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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CASAFELICE Barbara - Consigliere Dott. POSCIA Giorgio - Relatore Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere Dott. FILOCAMO Fulvio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Gi. nato a F il (Omissis); avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce del 04/05/2022; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIORGIO POSCIA; udita la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al calcolo della pena ed il rigetto del ricorso per il resto; sentito l'avv. AN.BO., quale sostituto processuale dell'avv. LU.NA., in rappresentanza del Comune di Mesagne, che ha insistito per il rigetto del ricorso riportandosi alle conclusioni scritte depositate unitamente alla nota spese; sentito il difensore avv. MI.FI., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Lecce, decidendo sull'appello proposto dall'imputato Ca.Gi., ha confermato quella pronunciata dal Tribunale di Brindisi in data 30 marzo 2016 con la quale il predetto era stato dichiarato colpevole dei reati di detenzione, acquisto e porto di armi ed ordigni esplosivi commessi nel 2011 (di cui ai capi nn. 1, 2, 3, 4 - in quest'ultimo assorbito di cui al capo n. 5 perché contestato in fatto - e 6 della rubrica) e ritenuti gli stessi avvinti dal vincolo della continuazione tra loro e con quelli giudicati con la sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012, considerata altresì la contestata recidiva, lo aveva condannato alla pena di anni quattro di reclusione in aumento rispetto alla pena di anni otto di reclusione, irrogata con la predetta sentenza del Tribunale di Brindisi, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite. In particolare, l'imputato è stato ritenuto responsabile di avere commesso i reati contestatigli per conto della associazione mafiosa denominata "Sacra Corona Unita", quale referente per la città di F dell'ala di Mesagne del predetto sodalizio mafioso. 2. Avverso la predetta sentenza Ca.Gi., per mezzo dell'avv. Mi.Fi., ha proposto ricorso per cassazione affidato ad otto motivi, di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc:. pen., insistendo per l'annullamento della stessa. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. ed il relativo vizio di motivazione; sostiene l'avvenuta violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza ed osserva che la contestazione di cui ai capi nn. 1, 2, 3 e 4 è in totale contrasto con la motivazione della sentenza impugnata. 2.2. Con il secondo denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 125 e 192 del codice di rito rispetto al mancato rilevamento della totale inattendibilità dei collaboratori di giustizia che hanno accusato il Ca., stante l'assenza di riscontri oggettivi rispetto alle loro dichiarazioni. 2.3. Con il terzo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 125 e 192 del codice di rito ed il relativo vizio di motivazione con riferimento ai capi di imputazione nn. 3, 4 e 5 per travisamento della prova. 2.4. Con il quarto deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 157, 161, 99, comma 4, e 648 cod. pen. ed osserva che il delitto di ricettazione era già prescritto al momento della celebrazione del processo di primo grado poiché il termine prescrizionale doveva farsi decorrere al momento prossimo alla consumazione del delitto presupposto (26 maggio 2007) e che a tale data non poteva configurarsi la contestata recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale. 2.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 192 cod. proc. pen., 1,2 e 4 l. 895/67 ed il relativo vizio di motivazione stante l'assenza di prova della sua responsabilità per il reato sub 1) in ordine alla cessione delle armi contestatagli. 2.6. Con il sesto deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 99, 133, 62 - bis e 81 cod. pen. e dell'art. 7 d.l. 152/1991. Al riguardo evidenzia che la recidiva specifica non poteva essere contestata senza una precedente dichiarazione in tal senso in una sentenza e che la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine alla consapevolezza dell'imputato di agevolare con le propria condotta il sodalizio criminale; inoltre, il ricorrente osserva che la Corte di appello non ha indicato gli aumenti di pena per i singoli reati satellite ed ha negato le circostanze attenuanti generiche limitandosi a richiamare i precedenti penali del Ca.. 2.7. Con il settimo motivo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), d) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 603 e 197 - bis cod. proc. pen. per non avere disposto un nuovo esame dei coimputati Gi.De., Ma.Pa. e Vi.Sp. che si erano avvalsi della facoltà di non rispondere ai sensi degli artt. 210 e 503 del codice di rito. 2.8. Con l'ultimo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 185 cod. pen., 74, 528 e 541 cod. proc. pen. per carenza di motivazione in merito al riconoscimento del risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite con particolare riferimento al Comune di Mesagne che non era coinvolto in nessun modo nelle attività contestate al Ca.. Il difensore del ricorrente ha depositato articolata memoria difensiva contenente motivi nuovi con cui si articolano le censure già dedotte con il ricorso principale, tra cui quella afferente la sussistenza al momento del tempus commissi delicti della condizione di recidivo nella forma aggravata ai fini del computo prescrizionale e la circostanza per cui la condizione di recidivo si evincerebbe dal casellario giudiziario per fatti successivi a quello oggetto di contestazione nella sentenza impugnata. 3. Il procedimento, originariamente fissato per l'udienza dell'11 ottobre 2023, è stato rinviato per legittimo impedimento del difensore. 4. Il Comune di Mesagne, costituito parte civile, ha depositato memoria con le proprie conclusioni ed allegata nota spese. 5. Alla udienza di discussione le parti hanno concluso nei termini sopra indicati. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti appresso indicati. 2. In particolare l'impugnazione va accolta limitatamente alla lamentata mancata indicazione dell'aumento di pena per i singoli reati satellite (oggetto del sesto motivo) in quanto, effettivamente, la Corte territoriale - nel confermare la decisione di primo grado rispetto alla responsabilità dell'odierno ricorrente per i reati di detenzione, acquisto e porto di armi ed ordigni esplosivi commessi nel 2011 e ritenuti gli stessi avvinti dal vincolo della continuazione tra loro e con quelli giudicati con la sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012 - ha condannato Ca.Gi. alla pena complessiva di anni quattro di reclusione in aumento rispetto alla pena di anni otto di reclusione (irrogata con la predetta sentenza del Tribunale di Brindisi) senza, però, indicare gli aumenti per i singoli reati satellite. Al riguardo va ricordato che in tema di reato continuato, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell'ambito quantitativo previsto dalla legge - pari al triplo della pena base - dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell'esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell'aumento di pena per i singoli reati satellite. (Sez. U, Sentenza n. 22471 del 26/02/2015, Rv. 263716 - 01, Stabile; Sez. 4, Sentenza n. 28139 del 23/06/2015, Rv. 264101 - 01). 3. Risulta invece inammissibile, per carenza di un concreto interesse, la censura (contenuta nel sesto motivo) riguardante la recidiva atteso che la Corte territoriale ha determinato la pena in continuazione rispetto alla sopra indicata sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012, senza tenere conto della contestata recidiva nel suddetto calcolo. 4. Quanto alle altre censure (compresi i motivi aggiunti) deve evidenziarsi che con l'impugnazione in sostanza vengono riproposte quelle contenute nell'appello senza, però, che il ricorrente si confronti in modo specifico con il ragionamento logico e giuridico svolto dalla Corte territoriale per respingerle. 4.1. Invero, rispetto al primo motivo, la Corte di appello di Lecce ha escluso la lamentata violazione dell'art.521 del codice di rito osservando - con motivazione adeguata e non manifestamente illogica - che il primo giudice non aveva affermato che fosse stato Ca.Na. (genero del Ca.) a consegnare le armi, ma che invece egli le aveva conservate per conto dell'odierno ricorrente; pertanto, non vi era stata alcuna contraddizione rispetto all'imputazione sub 4) nella quale era indicato che il Na. conservava le armi e che le stesse erano state consegnate dal coimputato Co.Ro. - per il tramite di altri - a Pa.Ma., Gi.Re. e Gi.Pa.. 4.2. Con riferimento al secondo, terzo e quinto motivo, deve ricordarsi che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta "doppia conforme" (come nel caso di specie, fatta eccezione per il riconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62 - bis cod. pen.) e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758). Orbene, come chiarito in seguito, le critiche esposte dal ricorrente - pur lamentando il vizio della motivazione apparente ed illogica - riguardano profili in fatto, coerentemente scrutinati nel corpo della decisione impugnata e la cui riproposizione è tesa - in tutta evidenza - ad una rivalutazione del peso dimostrativo degli elementi di prova. In tal senso, quindi il ricorso finisce con il proporre argomenti di merito la cui rivalutazione è preclusa in sede di legittimità. E' costante, infatti, l'insegnamento di questa Corte per cui il sindacato sulla motivazione del provvedimento impugnato va compiuto attraverso l'analisi dello sviluppo motivazionale espresso nell'atto e della sua interna coerenza logico - giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità "nuove" attribuzioni di significato o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa (si veda, ex multis, Sez. VI n. 11194 del 08/03/2012, Lupo, Rv. 252178). Così come va ribadito che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999 Rv. 214794; Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074). 4.3. In particolare la Corte di appello, con motivazione adeguata e non contraddittoria, ha confermato il giudizio di penale responsabilità del Ca. escludendo anzitutto il lamentato contrasto tra quanto dichiarato da Er.Pe. ed altri collaboratori di giustizia (in particolare Al.Pe.), poiché le armi delle quali aveva parlato il Pe. non erano le stesse di cui avevano riferito gli altri collaboratori, come dimostrato dalla circostanza obiettiva che esse afferiscono a due diversi capi di imputazione. Inoltre, la Corte distrettuale ha evidenziato che le dichiarazioni del Pe. coincidevano con quelle rese da Cosimo Gu., il quale aveva confermato che il Ca. era il referente per Francavilla Fontana del gruppo mesagnese della Sacra Corona Unita (con a capo Er.Pe.) e che il suo compito era quello di procurare le armi al sodalizio. Fr.Gr., dal canto suo, aveva riferito che l'odierno ricorrente, nell'ottobre 2010, gli aveva consegnato un kalashnikov con due caricatori e cinque bombe a mano che, assieme ad una mitraglietta Skorpion, una pistola calibro 7,65 ed a una calibro 9 parabellum, erano custoditi da Vi.St.. Pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pe., Gu. e Gr. erano coincidenti tra loro avendo ad oggetto le medesime armi sub 2), mentre Pe. aveva riferito in ordine alle armi di cui al capo 1) della rubrica. 4.4. E' stata quindi esclusa, in modo coerente, una contraddizione tra le dichiarazioni di Pe. e di Gr. poiché relative a diverse armi che entrambi avevano ricevuto dall'odierno ricorrente. Dunque il fatto che i collaboratori di giustizia abbiano tutti dichiarato di avere ricevuto, in momenti e luoghi diversi, armi da parte di Ca. non evidenziava una contraddittorietà, ma al contrario è stato ritenuto - in modo non illogico - idoneo a dimostrare come il ricorrente procurasse armi alla cosca con una certa continuità e fosse dunque stabilmente inserito nel sodalizio, al fine di agevolarne la realizzazione dei fini criminali. Deve aggiungersi che la Corte d'Appello ha evidenziato che dalle intercettazioni tra Sp. e De. si evinceva che le armi erano state dagli stessi rinvenute presso la masseria che loro stessi avevano riscontrato essere nella disponibilità di Ca., tanto che De. aveva raccomandato a Sp. di non rivelare dove erano custodite al fine di evitare ripercussioni e reazioni proprio da parte di Ca.. Inoltre, i marescialli dell'Arma dei Carabinieri Gi. e Gu. hanno deposto che Sp., al momento del suo arresto, aveva indicato la masseria in contrada (Omissis) come luogo in cui le armi erano state rinvenute e solo, in un secondo momento, spostate in Contrada (Omissis) e poi in contrada (Omissis), a seguito della loro cessione in favore di Ma.Pa.. La Corte territoriale, inoltre, ha valutato come irrilevante la circostanza (dedotta dall'odierno ricorrente) secondo cui la masseria in contrada San Teodoro, dove erano nascoste le armi, sarebbe stata all'epoca dei fatti oggetto di espropriazione essendo stata acquistata da An.De. e che, quindi, essa non era nella sua disponibilità. Infatti, è stato accertato che l'acquisto da parte del De. era avvenuto nel settembre 2011, mentre i fatti oggetto di imputazione risalgono al gennaio - febbraio 2011 e perciò quando la masseria era ancora nella disponibilità dell'imputato, tanto che era stato il genero Ca.Na. a fare accedere i Carabinieri all'interno di essa essendo in possesso delle relative chiavi. 4.5. La Corte di appello, sempre in modo non manifestamente illogico, ha dato risalto anche alla conversazione intercettata tra Na. ed il suocero (odierno ricorrente) in cui il primo ammetteva di avere nascosto le "cose" nell'attesa che si calmassero le acque; inoltre anche il ritrovamento nella masseria, da parte dei Carabinieri, di attrezzature da supermercato (compatibili con l'attività lavorativa di Ca.Gi.) è stato considerato dato rilevante ai fini della prova che la masseria fosse nella sua disponibilità all'epoca dei fatti. 4.6. Pertanto, non sussiste il lamentato travisamento della prova e il ricorrente, pur lamentando la violazione di legge ed il vizio di motivazione, suggerisce una non consentita lettura alternativa del materiale probatorio, già coerentemente valutato da entrambi i giudici per confermare il giudizio di penale responsabilità rispetto ai reati in contestazione. 5. Passando all'esame del quarto motivo (riguardante l'aggravante ex art. 7 1.203/91) si rileva che la Corte di appello aveva dichiarato inammissibili, per assoluta genericità, le censure relative alla citata aggravante e che, in ogni caso, tutti i collaboratori avevano confermato che il Ca. procurava armi ed esplosivi alla cosca mafiosa per il raggiungimento degli scopi del sodalizio; rispetto a tale compiuto e logico ragionamento contenuto nella sentenza impugnata il ricorrente non si confronta in modo specifico, sostenendo genericamente che egli avrebbe inteso agevolare i singoli sodali e non già l'associazione mafiosa, senza però tenere conto delle concordi dichiarazioni dei vari propalanti a suo carico. 6. Manifestamente infondate sono anche le censure riguardanti il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche; come noto, in materia di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è parimenti insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899). Orbene, la sentenza impugnata ineccepibilmente argomenta, mediante puntuale richiamo a specifici indici ostativi, oggettivi (la gravità delle condotte oggetto del presente procedimento caratterizzate dall'aggravante sopra indicata) e soggettivi (precedenti penali tra cui una condanna per associazione di stampo mafioso), e al carattere al cospetto recessivo di ogni altro pur prospettato elemento. 7. Con riferimento alla mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale (settimo motivo di ricorso) da parte della Corte territoriale, è opportuno ribadire che, nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende comunque inammissibile la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che si risolva in una attività "esplorativa" di indagine, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente, non sussistendo pertanto, rispetto ad essa, alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame (Sez. 3 - , Sentenza n. 47293 del 28/10/2021, Rv. 282633 - 01). La sentenza impugnata, senza incorrere in vizi logici, ha ritenuto di non esaminare nuovamente i coimputati Gi.De., Ma.Pa. e Vi.Sp. con riferimento al luogo in cui le armi erano state rinvenute e custodite, osservando che gli stessi si erano già avvalsi della facoltà di non rispondere e che, a norma dell'art. 197 - bis, comma 4, cod. proc. pen., non potevano essere obbligati a deporre su fatti dai quali potrebbero emergere la loro responsabilità. La Corte territoriale, inoltre, ha ritenuto comunque sufficienti gli elementi a disposizione per la decisione; anche rispetto a tale profilo il ricorrente non si confronta in modo specifico e non deduce per quali precise ragioni le deposizioni da lui richieste risulterebbero decisive ai fini della decisione. 