presente atto; f) Per l'effetto, revocare integralmente il decreto ingiuntivo n. (...)/2016 emesso dal Tribunale di (...) g) (...) e per l'effetto, in accoglimento di tutti i motivi di appello suesposti, riformare integralmente la sentenza n. (...)/2019 RG (...)/2016 emessa dal Tribunale di (...) dott.ssa (...) il 24 settembre 2019; h) Con condanna alle spese del doppio grado di giudizio". Par. 5. - (...) E-(...) spa, costituitasi con comparsa di risposta depositata in data (...), ha resistito all'impugnazione chiedendo di accogliersi le seguenti conclusioni: "voglia l'Ecc.ma Corte di Appello di (...) ogni contraria reiectis, disattesa l'istanza ex art. 283 c.p.c. in quanto del tutto infondata in fatto e diritto sia sotto il profilo del fumus sia sotto quello del periculum, rigettare l'appello proposto dall'avv. (...) avverso la Sentenza del Tribunale di (...) n. (...)/2019, con integrale conferma della decisione di primo grado. (...) di spese, compensi di lite e rimborso forfettario spese generali" Par. 6. - All'odierna udienza i difensori delle parti hanno precisato le conclusioni, riportandosi ai rispettivi scritti, e hanno discusso oralmente la causa. Par. 7. - (...) è articolato in cinque motivi. Par. 7.1. - Con il primo motivo viene dedotta la "1. Incompetenza territoriale. Erroneità della sentenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata "(...) preliminare di incompetenza per territorio del Tribunale di (...) non può trovare accoglimento per i seguenti motivi. (...) E- (...) S.p.a. ha agito in giudizio per ottenere il pagamento di un'obbligazione pecuniaria (restituzione di somme versate in ottemperanza a sentenze di primo grado poi riformate in appello) liquida ed esigibile in quanto determinabile sulla base di quanto statuito nelle sentenze di primo grado riformate in appello. Quindi, per il combinato disposto degli articoli 20 c.p.c. e 1182 c.c., tale obbligazione pecuniaria deve essere eseguita al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza. (...) dovuto è, infatti, indicato nelle lettere di pagamento ed è facilmente determinabile sulla base di meri calcoli matematici (v. Cass. SS.UU. n.17989/16 nonché sentenze del Tribunale di (...) in analoghi casi di opposizione a decreto ingiuntivo proposte da avvocati antistatari ed aventi analogo oggetto, v. Tribunale di (...) n.21234/2018; 22585/2018; 17820/2018; 22241/2018; 4506/2018 etc.). Pertanto, poiché la creditrice E-(...) s.p.a. ha sede a (...) può ritenersi radicata la competenza territoriale del (...) adito". Deduce l'appellante che "Gli appelli proposti da E (...) alle sentenze di primo grado (favorevoli all'avv. (...) si sono conclusi con pronunce nelle quali è stato stabilito che nulla fosse dovuto a titolo di risarcimento o a qualsiasi altro titolo all'appellante con riserva di ripetizione delle somme eventualmente pagate in esecuzione della sentenza impugnata". La deduzione è infondata. Invero "Il credito restitutorio, relativo alle somme corrisposte, derivante dalla riforma della sentenza, trova titolo proprio in quest'ultima pronuncia ed ha per oggetto l'identica somma effettivamente incassata dalla parte tenuta alla restituzione, rivestendo quindi il debito in questione carattere liquido "ab origine", a nulla rilevando, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente, le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum" (Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019, Rv. 653444 - 01) Quindi l'accoglimento dell'appello determina la riforma della sentenza impugnata che non può più spiegare alcun effetto anche in ragione delle spese di lite liquidate. Ne deriva il diritto alla restituzione di quanto pagato. Dunque, la domanda di restituzione non può che avere ad oggetto delle somme determinate e liquide. Si tratta pertanto di obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore a norma dell'art. 1182, comma 3, c.c. Giova rilevare che, ai fini della competenza territoriale, i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice in base allo stato degli atti, ai sensi dell'art. 38, comma 4, c.p.c. e ricorrono quando non è necessario ulteriore titolo negoziale o giudiziale, in quanto il titolo indica il criterio per determinare il compenso, a nulla rilevando le eventuali contestazioni riferite all'"an" e al "quantum". (Cfr. Cass., Sez. 2 -, Ordinanza n. (...) del 09/12/2021 - Rv. 663393 - 01, Cass., Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7722 del 20/03/2019 - Rv. 653444 - 01). Par. 7.2. - Con il secondo motivo viene dedotta la "2.Erroneità della sentenza. Omessa indicazione della domanda di ripetizione nell'atto di appello. Decadenza". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "(...) domanda di restituzione formulata in sede di appello può avere fini cautelativi e anticipatori, ma, di contro, la mancata esplicitazione della richiesta, non è preclusiva di tale domanda, ben potendo essere chiesta anche in sede di ricorso monitorio (v. Cass. Sent n. 6579/2003; Cass., Ord. n. 28167/2013; Cass. 24.10.2018, n. 26926; Cass. 28 ottobre 2014 n. 22866; Cass. 15 aprile 2010 n. 9062). Ne consegue che nel caso in esame la società opposta non doveva necessariamente proporre nel giudizio di appello una specifica domanda di ripetizione delle spese corrisposte a titolo di spese del giudizio al procuratore distrattario e, pertanto, la relativa richiesta di restituzione delle spese a seguito di riforma della sentenza di primo grado ben può essere fatta valere in via monitoria; Cass. ord. n. 28167 del 17 dicembre 2013; Cass. 26 aprile 2003 n. 6579). La sentenza resa all'esito del giudizio d'appello, infatti, salvo che abbia contenuto in rito, si sostituisce in tutto e per tutto a quella di primo grado ponendosi quale nuova fonte di regolamentazione del rapporto litigioso e la nuova regolamentazione offerta dalla sentenza di appello elide ovviamente anche il capo di sentenza impugnata inerente le spese di lite, con l'ineludibile corollario dell'obbligo restitutorio a carico dell'accipiens delle spese di giudizio ove la decisione sia stata provvisoriamente eseguita". Deduce l'appellante che "la domanda di condanna alla restituzione delle somme versate in primo grado (a titolo di sorta o di onorari) non viene formulata, e viene rinviata ad un successivo ed eventuale momento, pertanto, è inammissibile in sede monitoria, perché mai proposta in appello e, per ciò inammissibile". Il motivo è infondato. Invero "Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della cassazione o della riforma della sentenza e può essere richiesto automaticamente, se del caso, anche con procedimento monitorio" (Cass., Sez. L, Sentenza n. 6579 del 26/04/2003, Rv. 562476 - 01). La giurisprudenza richiamata dall'appellato (Cassazione civile, sez. III, 08/07/2010, n.16152 e Cassazione civile, sez. III, 30/04/2009, n. 10124) appare inapplicabile alla fattispecie in esame in quanto riguarda la proponibilità della domanda nel giudizio di appello ma non esclude affatto che la domanda possa essere riproposta in un nuovo giudizio. Par. 7.3. - Con il terzo motivo viene dedotta la "3. Erroneità della sentenza. Mancato assolvimento dell'onere della prova da parte di E- (...) degli importi da restituire". Si legge sul punto nella sentenza impugnata che "Nel ricorso per decreto ingiunto la società opposta ha, infatti, precisato la sua domanda, indicando i nomi delle parti, la data di invio della lettera e di pagamenti degli importi corrisposti in esecuzione della sentenza di primo grado, le modalità di pagamento e la data e il numero della sentenza di riforma in appello di cui si allega lo schema .... Al ricorso risultano allegate le lettere raccomandate attestanti il pagamento delle spese legali e le sentenze d'appello menzionate nella tabella sopra riportata che giustificano la richiesta di restituzione delle stesse (v. lettere di pagamento dal nn.2 al n.64 e sentenze di appello dal doc. n. 65 al 478 allegati al ricorso). In particolare, si è riscontrato che nelle n.63 lettere raccomandate con ricevuta di ritorno la società opposta ha comunicato all'Avv. (...) il pagamento di compensi dovuti per le singole cause indicate nel ricorso, nonché per altri procedimenti le cui sentenze di primo grado non sono state riformate in appello e non sono oggetto del presente giudizio (v. doc. n.2-64 lettere a/r con relative ricevute di ricevimento, successivamente integrate con i documenti n.1-8 all. alle memorie ex art. 183 VI comma n.2). (...) ha, inoltre, fornito prova del pagamento delle somme indicate nelle predette lettere, allegando gran parte delle copie di assegni circolari inviati con le predette lettere o le matrici degli assegni circolari o richieste di pagamento di assegni con il sistema C.I.T. (v. doc. n.2-64 e doc. 9-26 all. memoria ex art. 183 VI comma n.2 c.p.c. di parte opposta). Quanto alle matrici degli assegni circolari, si ritiene che le stesse possano assumere valore probatorio del pagamento, in quanto recanti la data, il nominativo del beneficiario e l'importo corrisposto (v. Trib. (...) - Sezione Ottava - G.U. D.ssa (...) - (...) /2018 pubbl. il (...) secondo cui "(...) ha dimostrato la fondatezza della pretesa creditoria, tenuto conto che già in fase monitoria ha depositato le fotocopie dei cedolini degli assegni circolari n(....), recanti il nome del beneficiario, Avv(....), e soprattutto la dicitura "non trasferibile", in ragione della quale l'unico legittimato all'incasso era il suddetto beneficiario"). La società opposta ha, inoltre, precisato che molti dei predetti assegni sono stati pagati con il sistema "check truncation" che prevede che i titoli, anziché essere trasmessi materialmente dalla banca negoziatrice a quella trattaria, vengano trattenuti presso la prima e che il regolamento avvenga attraverso la trasmissione di dati in rete o su supporto magnetico. (...) è, infatti, custodito dalla banca negoziatrice e si intende pagato bene se entro un certo numero di giorni la banca negoziatrice non riceve contestazioni (D.L. 31 maggio 2011, n. 70, così come convertito dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, che ha modificato l'art. 31 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (c.d. Legge Assegni). Una ulteriore conferma del pagamento delle spese di lite in favore dell'avv. (...) può, inoltre, essere desunta dalle allegate attestazioni del versamento in suo favore delle ritenute d'acconto, versamenti che ovviamente non avrebbero avuto ragion d'essere se in precedenza (...) non avesse corrisposto le spese di lite al netto di detta imposta (doc. nn. 64-67 e doc. n. 27 all. memoria ex art. 183 VI comma c.p.c.). Priva di pregio è risultata, infine, la contestazione dell'Avv. (...) relativa alla mancata indicazione di n. 30 cause nelle lettere allegate in atti e comprovanti il pagamento delle spese di lite in suo favore. Dall'attento esame delle lettere di pagamento, sono infatti risultate specificamente indicate le posizioni contestate: quanto a (...) (...) 049); (...) (...) 041); (...) (...) 043); (...) (...) 043); (...) (...) 002); (...) (...) 039); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 011); (...) (...) 047); (...) (...) 051); (...) (...) 043); (...) (...) 049); (...) (...) 033); (...) (...) 049); (...) (...) 011); (...) (...) 043); (...) (...) 053); (...) (...) 002); (...) (...) 047); (...) (...) 039); (...) (...) 002); (...) (...) 053); (...) (...) 041); (...) (...) 002); (...) (...) 002); (...) (...) 048); (...) (...) 002); (...) (...) 041); (...) (...) 007). Con riguardo alle contestazioni mosse dall'opponente nella memoria ex art. 183, VI comma, n. 3, c.p.c., relative all'indicazione, nelle lettere di pagamento, di controversie non oggetto della richiesta di restituzione, si ribadisce che le n. 63 lettere sono state inviate all'esito di plurimi giudizi di primo grado introdotti dall'Avv. (...) per conto di differenti clienti e che soltanto alcune delle sentenze di primo grado sono state riformate e poste a base della domanda (v. ad es. all.to 057 lettera del 29.02.2007 prodotta in relazione alle domande proposte nei confronti di (...) e (...) in quanto nei confronti di (...) non è proposta alcuna domanda nel ricorso). Ne consegue che sulla base della predetta documentazione può ritenersi adeguatamente provato il pagamento dei compensi relativi alle controversie indicate nelle predette missive, atteso che alcuna prova contraria è stata fornita da controparte in merito al mancato invio o ricezione o incasso dei pagamenti indicati nelle predette missive per le cause nelle stesse elencate. In ordine alla prova fornita da parte opposta per ottenere la restituzione delle spese legali corrisposte in relazione a tutte le sentenze di primo grado indicate in ricorso e riformate in appello, si può osservare che, all'esito dell'istruttoria e sulla base dell'ulteriore documentazione allegata dalle parti, alcune delle contestazioni solevate da parte opponente sono risultate fondate. Nelle memorie ex art. 183, comma VI, nn. 1-2-3, c.p.c., l'Avv. (...) ha, infatti, dedotto che non aveva ricevuto il pagamento delle spese legali relative alla controversia di (...) in quanto patrocinata dall'Avv. (...) e che alcune delle sentenze di primo grado per le quali aveva ricevuto il pagamento delle spese legali, non erano state riformate in appello o era stata disposta la compensazione delle spese del solo grado di appello. Parte opposta ha ritenuto condivisibili alcuni dei rilievi di controparte relativi alle posizioni di (...) (importo euro 522,80), (...) (importo euro 1.319,17), (...) (importo euro 440,34), (...) (importo euro 633,26), (...) (importo euro 1.132,81), per un importo complessivo di euro 4.038,38 che viene quindi detratto dall'importo ingiunto di euro 228.085,92. Infatti, dall'esame dei documenti è emerso che non è stata allegata la sentenza relativa alla controversia di (...) e di (...) e quanto alla causa di (...) risulta patrocinata dall'Avv. (...) Infine, con riguardo alla causa relativa ai (...) e (...) nulla sarebbe dovuto dall'Avv. (...) stante il rigetto dell'appello. La contestazione sollevata dall'avv. (...) in ordine al diritto della società opposta di ottenere la restituzione dei compensi relativi alla causa (...) c/ E- (...) e (...) non può trovare accoglimento. Dall'esame della motivazione delle sentenze d'Appello emerge chiaramente che la sentenza gravata è stata riformata anche in punto di spese, (v. all. 433 sentenza (...) in cui si afferma che "in conseguenza della riforma della pronuncia di prime cure, non si è più in presenza di un'ipotesi di soccombenza dell'(...) S.p.a." nonché all. nn. 171 e 178) e, di conseguenza le spese corrisposte al procuratore antistatario non sono più dovute e devono essere restituite. Quanto invece alla contestazione relativa alla restituzione delle spese del giudizio di primo grado relative al giudizio promosso a nome del (...) si rileva che, nel dispositivo della sentenza di appello, il capo delle spese di primo grado è stato riformato con compensazione delle stesse nella misura del 50% con espressa condanna dell'opposta al pagamento in favore del procuratore antistatario della restante quota del 50% (v. all n. 259 comparsa). Pertanto, si ritiene che la società opposta possa richiedere soltanto la restituzione del 50% dell'importo indicato nel ricorso e precisamente di Euro 204,57. (...) ha inoltre contestato il mancato deposito delle sentenze di appello relative a giudizi (...)(...)(...)(...) La contestazione è infondata e difatti dette sentenze risultano prodotte in atti e precisamente: per (...) (...) 139 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 140 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 157 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 158 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 215 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 230 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 305 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 306 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 257 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 393 Fascicolo monitorio), per (...) (...) 310 Fascicolo monitorio), per (...) (e non (...) (...) 361 Fasciolo Monitorio). In parziale accoglimento dell'opposizione ed accertato che non sono dovuti gli importi richiesti in relazione alle controversie promosse a nome dei (...)(...) e (...) si revoca il decreto ingiuntivo opposto e si condanna l'Avv. (...) alla restituzione, in favore dell'opposta, del complessivo importo di Euro 223.842,97, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo". (...) contesta l'esistenza della prova dei pagamenti. Il motivo è innanzitutto inammissibile. Infatti, l'appellante a fronte della ricostruzione certosina dei singoli rapporti effettuata dal (...) (elenco da pagina 5 a pagina 22) si limita a contestazione generiche senza far riferimento a singole poste. Se non fosse inammissibile il motivo sarebbe comunque infondato. (...) contesta la valorizzazione effettuata dal (...) dei versamenti delle ritenute d'acconto. La contestazione è infondata. Invero le ritenute presuppongono l'avvenuto pagamento di compensi altrimenti non avrebbero avuto senso. Aggiunge l'appellante che "In merito all'assenza di alcuna prova contraria, si rileva che non comprende come l'avv. (...) avrebbe potuto provare un fatto negativo, come il mancato pagamento di quanto sostenuto da controparte". Anche in questo caso, trattandosi di versamenti di assegni, l'appellante avrebbe potuto fornire tale prova attraverso il deposito di documentazione bancaria. Deduce ancora l'appellante che "l'avv. (...) nel medesimo periodo a cui risalgono i fatti di causa, ha incassato dalla medesima (...) anche somme relative ad altri giudizi, pertanto sarebbe stata necessaria l'imputazione dei pagamenti e delle relative ritenute di acconto ai giudizi oggetto del presente procedimento". Neppure in questo caso non sono indicate quali somme sono state ricevute e relativamente a quali rapporti. (...) contesta inoltre la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che "il pagamento di "molti" assegni sarebbe avvenuto con il sistema check truncation" in quanto "non vi è prova alcuna, fornita da E- (...) nel giudizio, di quali e quanti assegni siano stati emessi e negoziati con tale procedura, dei relativi importi e causali. In più, la mancata partecipazione al contenzioso da parte degli istituti bancari impedisce di conoscere se e quali titoli emessi con questa procedura siano stati effettivamente incassati dall'avv. (...)". La contestazione è infondata in quanto essi possono desumersi dalle comunicazioni bancarie che attestano l'incasso dei titoli con detta procedura. (...) ancora l'appellante che "la somma ingiunta, ed alla quale il giudice ha condannato la società alla restituzione, inoltre, è erroneamente inclusiva di (...) anche sul punto la sentenza dovrà essere riformata". La doglianza è infondata. Invero "Le domande di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova, ed è perciò ammissibile in appello anche nel corso del giudizio, quando (come nella specie) l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione. Quanto all'entità della restituzione, essa deve includere anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di "restitutio in integrum" e di ripristino della situazione precedente" (Cass., Sez. 1, (...) n. 11491 del 16/05/2006 - Rv. 590956 - 01). (...) le imposte erroneamente versate potranno essere oggetto di una richiesta di rimborso agli uffici finanziari. Par. 7.4. - Con il quarto motivo di appello viene dedotta la "4. Erroneità della sentenza. Omessa pronuncia. Il diritto al compenso e agli onorari". Deduce l'appellante che "spetta all'avvocato (...) il compenso per l'attività svolta nell'interesse dei clienti pur in presenza di sentenze di primo grado che siano state riformate; un'eventuale soccombenza dovrà ripercuotersi unicamente sulle parti in precedenza vittoriose". Il motivo è infondato. Infatti "(...) di distrazione delle spese processuali consiste nel sollecitare l'esercizio del potere/dovere del giudice di sostituire un soggetto (il difensore) ad altro (la parte) nella legittimazione a ricevere dal soccombente il pagamento delle spese processuali e non introduce, dunque, una nuova domanda nel giudizio, perché non ha fondamento in un rapporto di diritto sostanziale connesso a quello da cui trae origine la domanda principale; ne consegue da un lato che non sono applicabili le norme processuali sui rapporti dipendenti e che l'impugnazione della sentenza non deve essere rivolta anche contro il difensore distrattario, benché il capo della sentenza reso sull'istanza di distrazione sia destinato a cadere nello stesso modo in cui cade quello sulle spese reso nell'ambito dell'unico rapporto processuale, dall'altro che il difensore distrattario subisce legittimamente gli effetti della sentenza di appello di condanna alla restituzione delle somme già percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, benché non evocato personalmente in giudizio" (Cass., Sez. 3, (...) n. 9062 del 15/04/2010 - Rv. 612482 - 01) Quindi, a seguito della riforma della sentenza impugnata, il difensore manterrà il proprio diritto ad ottenere il pagamento dei compensi professionali ma tale obbligo graverà sul suo assistito e non certo sulla parte vittoriosa nel giudizio di appello. Par. 8. - In conclusione, l'appello deve essere respinto. Par. 9. - Le spese processuali del grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo sulla base della legge 27/2012 e degli articoli 1-11 DM 55/14 - così come modificati dal DM Giustizia 147/2022 - in relazione al valore della causa (da Euro 52.000,01 ad Euro 260.000,00, tabella 12, 5° scaglione, compensi medi, escluso compenso della fase istruttoria/trattazione non espletata) e precisamente: Euro 2.977,00 per la fase di studio della controversia, Euro 1.911,00 per la fase introduttiva del giudizio ed Euro 5.103,00 per la fase decisionale per un compenso tabellare finale ex art. 4, comma 5, di Euro 9.991,00 oltre a spese generali, iva e cpa come per legge. Par. 10. - L' appellante è altresì tenuto, ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. 115/12, al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) nei confronti di (...) spa avverso la sentenza definitiva del (...) ordinario di (...) n. (...)/2019, così provvede: 1. rigetta l'appello; 2. condanna (...) a rifondere ad E-(...) spa le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 9.991,00 per compensi, oltre a spese generali (15%), iva e cpa come per legge. 3. dichiara l'appellante (...) tenuto al versamento dell'ulteriore somma pari all'ammontare del contributo unificato dovuto.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE UNITE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D'ASCOLA Pasquale - Presidente Aggiunto Dott. MANNA Felice - Presidente di Sezione Dott. CIRILLO Ettore - Presidente di Sezione Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare G.- Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. 15340/2023, disposto dal Tribunale di Salerno con ordinanza emessa il 19/07/2023 nel procedimento tra: Po.Ga., rappresentata e difesa dagli avvocati AS.DI., MA.MA., TA.AN. e MA.RO.; e BANCA (...) Spa, rappresentata e difesa dagli avvocati SI.DO. ed SP.EN. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/02/2024 dal Consigliere ANTONIO PIETRO LAMORGESE; uditi i Pubblici Ministeri, in persona dei Sostituti Procuratori Generali STANISLAO DE MATTEIS e ANNA MARIA SOLDI, i quali hanno chiesto che il rinvio pregiudiziale venga dichiarato inammissibile per difetto del contraddittorio preventivo e, in subordine, hanno insistito nell'enunciazione della regola iuris riportata nelle conclusioni scritte ("l'omessa indicazione, all'interno di un contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, pure a fronte della previsione per iscritto del tasso annuale nominale TAN, nonché della modalità di ammortamento "alla francese" non comporta né l'indeterminatezza o indeterminabilità del relativo oggetto né la violazione di norme in materia di trasparenza e, segnatamente, di quella di cui all'art. 117, comma 4, TUB"); uditi gli avvocati TA.AN., AS.DI., SI.DO. ed SP.EN. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - La signora Po.Ga. chiese al Tribunale di Salerno di far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario stipulato, a tasso fisso, con la Banca (...) Spa ((...)) in data 20 dicembre 2007, a causa della mancata pattuizione e indicazione della modalità di ammortamento (c.d. "alla francese") e delle modalità di calcolo degli interessi passivi, in violazione di numerose disposizioni normative, e di far condannare la banca a rimborsare i maggiori interessi "indebitamente" riscossi, pari alla differenza tra gli interessi convenzionali e il tasso minimo dei Bot nell'anno precedente alla stipula del contratto, o alla minore o maggiore somma da accertare in giudizio. Nella prospettazione attorea la clausola contrattuale relativa agli interessi passivi sarebbe affetta da nullità strutturale per indeterminatezza e/o indeterminabilità dell'oggetto (artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c.), essendo pattiziamente indicato solo il tasso di interesse e non anche il regime ("composto") di Da capitalizzazione degli interessi passivi, aspetto quest'ultimo che si assume dirimente anche nell'ottica della trasparenza contrattuale (art. 117, comma 4, D.Lgs. n. 395 del 1993, d'ora in avanti T.u.b.). La Banca convenuta si costituì in giudizio deducendo che il piano di ammortamento "alla francese" non integra violazione del divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c. e che, in ogni caso, l'omessa esplicitazione della modalità di calcolo degli interessi sarebbe irrilevante, poiché tale informazione sarebbe implicita nel piano di ammortamento allegato al contratto che, indicando il numero delle rate, il loro ammontare e la loro composizione con la distinta indicazione della sorte capitale e degli interessi, fornirebbe una dettagliata rappresentazione dei costi del finanziamento e delle modalità di restituzione del prestito, oltre a recare l'indicazione del TAN (tasso annuo nominale), del TAEG (tasso annuo effettivo globale) e dell'ISC (indicatore sintetico di costo). 2. - Il Tribunale, con ordinanza del 19 luglio 2023, ha disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., dopo avere riferito che il testo contrattuale non indica espressamente che il piano di ammortamento è quello c.d. "alla francese" né che è applicato il regime di capitalizzazione "composto" degli interessi, ma indica l'importo mutuato (Euro 80000,00), la durata del prestito (quindici anni), il numero delle "rate costanti" da restituire con la specificazione della quota per capitale e della quota per interessi, il TAN (tasso annuo nominale) e il TAE (tasso annuo effettivo, "maggiore del TAN"). Il rinvio è stato disposto per la risoluzione della questione di diritto concernente "l'interpretazione delle conseguenze giuridiche derivanti dalla omessa indicazione, all'interno di un contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, pure a fronte della previsione per iscritto del Tasso Annuo Nominale (TAN), nonché della modalità di ammortamento c.d. alla francese, cioè se tale carenza di espressa previsione negoziale possa comportare la indeterminatezza e/o indeterminabilità del relativo oggetto, con conseguente nullità strutturale in forza del combinato disposto degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c., nonché ... la violazione delle norme in tema di trasparenza e, segnatamente, dell'art. 117, comma 4, T.u.b. che impone, a pena di nullità, che "i contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticate, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora", con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento applicando il tasso sostitutivo "B.O.T." (art. 117, comma 7, T.u.b.)" (a pag. 4-5 dell'ordinanza). Il Tribunale ha evidenziato la necessità di risolvere la suddetta questione, ritenuta "esclusivamente di diritto", per la definizione anche parziale del giudizio, per le gravi difficoltà interpretative in presenza di diverse interpretazioni possibili e la possibilità che essa si ponga in numerosi giudizi. 3. - L'ordinanza ha superato il vaglio preliminare previsto dall'art. 363-bis, comma 3, c.p.c., avendo la Prima Presidente ammesso il rinvio pregiudiziale con decreto del 23 settembre 2023, nel quale ha ritenuto ricorrenti le condizioni oggettive richieste dall'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. "non apparendo, la questione posta, e salvi ulteriori approfondimenti da parte del Collegio, assorbita da una ragione più liquida, che consenta di decidere la controversia a prescindere dalla questione controversa". Gli "ulteriori approfondimenti" rimessi al Collegio riguardano, in particolare, le conseguenze della mancata attivazione del contraddittorio sulla intenzione del Tribunale di effettuare il rinvio pregiudiziale, tempestivamente segnalata con nota rivolta alla Corte, depositata il 2 agosto 2023, con cui la Banca ha chiesto di dichiarare la nullità dell'ordinanza di rinvio pregiudiziale per violazione dell'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. ("Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale..."). Il decreto poc'anzi menzionato, dopo avere riferito le varie posizioni emerse al riguardo in dottrina, ha ritenuto "opportuno rimettere al Collegio la valutazione delle conseguenze dell'omessa attivazione del contraddittorio dinanzi al giudice a quo", senza quindi "precludere ... l'ingresso del rinvio in ragione di un vizio occorso nel procedimento di adozione dell'ordinanza da parte del giudice di merito". 4. - La Procura Generale ha concluso nel senso della inammissibilità del rinvio pregiudiziale in esame, in quanto disposto senza avere prima doverosamente udito le parti sull'intenzione del giudice di merito di attivare il predetto strumento di nomofilachia preventiva introdotto dalla legge n. 149 del 2022. Il Collegio è di diverso avviso. 5. - Potrebbe richiamarsi l'orientamento che, in relazione al divieto delle sentenze della c.d. "terza via" violative del principio del contraddittorio, esclude conseguenze invalidanti quando la decisione del giudice sia di puro diritto, non potendo le parti dolersi di una violazione del diritto di difesa o di un c.d. "effetto sorpresa" quando il giudice, disponendo il rinvio pregiudiziale su questioni "esclusivamente di diritto", non abbia fatto altro che esercitare il potere che la legge stessa gli attribuisce (jura novit curia), ai sensi dell'art. 363-bis, comma 1, c.p.c., diversamente da quanto accade quando il giudice abbia deciso su rilievo officioso (senza avere previamente consentito il contraddittorio delle parti) su questioni di fatto o "miste" di fatto e diritto, giacché in tal caso le parti devono necessariamente concorrere alla delimitazione del thema decidendum (cfr. Cass. n. 21314/2023, 3543/2023, 1617/2022). Queste considerazioni, invero, non sarebbero sufficienti a scalfire le acute considerazioni della Procura Generale, la quale ha evidenziato che il principio generale del contraddittorio ex art. 101 c.p.c. (tra l'altro, elevato al rango costituzionale dall'art. 111, comma 2, Costituzione) assume una connotazione specifica nell'istituto del rinvio pregiudiziale, visto che l'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. ne prescrive espressamente l'attuazione nella fase di merito e in via preventiva rispetto alla decisione di investire la Corte di cassazione sulla questione controversa. Inoltre, la previa audizione delle parti è in funzione anche della necessità di evitare che le parti subiscano la sospensione del procedimento a quo (ex art. 363-bis, comma 2) che sarebbe "a sorpresa" e per un tempo indefinito per l'attesa della pronuncia della Corte, "di qui la attività di filtro immediato affidata "prima facie" al Primo Presidente". Le ragioni che inducono il Collegio ad aderire, entro certi limiti, al diverso orientamento secondo cui i diritti delle parti non sarebbero effettivamente (e giuridicamente) compromessi dalla loro omessa preventiva audizione, vanno ricercate altrove. In particolare, affermare la inammissibilità del rinvio pregiudiziale nel caso in cui il giudice remittente non abbia "sentito le parti" presuppone che l'ordinanza di rinvio sia viziata per ragioni di nullità, nel qual caso il regime giuridico applicabile sarebbe quello previsto dall'art. 156 ss. c.p.c., sempre che ne sussistano le condizioni. Detto regime prevede che la nullità non può essere dichiarata se non è comminata espressamente dalla legge (comma 1) - e nella specie non lo è - e quando l'atto abbia i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (comma 2), e non vi è ragione di escludere che ciò possa avvenire ed essere oggetto di verifica della Corte di cassazione, potendosi al contraddittorio mancante nella prima fase sopperirsi nella fase successiva, nella quale le parti possono depositare le memorie e discutere in udienza pubblica (comma 4) ogni aspetto di loro interesse riguardante la questione devoluta dal Tribunale. Lo scopo dell'atto, in relazione al quale va verificata la possibilità di recupero ex post del contraddittorio, concerne evidentemente la sussistenza delle condizioni oggettive previste dall'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. (natura esclusivamente di diritto della questione, novità e necessità della stessa ai fini della definizione del giudizio, gravi difficoltà interpretative, ripetibilità della questione in numerosi giudizi) ma anche la rilevanza e attualità della questione, potendo dal contraddittorio tra le parti in vista della (e durante la) udienza pubblica emergere che sulla questione la Corte di cassazione si è già espressa con decisioni prima ignorate o successive all'ordinanza di rinvio o che la stessa non è esclusivamente di diritto o non è più idonea a definire totalmente o parzialmente il giudizio, a seguito delle precisazioni, modificazioni e dei chiarimenti resi dalle parti (riguardanti anche eventuali profili fattuali presupposti) o a seguito della possibile rinuncia alla domanda o alle eccezioni sottese alla questione giuridica controversa. Il rinvio pregiudiziale è inammissibile se all'esito del contraddittorio ex-post emerga la mancanza originaria o sopravvenuta delle condizioni oggettive previste dalla legge; altrimenti il rinvio è ammissibile, nel qual caso l'interesse delle parti a non subire la sospensione del procedimento a quo non può dirsi giuridicamente apprezzabile, essendo la sospensione prevista dalla legge al ricorrere di condizioni oggettive effettivamente sussistenti. L'interesse alla rapida definizione del giudizio di merito recede rispetto all'esigenza di risolvere la questione di diritto rimessa alla Corte di legittimità in presenza delle condizioni normativamente fissate. La parte interessata può rinunciare all'eccezione di nullità dell'atto processuale (rinvio pregiudiziale) anche tacitamente (art. 157, comma 3, c.p.c.) in presenza di comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi dell'eccezione, come è avvenuto nella specie, avendo la Banca spiegato ampia attività difensiva sulla questione posta dal giudice rimettente sia nella memoria che nella discussione orale, nel corso della quale ha infine rinunciato espressamente all'eccezione proposta di nullità e inammissibilità del rinvio. Non si intende svalutare l'importanza del contraddittorio preventivo delle parti - che deve sempre essere attivato dal giudice di merito - ai fini della verifica delle condizioni oggettive di ammissibilità del rinvio pregiudiziale, ma ammettere che il contraddittorio può realizzarsi anche nella successiva fase dinanzi alla Corte di cassazione, ove le parti possono illustrare profili di inammissibilità del rinvio non potuti illustrare nella precedente fase e per questo non valutati dal giudice rimettente, che potranno essere posti dalla Corte a sostegno della declaratoria di inammissibilità del rinvio o, qualora non condivisi, a conferma della ammissibilità già valutata dalla Prima Presidente "prima facie" se sussistono le condizioni previste dall'art. 363-bis c.p.c. In presenza di dette condizioni non v'è ragione di negare l'ammissibilità del rinvio pregiudiziale per la mancanza del contraddittorio preventivo che verrebbe a configurarsi come violazione meramente formale, inidonea a determinare una effettiva lesione del diritto di difesa o altri pregiudizi alla parte interessata. La soluzione qui condivisa è anche in sintonia con la norma di chiusura del sistema delle nullità (l'art. 162, comma 1, c.p.c: "Il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti") che, lungi dal correlare la nullità alla impossibilità giuridica di produzione di effetti dell'atto nullo, ammette al contrario la correlazione della prima con la possibilità giuridica dell'atto (nullo), al fine di favorirne il raggiungimento dello scopo, ove possibile, mediante una regola di autorettificazione del processo orientata a favorire la statuizione di merito. In conclusione sul punto, va affermato il principio secondo cui, in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., l'ordinanza di rinvio emessa dal giudice di merito senza avere sentito le parti sul proposito di investire la Corte di cassazione, in violazione del primo comma dell'art. 363-bis (il giudice "sentite le parti costituite" può disporre il rinvio), non è automaticamente nulla né rende di per sé inammissibile il rinvio, potendo il contraddittorio preventivo essere recuperato nella fase dinanzi alla Corte di cassazione con le memorie in vista della pubblica udienza e con la discussione orale dinanzi alla Corte; all'esito di tali attività l'ammissibilità del rinvio, già valutata dal Primo Presidente "prima facie", potrà avere conferma se il Collegio riterrà che sussistono le condizioni oggettive previste dalla medesima disposizione (natura esclusivamente di diritto della questione, novità e necessità della stessa ai fini della definizione del giudizio, gravi difficoltà interpretative, ripetibilità della questione in numerosi giudizi) o smentita, nel qual caso il rinvio sarà dichiarato inammissibile. 