8. Infine, quanto all'ultimo motivo, va ricordato che la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine è ammissibile anche in riferimento ad un reato commesso da privati, purché tale tipologia di danno sia in concreto configurabile (Sez. 2, Sentenza n. 13244 del 07/03/2014, Rv. 259560 - 01). Ciò posto, la Corte di appello (facendo proprie le argomentazioni del Tribunale) ha ritenuto che il Comune di Mesagne, quello di Francavilla Fontana ed il Ministero dell'Interno fossero legittimati a costituirsi parte civile in considerazione del danno all'immagine ed alla loro credibilità istituzionale a causa delle condotte illecite serbate dal Ca.; anche rispetto a tale coerente motivazione il ricorrente omette di confrontarsi in modo specifico così come anche con riferimento alle argomentazioni con le quali è stata liquidata una provvisionale di trentamila Euro in favore del Comune di Mesagne in ragione del pregiudizio di carattere patrimoniale (e non) arrecato alla immagine del medesimo ente. 9. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, mentre va respinto nel resto. Il ricorrente deve, infine, essere condannato al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio in favore del Comune di Mesagne, costituitosi parte civile, nella misura indicata nel dispositivo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Lecce. Rigetta nel resto il ricorso. Condanna l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Comune di Mesagne che liquida in complessivi Euro 3.868, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma il 19 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Do.Da., nato a G il Omissis avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Pescara il 27/09/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Simone Perelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Pescara ha confermato il decreto emesso l'11.7.2027 con cui è stato disposto il sequestro probatorio avente ad oggetto documentazione cartacea, un telefono cellulare, un computer ed un i-pad in uso a Do.Da.. Si procede per i reati calunnia, diffamazione e minaccia. In particolare, quanto alla calunnia, a Do.Da. si contesta, in concorso con Di.An., di avere intenzionalmente incolpato attraverso esposti e missive anonimi e pur sapendolo innocente, De.An., presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della società "Fratelli De.An. (...) Spa" dei reati di associazione per delinquere, corruzione, falso in bilancio. I reati diffamazione e di minaccia sono conseguenti. 2. Ha proposto ricorso per cassazione Do.Da. articolando sei motivi. 2.1. Con i primi tre motivi, che possono essere descritti congiuntamente, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dedotta questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. Dalla lettura degli atti emergerebbe che l'oggetto della falsa incolpazione sarebbe quella di avere Do.Da. e De.An. costituito un'associazione criminale - di cui avrebbero fatto parte anche alcuni magistrati in servizio presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Pescara - al fine di "direzionare" vari processi aventi come protagonista lo stesso De.An., ovvero di "coprire" alcuni fatti di falso in bilancio.. Sulla base di tali presupposti, si assume, era stata dedotta una questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. e il Tribunale, pur enunciando principi sul tema, non avrebbe mai in concreto proceduto ad accertare la propria competenza, limitandosi ad affermare che non vi sarebbe la prova che i magistrati avrebbero assunto la qualità di persona offesa. Nonostante lo stesso Pubblico Ministero all'udienza avesse attestato a verbale che effettivamente alcuni magistrati avrebbero dovuto considerarsi persone offese e che la posizione di questi era stata stralciata con conseguente trasmissione degli atti alla Procura di Campobasso, competente ex art. 11 cod. proc. pen., il Tribunale avrebbe erroneamente affermato che non sarebbe rilevante "in questa fase processuale". 2.2. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza del fumus commissi delieti. 2.3. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione, non avendo il Tribunale adottato una motivazione rafforzata in ragione della professione dell'indagato; sarebbe stato compiuto un sequestro indiscriminato su tutti i suoi strumenti lavorativi. 2.4. Con il sesto motivo si lamenta vizio di motivazione quanto al rigetto della richiesta di opposizione del segreto professionale da parte dell'indagato e alla mancanza di proporzionalità ed adeguatezza del sequestro. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Quanto ai primi tre motivi, non è sostanzialmente in contestazione in punto di fatto che: a) oggetto della calunnia sarebbe la falsa incolpazione di una serie di reati attribuiti a De.An. ed ad alcuni magistrati in servizio presso il Tribunale di Pescara; b) il Pubblico Ministero ha informato il Tribunale del riesame di avere inviato gli atti alla Procura di Campobasso, "competente" ai sensi dell'art. 11 cod. proc. pen. Le Sezioni unite hanno in più occasioni chiarito che la competenza, quale limite della giurisdizione, è un presupposto processuale indissociabile dalla funzionale attività del giudice. Si è spiegato come non sia un caso che il nuovo codice, abbandonata definitivamente e con maggiore consapevolezza, la riduttiva nozione della competenza come "limite di un diritto", abbia recepito, a pieno titolo, quella che in essa vede l'esistenza di un vero e proprio "dovere" del giudice che ne condiziona il potere decisorio. Adeguandosi ai rilievi che da lungo tempo la Corte Costituzionale aveva formulato in conseguenza dell'avvertita necessità di assicurare l'astratta imparzialità del giudice attraverso la precostituzione di criteri oggettivi per la determinazione della sua competenza, il nuovo codice, lungi dal precludere il sindacato giurisdizionale sulla competenza del giudice, lo ha armonizzato con le peculiari caratteristiche del procedimento incidentale che si sviluppa e si esaurisce nella fase delle preliminari indagini. Dunque, da un lato, si è offerta una disciplina uniforme ed omogenea sugli effetti dell'incompetenza, quali che siano le cause che possono averla determinata e, dall'altro, si è avvertita la necessità di ribadire che il rispetto della competenza ha una sua specifica rilevanza anche nella fase delle indagini preliminari (Cosi, testualmente, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199396). Il tema si incrocia con il consolidato principio per cui il tribunale del riesame deve accertare la propria competenza, in sede di giudizio "de libertate" (Sez. 5, n. 23037 dell'8/03/2023, Pavanati, Rv. 284676; Sez. 4, n. 48273 del 28/09/2012, Minda, Rv. 253920). 3. Dunque, a fronte di fatti di calunnia commessi nei riguardi di più soggetti, alcuni dei quali magistrati, e rispetto alla decisione del Pubblico Ministero di trasferire gli atti alla Procura di Campobasso in ragione della previsione dell'art. 11 cod. proc. pen., cioè in relazione alla posizione dei magistrati, non è affatto chiaro: a) perché il Tribunale del riesame non debba verificare la propria competenza a provvedere; b) perché, nella specie, non sarebbe applicabile l'art. 11 cod. proc. pen.; c) perché, in particolare, non sarebbe applicabile l'art. 11, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui anche i procedimenti connessi a quelli in cui il magistrato assume la qualità di persona indagata ovvero di persona offesa o danneggiata sono di competenza del giudice individuato ai sensi del comma 1 della stessa norma; d) perché il procedimento nei riguardi del ricorrente e di De.An. dovrebbe continuare ad essere di competenza del Tribunale di Pescara. Ne consegue che l'ordinanza deve essere annullata sul punto, dovendo il Tribunale procedere ai necessari accertamenti ed alla verifica della sua competenza. 4. Non diversamente sono fondati anche i motivi di ricorso relativi alla sussistenza del fumus commissi delieti, al principio di proporzionalità della misura adottata e, sostanzialmente, alla verifica del nesso di pertinenza tra beni sequestrati e finalità probatoria perseguita sono fondati. 5. Quanto al requisito del fumus, in materia di misure cautelari reali e, più in generale, di sequestri, va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro: si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delieti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Si coglie la consapevolezza che la tesi consolidata, autorevolmente sostenuta, secondo cui, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118) ha condotto ad una erosione in senso verticale ed orizzontale del contenuto della motivazione del relativo provvedimento dispositivo del vincolo cautelare; l'impegno argomentativo del giudice è comunemente inteso, per un verso, arretrato al di sotto del limite della verifica della fondatezza prognostica dell'ipotesi di reato prospettata, e, dall'altro, limitato alla tipicità del fatto materiale prospettato nella sua descrizione da parte del Pubblico Ministero, non essendo richiesta una ricostruzione in concreto delle modalità con cui la ipotizzata condotta criminosa si sia manifestata, cioè, una valutazione fattuale della ipotesi tipica enunciata. Si tratta di una impostazione tuttavia già in passato precisata dalla Corte di cassazione che, evidentemente consapevole del rischio di svuotamento della funzione di garanzia della motivazione, ha in più occasioni affermato la necessità di individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli indizi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, Bassi, Rv. 206657; cfr. Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella). Le misure cautelari, civili e penali, e, in generale, i sequestri hanno tutte una funzione strumentale. Un reato, tuttavia, deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e con lo stato delle indagini, non sia meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta, ipotetica ed esplorativa della esistenza di un reato da parte della Pubblica Accusa. Quella in esame è una esigenza funzionale alla ineludibile necessità di un'interpretazione della norma che tenga conto della esigenza di verificare, da una parte, il nesso di pertinenza tra le cose sequestrate e la finalità probatoria perseguita in relazione al reato per cui si procede, e, dall'altra, del requisito della proporzionalità della misura adottata rispetto alla finalità perseguita, in un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti. 6. Il Tribunale di Pescara non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, non avendo spiegato alcunché quanto al fumus, essendosi limitato a fare riferimento ad affermazioni di principio senza tuttavia riferirle in concreto ai fatti per cui procede, peraltro nemmeno descritti nella loro consistenza naturalistica, e alla fluidità dell'imputazione. In ragione di un decreto di perquisizione e sequestro obiettivamente silente, nulla è stato spiegato in ordine: a) a quali sarebbero i fatti posti ad oggetto del reato di calunnia; b) al perchè il reato sarebbe configurabile; c) alla indicazione del contenuto e alla congruenza degli atti da cui emergerebbe il fumus commissi delieti, d) alla sussistenza del dolo del reato per cui si procede e, in particolare, alla possibilità che le gravi accuse mosse dall'indagato siano accompagnate non già dalla consapevolezza e dalla volontà di accusare ingiustamente persone che si sa essere innocenti, ma dal convincimento - errato o meno- della loro fondatezza (cfr., quanto alla verifica del dolo, Corte cost. n. 153 del 2007; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337). 7. Una genericità descrittiva che, di conseguenza, impedisce di verificare il nesso di pertinenza fra il reato per cui si procede e la finalità probatoria sottesa al sequestro. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ancora una volta chiarito come il decreto di sequestro probatorio, anche se abbia ad oggetto cose costituenti corpo del reato, debba contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548). Si è precisato come "la portata precettiva degli artt. 42 Cost. e 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione Edu richiede che le ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando la stessa si identifichi nel corpo del reato, siano esplicitate nel provvedimento giudiziario con adeguata motivazione, allo scopo di garantire che la misura, a fronte delle contestazioni difensive, sia soggetta al permanente controllo di legalità - anche sotto il profilo procedimentale - e di concreta idoneità in ordine all'ari e alla sua durata, in particolare per l'aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ovvero lo spossessamento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l'accertamento del fatto di reato". Detti principi valgono anche per il sequestro delle cose pertinenti al reato, atteso che la stessa qualificazione della "cosa" come pertinente al reato, presuppone la indicazione del perimetro investigativo, della ipotesi di reato per cui si procede, della finalità probatoria perseguita con il sequestro; intanto, cioè, una cosa può essere considerata "cosa pertinente al reato" in quanto esista una descrizione concreta del reato per cui si procede e della relazione fra quella cosa e quel reato, così da comprendere la finalità probatoria perseguita. L'obbligo di motivazione che deve sorreggere, a pena di nullità, il decreto di sequestro probatorio in ordine alla ragione per cui i beni possono considerarsi il corpo del reato ovvero cose a esso pertinenti e alla concreta finalità probatoria perseguita deve essere modulato da parte del pubblico ministero in relazione al fatto ipotizzato, al tipo di illecito cui in concreto il fatto è ricondotto, alla relazione che le cose presentano con il reato, nonché alla natura del bene che si intende sequestrare. (Sez. 6, n. 56733 del 12/09/2018, Macis, Rv. 274781 in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto nullo il decreto con cui il pubblico ministero, in relazione al delitto previsto dall'art. 356 cod. pen., aveva sequestrato a fini probatori tutta la corrispondenza intercorsa tra progettista e responsabile del procedimento, limitandosi a richiamare gli articoli di legge e ad enunciare il tempo e il luogo di commissione dei fatti, senza, tuttavia, descrivere questi ultimi e senza indicare le ragioni per cui i beni sequestrati dovessero considerarsi corpo di reato o cose a esso pertinenti). Né è stato spiegato perché nella specie sarebbe consentita una indiscriminata apprensione delle informazioni contenute nei dispositivi elettronici. Anche sul punto la Corte di cassazione ha chiarito che in tema di sequestro probatorio, l'acquisizione indiscriminata di un'intera categorie di beni, nell'ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole "res" strumentali all'accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il pubblico ministero adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare "ex ante" l'oggetto del sequestro.(Sez. 6, n. 34265 del 22/09/2020, Aleotti, Rv. 279949). 8. Né, sotto ulteriore profilo, l'ordinanza impugnata consente di verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali), che dal sistema della CEDU. La Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità. Con la sentenza sul "caso Uva", si è affermato che nessun valore costituzionale può divenire "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche, che il bilanciamento deve essere condotto dal legislatore e controllato dal Giudice delle leggi secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, fermo restando che - si tratta di una affermazione centrale - non è consentito un "sacrificio del (...) nucleo essenziale" di alcuna delle istanze in conflitto (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017, in cui la Corte, in tema di "riservatezza", ha ritenuto fondamentale che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione rispettino la riserva assoluta di legge e di giurisdizione, nonché i principi di ragionevolezza e di proporzionalità alla luce dei parametri della idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto). Non diversamente, è condivisibile quanto ritenuto in dottrina, e cioè che il rango conferito dall'ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura con cui sono costruite - sostanziale o processuale - le tutele dei diritti, si deve tenere conto del ed. test di proporzionalità. Il principio in esame è capace di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia dei diritti fondamentali, oggetto primario delle disposizioni normative processuali penali. Si può tuttavia affermare che, anche là dove non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine di paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico; in tal senso, si sostiene acutamente, il principio di proporzionalità assolve ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, ed ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto. In tale accezione, il canone della proporzione e della adeguatezza si rivolgono certamente al legislatore, nel momento in cui traccia le norme ordinarie, ed alla Corte costituzionale nel vaglio di legittimità delle stesse, ma anche al giudice comune, allorquando è chiamato in concreto a disporre atti limitativi delle istanze fondamentali. Il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su bene giuridici costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro il quale la compressione di un'istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come "diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona". Ogni misura, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, richiede che l'interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria). Dunque, solo valorizzando l'onere motivazionale è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti, quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu. La motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all'accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, in motivazione) ed al principio di proporzione. Il giudice non solo deve motivare sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari, ma deve modulare il sequestro - quando ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto al vincolo reale, anche oltre le effettive necessità dettate dalla esigenza che si intende neutralizzare; il giudice cioè deve conformare il vincolo in modo tale da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non pregiudicherebbe la finalità probatoria/cautelare perseguita (sul tema, anche Corte Cost., n. 85 del 2013). Ciò che è richiesto è una delicata operazione di bilanciamento in cui la valutazione attiene alla peculiarità del caso concreto, alla ragionevolezza della soluzione, della proporzione, al bilanciamento tra valori, all'equità. 9. Su detti temi obiettivamente nulla è stato chiarito; un'ordinanza, quella impugnata, con cui non è stata fatta corretta applicazione della legge nemmeno quanto al tema delle garanzie che la selezione dei dati informatici avvenga in tempi congrui. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato. Il Tribunale in sede di rinvio, verificherà innanzitutto la sua competenza, e, posto che esista la competenza, applicherà i principi indicati e spiegherà se e in che limiti sia legittimo il sequestro probatorio per cui si procede. I residui motivi sono assorbiti. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pescara, competente ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Di.An., nato a C il Omissis avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Pescara il 27/09/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Simone Perelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni degli avv.ti Cr.Va. e Go.Ta., difensori dell'indagato, che hanno insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso non rinunciati; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Pescara ha confermato i decreti, emessi l'11.7.2027 e il 18.7.2023, con cui è stato disposto il sequestro probatorio avente ad oggetto, quanto al primo, documentazione cartacea, un telefono cellulare e due portatili in uso all'indagato Di.An. e, quanto al secondo, ulteriore documentazione cartacea e "diversi apparecchi informatici". Si procede per i reati calunnia, diffamazione e minaccia. Quanto alla calunnia, a Di.An. si contesta, in concorso con il giornalista Do.Da., di avere intenzionalmente incolpato - attraverso esposti e missive anonimi e pur sapendolo innocente - De.An., presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della società "Fratelli De.An. (...) Spa", dei reati di associazione per delinquere, corruzione, falso in bilancio. I reati diffamazione e di minaccia sono conseguenti. 2. Ha proposto ricorso per cassazione Di.An. articolando sei motivi. 2.1. Con i primi tre motivi si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dedotta questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. Nella imputazione e nei decreti non sarebbero stati descritti i fatti di reato oggetto della falsa incolpazione, ma dalla lettura degli atti emergerebbe che l'oggetto della calunnia sarebbe quella di avere De.An. costituito un'associazione criminale - di cui avrebbero fatto parte anche alcuni magistrati abruzzesi - al fine di "direzionare" vari processi - aventi come protagonista lo stesso De.An. - ovvero di "coprire" alcuni fatti di falso in bilancio. Sulla base di tali presupposti, argomenta il ricorrente, era stata dedotta una questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. e il Tribunale, pur enunciando principi sul tema, non avrebbe mai in concreto proceduto ad accertare la propria competenza. In particolare, l'ordinanza sarebbe viziata per avere il Tribunale ritenuto che la questione dedotta attenesse solo alla sfera di attribuzione del Pubblico Ministero e, quindi, come se detta questione non avesse rilievo in questa fase del procedimento, potendosi al più porre solo dopo l'esercizio dell'azione penale e comunque solo con riferimento ad atti aventi natura giurisdizionale e non anche in ordine ad un sequestro probatorio disposto dai Pubblico Ministero. Sotto altro profilo, si deduce che a pag. 6 dell'ordinanza impugnata, in ragione del fatto che lo stesso Pubblico Ministero di udienza avesse attestato a verbale che effettivamente alcuni magistrati dovessero considerarsi persone offese e che la posizione di questi era stata stralciata con conseguente trasmissione degli atti a Campobasso - competente ex art. 11 cod. proc. pen. -, il Tribunale avrebbe affermato che non sarebbe stato noto quali reati sarebbero stati attribuiti calunniosamente ai magistrati e dunque non sarebbe stato possibile nemmeno accertare l'esistenza di una effettiva connessione o di un mero collegamento probatorio tra detti reati e quelli oggetto del procedimento. Anche in tal caso vi sarebbe una vizio della motivazione fondato su un travisamento dei fatti, atteso che, invece, dalla lettura degli esposti anonimi sarebbe chiaro come in essi fossero contenute accuse corruttive a De Cecco nei confronti dei magistrati abruzzesi, accusati di essersi associati in una "cupola". Dunque, una indifferenziata calunnia. 2.2. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla indicazione della compatibilità tra la fattispecie concreta ipotizzata e quella legale; il tema attiene alla indicazione del reato cui per si procede e in funzione del quale è stato disposto il sequestro probatorio. Nel caso di specie mancherebbe la descrizione compiuta dei fatti oggetto della falsa incolpazione oggetto della calunnia. 2.3. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla proporzionalità del sequestro e alla sua adeguatezza in relazione ai dati digitali. Citando giurisprudenza di questa Sezione si evidenzia la necessità: a) di un accertamento del nesso di pertinenza tra i beni sequestrati e il reato per cui si procede; b) della indicazione delle operazioni tecniche da svolgere; c) della precisazione della durata temporale del vincolo. 2.4. Con il sesto motivo si deduce omessa motivazione quanto alla richiesta di limitazione dei dati personali ex D.Lgs. n.51 del 2018 e, di conseguenza, si chiede la cancellazione dei dati eccedenti rispetto alla finalità di indagine. Il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che detta richiesta dovrebbe al più essere rivolta al giudice che procede. 3. E' pervenuta una memoria nell'interesse del ricorrente con cui si evidenzia che Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, pronunciandosi sul ricorso di Do.Da., cioè del correo, ha individuato nella Procura della Repubblica di Campobasso l'organo competente ad indagare. In ragione di ciò vi è rinuncia ai primi tre motivi di ricorso relativi alla questione di competenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, quanto al quarto e al quinto motivo non rinunciato. 2. Quanto al requisito del fumus, in materia di misure cautelari reali e, più in generale, di sequestri, va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro: si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delieti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Si coglie la consapevolezza che la tesi consolidata, autorevolmente sostenuta, secondo cui, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118) ha condotto ad una erosione in senso verticale ed orizzontale del contenuto della motivazione del relativo provvedimento dispositivo del vincolo cautelare; l'impegno argomentativo del giudice è comunemente inteso, per un verso, arretrato al di sotto del limite della verifica della fondatezza prognostica dell'ipotesi di reato prospettata, e, dall'altro, limitato alla tipicità del fatto materiale prospettato nella sua descrizione da parte del Pubblico Ministero, non essendo richiesta una ricostruzione in concreto delle modalità con cui la ipotizzata condotta criminosa si sia manifestata, cioè, una valutazione fattuale della ipotesi tipica enunciata. Si tratta di una impostazione tuttavia già in passato precisata dalla Corte di cassazione che, evidentemente consapevole del rischio di svuotamento della funzione di garanzia della motivazione, ha in più occasioni affermato la necessità di individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli indizi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, Bassi, Rv. 206657; cfr. Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella). Le misure cautelari, civili e penali, e, in generale, i sequestri hanno tutte una funzione strumentale. Un reato, tuttavia, deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e con lo stato delle indagini, non sia meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta, ipotetica ed esplorativa della esistenza di un reato da parte della Pubblica Accusa. Si tratta di una esigenza funzionale alla ineludibile necessità di un'interpretazione della norma che tenga conto della necessità di verificare, da una parte, il nesso di pertinenza tra le cose sequestrate e la finalità probatoria perseguita in relazione al reato per cui si procede, e dall'altra, del requisito della proporzionalità della misura adottata rispetto alla finalità perseguita, in un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti. 3. Il Tribunale di Pescara non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, non avendo spiegato alcunché quanto al fumus, essendosi limitato a fare riferimento ad affermazioni di principio senza tuttavia riferirle in concreto ai fatti per cui procede, peraltro nemmeno descritti nella loro consistenza naturalistica, e alla fluidità dell'imputazione. In ragione di un decreto di perquisizione e sequestro obiettivamente silente, nulla è stato spiegato in ordine: a) a quali sarebbero i fatti posti ad oggetto del reato di calunnia; b) al perchè il reato sarebbe configurabile; c) alla indicazione del contenuto e alla congruenza degli atti da cui emergerebbe il fumus comrnissi dehcti", d) alla sussistenza del dolo del reato per cui si procede e, in particolare, alla possibilità che le gravi accuse mosse dall'indagato siano accompagnate non già dalla consapevolezza e dalla volontà di accusare ingiustamente persone che si sa essere innocenti, ma dal convincimento - errato o meno- della loro fondatezza (cfr., quanto alla verifica del dolo, Corte cost. n. 153 del 2007; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337). 4. Una genericità descrittiva assoluta che, di conseguenza, impedisce di verificare il nesso di pertinenza fra il reato per cui si procede e la finalità probatoria sottesa al sequestro. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ancora una volta chiarito come il decreto di sequestro probatorio, anche se abbia ad oggetto cose costituenti corpo del reato, debba contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548). Si è precisato come "la portata precettiva degli artt. 42 Cost. e :L del primo Protocollo addizionale della Convenzione Edu richiede che le ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando la stessa si identifichi nel corpo del reato, siano esplicitate nel provvedimento giudiziario con adeguata motivazione, allo scopo di garantire che la misura, a fronte delle contestazioni difensive, sia soggetta al permanente controllo di legalità - anche sotto il profilo procedimentale - e di concreta idoneità in ordine all'an e alla sua durata, in particolare per l'aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ovvero lo spossessa mento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l'accertamento del fatto di reato". Detti principi valgono anche per il sequestro delle cose pertinenti al reato, atteso che la stessa qualificazione della "cosa" come pertinente al reato, presuppone la indicazione del perimetro investigativo, della ipotesi di reato per cui si procede, della finalità probatoria perseguita con il sequestro; intanto, cioè, una cosa può essere considerata "cosa pertinente al reato" in quanto esista una descrizione concreta del reato per cui si procede e della relazione fra quella cosa e quel reato, così da comprendere la finalità probatoria perseguita. L'obbligo di motivazione che deve sorreggere, a pena di nullità, il decreto di sequestro probatorio in ordine alla ragione per cui i beni possono considerarsi il corpo del reato ovvero cose a esso pertinenti e alla concreta finalità probatoria perseguita deve essere modulato da parte del pubblico ministero in relazione al fatto ipotizzato, al tipo di illecito cui in concreto il fatto è ricondotto, alla relazione che le cose presentano con il reato, nonché alla natura del bene che si intende sequestrare. (Sez. 6, n. 56733 del 12/09/2018, Macis, Rv. 274781 in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto nullo il decreto con cui il pubblico ministero, in relazione al delitto previsto dall'art. 356 cod. pen., aveva sequestrato a fini probatori tutta la corrispondenza intercorsa tra progettista e responsabile del procedimento, limitandosi a richiamare gli articoli di legge e ad enunciare il tempo e il luogo di commissione dei fatti, senza, tuttavia, descrivere questi ultimi e senza indicare le ragioni per cui i beni sequestrati dovessero considerarsi corpo di reato o cose a esso pertinenti). Né è stato spiegato perché nella specie sarebbe consentita una indiscriminata apprensione delle informazioni contenute nei dispositivi elettronici. Anche sul punto la Corte di cassazione ha chiarito che in tema di sequestro probatorio, l'acquisizione indiscriminata di un'intera categorie di beni, nell'ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole "res" strumentali all'accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il pubblico ministero adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare "ex ante" l'oggetto del sequestro.(Sez. 6, n. 34265 del 22/09/2020, Aleotti, Rv. 279949). 5. Né, sotto ulteriore profilo, l'ordinanza impugnata consente di verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali), che dal sistema della CEDU. La Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità. Con la sentenza sul "caso Uva", si è affermato che nessun valore costituzionale può divenire "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche, che il bilanciamento deve essere condotto dal legislatore e controllato dal Giudice delle leggi secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, fermo restando che - si tratta di una affermazione centrale - non è consentito un "sacrificio del (...) nucleo essenziale" di alcuna delle istanze in conflitto (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017, in cui la Corte, in tema di "riservatezza", ha ritenuto fondamentale che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione rispettino la riserva assoluta di legge e di giurisdizione, nonché i principi di ragionevolezza e di proporzionalità alla luce dei parametri della idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto). Non diversamente, è condivisibile quanto ritenuto in dottrina, e cioè che il rango conferito dall'ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura con cui sono costruite - sostanziale o processuale - le tutele dei diritti, si deve tenere conto del ed. test di proporzionalità. Il principio in esame è capace di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia dei diritti fondamentali, oggetto primario delle disposizioni normative processuali penali. Si può tuttavia affermare che, anche là dove non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine di paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico; in tal senso, si sostiene acutamente, il principio di proporzionalità assolve ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, ed ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto. In tale accezione, il canone della proporzione e della adeguatezza sì rivolgono certamente al legislatore, nel momento in cui traccia le norme ordinarie, ed alla Corte costituzionale nel vaglio di legittimità delle stesse, ma anche al giudice comune, allorquando è chiamato in concreto a disporre atti limitativi delle istanze fondamentali. Il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su bene giuridici costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro il quale la compressione di un'istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come "diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona". Ogni misura, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, richiede che l'interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria). Dunque, solo valorizzando l'onere motivazionale è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti, quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu. La motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all'accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, in motivazione) ed al principio di proporzione. Il giudice non solo deve motivare sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari, ma deve modulare il sequestro - quando ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto al vincolo reale, anche oltre le effettive necessità dettate dalla esigenza che si intende neutralizzare; il giudice cioè deve conformare il vincolo in modo tale da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non pregiudicherebbe la finalità probatoria/cautelare perseguita (sul tema, anche Corte Cost., n. 85 del 2013). Ciò che è richiesto è una delicata operazione di bilanciamento in cui la valutazione attiene alla peculiarità del caso concreto, alla ragionevolezza della soluzione, della proporzione, al bilanciamento tra valori, all'equità. 