6. - Venendo ad esaminare la questione sulla quale verte il rinvio pregiudiziale, il Tribunale ha evidenziato l'esistenza di diverse interpretazioni in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione del regime di ammortamento c.d. "alla francese" nel contratto di mutuo bancario, riguardanti le modalità con cui vengono composte le singole rate di rimborso e determinati gli interessi in relazione al capitale. Secondo una prima interpretazione, non deriverebbero conseguenze di sorta né in punto di determinatezza e/o determinabilità dell'oggetto del contratto, né di rispetto della trasparenza bancaria, avendo riguardo all'art. 117, comma 4 T.u.b. che prescrive l'indicazione del tasso di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticate dalla banca. Secondo "un'altra ricostruzione ermeneutica", implicitamente condivisa dal Tribunale rimettente, la mancata indicazione del regime di ammortamento (c.d. "alla francese") inciderebbe sul contratto di mutuo in termini di validità. Si assume che sarebbe una soluzione difficilmente praticabile in concreto quella di ritenere che sia rispettato il requisito di determinatezza e/o determinabilità del suo oggetto solo perché il sistema di ammortamento sia astrattamente evincibile dalla tabella consegnata al cliente e dalle singole clausole recanti le condizioni economiche del prestito. In quest'ottica si fa leva sul principio di trasparenza bancaria e sul diritto del cliente-mutuatario di ricevere una corretta e trasparente informazione - essendo egli "contraente debole" normalmente privo del necessario bagaglio di conoscenze tecniche necessarie per comprendere il meccanismo di composizione delle rate di rimborso e la reale portata economica delle singole clausole che va a sottoscrivere -, diversamente dall'istituto di credito che, quale "bonus argentarius", ha l'obbligo di rendere edotti i clienti in modo chiaro e comprensibile di quelli che sono il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, così da mettere gli stessi in condizione di comprendere la portata giuridica e soprattutto economica delle loro determinazioni negoziali. Il metodo di ammortamento "alla francese" - che prevede la corresponsione di rate costanti di rimborso in cui la quota parte degli interessi è progressivamente decrescente e quella della sorte capitale è progressivamente crescente, essendo dapprima corrisposti prevalentemente gli interessi e poi il capitale via via residuo - può determinare, infatti, un significativo incremento del costo complessivo del denaro preso a prestito per effetto del regime "composto" di capitalizzazione degli interessi, cioè un ulteriore "prezzo" da esplicitare chiaramente nel contratto, poiché "l'interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta interessi" (ordinanza, pag. 7-8). Secondo questa ricostruzione, la mancata esplicitazione nel contratto del regime ("alla francese") di capitalizzazione degli interessi renderebbe indeterminato il tasso e ciò comporterebbe una violazione del requisito della forma adsubstantiam e, quindi, la nullità (parziale) del contratto, ai sensi degli artt. 1346, 1418, comma 2, e 117, commi 2 e 4, T.u.b.; la conseguenza proposta dal giudice remittente è l'applicazione del meccanismo sanzionatorio dei tassi sostitutivi dei buoni ordinari del tesoro, ai sensi del comma 7 dell'art. 117 citato. 7. - In sintesi, le questioni di diritto formulate dal giudice rimettente sono le seguenti: se, in presenza di un mutuo a tasso fisso con piano di ammortamento c.d. "alla francese" allegato al contratto (nella specie, interamente onorato dalla debitrice e concluso), il contratto debba contenere, a pena di nullità, anche l'esplicitazione del regime di ammortamento, cioè delle modalità di rimborso del prestito (mediante rate fisse costanti comprensive di quote capitali crescenti e di quote interessi decrescenti nel tempo) e della eventuale maggiore onerosità del suddetto piano rispetto ad altri piani di ammortamento; se, in mancanza di detta indicazione, il contratto sia affetto da nullità parziale per indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto del contratto (art. 1346 c.c.) e/o per violazione della trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra banca e clienti (art. 117 T.u.b.); quali siano le eventuali conseguenze di una simile nullità. Le regulae iuris invocate dal giudice remittente sono necessarie a definire il giudizio di merito pendente, attenendo alla possibile nullità del contratto dedotta in causa e rilevabile anche d'ufficio. 8. - Si premette che queste Sezioni Unite non sono chiamate a pronunciarsi con riferimento ai piani di ammortamento relativi ai contratti di mutuo a tasso variabile né sul tema, introdotto dalla difesa Po.Ga. nella memoria, dell'anticipata estinzione del rapporto di mutuo per scelta volontaria del mutuatario, che è estraneo ai quesiti pregiudiziali e alla materia del contendere, risultando astratto in quanto privo di rilevanza ai fini della definizione del giudizio di merito; neppure sono chiamate a pronunciarsi sul tema relativo alle eventuali conseguenze della mancata allegazione o inserzione del piano di ammortamento nel contratto. 9. - Si devono preliminarmente illustrare, nei limiti del necessario, le caratteristiche del piano di ammortamento "alla francese", definito come il "più diffuso in Italia" nelle disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 in tema di "Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari" (allegato 3). Esso è caratterizzato dal fatto che il rimborso del capitale e degli interessi avviene secondo un piano che prevede il pagamento del debito a "rate costanti" comprensive di una quota capitale (crescente) e di una quota interessi (decrescente). Il mutuatario si obbliga a pagare rate di importo sempre identico composte dagli interessi, calcolati sin da subito sull'intero capitale erogato e via via sul capitale residuo, e da frazioni di capitale quantificate in misura pari alla differenza tra l'importo concordato della rata costante e l'ammontare della quota interessi. I matematici finanziari hanno chiarito che il piano di ammortamento in questione si sviluppa a partire dal calcolo della quota interessi e deducendo per differenza la quota capitale e non viceversa. Il rimborso delle frazioni di capitale conglobate nella rata in scadenza produce l'abbattimento del capitale (debito) residuo e la riduzione del montante sul quale sono calcolati gli interessi (maturati nell'anno), determinando così la progressiva diminuzione della quota (della rata successiva) ascrivibile agli interessi e il corrispondente aumento della quota ascrivibile a capitale e così via. 10. - L'ordinanza di rinvio, dubitando della validità e trasparenza del sistema di ammortamento "alla francese", pone l'accento critico sul sistema di capitalizzazione "composto" degli interessi, in base al quale afferma che "l'interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta interessi" (pag. 8). Si afferma che "il regime di capitalizzazione "composto" implica una maggiore onerosità del costo del denaro preso a prestito... in quanto la produzione di interessi su interessi costituisce, di per sé, un maggior costo" (pag. 11) poiché "il "montante" è calcolato con una formula in cui il tempo è posto in esponente" (pag. 8), al contrario di quanto accade nel regime di capitalizzazione semplice - che si assume "fisiologico" ai sensi dell'art. 821, comma 3, c.c. (pag. 11) - nel quale detto "esponente. manca, invece." e "gli interessi non producono a loro volta interessi e si sommano semplicemente (e) progressivamente al capitale iniziale"" o "non vengono mai moltiplicati per sé stessi, al contrario di quanto accade ove vi sia la capitalizzazione "composta"" (pag. 8). In definitiva, ad avviso del Tribunale, la mancata esplicitazione del regime (semplice o composto) di capitalizzazione sarebbe causa di nullità parziale del contratto per indeterminatezza dell'oggetto, ex art. 1346 e 1418, comma 2, c.c., e per difetto di trasparenza, ex art. 117 t.u.b. (pag. 11-12). 11. - Nell'ottica dell'ordinanza di rinvio il regime di capitalizzazione assume rilievo decisivo, assumendosi che nel regime "composto" gli interessi si calcolano sugli interessi mentre nel regime "semplice" gli interessi si calcolano solo sul capitale. Invero tale impostazione non collima del tutto con quella della difesa Po.Ga. che nella memoria ha affermato che è possibile anche "il calcolo dell'ammortamento alla francese con capitalizzazione semplice", ciò innescando una questione fattuale implicante l'accertamento - che non compete a questa Corte -della tipologia di capitalizzazione applicata in concreto nel contratto di mutuo stipulato tra le parti. Ciononostante il Collegio reputa di doversi pronunciare sulle questioni poste dal Tribunale remittente, enunciando la regula iuris con riferimento ai piani di ammortamento "alla francese" standardizzati tradizionali, assumendo in questi termini le suddette questioni natura "esclusivamente di diritto", in conformità all'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. 12. - Nell'ordinanza si precisa ancora che "non si controverte in questo giudizio di violazione del divieto di anatocismo" che "non viene qui in gioco" (pag. 8, 10). In effetti, non si riscontra un effetto anatocistico vietato se si ha riguardo alla fisiologia dei rapporti di mutuo a restituzione frazionata, riferendosi il divieto ex art. 1283 c.c. (comunque superabile alle condizioni ivi previste) al momento patologico del rapporto, cioè alla pattuizione (anticipata) avente ad oggetto la produzione di interessi su interessi "scaduti" cioè non pagati alla scadenza, mentre nella specie il contratto è stato interamente onorato. Una dottrina ha ammesso l'estraneità dell'ammortamento "alla francese" alla tematica dell'anatocismo, rilevando che tale sistema non fa incrementare il montante complessivo ma - ha osservato criticamente - non permette di farlo scendere nonostante gli avvenuti pagamenti, deprivando in via istituzionale la forza restitutoria dei pagamenti. Nella motivazione del Tribunale si dà per acquisito il fatto che nei piani di ammortamento "alla francese" gli interessi (seppur non anatocistici in senso tecnico) producano comunque, a loro volta, interessi con conseguente moltiplicazione degli stessi, aspetto quest'ultimo decisivo ma sul quale il Tribunale non ha svolto alcun accertamento fattuale. Le affermazioni della parte attrice in memoria (pag. 12 e 13) - secondo cui "il capitale viene trattenuto dal finanziato in misura quantitativamente maggiore di quanto avverrebbe rispetto ad un piano che preveda un proporzionale versamento di capitale e interessi" e "per di più la imputazione dei versamenti da parte del mutuatario a capitale o a interessi avviene in modo non proporzionale" - ugualmente non spiegano dove e in che modo si anniderebbe la produzione di interessi su interessi. Al riguardo sono pertinenti le considerazioni di questa Corte secondo cui "non può ritenersi sufficientemente specifica la censura sollevata denunciando soltanto, e del tutto astrattamente, la pretesa realizzazione, mediante l'utilizzo del sistema di ammortamento cd. "alla francese", di un risultato anatocistico, senza che tale asserzione sia accompagnata da specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrare l'avvenuta concreta produzione, nella specie, di un tale risultato. Le argomentazioni del motivo, inoltre, in nessun modo si confrontano con l'ulteriore affermazione della corte distrettuale secondo cui "Va aggiunto, come evidenziato nella sentenza impugnata, che gli interessi dovuti sull'intero finanziamento vengono ripartiti nelle singole rate e sono calcolati sul capitale residuo, non ancora restituito, senza quindi che si verifichi l'addebito di interessi sugli interessi maturati, che è l'ipotesi disciplinata dall'art. 1283 cod. civ."" (Cass. n. 13144/2023). Facendo riferimento ai piani di ammortamento "alla francese" standardizzati, la questione se in un piano di ammortamento, come quello pattuito dalle parti in causa, gli interessi (non scaduti) generino ulteriori interessi è comunque ineludibile, poiché, ad avviso del Tribunale, la produzione di interessi su interessi - benché "non. vietata. sic et simpliciter" (ord. pag. 8) o, in altri termini, consentita a certe condizioni (cfr. delibera CICR del febbraio 2000) - sarebbe all'origine di un prezzo o di un costo occulto del prestito per il mutuatario, rilevante sia sul piano della determinatezza dell'oggetto del contratto sia sul piano della trasparenza bancaria. 13. - Deve escludersi che la quota di interessi in ciascuna rata sia il risultato di un calcolo che li determini sugli interessi relativi al periodo precedente o che generi a sua volta la produzione di interessi nel periodo successivo. Come osservato dalla Procura Generale, "l'ammortamento alla francese prevede che l'obbligazione per interessi sia calcolata sin da subito sull'intero capitale erogato benché quest'ultimo non sia ancora integralmente esigibile" - come accade anche in altri sistemi di ammortamento, come quello c.d. "all'italiana" in cui la quota di interessi è calcolata sin da subito sull'intero importo mutuato e non su quello residuo - "ma non prevede che sugli interessi scaduti (e, si potrebbe aggiungere, non scaduti) maturino altri interessi. Il metodo alla francese è, piuttosto, costruito in modo tale che ad ogni rata il debito per interessi si estingue a condizione ovviamente che il pagamento sia avvenuto nel termine prestabilito. È, perciò, anche solo astrattamente inipotizzabile che siffatto ammortamento sia fondato su un meccanismo che trasforma l'obbligazione per interessi. in base di calcolo di successivi ulteriori interessi". Una opposta conclusione non potrebbe argomentarsi rilevando semplicemente che nel mutuo "alla francese" la capitalizzazione avviene in regime "composto" che è una espressione descrittiva del fenomeno per cui la quota capitale è incrementata con gli interessi generati, però, non (necessariamente) su altri interessi ma sul capitale (debito) residuo, né destinati (necessariamente) a generare a loro volta (diventando parte della somma fruttifera di) ulteriori interessi nel periodo successivo (quantomeno nel regime di ammortamento "alla francese" standard e nella dinamica fisiologica del rapporto). Se ne ha conferma nella giurisprudenza di legittimità: "nessuna contraddizione ... può essere ravvisata fra l'utilizzo (da parte del giudice di merito) dell'aggettivo "composto", da intendersi come evocato in correlazione con la natura del mutuo in esame, e il successivo rilievo del fatto che la quota di interessi dovuta per ciascuna rata "è calcolata applicando il tasso convenuto solo sul capitale residuo, il che esclude l'anatocismo"" (Cass. n. 34677/2022); "la capitalizzazione composta è quindi, nel caso di specie, del tutto eterogenea rispetto all'anatocismo ed è solo un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all'altra in esecuzione del contratto concluso tra loro; è, in altre parole, una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile a un capitale dato" (Cass. n. 27823/2023 in materia fiscale); Tra gli studiosi della matematica applicata è acquisito che il regime composto è uno dei regimi finanziari più utilizzati perché permette di determinare l'equivalenza tra importi di capitale esigibili in tempi diversi, in attuazione del principio di equità finanziaria che postula la necessità di rendere omogenee grandezze o valori disomogenei perché riferiti a momenti temporali diversi, rendendo indifferente il tempo (ciò si verifica, ad esempio, nei mutui di denaro ove la remunerazione del capitale sia periodica, essendo i frutti acquisiti dal mutuante non tutti alla fine dell'operazione ma periodicamente, o quando si deve quantificare l'importo al tempo presente corrispondente alla somma dei valori attuali di tutte le rate future della rendita vitalizia in caso di riscatto, ex art. 1866 c.c.). Non potrebbe escludersi in astratto che l'operazione di finanziamento si realizzi mediante la produzione di interessi su interessi per effetto della quale il tasso effettivo risulti maggiore di quello nominale e sfugga alla rilevazione nel TAEG, ma tale evenienza sarebbe una patologia da affrontare caso per caso, nel quadro delle domande ed eccezioni delle parti, attraverso indagini contabili volte a verificare se nella singola fattispecie siano pretesi o siano stati pagati interessi superiori a quelli pattuiti (è coerente l'affermazione per cui stabilire in concreto se vi sia, o no, produzione di interessi su interessi, è questione di fatto incensurabile in sede di legittimità, cfr. Cass. n. 9237/2020, n. 8382/2022, n. 13144/2023 cit.). Pertanto, al principio che si chiede di enunciare, nel senso di dichiarare in generale la invalidità dei piani di ammortamento "alla francese", può rispondersi avendo riguardo ai piani standardizzati tradizionali, rispetto ai quali deve escludersi che si verifichi la situazione patologica poc'anzi descritta. 14. - Ci si deve confrontare con gli argomenti critici utilizzati da una parte della dottrina che contesta, in definitiva, la validità dell'ammortamento "alla francese" sotto il profilo della meritevolezza dell'interesse perseguito e della causa concreta del negozio, sebbene il controllo di meritevolezza di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. non sia previsto, invero, per i contratti tipici, qual è il mutuo bancario, e sia controversa la possibilità (cfr. in senso affermativo SU n. 22437/2018, n. 12981/2022) di introdurre un analogo controllo attraverso la verifica della rispondenza del tipo (come conformato in concreto) ai limiti imposti dalla legge, ex art. 1322, comma 1, c.c. a) Il principale argomento critico utilizzato è che tale sistema di ammortamento comporta - come riflesso ex ante della programmata imputazione dei pagamenti a interessi in misura maggiore che al capitale - che il debito da (cioè una certa quantità di) interessi diventa esigibile prima che diventi esigibile il capitale cui è correlato e per una misura superiore alla quota di capitale nel contempo divenuto esigibile, il che si assume non essere consentito dall'art. 821, comma 3, c.c. Si può tuttavia replicare osservando che lo scarto temporale tra il godimento immediato e il rimborso del capitale da parte del mutuatario non può andare a detrimento del creditore mutuante, come dimostra proprio l'art. 821, comma 3, che prevede che gli interessi "maturano giorno per giorno in ragione della durata del diritto" del creditore per il godimento del capitale di cui beneficia il debitore. Se è vero che la maturazione (o il sorgere) del credito per interessi e la sua esigibilità non coincidono poiché gli interessi maturano già al momento della consegna del bene fruttifero ma diventano esigibili alla scadenza del debito principale in cui diviene esigibile il capitale (salvo, appunto, diverso accordo tra le parti), si deve inoltre considerare che ciascuna rata comprende anche una frazione di capitale che diventa esigibile progressivamente rendendo esigibili anche gli interessi calcolati "in ragione d'anno" (art. 1284, comma 1, c.c.) e parametrati -per accordo tra le parti sancito nel contratto cui il piano è allegato - al debito (capitale) residuo, come accade anche nel sistema di ammortamento c.d. "all'italiana". Il mutuatario acquista la proprietà della somma mutuata (e il vantaggio della liquidità) ed è tenuto al pagamento degli interessi "compensativi" anche se si sia trovato, per causa di forza maggiore, nella condizione di non potere concretamente usare la somma mutuata (Cass. n. 199/1962). La natura compensativa degli interessi fa sì che essi decorrano sul capitale "anche se questo non è ancora (o non interamente) esigibile" (cfr. art. 1499 c.c.). Ciò è coerente con la onerosità del mutuo di danaro nel quale l'interesse è il corrispettivo della disponibilità per un certo periodo di tempo della somma mutuata o, più precisamente, della parte non ancora rimborsata e cioè del debito residuo ("sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia", art. 820, comma 3, c.c.). Condizionare la esigibilità degli interessi alla esigibilità dell'intero capitale, con la conseguenza che il creditore potrebbe ritrarre i frutti tutti in una volta alla fine dell'operazione, metterebbe in crisi il funzionamento della regola, coerente con l'ordinato svolgimento della vita economica e sociale, della remunerazione periodica del capitale e della conseguente esigibilità periodica degli interessi, a favore di una regola - diversa da quella negozialmente assunta -che non potrebbe essere unilateralmente imposta al creditore ex post. La regola della esigibilità periodica degli interessi - che fonda la piena libertà delle parti di concordarla - è ulteriormente dimostrata dall'accostamento nell'art 820, comma 3, c.c. degli interessi a ogni tipo di rendita e ai corrispettivi delle locazioni cioè a prestazioni con cadenza tipicamente periodica. Come rilevato in dottrina, che gli interessi possano essere esigibili anche quando maturati su un capitale non ancora (o non interamente) esigibile è, invero, confermato dall'art. 1820 c.c. che prevede che il contratto di mutuo possa essere risolto per inadempimento della obbligazione per interessi, ciò dimostrando che la scadenza degli interessi non coincide necessariamente con la scadenza del capitale. L'obbligazione degli interessi è definita come "accessoria" per indicare che il vincolo è genetico nel senso che dipende nella sua vicenda costitutiva dalla obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, si stacca dalla sua causa genetica e assume una propria autonomia. b) L'art. 1282, comma 1, c.c. ammette che il credito non esigibile possa produrre interessi in base al titolo (qui negoziale) e non varrebbe obiettare che la suddetta disposizione governa la diversa materia del risarcimento del danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria che è, invece, governata dall'art. 1224 c.c., mentre l'art. 1282 c.c. è norma generale sugli "interessi nelle obbligazioni pecuniarie". c) Non varrebbe invocare l'art. 1185, comma 2, c.c. che consente al debitore che ha pagato nell'ignoranza del fatto che l'obbligazione non era ancora esigibile di ripetere, nei limiti della perdita subita, ciò di cui il creditore si è arricchito per effetto di un pagamento "anticipato" che, tuttavia, tale non è in presenza di un rimborso rateale a scadenze fisse, cui consegue la esigibilità del credito per frazioni di capitale e per gli interessi calcolati sulla base del piano di ammortamento con il quale le parti hanno concordato la fissazione dei termini del rimborso fissati a favore di entrambe le parti (art. 1816 c.c.). d) Una smentita alla ricostruzione sin qui accolta non proviene neppure dagli artt. 1193 e 1194 c.c. che, lungi dal fondare un diritto del debitore di imputare il pagamento al capitale anziché agli interessi, pongono la regola opposta della prioritaria imputazione del pagamento agli interessi (in mancanza del consenso del creditore), cui le parti non hanno derogato, avendola confermata pattuendo un piano di rimborso che prevede l'imputazione prioritaria e prevalente dei versamenti iniziali agli interessi determinati in misura decrescente. Come rilevato dalla Procura Generale, è quindi senz'altro legittimo che gli interessi diventino convenzionalmente esigibili prima che diventi esigibile (in tutto o in parte) il capitale, potendo le parti convenzionalmente stabilire che gli interessi si versino nel corso del rapporto prima del capitale o in un'unica soluzione alla fine del rapporto contestualmente al rimborso del capitale (artt. 1815 e 1820 c.c.). 15. - Il primo profilo in cui è articolato il quesito pregiudiziale è il seguente: se l'omessa indicazione del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi e della modalità di ammortamento "alla francese" comporti la indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto e, di conseguenza, la nullità (parziale) del contratto di mutuo bancario, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c. L'indagine sulla determinatezza dell'oggetto del contratto attiene alla costruzione strutturale dell'operazione negoziale, cioè è volta a verificare che essa abbia confini ben definiti con riguardo all'an e al quantum degli interessi (non legali) che devono essere pattuiti sulla base di criteri oggettivi e insuscettibili di dare luogo a margini di incertezza, non sulla base di elementi indefiniti o rimessi alla discrezionalità di uno dei contraenti (ex plurimis, in tema di determinazione del tasso di interesse mediante rinvio agli usi o a parametri incerti, Cass. n. 28824 e 36026/2023, n. 17110/2019, n. 8028/2018, n. 25205/2014). Alla suddetta questione è agevole rispondere in senso negativo quando il contratto di mutuo contenga le indicazioni proprie del tipo legale (art. 1813 ss. c.c.), cioè la chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, della periodicità del rimborso e del tasso di interesse predeterminato. Nel piano di ammortamento allegato al contratto nel caso che ha dato luogo al rinvio pregiudiziale erano indicati anche il numero e la composizione delle rate costanti di rimborso con la ripartizione delle quote per capitale e per interessi; quindi era soddisfatta la possibilità per il mutuatario di ricavare agevolmente l'importo totale del rimborso con una semplice sommatoria. Tra l'altro, come riferito nell'ordinanza di rinvio (pag. 2), era indicato nel contratto anche il (maggior) tasso annuo effettivo globale (TAEG) ma ciò, diversamente da quanto affermato, non rivela (necessariamente) la capitalizzazione infrannuale degli interessi debitori nel significato (recepito dal Tribunale) di produzione di interessi su interessi, potendo essere il TAEG più alto del TAN perché comprensivo di spese e costi aggiuntivi, il che sarebbe del tutto fisiologico. La difesa Po.Ga. ha insistito sulla scarsa comprensibilità del piano di ammortamento con riguardo al suo effetto di rendere il prestito maggiormente oneroso rispetto ad altri piani, comprensibilità che si assume non sarebbe soddisfatta neppure dalla (eventuale e mancata) comunicazione della formula matematica applicata per lo sviluppo del piano né dalla indicazione che l'ammortamento è "alla francese". Tali considerazioni orientano l'interpretazione del quesito pregiudiziale nel senso che l'indeterminatezza dell'oggetto del contratto è dedotta come effetto della sua opacità o scarsa trasparenza per la presenza di un costo o "prezzo" occulto che avrebbe dovuto essere indicato nel contratto, ex art. 117, comma 4, T.u.b. Questa impostazione non è condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni. a) La doglianza concernente la mancata esplicitazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema "composto" di capitalizzazione degli interessi non evidenzia un problema di determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto, previsto dall'art. 117, comma 4, T.u.b. ("I contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticati"), che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un "prezzo" o costo aggiuntivo del prestito e all'applicazione del tasso sostitutivo (comma 7). b) L'indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto non va compiuta con riferimento alla convenienza del contratto e delle sue clausole che è profilo non rilevante ai fini del giudizio sulla validità del contratto con riguardo sia alla sua struttura (artt. 1325 e 1346 c.c.) e alla integrità del consenso negoziale (cfr., in tema di intermediazione finanziaria, Cass. n. 13446/2023, 18039/2012), sia al controllo di meritevolezza del contratto (cfr., in tema di leasing traslativo, Cass. SU n. 5657/2023). Pertanto la doglianza, facendo leva sulla maggiore onerosità e, quindi, sulla minore convenienza del (regime finanziario del) prestito per il mutuatario rispetto ad altri possibili piani di ammortamento (tuttavia) non concordati dalle parti (sulla natura negoziale dei suddetti piani cfr. Cass. n. 5703/2002), non è pertinente rispetto alla censura di indeterminatezza dell'oggetto del contratto. c) Il maggior carico di interessi del prestito non dipende - e comunque non è stato accertato dal giudice di merito in causa e non è una caratteristica propria dei piani di ammortamento "alla francese" standardizzati - da un fenomeno di produzione di "interessi su interessi", cioè di calcolo degli interessi sul capitale incrementato di interessi né su interessi "scaduti" (propriamente anatocistici), ma dal fatto che nel piano concordato tra le parti la restituzione del capitale è ritardata per la necessità di assicurare la rata costante (calmierata nei primi anni) in equilibrio finanziario, il che comporta la debenza di più interessi corrispettivi da parte del mutuatario a favore del mutuante per il differimento del termine per la restituzione dell'equivalente del capitale ricevuto. In mancanza di un fenomeno di produzione di interessi su interessi, la tipologia di ammortamento adottato non incide di per sé sul tasso annuo (TAN) che dev'essere (ed è stato) esplicitato nel contratto né sul tasso annuo effettivo globale (TAEG) anch'esso esplicitato. Peraltro, la giurisprudenza (cfr. Cass. n. 4597, 17187 e 34889/2023, n. 39169/2021) ritiene che il TAEG sia solo un indicatore sintetico del costo complessivo del finanziamento e non rientri nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni di cui all'art. 117, comma 4, T.u.b., sicché l'eventuale mancata previsione del TAEG non determina, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, ma solo l'erronea rappresentazione del suo costo globale, pur sempre ricavabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencate in contratto (l'obbligo di indicare l'ISC/TAEG fu esteso ai mutui nel 2003 con le "Istruzioni di vigilanza per le banche in tema di trasparenza" adottate dalla Banca d'Italia il 25 luglio 2003, attuative della delibera CICR del 4 marzo 2003; disposizioni specifiche al riguardo sono presenti nella legislazione più recente: nell'art. 121, commi 1, lett. m, e 3, T.u.b. in tema di "credito ai consumatori" e negli artt. 120-quinquies, comma 1, lett. m, e 3; 120-octies, comma 2, lett. e, e 120-decies, comma 3, T.u.b. in tema di "credito immobiliare ai consumatori"). In conclusione sul punto, deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. "alla francese" e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determinabilità dell'oggetto del contratto causandone la nullità parziale. 