6. Sul tema, nulla è dato comprendere; un'ordinanza, quella impugnata, con cui non stata fatta corretta applicazione della legge nemmeno quanto al tema delle garanzie che la selezione dei dati informatici avvenga in tempi congrui. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato. Il Tribunale in sede di rinvio, verificherà innanzitutto la sua competenza- profilo, questo, che pure è stato esaminato in maniera generica - e, posto che esista la competenza, applicherà i principi indicati e spiegherà se e in che limiti sia legittimo il sequestro probatorio per cui si procede. Il sesto motivo di ricorso è assorbito. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pescara, competente ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4673 del 2021, proposto da He. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato To. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Abruzzo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo Sezione Prima n. 171/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Abruzzo; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 novembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e udito l'avvocato Ma. per la parte appellante e preso atto del deposito della richiesta di passaggio in decisione, senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa del 10 gennaio 2023, da parte dell'avvocato dello Stato No.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. He. S.r.l. (di seguito solo "He.") è una società iscritta nel Registro delle Imprese a far data dal 21.12.2016, avente per oggetto sociale "la realizzazione di servizi avanzati per il settore sanitario, socio-sanitario, socio-assistenziale e sociale", con particolare riferimento alle attività di "realizzazione, organizzazione e gestione" di "strutture mediche specialistiche e polispecialistiche, ovvero semplicemente di impianti, di attrezzature, di strumenti e di arredi funzionali allo svolgimento della professione medico chirurgica privata, relativamente ai settori rappresentati dalle diverse specializzazioni mediche, da mettere a disposizione, secondo le regole di mercato, dei medici professionisti che intendano avvalersene per l'esercizio della propria attività professionale". 2. Riferisce che la totalità delle quote sociali è intestata a una società fiduciaria, Mo. Pa. Fi. S.p.A. (di seguito, anche solo la "fiduciaria"). 3. Con istanza, cui era allegata una proposta progettuale, presentata in data 26 giugno 2017, la società richiedeva al "Servizio Competitività e Attrazione degli Investimenti" istituito presso il Dipartimento "Sviluppo Economico, Politiche del Lavoro, dell'Istruzione, della Ricerca e dell'Università " della Regione Abruzzo l'ammissione alle agevolazioni previste dall'Avviso Pubblico per interventi di sostegno ad aree territoriali colpite da crisi diffusa delle attività produttive, finalizzati alla mitigazione degli effetti delle transizioni industriali sugli individui e sulle imprese. Aree di crisi non complesse individuate con DGR n° 684 del 29.10.2016, così come modificata con DGR n° 824 del 5.12.2016", a valere sulla Linea d'Azione 3.2.1. - Asse III ("Competitività del sistema produttivo") del POR FESR Abruzzo 2014/2020. L'Avviso, approvato con Determinazione dirigenziale dell'8.5.2017, n. DPG015/16, era stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo del 12.5.2017, n. 56. 4. La proposta progettuale, denominata "Una sanità privata sostenibile", prevedeva la realizzazione, nel territorio del Comune di (omissis) (AQ), di una struttura sanitaria privata adibita a poliambulatorio con autorimessa esterna pertinenziale, dotata di ambulatori medici per visite specialistiche e attività di diagnostica. 5. Al termine dell'attività istruttoria, la società, secondo quanto comunicato dal Servizio regionale con la nota del 9.3.2018, Prot. n. 69401/18, risultava beneficiaria di un contribuito pari a Euro 158.307,00, a fronte di un investimento ammissibile pari a Euro 316.314,00. 6. Con la medesima nota, veniva comunicato ad He. che, dalla "Visura Aiuti de minimis" del 28.2.2018 generata dal Registro Nazionale Aiuti, emergeva che la società "(risultava) Impresa Unica, in relazione alla quale (erano stati registrati) 'aiuti de minimis' pari a Euro 190.628,90", di guisa che il contributo concedibile non poteva ammontare a quello originariamente conferitole, di importo pari a Euro 158.307,00, "ma per l'Importo concorrente al raggiungimento del massimale di Euro 200.000,00 previsto dal Reg. UE 1407/2013, e quindi per Euro 9.371,10", richiamato dall'art. 8 dell'Avviso di concorso. 7. Con PEC del 16 marzo 2018, la società argomentava nel senso dell'erroneità delle verifiche condotte. 8. Con nota del 30 marzo 2018, Prot. n. 93517/18, il Servizio, pur confermando l'importo dell'investimento ammissibile, pari a Euro 316.614,00, informava la società che, sulla scorta delle risultanze della nuova "Visura Aiuti de minimis" estratta in data 28 marzo 2018, il contributo concedibile si era, nel frattempo, ulteriormente ridotto, sino all'importo di Euro 5.624,96. Tale riduzione del contributo era dovuta al fatto che altra società fiduciariamente posseduta da Mo. dei Pa. Fi. S.p.A. aveva medio tempore conseguito aiuti che erano stati ritenuti come concessi ad una "Impresa Unica", essendo stata presa in considerazione tutta la galassia delle centinaia di società le cui quote erano formalmente intestate alla ridetta fiduciaria. 9. Con nota inviata a mezzo PEC in data 13 aprile 2018, il difensore dell'appellante, ribadiva che "la sussistenza di rapporti di associazione e/o collegamento, e quant'altro rilevante ai fini del rispetto dei divieti di cumulo stabiliti dalle disposizioni comunitarie" andava verificato in capo "al soggetto fiduciante e non alla società fiduciaria" (titolare di una proprietà soltanto "formale" delle quote sociali della fiduciante), come, d'altronde, già opinato dall'apposita Commissione istituita presso il Ministero dello Sviluppo Economico "in occasione di precedenti procedure volte alla concessione dei contributi 'de minimis'". Errava, dunque, il Servizio Regionale laddove aveva evidenziato "la registrazione di aiuti in favore di altro soggetto giuridico", con il quale "la s.r.l. He. non (intratteneva) alcun tipo di relazione". 10. Con ricorso notificato in data 9 luglio 2018, He. adiva il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, Sede di L'Aquila, al fine di ottenere il risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa da parte della Regione Abruzzo, nonché per la condanna della stessa Regione Abruzzo al pagamento della relativa posta risarcitoria, stimata nell'importo complessivo di Euro 2.851.194,00, ovvero "nella diversa somma ritenuta di giustizia, da liquidarsi eventualmente anche in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c.". 11. In pari data rispetto a quella di notifica del ricorso introduttivo del giudizio, il Dirigente del "Servizio Competitività ed Attrazione degli Investimenti" della Regione adottava la determinazione n. DPG015/56, con cui, dopo aver preso atto che, entro il termine prescritto dall'art. 15, comma 7, dell'Avviso Pubblico, la società non aveva reso né la comunicazione di accettazione del contributo, né la dichiarazione della volontà di attuare l'intervento, dichiarava la decadenza dai benefici già riconosciuti. 12. Con atto notificato il 7 dicembre 2018 e depositato in data 10 dicembre 2018, He. proponeva motivi aggiunti per l'ottenimento del risarcimento del danno derivante anche dall'adozione dell'ulteriore provvedimento appena citato. 13. Il TAR, all'esito dell'udienza pubblica del 24 marzo 2021, pubblicava, in data 30 marzo 2021, la sentenza n. 171 con cui rigettava sia il ricorso principale, sia quello per motivi aggiunti. 14. Di tale sentenza, He. ha chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello affidato alle seguenti censure: "I. Error in judicando. Illegittimità /Illiceità degli atti regionali del 9.3.2018, Prot. n. 69401/18, del 27.3.2018, Prot. n. 89552/18 e del 30.3.2018, Prot. n. 93517/18. Illegittimo esercizio dell'attività amministrativa per violazione e falsa applicazione della legge 23.11.1939, n. 1966, dell'art. 108 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, del Regolamento (UE) della Commissione del 18.12.2013, n. 1407, dell'art. 52 della legge 24.12.2012, n. 234, nonché di ogni altra norma e principio in materia di aiuti "de minimis" e di "Impresa Unica". Eccesso di potere per errore sui presupposti e travisamento dei fatti; II. Error in judicando. Violazione e falsa applicazione dell'articolo 30, commi 1 e 3, del c.p.a. Violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 del codice civile". 15. Ha resistito al gravame la Regione Abruzzo chiedendone il rigetto. 16. Alla udienza pubblica del 30 novembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 17. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da He. S.r.l. avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo n. 171/2021 con la quale il medesimo TAR ha respinto il ricorso volto a ottenere il risarcimento dei danni derivanti da: a) per quanto riguarda il ricorso introduttivo, la nota della Regione Abruzzo - Dipartimento Sviluppo Economico, Politiche del Lavoro, Istruzione Ricerca e Università - Servizio Competitività ed Attrazione degli Investimenti (DPG15) - Ufficio Attrazione Insediamenti Industriali, Contrasto alla Delocalizzazione in data 9.3.2018, Prot. n. 69401/18, la nota della Regione Abruzzo - Dipartimento Sviluppo Economico, Politiche del Lavoro, Istruzione Ricerca e Università - Servizio Competitività ed Attrazione degli Investimenti (DPG15) - Ufficio Attrazione Insediamenti Industriali, Contrasto alla Delocalizzazione in data 27.3.2018, Prot. n. 89552/18 e la nota della Regione Abruzzo - Dipartimento Sviluppo Economico, Politiche del Lavoro, Istruzione Ricerca e Università - Servizio Competitività ed Attrazione degli Investimenti (DPG15) - Ufficio Attrazione Insediamenti Industriali, Contrasto alla Delocalizzazione in data 30.3.2018, Prot. n. 93517/18; b) per quanto riguarda i motivi aggiunti, la determinazione della Regione Abruzzo - Dipartimento Sviluppo Economico, Politiche del Lavoro, Istruzione Ricerca e Università - Servizio Competitività ed Attrazione degli Investimenti in data 9.7.2018, n. DPG015/56, comunicata alla società ricorrente a mezzo di posta elettronica certificata in data 10.7.2018. 18. La decisione del primo Giudice si articola, in sintesi, nei seguenti punti: a) la questione riguarda l'ipotesi particolare in cui un contributo pubblico sottoposto al regime "de minimis" ai sensi del Regolamento (UE) n. 1407/2013 venga richiesto da una società fiduciante, come la ricorrente, partecipata da una società fiduciaria che ne detiene totalmente le quote societarie a titolo di "proprietà " e che abbia partecipazioni in altre società, alcune beneficiarie di aiuti de minimis; b) la disciplina delle società fiduciarie trova la sua fonte principale di regolamentazione nella L. n. 1966/1939 che prevede una scissione tra titolarità del diritto di proprietà delle quote societarie, spettante al fiduciante, e legittimazione all'esercizio di tale diritto, spettante alla società fiduciaria. In buona sostanza, la società fiduciaria non diventa proprietaria delle quote di cui è intestataria, ma risulta assumere il ruolo di semplice amministratrice di dette quote per conto della fiduciante secondo il modello del mandato senza rappresentanza, restando il fiduciante effettivo titolare del diritto; c) tale configurazione intersoggettiva per assumere rilevanza nei rapporti con i terzi (segnatamente, per quanto di interesse, l'amministrazione regionale chiamata ad erogare contributi pubblici soggetti al regime de minimis) ed essere agli stessi opponibile, deve risultare chiaramente dai pubblici registri che l'amministrazione è chiamata obbligatoriamente a consultare in sede di verifica propedeutica dei requisiti per l'erogazione delle misure di vantaggio, oppure deve essere accertata previa allegazione di adeguata documentazione da parte della società richiedente i contributi; c) allorché le informazioni riportate nella visura camerale della società fiduciante richiedente i contributi pubblici indichino la società fiduciaria come intestataria delle quote societarie della fiduciante "a titolo di proprietà ", come risulta nel caso di specie, ne consegue che il sistema del Registro nazionale aiuti considera in automatico come impresa unica, e senza che l'operatore possa modificarne gli esiti, la predetta società fiduciante unitamente a tutte le altre società partecipate dalla società fiduciaria che allo stesso modo hanno richiesto e ottenuto aiuti, determinandosi, così, verosimilmente l'esclusione della richiedente dal beneficio; d) la Regione Abruzzo ha correttamente applicato la procedura prevista dal Registro nazionale degli Aiuti di cui al D.M. 31 maggio 2017 n. 115 sulla base delle informazioni risultanti dallo stesso, e in particolare dalla visura camerale relativa alla ricorrente, nonché dalla documentazione da quest'ultima prodotta; e) la ricorrente, ai fini del calcolo della dimensione dell'impresa, ben avrebbe potuto richiedere ed esibire un aggiornamento della propria visura in cui nella sezione IV "socie e titolari di diritti su azioni e quote" "il tipo diritto" spettante al socio "Mo. Pa. Fi. spa" venisse correttamente qualificato come "intestazione fiduciaria" e non come "proprietà "; f) non può ritenersi, come assume la ricorrente, che l'appartenenza della società a una persona fisica, anziché ad altra società, escluda in radice la possibilità della sussistenza di forme di collegamento con altre imprese secondo l'art. 2 del Regolamento comunitario n. 1407/2013, atteso che le informazioni rese dal sistema attribuiscono la proprietà (seppur in senso formale) delle quote societarie alla società fiduciaria; g) la domanda risarcitoria merita, comunque, di essere rigettata anche in ragione del mancato esperimento da parte della ricorrente degli strumenti di tutela apprestati dall'ordinamento, come per esempio la tempestiva impugnazione dei provvedimenti regionali indicati in epigrafe, la richiesta di tutela cautelare collegiale (finalizzata anche all'eventuale riesame della istanza sulla base di supplemento istruttorio) e, prima ancora, la proposizione di istanza volta alla concessione delle misure cautelari monocratiche di cui all'art. 56 c.p.a. 19. L'appellante contesta la ricostruzione del TAR, in sintesi, sulla base dei seguenti argomenti: a) la detenzione anche del 100% del capitale sociale non è circostanza ex se sufficiente per stabilire l'automatica responsabilità della società controllante per le fattispecie di rilievo anticoncorrenziale poste in essere dalla società controllata, dovendosi, al contrario, dimostrare che la società controllante sia in grado di influire in modo determinante sulla politica commerciale della sua controllata; b) l'indagine demandata alle Pubbliche Amministrazioni non può prescindere da un'attenta disamina del concreto atteggiarsi dei vincoli economici, organizzativi e giuridici che intercorrono tra le due entità giuridiche, i quali, ad ogni buon conto, possono variare a seconda dei casi e non possono essere elencati in modo tassativo; c) si deve tenere conto del paragrafo 3, del Regolamento n. 1407/2013, che, in tema di "imprese collegate", prevede che "sussiste una presunzione juris tantum che non vi sia influenza dominante qualora gli investitori di cui al paragrafo 2, secondo comma, non intervengano direttamente o indirettamente nella gestione dell'impresa in questione, fermi restando i diritti che essi detengono in quanto azionisti"; d) il TAR avrebbe erroneamente valorizzato il dato puramente formale costituito dalle "informazioni riportate nella visura camerale della società fiduciante richiedente i contributi pubblici"; e) la tesi sarebbe errata poiché gli Uffici Regionali avrebbero dovuto analizzare l'atto costitutivo della società (allegato alla domanda di ammissione al finanziamento), in cui si dava atto che: "la società 'Mo. Pa. Fi. S.P.A.' agisce nell'ambito dell'esercizio dell'attività fiduciaria di cui alla Legge n. 1966/1939 e successive modifiche ed integrazioni, per conto di terzi mandanti ed in forza di specifico mandato fiduciario, in qualità di intestataria formale della partecipazione; pertanto eventuali responsabilità graveranno sul proprio fiduciante"; la fiduciaria risultava "intestataria della partecipazione nell'ambito dell'esercizio dell'attività fiduciaria di cui alla Legge n. 1966/1939 e s.m.i., per conto di terzi mandanti ed in forza di specifico mandato fiduciario ed inoltre non (esercitava) nei confronti della costituenda società l'attività di direzione e coordinamento di cui agli articoli 2497 e seguenti c.c. e pertanto non si (assumeva) le relative responsabilità, né (sussistevano) i presupposti per le segnalazioni previste dagli articoli 2497-bis e 2497-ter c.c."; f) il TAR avrebbe inoltre riconosciuto cogenza, de facto, normativa (e dirimente ai fini del decidere) a