16. - Venendo al secondo profilo del quesito pregiudiziale, riguardante l'eventuale incidenza di tale mancanza sulla trasparenza delle condizioni contrattuali (Titolo VI del T.u.b.), il Tribunale rimettente chiede di verificare se la maggior quota di interessi complessamente dovuti in presenza di ammortamento "alla francese" rispetto a quello "all'italiana" costituisca un prezzo ulteriore e occulto che rende il tasso d'interesse effettivo maggiore di quello nominale (TAN) e del TAEG dichiarati nel contratto, di cui il cliente dovrebbe essere informato, con conseguente nullità parziale della relativa clausola contrattuale per violazione dell'art. 117, comma 4, T.u.b. Prescindendo dal caso in cui l'istituto di credito abbia espressamente pubblicizzato la concessione di finanziamenti con piani di ammortamento diversi da quello praticato (art. 117, comma 6, ultima parte, T.u.b.), che è evenienza non ricorrente della specie, la verifica è negativa. Come puntualmente osservato dalla Procura Generale, la differenza tra i due piani di ammortamento non dipende dal fatto che il tasso di interesse effettivo nel caso di ammortamento "alla francese" sia complessivamente maggiore di quello nominale, quanto piuttosto dall'essere tale effetto riconducibile alla scelta concordata del tempo e del modo del rimborso del capitale, in cui le rate iniziali prevedono interessi più elevati perché è più elevato il capitale (non ancora restituito) di cui il debitore ha beneficiato; detta differenza è, invero, ascrivibile alla circostanza che nell'ammortamento "all'italiana" si abbatte più velocemente il capitale (con pagamento di rate iniziali più alte) e, quindi, gli interessi che maturano sul capitale residuo inferiore sono inevitabilmente più bassi. Come si è detto, il maggior carico di interessi derivante dalla tipologia di ammortamento in questione non deriva da un fenomeno di moltiplicazione in senso tecnico degli interessi che non maturano su altri interessi e non si traduce in una maggiore voce di costo, prezzo o esborso da esplicitare nel contratto, non incidendo sul TAN e sul TAEG, ma costituisce il naturale effetto della scelta concordata di prevedere che il piano di rimborso si articoli nel pagamento di una rata costante (inizialmente calmierata) e non decrescente. Indicazioni in senso diverso non provengono dalla normativa primaria e secondaria vigenti ratione temporis (all'epoca di stipulazione del contratto nel 2007) e successivamente. Con riguardo alla prima, l'art. 117 T.u.b. non richiedeva e non richiede tuttora (a fortiori a pena di nullità) l'esplicitazione del regime di ammortamento nel contratto e analogamente, a livello sistematico, non la richiede la normativa più recente: in tema di "credito immobiliare ai consumatori" (art. 120-quinquies ss. e, in particolare, 120-novies T.u.b., in attuazione, con D.Lgs. n. 72 del 2016, della Direttiva 2014/17/UE) e di "credito ai consumatori" (art. 121 ss. T.u.b., in attuazione, con D.Lgs. n. 141 del 2010, della Direttiva 2008/48/CE), la quale ultima prevede (sulla falsariga dell'art. 117, comma 4) l'indicazione nel contratto, a pena di nullità, degli "interessi e (di) tutti gli altri costi, incluse le commissioni, le imposte e le altre spese, a eccezione di quelle notarili..." (art. 125-bis, comma 6, in relazione all'art. 121, comma 1, lett. e, T.u.b.), voci tra le quali non potrebbe farsi rientrare il regime di ammortamento (sulla stessa linea è la Direttiva 2023/2225/UE in tema di "credito ai consumatori" che, all'art. 21, comma 2, prevede che "il creditore mette a disposizione del consumatore, senza spese e in qualsiasi momento dell'intera durata del contratto di credito, un estratto sotto forma di tabella di ammortamento (che) indica gli importi dovuti nonché i periodi e le condizioni di pagamento di tali importi (e) contiene inoltre la ripartizione di ciascun rimborso periodico specificando l'ammortamento del capitale, gli interessi calcolati sulla base del tasso debitore e, se del caso, gli eventuali costi aggiuntivi"). Analogamente, la normativa secondaria non richiede l'indicazione del regime di ammortamento nel contratto. La delibera CICR 9 febbraio 2000 (in relazione all'art. 120, comma 2, T.u.b.), in tema di trasparenza contrattuale, non è utile alla tesi della difesa Po.Ga. che la invoca, riguardando "modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti" o la produzione di "interessi sugli interessi" come effetto eventuale della capitalizzazione (art. 6) - con conseguente incidenza sul tasso effettivo - cioè situazioni che non si verificano nel regime di ammortamento criticato (indicazioni contrastanti con la conclusione condivisa dal Collegio non si ricavano neppure dalle disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 in tema di "Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari" e dai decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, in qualità di presidente del CICR, del 3 agosto 2016 sulle "modalità e criteri per la produzione degli interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria" e del 29 settembre 2016 in tema di "disposizioni sul credito immobiliare ai consumatori"). Un piano di rimborso come quello controverso nel giudizio di merito contiene, come s'è detto, in modo dettagliato, la chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, del tasso di interesse nominale (TAN) ed effettivo (TAEG), della periodicità (numero e composizione) delle rate di rimborso con la loro ripartizione per quote di capitale e di interessi. Ciò è conforme alle menzionate disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 che impongono agli istituti di credito di fornire l'informativa precontrattuale ai clienti mediante riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi, anziché mediante ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più (l'allegato 4E delle suddette "disposizioni" contiene il "Prospetto Informativo Europeo Standardizzato" con una tabella di ammortamento che indica, appunto, le rate da corrispondere, la loro frequenza e composizione per interessi e capitale rimborsato e le spese). Risulta, in tal modo, soddisfatta la possibilità per il mutuatario di conoscere agevolmente l'importo totale del rimborso mediante una semplice sommatoria, conoscenza che egli difficilmente potrebbe avere sviluppando autonomamente una complessa formula matematica attraverso la quale il piano di ammortamento è sviluppato, una volta scelta la rata sostenibile e determinato il tasso di interesse. Una indiretta conferma proviene dalla giurisprudenza Europea che, in relazione all'art. 4, paragrafo 2, della Direttiva 1993/13/CEE, ha ritenuto che la presenza di un'equazione matematica priva degli elementi necessari a effettuare il calcolo del costo del credito (analogamente potrebbe dirsi per la presenza di una espressione indicativa del metodo "alla francese" di ammortamento) non sarebbe idonea a rendere chiara e comprensibile la clausola di un contratto di credito al consumo che non indichi il tasso di interesse effettivo (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, C-448/17). Ed allora, se il contratto "trasparente" è quello che lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto (cfr. Cass. n. 28824/2023), consentendo al consumatore di avere piena contezza delle condizioni della futura esecuzione del contratto sottoscritto, al momento della sua conclusione, e di essere in possesso di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, cit., p. 63 e 67), tale è quello di cui si discute, avendo l'istituto di credito assolto agli obblighi informativi a suo carico tramite il piano di ammortamento allegato al contratto, in base al quale al cliente è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato. Tale possibilità di raffronto tra prodotti diversi è, in definitiva, lo scopo della trasparenza (una indicazione in tal senso, a livello sistematico, proviene dall'art. 124, comma 1, T.u.b. che, in tema di "credito ai consumatori", prevede tra gli obblighi precontrattuali a carico del finanziatore o intermediario quello di dare al consumatore "le informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato"; cfr. anche l'art. 120-novies, comma 2, T.u.b. in tema di "credito immobiliare ai consumatori"). Diversamente opinando, cioè ipotizzando in astratto che tra gli obblighi comportamentali dell'istituto di credito vi sia anche quello di esplicitare nel contratto il regime di ammortamento o la modalità di capitalizzazione degli interessi, ne potrebbero discendere, semmai, in caso di violazione, eventuali conseguenze sul piano della responsabilità dell'istituto di credito e non della validità del contratto (cfr. Cass. SU n. 26724/2007). A una opposta conclusione non potrebbe pervenirsi alla luce della normativa consumeristica di derivazione comunitaria in tema di contratti conclusi tra professionista e consumatore (Direttiva 1993/13/CEE), secondo la quale le clausole redatte in modo non chiaro e comprensibile possono essere considerate vessatorie o abusive, e pertanto nulle, anche nel caso in cui riguardino la determinazione dell'oggetto del contratto o l'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, a condizione che determinino a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ex art. 34, comma 2, cod. cons. (Cass. n. 30556/2023, n. 23655/2021), essendo da escludere nella fattispecie in esame sia un deficit di chiarezza del piano di ammortamento in questione sia l'insorgenza di un significativo squilibrio dei diritti e obblighi tra le parti derivanti dal contratto. La disciplina di settore intende contemperare gli obblighi di condotta degli istituti di credito con l'esigenza di lasciare al cliente la libertà di scegliere l'istituto che gli offre un piano di rimborso più confacente alle proprie esigenze e condizioni, ma non si spinge ad esigere che gli istituti si sostituiscano a lui nella valutazione, in definitiva, della adeguatezza e convenienza dell'operazione, a differenza di quanto accade, solo in parte, in altri settori nei quali gli obblighi informativi sono configurati in termini più stringenti, anche in considerazione dei profili di rischio che ivi si manifestano. Eventuali dubbi sulla comprensione del meccanismo di funzionamento del piano allegato al contratto e dei suoi effetti potrebbero essere espressi al momento della stipulazione del contratto che è la sede in cui il cliente potrebbe esigere dall'istituto bancario ogni eventuale chiarimento al riguardo. Indicazioni contrastanti con quanto si è sinora argomentato non provengono dalla giurisprudenza Eurounitaria citata dalla difesa Po.Ga. che riguarda rapporti di credito non comparabili con un mutuo a tasso fisso cui sia allegato un piano di ammortamento com'è quello di cui si discute, nei quali il tasso è variabile e ancorato a indici individuati con rinvio a elementi incerti o aleatori (cfr. Corte di Giustizia UE, 13 luglio 2023, C-265/22; 3 marzo 2020, C-125/18 e, con riferimento a casi in cui il credito sia espresso in valuta estera con meccanismi di conversione valutaria comportanti il rischio di cambio, Corte di Giustizia, 26 gennaio 2017, C-421/14, cui si può aggiungere la sentenza 10 giugno 2021, C-609/19). Non può essere accolta l'istanza di rinvio degli atti alla Corte di Giustizia formulata, ai sensi dell'art. 267 TFUE, con riferimento agli artt. 4 e 5 della Direttiva n. 1993/13/CEE, concernenti le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, la cui corretta interpretazione, ai fini della enunciazione della regola di diritto nel caso concreto, s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi, non sollecitati dalla difesa Po.Ga. che ha richiamato precedenti giurisprudenziali riferibili a fattispecie non assimilabili a quella di cui è causa. Deve quindi darsi risposta negativa anche al secondo profilo in cui è articolato il rinvio pregiudiziale, dovendosi escludere che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. "alla francese" e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi sia causa di nullità del contratto di mutuo per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti. 17.- In conclusione, la questione sollevata dall'ordinanza di rimessione va risolta in senso adesivo alle conclusioni della Procura Generale, attraverso l'enunciazione del principio di diritto riportato nel dispositivo. 18.- Sul regolamento delle spese processuali relative alla presente fase provvederà il giudice di merito. P.Q.M. Le Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 19 luglio 2023, ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., enuncia il seguente principio di diritto: in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento "alla francese" di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti. Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Salerno che dovrà provvedere anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma il 27 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. FLORIT Francesco - Relatore Dott. NICASTRO Giuseppe - Consigliere Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Nu.Ma. nato a L il (Omissis) avverso la sentenza del 12/07/2023 della CORTE d'APP. SEZ. MINORENNI di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO FLORIT; udito il Sostituto Procuratore Generale Raffaele Gargiulo, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udita l'Avvocato Am.Gu., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Condannato dall'impugnata sentenza alla pena di giustizia per due ipotesi di truffa, l'impuntato ha presentato ricorso per cassazione fondato su cinque motivi. 2. Con i primi tre motivi, che possono essere trattati unitariamente, concernendo lo stesso punto della decisione, si deduce, nel prisma della violazione della legge penale, processuale penale e vizio di motivazione (art. 606 lett. b, c ed e, c.p.p.), l'indebita applicazione dell'art.162 ter c.p., avendo rigettato la Corte l'istanza di dichiarazione di estinzione per condotte riparatone (l'offerta di una somma a risarcimento) sulla base di un'erronea definizione del perimetro del danno da risarcire. 3. Con il quarto motivo si deduce violazione della legge penale (art.606 lett. b c.p.p.) per inosservanza dell'articolo 131 bis c.p. e violazione del principio di proporzionalità della pena. 4. Con il quinto motivo si lamenta violazione della legge processuale e vizio di motivazione (art. 606 lett. c ed e, c.p.p.) in relazione all'articolo 62 c.p., 168 bis c.p. e 192 c.p.p., per omessa, contraddittoria e manifestamente illogica motivazione del rigetto dell'istanza di messa alla prova (M.A.P.). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso va accolto in relazione ai primi tre motivi, con dichiarazione di inammissibilità in relazione agli ultimi due. 2. I primi tre motivi lamentano coralmente l'erronea applicazione dell'art. 162 ter c.p. avendo la Corte d'appello rigettato la richiesta di estinzione del reato per condotta riparatoria, avendo l'imputato offerto banco iudicis alle persone offese a titolo di risarcimento del danno una somma corrispondente a quella loro indebitamente sottratta. Non appare necessario in questa sede soffermarsi sul tema della tempestività dell'offerta risarcitoria, posto che la Corte d'appello ha riconosciuto che l'imputato era stato già rimesso in termini per l'offerta ante - dibattimento dal giudice di primo grado. Né occorre dilungarsi sulla possibilità per il giudice di pronunciarsi favorevolmente sulla istanza anche in caso di rifiuto da parte delle persone offese, non solo perché vi è espressa previsione legislativa in tal senso (art. 162 ter, 1 comma, ultima parte, c.p.) ma perché anche tale aspetto è stato espressamente menzionato e riconosciuto dalla Corte d'Appello. Ciò su cui è piuttosto necessario soffermarsi è l'errore concettuale su cui è basato il rigetto, che oltre ad articolarsi in una motivazione manifestamente illogica, integra altresì la violazione di legge puntualmente evidenziata nel ricorso difensivo. Infatti, la Corte ha respinto l'istanza avendo ritenuto che l'offerta formulata dall'imputato non assurge "all'integrale riparazione del danno subito dalle persone offese atteso che queste ultime, oltre agli importi indebitamente versati all'imputato ed oggetto dell'offerta risarcitoria, hanno comunque dovuto sostenere ulteriori esborsi per pagare l'intervento dei tecnici ufficiali delle caldaie". La prima parte del passaggio motivazionale riconosce che gli importi offerti fossero corrispondenti alle somme versate. Ciò appare corretto, poiché gli importi offerti (Euro 274,50 e Euro 500,00) corrispondono a quelli indicati nei capi di imputazione come carpiti con l'inganno alle vittime delle truffe spacciandosi per manutentore ufficiale delle caldaie che necessitavano riparazione. Al contrario, la seconda parte del ragionamento erra nel ritenere il danno composto, oltre che dalla restituzione del maltolto, che rappresentava il corrispettivo per un intervento tecnico non effettuato, anche dalla somma corrispondente all'ulteriore intervento "dei tecnici ufficiali delle caldaie", reso necessario dal difetto presente nelle caldaie, non risolto dall'intervento dell'imputato. In altre parole, come correttamente evidenziato dal difensore, l'intervento riparatore da parte "dei tecnici ufficiali delle caldaie" (per utilizzare nuovamente l'espressione che si trova in sentenza) doveva comunque essere eseguito su richiesta ed a spese delle persone offese, senza che esso potesse essere addossato all'imputato, giacché ciò si risolverebbe in una indebita locupletazione. Dall'errato inquadramento civilistico, discende l'errore applicativo della legge penale (art. 162 ter c.p.) riflessa in una motivazione manifestamente illogica, come dedotto nei primi tre motivi, che vanno accolti con conseguente annullamento della sentenza e rinvio alla Corte d'appello di Milano, Sez. Minorenni, che giudicherà in nuova composizione. 3. Gli ulteriori motivi di ricorso sono generici, con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso in parte qua. Sostanzialmente privo di argomentazione, perché articolato in forma embrionale, è il quarto motivo, che lamenta la mancata applicazione della clausola di esclusione della punibilità, senza tuttavia confrontarsi in alcuna maniera con le argomentazioni di diritto ed in fatto che innervano la decisione della Corte d'appello (pg. 7) sul punto e così condannandosi alla genericità ex art. 581 lett. d, c.p.p., in relazione all'art. 591 c.p.p.. Anche l'ultimo motivo, attinente a vizi motivazionali della decisione sulla messa alla prova, non si confronta con l'articolata motivazione fornita dalla Corte, che a pg. 7 ampiamente illustra le ragioni ostative alla ammissione del meccanismo estintivo invocato, indicando sinteticamente nella incapacità dell'imputato di adeguarsi alle prescrizioni e nella anteriore commissione di ulteriori truffe, i fattori ostativi. 4. In conclusione, per le predette ragioni, la sentenza va annullata con rinvio alla Corte di appello di Milano, Sez. Minorenni, in diversa composizione che si atterrà, nella decisione, ai principi sopra enunciati in merito alla determinazione della condotta riparatoria ex art. 162 ter c.p.. Il ricorso è inammissibile nel resto. Data la minore età dell'imputato all'epoca dei fatti, va disposto l'oscuramento delle generalità delle persone coinvolte, in caso di diffusione della decisione. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla verifica dei presupposti richiesti dall'art. 162 ter cod. pen. per l'estinzione dei reati ascritti all'imputato, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d'appello di Milano, Sez. Minorenni, in diversa composizione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Così deciso in Roma il 29 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto Dott. FELICE MANNA - Presidente - DIVISIONE Dott. LINALISA CAVALLINO - Consigliere - Dott. VINCENZO PICARO - Consigliere - Ud. 23/05/2024 – PU Dott. GIUSEPPE FORTUNATO - Consigliere - R.G.N. 27516/2018 Dott. MAURO CRISCUOLO - Rel. Consigliere - Rep. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 27516-2018 proposto da: SGARZI MASSIMO FRANCESCO, SGARZI SRL, elettivamente domiciliati in ROMA al VIALE MANZONI 26, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO RICCIARDI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIACOMO DIEGOLI, giusta procura speciale in sostituzione dei precedenti difensori; - ricorrenti - contro MANFERDINI MARIA MORENA, elettivamente domiciliata in ROMA alla VIA GREGORIO VII 474, presso lo studio dell’avvocato GUIDO Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -2- ORLANDO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA AUDINO, giusta procura in calce al controricorso; - ricorrente incidentale - avverso la sentenza n. 1239/2018 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata l’11/05/2018; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. FULVIO TRONCONE, che ha chiesto l’accoglimento del primo, sesto e settimo motivo del ricorso incidentale, il rigetto del primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri motivi del ricorso principale ed incidentale; lette le memorie delle parti; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO; Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. FULVIO TRONCONE, che ha chiesto l’accoglimento del primo, sesto e settimo motivo del ricorso incidentale, il rigetto del primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri motivi del ricorso principale ed incidentale; uditi l’avvocato Giacomo Diegoli per i ricorrenti principali, e l’avvocato Andrea Audino per la ricorrente incidentale; FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Manferdini Maria Morena conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Ferrara l’ex coniuge Massimo Francesco Sgarzi, la Sgarzi S.r.l. e la Banca di Credito Cooperativo di Cento – Crevalcore, poi divenuta Banca Centro Emilia soc. coop., chiedendo accertare la nullità ovvero la simulazione dell’atto di Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -3- costituzione dell’impresa familiare del 22 dicembre 1989, con l’annullamento del contratto di affitto di azienda concluso dal convenuto in favore della Sgarzi S.r.l.; disporsi la divisione dei beni oggetto della comunione legale dei coniugi, comprensivi dell’azienda coniugale, nonché degli utili e degli incrementi maturati sino alla divisione, e dei canoni di locazione percepiti e percipiendi per l’affitto dell’azienda, oltre le somme liquide versate sui conti correnti intestati al solo convenuto, il quale andava condannato anche ai rimborsi ex art. 192 c.c., per le somme indebitamente prelevate per finalità estranee rispetto a quelle relative alla gestione della comunione. Chiedeva altresì assegnarsi la metà dell’azienda caduta in comunione, anche per equivalente in denaro, ed in via subordinata, ove si fosse ritenuto che l’attrice era una mera collaboratrice dell’impresa familiare, che fosse disposta la divisione dei beni caduti in comunione de residuo, con la condanna del convenuto al versamento della quota di utili di sua spettanza per il lavoro prestato nell’azienda familiare, previo annullamento della rinuncia contenuta nell’atto per notar Maglione del 31 gennaio 2003. Nella resistenza dei convenuti, all’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito, preso atto che nelle more il mutuo ipotecario, a garanzia del quale erano stati offerti i beni oggetto di causa, era stato integralmente rimborsato all’istituto di credito, condannava lo Sgarzi al pagamento della somma di € 287.976,38, oltre interessi e rivalutazione, stante l’accertamento della natura comune dei beni individuati dall’attrice, e ciò in ragione della loro assegnazione in esclusiva al convenuto, trattandosi di beni caduti Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -4- in comunione de residuo a seguito dello scioglimento della comunione legale. Era però rigettata la domanda di condanna del convenuto al pagamento della quota di utili asseritamente non percetti, nonché la domanda di nullità del contratto costitutivo dell’impresa familiare e del contratto di affitto di azienda. Avverso tale sentenza proponeva appello lo Sgarzi, cui resistevano sia la Sgarzi S.r.l. che la Manferdini proponendo entrambi appello incidentale. La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 1239 dell’11 maggio 2018, ha rigettato tutti i gravami, condannando lo Sgarzi al rimborso delle spese in favore dell’ex coniuge, compensando le spese tra le altre parti. Nell’esaminare l’appello principale, la Corte distrettuale reputava che non potesse riscontrarsi la nullità dell’atto di citazione, in quanto la causa petendi andava identificata tenendo conto non solo delle richieste finali, ma anche della parte espositiva. In tal senso emergeva che la domanda attorea era finalizzata ad accertare che l’impresa commerciale del marito, il Tappeto Verde, rientrava nella comunione legale, in quanto costituita e gestita dopo il matrimonio da entrambi i coniugi, essendo stata avanzata in via subordinata la richiesta di accertare che, ove invece si fosse ritenuto che l’impresa era stata gestita dal solo marito, la medesima rientrava nella comunione de residuo ex art. 178 c.c. Una volta esclusa la gestione comune, il Tribunale aveva correttamente reputato che i beni acquistati dal convenuto, e destinati allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, erano poi ricaduti nella comunione una volta venuta meno la comunione legale, non potendo rilevare a tal fine la dichiarazione resa Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -5- dall’attrice al momento dell’acquisto, essendo necessario, sulla scorta delle previsioni normative, distinguere tra i beni destinati all’esercizio dell’attività professionale (effettivamente costituenti beni personali ex art. 179 c.c.), ed i beni destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale, che invece ricadono nella comunione de residuo ex art. 178 c.c. Né poteva attribuirsi alla dichiarazione, resa dalla Manferdini al momento dell’acquisto, il valore di rinuncia, avendo la giurisprudenza escluso tale possibilità. Passando alla valutazione dei beni, la Corte distrettuale reputava condivisibile la stima operata dal CTU, la cui metodologia di indagine appariva corretta, ed in grado di offrire il reale valore venale dei beni comuni. Dovendosi, quindi, condividere le conclusioni del giudice di primo grado, risultava corretta anche la condanna del convenuto al pagamento delle spese di lite in favore dell’attrice, attesa la sua prevalente soccombenza. In relazione all’appello incidentale della Manferdini, finalizzato a pretendere il pagamento degli utili maturati durante la collaborazione prestata nell’impresa familiare, la sentenza impugnata osservava che il rapporto di collaborazione era cessato il 31 gennaio 2003 e che l’appellante incidentale non aveva offerto la prova dell’ammontare delle somme percepite a titolo di utili, così come non aveva offerto alcuna prova circa il fatto che nessuna somma le fosse stata corrisposta dal 1989 al 2003. Né poteva ritenersi irrilevante la “liberatoria” sottoscritta dalla attrice in occasione della stipula dell’atto con il quale era venuta meno la comunione legale, in quanto nella stessa aveva dichiarato di reputarsi soddisfatta di ogni sua eventuale pretesa nascente dalla Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -6- cessata collaborazione, dichiarazione che, anche a voler ammettere che dovesse essere sottoposta alla disciplina di cui all’art. 2113 c.c., non era stata tempestivamente impugnata. In merito, infine, all’appello incidentale della Sgarzi S.r.l., la Corte d’Appello osservava che nella fattispecie trovava applicazione l’art. 92, co. 2, c.p.c., nella sua originaria formulazione, così che la compensazione poteva essere disposta anche facendo richiamo alla complessità dell’istruttoria e delle questioni giuridiche trattate, come appunto fatto dal Tribunale. 2. Sgarzi Massimo Francesco e la Sgarzi S.r.l. hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello sulla base di tre motivi. Manferdini Maria Morena ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad undici motivi. Il ricorrente principale ha resistito con controricorso al ricorso incidentale. 3. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie. 4.Preliminarmente deve essere disattesa l‘eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale per essere stato tardivamente notificato, e ciò sul presupposto che, avendo la parte in ricorso eletto il proprio domicilio digitale, la notifica avvenuta a mezzo posta del controricorso contenente ricorso incidentale, sarebbe invalida, risultando poi tardiva la successiva notifica avvenuta a mezzo pec, oltre il termine previsto dall’art. 370 c.p.c. Infatti, questa Corte ha in passato affermato che la notificazione del controricorso per cassazione, contenente ricorso incidentale, Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -7- effettuata al domicilio eletto per il giudizio di appello e non a quello eletto per il giudizio di legittimità, in violazione dell'art. 370 cod. proc. civ., è da ritenere nulla e non inesistente allorché, essendo identico il difensore della parte nel giudizio di appello e in quello di cassazione, e risultando dalla relata di notifica dell'atto d'impugnazione un collegamento tra il luogo in cui questo è stato notificato ed il luogo in cui avrebbe dovuto esserlo ai sensi degli artt. 366, 370 e 371 cod. proc. civ., sussista un collegamento tra professionista, parte ed affare, che giustifichi la valutazione per cui il difensore è in tale ipotesi normalmente messo a conoscenza dell'impugnazione; ne consegue che la suddetta nullità ben può essere sanata mediante rinnovazione della notificazione (cfr. ex multis Cass. n. 1666/2004). Attesa l’evidente assimilazione della fattispecie ora indicata a quella della notifica effettuata a mezzo posta ordinaria al domicilio fisico in luogo della notifica presso il domicilio digitale, la prima notifica, evidentemente tempestiva, in quanto avvenuta nel rispetto del termine di cui al primo comma dell’art. 370 (e precisamente in data 10 ottobre 2018, essendo stato il ricorso principale notificato il 31 luglio 2018), ove anche reputata nulla, era però suscettibile di sanatoria con efficacia ex tunc per effetto della sua rinnovazione, avvenuta con la successiva notifica avvenuta a mezzo pec (e ciò anche a voler ignorare la circostanza che la notifica era stata effettuata già in data 10 ottobre 2019 anche all’indirizzo pec di uno dei difensori dei ricorrenti principali). 5. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 e 183 c.p.c., con omessa pronuncia. Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -8- Si evidenzia che la Corte d’Appello ha confermato l’accoglimento della domanda dell’attrice di divisione dei beni asseritamente comuni, ma senza tenere conto del fatto che tale domanda era stata in realtà avanzata solo in occasione della precisazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado. Infatti, le conclusioni dell’atto di citazione, cui sostanzialmente si rifacevano quelle articolate nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., miravano alla divisione del complesso aziendale sul presupposto che lo stesso fosse caduto in comunione legale, nel mentre solo in occasione della precisazione delle conclusioni è stata formulata la richiesta di accertare che i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio dal ricorrente nonché gli incrementi dovessero essere divisi, in quanto caduti in comunione ex art. 178 c.c. La novità della domanda era stata eccepita e dedotta come motivo di appello, ma la risposta sul punto del giudice di secondo grado è stata sostanzialmente elusiva della questione posta, in quanto non è stata colta la differenza tra la richiesta di accertare la comunione sull’azienda e quella di accertare la comunione sui singoli beni aziendali. Il motivo è infondato. La sentenza impugnata, nel replicare alla deduzione dell’appellante secondo cui l’atto di citazione era affetto da nullità per difetto di specificità della causa petendi, ha ritenuto che la domanda dovesse essere interpretata, così come formulata in citazione, nel senso che contenesse già in quella veste la richiesta subordinata di appurare, una volta esclusa la natura comune della stessa impresa (per essersi al cospetto di un’impresa costituita e gestita unicamente dal marito) che fossero comuni ai sensi Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -9- dell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa (così pag. 7). Alla luce di tale specificazione deve perciò escludersi che ricorra la violazione dell’art. 112 c.p.c., quanto al motivo di appello formulato a tal proposito, avendo la sentenza evidentemente risposto alla censura formulata dall’appellante principale, reputando che non vi fosse stata alcuna extra petizione, e trovando la richiesta di divisione dei beni comuni un suo fondamento nelle conclusioni già avanzate con l’atto di citazione. Tuttavia, anche a voler diversamente opinare, ed a voler attestarsi al tenore letterale delle espressioni utilizzate in citazione e nella memoria ex art. 183 c.p.c., ove si fa richiesta di procedere alla divisione del complesso aziendale, la correttezza della soluzione cui sono pervenuti i giudici di merito appare evidente alla luce del richiamo fatto dalla stessa attrice in citazione alla previsione di cui all’art. 178 c.c. (cfr. pag. 3 del ricorso principale che riproduce le conclusioni di cui all’atto introduttivo del giudizio), che appunto, per l’ipotesi di impresa individuale di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, come appunto appurato nella fattispecie in esame, prevede che cadano in comunione de residuo i beni destinati all’esercizio dell’impresa, che coincidono con quelli per i quali è stata pronunciata la divisione. La subordinazione della richiesta poi accolta all’ipotesi in cui fosse accertato che in realtà l’impresa era gestita unicamente dal convenuto, come appunto avvenuto, rende evidente, al di là di qualche imprecisione terminologica, che la domanda de qua fosse appunto rivolta alla divisione della comunione venutasi a creare sui beni oggetto della comunione de residuo, e quindi sui beni Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -10- destinati all’esercizio dell’impresa costituita in epoca successiva al matrimonio (e ciò con modalità rispettose del principio secondo cui il coniuge non imprenditore, in caso di comunione de residuo, vanta solo un diritto di credito – Cass. S.U. n. 15889/2022 – essendo stata liquidata all’attrice solo una quota in denaro). A tali considerazioni deve poi aggiungersi che, ancorché l'azienda, quale complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, debba essere considerata come un bene distinto dai singoli elementi, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito (Cass. S.U. n. 5087/2014), evidentemente ricomprende anche tutte le componenti attraverso le quali viene ad essere esercitata l’attività di impresa, e quindi anche quei beni dei quali l’imprenditore abbia la proprietà e che, quindi, siano inseriti ed utilizzati nell’azienda vantando un titolo proprietario. In tal caso rivendicare la titolarità dell’azienda o, come in questo caso, la comproprietà della stessa implica anche che sia pretesa la titolarità dei beni nella medesima inseriti, di tal che, a fronte dell’originaria pretesa di essere riconosciuta comproprietaria dell’intero complesso aziendale, la successiva richiesta di attribuzione della comproprietà solo dei beni destinati all’esercizio dell’impresa al più si configura come una riduzione dell’originaria domanda, da reputarsi comunque ammissibile anche in sede di precisazione delle conclusioni (cfr. Cass. S.U. n. 3453/2024, a mente della quale, anche nel giudizio di appello la parte può sempre rinunciare alla domanda, o a parti di essa, anche dopo la precisazione delle conclusioni, perché la restrizione del thema decidendum, a differenza dell'estensione, è sempre permessa, in quanto il principio dispositivo, secondo cui la parte è sovrana delle Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -11- scelte difensive e delle domande poste al giudice, prevale sugli effetti che esso produce nei confronti delle altre parti, presentando il sistema idonee modalità procedurali per assicurare il pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa). 6. Rispetto all’esame degli altri motivi di ricorso principale, si impone, in base all’ordine logico delle questioni, la preventiva disamina dei motivi di ricorso incidentale. Il primo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 230 bis, 1218 e 2697 c.c., nonché dell’art. 5 del DPR n. 597/73, come sostituito dall’art. 5, co. 4, del DPR n. 917/1986, in relazione al rigetto dell’appello incidentale della Manferdini, concernente la mancata liquidazione degli utili maturati per il periodo di collaborazione prestata all’interno dell’impresa familiare. Si deduce che, pur avendo i giudici di merito ritenuto provata la collaborazione prestata dall’attrice dal 1989 al 2003, la domanda de qua è stata rigettata sul presupposto che non fosse stato adempiuto l’onere probatorio che le incombeva, e che quindi non fosse stata fornita la prova degli utili maturati né del fatto che alcuna somma le fosse stata versata dal marito. Una volta esclusa la cogestione dell’impresa costituita successivamente al matrimonio, e ritenuto che si trattasse di un’impresa familiare nella quale l’attrice aveva prestato la personale attività lavorativa, alla luce del contenuto dell’atto costitutivo dell’impresa familiare del 22 dicembre 1989, si evidenzia che in tale atto era previsto che l’utile sarebbe stato ripartito tra i due coniugi “in proporzione alla quantità e qualità del lavoro da ciascuno effettivamente apportato in modo Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -12- continuativo e prevalente a norma dell’art. 5 DPR 29/9/1973 n. 597”. Tale ultima norma è stata poi sostituita dall’art. 5, co. 4, del DPR n. 917/86 che prevede che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione annuale dell’imprenditore, possono essere imputati a ciascun familiare, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione. Dalle dichiarazioni dei redditi prodotte nel corso del giudizio di primo grado erano emersi i redditi attribuiti per la quota in genere del 49 % alla ricorrente incidentale, ed era stata quindi determinata la quota di utili non percetti tenendo proprio conto delle dichiarazioni dei redditi fatte predisporre unilateralmente da parte del convenuto. Tali dati erano poi stati verificati anche dal CTU nominato in corso di causa, che aveva effettivamente riscontrato che la quota di utili lordi spettanti alla Manferdini sulla base delle dichiarazioni fiscali prodotte in atti era pari all’importo oggetto della domanda attorea. Deve perciò reputarsi che sia stata offerta la prova degli utili prodotti dall’impresa familiare, essendo stato assolto il relativo onere probatorio, e non potendosi porre a carico della ricorrente incidentale anche la prova del fatto che tali utili non le siano stati versati. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 2730, 2733, 2734 c.c., nonché 116, 228 e 230 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’Appello ha negato che l’attrice avesse assolto all’onere probatorio circa la mancata percezione degli utili. Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -13- Si evidenzia che in sede di interrogatorio formale lo Sgarzi aveva riferito che non versava alcuna somma mensilmente alla moglie, la quale accedeva liberamente alla cassa dell’attività. Trattasi però di dichiarazione che non consente di affermare che i soldi siano stati effettivamente prelevati, come confermato dalla deposizione di altra teste che ha riferito che il contante incassato era utilizzato solo per pagare i fornitori e dietro autorizzazione dello Sgarzi. Deve, quindi, reputarsi che quest’ultimo abbia confessato di non avere versato la quota di utili spettante all’attrice. Analogamente risulta oggetto di confessione che tutti gli incassi erano gestiti dal solo Sgarzi, che era l’unico intestatario dei conti correnti sui quali le somme incassate erano riversate. Risulta di conseguenza erronea l’affermazione del giudice di appello che ha ritenuto che l’attrice non abbia fornito prova dell’assenza di versamenti in suo favore ad opera del marito. Il terzo motivo del ricorso incidentale denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., sempre in relazione al medesimo capo, in quanto la Corte d’Appello ha omesso di valutare le dichiarazioni dei redditi dalle quali emerge come all’attrice fosse riservata una quota di utili quale compenso per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, trascurando altresì le dichiarazioni confessorie rese dal convenuto, in merito agli incassi ed alla loro gestione. Il quarto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 c.p.c., per non avere i giudici di merito valutato il materiale probatorio versato in atti, e quindi le dichiarazioni dei redditi relative all’impresa, le dichiarazioni rese in Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -14- sede di interrogatorio formale dallo Sgarzi, le deposizioni testimoniali, nonché gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio. Il quinto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. per avere la sentenza offerto in parte qua una motivazione meramente apparente, essendo stato apoditticamente affermato che l’attrice non avesse assolto all’onere probatorio che le incombeva, ma senza specificare le ragioni del proprio convincimento, alla luce del compendio probatorio versato in atti. I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati. Questa Corte ha precisato che l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile. L'inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire implica che questi ultimi sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell'azienda o all'acquisto di beni (Cass. n. 24560/2015). Tuttavia, nel caso in cui il partecipante agisca per ottenere la propria quota di utili, questi ha l'onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali; sul familiare esercente l'impresa grava invece l'onere di Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -15- fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti "pro quota" a ciascun partecipante (Cass. n. 27966/2018; Cass. n. 5224/2016, che fa proprio riferimento alla predeterminazione della distribuzione, ai sensi dell'art. 9 della l. n. 576 del 1975; Cass. n. 9683/2003). Alla luce di tali principi, si palesa evidentemente erronea l’affermazione del giudice di appello che ha reputato che non fosse stata offerta la prova né dell’ammontare degli utili, né della quota spettante all’attrice né che alcuna somma le fosse stata versata. Le dichiarazioni fiscali prodotte, come evidenziato, costituiscono un elemento presuntivo dal quale poter inferire la prova sia dell’ammontare degli utili prodotti sia della misura in cui gli stessi fossero stati riservati al familiare collaboratore, così che, una volta offerta tale prova, ancorché tramite il ricorso a presunzioni semplici, era poi onere del familiare imprenditore documentare che la quota di utili spettanti al familiare non imprenditore fosse stata effettivamente corrisposta. La sentenza impugnata, peraltro in maniera sostanzialmente immotivata, ha proceduto ad un’indebita inversione dell’onere probatorio, trasferendo sulla ricorrente incidentale la prova di fatti che invece spettava alla controparte provare, tenuto conto della documentazione fiscale idonea ad ingenerare una ragionevole presunzione sia in ordine al quantum degli utili prodotti, sia in merito alla percentuale riservata alla moglie quale compenso per la collaborazione prestata. La sentenza deve pertanto essere cassata in parte qua. Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -16- 7. Il sesto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e/o errata applicazione degli artt. 1362-1371 e 2113 c.c. nella parte in cui ha affermato l’irrilevanza della “liberatoria” sottoscritta dall’attrice nell’atto per notar Maglione del 31 marzo 2003 con il quale si provvedeva allo scioglimento dell’impresa familiare. Si evidenzia che in realtà tale dichiarazione, avente il seguente tenore “La signora Maria Morena Manferdini rinuncia fin d’ora a ogni e qualsiasi diritto ad ella spettante ai sensi dell’art. 230 bis del Codice Civile, dichiarandosi soddisfatta di ogni sua eventuale pretesa nascente dalla cessata collaborazione”, costituisce una vera e propria rinuncia ai diritti spettanti in base alle previsioni di cui all’art. 230 bis c.c., non potendo quindi essere liquidata come una semplice liberatoria. Trattandosi, pertanto, di rinuncia, la medesima è sottoposta alla disciplina di cui all’art. 2113 c.c., norma che trova applicazione anche nel caso di parasubordinazione, fenomeno cui viene ricondotto anche il rapporto che si instaura all’interno dell’impresa familiare. Nella specie, l’attrice aveva impugnato detta rinuncia con la raccomandata del 4 agosto 2003, chiedendone l’annullamento ovvero l’accertamento della nullità. Il settimo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione o errata applicazione dell’art. 2969 c.c. nella parte in cui il giudice di appello ha affermato che, anche a voler ricondurre tale dichiarazione nel novero delle rinunce ex art. 2113 c.c., la sua impugnazione era stata avanzata tardivamente ai sensi del secondo comma dell’articolo de quo. Si rileva che la decadenza posta dalla norma è correlata al decorso di sei mesi dalla cessazione del rapporto, ma costituisce Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -17- oggetto di un’eccezione in senso stretto, non essendo quindi rilevabile d’ufficio dal giudice. Nella vicenda in esame, lo Sgarzi non aveva sollevato alcuna eccezione di decadenza nella comparsa di risposta, essendone quindi precluso il rilievo della tardività alla Corte d’Appello. L’ottavo motivo di ricorso incidentale lamenta la violazione e/o errata applicazione degli artt. 112 e 167 c.p.c. in quanto, in assenza di una tempestiva eccezione del convenuto circa la tardiva impugnazione della rinuncia, la Corte d’Appello ha deciso in realtà su di un’eccezione mai sollevata. Il nono motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 2113 e 2733 c.c., 115 co. 1 e 116 co. 1 c.p.c., in quanto è stata ravvisata la tardività dell’impugnazione senza tenere conto del fatto che l’attrice aveva prestato la propria attività lavorativa nell’impresa familiare fino al mese di maggio del 2003, e cioè sino a quando lo Sgarzi le richiese la restituzione delle chiavi del locale ove era svolta l’attività imprenditoriale. Tale circostanza è comprovata dalle dichiarazioni rese dal convenuto in sede di interrogatorio formale, con la conseguenza che deve escludersi la tardività dell’impugnazione. Il decimo motivo di ricorso incidentale denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., sempre in relazione alla data di cessazione dell’attività lavorativa, in quanto la Corte d’Appello non ha considerato le dichiarazioni confessorie della controparte, nonché la deposizione resa dalla sorella dell’attrice, confermative del fatto che l’attività è proseguita anche nella primavera del 2003. Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -18- L’undicesimo motivo di ricorso incidentale lamenta la violazione e/o errata applicazione dell’art. 115, co. 1, c.p.c. nella parte in cui la Corte d’Appello ha reputato che il rapporto collaborativo dell’attrice fosse cessato in coincidenza con l’atto per notar Maglione del 3 gennaio 2003, con il quale era stata sciolta l’impresa familiare, trascurando il materiale probatorio che invece permetteva di affermare che la collaborazione fosse proseguita anche successivamente e fosse durata sino al mese di maggio del 2003, rendendo quindi tempestiva l’impugnazione della rinuncia effettuata con la missiva del 4/8/2003. I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati. Rileva il Collegio che la Corte d’Appello, senza profondersi sull’esegesi della dichiarazione resa dall’attrice nell’atto del 3 gennaio 2003, ha soffermato la sua attenzione sulla intempestività della sua impugnazione. Ha, infatti, reputato che, anche a voler ricondurre la dichiarazione nel novero delle rinunce di cui all’art. 2113 c.c., era precluso l’esame della sua impugnazione stante la sua tardiva formulazione, risalendo la cessazione della collaborazione alla data in cui era stata redatta (30/01/2003). Ritiene il Collegio che sia risolutiva ai fini dell’accoglimento delle censure della ricorrente incidentale la deduzione secondo cui i giudici di merito avrebbero rilevato la tardività dell’impugnazione in assenza di una tempestiva eccezione da parte dell’attore. Ancorché esuli dal novero delle questioni sottoposte a questo giudice quella relativa alla necessità di riservare la controversia de qua alla cognizione del giudice del lavoro, la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che le controversie Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -19- aventi ad oggetto i diritti patrimoniali riconosciuti ai familiari dall'art. 230 bis c.c. appartengono alla competenza per materia del pretore in funzione di giudice del lavoro, a norma dell'art. 409, n.3, cod.proc.civ., vertendosi in tema di collaborazione tra i diversi componenti della famiglia, ed attesa la sussistenza del carattere della parasubordinazione nell'attività svolta dai medesimi (Cass. n. 5875/1997; Cass. n. 6060/1996; Cass. n. 11374/1995). Alla riconduzione del rapporto di collaborazione nel novero dei rapporti di subordinazione si riconnette poi anche l’applicazione alle eventuali rinunce dell’art. 2113 c.c., essendo stato precisato che la disciplina delle rinunzie e transazioni dettate dall'art. 2113 cod. civ., è applicabile anche ai rapporti dei lavoratori cosiddetti parasubordinati, considerati nell'art. 409, n. 3, cod. proc. civ. (Cass. n. 7111/1995; Cass. n. 7550/1987). Come ulteriore conseguenza deve poi richiamarsi il principio per cui la decadenza del lavoratore dal diritto d'impugnare una rinuncia ai sensi dell'art. 2113 cod. civ. (sostituito dall'art. 6 della legge n. 533 del 1973) costituisce oggetto di una eccezione propria - cui si applicano le preclusioni degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. - e non può essere dichiarata d'ufficio (art. 2969 cod. civ.), non concernendo una materia sottratta alla disponibilità delle parti ma solo l'osservanza di norme inderogabili poste a tutela del trattamento minimo garantito (Cass. n. 13466/2004; Cass. n. 7550/1987). In assenza di una tempestiva eccezione di decadenza formulata dal titolare dell’impresa individuale, ne consegue che il giudice di merito non poteva rilevarne la tardività, a nulla rilevando anche l’eventuale accettazione del contraddittorio, essendo quella delle Ric. 2018 n. 27516 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -20- preclusioni materia sottratta alla disponibilità delle parti (Cass. n. 24040/2019; Cass. n. 17121/2020, con specifico riferimento al regime delle eccezioni in senso stretto). Anche tali motivi devono quindi essere accolti, e la sentenza deve essere cassata nella parte in cui la attingono. 8. In ragione della cassazione della sentenza di appello, restano assorbiti il secondo ed il terzo motivo di ricorso principale che lamentano, il primo, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., quanto alla valutazione di soccombenza del ricorrente principale, ed il secondo, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., quanto alla decisione del giudice di appello di confermare la compensazione delle spese di lite nei rapporti tra l’attrice e la Sgarzi S.r.l. 9. Il giudice di rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio. PQM La Corte accoglie il ricorso incidentale, nei limiti di cui in motivazione, rigetta il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti gli altri due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e nei limiti di cui in motivazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso nella camera di consiglio del 23 maggio 2024 Il Presidente Il Consigliere Estensore Felice Manna Mauro Criscuolo

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1979 del 2020, proposto dal Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Sa. St. Da., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Cooperativa Ri. A R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce Sezione Seconda n. 1948/2019, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e della Cooperativa Ri. a r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 10 aprile 2024 il Cons. Giovanni Tulumello, viste le note di passaggio in decisione euditi in collegamento da remoto i procuratori delle parti come da verbale. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza del T.A.R. della Puglia, sezione staccata di Lecce, n. 1948/2019, sono stati respinti i ricorsi riuniti proposti dal Comune di (omissis) e dalla Cooperativa Ri. (soggetto attuatore) per l'annullamento della nota del Ministero dell'Interno-Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, Direzione centrale per i servizi civili e l'immigrazione e l'asilo datata 6 febbraio 2019, prot. n. 2186, relativa alla restituzione importo del contributo per lo svolgimento del progetto SPRAR di accoglienza per rifugiati richiedenti asilo (revocato con provvedimento n. 6925 dell'11 agosto 2016, non impugnato). L'indicata sentenza è stata impugnata on ricorso in appello dal Comune di (omissis). Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'Interno e la Cooperativa Ri.. Il ricorso è stato trattenuto in decisione all'udienza straordinaria del 10 aprile 2024. 2. Come accennato, la sentenza gravata ha respinto i ricorsi riuniti proposti dal Comune di (omissis) e dalla Cooperativa Ri. (soggetto attuatore) per l'annullamento della nota del Ministero dell'Interno-Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, Direzione centrale per i servizi civili e l'immigrazione e l'asilo datata 6 febbraio 2019, prot. n. 2186, relativa alla restituzione importo del contributo per lo svolgimento del progetto SPRAR di accoglienza per rifugiati richiedenti asilo (revocato con provvedimento n. 6925 dell'11 agosto 2016, non impugnato). Dopo la revoca, il Comune veniva ammesso ad un nuovo progetto (per il triennio 2017/20), e contesta che il recupero delle somme relative al progetto - revocato - 2014/16 fosse disposto anche "mediante trattenuta sulle somme da erogare in relazione al progetto cat. DM/DS finanziato a decorrere dall'1.7.2017". 3. Il T.A.R. ha respinto il ricorso proposto contro il provvedimento ministeriale osservando che "Il provvedimento non incideva sul progetto 2017-2020, che per il Ministero rimaneva regolarmente in essere. Il progetto afferente al nuovo triennio era interessato dalla nota solo con riferimento al credito che esso generava in capo al Comune, del quale si prevedeva la compensazione con il debito scaturente dall'obbligo di restituzione delle somme non rendicontate per il triennio precedente. La compensazione costituisce, nel sistema giuridico, modalità ordinaria di estinzione dell'obbligazione, in presenza di crediti reciproci che siano certi (nell'esistenza), liquidi (nell'ammontare) ed esigibili (non sottoposti a termine o a condizione)". La sentenza ha anche respinto il ricorso proposto dalla Cooperativa Ri. contro la nota comunale n. 1264/2019 con cui "il Comune, preso atto della compensazione applicata dal Ministero, chiedeva all'ente centrale di "disporre l'immediata chiusura del progetto Cat. DM/DS in considerazione anche della particolare vulnerabilità dei beneficiari interessati, di disporre il trasferimento degli stessi presso altre strutture analoghe entro la fine del mese di febbraio". Il Comune di (omissis) esprimeva in tal modo la volontà di revocare la disponibilità all'attuazione del progetto SPRAR ammesso a finanziamento". Ha infine respinto il ricorso proposto contro "la nota ministeriale del 15 febbraio 2019. Con tale comunicazione il Ministero, in conseguenza di quanto stabilito dal Comune nella propria nota del 6 febbraio, invitava l'Ente civico, "tenuto conto della volontà di non proseguire nella gestione delle attività finanziate", ad "assumere contatti con il Servizio Centrale (...) per definire le modalità di trasferimento/uscita degli ospiti in accoglienza", oltre che a definire la rendicontazione dell'attività nel frattempo svolta dal soggetto attuatore". 4. Il Comune impugna unicamente il primo capo di sentenza: dalla fondatezza dei motivi relativi a tale capo fa discendere l'erroneità della terza statuizione del T.A.R. È fuori dalla materia del contendere la pretesa della Cooperativa Ri., interessata al secondo capo della sentenza del T.A.R., in corso di giudizio soddisfattasi in sede civile (come chiarito anche mediante deposito della relativa sentenza). 5. Tanto premesso, la principale censura è quella con cui il Comune appellante deduce che "l'affermazione del primo Giudice circa la sicura applicabilità del medesimo istituto alla fattispecie all'esame - in quanto modalità ordinaria di estinzione dell'obbligazione in presenza di crediti reciproci - è destituita di fondamento ove riguardata alla luce di tutta una serie di indici giuridici. In primo luogo si osserva che la statuizione impugnata, che riconduce la disposta trattenuta delle somme alla fattispecie della compensazione di cui all'art. 1341 c.c. - come tale, in quanto istituto di diritto comune, ritenuto applicabile anche all'ipotesi in questione - appare erronea ed incondivisibile nella misura in cui, considerando il Ministero e il Comune sovvenzionato alla stregua di due soggetti privati, oblitera e comunque ignora il procedimento amministrativo sottostante e le finalità tipiche attribuitegli dalla normativa di riferimento. In questa prospettiva appare evidente che se il Comune consegue la concessione delle risorse di cui si tratta per il perseguimento di un interesse pubblico predeterminato dal Legislatore - con la conseguente destinazione di scopo impressa alle medesime - la posizione del Ministero non può ritenersi riconducibile a quella di un soggetto che eroghi un mutuo e che sia indifferente alla destinazione attribuita alle relative risorse, avendo cura soltanto di pretendere la restituzione delle somme alla scadenza del termine prefissato. E ciò in quanto tanto il Ministero, quanto il Comune ricorrente, non agiscono, nella presente vicenda, iure privatorum, né tanto meno fanno valere crediti di natura commerciale". 6. Tale censura, ad avviso del Collegio, è fondata. Nel caso di specie non si è di fronte a due obbligazioni, portate da due soggetti privati, ma di due esborsi costituenti la provvista finanziaria di altrettante attività amministrative: che, se non corrisposti, portano alla paralisi delle relative funzioni. Sui limiti alla compensazione fra amministrazioni pubbliche occorre richiamate i princì pi sanciti dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n. 7026/2005: "osserva in via preliminare il Collegio che i principi di integrità ed unicità del bilancio - espressi sia nella legge e nel regolamento di contabilità generale dello Stato che nel T.U.E.L. - impongono di iscrivere entrate e spese nel bilancio statale e degli enti locali in maniera integrale, cioè senza riduzioni di sorta, il che esclude (salvo diversa previsione normativa) la possibilità di reciproca compensazione dei debiti a norma degli artt. 1241 e segg. Cod. civ". Nel caso di specie la compensazione operata ha interrotto l'esercizio di un'attività amministrativa stabilita da un provvedimento, ed ha dunque impedito la cura del relativo interesse pubblico. 7. La fondatezza del motivo appena esaminato ha carattere assorbente, e come tale conduce alla riforma della sentenza gravata nel senso dell'accoglimento del ricorso di primo grado e del conseguente annullamento del provvedimento con esso impugnato, nella parte in cui ha previsto che la restituzione del contributo oggetto della precedente revoca (non impugnata) fosse disposta "mediante trattenuta sulle somme da erogare in relazione al progetto cat. DM/DS finanziato a decorrere dall'1.7.2017". Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate, in ragione della peculiarità della fattispecie. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza gravata, accoglie il ricorso di primo grado proposto dal Comune di (omissis) ed annulla il provvedimento con esso impugnato, nei sensi di cui in motivazione. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1702 del 2021, proposto da Au. Po. Sa. (C.A.) Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Au. Zi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione - Salerno, sez. I, n. 740/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e udito per la parte appellante l'avvocato Zi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale della Campania - sezione staccata di Salerno ha respinto il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo proposto dalla cooperativa C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa. (d'ora innanzi anche C.A.) contro il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per l'annullamento del decreto ingiuntivo del T.A.R. Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione Prima, n. 1260/2015 del 20/11/2015, recante intimazione alla C.A. di pagamento, in favore del Ministero, della somma di euro 192.445,37, oltre interessi, a far data dalla messa in mora, e fino al soddisfo, nonché delle spese e dei compensi della procedura, liquidati in complessivi euro 750,00, oltre accessori di legge. 1.1. Nella sentenza è premesso che: - la presente controversia rinviene la sua scaturigine nei decreti legge emessi tra il 1990 e 1995 con cui lo Stato italiano riconobbe, con distinti provvedimenti normativi, alle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto di terzi, per gli esercizi fiscali 1992-1993-1993, un credito d'imposta da fare valere ai fini del pagamento dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, dell'imposta locale sui redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché in sede di versamento delle ritenute alla fonte operate dai sostituti d'imposta, sulle retribuzioni dei dipendenti e sui compensi da lavoro autonomo; - successivamente in esecuzione delle decisioni della Commissione delle Comunità europee n. 93/496/CEE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, e delle sentenze della Corte di Giustizia Europea del 29 gennaio 1998 e del 19 maggio 1999, che avevano dichiarato l'illegittimità degli aiuti di Stato concessi sotto forma di credito di imposta agli autotrasportatori negli anni 1992-1993-1994, lo Stato italiano era stato condannato a recuperare gli importi illegittimamente erogati; - nell'anno 2000 la Commissione europea, pertanto, aveva attivato nei confronti dello Stato la procedura di infrazione ex art. 228 TCE a causa della mancata esecuzione della sentenza della Corte di giustizia del 29 gennaio1998, non avendo proceduto al recupero degli aiuti illegittimamente concessi; - per evitare la procedura di infrazione, nell'anno 2002, sentite anche le associazioni di categoria dell'autotrasporto, allo scopo di dare esecuzione alle pronunce richiamate, era stato emanato il decreto legge 20 marzo 2002, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, recante "Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto", con cui erano state dettate le modalità per il recupero delle somme già destinate agli autotrasportatori sotto forma del riconoscimento di un credito di imposta per gli anni 1992,1993 e 1994; - in applicazione delle suddette disposizioni, il Ministero dei Trasporti, con nota del 23/03/2007 (ricevuta in data 06/04/2007) prot. n. 0028659, aveva richiesto alla società ricorrente la restituzione del credito d'imposta relativo al triennio 1992-1993-1994, per l'importo complessivamente determinato in Euro 192.445,37; - successivamente, nell'anno 2013, il Ministero dei Trasporti aveva proposto domanda monitoria innanzi al Tribunale Ordinario di Salerno iscritta al n. 1204/2013 R.G. ottenendo l'emissione del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 0973/2013, ritualmente opposto dalla odierna ricorrente; - all'esito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il Tribunale Ordinario di Salerno aveva pronunciato, in data 28/02/2014, la sentenza n. 0723/2014, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione e revocando l'opposto decreto ingiuntivo; - il Ministero, allora, aveva ottenuto dal T.A.R. il decreto ingiuntivo n. 1260/2015 con cui era stato intimato alla odierna ricorrente il pagamento della somma di Euro 192.445,37 oltre interessi a far data dalla messa in mora, nonché le spese di procedura liquidate in complessivi Euro 750,00 oltre accessori di legge. 1.2. Avverso il predetto decreto ingiuntivo, la C.A. ha proposto ricorso in opposizione notificato al Ministero resistente in data 19/02/2016 e depositato in data 03/02/2016, con cui ha eccepito: 1) in via pregiudiziale: Inefficacia del decreto n. 1260/2015 per violazione degli artt. 643 comma 2 e 644 c.p.c.; 2) in via pregiudiziale: Inammissibilità del ricorso per decreto ingiuntivo avanti il T.A.R. per formazione del giudicato e acquiescenza del Ministero alla sentenza declinatoria di giurisdizione con indicazione del giudice tributario, come quello dotato di potestas iudicandi; 3) in via pregiudiziale: Nullità e/o illegittimità del decreto ingiuntivo n. 1260/2015 per difetto di giurisdizione del giudice adito per non appartenere la presente controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo; prevalenza del richiamo alla natura tributaria del credito sulla configurazione dell'attività di recupero dell'aiuto di Stato; 4) Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato; 5) Estinzione del credito per decadenza e/o prescrizione ex art. 57 D.p.r.633/1972 e/o 43 D.p.r. 600/1973 e degli artt. 17 e 25 D.p.r. 602/1973; 6) Nel merito: Infondatezza del credito ingiunto; 7) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa. Difetto assoluto della esistenza del diritto. Assoluta carenza di prova dell'esistenza del diritto; 8) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per violazione dell'art. 633, comma 1, n. 1 c.p.c. Assoluto difetto dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito. Carenza di prova scritta; 9) Profili di illegittimità costituzionale del D.L. 36/2002 conv. nella legge n. 96/2002 per contrasto con il parametro di cui all'art. 3 Cost.; 10) Illegittimità del Regolamento CE n. 1998/06. 1.3. Il tribunale - dato atto della resistenza del Ministero e dell'attività istruttoria svolta dal collegio mediante ordine rivolto al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di esibire, ai sensi dell'art. 63, comma 2, c.p.a. e dell'art. 210 c.p.c., la documentazione comprovante l'avvenuta erogazione in favore della opponente del contestato aiuto di Stato che si intendeva recuperare e, di conseguenza, la titolarità del diritto di credito azionato nonché ogni altro atto e dato utile ai fini della determinazione del relativo quantum - ha, in limine, disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall'opponente, ritenendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non vincolante la sentenza con cui il Tribunale di Salerno, in data 28.2.2014 (erroneamente indicata come 2.8.2014), aveva declinato la giurisdizione in favore del giudice tributario. 1.3.1. Ha quindi respinto l'eccezione di inefficacia del decreto per omessa notifica del ricorso, ritenendo che, ai sensi degli artt. 643 e 644 c.p.c., l'omessa allegazione del ricorso non potesse comportare l'inefficacia del decreto che era stato ritualmente notificato. 1.4. Nel merito, dopo avere ricostruito la disciplina degli aiuti di Stato, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria e da quella interna, il tribunale ha respinto tutti i restanti motivi di opposizione a decreto ingiuntivo ed ha reputato non sussistenti "margini per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di costituzionalità per contrasto del D.l. 36/2002 con gli artt. 3 e 41 della Costituzione". Ancora, ha disatteso la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato CE, relativamente al Regolamento CE n. 1998/2006, come interpretato e richiamato dall'amministrazione. 1.5. Respinto perciò il ricorso in opposizione proposto dalla C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa., il T.a.r. ha confermato il decreto ingiuntivo emesso nei confronti di quest'ultima su richiesta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 1.5.1. Le spese processuali sono state compensate per giusti motivi. 2. La C.A. ha proposto appello con quattro motivi. 2.1. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha depositato atto di costituzione di mera forma. 2.2. All'udienza dell'8 marzo 2024 la causa è stata discussa e assegnata a sentenza, previo deposito di memoria dell'appellante. 3. Col primo motivo la Cooperativa appellante si duole del mancato accoglimento dell'eccezione di rito, concernente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. 3.1. Si critica la sentenza di primo grado che, a fondamento della ritenuta giurisdizione esclusiva, ha posto l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 e ha disatteso la statuizione della sentenza del Tribunale di Salerno del 28 febbraio 2014 di indicazione del giudice tributario, come giudice fornito di giurisdizione. 3.1.1. Quanto alla richiamata disposizione, che, intervenendo sull'art. 133 del codice del processo amministrativo, vi ha aggiunto la lettera z-sexies, l'appellante sostiene che -in base a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5-6 luglio 2004, n. 204 e dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 29 gennaio 2014, n. 6 - la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussisterebbe soltanto laddove vi sia una correlazione ovvero un intreccio tra diritti dei singoli e interessi pubblici, tale da giustificare ex art. 103 Cost., l'eccezione alla giurisdizione ordinaria sui diritti soggettivi; nel caso di specie, sarebbero in rilievo soltanto diritti soggettivi, atteso che la p.a. ha il compito di procedere al recupero degli aiuti di Stato, senza effettuare alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid e il quomodo dell'erogazione, con esclusione dell'esercizio di un potere amministrativo. La conseguenza sarebbe l'operatività dei "normali" criteri di riparto della giurisdizione, fondati sulla natura delle situazioni soggettive azionate. Aggiunge l'appellante che in materia di aiuti di Stato vi sarebbe un indirizzo giurisprudenziale diffuso secondo cui quando il recupero dei contributi discende in modo diretto e automatico dall'accertamento di presupposti vincolanti si sarebbe in presenza di posizioni di diritto soggettivo, sottratte alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, IV, 29 dicembre 2006, n. 8225 e id., III, 8 settembre 2015, n. 4192, citate nel ricorso in appello). Viene poi citata la sentenza del Tribunale civile di Roma n. 20770/2012 del 26/31 ottobre 2012, che ha ritenuto devoluto alla giurisdizione del giudice tributario il recupero degli aiuti di Stato erogati sotto forma di crediti di imposta, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato all'art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001. 