quanto reso noto dalla "Commissione per la determinazione della dimensione aziendale ai fini della concessione di aiuti alle attività produttive" (istituita presso la "Direzione Generale per il Coordinamento degli Incentivi alle Imprese" del Ministero dello Sviluppo Economico) in occasione della "Quarta riunione" svoltasi in data 20.2.2007, secondo cui "con riferimento alle società fiduciarie, (...) è sufficiente, per il calcolo della dimensione aziendale, avere a disposizione una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la quale il legale rappresentante della società fiduciaria (assumendosi civilmente e penalmente la responsabilità di quanto afferma) attesti che il soggetto fiduciante non si trovi in una relazione di associazione e/o di collegamento"; f.1.) tale "dispaccio", non presente nel fascicolo di primo grado e, per l'effetto, autonomamente reperito dal T.A.R. L'Aquila in violazione di quanto prescritto dall'art. 97 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile e dall'art. 39, comma 1, del codice del processo amministrativo, non avrebbe potuto rivestire alcun rilievo ai fini della disciplina comunitaria in tema di aiuti de minimis; g) il TAR avrebbe contravvenuto alle puntualizzazioni di tutt'altro tenore recate al punto 7.3. della Frequently Asked Questions pubblicate sul sito internet istituzionale del Registro Nazionale degli Aiuti di Stato; h) le imprese le cui partecipazioni sono contraddistinte nel Registro delle Imprese dal tipo di diritto "Proprietà " attribuito a società fiduciarie (come accade nel caso di specie) non possono essere automaticamente incluse, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2, comma 2, del Regolamento, nel perimetro di "Impresa unica" a tenore della F.A.Q. n. 7.2.; i) gli Uffici Regionali non avrebbero potuto, dunque, procedere, sulla scorta delle sole risultanze documentali delle "Visure aiuti de minimis" estratte dal Registro Nazionale degli Aiuti di Stato, nonché delle visure camerali della società, a classificare He. come "Impresa unica", atteso che, in senso decisamente opposto, deporrebbero e, tuttora, depongono, le specifiche rese nelle F.A.Q. sopra menzionate, inequivoche nell'imporre ai soggetti concedenti lo svolgimento di tutte le opportune "verifiche atte a garantire la corretta individuazione del perimetro di impresa unica", attivando, se del caso, un'apposita interlocuzione procedimentale in contraddittorio con il soggetto richiedente; l) un ulteriore profilo di erroneità della sentenza sarebbe costituito dal contrasto con le norme della Legge 23.11.1939, n. 1966, di "Disciplina delle società fiduciarie e di revisione"; l.1.) in sede di emanazione della nota del 30 marzo 2018, Prot. n. 93517/18, la Regione avrebbe mostrato di non aver inquadrato correttamente la figura giuridica della Società fiduciaria; l.2.) sulla scorta di un accertamento di carattere puramente formalistico e dal risultato inverosimile, l'amministrazione riteneva che He. si trovasse in una forma di collegamento giuridicamente rilevante con altre centinaia di imprese, tante quali sono quelle censite attraverso le Visure sugli aiuti del 28.2.2018 e del 28.3.2018; l.3.) la società non poteva essere considerata come "impresa unica" con le numerose altre società con le quali, in realtà, non aveva alcuna forma di relazione e/o di collegamento, se non la casuale coincidenza, di mero fatto, dell'intestazione fiduciaria delle quote societarie in capo a Mo. dei Pa. Fi. S.p.A.; l.4.) lo stesso Servizio aveva già acclarato l'irrilevanza della proprietà delle quote societarie in titolarità di persone fisiche, sulla scorta del semplice rilievo per cui queste non possono essere destinatarie delle agevolazioni e, quindi, non possono evidentemente spiegare alcuna influenza sugli accertamenti relativi all'eventuale ricorrenza della fattispecie comunitaria della c.d. "Impresa Unica", ai sensi dell'art. 2 del Regolamento 2013/1407/CE; l.5.) He., pur non intrattenendo alcuna forma di relazione giuridicamente rilevante con le altre società destinatarie di aiuti "de minimis" registrati o in registrazione, si è vista considerare come "Impresa Unica" insieme a quelle, subendo, pertanto, la falcidia del proprio contributo in ragione del cumulo con le agevolazioni ricevute da imprese ad essa estranee; m) in ordine al rigetto della domanda risarcitoria non potrebbe addebitarsi all'odierna appellante di "aver omesso di attivare i suddetti strumenti di tutela"; m.1.) avrebbe errato la sentenza impugnata laddove, nel richiamare giurisprudenza amministrativa di solo primo grado, ha asserito che "L'aver omesso di attivare i suddetti strumenti di tutela ha comportato in conseguenza l'interruzione del nesso di causalità tra la condotta provvedimentale dell'Amministrazione e i danni asseritamente subiti dalla ricorrente asseritamente subiti dalla ricorrente", anzitutto perché nessuna "inerzia" poteva essere imputata alla società e, in secondo luogo, perché, alla luce delle precisazioni elaborate dall'Adunanza Plenaria, la mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali non è idonea a precludere la pretesa risarcitoria, potendo, al massimo, concorrere alla definizione del quantum della responsabilità risarcitoria degli apparati pubblici. 20. La ricostruzione dell'appellante, ribadita e precisata nella memoria depositata il 9 novembre 2023, non merita condivisione e la sentenza impugnata deve essere integralmente confermata. 21. Come noto, il rispetto della soglia de minimis deve essere valutato alla luce dell'importo dell'aiuto reclamato a titolo della normativa nazionale pertinente cumulato con quello dei versamenti già percepiti durante il periodo di riferimento a titolo di questa stessa normativa. 21.1. È da condividere quanto affermato dalla difesa dell'amministrazione (pagina 6 della memoria depositata il 30 ottobre 2023) secondo cui le amministrazioni concedenti gli aiuti devono effettuare la verifica della rispondenza al vero di quanto dichiarato dagli aspiranti beneficiari al momento della presentazione della domanda circa il divieto di superare il limite di Euro 200.000,00 di aiuti da ricevere in tre anni consecutivi di esercizio e che, a partire dal mese di agosto 2017, l'intero sistema è stato modificato introducendo un apparato informatizzato a cui tutte le Amministrazioni devono attenersi prima di concedere qualsiasi aiuto. 21.1.1. In definitiva, la puntuale ricostruzione, anche in fatto, del primo Giudice, è da ritenersi corretta. 21.2. Va poi osservato che in tema di azione risarcitoria, l'esistenza del danno non è di per sé sufficiente a configurare la fattispecie aquiliana essendo necessaria, ai fini del suo perfezionamento, la sussistenza di un fatto lesivo imputabile all'amministrazione a titolo di colpa. Assume rilievo centrale l'accertamento dell'elemento soggettivo della colpa della pubblica amministrazione da individuarsi nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme ritenuti non scusabili in ragione dell'interesse giuridicamente protetto del danneggiato (tra le tante, Consiglio di Stato sez. VI, 26 settembre 2023, n. 8513). 21.3. Come noto, in materia di pregiudiziale amministrativa, dagli artt. 30 e ss. c.p.a. emerge che il legislatore delegato non ha condiviso né la tesi della pregiudizialità amministrativa, né peraltro, al contrario, quella della totale autonomia dei due rimedi, impugnatorio e risarcitorio, bensì ha optato per una soluzione intermedia, che valuta l'omessa tempestiva proposizione del ricorso per l'annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo dell'istanza risarcitoria, ma solo come condotta che, nell'ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il giudice ad escludere il risarcimento, o a ridurne l'importo, ove accerti che la tempestiva proposizione del ricorso per l'annullamento dell'atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni da quest'ultimo derivanti (Consiglio di Stato sez. V, 4 luglio 2022, n. 5554). 21.4. Contrariamente a quanto affermato dall'appellante, il primo Giudice ha correttamente applicato gli insegnamenti di cui alla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 3/2011 e non ha affatto unicamente richiamato giurisprudenza di primo grado, che, pure, sarebbe stata pertinente, bensì ha richiamato la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana 8 settembre 2020, n. 760 che ha affermato: (...) "l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che "la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuta un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno" (C.S., Ad. Pl., n. 3/2011; cfr., conformi: C.S., VI^, 24 settembre 2010, n. 7124; Id, 22 ottobre 2008, n. 5183; C.S., V^, 31 dicembre 2007, n. 6908; C.S., IV^, 3 maggio 2005, n. 2136). Si deve dunque considerare - come correttamente affermato dall'Avvocatura erariale fin dal primo grado - che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte del danno è il mezzo principale di cui l'ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest'ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l'utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, la principale condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame. A sostegno di tale impostazione il Consiglio di Stato ha affermato: - che si deve "reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall'ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile"; - e che "Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma. 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile" (C.S., Ad. Pl. n. 3/2011; nonchè, conformi: C.S., VI^, 24 settembre 2010, n. 7124; Id, 22 ottobre 2008, n. 5183; C.S., V^, 31 dicembre 2007, n. 6908; C.S., IV^, 3 maggio 2005, n. 2136)". 21.5. È peraltro corretta la statuizione del primo Giudice anche laddove ha respinto la richiesta risarcitoria anche perché generica e indimostrata non essendovi nemmeno un principio di prova sulla sussistenza e sulla misura del danno lamentato, di talché la ricorrente non ha assolto agli oneri probatori posti a suo carico ai sensi dell'art. 2697 c.c. 21.6. Il principio generale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. si applica anche all'azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, in quanto spetta al danneggiato l'onere di fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria (Consiglio di Stato sez. IV, 22 marzo 2023, n. 2891). Chi agisce deve dare prova della sussistenza di un evento dannoso ingiusto, che incida su di un interesse rilevante per l'ordinamento, riferibile, sotto il profilo causale, all'illegittimità del provvedimento, e del requisito soggettivo del dolo o della colpa della P.A. (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 11 febbraio 2022, n. 191). 22. Per le ragioni sopra esposte l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo n. 171/2021. Condanna l'appellante al pagamento delle spese del presente grado del giudizio, che liquida in Euro 4.000/00 (quattromila) oltre accessori e spese di legge in favore della Regione Abruzzo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore Diana Caminiti - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SORRENTINO Federico - Presidente Dott. DE MASI Oronzo - Consigliere Dott. PAOLITTO Liberato - Consigliere Dott. BALSAMO Milena - Consigliere-Relatore Dott. PICARDI Francesca - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 13749/2021 R.G. proposto da: SOCIETA' AGRICOLA (...) Srl UNIPERSONALE, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA FARNESINA 361, presso lo studio dell'avvocato GO.AL. (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato TA.MA. (Omissis) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO(ADS80224030587) che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. CAMPOBASSO n. 345/2020 depositata il 20/11/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/05/2024 dal Consigliere MILENA BALSAMO. Udito il P.G. che ha concluso nel senso del rigetto del ricorso. Uditi i difensori delle parti. FATTI DI CAUSA 1.La società agricola (...) Srl unipersonale versava l'imposta proporzionale di registro sulla complessiva operazione qualificata dall'agenzia delle entrate come cessione di azienda, relativa al decreto di trasferimento del giudice delegato emesso a conclusione del concordato fallimentare della società (...), con terzo assuntore la predetta società. In data 30 novembre 2018 la società agricola (...) chiedeva il rimborso delle somme versate in eccesso alla stregua dell'articolo 77 D.P.R .del 26 aprile 1986, n.131. Trascorso inutilmente il termine di 90 giorni previsto dall'articolo 21 D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546 la predetta società impugnava il rifiuto tacito dell'agenzia dinanzi alla commissione tributaria provinciale Di Campobasso, la quale con sentenza numero 434 del 2019 restringeva il ricorso. Interposto gravame, la commissione tributaria regionale del Molise, nel confermare la prima decisione, respingeva il gravame della società contribuente. Avverso detta sentenza, la società agricola (...) ricorre per la Cassazione sulla base di quattro motivi. Replica con controricorso l'amministrazione finanziaria. Il PG ha concluso nel senso del rigetto del ricorso. MOTIVI DI DIRITTO 1.La prima censura deduce violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2,19 e 401 della direttiva 2006/112/CEE, nonchè degli artt. 1 e 2 D.P.R .del 26 ottobre 1972, n. 633 e dell'articolo 40 del D.P.R 26 aprile 1986, numero 131; degli articoli 3 e 53 della Costituzione, degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ. e degli articoli 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3), cod.proc.civ.. La ricorrente opera una preliminare dissertazione sul rapporto di alternatività tra iva e imposta di registro e sulle finalità che il legislatore nazionale e quello europeo hanno voluto perseguire attraverso detto regime; in particolare, rammenta che il legislatore europeo ha concesso agli Stati membri la facoltà di optare per il regime di esclusione del trasferimento dell'universalità totale o parziale di beni dall'iva, anche allo scopo di evitare di gravare la tesoreria del beneficiario di un onere fiscale smisurato che sarebbe in ogni caso recuperato ulteriormente mediante detrazione dell'iva versata a monte. Prosegue la ricorrente ricordando la direttiva 77/388/CEE sulla definizione di azienda, secondo la quale l'elemento che qualifica l'operazione è il rapporto immediato e attuale tra azienda e impresa, ove la fattispecie è individuata in base all'idoneità della prima a essere strumento per l'esercizio della seconda. L'intenzione del cessionario di esercitare l'impresa con l'azienda trasferita costituisce il parametro di valutazione per determinare se l'universalità totale o parziale dei beni sia in grado di consentire uno svolgimento attuale ed effettivo dell'attività di impresa e possa apprezzarsi come cessione di azienda in esercizio. Si osserva che l'intenzione del cessionario non può che essere di tipo oggettivo, servendo per distinguere quali complessi di rapporti giuridici siano riconducibili al concetto di azienda in senso dinamico elaborato dal giudice europeo, così divenendo un elemento qualificante del concetto stesso. In conclusione, per quanto riguarda il concetto di azienda nel sistema comune dell'iva, la ricorrente evidenzia che è il potenziale trasferimento dell'attività economica a rivelarsi estraneo al campo applicativo dell'imposta e a permettere di configurare il regime di esclusione come apprezzamento normativo di tale estraneità. Pertanto, soltanto il riconoscimento del profilo funzionale dell'azienda esclude la cessione della imposta sul valore aggiunto. Si afferma che quindi il metodo interpretativo interno deve conformarsi a quello indicato dalla Corte di giustizia, dovendosi apprezzare le eventuali incompatibilità di norme nazionali con il diritto unionale. Rammenta che la Corte di Cassazione ha affermato che "nella nozione di cessione di azienda ai fini tributari assume rilevanza centrale l'elemento funzionale, ossia il le(...)e tra il singolo elemento aziendale e l'impresa, sicché solo in assenza di questo le(...)e il bene potrà essere considerato autonomamente, mentre in caso contrario l'imposizione non può essere frazionata e l'intera operazione dovrà essere considerata come cessione di azienda". Sotto la medesima rubrica, la ricorrente rappresenta che l'attività di qualificazione giuridica della fattispecie ha la funzione di stabilire quale sia la disciplina in concreto ad essa applicabile e sostiene che dagli atti processuali emerge con tutta chiarezza che in esito alla procedura competitiva riguardante il Lotto 1, con riferimento all'azienda macello, alla società Agricola (...) sono stati trasferiti una parte minoritaria dei beni mobili dell'azienda macello, nonché una frazione dei beni immobili in cui veniva esercitata l'azienda di proprietà della società (...). Assume che integra fatto pacifico ex articolo 115, primo comma, cod.proc.civ. che per una futura ipotesi di processo di lavorazioni carni sarà indispensabile il rinnovo completo degli impianti e delle infrastrutture di stabilimento, nonché il recupero dell'impianto per il trattamento dei reflui aziendali la messa a norma degli impianti elettrici, il tutto per un investimento complessivo pari ad euro 34.372,80028,68. Contesta, in particolare, la qualificazione giuridica operata dal collegio regionale sia per quanto riguarda "la rilevanza qualificante degli elementi di fatto sia con riferimento all'individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta del paradigma normativo". Ancora sotto la medesima rubrica, la ricorrente lamenta "l'imprudente apprezzamento del giudice concernente la fattispecie concreta" deducendo che il disposto dell'articolo 116, primo comma, cod.proc.civ. fa riferimento al prudente apprezzamento del giudice e non al suo libero convincimento, il che induce a ritenere che si voglia fondare la prova libera su di una discrezionalità relativa del giudice che trova limiti invalicabili nelle regole logiche nelle massime di esperienza. A tal fine la società trascrive nuovamente l'oggetto del trasferimento avvenuto con decreto del giudice delegato, sostenendo che l'aggiudicazione di detti beni mobili e immobili avrebbero dovuto indurre la Commissione regionale ad approfondire la questione in punto di fatto, in quanto era sufficiente digitare sulla barra del motore di ricerca Google "la parola chiave Amadori macello e B" per inferire che l'azienda non era attiva. La ricorrente prosegue dissertando del fatto notorio ex articolo 115, secondo comma, cod proc.civ., sostenendo che rientra nella comune conoscenza che per poter esercitare l'attività di macellazione e di lavorazione delle carni non sono sufficienti le attrezzature relative alla prima ed alla seconda lavorazione, ma sono necessarie anche quelli afferenti la terza lavorazione, le linea macello, le celle frigo; così come di esperienza comune, si dovrebbe sapere che la mancanza dell'area produzione, degli spogliatoi delle maestranze, dell'impianto per il trattamento dei reflui aziendali non consente lo svolgimento dell'attività di un'impresa. Si osserva che dalla valutazione dell'insieme degli atti prodotti nel giudizio di merito - perizie e documenti - nonché dalle nozioni di esperienza oggettivamente condivise e accettate dalla generalità degli individui, la Commissione tributaria regionale " per induzione e in termini di necessarietà logica" doveva trarre il convincimento che l'universalità parziale di beni trasferiti alla società ricorrente in esito alla procedura competitiva riguardante il Lotto 1, non costituiva un'impresa idonea a svolgere un'attività economica autonoma. L'illustrazione del motivo termina con considerazioni conclusive in cui si insiste sull'erronea interpretazione e qualificazione dell'operazione economica posta in essere dalla società. 2.La seconda censura denuncia violazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ., nonché degli articoli 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all'articolo 360, primo comma, n. 3), cod.proc.civ.; per avere i giudici territoriali affermato che gli investimenti necessari a rivitalizzare l'azienda possono incidere sul valore attuale di quest'ultima - come affermato dal giudice di prime cure -aggiungendo che la prova contraria affidata dall'appellante al fatto notorio non è stata fornita. Ad avviso della ricorrente, i giudici di appello avrebbero violato l'articolo 2729 cod. civ., in quanto avrebbero "mortificato" i criteri logici su cui si basa il ragionamento inferenziale, individuati nelle massime d'esperienza e fondato il proprio ragionamento sulla presunzione che non risulta essere grave né precisa né concordante. Obbietta la ricorrente che la mancanza dei beni mobili e immobili tuttora di proprietà delle società (...) e(...) che compongono il Lotto 2 non sono stati valutati come elementi aziendali indispensabili per l'esercizio dell'attività di macellazione e di lavorazione delle carni, ma si sarebbero trasformati in un argomento di prova capace di contraddire la affermata inidoneità dei macchinari ed impianti acquistati dalla procedura concordataria ad essere qualificati come produttivi anche solo potenzialmente. 3.Il terzo motivo prospetta la nullità della sentenza per violazione dell'articolo 36, comma 2, n, 4, decreto legislativo 31 dicembre 1992, numero 546, nonché degli articoli 132, secondo comma, numero 4, 115 e 116 cod.proc.civ, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 4), cod. proc. civ.; per essere la motivazione in fatto affetta da vizio di illogicità e implausibilità. La ricorrente chiede a questa Corte un controllo limitato alla "verifica della tenuta sul piano logico e della plausibilità secondo il buon senso degli enunciati linguistici della motivazione in fatto, in rapporto al materiale emergente dal processo di merito, senza voler chiedere invece una rivalutazione del giudizio di fatto". A tal fine, la ricorrente riproduce le operazioni economiche poste in essere individuando nuovamente i beni oggetto del lotto uno. 4.Il quarto strumento di ricorso lamenta l'omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetti di contestazione tra le parti, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ.; denunciando il primo luogo l'omesso esame di fatti storici ritualmente allegati nel giudizio di merito, non meglio individuati nella sua illustrazione e dall'altro, lamentando un deficit logico nella motivazione della decisione impugnata laddove il giudice di merito non ha fatto riferimento alle prove, ai criteri di loro valutazione, alle inferenze ed eventuali comparazioni tra risultanze contrastanti. 5. In via preliminare, occorre divisare la terza doglianza, essa è priva di pregio. L'apparenza della motivazione ricorre, come affermato ripetutamente da questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. del 23/5/2019, n. 13977, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016; Cass. del 12.11.2022, n. 6758 e, da ultimo, S.U. n del 30.01.2023, n. 2767 in motivazione). A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell'ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall'effettivo e specifico sindacato sul fatto. Qui non ricorre alcuna delle ipotesi sopra richiamate, essendo del tutto evidente la ratio portante della decisione e l'assenza di radicali e insanabili contrasti logici, chiarendo che la cessione del Lotto 1) ha determinato il trasferimento di un complesso di beni organizzato per l'esercizio dell'attività di impresa, attività che non risulta "ferma ma in corso stante le commesse di lavorazione per conto terzi", nonché che i beni stessi presentano la caratteristica dell'interdipendenza e della idoneità all'esercizio delle attività di impresa sebbene gli stessi necessitino di interventi di manutenzione ed aggiornamento". Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (S.U. del 7/4/2014, n. 8053 Rv. 629830; S.U. del 7/4/2014, n. 8054; Sez. 6-2, 8/10/2014, n. 21257). 6.Le prime due censure - intimamente connesse - possono essere divisate congiuntamente; esse si espongono a rilievi di inammissibilità. E, comunque, nel loro complesso sono infondate. In primo luogo, ci si trova di fronte ad un motivo con il quale si deduce la violazione di plurime norme di diritto sostanziale e processuale, con richiamo alle previsioni di cui alla Direttiva CEE dietro il quale si occulta anche la riproposizione di profili fattuali attinenti alla valutazione di merito. 6.1.Il giudice di secondo grado si è limitato ad esaminare gli elementi probatori risultanti dagli atti causa, segnatamente il decreto del 6 aprile 2017, adottato nell'ambito della procedura di concordato preventivo con il quale si disponeva "la cessione di beni e attrezzature, fabbricato industriale con relative servitù, terreni, impianti di trasformazione... nonché del ramo d'azienda sito nel Comune di S"; la relazione di stima dell'ing. Ba. nell'ambito della medesima procedura, il quale dava atto della interdipendenza dei beni trasferiti con il lotto 1; il Modulo di richiesta di accordo di Sviluppo del 26.02.2018 nel quale si evidenziava il programma di sviluppo di un'azienda avente come obiettivo quello di aumentare la propria capacità produttiva ed ottimizzare la gestione del processo produttivo, ritenendo detti elementi idonei a dimostrare la configurabilità della cessione d'azienda, svolgendo un apprezzamento di fatto ad esso riservati. E' noto che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, nei cui ambito non rientra il potere di riesaminare e valutare i merito della causa, ma solo quello di controllare, il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservata l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo dell'attendibilità e della concludenza delle stesse, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v. Cass. del 27/12/2018, n. 33495; Cass. n. 9097 del 2017; Cass. n. 7921 del 2011); a fronte di plurimi elementi fattuali dei quali la sentenza impugnata per cassazione dà conto e fornisce valorizzazione, non coglie affatto nel segno la censura mirata a far risaltare la carenza dei criteri di gravità, concordanza e precisione, atteso che gli elementi assunti a fondamento della decisione più che elementi presuntivi rappresentano elementi di prova costituiti dalla richiesta di accordo, dal decreto di concordato adottato dal giudice in cui si fa riferimento al trasferimento di ramo d'azienda, dalla consulenza espletata nella stessa procedura. Il richiamo all'imprudente apprezzamento del giudice che non si è avvalso di massime di esperienza - così sembra inferirsi dalle censure che sovrappongono vari piani - mira a rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente (Cass. del 22/11/2023, n. 32505; Cass. del 12.11.2021, n. 20553; Cass. del 3.05. 2022, n. 6774; Cass. del 10.10.2022, n. 7187; Cass. del 7.06.2022, n. 10525). 6.2.La ricostruzione probatoria, anche qualora sostenuta dall'asserita violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., non può essere contestata in questa sede, poiché, come noto, l'apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso il richiamo dell'art. 116, cod. proc. civ., in quanto una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., tra le varie, Sez. 6, 27/12/2016, n. 27000 Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato più di recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite (sent. del 30/09/2020, n. 20867 conf. Cass. del 9.06.2021, n. 16016), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'art. 116 cod.proc.civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione. E inoltre per dedurre la violazione dell'art. 115 cod.proc.civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 cod.proc.civ. (Cass. del 27.03.2024, n. 8703). 6.3.Sotto altro profilo, ai fini tributari, nella nozione di cessione d'azienda assume rilevanza centrale l'elemento funzionale, ossia il le(...)e fra il singolo elemento aziendale ceduto e l'impresa, sicché, solo in mancanza di questo le(...)e, il bene potrà ritenersi ceduto autonomamente e pertanto, se del caso, l'operazione sarà assoggettata al pa(...)ento dell'Iva, mentre, nell'ipotesi contraria, l'imposizione non potrà essere frazionata e l'intera operazione negoziale dovrà essere qualificata come cessione d'azienda, assoggettata al pa(...)ento dell'imposta di registro in misura proporzionale (Cass. del 27/12/2018, n. 33495). 6.4. Ai fini della qualificazione di un negozio quale cessione di azienda - assoggettabile ad imposta di registro anziché ad IVA -non occorre che il complesso ceduto permetta l'esercizio attuale dell'attività di impresa, essendo sufficiente la sua potenziale attitudine a tale esercizio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto di non poter qualificare cessione di azienda il negozio avente ad oggetto la cessione di alcune centrali idroelettriche in quanto esso non poteva trasferire le relative concessioni amministrative: Cass. del 17/11/2017, n. 27290; Cass. del 27/12/2018, n. 33486). Ovviamente, vertendosi in tema d'imposizione alternativa, non può rilevare neppure il fatto che sia stato, in ipotesi, corrisposto un tributo non dovuto, atteso che il contribuente ha l'obbligo di versare il tributo previsto dalla legge e non quello scelto in base a considerazioni soggettive (Cass. n. 1405 del 22.01.2013, n. 1405; Cass. del 20/09/2017, n. 21767; Cass. n. 18524 del 2010); nè possono ritenersi violati il principi di alternatività dell'imposta e del divieto di doppia imposizione, ai sensi dell'art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986 e dell'art. 67 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 allorché l'amministrazione finanziaria si curi - come nel caso di specie - dì escludere la detraibilità dell'IVA, quand'anche erroneamente pagata (il che non è neppure avvenuto nel caso di specie), indicando l'imposta di registro quale unico tributo dovuto (Cass. del 12.03.1996, n. 2021; Cass. n. 18524 del 2010), a prescindere da ogni questione circa l'eventuale rimborso dell'IVA indebitamente pagata in rivalsa (questione, peraltro, nemmeno prospettata dalla ricorrente). 6.5. Come ribadito recentemente dalla Corte di Giustizia, con decisione del dicembre 2016, C208/15, una pluralità di prestazioni vanno considerate "un'unica operazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso. La Corte di Giustizia ha precisato ulteriormente che per stabilire se una pluralità di prestazioni costituisca più prestazioni indipendenti o una prestazione unica, occorre "individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi", tenendo conto dell'obiettivo economico di tale operazione (p. 29; V. anche Corte di Giustizia 19 novembre 2009, C-461/08, p. 39), nonchè dell'interesse dei destinatari delle prestazioni (Corte di Giustizia, 16 aprile 2015, C-42/LL). In tal senso, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha riconosciuto come il concetto di trasferimento di un'universalità totale o parziale di beni debba costituire un'autonoma nozione del diritto dell'Unione da intrepretarsi uniformemente al fine di evitare divergenze nell'applicazione del regime IVA negli Stati membri. Conseguentemente, la Corte ha individuato il senso e la portata della nozione di trasferimento di un'universalità totale o parziale di beni ricomprendendo in essa il trasferimento di un'azienda o di una parte autonoma di un'impresa, compresi gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali che, complessivamente, costituiscono un'impresa o una parte di impresa idonea a proseguire un'attività economica autonoma (cfr. sentenza del 10 novembre 2011, causa C444/10). Per tutti i Paesi che, uniformandosi alla VI direttiva, abbiano previsto un regime interno di esclusione della cessione di azienda dal campo di applicazione dell'Iva, non sussiste alcuna possibilità di frazionamento o scorporo di taluni beni in sede di qualificazione dell'operazione realizzata dalle parti unitariamente. In altri termini, qualora l'azienda comprenda tipologie di beni la cui autonoma cessione darebbe luogo ad un'operazione imponibile, questi beni perdono autonomia impositiva, per cui ad essi non può attribuirsi rilevanza agli effetti dell'Iva (cfr Corte di Giustizia, sentenza 27 novembre 2003, causa C-497/01). In particolare, con la sentenza del 10 novembre 2011, causa C444/10, - SCHRIEVER -(Germania) la CGUE ha esaminato l'art. 1, n. la, dell'UStG, volto a recepire nel diritto nazionale gli artt. 5, n. 8, e 18 della sesta direttiva, che dispone quanto segue: "le operazioni effettuate nell'ambito di una cessione d'azienda ad un altro imprenditore ai fini dell'impresa del medesimo non sono soggette all'IVA. La cessione di azienda consiste nel trasferimento o nel conferimento integrale ad una società, a titolo oneroso o gratuito, dell'intera azienda o di un centro di attività stabile gestito separatamente nella struttura dell'impresa. L'imprenditore acquirente subentra al cedente". La Corte UE, pervenendo alle medesime conclusioni già sostenute con la sentenza causa C-497/01 (punto 40) ZITA MODES - (Lussemburgo) in cui ha preso in esame l'art. 9, n. 2, primo comma, della legge sull'IVA che dispone: "in deroga alle disposizioni del primo paragrafo, non è considerata come cessione di beni la cessione, in qualunque forma e a qualunque titolo, di una universalità totale o parziale di beni ad un altro soggetto passivo. In questo caso, si ritiene che il cessionario continui la persona del cedente" e con sentenza causa C-29/08, c.d. SKF (punto 37), ha riconosciuto come il concetto di trasferimento di un'universalità totale o parziale di beni debba costituire un'autonoma nozione del diritto dell'Unione da interpretarsi uniformemente al fine di evitare divergenze nell'applicazione del regime IVA negli Stati membri. In linea generale, per quanto riguarda il trattamento fiscale, ai fini IVA, della cessione di azienda o di ramo di azienda, pertanto, la normativa unionale prevede che "In caso di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di un'universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri possono considerare che non è avvenuta alcuna cessione di beni e che il beneficiario succede al cedente" (cfr. art. 19 della Direttiva 2006/112/CE). Di tale facoltà si è avvalso il legislatore nazionale, stabilendo con l'art. 2, comma 3, lettera b), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, che "non sono considerate cessioni di beni: le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le assicurazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda". Pertanto, le cessioni di aziende, di singoli rami d'azienda conferimenti delle stesse in società o altri enti, compresi i consorzi o le associazioni, sono escluse dal campo applicazione dell'IVA. 6.6. Ciò detto, l'art. 2, comma 3, lett. 3), del D.P.R. del 26 ottobre 1972,n. 633 nel testo vigente ratione temporis, stabilisce che "...non sono considerate cessioni di beni ... le cessioni che hanno per oggetto aziende, compresi complessi aziendali relativi a singoli rami della impresa ..."; in tal guisa, la norma sottrae dette cessioni al regime dell'IVA, assoggettandole a quello dell'imposta di registro, ai sensi dell'art. 48 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, vigente "ratione temporis"; nè, con riguardo al caso che occupa, può constare violazione del divieto di doppia imposizione, sol che si consideri che l'Amministrazione, mediante l'avviso di accertamento per cui è controversia (n. T8T031300544), non ha reclamato due tributi, essendosi limitata ad applicare l'imposta di registro in capo cessionario del ramo d'azienda (cfr. Cass. del 5.09.2014, n. 18764). 