3.1.2. L'appellante evidenzia che i principi espressi in tale ultimo precedente di merito (il quale peraltro richiama la sentenza n. 9841/2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) sono stati condivisi, in riferimento al caso di specie, dal Tribunale ordinario di Salerno che, con la sentenza 28 febbraio 2014, n. 723, nel pronunciare il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice tributario, relativamente al primo dei decreti ingiuntivi emessi su richiesta del M.I.T. nei confronti della C.A., aveva valorizzato la natura tributaria dell'aiuto di Stato, erogato mediante credito d'imposta, fruibile quindi esclusivamente nell'ambito del rapporto tributario e rientrante nell'area delle "agevolazioni" i cui provvedimenti di revoca o di diniego possono essere impugnati dinanzi al giudice tributario ai sensi della lettera h) dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992. 3.2. Il motivo è infondato. L'art. 49, comma 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, così come modificato dall'art. 35, comma 3, della legge 7 luglio 2016, n. 122, ha aggiunto, all'art. 133 c.p.a. la seguente disposizione, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: "z sexies) le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era "all'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999"), a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Trattandosi di norma processuale - in mancanza di una disposizione transitoria nella legge n. 234 del 2012 - essa, in base al principio tempus regit actum, è applicabile a tutte le controversie introdotte dopo la sua entrata in vigore. Poiché non è in contestazione che la presente controversia riguardi un decreto ingiuntivo richiesto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato e poiché il decreto ingiuntivo opposto è stato richiesto e ottenuto dopo l'introduzione della modifica del codice del processo amministrativo, trova applicazione l'art. 133, lett. z sexies c.p.a. 3.2.1. L'appellante non contesta l'applicabilità ratione temporis di tale disposizione, ma sembra sostenere che, malgrado la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la disposizione sarebbe derogata dalla natura di diritto soggettivo della posizione della società ricorrente dedotta in giudizio, poiché la controversia non concernerebbe l'esercizio di un potere amministrativo. L'assunto è infondato. Va condivisa la tradizionale impostazione secondo cui, in tema di aiuti di Stato, la situazione soggettiva dei beneficiari è di interesse legittimo quando l'erogazione dei contributi comporti valutazioni ed apprezzamenti discrezionali, mentre è di diritto soggettivo quando le disposizioni comunitarie e nazionali determinano in modo diretto ed automatico obbligazioni di diritto pubblico. Tuttavia nel caso di specie, in cui l'aiuto di Stato è consistito in crediti d'imposta utilizzabili in presenza di presupposti vincolanti ed in cui è in contestazione l'obbligazione di restituzione del beneficio già accordato, la controversia ha ad oggetto di diritti soggettivi di natura patrimoniale. Tuttavia, proprio in ragione delle incertezze in tema di individuazione del giudice avente giurisdizione derivanti in concreto dalla possibile varietà delle forme di erogazione dell'aiuto di Stato e dalla diversità dei soggetti concedenti, l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 ha previsto la giurisdizione esclusiva come incondizionata, precisando che la devoluzione al giudice amministrativo opera "a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Inoltre, l'art. 50 della stessa legge ha stabilito che "I provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea possono essere impugnati davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio". In definitiva si tratta di una materia "particolare", ai sensi dell'art. 103 della Costituzione, indicata come devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo da apposita legge, della cui tenuta costituzionale non pare legittimo dubitare (cfr. in tale senso, anche Cass. S.U., ord., 13 dicembre 2016 n. 25516). Alla norma in commento non si attagliano le censure che hanno portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa oggetto della sentenza della Corte Costituzionale 5-6 luglio 2004, n. 204: questa decisione è da ritenersi impropriamente richiamata dall'appellante. Peraltro, nell'atto di appello non è esplicitata alcuna questione di illegittimità costituzionale, malgrado la stessa sia stata specificamente affrontata ed esclusa dalla sentenza di primo grado (nella cui condivisibile motivazione è detto, a proposito dell'art. 49 della legge n. 234/2012, che "La varietà delle forme di aiuto e l'intreccio di norme, di ordinamenti, di amministrazioni e di situazioni giuridiche concrete, spiega, in termini costituzionali (art. 103 Cost.), la scelta da parte del legislatore della attribuzione della giurisdizione esclusiva ad un giudice unico delimitando, d'altro canto, alcuni confini di tale giurisdizione, operando quest'ultima entro un ambito preciso poiché gli atti ed i provvedimenti nazionali di recupero sono adottati, per definizione dell'art. 48 e dell'art. 49 l. 234/2012, "in esecuzione" di una decisione di recupero della Commissione europea."). Non è pertinente nemmeno il richiamo da parte dell'appellante della sentenza dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato del 29 gennaio 2014, n. 6 poiché tale decisione atteneva al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche per le quali non vi è un'apposita previsione di giurisdizione esclusiva. Le altre sentenze richiamate dall'appellante riguardanti il riparto di giurisdizione in materia di recupero degli aiuti di Stato, comprese quelle che hanno ritenuto la giurisdizione del giudice tributario (cfr. Cass. S.U. 5 maggio 2011, n. 9841), attengono tutte a controversie instaurate prima dell'entrata in vigore dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012 (mentre non è rilevante il precedente di questo Consiglio di Stato, III, 8 settembre 2015, n. 4192 poiché non concernente il recupero di aiuti di Stato, ma la concessione di aiuti comunitari). 3.2.2. La sentenza del Tribunale civile di Salerno del 28 febbraio 2014, n. 723, indicando come giudice avente giurisdizione il giudice tributario, si è basata sulla giurisprudenza non più attuale, senza tenere conto della norma sopravvenuta dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012. Comunque il Tribunale di Salerno si è pronunciato in merito ad un decreto ingiuntivo, pur riguardante il medesimo credito di recupero di aiuti di Stato, diverso dal decreto ingiuntivo oggetto del presente giudizio di opposizione, in quanto il Ministero, dopo la declinatoria di giurisdizione, ha avanzato un nuovo ricorso per decreto ingiuntivo al giudice amministrativo, avente la giurisdizione esclusiva. Giova precisare, riguardo alla detta sentenza del Tribunale di Salerno, che non è stata riproposta in appello l'eccezione di giudicato sollevata come motivo di ricorso in primo grado, né è stato censurato il rigetto del T.a.r., che (in linea con la giurisprudenza di legittimità di cui a Cass. S.U. 2 marzo 2018, n. 4997 e altre) ha escluso la portata vincolante delle sentenze del giudice di merito che declinano la giurisdizione senza decidere nel merito e ha precisato che, anche quando la pronuncia sulla giurisdizione si coniughi con una di merito, l'efficacia di giudicato presuppone l'identità, non solo soggettiva, ma anche oggettiva di cause; evenienza, quest'ultima da escludere per quanto detto sulla diversità dei decreti ingiuntivi opposti. 3.3. Il primo motivo di appello va quindi respinto. 4. Prima di trattare dell'eccezione di prescrizione, di cui al secondo motivo, conviene, per comodità espositiva, dire dei motivi terzo e quarto di appello, da trattare congiuntamente perché connessi. 4.1. Col terzo motivo, l'appellante denuncia violazione e falsa applicazione del d.l. 20 marzo 2002, n. 36 ed eccesso di potere e carenza di istruttoria per aver omesso il Ministero di compiere le necessarie e adeguate attività di verifica preordinate all'accertamento del credito d'imposta oggetto di recupero. Richiamato il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. VI, 29 gennaio 1998 (punti 18-21) in tema di accertamenti da effettuarsi presso le singole imprese destinatarie degli aiuti e di effettiva possibilità per lo Stato italiano di recuperare il credito di imposta utilizzato, l'appellante sostiene che l'attività istruttoria poi compiuta dal Ministero non solo non appare conforme all'istruttoria prevista ex lege, ma neppure proverebbe e dimostrerebbe in maniera irrefutabile che la Cooperativa ricorrente abbia effettivamente utilizzato - e in quale misura - nel periodo 1992-1994 il credito d'imposta oggetto di recupero. Il Ministero si sarebbe limitato ad accertare soltanto il possesso da parte della ricorrente di un certo numero di mezzi per l'esercizio dell'attività di autotrasporto, pervenendo, fra l'altro, anche a tale riguardo, a conclusioni inattendibili. In particolare, ad onta di quanto dichiarato nelle informative fornite alla Commissione, nell'operato e nelle produzioni ministeriali non vi sarebbe traccia del coinvolgimento degli uffici competenti (centri di servizio, uffici delle imposte dirette, uffici IVA) e tanto meno della complessiva attività ricostruttiva e di verifica del credito d'imposta effettivamente utilizzato, come confermato dalla scarna e non intellegibile documentazione offerta ex adverso in comunicazione. 4.1.1. Con riferimento al d.l. 20 marzo 2002, n. 36, convertito dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, emanato a distanza di anni dalle decisioni della Corte di Giustizia imponenti l'obbligo di recupero, l'appellante sostiene che il Ministero ha adottato il provvedimento amministrativo di quantificazione del credito d'imposta da restituirsi da parte della C.A. a conclusione di un accertamento difforme da quanto previsto dalla normativa speciale, svoltosi in sede istruttoria con gravi lacune, con evidenti incongruenze e incompletezza dei dati tecnici relativi alla posizione fiscale della ricorrente, necessari a supporto dell'atto amministrativo adottato e dei relativi conteggi. Dopo aver premesso che l'onere della prova incomberebbe, nel caso di specie, sull'amministrazione procedente, la Cooperativa osserva che, comunque, dato il decorso del termine di cui all'art. 2220 cod. civ. relativo all'obbligo di tenuta delle scritture contabili, l'impresa non era in condizioni di ricostruire il proprio storico contabile e fiscale, per gli anni 1992-1994, senza peraltro che nel caso di specie si possa richiamare in senso contrario l'art. 22, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sulla conservazione oltre il termine delle scritture contabili in caso di avvio di un procedimento di verifica, in quanto quest'ultimo non era stato medio tempore instaurato. Quindi, ad avviso dell'appellante, non sarebbero più accertabili né esisterebbero evidenze né dell'effettivo numero degli automezzi di proprietà dell'impresa oggetto di accertamento, né dell'effettivo periodo di possesso, né dei corrispondenti crediti d'imposta, né delle dichiarazioni dei redditi di quegli anni. 4.1.2. In conclusione, i provvedimenti amministrativi che hanno determinato il credito d'imposta oggetto di recupero sarebbero affetti da carenza istruttoria e motivazionale relativamente al credito d'imposta concretamente fruito. 4.2. Col quarto motivo si critica la sentenza nella parte in cui ha ritenuto assolto da parte del Ministero dei Trasporti l'onere probatorio circa l'effettiva percezione da parte di C.A. dell'aiuto di Stato illegittimo, nonché circa il quantum effettivamente fruito a titolo di "bonus fiscale". Secondo l'appellante il credito d'imposta utilizzato sarebbe stato considerato dal T.a.r. solo in via presuntiva superiore all'importo de minimis di cui all'art. 3 del Regolamento Europeo n. 1407/2013 (fissato in Euro 100.000 nell'arco di tre esercizi finanziari), pur in assenza di idonea documentazione a supporto. 4.2.1. Ancora, ad avviso dell'appellante, la sentenza sarebbe contraddittoria perché, dopo aver ritenuto onerata della prova di non aver fruito del credito d'imposta la Cooperativa, ha poi genericamente affermato che il Ministero aveva compiutamente assolto all'onere della prova con la produzione dei documenti di cui all'ordinanza n. 1005/2018. Dopo aver ribadito che l'onere della prova della fruizione del beneficio spettava al Ministero, l'appellante contesta che la documentazione prodotta nel corso del giudizio consentisse di ritenere provata l'effettiva fruizione del beneficio fiscale, così come dell'importo ingiunto col d.i. opposto, per le ragioni illustrate in ricorso. Prosegue, quindi, escludendo che si possa configurare un'inversione dell'onere della prova in capo a C.A., per i motivi pure illustrati in ricorso. Conclude ribadendo le eccezioni formulate ab initio in punto di infondatezza del credito azionato, mancante dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità in violazione dell'art. 633, comma 1, c.p.c., e tale rimasto anche all'esito della fase a contraddittorio pieno. 4.3. I motivi - che si completano con ulteriori rilievi concernenti l'uso asseritamente illegittimo da parte del Ministero delle prerogative riconosciutegli dalla normativa speciale del d.l. n. 36 del 2002 - sono infondati. 4.3.1. In punto di fatto va premesso che, a seguito delle decisioni della Commissione delle Comunità Europee e delle successive sentenze della Corte di Giustizia (su cui si tornerà ), e dell'apertura della procedura d'infrazione attivata nel 2002 ai sensi dell'art. 228 TCE, è stato emanato il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto), convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, col quale sono stati individuati criteri e modalità per effettuare il recupero delle somme indebitamente erogate agli autotrasportatori. Il compito è stato affidato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che - tenuto conto che, per effetto delle disposizioni legislative richiamate all'art. 1, il credito fiscale era stato istituito in favore delle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto terzi iscritte all'Albo nazionale di cui alla legge 6 giugno 1974, n. 298 e s.m.i. ed era stato commisurato al numero degli automezzi utilizzati nella loro attività caratteristica (con importo stabilito in percentuale rispetto al costo effettivo dei carburanti e lubrificanti, al netto di IVA, e con l'individuazione di limiti massimi per ciascuna delle quattro categorie in cui erano stati ripartiti i veicoli) - doveva individuare i soggetti beneficiari e gli importi da restituire, inserendoli in un apposito elenco, secondo modalità tecniche da stabilirsi con decreto dirigenziale. Il Ministero doveva quindi comunicare agli interessati l'inserimento nell'elenco, per eventuali osservazioni, e successivamente comunicare le modalità di pagamento degli importi determinati; in mancanza del pagamento, era prevista la richiesta ministeriale dell'emissione del decreto ingiuntivo. 4.3.1. Risulta dagli atti depositati in primo grado dall'Avvocatura distrettuale dello Stato che gli elenchi sono stati formati utilizzando gli elementi desumibili dalla banca dati del Ministero dei Trasporti quanto all'individuazione dei soggetti passivi dell'attività di recupero e del numero di veicoli da ciascuno dei posseduti, ripartiti per classi di appartenenza; gli importi da recuperare, unitari e complessivi, suddivisi per anno di riferimento, sono stati determinati prendendo come base la quota dovuta per ciascun veicolo, in relazione alla fascia di appartenenza (calcolata ripartendo le somme complessivamente disponibili per ciascuno degli anni in contestazione, secondo i criteri specificati negli atti prodotti dal Ministero), moltiplicata per il numero di veicoli posseduti da ogni singola impresa. 4.4. Il metodo di calcolo è, in effetti, di tipo probabilistico-induttivo e si spiega - in riferimento alla previsione dell'art. 249, comma 4, del TCE, che obbliga lo Stato membro ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione di recupero di aiuti di Stato illegali - con l'esigenza di superare le difficoltà di recupero (già rappresentate in sede giudiziaria alla Corte di Giustizia, come da relative sentenze, e successivamente fatte oggetto di consultazioni, oltre che con la Commissione europea, con le associazioni di categoria dell'autotrasporto) con criteri di calcolo che consentissero di contenere i tempi dei relativi accertamenti e assicurassero la parità di trattamento dei soggetti passivi dell'azione di recupero, garantendone la partecipazione al relativo procedimento. Dato ciò, non sono fondate le doglianze di parte appellante, sia perché la Cooperativa, già in ambito procedimentale, avrebbe potuto confutare i dati posti a fondamento del calcolo degli uffici del Ministero, sia perché quest'ultimo, nel corso del giudizio, ha dato prova dell'effettiva utilizzazione del credito d'imposta da parte della C.A. per gli anni in contestazione. 4.4.1. Quanto al primo profilo, fermo restando che l'amministrazione era vincolata al compimento dell'istruttoria imposta dalle richiamate disposizioni del d.l. n. 36/2002 (cui hanno dato attuazione i decreti dirigenziali 29 gennaio 2007 n. 291 e 10 ottobre 2007 n. 3442), il Ministero dei Trasporti risulta avervi adempiuto (sia pure non nel rispetto dei termini che era stati fissati, senza tuttavia previsione di sanzioni per l'inosservanza), mediante l'adozione nei confronti della C.A. dei seguenti atti (tutti prodotti in primo grado): 1) nota prot. 56269 del 27 novembre 2006 di comunicazione di avvio di procedimento di recupero; 2) nota prot. 28659 del 23 marzo 2007 con indicazione degli importi da restituire; 3) decreto prot. 04561 del 20 dicembre 2007 di determinazione dell'importo da restituire senza interessi; 4) nota prot. 6806 del 24 gennaio 2008 recante modalità e termini di pagamento; 5) nota prot. 18658 dell'11 agosto 2011 di invito a provvedere al pagamento, in mancanza del quale si sarebbe provveduto con domanda di ingiunzione. A seguito della ricezione della nota del 23 marzo 2007, che nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo la ricorrente dichiara di aver avuto in data 6 aprile 2007, la Cooperativa inviò le proprie osservazioni, delle quali dà atto il decreto ministeriale del 20 dicembre 2007. Tuttavia, non si attivò per smentire, mediante la produzione di idonea documentazione, né i dati (tratti dalle banche dati del Ministero) concernenti il possesso dei mezzi di trasporto né il dato (pur presuntivo) dell'utilizzazione del credito d'imposta nei limiti consentiti. In proposito non è fondato l'assunto dell'appellante di non essere stata in grado di ricostruire analiticamente il proprio storico contabile e fiscale in ordine agli anni d'imposta in contestazione per il decorso del termine decennale di conservazione delle scritture contabili di cui all'art. 2220 cod. civ. In senso sfavorevole alla difesa della Cooperativa depone l'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che impone al contribuente la conservazione delle scritture contabili obbligatorie sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta. Sull'interpretazione della norma si è pronunciata, in riferimento proprio alla fattispecie oggetto del presente contenzioso, la sentenza della Corte di Cassazione, V, 27 febbraio 2003, n. 5899, secondo cui il detto art. 22, comma 2 "va interpretato nel senso che l'ultrattività dell'obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all'art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dall'art. 8, comma 5, della L. n. 212 del 2000, opera solo se l'accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza. Ne deriva, diversamente, la protrazione dell'obbligo per una durata direttamente dipendente dalla volontà dell'Ufficio attesa la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamento nei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. In questo caso, a fronte della concessione degli aiuti negli anni 1992, 1993, 1994, poi dichiarati illegittimi con le decisioni della Commissione... n. 93/496/CE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, si deve ritenere che la legittimità degli aiuti e quindi la pendenza dell'accertamento tributario, essendo aiuti di Stato fiscali fosse sub iudice appunto dalle date in cui la Commissione ne ha contestato la contrarierà al diritto Unionale. E tale pendenza, in allora esistente e tuttora perdurante, sino alla definizione del giudizio, rendeva e rende, non essendo definito l'accertamento, perdurante l'obbligo del contribuente di conservare la documentazione contabile ad esso connessa.". Siffatta conclusione - ritenuta dalla sentenza coerente con i principi dell'ordinamento tributario - è vieppiù condivisibile in un contesto, quale quello degli aiuti di Stato, in cui è richiesto all'operatore economico beneficiario di un aiuto di collaborare con l'autorità amministrativa per consentire la verifica della legittimità di tale fruizione (cfr. Cons. Stato, III, n. 2401/15 e le altre sopra citate). Tenendo conto delle censure dell'appellante, è bene precisare che non si tratta di un'inversione dell'onere della prova sulla fruizione del beneficio, dato che questa è da ritenersi provata per il tramite delle presunzioni che il d.l. n. 36/2002 ha basato sulla qualità del soggetto passivo dell'azione di recupero e sul possesso dei mezzi di trasporto, cui era correlato il credito d'imposta; piuttosto spettava al beneficiario fornire la prova contraria alla presunzione di legge, dimostrando di non aver fruito affatto del credito d'imposta, oppure di averne fruito entro il limite del c.d. de minimis, o comunque in misura inferiore a quella presunta ex lege. 4.4.2. Non solo la C.A. non ha fornito tale prova negativa, ma - a seguito dell'istruttoria disposta dal collegio in primo grado - è stata l'amministrazione - per il tramite di apposita nota dell'Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Salerno e relativi allegati contenenti le "copie dichiarazioni dei redditi quadri R" estratte dall'anagrafe tributaria - a fornire la prova che negli anni 1992 - 1993 - 1994 la Cooperativa ha effettivamente utilizzato i crediti d'imposta "per le imprese autotr. merci conto terzi" in misura del tutto compatibile (ed anzi superiore) rispetto a quella calcolata col metodo induttivo introdotto dal legislatore e richiesta col decreto ingiuntivo. Le generiche contestazioni di utilizzabilità delle risultanze dell'anagrafe tributaria, già formulate in primo grado dalla C.A., e riproposte in appello, vanno disattese per le ragioni già ritenute dal T.a.r. ("La Corte di legittimità ha già chiarito, con ferma giurisprudenza, che le risultanze dell'anagrafe tributaria sono assistite da una presunzione di identità con i dati presenti nel modello cartaceo sottoscritto dal contribuente; ne consegue che, ove sia eccepita una discordanza di dati in sede di gravame, non è l'Amministrazione finanziaria a dover fornire la prova della conformità, ma il contribuente a dover dimostrare la difformità, ai sensi dell'art. 2697 c.c., comma 2, trattandosi di deduzione dell'inefficacia del fatto costitutivo della pretesa tributaria azionata, ed essendo egli onerato, in base all'ordinaria diligenza, di conservare una copia del modulo cartaceo anche oltre il termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 (cfr.: Cass. 11/12/2013, n. 27712; Cass. 30/8/2013, n. 20047; Cass. 10/1/2013, n. 385; 27/7/2012, n. 13440)"), che qui si confermano in quanto non validamente confutate dall'appellante (oltre che corroborate da giurisprudenza successiva: cfr. Cass. V, 12 luglio 2018, n. 18403). 4.5. Il terzo ed il quarto motivo di appello vanno quindi respinti. 5. Col secondo motivo si lamenta la violazione e la falsa applicazione del regolamento (CE) n. 659/1999, quanto all'errata individuazione del dies a quo della prescrizione, e conseguentemente l'errato calcolo di quest'ultima. Viene criticata la sentenza appellata nella parte in cui, premessa l'operatività del termine ordinario decennale di prescrizione, ha affermato che "la decisione comunitaria in ordine al recupero dell'aiuto erogato ha acquisito definitività in ragione della sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata nell'anno 1998... il termine per il recupero degli aiuti illegittimamente erogati ha iniziato a decorrere da tale anno" e che "prima della notifica dell'opposto decreto ingiuntivo, tale termine è stato interrotto dal Ministero resistente, una prima volta, con nota prot. N. 28659 del 23/3/2007, - con cui informava l'odierna opponente dell'avvio della procedura di recupero -, e, successivamente, sia con la nota prot. n.6806 del 24/01/2008, - con cui comunicava alla società "C.A." le modalità di pagamento dell'importo da restituire -, sia con nota n. 18659 dell'11 Agosto 2011, con cui costituiva in mora la società ricorrente.". 5.1. L'appellante segnala un primo errore, nell'individuazione della decorrenza utile del termine di prescrizione dalla conclusione del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia con la sentenza del 1998. Sostiene che l'art. 15, comma 2, del regolamento CE n. 659/1999 non attribuisce al procedimento davanti alla Corte di Giustizia ed alla sentenza conclusiva di tale procedimento un'efficacia interruttiva della prescrizione, bensì ricollega alla pendenza del procedimento un'efficacia sospensiva del periodo limite (i.e. della prescrizione), mantenendo ferma la regola che "il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti". Applicando correttamente la disposizione comunitaria in esame, secondo l'appellante, si avrebbe che sommando il primo periodo decorso dalla notifica della decisione della Commissione all'avvio del procedimento avanti la Corte di Giustizia e il secondo periodo decorrente dalla pronuncia della Corte di Giustizia al primo atto interruttivo della prescrizione da parte del MIT, del quale vi sarebbe prova dell'invio e della ricezione - che l'appellante fissa nel mese di marzo 2011 - si sarebbe consumato il "periodo limite" richiamato dalla disposizione comunitaria, con conseguente prescrizione della pretesa avente ad oggetto il recupero delle somme portate dal credito d'imposta qualificato aiuto di Stato. 5.1.2. L'appellante segnala quindi un secondo errore della sentenza, perché, decidendo come sopra, si sarebbe posta di fatto in contrasto con l'orientamento della Corte di Cassazione, la cui consolidata giurisprudenza è nel senso che, agli effetti del recupero di benefici, sgravi o crediti d'imposta costituenti aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, opera il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., decorrente dalla notifica alla Repubblica Italiana della decisione comunitaria di recupero (Cass. civ. sez. lav., 14 febbraio 2019, n. 4432 ed altre, indicate in ricorso). 5.2. Il motivo è fondato per quanto riguarda l'azione di recupero degli aiuti erogati col credito d'imposta utilizzato nell'anno 1992, mentre è infondato per le due annualità successive. Tale conclusione è dovuta alle ragioni che di seguito si espongono, solo in parte di accoglimento delle censure dell'appellante. 5.2.1. La sentenza di primo grado è corretta nella parte in cui ricostruisce il rapporto esistente tra l'azione della Commissione europea in tema di recupero di aiuti illegali, disciplinata ratione temporis dal Regolamento (CE) n. 659/1999 (cui è succeduto il Regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio del 13 luglio 2015), e la procedura di recupero regolata dal diritto nazionale. Alla prima si riferisce l'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, intitolato "Periodo limite" che prevede quanto segue: "1. I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni. 2. Il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti. Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell'aiuto illegale interrompe il periodo limite. Ogni interruzione fa ripartire il periodo da zero. Il periodo limite viene sospeso per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee. 3. Ogni aiuto per il quale è scaduto il periodo limite è considerato un aiuto esistente.". La disposizione regola l'istituto della prescrizione in ambito comunitario, come fatto palese dall'analoga previsione contenuta nel successivo Regolamento (UE) 2015/1589, nel cui articolo 17 il "periodo limite" è indicato in rubrica come "Prescrizione" ed è precisato nel paragrafo primo che "I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un termine di prescrizione di dieci anni". In proposito la Corte di Giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunal Administrativo e Fiscal (Tribunale amministrativo e tributario) di Coimbra in Portogallo, ha confermato che l'art. 17, par. 1, del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015, recante modalità di applicazione dell'art. 108 TFUE, dev'essere interpretato nel senso che il termine di prescrizione di dieci anni, che tale disposizione prevede per l'esercizio dei poteri della Commissione europea in materia di recupero degli aiuti, si applica soltanto ai rapporti tra la Commissione e lo Stato membro destinatario della decisione di recupero adottata da tale istituzione. Essa ha anche precisato, per un altro profilo, che contrasta con l'art. 16, par. 2, del regolamento, secondo il quale all'aiuto da recuperare si aggiungono gli interessi, e con il principio di effettività, di cui al par. 3 dello stesso articolo, l'applicazione di un termine di prescrizione nazionale al recupero di un aiuto qualora tale termine sia scaduto prima ancora dell'adozione della decisione della Commissione che dichiara tale aiuto illegale e ne ordina il recupero, oppure sia scaduto, principalmente, a causa del ritardo con cui le autorità nazionali hanno dato esecuzione a tale decisione (sentenza del 30 aprile 2020 in causa C-627/18). Si tratta di un indirizzo della Corte di Giustizia, contenuto anche in altre precedenti decisioni (Corte di Giustizia, 20 marzo 1997, C-24/95; Corte di Giustizia, 23 gennaio 2019, C-387/17). 5.2.2. La giurisprudenza interna ha espresso principi conformi alla giurisprudenza comunitaria. Infatti, con riferimento all'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 (ma anche con decisioni riguardanti il Regolamento del 2015 tuttora in vigore) si è affermato che il termine ivi previsto per la decisione di recupero degli aiuti di Stato concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri. L'azione appena detta presuppone l'accertamento, da parte della Commissione, dell'illegalità dell'aiuto e va tenuta distinta dall'azione di recupero in ambito interno. L'azione dello Stato membro nei confronti del beneficiario dell'aiuto illegale è infatti disciplinata dall'art. 14 (Recupero degli aiuti) del Regolamento n. 659/1999 (cui corrisponde l'art. 16 del Regolamento n. 2015/1589), che prevede quanto segue: " 1. Nel caso di decisioni negative relative a casi di aiuti illegali la Commissione adotta una decisione con la quale impone allo Stato membro interessato di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l'aiuto dal beneficiario (in seguito denominata "decisione di recupero"). (...) 3. Fatta salva un'eventuale ordinanza della Corte di giustizia delle Comunità europee emanata ai sensi dell'articolo 185 del trattato, il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. A tal fine e in caso di procedimento dinanzi ai tribunali nazionali, gli Stati membri interessati adottano tutte le misure necessarie disponibili nei rispettivi ordinamenti giuridici, comprese le misure provvisorie, fatto salvo il diritto comunitario.". In proposito la Corte di Cassazione in numerose sentenze - in prevalenza riferite alla materia tributaria, per aiuti di Stato incompatibili goduti con agevolazioni fiscali, ed alla materia contributiva, per aiuti di Stato incompatibili goduti con sgravi contributivi - ha affermato quanto segue: - se è vero che il termine dell'art. 15 del Regolamento n. 659/1999 concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri, quel termine non è senza conseguenze nell'ambito nazionale dei rapporti tra Stato e beneficiario dell'aiuto; proprio perché l'adozione da parte della Commissione di una decisione che dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il recupero, determina, per il beneficiario dell'aiuto illegittimamente attribuito, la cessazione dello stato di incertezza che giustifica l'esistenza di un termine di prescrizione, divengono rilevanti nell'ordinamento nazionale l'interruzione del termine di prescrizione che è connessa all'inizio dell'azione della Commissione e la sospensione del medesimo termine per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, previste nel regolamento comunitario (così in motivazione Cass. 19 novembre 2010, n. 23418); in proposito si è precisato che, a ragionare diversamente, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, coincidendo il termine ordinario di prescrizione nel diritto nazionale (dieci anni ex art. 2946 c.c.) con il termine di prescrizione assegnato dal diritto comunitario alla Commissione per iniziare l'azione di recupero degli aiuti (dieci anni ex art. 15 del regolamento n. 659 del 1999), l'impossibilità dell'effettivo recupero dell'aiuto illegale ben potrebbe essere la regola e non l'eccezione (così Cass. n. 23418/2010 cit.; Cass. sez. lav. 21 marzo 2013, n. 7162 ed altre successive); - alcune massime della Corte di Cassazione contengono poi l'affermazione perentoria della disapplicazione delle norme interne in tema di prescrizione (così Cass. n. 23418/2010, secondo cui "in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva", riportata anche nella sentenza qui appellata e ripresa da Cons. Stato, III, 13 maggio 2015, n. 2401 ed altre, su cui infra); si tratta però di un'affermazione che non va intesa in senso assoluto: essa va combinata con l'orientamento - su tale punto univoco - della stessa Cassazione secondo cui l'azione di recupero in ambito interno è soggetta alla regola ordinaria della prescrizione decennale; - tuttavia, in ragione di quanto sopra, la decorrenza del termine di prescrizione va "spostata" dalla data dell'erogazione del beneficio alla data di notifica allo Stato italiano della decisione della Commissione che dichiara l'illegittimità dell'aiuto (così, tra le altre, Cass. V, 12 settembre 2012, n. 15207, nella quale si precisa che "In tema di recupero di aiuti di Stato, l'azione di recupero è soggetta al termine ordinario di prescrizione stabilito dall'artt. 2946 cod. civ., in quanto idoneo a garantire sia l'interesse pubblico di assicurare l'effettività del diritto comunitario mediante il ripristino dello "status quo ante" alla violazione della concorrenza, sia l'interesse privato ad evitare l'esposizione ad iniziative senza limiti di tempo, non essendo invece applicabile il termine di cui all'art. 15 del Regolamento CEE del Consiglio del 22 marzo 1999, n. 659, il quale si riferisce esclusivamente ai rapporti tra Commissione e Stato membro. Ne consegue che il momento di inizio del termine di decorrenza della prescrizione va individuato non nella data della fruizione dell'aiuto, ma in quella della notifica della decisione della Commissione allo Stato membro, essendo solo da quel momento l'aiuto erogato qualificabile come illegale"; cfr., nello stesso senso, Cass. V, 22 luglio 2015, n. 15414; Cass. sez. lav., 22 giugno 2017, n. 15491; Cass. sez. lav., 27 luglio 2020, n. 15972; Cass. V, 22 giugno 2022, n. 20173; e numerose altre fino alla più recente Cass., V, 27 febbraio 2023, n. 29549, in fattispecie coincidente con quella oggetto del presente giudizio, decisa dal giudice tributario, non risultando posta la questione di giurisdizione). Giova precisare che, mentre la giurisprudenza meno recente della Corte di Cassazione è stata nel senso di riconoscere l'effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia (cfr. le sentenze su citate, a far data dalla sentenza n. 23418/2010), si è da ultimo affermato il contrastante principio per cui, pur decorrendo la prescrizione decennale dalla notifica della decisione della Commissione allo Stato membro e, cioè, dal momento in cui l'aiuto erogato è qualificabile come illegittimo, il termine di prescrizione non subirebbe interruzione o sospensione a seguito dell'impugnazione alla Corte di Giustizia, da parte dello Stato, della decisione della Commissione (così Cass. sez. III, 25 luglio 2022, n. 23058, seguita da Cass. n. 29549/2023 cit.). 5.3. Si ritiene di dover disattendere tale ultimo orientamento e di dover invece ribadire, con riferimento alla vigenza del Regolamento (CE) n. 659/1999 e della normativa interna applicabile ratione temporis al caso di specie (vale a dire quella precedente, come si dirà, l'entrata in vigore della legge n. 234 del 2012), i seguenti criteri interpretativi: - le norme interne sulla prescrizione vanno disapplicate nel periodo compreso tra l'erogazione dell'aiuto di Stato e l'intervento della Commissione che, in caso di aiuto non notificato, ha il termine di dieci anni decorrente da tale erogazione per attivarsi ai sensi del ridetto art. 15; invero, se in tale periodo decorresse il termine parimenti decennale della prescrizione di diritto interno, la decisione della Commissione rischierebbe di essere vanificata, compromettendo il rispetto dell'obbligo da parte dello Stato italiano, destinatario della decisione di recupero, ai sensi dell'art. 249, quarto co. Trattato CE, di adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione; - di conseguenza soltanto dalla notificazione della decisione della Commissione allo Stato italiano (o, in mancanza, dalla sua pubblicazione sulla G.U.U.E.) inizia a decorrere il termine ordinario di prescrizione decennale; - tuttavia (contrariamente al più recente indirizzo della Cassazione) l'impugnazione da parte dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Giustizia della decisione di recupero della Commissione non può essere senza effetti interni, sia pure indiretti: essa mantiene sub iudice la qualificazione di illegittimità degli aiuti di Stato oggetto del procedimento comunitario e rende quindi non ancora definitivo l'obbligo dello Stato italiano di provvedere al recupero, pur se ordinato dalla Commissione; - l'effetto che lo Stato membro può provocare chiedendo la verifica da parte dell'organo giurisdizionale europeo della decisione della Commissione è quello sospensivo (arg. ex art. 15, comma 2, del Regolamento che distingue tra effetto interruttivo dell'azione della Commissione ed effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia): la pendenza del procedimento sospende quindi l'obbligo di recupero, sicché -contrariamente a quanto ritenuto dal T.a.r. - la sentenza della Corte di Giustizia che lo conferma non segna l'avvio di un nuovo termine di prescrizione ma soltanto la ripresa del suo decorso; - una volta emessa la sentenza della Corte di Giustizia che conferma la decisione di recupero della Commissione, in ambito interno lo Stato italiano si viene definitivamente a trovare nella situazione di cui all'art. 2935 cod. civ., che consente ai soggetti competenti secondo l'ordinamento nazionale di fare valere, nei confronti dei beneficiari dell'aiuto illegittimo il diritto alla restituzione, cui corrisponde, in ambito sovranazionale, l'obbligo di recupero comminato dagli organi comunitari. 5.3.1. Quest'ultima affermazione comporta che le norme interne sulla prescrizione applicabili ratione temporis nel caso di specie non vadano del tutto disapplicate. La loro applicazione, nei limiti ed alle condizioni sopra specificati, non appare in violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia in materia di necessario adempimento degli Stati all'obbligo di recupero degli aiuti illegali; essa, infatti, nel rispetto del principio di "effettività " non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'attuazione degli obblighi comunitari poiché fissa allo scopo un (ulteriore) termine decennale, atto a garantire l'applicazione effettiva del diritto comunitario, in quanto ragionevolmente coincidente con lo stesso termine che l'art. 15 assegna agli organi comunitari per l'accertamento dell'illegalità dell'aiuto non notificato. Si tratta inoltre - come osservato dai numerosi precedenti della Corte di Cassazione in subiecta materia - di un termine che, in ossequio al principio della certezza del diritto (rilevante anche in ambito unionale), considera l'interesse del beneficiario dell'aiuto a non vedersi esposto senza limiti di tempo all'azione di restituzione dello Stato. In tal modo viene altresì assicurato il rispetto dei principi di "equivalenza" e di "non discriminazione", in quanto all'azione diretta ad attuare l'obbligo di matrice comunitaria si applicano le norme nazionali in materia di prescrizione stabilite per le analoghe azioni di carattere nazionale. 5.3.2. Riguardo all'applicazione delle norme interne in tema di prescrizione va tuttavia precisato che l'art. 51 (Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato oggetto di una decisione di recupero per decorso del tempo) della legge 24 dicembre 2012, n. 234, come modificato dall'art. 35 della legge 7 luglio 2016, n. 122, prevede quanto segue: "Indipendentemente dalla forma di concessione dell'aiuto di Stato, il diritto alla restituzione dell'aiuto oggetto di una decisione di recupero sussiste fino a che vige l'obbligo di recupero ai sensi del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era al regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999)". La norma è interpretabile nel senso dell'imprescrittibilità del diritto alla restituzione dell'aiuto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato illegittimi. Essa tuttavia non è applicabile nel presente giudizio, sicché la questione interpretativa non necessita di approfondimento. Invero, il precedente art. 48 del capo VIII (Aiuti di Stato) della stessa legge n. 234 del 2012 è riferito alle procedure di recupero riguardanti le decisioni di recupero adottate in data successiva a quella di entrata in vigore della legge (19 gennaio 2013), mentre nel caso di specie le decisioni di recupero sono di gran lunga anteriori e la procedura di recupero non è quella prevista, in via generale, dall'art. 48, ma quella, in particolare, dettata dal già detto d.l. n. 36/2002. In ogni caso, alla data di entrata in vigore dell'art. 51, il diritto alla restituzione degli aiuti illegali corrisposti sotto forma di credito d'imposta per l'anno 1992, come si dirà, era da reputarsi già estinto per prescrizione, sicché ne risulta impedita l'applicazione della norma con effetti retroattivi (arg. ex art. 11 disp. att.c.c.). 5.3.3. La questione dei rapporti tra il Regolamento (CE) n. 659/1999 e le norme interne in tema di prescrizione è stata affrontata da diverse pronunce del Consiglio di Stato tutte relative alla stessa fattispecie di aiuti di Stato, consistiti in sgravi contributivi. Le sentenze dichiarano di porsi in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, valorizzandone l'affermazione della disapplicazione delle norme in tema di prescrizione, tuttavia andando oltre la portata effettiva di tale affermazione, di cui si è detto sopra. Ne risulta affermata una sorta di imprescrittibilità interna dell'azione di recupero degli aiuti di Stato nei confronti dei beneficiari (così Cons. Stato, III, n. 2401/2015 cit., punto 9, nonché Id., III, nn. 3016/2015, 3035/2015, 3596/2015, 3599/2015, 3601/2015 e 3677-3679/2015). Con riguardo alla stessa vicenda oggetto dei precedenti appena citati, la medesima Sezione III ha però inteso precisare che "l'obbligazione restitutoria sorta in capo ai beneficiari degli sgravi contributivi non ha fonte immediatamente legale, ma presuppone il perfezionamento di una apposita fattispecie costitutiva, rappresentata dall'adozione del provvedimento di recupero, all'esito del procedimento disciplinato dall'art. 1, commi 351-354, l.n. 288/2012. Ne consegue che proprio l'interposizione, tra il momento di fruizione dell'aiuto di Stato e quello dell'insorgenza dell'obbligo di recupero, di un provvedimento amministrativo, inteso a verificare, all'esito di un apposito procedimento amministrativo e della relativa istruttoria, la sussistenza dei presupposti per il recupero quali delineati dalla decisione della Commissione e dalle successive pronunce del giudice comunitario, impone di escludere che il dies a quo del termine prescrizionale possa coincidere, come sostenuto dalla parte appellante, con la pubblicazione della suddetta decisione e che, a quella data, il credito restitutorio dello Stato fosse immediatamente esigibile, nelle more del compimento della istruttoria "caso per caso", volta appunto a verificare la sussistenza dei presupposti per il recupero." (Cons. Stato, III, 19 dicembre 2017, n. 5976). 5.4. In primo grado, l'Avvocatura distrettuale dello Stato - al fine di resistere all'eccezione di prescrizione sollevata dalla ricorrente - ha sostenuto un'interpretazione analoga, osservando che il dies a quo del termine di prescrizione, nel caso di specie, sarebbe da individuare - in forza del noto brocardo actio nondum nata non praescribitur - nel giorno in cui è stata emanata la normativa preordinata al recupero delle somme erogate, cioè il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (del quale si è detto trattando dei motivi terzo e quarto di appello), momento in cui sarebbe sorto il diritto di credito dello Stato al recupero dei contributi erogati. 5.4.1. L'assunto non è condivisibile perché, nel caso in oggetto, le decisioni della Commissione e le pronunce del giudice comunitario non hanno condizionato l'esigibilità del credito restitutorio dello Stato all'accertamento di determinati presupposti (come nel caso preso in esame dai citati precedenti di questo Consiglio di Stato), ma ne hanno imposto il recupero immediato ed incondizionato. La successione e il contenuto delle pronunce in ambito comunitario sono sintetizzabili come segue: 1) la prima decisione della Commissione europea riguarda i crediti d'imposta per l'annualità 1992 ed è stata adottata il 9 giugno 1993 (decisione n. 93/496/CEE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta a valere sull'imposta sul reddito o sulle imposte comunali o sull'IVA, indebitamente introdotto con il decreto ministeriale 28 gennaio 1992 a favore degli autotrasportatori professionisti in Italia, e l'ordine di recuperare l'aiuto entro due mesi dalla notifica della decisione e "secondo le norme procedurali e sostanziali di diritto interno"; 2) la decisione non è stata impugnata dallo Stato italiano; è stata invece la Commissione delle Comunità Europee a promuovere, ai sensi dell'art. 93 n. 2 del Trattato CE, un ricorso, depositato il 18 agosto 1995, diretto a far dichiarare che, non avendo adottato le misure necessarie per adeguarsi alla decisione della Commissione 9 giugno 1993, 93/496/CEE, relativa all'aiuto di Stato n. C 32/92 (ex N N 67/92) - Italia (Credito d'imposta a favore degli autotrasportatori professionisti) (GU L 233, pag. 10), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE; il ricorso è stato deciso con sentenza della Corte (sesta sezione), 29 gennaio 1998, nella causa C-280/95, con la quale è stato dichiarato che, non essendosi conformata alla decisione della Commissione, "la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE"; 3) la seconda decisione della Commissione delle Comunità Europee riguarda i crediti d'imposta per le annualità 1993-1994 ed è stata adottata il 22 ottobre 1996 (decisione n. 97/270/CE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta e l'ordine di recuperare l'aiuto, da rimborsare "secondo le regole di procedura e di applicazione della legislazione italiana"; 4) la decisione è stata impugnata dallo Stato italiano, con ricorso depositato il 10 gennaio 1997, ai sensi dell'art. 173 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 230 CE) e l'impugnativa è stata respinta con la sentenza della Corte (Sesta Sezione), 19 maggio 1999 in causa C-6/97, con la quale è stata, tra l'altro, esclusa l'impossibilità di recuperare l'aiuto. La portata delle pronunce della Commissione e della Corte è tale da consentire di configurare come immediatamente esigibile il credito di rimborso dell'aiuto mediante richiesta ai trasportatori italiani che avevano usufruito del bonus fiscale (cfr. punto 33 della sentenza del 1999) sì da doversi escludere, ai fini del decorso iniziale della prescrizione, che si dovesse attendere che lo Stato dettasse regole apposite per il recupero del singolo aiuto, quali sono state poi introdotte -peraltro al solo fine di agevolare il computo delle somme da richiedere - dal d.l. del 2002. 5.4.2. Dopo le pronunce della Corte di Giustizia e l'entrata in vigore di tale normativa speciale si colloca il primo atto interruttivo della prescrizione nei confronti della C.A. Si tratta della nota prot. n. 28659 del 23 marzo 2007, con la quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti informava la Cooperativa dell'avvio della procedura di recupero. In proposito va respinta la censura dell'appellante - peraltro esplicitata soltanto in appello - secondo cui la nota non sarebbe conosciuta dalla destinataria, perché non è stata fornita la prova in giudizio della ricezione da parte della Cooperativa. La smentita si rinviene per tabulas nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo, dove è detto che la nota è stata ricevuta dalla ricorrente il 6 aprile 2007 e negli atti prodotti in primo grado dal Ministero opposto, dai quali si evince che detta nota venne seguita dalla risposta dell'interessata che fece pervenire delle osservazioni procedimentali (delle quali si dà atto nel decreto del Ministero dei Trasporti del 20 dicembre 2007 prot. 4561). Seguirono poi gli ulteriori atti di interruzione del corso della prescrizione e di messa in mora specificati sopra e nella sentenza di primo grado. 5.4.3. Orbene, considerato che la decisione della Commissione riguardante gli anni 1993-1994 è intervenuta il 22 ottobre 1996 ed è stata impugnata con ricorso del 10 gennaio 1997, che ha dato luogo alla sentenza del 19 maggio 1999, tenendo conto del periodo precedente la proposizione del ricorso e dell'effetto sospensivo determinato dalla pendenza del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia fino a tale ultima data, è da escludere che alla data del primo atto interruttivo del 23 marzo/6 aprile 2007 fosse decorso il periodo di prescrizione di dieci anni, né questo era decorso quando con la nota del 24 gennaio 2008 n. 6806 erano comunicate alla CAPS le modalità di pagamento dell'importo da restituire. 5.4.4. I dati di fatto sopra riportati inducono invece a diversa conclusione con riferimento all'annualità 1992, atteso l'ordine di recupero intimato con la decisione della Commissione del 9 giugno 1993. Considerato che questa non è stata mai impugnata dallo Stato italiano, dovrebbe ritenersi che dalla data della sua comunicazione (non nota, ma di certo anteriore al 26 agosto 1993, data della prima informativa indirizzata dallo Stato italiano alla Commissione della quale è detto nella sentenza del 1998, punto 6) fossero decorsi più di dieci anni quando intervenne l'atto interruttivo (23 marzo/6 aprile 2007). Peraltro, anche a voler attribuire - interpretando estensivamente il testo dell'art. 15 del Regolamento - effetto sospensivo alla pendenza del procedimento introdotto dinanzi alla Corte di Giustizia, non dallo Stato membro, ma dalla Commissione (per farne accertare l'inadempimento dell'obbligo di recupero), nel caso di specie il periodo di sospensione andrebbe dal 18 agosto 1995 (data del ricorso della Commissione) fino alla sentenza del 29 gennaio 1998. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ed in accoglimento del motivo di appello, occorrerebbe aggiungere al periodo di oltre nove anni compreso tra tale ultima data (29 gennaio 1998) e l'atto interruttivo del marzo/aprile 2007, il periodo decorso nell'inerzia dello Stato italiano dal 26 agosto 1993 fino al 18 agosto 1995, col complessivo superamento del termine decennale. In sintesi, sia tenendo conto della mancata impugnativa della decisione del 9 giugno 1993 da parte dello Stato sia considerando utile l'impugnativa della Commissione, si avrebbe che l'azione di recupero per il credito d'imposta riferito all'annualità 1992, in ambito interno, era prescritta quando venne avanzata la richiesta di rimborso nei confronti della C.A. 6. Va pertanto accolto il secondo motivo di appello, limitatamente alla prescrizione del recupero delle somme dovute per l'anno 1992, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l'opposizione va accolta parzialmente quanto all'eccezione di prescrizione sollevata con riferimento alle somme ingiunte in restituzione per l'anno 1992. Per l'effetto, ai sensi degli artt. 118 c.p.a. e 653, comma 2, c.p.c., il decreto ingiuntivo va revocato e la società C.A. va condannata a corrispondere al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti la somma corrispondente alle due annualità predette (Euro 83.263,10 + Euro 66.044,38), escluso l'importo corrispondente all'annualità 1992 (Euro 43.137,89), oltre interessi come già richiesti col decreto ingiuntivo. 7. L'accoglimento parziale dell'appello e dell'opposizione a decreto ingiuntivo consente di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di opposizione, nonché della fase monitoria. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei limiti specificati in motivazione e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, revoca il decreto ingiuntivo opposto e condanna la Cooperativa appellante al pagamento in favore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti degli importi specificati in motivazione, oltre interessi legali come già richiesti col decreto ingiuntivo. Compensa interamente tra le parti le spese dei due gradi del giudizio di opposizione e della fase monitoria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto ETTORE CIRILLO Presidente ROBERTA CRUCITTI Consigliere VALENTINO LENOCI Consigliere Up – 08/03/2024 PAOLO DI MARZIO Consigliere RG 17682/2021 FEDERICO LUME Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 17682/2021 R.G. proposto da: UNICREDIT S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Livia Salvini e Davide De Girolamo, in forza di procura allegata al ricorso, ed elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio Salvini e soci, piazza Venezia n. 11; – ricorrente – contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende; – controricorrente – IRPEG-IRES DINIEGO RIMBORSO 2 avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. SICILIA n. 3401/12/2021, depositata il 14/04/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 8/03/2024 dal consigliere Federico Lume; udito il PM, in persona del sostituto Procuratore generale, dott. Alessandro Pepe, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udita l’avv. Livia Salvini per la ricorrente; udita l’avv. Elena Ferretti per l’Avvocatura dello Stato. FATTI DI CAUSA 1. Il Banco di Sicilia (ora Unicredit S.p.A.) presentava dichiarazione dei redditi ai fini IRPEG relativa all'anno d'imposta 1984, in cui dichiarava una perdita fiscale di lire 567.328.000. In considerazione delle ritenute d'acconto subite, dei crediti d'imposta vantati per imposte pagate all'estero e dei crediti d'imposta sui dividendi, dalla dichiarazione emergeva, inoltre, un credito complessivo di lire 40.923.406.000, di cui la società chiedeva il rimborso. 2. Successivamente, in relazione al medesimo anno d'imposta, l'Agenzia delle Entrate notificava avviso di accertamento ai fini IRPEG, con cui accertava un maggior reddito imponibile in luogo della perdita dichiarata. Avverso tale avviso di accertamento, la banca proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Palermo e, in pendenza del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, presentava istanza di definizione della lite ai sensi dell'art. 16 l. n. 289/2002 provvedendo al versamento delle somme dovute. 3. Formulata istanza di rimborso del credito IRPEG pari ad euro 21.135.175,36 (corrispondente al citato credito d'imposta di lire 40.923.406.000), la banca impugnava il silenzio rifiuto, correlativamente formatosi, dinanzi alla CTP di Palermo, deducendo la persistenza del diritto al rimborso emergente dalla dichiarazione 3 annuale, anche a seguito della definizione della lite che aveva avuto per oggetto l'avviso di accertamento. Si costituiva l'Agenzia delle Entrate rilevando che le somme richieste dalla banca non rientravano tra quelle rimborsabili ai sensi dell'art. 16, comma 5, l. n. 289/2002 e che, comunque, le stesse erano state oggetto di compensazione con la maggiore imposta accertata. 5. La Commissione tributaria adita respingeva il ricorso. 6. L'appello proposto dalla banca veniva accolto dalla Commissione tributaria regionale (CTR) della Sicilia, con sentenza del 28/01/2010, con la quale era disposto il rimborso richiesto dalla contribuente. Rilevava, in particolare, il giudice di appello che risultava inconferente ogni riferimento alla domanda di condono ex art. 16, comma 5, l. n. 289/2002, posto che oggetto di tale domanda non era il procedimento di diniego del rimborso del credito IRPEG, ma la lite pendente relativa all'impugnazione dell'avviso di accertamento in rettifica della dichiarazione annuale IRPEG per l'anno d'imposta 1984. Osservava, inoltre, che i crediti di imposta indicati in dichiarazione dei redditi e dei quali era stato chiesto il rimborso non rientravano nel paradigma dell'art. 16, comma 5, l. n. 289/2002, che dispone solo in merito alle somme versate per effetto delle norme vigenti in materia di riscossione in pendenza della lite. 7. Avverso la suddetta sentenza, l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione sulla base di due motivi, il primo relativo alla violazione dell’art. 16, comma 5, della l. n. 289/2002 e il secondo per omessa, insufficiente e illogica motivazione su un fatto controverso e decisivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. 8. La Corte, con ordinanza 26/07/2017, n. 18412, accoglieva entrambi i motivi e, cassata la sentenza impugnata, rinviava alla Commissione tributaria regionale della Sicilia per nuovo esame. 4 In primo luogo, la Corte, preso atto dell’ordinanza n. 6060/2013 che aveva rigettato il ricorso erariale per altro anno di imposta, ne affermava la irrilevanza in termini di giudicato, alla luce del principio di autonomia dei singoli anni di imposta; nel merito, accoglieva entrambi i motivi, ritenendoli connessi. Evidenziava che, in tema di condono, è principio generale, valido anche per il condono di cui all’art. 16 della l. n. 289 del 2002, che la scelta di aderire alla definizione agevolata precluda il rimborso delle maggiori somme versate dal contribuente, salva la previsione dell’art. 16, comma 5, di eccedenze versate in sede di riscossione provvisoria in ipotesi di soccombenza dell’amministrazione nel giudizio di merito; pertanto aveva errato la CTR nel ritenere che tale previsione non fosse rilevante nel giudizio; che la novazione del rapporto tributario litigioso estingue debiti e crediti tra le parti; in secondo luogo, che la CTR aveva del tutto omesso di valutare la circostanza dedotta dall’ufficio secondo cui in sede di accertamento era stata chiesta la sola differenza tra la somma oggetto di accertamento e il credito esposto in dichiarazione, avendo quindi la contribuente beneficiato di una compensazione del credito di cui chiedeva il rimborso. 9. La Commissione tributaria regionale della Sicilia, con sentenza n. 3401/12/2021, depositata il 14/04/2021, rigettava l’appello della società, evidenziando che l’adesione al condono ostava alla consolidazione di crediti di imposta dichiarati e non ammessi dall’amministrazione finanziaria; essa inoltre precludeva al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità definite in via agevolata; infine, che dall’esame dell’avviso di accertamento emergeva che gli importi chiesti a rimborso erano stati compensati con la maggior imposta accertata. 10. Contro tale decisione propone ricorso per cassazione Unicredit s.p.a., in base a sei motivi. 5 Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate. Il PM ha depositato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. La causa è stata fissata per l’adunanza camerale del 20/09/2023, per la quale entrambe le parti depositavano memoria, e poi per la pubblica udienza dell’8/03/2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La ricorrente propone sei motivi di ricorso. 1.1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione degli artt. 9, comma 9, e 16, comma 5, legge 27/12/2002, n. 289, per aver la CTR indebitamente esteso al credito IRPEG, pacificamente maturato dalla società nel corso dell’anno 1984, gli effetti della procedura di definizione della lite riguardante l’avviso di accertamento successivamente emesso dall’Ufficio per quello stesso periodo d’imposta, nonostante l’istituto del condono – per sua natura – risulti diretto ad incidere sui soli debiti del contribuente e giammai sui crediti vantati dal medesimo. Premette che nell’anno di imposta per cui è causa aveva esposto delle perdite nonché dei crediti di imposta; l’avviso di accertamento aveva accertato maggiori redditi, operando varie riprese, di valore molto superiore alle perdite ed anche ai crediti; tali riprese erano state annullate quasi integralmente dalla CTP di Palermo; l’appello erariale, relativo alle riprese annullate in primo grado era stato rigettato, mentre l’appello della società per le riprese confermate dalla CTP, era stato accolto; l’Agenzia aveva proposto ricorso per cassazione solo in relazione a tale parte della statuizione, con conseguente giudicato interno relativo al valore dell’accertamento sub judice; in pendenza del ricorso per cassazione, essa aveva aderito alla definizione agevolata di cui all’art. 16 della l. n. 289 del 2002, calcolando il valore 6 dell’accertamento a fini condonistici in base a quanto ancora sub judice e tenendo conto di una franchigia prevista dalla legge. Ciò premesso, deduce la ricorrente che la Suprema Corte aveva richiesto alla CTR, quale giudice della riassunzione, di compiere le necessarie valutazioni in ordine all’effettiva sussistenza – nell’ambito dell’accertamento – della compensazione fra la maggiore imposta accertata dall’Ufficio e il credito d’imposta maturato da Unicredit, procedendo successivamente alla determinazione degli effetti che tale compensazione, ove presente, avrebbe potuto produrre con riferimento all’istanza di rimborso di cui è causa; i giudici di appello avrebbero errato nel ritenere di limitare la propria cognizione a quanto risultante dall’accertamento, senza valutare gli esiti della sua impugnativa giurisdizionale, e quindi alle vicende ad esso successive. Nel fare ciò la ricorrente deduce altresì che, così facendo, la CTR ha errato anche in diritto poiché la definizione ex art. 16 della l. n. 289 della lite relativa all’Accertamento – effettivamente promossa, con successo, dalla Società – non poteva in alcun modo comportare la rinuncia, da parte di quest’ultima, al rimborso di quel credito d’imposta che, in quanto giammai contestato dall’Ufficio, era rimasto del tutto estraneo alla successiva lite condonata, conformemente ai principi più volte espressi da questa Corte secondo cui in definitiva il condono avrebbe rilievo solo per i debiti del contribuente e non per i crediti. 1.2. Col secondo motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., laviolazione dell’art. 16, comma 5, legge 27/12/2002, n. 289, per aver la CTR, in ogni caso, anche a voler ritenere applicabile tale disposizione, negato il rimborso del credito IRPEG di cui è causa in ragione della previsione di non ripetibilità degli importi versati anteriormente alla definizione, nonostante l’ente accertatore fosse risultato integralmente soccombente nell’ultima pronuncia di merito anteriore alla definizione 7 stessa e tale circostanza costituisse specifica deroga disposta ex lege alla previsione di non ripetibilità, deroga peraltro anche evidenziata dalla Corte nella sentenza di cassazione con rinvio. 1.3. Col terzo motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ.,in via subordinata al motivo che precede, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, per aver la CTR pretermesso ogni considerazione in ordine alla soccombenza integrale dell’ente accertatore all’esito dell’ultimo giudizio di merito anteriore alla definizione della lite. 1.4. Col quarto motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,violazione dell’art. 16, comma 5, legge 27/12/2002, n. 289 nonché degli artt. 1243 e 2909 cod. civ., lamentando che la CTR abbia postulato la compensazione del credito IRPEG vantato da Unicredit con il maggior debito d’imposta contestato dall’Ufficio nell’accertamento relativo all’annualità 1984, nonostante tale debito – al momento di perfezionamento della procedura di definizione – fosse stato in gran parte annullato con statuizioni giurisdizionali coperte da giudicato interno. Rappresenta infatti che nel giudizio relativo all’avviso di accertamento, all’esito dei giudizi di merito di primo e di secondo grado, la gran parte dei rilievi era stata annullata con pronuncia coperta da giudicato interno, in quanto il ricorso erariale per cassazione atteneva solo ad una parte minima di essi; per cui la compensazione non poteva essere accertata in riferimento a somme non dovute e comunque in riferimento a somme ancora illiquide e non esigibili. La compensazione tra poste attive e passive nell’avviso di accertamento aveva infatti natura meramente liquidatoria e le successive vicende processuali escludevano ogni utilizzazione del credito. 8 1.5. Col quinto motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, per aver la CTR pretermesso ogni considerazione in ordine al giudicato interno formatosi sulla declaratoria di illegittimità parziale dell’avviso di accertamento emesso dall’Ufficio per il periodo d’imposta 1984. 1.6. Col sesto motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,violazione dell’art. 16, comma 5, legge 27/12/2002, n. 289 e degli artt. 3 e 53 Cost., prospettando una questione di legittimità costituzionale; si duole che la CTR abbia negato il rimborso del credito IRPEG maturato dalla Società nel corso dell’anno 1984 – sulla base della supposta compensazione del medesimo con il maggior debito d’imposta oggetto di definizione – postulando così un’ingiustificata disparità di trattamento fra i crediti d’imposta richiesti a rimborso e quelli riportati a nuovo nelle annualità successive. 2. Occorre premettere all’esame dei motivi che, com'è stato di recente ribadito da Cass. n. 28646/2021, il ricorso per cassazione avverso la decisione pronunciata in sede di rinvio implica il potere- dovere della Suprema Corte di interpretare direttamente il contenuto e la portata della propria precedente statuizione, mantenendo la propria decisione entro i limiti fissati dalla legge per il giudizio di rinvio. Questo è, appunto, un giudizio chiuso, in cui le parti non possono avanzare richieste diverse da quelle già prese nè formulare difese, che, per la loro novità, alterino completamente il tema di decisione o evidenzino un fatto ex lege ostativo all'accoglimento dell'avversa pretesa, la cui affermazione sia in contrasto con il giudicato implicito ed interno, così da porre nel nulla gli effetti intangibili della sentenza di cassazione ed il principio di diritto che in essa viene enunciato non in via astratta ma 9 agli effetti della decisione finale (così ancora l'ordinanza n. 28646/2021). Secondo questa Corte, poi, i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell'applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (così le sentenze n. 17790/2014 e n. 27337/2019). Si è anche precisato che la pronuncia di cassazione per error in iudicando, con enunciazione del principio di diritto cui il giudice di rinvio deve uniformarsi, non vincola il giudice medesimo in ordine alle circostanze che siano meramente ipotizzate, in via narrativa, da detta enunciazione, atteso che una preclusione al riesame si verifica solo con riguardo ai fatti che quel principio presupponga come pacifici o già accertati in sede di merito (Cass. n. 2660/1989), e ciò in quanto il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato, ma, in relazione ai punti decisivi e non congruamente valutati della sentenza 10 cassata, se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività, ha il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza della Corte di cassazione, la cui portata vincolante è limitata all'enunciazione della corretta interpretazione della norma di legge, e non si estende alla sussunzione della norma stessa della fattispecie concreta, essendo tale fase del procedimento logico compresa nell'ambito del libero riesame affidato alla nuova autorità giurisdizionale (Cass. n. 9690/2003; Cass. n. 18087/2007; Cass. n. 3150/2024). Alla luce di tali principi, con cui peraltro la ricorrente nei propri motivi invero non si confronta, occorre esaminare il ricorso. 3. Il primo motivo è infondato perché di fatto sollecita una disapplicazione del principio di diritto espresso dalla Corte e delle direttive emanate in relazione al compito del giudice del rinvio. 3.1. Nella sentenza di cassazione con rinvio, infatti, nell’accogliere il primo motivo di ricorso, la Corte aveva affermato che in tema di condono fiscale ex art. 16 l. n. 289/2002, il recupero delle maggiori somme versate dal contribuente anteriormente alla definizione agevolata della lite e relative al medesimo rapporto tributario, non è consentito e spetta nel solo caso eccezionale e derogatorio, previsto dal quinto comma della disposizione (di eccedenze versate in sede di riscossione provvisoria in ipotesi di totale soccombenza dell'amministrazione finanziaria nel giudizio di merito); ciò stante il principio generale, informatore della disciplina del condono, per cui la novazione del rapporto tributario litigioso estingue i reciproci debiti e crediti tra le parti. Di conseguenza la Corte ebbe a ritenere che la Commissione tributaria regionale avesse errato affermando che la domanda di condono ex art. 16, comma 5, L. n. 289/2002 non assume rilievo nel presente giudizio, avente ad oggetto il diniego di rimborso 11 del credito IRPEG e non l'impugnazione dell'avviso di accertamento, ed escludendo, altresì, l'applicazione, nel caso di specie, del citato art. 16 sulla base del mero tenore letterale della norma, non si sia attenuta ai principi giurisprudenziali innanzi richiamati. Nell’accogliere il secondo motivo, relativo al vizio di motivazione in merito a un fatto decisivo, la Corte aveva evidenziato la necessità di verificare se il credito oggetto di dichiarazione fosse stato compensato con la maggior imposta nell’avviso di accertamento. 