6.7.L'art. 40 del D.P.R .n. 131 del 1986, ponendo il principio dell'alternatività Iva/registro, subordina l'applicazione dell'imposta di registro in misura proporzionale alla condizione che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi non siano assoggettate ad Iva. La qualificazione di una fattispecie come operazione imponibile Iva, dunque, comportando l'assoggettamento alla sola imposta di registro in misura fissa, ha un immediato effetto ai fini del tributo di registro. L'art. 40 cit è, infatti, composto da due periodi, i quali vanno letti unitariamente; il primo periodo afferma il principio generale, derivato direttamente dall'art. 7 della delega, secondo cui, per le operazioni che rientrano nell'area impositiva dell'Iva, il Registro è dovuto in via agevolata in misura fissa (principio della prevalenza dell'Iva) e, questo, allo scopo di attenuare il cumulo dei due tipi di prelievo. Il secondo periodo esplicita il principio indicato dal primo comma, specificando che, ai fini della alternatività, vale il criterio della soggezione teorica, in forza del quale l'alternatività stessa opera per tutti gli atti che sottintendono operazioni, anche solo astrattamente, soggette ad Iva, a prescindere dalla circostanza che detto tributo non sia in concreto dovuto per l'esistenza di una causa di esonero; e ciò allo scopo di evitare l'effetto di recupero da parte del tributo concorrente. Restano quindi assoggettate all'imposta di registro (in misura proporzionale) solo le operazioni non soggette a IVA (c.d. escluse) per carenza del requisito oggettivo (artt. 2 e 3) e di quello soggettivo (artt. 4 e 5) previsti dal D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633. Tale principio costituisce espressione e attuazione del divieto della doppia imposizione che ricorre allorché uno stesso soggetto è destinatario di più imposte relative al medesimo presupposto e per lo stesso periodo di imposta, divieto che, a sua volta, costituisce esplicazione del principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.). L'alternatività tra le due imposte non è connessa solo alla circostanza che un atto sottoposto a registrazione sia effettivamente soggetto ad IVA, ma opera anche quando l'operazione rientri comunque nel campo di applicazione di tale imposta, anche se in concreto non dovuta perché si tratta di operazioni non imponibili o esenti, sicché lo scopo del principio in questione è non solo quello di carattere - economico di impedire la doppia imposizione, ma anche quello di soddisfare l'esigenza di evitare interferenze applicative tra le due imposte in relazione ad una medesima operazione (da ultimo Cass. 242/2021). 7.La quarta censura non supera il vaglio di ammissibilità, in quanto contravviene al principio per cui nell'ipotesi di "doppia conforme" prevista dal quinto comma dell'art. 348-ter cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5528/2014), adempimento in questo caso non assolto dalla società ricorrente e, anzi, dall'esame della motivazione della sentenza gravata risulta che entrambe le decisioni abbiano fondato le loro statuizione sulle medesime rationes decidendi. 8. In definitiva, il ricorso va respinto. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza. P.Q.M. rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pa(...)ento in favore dell'Agenzia della somma di Euro 7.700,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall'art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, all'udienza della sezione tributaria della Corte di cassazione del 17 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1357 del 2024, proposto dalla Mö ln. He. Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro - la Intercent-ER Agenzia Regionale per lo Sviluppo dei Mercati Telematici, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - la Regione Emilia Romagna, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio; nei confronti della Me. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. Ca. e Di. Va., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione prima, n. 35 del 15 gennaio 2024, resa tra le parti, concernente una gara per la fornitura di dispositivi monouso e prodotti di protezione individuale in TNT sterile e non sterile. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Intercent-ER Agenzia Regionale per lo Sviluppo dei Mercati Telematici e della Me. S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120 cod. proc. amm.; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024, il consigliere Nicola D'Angelo e uditi per le parti gli avvocati Pa. To., per delega dell'avvocato An. Pa., Sa. Di Pa., per delega dell'avvocato Al. Lo., e Fr. Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società Mö ln. He. Ca. ha impugnato dinanzi al Tar di Bologna, quale seconda classificata nel procedimento di gara relativo alla fornitura di dispositivi monouso e prodotti di protezione individuale in TNT sterile e non sterile, l'aggiudicazione in favore della società Me., il bando e il relativo disciplinare. 1.1. La gara è stata espletata, secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, dalla Intercent-ER Agenzia Regionale per lo Sviluppo dei Mercati Telematici dell'Emilia Romagna mediante il sistema Dinamico di Acquisizione (SDA) ed è stata articolata in 7 lotti. La Mö ln. He. Ca. ha proposto ricorso con esclusivo riferimento al lotto 1 di valore pari a 17.254.829 euro per una fornitura di 36 mesi di durata (più eventuale proroga). 1.2. In particolare, tenuto conto che tra l'aggiudicataria e la ricorrente vi è stato uno scarto di soli 0,49 punti, la Mö ln. ha innanzitutto sostenuto la genericità del capitolato tecnico nel quale sarebbe stata del tutto indeterminata la quota di fornitura del 5 % da computarsi in base al fabbisogno espresso da ciascuna stazione appaltante definito in fase di avvio contrattuale, con conseguente alterazione del confronto concorrenziale. 1.3. La stessa ricorrente ha poi dedotto la violazione del punto 14 del disciplinare di gara (alcuni dispositivi offerti non avrebbero consentito la tracciabilità dell'effettivo produttore in violazione della lex specialis) e la circostanza che l'aggiudicataria non avrebbe ricompreso nel 5% richiesto dalla stazione appaltante il solo materiale sterile, in sostituzione di quello già presente nei kit - come avrebbe dovuto essere - ma, al contrario, solo "accessori sfusi sterili e non sterili", in violazione della legge di gara (il disciplinare richiedeva per l'ammissione la presenza per 60 gg di un assistente per la formazione nei singoli blocchi operatori, mentre nell'offerta tecnica della aggiudicataria sarebbe stato omesso il Dipartimento Rizzoli in Sicilia). 1.4. Infine, nel ricorso è stato evidenziato che sarebbe stata errata l'attribuzione dei punteggi effettuata dalla Commissione alla società Me. in riferimento ai criteri valutativi nn. 9 e 13. 2. Il Tar di Bologna, con la sentenza indicata in epigrafe (n. 35 del 2024), ha respinto il ricorso, condannando la società ricorrente alle spese di giudizio. 2.1. Nella sostanza, lo stesso Tribunale ha rilevato come il capitolato tecnico prevedesse "la ditta aggiudicataria dovrà fornire materiale sfuso presente all'interno dei kit come scorta di sicurezza nella misura del 5% del fabbisogno espresso da ciascuna Azienda Sanitaria, che sarà definito in fase di avvio contrattuale, d'intesa con i coordinatori di sala operatoria e/o i servizi preposti al controllo della Direzione. Il costo del materiale di scorta di sicurezza è incluso nella remunerazione del kit". La clausola, seppure potesse ingenerare, ove riferita alla fase dell'aggiudicazione, dubbi sulla individuazione del quantitativo da offrire, non essendo calcolato sui quantitativi di gara bensì testualmente nella misura "del 5% del fabbisogno espresso da ciascuna Azienda Sanitaria, che sarà definito in fase di avvio contrattuale", risultava tuttavia non indeterminata se riferita non già all'aggiudicazione della gara bensì alla fase di esecuzione del contratto, trattandosi di una dichiarazione di disponibilità per tale fase avente ad oggetto una quota di materiale sfuso (ovvero teli e camici) in linea con i kit oggetto della fornitura. 2.2. D'altra parte, la presunta indeterminatezza dell'oggetto contrattuale non sarebbe stata assoluta "sia perché risulta comunque determinabile (art. 1346 c.c.) sulla base delle singoli voci del lotto di riferimento all'interno dell'allegato 5 del Disciplinare di gara, sia perché la ricorrente, essendo l'attuale fornitrice dei prodotti oggetto di gara, era, ancor più degli altri operatori, nelle condizioni oggettive di poter adeguatamente comprendere e valutare l'effettiva entità di tale impegno aggiuntivo, avendo a disposizione il dato storico del consumo sulle scorte di sicurezza". 2.3. Il Tar ha, inoltre, evidenziato come l'art. 22 del Regolamento UE 2017/745 preveda, al par. 4, che "se il sistema o kit procedurale contiene dispositivi che non recano la marcatura CE o se la combinazione di dispositivi scelta non è compatibile con la destinazione d'uso originaria (...), il sistema o kit procedurale è considerato un dispositivo a sé stante ed è soggetto alla pertinente procedura di valutazione della conformità di cui all'articolo 52". 2.4. In concreto, dunque sarebbe stato rilevante l'impegno manifestato in sede di offerta dall'aggiudicataria Me. di fornire la scorta di sicurezza del 5 % del materiale "sterile" richiesto dalla stazione appaltante, a cui Me. stessa ha aggiunto volontariamente l'impegno a fornire anche quello non sterile, secondo le previsioni peraltro contenute nella lex specialis, con particolare riferimento alla pag. 3 del Disciplinare, laddove si opera riferimento alla fornitura di dispositivi monouso e prodotti di protezione individuale in TNT "sterile e non sterile". 3. Contro la suddetta sentenza ha proposto appello la società Mö ln. He. Ca. sulla base dei motivi di gravame di seguito sinteticamente indicati: i) la clausola contenuta all'art. 5 del capitolato tecnico di gara sarebbe stata, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, indeterminata. La percentuale del 5% non avrebbe rilevanza in relazione alla sola fase esecutiva. Per tale fase si è invece menzionata la "scorta" per riferirsi alla disponibilità minima di materiale che l'azienda fornitrice, in fase esecutiva, doveva garantire ai clienti. In altre parole, il fornitore doveva garantire che presso i magazzini del cliente ci fosse materiale per coprire almeno due settimane di utilizzo (questo quantitativo è la "scorta"). In nessun modo questa previsione si collega alla fornitura del 5% del fabbisogno, che doveva invece essere ricompresa nella remunerazione dei kit; ii) la violazione del punto 14 del disciplinare, per non avere l'aggiudicataria indicato nella propria offerta tecnica il c.d. "codice prodotto", in relazione a quei beni offerti in gara che non fossero da essa direttamente prodotti; iii) l'offerta dell'aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa anche perché non conforme all'oggetto dell'appalto sotto due ulteriori profili: il primo, l'indicazione come "scorta" non già del "materiale sfuso presente all'interno del kit", ma degli "accessori sfusi sterili e non sterili nella misura del 5 %" - il secondo, l'indicazione di tutte le aziende sanitarie, con tutte le loro sedi distaccate presso cui l'aggiudicataria avrebbe garantito la presenza di uno specialist, tranne il dipartimento Rizzoli Sicilia di Bagheria (ricompreso invece nel DUVRI, nel quale erano state indicate le sedi presso le quali le forniture oggetto di gara dovevano essere eseguite); iv) sarebbe stato erroneo il punteggio attribuito all'aggiudicataria in relazione a due criteri previsti dalla legge di gara (n. 9 "Caratteristiche delle sacche per la raccolta dei liquidi" - n. 13 "Proposte innovative/migliorative"). 3.1. La società appellante ha anche rinnovato la richiesta di verificazione in ordine alla sussistenza dei requisiti minimi richiesti dalla legge di gara dell'offerta dell'aggiudicataria. 4. La società Me. si è costituita in giudizio il 19 febbraio 2024, chiedendo il rigetto dell'appello. 4.1. La Intercent-ER Agenzia Regionale per lo Sviluppo dei Mercati Telematici si è costituita in giudizio il 20 febbraio 2024, chiedendo anch'essa il rigetto del ricorso. 4.2. Entrambe le parti hanno depositato memorie e documenti, rispettivamente il 6 marzo e il 10 marzo 2024. In particolare, nella memoria della Me. è stata anche riproposta l'eccezione di tardività della censura relativa all'impugnazione della clausola del bando (art. 5). 5. Nella camera di consiglio del 14 marzo 2024 l'istanza di sospensione degli effetti della sentenza impugnata, presentata contestualmente al ricorso, è stata abbinata al merito. 6. Parte appellante ha poi depositato documenti il 2 aprile 2024. 7. Tutte le parti costituite hanno infine depositato repliche (il 6 aprile 2024 l'appellante - l'11 aprile 2024 la Intercent-ER Agenzia Regionale - il 12 aprile 2024 la Me.). 8. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza pubblica del 23 aprile 2024, senza che le parti abbiano insistito per la trattazione della domanda cautelare. 9. L'appello non è fondato. 10. Preliminarmente, deve ritenersi infondata l'eccezione di tardività della censura relativa alla indeterminatezza dell'art. 5 del capitolato tecnico (eccezione riproposta dall'aggiudicataria Me., ai sensi dell'articolo 101, comma 2, c.p.a., in quanto non esaminata dal Tar). 10.1 In realtà, l'immediata impugnabilità di un bando per la presenza di clausole impeditive dell'offerta si configura solo quando il bando presenti gravi carenze di elementi essenziali e indispensabili ai fini della formulazione delle offerte (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 26 aprile 2018, n. 4; id., sez. III, 20 marzo 2023, n. 2795), mentre nel caso in esame ciò che è in contestazione è l'indeterminatezza di un elemento aggiuntivo e ulteriore di cui viene richiesta la fornitura. La giurisprudenza ha quindi precisato che il carattere escludente di una clausola in quanto impeditiva della formulazione di un'offerta esige una dimostrazione rigorosa dei relativi presupposti, tanto più nel momento in cui la ricorrente stessa - come avviene nel caso che qui occupa - abbia partecipato alla gara con un'offerta che è stata ammessa e valutata dalla stazione appaltante, ciò che costituisce un indice molto serio della portata non immediatamente escludente degli atti di gara (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2023, n. 6948). 11. Ciò premesso, nel merito va rilevato come la citata clausola del capitolato (art. 5) non può essere comunque considerata illegittima in quanto strettamente connessa alla previsione del carattere non impegnativo dei quantitativi indicati nel medesimo capitolato tecnico, in coerenza con la normale non prevedibilità ex ante del fabbisogno a base delle gare con oggetto presidi medici, tale da rendere fisiologico entro un certo margine che i concorrenti accettino la possibilità che in fase esecutiva siano richiesti quantitativi maggiori o minori, impegnandosi a soddisfare le richieste della committenza a parità di prezzi (cfr. Cons. Stato, sez. III, 23 maggio 2022, n. 4062; id., 10 giugno 2016, n. 2507; id., 23 novembre 2011, n. 6181). 11.1. Pertanto, proprio in considerazione dell'alea connessa all'impossibilità di conoscere a priori il fabbisogno di ciascuna delle strutture sanitarie destinatarie della fornitura (ma questo vale in generale per tutte le forniture di questo tipo e non solo per i prodotti aggiuntivi de quibus), risulta evidente che l'unico parametro considerabile era costituito dai quantitativi posti a base di gara, ed è rispetto a questi che i concorrenti non avrebbero potuto che modulare la percentuale aggiuntiva del 5%. 12. E' infondato anche il profilo di censura con cui si contestano le conclusioni del Tar secondo cui il requisito della tracciabilità richiesto dal disciplinare andava riferito non ai singoli prodotti che componevano i kit forniti, ma - alla stregua della normativa europea di riferimento - ai kit in sé considerati quali oggetto della fornitura (la censura si basa esclusivamente sulla previsione dell'obbligo di fornitura aggiuntiva anche di una certa percentuale di prodotti sfusi, in relazione ai quali nella memoria di Medilberg è chiarito come anche in quel caso l'Amministrazione avrebbe potuto verificarne la provenienza, semplicemente accertando che fossero gli stessi contenuti nei kit oggetto della fornitura). L'eventuale onere di tracciabilità, d'altra parte, non può configurarsi in ordine a prodotti non finiti a cui non potrebbe essere assegnato il relativo codice. 