3.2. La Corte nell’ordinanza di cassazione con rinvio ha chiaramente ritenuto che il condono precludesse per un certo anno di imposta anche ogni rimborso, anche per fatti diversi da quelli oggetto della definizione, alla condizione fattuale che il credito azionato fosse effettivamente compensato con il maggior debito nell’avviso di accertamento; in questo senso depone l’indicazione che i due motivi sono connessi, come premette la stessa Corte all’inizio della motivazione; cioè le due questioni si tengono insieme perché in tanto il condono osta al rimborso in quanto le somme esposte a credito nella dichiarazione siano state contemplate nell’avviso di accertamento. A favore di tale interpretazione della decisione della Cassazione depongono plurimi elementi: a) il primo motivo di ricorso era stato formulato dall’Agenzia in termini di violazione di legge, denunciando che il condono implicava rinuncia al credito indicato nella dichiarazione dell’anno d’imposta condonato e che il rimborso fosse precluso non solo per i versamenti ma anche nel caso di crediti di imposta esposti nella dichiarazione relativa all’annualità oggetto di definizione agevolata; b) il secondo motivo, formulato in termini di vizio di motivazione circa un fatto decisivo, era riferito alla circostanza che il credito fosse stato indicato nell’avviso di accertamento compensandolo con la maggior somma accertata, in considerazione del fatto che ciò aveva consentito la definizione agevolata in misura ridotta; c) il riferimento prima alla 12 transazione, pagina 6, e poi alla novazione del rapporto tributario litigioso che estingue i debiti e i crediti tra le parti, pagina 7; c) il riferimento al principio generale esistente nella disciplina condonistica e il richiamo esplicito a Cass. n. 16339/2014 che, in tema di condono fiscale ex art. 16 della legge n. 289 del 2002, ha ritenuto che il recupero delle maggiori somme versate dal contribuente anteriormente alla definizione agevolata della lite e relative al medesimo rapporto tributario, non è consentito e spetta nel solo caso eccezionale e derogatorio, di cui al comma 5 del citato art. 16, di totale soccombenza dell'Amministrazione finanziaria nel giudizio di merito, stante il principio generale, informatore della disciplina del condono, per cui la novazione del rapporto tributario litigioso estingue i reciproci debiti e crediti tra le parti; d) l’esplicita non vincolatività della precedente ordinanza n. 6060/2018, resa per analogo giudizio tra le stesse parti per altro anno di imposta, ordinanza che aveva invece espressamente ritenuto infondato il ricorso erariale, disattendendo sia il motivo espresso in termini di violazione di legge sia quello relativo alla motivazione, escludendo il carattere decisivo del fatto omesso. L’accertamento in fatto demandato alla CTR era quindi solo quello di verificare se effettivamente, come dedotto dalla difesa erariale, il credito era stato compensato nell’avviso di accertamento rispetto al maggior debito accertato e non quello di verificare gli esiti dell’impugnativa dell’accertamento. 3.3. La CTR, nella sentenza impugnata, ha quindi correttamente evidenziato che il riscontro di quanto indicato nell’avviso di accertamento esaurisse l’unico effetto di collegamento e di dipendenza processuale tra il giudizio impugnatorio dell’avviso di accertamento…da un lato… e il diverso giudizio di impugnazione del silenzio rifiuto avviso l’istanza di rimborso del credito per imposta Irpeg per il medesimo anno – dall’altro, poiché l’esorbitanza a tale postulato 13 è palesemente impedita dai principi di diritto fissati nel giudizio rescindente. La ricorrente, di fatto, attraverso plurimi riferimenti a pronunce del giudice delle leggi e di questa Corte, anche a Sezioni Unite, assume che il condono mai potrebbe incidere sui crediti oggetto di dichiarazione ma solo sui debiti; ed individua l’errore della CTR nell’ aver ritenuto di poter estendere indebitamente la portata della procedura di condono con cui la Società aveva definito il giudizio di impugnazione dell’Accertamento, fino a postulare una supposta rinuncia – da parte del Banco di Sicilia – al rimborso del credito d’imposta pacificamente maturato nell’annualità 1984, il che però è esattamente il principio affermato dalla Corte nell’accogliere il primo motivo di ricorso nell’ordinanza di cassazione con rinvio. Mentre, nel ribadire che la CTR doveva esaminare anche le vicende successive all’accertamento, finisce con inevitabilmente negare da un lato le direttive poste dalla Corte ma anche la stessa ritenuta decisività del fatto. E ciò è tanto più evidente laddove la ricorrente, con riferimento alla corretta portata che deve essere ascritta all’art. 16 della legge n. 289/2002, richiama il precedente di questa Corte, reso per analoga vicenda tra le stesse parti ma per altro anno di imposta (Cass. n. 6060/2013), assumendo che la corretta interpretazione del predetto articolo era stata già operata in tale sede dalla Corte, laddove invece l’ordinanza di cassazione con rinvio, che ha dato luogo al giudizio concluso con la sentenza in questa sede impugnata, ha espressamente ritenuto non vincolante l’ordinanza richiamata. La ricorrente, quindi, come ritenuto anche dal PG, propone una interpretazione degli effetti preclusivi del condono difforme dal principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, in palese violazione di quanto stabilito dall’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. 14 4. Il secondo e il terzo motivo possono essere trattati unitamente e sono in parte inammissibili e in parte infondati. 4.1. Occorre premettere che l’art. 16, comma 5, della l. n. 289/2002 rubricato chiusura delle liti pendenti, prevede che dalle somme dovute per il condono si scomputano quelle già corrisposte prima della presentazione della domanda di definizione, per effetto delle disposizioni vigenti in materia di riscossione in pendenza di lite; stabilisce, altresì, che, fuori dai casi di soccombenza dell'amministrazione, la definizione della controversia mediante condono non dà luogo alla restituzione delle somme già versate; e ciò anche se tali somme siano, in ipotesi, eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione della lite in via di condono. In altri termini, la norma in esame prevede, in via eccezionale, in deroga al principio della non restituzione delle somme versate in eccedenza rispetto a quanto dovuto per il condono, l'ammissibilità di tale restituzione solo in caso di soccombenza dell'amministrazione. Fuori di tale ipotesi eccezionale, vale la previsione generale della citata disposizione in forza della quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti, non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa (cfr. Cass. n. 14828/2008; Cass. n. 584/2012; Cass. n. 16339/2014; Cass., Sez. U., n. 1518/2016). Tali effetti trovano la causa nella natura stessa del condono, istituto che risponde al fine di recuperare risorse finanziarie e di ridurre il contenzioso, senza sottendere finalità di accertamento tributario ed esaurendo i suoi effetti con il raggiungimento di tali obiettivi. 4.2. Va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del terzo motivo, formulata dall’Agenzia, seguita dal PG, ai sensi dell’art. 348-ter cod. 15 proc. civ., dovuta alla presenza di una cd. doppia conforme di merito, in quanto tale limite risulta applicabile, ai sensi del d.l. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai soli giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012 (vedi anche Cass. n. 26860/2014; Cass. n. 11439/2018). 4.3. Ora, sotto un primo profilo, i motivi non sono ammissibili perché della sussistenza dei presupposti dell’eccezione, come causa petendi del rimborso, non trattano né la CTR né la stessa Cassazione, nella cui ordinanza non è previsto che si dovessero verificare i presupposti dell’esistenza della fattispecie derogatoria (il richiamo all’art. 16, comma 5, l. n. 289/2002 nella sua interezza non milita infatti in questo senso); né la parte, sia nel motivo che nell’ampia esposizione del fatto processuale, indica con chiarezza ove abbia posto la questione della sussistenza dei presupposti per la deroga, non potendosi ritenere tali i passaggi, riferiti solo agli atti del giudizio di rinvio, sulla vicenda processuale, non essendo indicato ove a tali fatti abbia inteso attribuire gli effetti invocati. Sotto un secondo profilo, la deroga della disposizione invocata concerne i versamenti dell’imposta eseguiti in corso di causa in applicazione delle norme sulla riscossione frazionata e non il caso di specie, ove si invocano come oggetto di rimborso crediti di imposta e ritenute di acconto. I motivi vanno pertanto disattesi. 5. Anche il quarto e il quinto motivo possono essere trattati unitariamente. Premesso che in ordine all’ammissibilità di tale ultimo motivo, ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ., valgono considerazioni analoghe a quelle già esposte nell’esame del terzo motivo, i due motivi sono inammissibili. 16 Con tali motivi la ricorrente censura la decisione della CTR per aver ritenuto sussistente la compensazione tra debiti e crediti nonostante il debito verso l’amministrazione fosse illiquido e inesigibile e fosse stato ridotto in forza di giudicato interno, maturato nel giudizio relativo all’avviso di accertamento, evidenziando in estrema sintesi che la definizione agevolata si riferiva non alla sola parte di debito residua rispetto alla compensazione del maggior debito di imposta con i crediti vantati dalla società ma al debito di imposta residuato alla formazione del predetto giudicato interno, il che si evincerebbe dall’importo pagato ai fini della definizione, determinato anche in ragione della franchigia applicata in ragione della presentazione di una dichiarazione integrativa ai sensi della l. n. 413 del 1991. Così facendo di fatto, da un lato, ancora una volta con tali motivi di fatto si censura la decisione della Corte che, rinviando alla CTR l’accertamento in fatto di un’avvenuta compensazione dedotta dall’ufficio con riferimento a quanto indicato nell’avviso di accertamento, aveva ritenuto decisivo tale fatto; dall’altro lato, si introducono elementi inammissibili, al fine di individuare l’oggetto della definizione non nell’accertamento ma nelle somme residue, determinate in base all’esito del giudizio ad esso relativo; nel ricorso infatti la parte, nell’assolvere l’onere di indicare ove aveva proposto la questione del giudicato interno formatosi nel giudizio relativo all’avviso di accertamento, indica esclusivamente il ricorso per riassunzione, senza evidenziare in quali atti dell’originario giudizio essa fosse stata dedotta; anche l’amministrazione ha infatti eccepito la novità della questione nel giudizio di rinvio e correttamente il giudice del merito ha fatto riferimento, come indicato dalla Corte, all’avviso di accertamento, negando ingresso alle ulteriori deduzioni difensive ed evidenziando che tale accertamento esaurisce l’unico effetto di collegamento e di dipendenza processuale tra il giudizio impugnatorio dell’avviso di 17 accertamento … in relazione al quale il BdS ha presentato la dichiarazione integrativa e la domanda di condono … da un lato ed il diverso giudizio di impugnazione del silenzio rifiuto avverso l’istanza di rimborso del credito per imposta Irpeg, poichè l’esorbitanza da tale postulato è palesemente impedita dai principi di diritto fissati nel giudizio rescindente. Il che peraltro esclude in radice il vizio di omesso esame del fatto. Ciò appare pienamente rispettoso del principio sopra esposto per cui, ove la cassazione avvenga sia per vizio di violazione di legge e per vizio di motivazione, la potestas iudicandi del giudice del rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell'applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità. 6. Col sesto motivo la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,violazione dell’art. 16, comma 5, legge 27/12/2002, n. 289 e degli artt. 3 e 53 Cost. questione di legittimità costituzionale; si duole che la CTR abbia negato il rimborso del credito IRPEG maturato dalla Società nel corso dell’anno 1984 – sulla base della supposta compensazione del medesimo con il maggior debito d’imposta oggetto di definizione – postulando così un’ingiustificata disparità di trattamento fra i crediti d’imposta richiesti a rimborso e quelli riportati a nuovo nelle annualità successive. Le considerazioni esposte nell’esame dei precedenti motivi escludono la fondatezza dell’ultimo motivo, peraltro espresso in via estremamente generica, in quanto la libera scelta del contribuente della richiesta di rimborso in luogo del riporto a nuovo del credito non è affatto incisa dalla decisione della CTR che, come visto, si è attenuta ai principi posti dalla Corte nell’ordinanza di rinvio. 18 7. Di conseguenza il ricorso va respinto. Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese di lite, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 20.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma in data 8 marzo 2024. Il consigliere estensore Federico Lume Il Presidente Ettore Cirillo

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8368 del 2021, proposto da Ca. Ga. ed altri, anche nella qualità di eredi della signora Li. De Ci., rappresentati e difesi dall'avvocato Ma. Fo., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Comune di Salerno, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Ba., Ni. Co. e An. At., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Società Re. Fe. It. s.p.a., non costituita in giudizio; nei confronti Provincia di Salerno, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. To., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Anas s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Autorità di Sistema Portuale Mar Tirreno Centrale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ba. Pi., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Prima 26 febbraio 2021, n. 519, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Salerno, della Provincia di Salerno, di Anas s.p.a. e dell'Autorità di Sistema Portuale Mar Tirreno Centrale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2024 il consigliere Angela Rotondano e uditi per le parti gli avvocati Fo., Co., At., Mi. in delega di Pi. e To.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il ricorso introduttivo del giudizio i signori Ca. - comproprietari di un'area sita nel Comune di Salerno, rappresentata da un costone scosceso sovrastante l'attuale via (omissis) (già strada statale (omissis)) di proprietà della Provincia di Salerno - impugnavano innanzi al Tribunale amministrativo per la Campania - Sezione staccata di Salerno i provvedimenti (l'ordinanza dirigenziale prot. n. 30522 del 22 febbraio 2014, l'ordinanza sindacale prot. n. 32788 e la nota prot. n. 32488 del 26 febbraio 2014) con cui il Comune di Salerno, a seguito del distaccamento da tale costone di alcuni massi rocciosi interessanti la strada sottostante, intimava, ai sensi dell'art. 54 del T.U.E.L., l'"esecuzione delle opere di verifica e di disgaggio delle parti instabili che incombono sulla strada al fine di garantire la percorribilità in sicurezza della sottostante strada SS. (omissis) ante crollo... (mediante) interventi sostitutivi in danno" e successivamente disponeva l'esecuzione di tali lavori (poi effettivamente eseguiti) in danno, ritenendo da loro dovuti i relativi costi. 1.1. I ricorrenti domandavano l'annullamento di tali atti, per violazione di legge, eccesso di potere per mancanza dei presupposti, difetto di istruttoria e motivazione, sostanzialmente in ragione della loro pretesa estraneità rispetto all'evento franoso, sostenendo che: - gli interventi intimati, trattandosi di opere di sostegno e conservazione della strada, spetterebbero all'amministrazione provinciale (ente proprietario della strada) ai sensi dell'art. 30, comma 4, seconda parte, del d.lgs. n. 285/1992 (c.d. "Codice della strada"); - in prossimità del costone, passerebbe (oltre alla cennata viabilità provinciale) una linea ferroviaria, un tratto autostradale della "Napoli - Salerno" nonché sarebbero stati avviati, nel sottosuolo, su iniziativa dell'Autorità Portuale di Salerno i lavori di realizzazione di una galleria nell'ambito del progetto c.d. "Po. Ov.", tutte circostanze che sarebbero state "ognuna da sola idonea ad incidere sulla stabilità del suolo e, quindi, a concorrere al verificarsi dell'intervenuta frana". 1.2. Si costituiva in giudizio il Comune di Salerno, difendendo la legittimità dei propri atti, siccome preceduti da una precisa e approfondita attività istruttoria posta in essere principalmente dalla Provincia di Salerno, nella qualità di ente titolare e gestore del tratto di strada interessato dalla frana verificatasi. 1.3. Si costituivano in giudizio anche l'Autorità Portuale di Salerno e la Provincia di Salerno, la quale versava in atti una dettagliata relazione del Dirigente del settore Lavori Pubblici dell'Ente, in cui si dava conto della natura degli eventi franosi verificatisi e della relativa istruttoria al riguardo. 1.4. Tutte le amministrazioni concludevano, dunque, per il rigetto del gravame sostenendo che fossero i ricorrenti tenuti alla manutenzione del costone roccioso di loro proprietà . 1.5. Con successivo ricorso per motivi aggiunti, i signori Ca. impugnavano l'ulteriore ordinanza sindacale n. 18 del 26 novembre 2019, con cui il Comune - a seguito del distacco dal costone di ulteriore materiale roccioso - ordinava loro, ai sensi dell'art. 54 del T.U.E.L. l'esecuzione di altri lavori di protezione e verifica delle parti instabili, al fine di garantire il ripristino della percorribilità della sottostante strada statale, ribadendo come tali opere, avendo "per scopo la stabilità o la conservazione della strada", sarebbero invece a totale carico della Provincia, quale ente proprietario della strada, ai sensi dell'art. 30 comma 4 del Codice della strada. Evidenziavano, altresì, i ricorrenti come gli episodi di frana sarebbero stati, comunque, causati dalle continue ed intense sollecitazioni dovute al passaggio di veicoli pesanti sulla confinante strada provinciale e sul sovrastante viadotto autostradale della "Salerno - Reggio Calabria", alla linea ferroviaria nonché ai lavori di escavazione della galleria "Po. Ov.", tutti fattori in grado ciascuno di compromettere la stabilità dei terreni interessati dalle frane. Insistevano, quindi, per l'annullamento anche di tale atto, assumendone la manifesta illegittimità per carenza assoluta di legittimazione passiva ad eseguire le opere di cui all'ordinanza nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto del presupposto e di istruttoria. 1.6. Per contro, le amministrazioni costituite in giudizio chiedevano il rigetto anche dei motivi aggiunti, sostenendo la legittimità delle determinazioni assunte. 1.7. Il Comune evidenziava, tra l'altro, di aver eseguito anche le ulteriori opere di cui all'ordinanza del novembre 2019, impugnata in sede di motivi aggiunti, e che pendeva innanzi al Tribunale civile di Salerno di un giudizio (n. r.g. 6460/2016), instaurato dai ricorrenti avverso i provvedimenti comunali tesi al recupero delle somme occorse per la messa in sicurezza del costone di loro proprietà, nell'ambito del quale era stata disposta una consulenza tecnica d'ufficio. 1.8. L'Autorità Portuale di Salerno depositava, invece, una relazione tecnica della ditta esecutrice dei lavori di perforazione, in corso in prossimità del costone per cui è causa, volta a confutare ogni preteso nesso di causalità di tali lavori con il dissesto del costone. 1.9. La Provincia eccepiva in rito l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse sia del ricorso principale che del ricorso per motivi aggiunti, in ragione dell'incontestata successiva esecuzione dei lavori intimati ai ricorrenti a cura del Comune di Salerno. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, oggetto dell'odierno gravame, il T.a.r. adito, disattesa in limine l'eccezione di improcedibilità sollevata dalla Provincia, atteso "il ragionevole interesse" dei signori Ca. a una definizione nel merito della controversia, nella quale erano impugnati provvedimenti che costituivano gli antecedenti logici e procedimentali dei successivi atti del Comune di recupero delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori (sui quali pende il relativo giudizio innanzi al giudice ordinario), ha respinto sia il ricorso introduttivo che i motivi aggiunti, ritenendo infondate tutte le censure dedotte nei confronti dei provvedimenti adottati dal Comune per fronteggiare la situazione di imminente pericolo riscontrata in relazione al cedimento del costone roccioso di proprietà dei ricorrenti, e ha condannato questi ultimi a rifondere le spese in favore del Comune resistente, compensandole con le altri parti. 3. L'appello avverso la sentenza di primo grado è affidato a quattro motivi così rubricati: "I. - Error in iudicando - violazione di legge (art. 30 - comma 4 d.lgs. n. -285/1992) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento) II - Error in iudicando - violazione di legge (art. 30 - comma 4 d.lgs. n. 285/1992) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento III. - Error in iudicando - violazione di legge (artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - erroneità - illogicità - travisamento IV. - Error in iudicando - violazione di legge (art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 30 del d.lgs. n. 285/1992 ed art. 54 del d.lgs. n. 267/2000) - eccesso di potere (difetto assoluto del presupposto - di istruttoria - illogicità - travisamento". 3.1. Gli appellanti hanno, altresì, riproposto l'istanza istruttoria formulata in primo grado "al fine di accertare l'effettiva incidenza delle plurime concause in ordine al cedimento del costone roccioso". 3.2. Si sono costituiti in resistenza il Comune di Salerno, la Provincia di Salerno, l'Autorità Portuale. 3.3. In vista dell'udienza pubblica le parti hanno depositato memorie e repliche, precisando le rispettive tesi difensive. 3.4. In particolare, nella memoria di replica l'appellante, richiamato il contenzioso instaurato nei confronti degli enti che hanno realizzato sulle aree interessate dalle impugnate ordinanze alcune opere di pubblica utilità (relative al tratto ferroviario e autostradale Vietri-Salerno) e che è stato definito con le sentenze del Consiglio di Stato n. 9367 e 9368 del 31 ottobre 2023 (con cui sono stati respinti in parte gli appelli di Re. Fe. It. - R.F. e di Au. Me. It. con riferimento alla declaratoria di illegittimità del silenzio rifiuto serbato sulle istanze dei signori Ca. di adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell'art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, riconoscendo sostanzialmente l'obbligo di provvedere a carico di tali enti), hanno formulato istanza di rinvio dell'udienza fissata per la decisione del giudizio, evidenziando che la definizione di detti procedimenti assumerebbe "portata dirimente" in quanto l'"ipotesi di acquisizione delle aree in oggetto farebbe venir definitivamente meno il presupposto da cui muovono i provvedimenti impugnati (la presunta proprietà delle aree in capo agli odierni ricorrenti"). 3.5. Il Comune ha, invece, esposto che i signori Ca. hanno impugnato anche una successiva ordinanza sindacale urgente (prot. 34982 del 19 febbraio 2021), adottata a seguito di ulteriore crollo avvenuto il 10 febbraio 2021 che ha interessato il costone oggetto di causa, dinanzi allo stesso T.a.r. (ricorso n. 585/2021 R.G.) il quale, con sentenza n. 2940 del 12 dicembre 2023, ha respinto il ricorso, ritenendo legittima l'intimazione rivolta ai signori Ca. ad eseguire le opere di messa in sicurezza relativamente alla porzione di costone di proprietà . 3.5.1. Il Comune ha poi replicato che i giudizi relativi all'accertamento dell'irreversibile trasformazione dei fondi da cui sarebbe avvenuto il crollo (ricondotta dagli odierni appellanti all'operato dell'A.N.A.S. s.p.a, delle Au. me. s.p.a e della R.F. s.p.a., che avrebbero realizzato lavori autostradali e ferroviari) e alla correlata istanza ex art. 42 bis T.U. espropriazioni, equivarrebbero a "un'implicita confessione della sussistenza del loro diritto di proprietà sulle aree al tempo degli eventi franosi". 3.6. La Provincia di Salerno, nel costituirsi in giudizio, ha invece eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che i compiti di gestione e di vigilanza sul tratto stradale interessato da dissesti che hanno avuto origine da un costone di proprietà privata non potrebbero comportare a suo carico l'esecuzione di opere di manutenzione delle ripe laterali esterne al confine della strada. 3.7. All'udienza pubblica dell'11 gennaio 2024, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione. DIRITTO 4. In limine va disattesa l'istanza di rinvio formulata dagli appellanti (alle quali si sono opposte le altre parti del giudizio). L'istanza, infatti, non può essere accolta in quanto, come più approfonditamente si evidenzierà e contrariamente a quanto afferma parte appellante, il contenzioso concernente le domande di acquisizione sanante rivolte dai signori Ca. agli enti che hanno realizzato sulle aree oggetto delle ordinanze impugnate in primo grado opere di pubblica utilità che avrebbero determinato l'irreversibile trasformazione dei luoghi non hanno alcuna rilevanza ai fini della decisione del presente giudizio. 5. Tanto premesso, può procedersi all'esame dei motivi di gravame con cui è appellata la sentenza in epigrafe che ha ritenuto legittimi i provvedimenti urgenti, adottati dal Comune di Salerno, con i quali, a seguito di dissesti che nel tempo hanno interessato un costone roccioso sovrastante la strada statale (omissis), si è intimato ai medesimi appellanti, in qualità di proprietari, di eseguire le opere di messa in sicurezza a tutela della pubblica incolumità e della sicurezza della circolazione stradale. 6. In particolare, con il primo motivo gli appellanti contestano la sentenza in quanto li ha ritenuti responsabili dell'esecuzione delle opere di messa in sicurezza del costone roccioso per cui è causa "quali proprietari della ripa soprastante la strada provinciale", laddove dovrebbe applicarsi alla fattispecie l'articolo 30, comma 4, prima parte, del D.Lgs. n. 285/1992 (c.d. Codice della Strada), in forza del quale il proprietario dell'area è tenuto alla costruzione o riparazione delle opere di sostegno lungo le strade soltanto qualora trattasi di opere strumentali alla difesa del fondo di proprietà (precisamente, secondo il tenore testuale della norma, "qualora esse servano unicamente a difendere ed a sostenere i fondi adiacenti"), mentre obbligato ad eseguirle è l'ente proprietario della strada quando hanno per scopo la stabilità o la conservazione della strada stessa. 6.1. Su queste basi gli appellanti, richiamando vari precedenti del medesimo Tribunale amministrativo asseritamente relativi a vicende analoghe, ribadiscono di non essere tenuti all'esecuzione delle opere in questione, finalizzate a stabilizzare il costone in frana per garantire "la percorribilità della sottostante strada S.S. (omissis)" a tutela della pubblica incolumità dei soggetti che vi transitano. Le opere di messa in sicurezza sarebbero, invece, a carico della Provincia, quale ente proprietario della strada, o, comunque, delle pubbliche amministrazioni "a vario titolo coinvolte nel perseguimento delle finalità pubbliche sottese al transito viario". 6.2. Con il secondo motivo gli appellanti sostengono l'assenza di qualsivoglia obbligo manutentivo a loro carico anche sotto ulteriori profili. 6.2.1. Al riguardo, evidenziano che da una serie di elementi si trarrebbe la natura di opera pubblica degli interventi di messa in sicurezza. Nello specifico deducono che, a seguito degli eventi franosi che hanno interessato il costone roccioso, la stessa Amministrazione comunale ha eseguito i lavori di messa in sicurezza e, inoltre, che per le medesime finalità di tutela della pubblica incolumità sono state installate da enti pubblici reti metalliche di protezione del costone. Rappresentano poi che il Comune avrebbe anche provveduto a inserire i lavori nell'ambito del Piano Triennale delle Opere Pubbliche, oltre ad aver deliberato di candidare a finanziamento pubblico le opere di messa in sicurezza del costone soprastante la strada statale (omissis) Salerno - Vietri sul mare, e che le opere sono state poi effettivamente ammesse a finanziamento con successivo decreto ministeriale del 7 dicembre 2020 per un importo di Euro 980.000,00 (primo stralcio). Evidenziano, inoltre, che la Regione Campania, con decreto n. 98 del 23 marzo 2021, ha impegnato l'importo complessivo di Euro 400.000,00 (stimato per il costo dei lavori necessari alla rimozione del pericolo e alla riapertura della strada) in favore del Comune. 6.2.2. Da tali elementi si desumerebbe che l'obbligo di effettuare gli interventi di messa in sicurezza del costone roccioso sarebbe esclusivamente a carico delle pubbliche amministrazioni che hanno chiesto e conseguito finanziamenti pubblici per eseguire i lavori; dal che l'illegittimità dei provvedimenti impugnati con i quali il Comune tenta di riversarli sugli appellanti. 6.3. Con il terzo motivo gli appellanti sostengono l'erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i presupposti di contingibilità e urgenza per l'adozione delle ordinanze impugnate, laddove nella specie non sarebbe stato configurabile alcun pericolo di un danno grave e imminente. 6.3.1. Il difetto dei presupposti rileverebbe anche sotto altro profilo, in quanto, trattandosi di attività ordinaria, sussisterebbe la competenza dirigenziale, ai sensi dell'art. 107 del D. Lgs. n. 267/2000. 6.3.2. La sentenza avrebbe poi errato nel ritenere che l'urgenza di provvedere esonerasse l'amministrazione dallo svolgimento dei dovuti accertamenti, mentre, quale che sia la natura del potere esercitato (ordinario o straordinario), l'amministrazione è tenuta, ai sensi dell'art. 3 comma 1 della L. n. 241/1990, a motivare le proprie determinazioni "in relazione alle risultanze dell'istruttoria". 6.3.4. Nella specie, invece, non sarebbe neanche chiaro quale sia l'origine e la causa del distacco verificatosi, né se questo riguardi o meno le aree di proprietà degli appellanti. Anche la consulenza tecnica disposta nel giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno avrebbe dato atto dell'impossibilità di stabilire in modo puntuale la "provenienza dei massi e pietrisco che hanno caratterizzato i fenomeni franosi del 21 febbraio e del 16 giugno del 2014". In difetto di prova in ordine al punto di distacco dei massi e alle cause che lo hanno determinato non si sarebbe potuto far carico agli appellanti di rimuovere la situazione di pericolo. Sicché il Comune, coi provvedimenti impugnati, avrebbe soltanto perseguito la sviata finalità "di individuare un qualche destinatario, quale che fosse, per sottrarsi agli obblighi a suo carico". 6.3.5. Il difetto di istruttoria inficerebbe anche la sentenza appellata che ha omesso di disporre gli incombenti istruttori richiesti dai ricorrenti nel giudizio di primo grado. 6.4. Con il quarto motivo l'appellante lamenta la violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia da parte della sentenza di prime cure su plurime censure formulate con il ricorso introduttivo e coi motivi aggiunti. 6.4.1. In particolare, sarebbe assorbente l'omessa valutazione di profili di responsabilità addebitabili agli enti coinvolti i quali non avrebbero svolto alcuna istruttoria per chiarire le cause del distacco. 6.4.2. I crolli del materiale roccioso sarebbero imputabili alle attività di trasformazione dell'area nel tempo poste in essere da varie amministrazioni (tra le altre, ferrovia ed autostrada) e, da ultimo, causati dai lavori di escavazione della galleria "Po. Ov." dell'Autorità Portuale di Salerno. Ciò troverebbe conferma nella produzione documentale depositata dal Comune nel giudizio di primo grado, in particolare nella relazione del Settore Ambiente e Mobilità sul contenzioso per motivi aggiunti inerente l'ordinanza sindacale del 26 novembre 2019 (allegato sub 4 della produzione documentale), nella quale il Comune avrebbe chiarito che "non è comunque da escludere" che i distacchi ed i crolli sulla parete siano riconducibili all'esecuzione dei suddetti lavori. Ciò nonostante le richieste rivolte all'Autorità Portuale di avviare delle attività di monitoraggio per valutare tale eventualità sarebbero rimaste prive di riscontro. 7. I motivi di appello non sono fondati. 8. In primo luogo, non è condivisibile l'assunto secondo cui il primo giudice non avrebbe correttamente individuato la disciplina normativa applicabile alla fattispecie. 8.1. Invero, da un lato i dissesti che nel 2014 e nel 2019 hanno interessato il costone roccioso per cui è causa soprastante la strada provinciale si sono originati nelle particelle catastali di proprietà degli appellanti, dall'altro la porzione franata ha le caratteristiche fisiche che ne impongono la ricomprensione nell'ambito disciplinato dall'art. 31 che obbliga i proprietari delle ripe a provvedere alla manutenzione delle medesime. 8.2. Correttamente, quindi, il Comune prima e poi il Tribunale hanno rilevato l'inapplicabilità alla vicenda dell'art. 30, comma 4, prima parte, del Codice della strada, in quanto tale disposizione si riferisce soltanto alla "costruzione e riparazione di opere di sostegno lungo le strade", mentre nel caso di specie è stato ordinato agli odierni appellanti di provvedere alle opere di verifica e di disgaggio delle parti instabili del costone roccioso (sovrastante la strada provinciale), trattandosi di un obbligo manutentivo dell'area di loro proprietà che il legislatore chiaramente pone a loro carico, al fine di prevenire il ripetersi di smottamenti e cedimenti del terreno in grado di interessare la sede stradale, determinando una situazione di pericolo per la pubblica incolumità e la sicurezza della circolazione stradale. 8.3. Tali opere rientrano negli obblighi di manutenzione previsti nell'art. 31 del Codice della Strada (rubricato "Manutenzione delle ripe"). 8.3.1. In particolare, la disposizione normativa stabilisce che "i proprietari devono mantenere le ripe dei fondi laterali alle strade, sia a valle che a monte delle medesime, in stato tale da impedire franamenti o cedimenti del corpo stradale, ivi comprese le opere di sostegno di cui all'art. 30, lo scoscendimento del terreno, l'ingombro delle pertinenze e della sede stradale in modo da prevenire la caduta di massi o di altro materiale sulla strada. Devono altresì realizzare, ove occorrono, le necessarie opere di mantenimento ed evitare di eseguire interventi che possono causare i predetti eventi". 8.3.2. In base alla norma menzionata spetta, dunque, ai proprietari l'obbligo di provvedere alle opere di sostegno nelle ripe, per tali intendendosi, secondo la definizione recata dall'art. 3, n. 44, del D.Lgs. n. 285/1992, la "zona di terreno immediatamente sovrastante o sottostante le scarpate del corpo stradale rispettivamente in taglio o in riporto sul terreno preesistente alla strada". 8.3.3. Il successivo art. 14, comma 1, definisce, poi, i "Poteri e compiti degli enti proprietari delle strade", stabilendo, per quel che qui interessa, come "Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta". Va ancora sottolineato che, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria, l'art. 31 citato prevede la sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi, a spese dei titolari dei fondi. 8.3.4. Dal riportato quadro normativo discende, quindi, come le disposizioni di cui agli artt. 30 e 31 del Codice della Strada delineano un quadro stabile dei rapporti tra proprietari dei fondi finitimi e enti proprietari delle strade, addossando ai primi gli oneri della manutenzione delle ripe dei fondi laterali ovvero la realizzazione delle relative opere di mantenimento, così da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno ovvero alla caduta di massi o altro materiale sulla strada (cfr. in tal senso Cons. Stato, V, 31 maggio 2021, n. 4184). 8.3.5. Giova poi richiamare il parere del Consiglio di Stato n. 2158 del 9 maggio 2012, ove è stato chiarito che "l'art. 14 del Codice della Strada assegna all'ente comunale il compito di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale, ma tale obbligo non si estende alle aree estranee circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade. Le ripe, ai sensi dell'art. 31 del Codice della Strada, devono essere mantenute dai proprietari delle medesime in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti e cedimenti del corpo stradale o delle opere di sostegno, l'ingombro delle pertinenze e della sede stradale, nonché la caduta di massi o altro materiale, qualora siano immediatamente sovrastanti o sottostanti, in taglio o in riporto nel terreno preesistente alla strada, la scarpata del corpo stradale". 8.4. In sintesi, in base alla norma incombono, dunque, sui proprietari obblighi manutentivi relativamente alle aree esterne al confine stradale e, in particolare, riguardo alle ripe situate nei fondi laterali alle strade, ai sensi dell'art. 31 cit., in modo da impedire e prevenire situazioni di pericolo connesse a franamenti o scoscendimenti del terreno, o la caduta di massi o altro materiale sulla strada (Cons. Stato sez. III, 26 gennaio 2017, n. 329; si veda anche la più recente, Cons. Stato, sez. V, 9 giugno 2023, n. 5666). Pertanto, l'obbligo di manutenzione, gestione e pulizia della sede stradale in capo all'ente proprietario della strada non si estende alle aree estranee ad essa e circostanti, in particolare alle ripe site nei fondi laterali alle strade. 8.5. Ai riportati principi si è pienamente conformata la sentenza appellata. 8.5.1. Nel caso di specie trova applicazione l'art. 31, poiché i costoni rocciosi di proprietà degli appellanti non sono "aree interne al confine stradale" (come, del resto, dimostrano le immagini presenti nell'allegato fotografico della consulenza tecnica d'ufficio disposta in sede civile), per cui non può condividersi l'assunto di parte appellante in base al quale, avendo l'intervento ad oggetto opere di sostegno a vantaggio del sedime stradale, il relativo onere dovrebbe essere sostenuto dall'ente proprietario della strada. Infatti, è stato già chiarito (si veda Cons. Stato V, n. 4184/2021 cit.) che l'art. 31, D.Lgs. n. 285/1992, recante la disciplina della "manutenzione delle ripe", richiamando espressamente l'art. 30 del medesimo decreto, non limita l'intervento del proprietario delle ripe alle sole opere necessarie a sostenere i fondi adiacenti, escludendo per converso quelle strumentali alla sicurezza della strada. La disposizione richiamata è, piuttosto, chiara nello stabilire che, ove le opere di sostegno insistano sulle ripe, esse sono sempre e comunque a carico del proprietario del fondo, in linea con la disciplina generale in materia di responsabilità aquiliana secondo cui "ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia" (art. 2051 c.c.). In definitiva, l'art. 31 contiene una disciplina speciale e derogatoria per le ripe rispetto a quella dell'art. 30 con riferimento alla ripartizione "ordinaria" degli oneri delle opere di sostegno. Ne segue che, rientrando la fattispecie nell'ambito di applicazione del citato art. 31, incombe sugli appellanti l'obbligo di curare il mantenimento della ripa ricompresa nei mappali in loro proprietà onde scongiurare i potenziali pericoli derivanti da frane o smottamenti del terreno. 8.5.2. È poi appena il caso di osservare che l'esecuzione delle opere necessarie a garantire la stabilità e la conservazione della strada non può impropriamente confondersi con l'esecuzione di opere urgenti volte a garantire la sicurezza del traffico veicolare, a tutela della pubblica e privata incolumità, che costituisce il fondamento delle impugnate ordinanze adottate ex art. 54 del d.lgs. 267/2000. Gli interventi di cui si discute non sono infatti opere di sostegno connesse e funzionali alla realizzazione della strada pubblica (come quelle di cui all'art. 30 cit.) bensì preordinate ad evitare franamenti dal costone di proprietà degli appellanti sulla strada pubblica. 8.6. In un contesto di assoluta e sicura urgenza e di concreto pericolo per la pubblica incolumità e la sicurezza della circolazione stradale il Comune ha, dunque, bene indirizzato le ordinanze impugnate nei confronti dei soggetti che risultano comproprietari dell'area interessata dall'intervento di messa in sicurezza, laddove nulla consentiva (né consente allo stato) di avallare le alternative ricostruzioni qui offerte dagli appellanti, secondo cui a ciò sarebbero tenuti il Comune o, comunque, le amministrazioni "a vario titolo coinvolte nel perseguimento delle finalità pubbliche sottese al transito viario". 8.7. In definitiva, alla luce delle risultanze in atti, è immune dalle censure formulate la determinazione dello stato dei luoghi e la loro qualificazione in relazione alle prescrizioni date al riguardo dal codice della strada, operate dall'appellata sentenza, laddove ha concluso che incombe sui ricorrenti e non sull'ente proprietario della strada l'onere di provvedere alle prescritte opere di consolidamento e messa in sicurezza del versante roccioso, in quanto gli interventi ordinati ricadono nelle ripe di loro proprietà . 8.8. Corretta è dunque la ricostruzione del quadro fattuale e normativo di riferimento posta dall'amministrazione comunale a fondamento dei provvedimenti impugnati che hanno individuato negli odierni appellanti i soggetti responsabili ad eseguire le intimate opere di messa in sicurezza. Il tratto roccioso interessato dagli interventi di consolidamento e messa in sicurezza rientra nelle ripe di proprietà degli appellanti che, pertanto, devono manutenerle in modo da impedire e prevenire le descritte situazioni di pericolo incombenti sulla sede viaria. 8.9. Inoltre, deve anche evidenziarsi come la consulenza tecnica d'ufficio disposta nel giudizio civile esperito dagli appellanti per contestare l'attribuzione dei costi della messa in sicurezza della parete rocciosa ha chiarito in modo esaustivo l'effettiva corrispondenza tra le particelle catastali di proprietà Ca. e i punti di attivazione del moto franoso, rilevando che "...le parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada e sul terrazzo suindicati, interessati dai dissesti, sono quelle che ricadono nelle particelle di proprietà Ca. Al. - eredi Ca. che si sviluppano per circa 100 m di altitudine rispetto alla quota della sede stradale..." (cfr. pagg. 22 di 23 della relazione di c.t.u.- doc. 2 della produzione di parte del Comune di Salerno depositata il 23 dicembre 2020). Anche la documentazione fotografica allegata alla relazione tecnica redatta dal consulente di parte dell'Autorità di Sistema Portuale individua i luoghi in cui ebbero a verificarsi gli eventi franosi all'interno della proprietà degli appellanti. 9. Sono, del pari, infondate le doglianze articolate con il secondo motivo con cui si pretende di ricavare la natura pubblicistica delle opere di manutenzione, eseguite sul predetto costone, di proprietà degli appellanti, in occasione degli eventi franosi, dall'utilizzo di risorse pubbliche per effettuare i lavori in danno. 9.1. Per converso, il Collegio rileva come nessuno degli elementi addotti dall'appellante - entità dei costi, finalità dei lavori, natura dei finanziamenti da utilizzare e inserimento delle opere di messa in sicurezza della strada nel Piano Triennale dei lavori pubblici - facciano propendere per il carattere pubblicistico delle opere intimate. 9.2. Invero, non è in discussione che l'Amministrazione comunale abbia richiesto l'assegnazione dei finanziamenti da utilizzare per la messa in sicurezza del costone roccioso che sovrasta la strada 18 nel tratto Salerno - Vietri sul mare: ma ciò è avvenuto con riguardo alle aree di competenza degli enti locali e non per quelle di proprietà dei privati. 9.3. Sotto altro concorrente profilo, l'importo di circa Euro 400.000,00 stanziato dalla Regione Campania, destinato al Comune di Salerno, riguarda i lavori eseguiti dall'amministrazione comunale in danno agli odierni appellanti e corrisponde all'importo stimato dai tecnici comunali, successivamente alla frana, al fine di effettuare le urgenti opere di disgaggio e di ripristino delle condizioni di sicurezza del transito veicolare sulla strada (opere che l'amministrazione ha poi eseguito in sostituzione degli appellanti). 9.4. In definitiva, non è condivisibile l'iter argomentativo di parte appellante quanto alla dedotta natura pubblica delle opere in questione (in ragione dell'attivazione di procedure di ammissione a finanziamenti pubblici, eguali nell'importo alla stima effettuata nei provvedimenti impugnati, nonché dell'inserimento delle attività di ripristino e messa in sicurezza del costone roccioso soprastante la strada nell'ambito del piano triennale delle opere pubbliche). Difatti, le iniziative sopra delineate sono state esclusivamente volte a garantire la copertura finanziaria per l'esecuzione in danno degli interventi. 9.5. Per quanto attiene, infine, alla presenza di reti metalliche da tempo installate nel tratto di versante roccioso ricadente nella ripa oggetto dell'ordinanza sindacale, non è stato provato in giudizio, neppure a livello indiziario, che tali reti siano state posizionate dalle Amministrazioni intimate ed in special modo dall'ente gestore della strada (la Provincia di Salerno). Ad ogni modo, anche l'individuazione del soggetto che ha posizionato le reti sulla ripa risulta, per il caso di specie, del tutto irrilevante. Infatti, gli interventi di installazione delle reti, ragionevolmente volti a mitigare il rischio connesso al potenziale crollo di massi o di altro materiale sulla sede stradale, sono opere comunque rientranti nella previsione di cui all'art. 31 del Codice della Strada, sicché non assume alcuna rilevanza ai fini della decisione l'identità del soggetto che a suo tempo le posizionò in loco. 9.6. In conclusione, se, per un verso, come detto nell'esame del precedente motivo, sulla base del quadro normativo che le riportate disposizioni del Codice della Strada concorrono a delineare spettano ai proprietari delle aree estranee alla sede stradale i relativi obblighi di manutenzione, per altro verso neanche le ulteriori circostanze prospettate con il secondo motivo valgono a smentire la linearità dell'azione amministrativa, indirizzata unicamente dall'urgenza di ripristinare le condizioni di sicurezza per la pubblica incolumità e la circolazione stradale e, quindi, volta ad acquisire le risorse necessarie ad eseguire celermente gli interventi a ciò finalizzati. 9.7. In tale quadro, anche gli argomenti addotti dall'appellante con il mezzo in esame non sovvertono il corretto ragionamento del primo giudice e non apportano alcun elemento di sostanziale novità alla controversia. 10. Alla luce di quanto sin qui esposto, neppure possono condividersi i rilievi formulati con il terzo mezzo secondo cui qui non sussisterebbe l'attualità e la gravità del pericolo, stante l'assenza di un rischio concreto di un danno grave e imminente. 10.1. Per contro, sussistevano i presupposti della necessità, urgenza e attualità del pericolo per l'adozione delle ordinanze sindacali impugnate. 10.2. In generale, il potere sindacale contingibile e urgente presuppone, da un lato, una condizione di pericolo effettivo, da evidenziare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile che possa provocare rischi imminenti per la salute o per l'incolumità pubblica, alla quale non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. Ai fini del legittimo utilizzo del potere di ordinanza rileva, comunque, non la circostanza estrinseca che il pericolo sia correlato ad una situazione preesistente ovvero a un evento nuovo e imprevedibile, ma la sussistenza intrinseca della necessità e dell'urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici da tutelare, a prescindere sia dalla prevedibilità, che, soprattutto, dall'imputabilità della situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere. La giurisprudenza è, poi, concorde nell'affermare come, affinché il Sindaco possa legittimamente ricorrere a tale strumento sia comunque indispensabile la sussistenza, l'attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente. 10.3. Ciò posto, la sentenza di prime cure non ha affatto reputato la situazione di urgenza di per sé sufficiente a legittimare una carenza motivazionale e istruttoria dei provvedimenti contingibili e urgenti, come sostiene parte appellante. 10.4. Tale affermazione non trova, infatti, riscontro nella chiara motivazione della decisione appellata. 10.5. Tutt'altro è il percorso argomentativo seguito dal primo giudice. Quest'ultimo, ravvisata correttamente l'urgenza di provvedere (atteso l'eccezionale pericolo per l'incolumità pubblica che rendeva indispensabili interventi immediati e indifferibili, in ragione dei crolli che avevano interessato la sede stradale) solo ha condivisibilmente osservato che ciò esonerasse in prima battuta l'autorità procedente dallo svolgere accertamenti complessi e laboriosi, potenzialmente incompatibili con l'esigenza di pronta adozione del provvedimento contingibile e urgente, ma, al contempo, ha pure precisato come "la sommarietà degli accertamenti non può riguardare il quadro giuridico di riferimento, che invece deve essere sempre approfonditamente conosciuto dall'Amministrazione anche nei casi che richiedano un immediato intervento". La sentenza ha poi anche correttamente evidenziato che ai fini dell'emanazione delle ordinanze contingibili di cui all'art. 54, T.U.E.L. può prescindersi dalla verifica della responsabilità dell'evento dannoso, stante l'indispensabile celerità che caratterizza il relativo intervento. Tali provvedimenti non hanno, infatti, carattere sanzionatorio, non presupponendo la responsabilità del soggetto intimato (nel caso di specie da individuarsi, come visto, ai sensi dell'art. 31 del Codice della strada, nel proprietario del costone roccioso interessato dai distaccamenti), bensì solo ripristinatorio, in quanto diretti alla rimozione dello stato di pericolo e alla prevenzione di qualsiasi danno alla salute e all'incolumità pubblica; con la conseguenza che il relativo ordine potrà essere legittimamente indirizzato al proprietario dell'area, quale soggetto che si trova con questa in un rapporto tale da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di pericolo, ancorché detta situazione non possa essergli imputata, ben potendo costui, poi, eventualmente rivalersi nei confronti di eventuali soggetti terzi ritenuti responsabili. 10.6. Tanto chiarito, nel caso di specie i tempi brevi imposti dall'esigenza di provvedere non hanno in concreto impedito all'Amministrazione comunale l'attenta considerazione di tutte le circostanze apprese nel corso dell'istruttoria (seppur rapidamente) condotta, che hanno consentito di individuare negli odierni appellanti i soggetti tenuti all'esecuzione degli interventi volti a rimediare alla situazione di pericolo determinata dai distacchi verificatisi sulla parete rocciosa ricadente nell'area di loro proprietà . 10.7. Al riguardo, quanto all'asserita mancanza di qualsivoglia istruttoria per individuare la particella catastale da cui ha avuto origine il dissesto, si tratta anche qui di assunto infondato. Sono in atti i rapporti di intervento dei Vigili del Fuoco e del Settore Viabilità e Trasporti della Provincia di Salerno nonché i provvedimenti dirigenziali del Settore ambiente del Comune di Salerno. In particolare, sono eloquenti gli atti della Provincia di Salerno: nel rapporto prot. n. 21936 del 5 giugno 2014 del Settore Grandi Opere, Lavori Pubblici e Viabilità (depositato nel giudizio di primo grado il 17 marzo 2015) a pag. 3 si riferisce che "... Tale evento (il crollo di materiale lapideo) ha creato e reso evidente un grave pericolo per l'incolumità e la sicurezza dei cittadini, proveniente da costoni rocciosi di esclusiva proprietà privata (...ed Eredi Ca.), che per essere eliminato prevede l'esecuzione di attività, necessarie ed indifferibili, per superare l'emergenza connessa all'evento stesso...", precisando che anche per i nuovi eventi di distacchi dai costoni prospicienti la strada del febbraio 2014 "le aree oggetto del crollo sono ricadenti nelle aree di proprietà ... e degli eredi Ca....". 10.8. Inoltre, anche i richiami operati alla consulenza tecnica d'ufficio disposta in sede civile, depositata agli atti del presente giudizio, non confermano le tesi di parte appellante. Infatti, a tale proposito la relazione del consulente tecnico ha solo chiarito che, data l'altezza del costone, non v'è certezza assoluta sul punto preciso del distacco dei massi ("non è stato possibile eseguire un riscontro puntuale della provenienza dei massi e pietrisco che hanno caratterizzato i fenomeni franosi del 21 febbraio e del 16 giugno del 2014"), ma ha sostanzialmente concluso che detto punto ricade certamente all'interno della particella di proprietà Ca. ("si può ragionevolmente concludere che le pietre e il pietrisco dei fenomeni franosi si sono distaccate da zone di quota non troppo elevata rispetto a quella della strada e quindi ricadenti nelle particelle di proprietà Ca. Al. che successivamente sono state oggetto di lavori"). Giova anzi richiamare ancora, a chiarimento dell'effettiva corrispondenza tra le particelle catastali di proprietà Ca. e i punti di attivazione del moto franoso, i passaggi - già sopra riportati - della relazione di consulenza laddove si evidenzia come sia "tuttavia... ben chiaro che le parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada e sul terrazzo suindicati, interessati dai dissesti, sono quelle che ricadono nelle particelle di proprietà Ca. Al. - eredi Ca. che si sviluppano per circa 100m di altitudine rispetto alla quota della sede stradale..." (pagg. 22 di 23 della consulenza tecnica). La relazione di consulenza (cfr. pag. 19) ha, dunque, chiarito che "le particelle materialmente interessate dai lavori, come si evince dalle documentazioni prodotte dalla Direzione dei lavori, sono state le nn. (omissis) foglio (omissis) per quelli relativi all'evento del 21/02/2014 e la n. (omissis) foglio (omissis) per i lavori relativi all'evento del 16/06/2014. Le tre particelle suindicate risultano intestate a Ca. Al., padre defunto dei ricorrenti." 10.9. Insomma se è ben vero che l'urgenza della situazione contingente esonerava l'amministrazione dal compiere nell'immediato laboriosi accertamenti istruttori, è anche vero che, nel caso di specie, l'Amministrazione ha comunque effettuato un'approfondita valutazione delle circostanze relative al crollo del costone roccioso. Tale valutazione è poi esitata nei provvedimenti impugnati che, previa corretta individuazione dei proprietari delle particelle interessate, hanno ordinato a questi ultimi le opere di messa in sicurezza finalizzate alla tutela della incolumità pubblica e della sicurezza del territorio. Ne consegue che correttamente la sentenza impugnata ha respinto le censure di difetto di istruttoria e di motivazione degli atti impugnati. 11. È infine infondato il quarto motivo di appello. 11.1. La motivazione della sentenza, ancorché concisa, è esaustiva e affronta tutte le questioni emerse nel corso del giudizio negli aspetti essenziali, senza tralasciarne alcuna. 11.2. In particolare, quanto alla pretesa riconducibilità dell'evento franoso ai lavori della galleria "Sa. Po. Ov.", si osserva che l'Autorità portuale ha richiamato gli esiti della perizia effettuata dalla società NT. s.r.l. (incaricata dall'appaltatore) nella parte in cui ha verificato che "le onde sismiche sono inferiori ai limiti che le normative DIN 4150-3 indicano, come tali da garantire al 100% la non insorgenza di danni, anche a livello cosmetico". 11.3. In ogni caso gli appellanti non hanno fornito nel presente giudizio il benché minimo principio di prova sulla esistenza di interferenze (topografiche e temporali) tra la realizzanda galleria e le aree oggetto di causa, interferenze che risultano anzi smentite dalle puntuali deduzioni svolte dall'Autorità portuale (cfr. memoria di replica). 11.4. Quest'ultima, sulla base delle mappe catastali, ha puntualmente dimostrato che rispetto alle aree oggetto di causa la galleria in questione sottopassa solo la particella (omissis) (oggetto del dissesto del 16 giugno 2014) e che però a tale data i fronti di scavo della galleria distavano da dette aree circa 400 m; ma, soprattutto, lo scavo della galleria nella zona sottostante la particella n. (omissis) risultava eseguito nel periodo ricompreso tra i mesi di novembre 2013 e gennaio 2014 (cioè ben sei mesi prima dell'evento franoso). Per il restante tracciato della galleria non vi è invece (la circostanza non è oggetto di specifica confutazione) alcuna interferenza verticale con le altre particelle oggetto di causa e di proprietà degli appellanti (nello specifico con le particelle nn. (omissis) che planimetricamente distano dai circa 45 m. ai circa 150 m-). 11.5. Anche la relazione del Settore Ambiente e Mobilità depositata in data 23 dicembre 2020, richiamata da parte appellante, non conferma in alcun modo una siffatta correlazione tra il crollo del costone roccioso e i lavori di esecuzione della suddetta galleria, precisando anzi che "Non risulta dimostrato da alcuna documentazione tecnica o da alcuna sentenza che l'esecuzione di "Sa. Po. Ov." determini distacchi e crolli sulla parete in superficie...". 11.6. Concludendo sul punto, non si è raggiunta alcuna prova che i moti franosi originatisi nella proprietà Ca. siano causalmente riconducibili a detti lavori; in ogni caso, trattasi di aspetto manifestamente irrilevante ai fini della decisione del presente giudizio, che non costituisce la sede naturale di un siffatto accertamento. 12. Le risultanze di causa non danno adito a dubbi sul fatto che i crolli si siano originati dal costone roccioso sito in proprietà degli appellanti. 13. Non può dunque essere accolta, in quanto irrilevante ai fini della decisione, l'istanza istruttoria, riproposta in questa sede dall'appellante, di una verificazione o consulenza tecnica d'ufficio finalizzate ad "accertare l'effettiva incidenza delle plurime concause in ordine al cedimento del costone roccioso". 13.1. Al riguardo, si osserva che la sussistenza di eventuali responsabilità di terzi nella causazione degli eventi franosi (che parte appellante ipotizza essere stati causati dai lavori di competenza dell'Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale ovvero da passati interventi svolti da Ferrovie dello Stato e dalla società Autostrade), oltre ad essere rimasta mera asserzione sfornita di qualsivoglia dimostrazione anche a livello indiziario (e, come è noto, l'attività istruttoria di questo giudice regolata dall'art. 63 cod. proc. amm. non può sopperire alle carenze probatorie riferibili alle parti del processo), è estranea al tema dell'odierno giudizio, che verte sulla legittimità degli atti amministrativi impugnati e prescinde dall'imputabilità a terzi delle cause dei franamenti. 13.2. Infatti, tale profilo che attiene alla imputabilità della situazione di pericolo (e, dunque, in definitiva all'accertamento delle cause dei crolli) rileva semmai ai fini della individuazione del soggetto su cui vanno definitivamente poste le spese sostenute dall'amministrazione comunale, nell'ambito del giudizio civile a ciò preposto. Per converso, nell'ambito del presente giudizio concernente la legittimità dei provvedimenti contingibili e urgenti, quel che rileva (e che risulta, soprattutto, debitamente accertato in questa sede) è la corretta individuazione dei soggetti responsabili dell'esecuzione delle opere di messa in sicurezza sulle parti di costone roccioso direttamente incombenti sulla strada, interessati dai dissesti. 14. Infine, per completezza, sulle ulteriori deduzioni difensive svolte da parte appellante il Collegio osserva quanto segue. 15. Nessun rilievo assumono, in senso contrario, le note della Provincia di Salerno del 15 e del 19 febbraio 2021 -successive ai fatti causa e riferite ad eventi franosi dovuti alle eccezionali precipitazioni del febbraio 2021 - che attestano soltanto che l'ente, quale soggetto gestore del tratto di strada in questione, ha provveduto ad interdire il traffico veicolare e a svolgere, in somma urgenza, attività ispettive e di verifica della staticità del costone quantificando tempi e costi per l'esecuzione degli interventi necessari alla rimozione del pericolo. 16. Anche dalle richiamate sentenze del Consiglio di Stato n. 9367 e n. 9368 del 31 ottobre 2023 non possono trarsi argomenti a sostegno delle tesi di parte appellante, trattandosi di pronunce che non hanno portata dirimente rispetto alle questioni oggetto di giudizio. 16.1. In particolare, la sentenza n. 9368/2023 ha definito il contenzioso instaurato dai signori Ca. innanzi al T.a.r. Salerno contro la Re. Fe. It. s.p.a., avente ad oggetto la declaratoria d'illegittimità del silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza del 29 dicembre 2021, con la quale gli odierni appellanti avevano chiesto alla suddetta società di restituire l'area di loro proprietà, interessata dai lavori di realizzazione del tratto ferroviario, previo ripristino dello stato dei luoghi e pagamento delle dovute indennità, ovvero di adottare un provvedimento ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/01, con la liquidazione dell'indennizzo previsto dalla norma. Tra le particelle interessate dai lavori, i signori Ca. hanno indicato anche la n. (omissis), interessata dal crollo oggetto del presente giudizio. Con tale decisione il Consiglio di Stato ha rigettato in parte il gravame della suddetta società, limitatamente alla declaratoria dell'illegittimità del silenzio-inadempimento serbato sull'istanza degli originari ricorrenti e all'obbligo di R.F. di pronunciarsi su di essa con un provvedimento espresso, ma lo ha accolto per il resto, respingendo, in riforma della sentenza appellata, le ulteriori domande di accertamento e di condanna proposte in primo grado dai ricorrenti. In particolare, la sentenza in questione ha ritenuto "meritevoli di accoglimento le doglianze svolte da RT. s.p.a. circa l'erroneità della pronuncia impugnata nella parte relativa all'accertamento della spettanza ai ricorrenti del bene della vita richiesto con la loro istanza, alla declaratoria della fondatezza della domanda risarcitoria svolta in rapporto all'occupazione senza titolo e alla determinazione del concreto contenuto del provvedimento che, sia nell'ipotesi di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001 sia in quella di restituzione dei fondi asseritamente occupati, la società avrebbe dovuto adottare al riguardo". 16.2. Ciò posto, va comunque ribadito che il suddetto giudizio promosso dagli appellanti non condiziona l'esame della presente vicenda, concernendo la realizzazione di un tratto di linea ferroviaria sulle loro proprietà, fatto rispetto al quale gli odierni appellanti non hanno fornito alcuna prova concreta della dedotta riconducibilità dell'evento franoso. Anzi, come bene osserva la difesa del Comune le argomentazioni dell'appellante, nel richiamare l'istituto dell'acquisizione sanante ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, postulano la proprietà delle aree in discussione in capo agli stessi appellanti, finendo per fornire sostanziale conferma della correttezza dell'istruttoria posta in essere dall'Amministrazione, esitata nella loro individuazione quali legittimi destinatari dei provvedimenti impugnati; il che, come evidenziato, costituisce il vero thema decidendum dell'odierno giudizio. 16.3. La sentenza n. 9367/2023 scaturisce, invece, da due giudizi di appello riuniti (R.G. n. 4725/2023 e n. 4877/2023), proposti rispettivamente da ANAS s.p.a. e da Au. me. s.p.a., avverso la sentenza n. 999 del 28 aprile 2023 del T.a.r. Salerno, che aveva dichiarato l'obbligo delle due società di pronunciarsi sull'istanza dei signori Ca. del 29 dicembre 2021, finalizzata alla restituzione dell'area asseritamente occupata ovvero all'adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis del citato d.P.R. 327/2001 di loro proprietà che sarebbero stati occupati e irreversibilmente trasformati dalla realizzazione dell'infrastruttura pubblica senza la conclusione di un regolare procedimento di esproprio. Con tale pronuncia Consiglio di Stato ha accolto integralmente il primo gravame e in parte il secondo, respingendo per entrambi le ulteriori domande di accertamento e di condanna proposte in primo grado dai ricorrenti, evidenziando che la domanda di "accertamento - in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell'art. 133 comma 1 lett. g) c.p.a.- dell'illegittimità dell'occupazione dell'area di proprietà dei ricorrenti da parte di A.N.A.S. S.p.a e Au. me. S.p.a, nonché per la condanna delle stesse alla restituzione dell'area in oggetto, previo ripristino dello stato dei luoghi e pagamento delle dovute indennità ovvero, in alternativa, all'adozione di un provvedimento ex art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001" non avrebbe, infatti, potuto in nessun caso essere accolta, come statuito, invece, dal T.a.r. La domanda risultava, infatti, completamente sprovvista dell'allegazione degli indispensabili elementi fattuali e giuridici - circa l'esatta individuazione dei fondi che sarebbero stati occupati e delle modalità e dei tempi del procedimento espropriativo che sarebbe stato iniziato e non portato a conclusione - tali da renderne possibile l'identificazione e il successivo esame. 17. Per tutto quanto esposto, l'appello è infondato e va respinto, con conferma della sentenza impugnata. 18. Le peculiarità della vicenda processuale e la particolarità delle questioni trattate consentono di ravvisare giusti motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Dispone compensarsi tra tutte le parti costituite le spese del grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Angela Rotondano - Consigliere, Estensore Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Elena Quadri - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott. NOVIELLO Giuseppe - Consigliere Dott. AMOROSO Maria Cristina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ja.El., nato in Marocco (Omissis); avverso l'ordinanza del GIP del Tribunale di Tempio Pausania del 01/12/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Maria Cristina Amoroso; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Antonio Balsamo che ha chiesto l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. In data 30 agosto 2023, i carabinieri di T, dando corso ad un ordine di carcerazione emesso ai danni dell'indagato, hanno proceduto alla perquisizione personale a suo carico, estesa, poi, al luogo di residenza e al veicolo ad egli in uso. Dal verbale degli ufficiali di polizia giudiziaria in atti emerge che "le operazioni di ricerca, svolte alla presenza dell'indagato con inizio alle 08,20 odierne tranne che per le operazioni alla ricerca inerenti alla ricerca all'interno della predetta abitazione (alle quali hanno assistito per motivi di opportunità dato il rapporto conflittuale, solo il figlio maggiorenne Ja.Ay. e la di lui moglie Ta.Me.) davano esito positivo a seguito del rinvenimento della chiave della camera chiusa all'interno della quale venivano custoditi, oltre i documenti ricercati (invero, quelli della moglie e dei figli dell'odierno indagato), anche la chiave del lucchetto che apriva la cassaforte contenente i documenti predetti e il denaro fino ad oggi guadagnato - custoditi all'interno di due distinti borselli di colore nero. Il denaro rinvenuto ammonta ad euro 21.250,00 somma che verrà rimessa nella disponibilità delle pp. oo. anche in considerazione del loro stato di assoluta indigenza per il fatto di non aver mai ha avuto la possibilità di provvedere in autonomia ai loro fabbisogni quotidiani". Il PM di turno emetteva un provvedimento di convalida del "sequestro svolto su iniziativa della polizia giudiziaria". A fronte di tale provvedimento l'indagato rivolgeva all'Ufficio di Procura istanza ai sensi dell'art. 263, comma 4, cod. proc. pen., volta ad ottenere la revoca del sequestro delle somme di denaro rinvenute nel corso della perquisizione; la descrizione dei beni sequestrati e il luogo di deposito delle somme sequestrate e, qualora i carabinieri avessero provveduto di propria iniziativa alla consegna del denaro di proprietà del Ja.El., all'immediata restituzione delle somme al proprietario. In risposta all'istanza il Pubblico Ministero adito, in data 27/09/2023, comunicava che il PM di turno aveva "erroneamente" emesso un provvedimento di convalida di un vincolo, in realtà, mai apposto, posto che gli operanti avevano provveduto, di loro iniziativa, a consegnare le somme di denaro alle persone offese. Avverso tale provvedimento l'indagato presentava opposizione al Gip ex art. 263, comma 5, cod. proc. pen. In Gip dichiarava "non luogo a provvedere" sulla richiesta non essendo stato apposto alcun vincolo reale. Tale provvedimento diveniva oggetto di impugnazione presso il Tribunale di Sassari, in funzione di giudice di appello cautelare reale, che riqualificava l'impugnazione come ricorso per Cassazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Da ciò che è dato evincere dal ricorso e dai relativi atti allegati, alcun vincolo reale è stato apposto alle somme di denaro delle quali il ricorrente ha richiesto la restituzione. L'inesistenza del sequestro probatorio determina la conseguente assenza dell'interesse del ricorrente al giudizio di legittimità. 3. Per tali motivi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso il 9 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.

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