12.1. Peraltro, il profilo dedotto soffre di una parziale inammissibilità per violazione del divieto di censure nuove in appello di cui all'articolo 104, comma 1, c.p.a.. Infatti, mentre nel ricorso di primo grado la ricorrente si era limitata a lamentare l'assenza di indicazioni a fini di tracciabilità su due prodotti (coprisonda e copritelecamera) offerti dall'aggiudicataria all'interno del kit, nell'appello essa sposta l'attenzione sul materiale sfuso aggiuntivo che i concorrenti dovevano impegnarsi a fornire in base alla clausola esaminata al punto precedente. 13. Non può essere condiviso neppure il motivo di gravame che ripropone la doglianza relativa al presunto mancato rispetto da parte dell'aggiudicataria della prescrizione del capitolato sull'obbligo di fornitura della "scorta di sicurezza" agganciandosi all'uso fatto nell'offerta tecnica di controparte della parola "accessori" per sostenere che avrebbe fatto riferimento ai prodotti oggetto di altro lotto della medesima procedura selettiva. Non risulta infatti dimostrato che in tal modo la controinteressata avesse offerto un aliud pro alio rispetto a quanto richiesto dalla lex specialis, e non piuttosto - come ritenuto dal Tar - un qualcosa di più, ossia anche materiale sfuso non sterile oltre a quello sterile. 13.1. Né può ritenersi fondata la censura nella quale si sostiene che le formulazioni onnicomprensive con cui l'aggiudicataria ha assunto l'impegno a svolgere l'attività di formazione non comportassero l'estensione di tale impegno anche al Dipartimento Rizzoli Sicilia di Bagheria (ancorché non espressamente menzionato). 14. Infine, non sembrano fondate neanche le censure, riproposte con l'ultimo motivo di appello, relative all'attribuzione dei punteggi ad alcuni elementi delle offerte tecniche. 14.1. Deve essere infatti condivisa la conclusione del Tar sul punto: "è ampiamente noto che per giurisprudenza consolidata la valutazione delle offerte e, del pari, l'attribuzione dei punteggi da parte della commissione giudicatrice è espressione dell'ampia discrezionalità riconosciuta a tale organo, così che le censure sul merito di tale valutazione sono sottratte al sindacato di legittimità, ad eccezione dell'ipotesi in cui si ravvisi manifesta irragionevolezza, arbitrarietà, illogicità, irrazionalità o travisamento dei fatti". Tale impostazione è stata infatti più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 10 aprile 2024, n. 3387). E' stato in concreto rilevato come il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di attribuzione del punteggio nell'ambito del metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa sia circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della natura tecnico-discrezionale di tale attività, cosicché gli apprezzamenti compiuti dalla Commissione di gara non possono essere sostituiti da valutazioni di parte. Pertanto, è precluso al giudice amministrativo l'esercizio di un sindacato sostitutivo sulle valutazioni della Commissione, essendogli consentito soltanto un vaglio preliminare (ed in questo senso "sommario") di ragionevolezza ed illogicità, volto a verificare se le censure mosse disvelino un'abnormità della valutazione, del tutto illogica e/o parziale, o un manifesto travisamento dei fatti (circostanze non rinvenibili nel caso in esame, dove, ad esempio, con riferimento alle sacche per la raccolta dei liquidi, la differenza di punteggio è stata determinata dal fatto che le sacche dell'aggiudicataria sono risultate graduate mentre quelle della ricorrente no). 15. Quanto alla conclusiva richiesta dell'appellante dell'espletamento di una verificazione va evidenziato che la consulenza tecnica, nel processo amministrativo, costituisce non già un mezzo di prova, ma al più di ricerca della prova (c.d. consulenza tecnica percipiente), avente la funzione di fornire al giudice i necessari elementi di valutazione quando la complessità sul piano tecnico - specialistico dei fatti di causa impedisca una compiuta comprensione (c.d. consulenza tecnica deducente), ma non può avere la funzione di esonerare la parte dagli oneri probatori sulla stessa gravanti. Ne consegue che la richiesta di verificazione non può essere assecondata in mancanza di un qualsiasi concreto principio di prova, poiché in tal caso tali mezzi finirebbero per avere carattere meramente esplorativo (cfr. Cons. Stato sez. III, 13 gennaio 2016, n. 75). 16. Per le ragioni sopra esposte, l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. 17. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come indicato nel dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello n. 1357 del 2024, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la società appellante alle spese del presente grado di giudizio in favore della Intercent-ER e della società Me. in misura di euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) ciascuna, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Giovanni Pescatore - Consigliere Nicola D'Angelo - Consigliere, Estensore Antonio Massimo Marra - Consigliere Luca Di Raimondo - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Relatore Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: De.Ek. nato il (omissis) avverso l'ordinanza del 14/09/2023 del TRIB. LIBERTA' di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI; lette, nel procedimento a trattazione scritta, e conclusioni del PG, MARIAEMANUELA GUERRA, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni rassegnate con memoria dall'avv. AN.SI., difensore del ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento dell'impugnazione; RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza emessa il 14 settembre 2023, il Tribunale di Napoli ha accolto l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord avverso l'ordinanza resa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli Nord il 10 giugno 2023 con cui - con riferimento alla posizione di De.Ek., indagato per il reato di concorso in tentato omicidio aggravato in danno di Se.Ra. e Se.Vi. (capo A) e per il reato di rissa aggravata (capo B) - aveva parzialmente accolto la richiesta di applicazione di misura cautelare custodiale avanzata dal Pubblico ministero e, riqualificato il reato sub A) ai sensi degli artt. 112, 583, 585, 61, n. 11, cod. pen., aveva applicato all'indagato la misura degli arresti domiciliari. Il Tribunale, in accoglimento dell'appello, ha diversamente qualificato il fatto sub A), riconsiderandolo quale tentato omicidio, e ha applicato all'indagato la misura della custodia cautelare in carcere, con sospensione bell'esecuzione del provvedimento fino alla definitività dello stesso. 1.1. Il Giudice per le indagini preliminari, determinandosi sul punto cruciale, dopo aver ricostruito l'episodio, aveva ritenuto che il primo reato andasse qualificato come reato di lesioni volontarie, non apprezzando come sussistente il profilo oggettivo e quello soggettivo del tentato omicidio, giacché, valutando gli elementi disponibili, aveva valorizzato il carattere superficiale delle ferite da taglio e la natura accidentale dei colpi di pistola esplosi dal concorrente Fa., in quanto determinati dal suo tentativo di recuperare l'arma. 1.2. Il Tribunale, valutando l'appello proposto dal Pubblico ministero, ha invece optato per la diversa qualificazione di tentato omicidio da annettere al reato e ne ha tratto il corollario, considerato consequenziale, in punto di valutazione di esigenze cautelari e di misura necessaria per il loro contenimento. 2. Avverso questa ordinanza ha proposto ricorso il difensore di De.Ek. chiedendone l'annullamento e affidando il mezzo ad un unico, articolato motivo con cui lamenta il vizio della motivazione in relazione all'applicazione dei parametri indicati dall'art. 273 cod. proc. pen., il travisamento della prova e la violazione dell'art. 292, comma 2-ter, cod. proc. pen. La difesa censura l'equiparazione della posizione dell'indagato con quella dell'altro indagato Fa., destinatario di ordinanza applicativa della misura custodiale carceraria, del tutto apodittica essendo stata tale assimilazione, che aveva confuso la posizione di De.Ek., da vittima dell'agguato messo in opera dai Se. a pianificatore di un atto aggressivo ai loro danni. In tal senso, la ricostruzione dei fatti operata dal Giudice per le indagini preliminari, sulla scorta della chiara ricognizione delle immagini registrate dalle videocamere in loco, aveva dato conto che erano stati i Se. a placare l'indagato che chiamato in aiuto il fratello, senza che sussistesse alcuna prova che questi detenesse una pistola, da lui usata nello scontro con i Se.. Nessuna sfida, dunque, aveva accettato l'indagato: piuttosto, egli era stato aggredito e aveva chiamato il fratello, il quale lo aveva raggiunto e, nel corso dell'aggressione da loro patita, era stato quest'ultimo ad aver esploso un colpo di pistola, ma tale circostanza rappresentava un fatto non imputabile al ricorrente. Quanto alle lesioni da lui cagionate a Se.Ra., esse, secondo la difesa, erano state l'esito del suo atteggiamento difensivo, finalizzato a impedire a costui di impossessarsi della pistola che intanto Fa. aveva fatto cadere in terra; per la stessa ragione l'azione difensiva era stata estesa contro Se.Vi.. In ogni caso, l'assenza della volontà omicida era dimostrata dal fatto che, recuperata la pistola, i due indagati erano fuggiti senza usare l'arma: ciò si afferma in quanto dai filmati dimostrava che la ricostruzione del Tribunale era frutto di illazioni e non aveva tenuta logica. Inoltre, la difesa sottolinea che la misura cautelare applicata dal Giudice per le indagini preliminari era quella adeguata e proporzionata al fatto, comunque qualificato, considerata anche l'assenza di precedenti penali e giudiziari a carico di De.Ek., non essendo del resto prospettabile una nuova contesa del tipo di quella in cui si era verificato l'episodio oggetto di procedimento. 3. Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, rassegnata ai sensi dell'art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre del 2020, n. 176, come richiamato dall'art. 16 d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15, nonché, ulteriormente, dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, poi modificato dal d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18, ha chiesto il rigetto del ricorso: i giudici dell'appello cautelare hanno chiarito i tratti salienti dell'aggressione compiuta, con coltello e pistola, dai coindagati ai danni dei due antagonisti, con modalità sintomatiche del dolo omicidiario, quanto meno alternativo, desumibile anche dal numero dei colpi esplosi con l'arma da fuoco. 4. Il difensore dell'indagato ha rassegnato memoria t concludendo per l'accoglimento del ricorso ed evidenziando che occorre distinguere fra la posizione di De.Ek. e la posizione del coindagato Fa., il quale aveva peraltro esploso un colpo di pistola a scopo intimidatorio, prima di far cadere in terra l'arma, nonché ribadendo che la partecipazione di De.Ek. alla colluttazione era avvenuta in prospettiva soltanto difensiva. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. L'impugnazione non è ammissibile. 2. Giova rilevare che il Tribunale ha premesso che già nel procedimento cautelare relativo alla posizione di Fa. si era pervenuti alla conclusione della sussistenza della gravità indiziaria in ordine al reato di tentato omicidio, non di lesioni personali. Da un lato, l'analisi delle immagini ritratte dalle telecamere in funzione sul luogo del fatto e, dall'altro, la considerazione delle ferite che nello scontro avevano riportato Se.Ra. e Se.Vi. hanno condotto i giudici dell'appello cautelare a ritenere sussistente la gravità indiziaria relativamente al più grave delitto di tentato omicidio: Se.Ra. aveva riportato una ferita da arma da fuoco alla coscia destra, una ferita da arma da taglio alla coscia destra, una ferita lacero-contusa all'emitorace destro e altre due piccole ferite lacero-contuse sempre all'emitorace destro; Se.Vi. aveva riportato una lesione all'ipocondrio sinistro, sanguinante con ematoma, e ferita di parete addominale anteriore. Dalla ricostruita dinamica era risultato che l'attuale indagato aveva sollecitato l'intervento del fratello per affrontare i Se. con il suo ausilio. Entrambi i fratelli erano, quindi, andati armati allo scontro e, mentre l'attuale indagato aveva ferito entrambi i Se. con il coltello, Fa. aveva esploso un colpo di pistola che aveva attinto Se.Ra. L'uso coordinato delle armi è stato interpretato come elemento dimostrativo del fatto che i coindagati si erano risolti ad aggredire, con l'impiego di quegli strumenti, i Se., dopo averli cercati, ed essi lo avevano fatto essendo consapevoli di tutte le conseguenze che avrebbero potuto determinarsi. La gravità indiziaria inerente alla posizione dell'indagato è stata, in tal senso, individuata nel suo pieno coinvolgimento nella rissa e nel concorso nel tentativo di omicidio per avere egli istigato il complice, allertandolo e poi raggiungendolo per sfidare i Se., per essersi, a sua volta, armato, al pari del fratello, per essersi poi posto alla ricerca degli antagonisti e per avere, infine, nella colluttazione, attinto ripetutamente gli avversari con il coltello: in particolare, l'imputato aveva colpito Se.Ra. per consentire a Fa. di recuperare la pistola, da quest'ultimo successivamente utilizzata per esplodere i tre colpi in direzione della vittima; in questo modo, l'imputato aveva svolto la funzione di supporto al concorrente, intervenendo attivamente in suo aiuto. Il modificato inquadramento giuridico del reato sub A) ha indotto il Tribunale a considerare inadeguata la misura degli arresti domiciliari in luogo della misura coercitiva inframuraria; il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie è stato reputato sussistente in grado rilevante, convergendo in tal senso l'indole violenta dell'indagato, il ruolo per nulla marginale da lui giocato nella commissione del tentativo di omicidio e il collegamento del medesimo con ambienti criminali, desumibile dalla capacità di procurarsi l'immediata disponibilità di armi. Il complessivo compendio valutato ha anche indotto il Tribunale a ritenere tutte le misure diverse dalla custodia inframuraria inadeguate, allo stato, rispetto al fine di assicurare la tutela delle esigenze cautelari emerse. In effetti, i giudici dell'appello cautelare hanno giustificato la riqualificazione imperniando il loro ragionamento sulla base dell'articolato inquadramento della dinamica dell'episodio, inquadramento coerentemente sfociato nella considerazione della sussistenza della gravità indiziaria del concorso da parte dell'indagato nel tentativo di omicidio: e tale concorso è stato reputato indicativo dell'allarmante pericolosità anche di questo concorrente, pur se lo sviluppo dell'azione aveva contemplato come atto più grave quello dell'esplosione dei colpi di pistola da parte del di lui fratello all'indirizzo di Se.Ra. È, poi, vero che la sostituzione della misura cautelare non costituiva conseguenza derivante in modo automatico dalla nuova qualificazione del reato sub A), ma è parimenti certo che la sua necessità è stata, in concreto, giustificata in modo congruo e coerente, in relazione agli indicatori di pericolo espressi dalla condotta e dalla personalità dell'indagato. 3. A fronte del richiamato percorso argomentativo, il ricorso si presenta in larga parte orientato alla rivalutazione degli indizi e - sebbene la difesa si sia sforzata di negarlo - incline a prospettare l'apprezzamento alternativo in forza di diversi contenuti di merito. 3.1. In particolare, tutte le considerazioni svolte dal ricorrente, sia nell'atto di impugnazione, sia nella susseguente memoria, al fine di fornire un'interpretazione dell'azione aggressiva - diversa da quella adeguatamente illustrata dai giudici del merito cautelare - sulla scorta di un'alternativa analisi delle immagini fissate dalle telecamere in funzione sul luogo del fatto sfociano in modo evidente nella rivalutazione di merito del quadro indiziario: ambito inibito al vaglio di legittimità. La condotta dell'indagato, per come ripresa nel filmato registrato dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo di consumazione del delitto, analizzata dal personale di polizia giudiziaria e poi delibata dal giudice del merito cautelare, integra il riferimento a un elemento idoneo a possedere la valenza dell'indizio grave, oltre che preciso, a suo carico. Soprattutto, per quel che qui rileva, anche la valutazione di questo è rimessa al giudice di merito, con esito che, se sorretto da congrua e non illogica motivazione, non è censurabile in cassazione (v. per riferimenti a fattispecie analoga Sez. 2, n. 42041 del 27/06/2019, Impolito, Rv. 277013 - 01). Di conseguenza, la lettura della condotta di De.Ek. patrocinata dalla difesa -in senso primariamente difensivo e, comunque, priva di intento omicida, comunque in termini nettamente scissi da quella inerente alla posizione del coindagato Fa. - non può non essere relegata, in relazione all'analizzato compendio indiziario, all'ambito escluso dalla verifica di legittimità. 3.2. Poi, la critica mossa dal ricorrente, con la contestazione della necessità - ritenuta dai giudici dell'appello cautelare - di rivalutare lo spessore delle esigenze cautelari, di carattere specialpreventivo, per gli effetti relativi all'individuazione della misura adeguata a tutelarle, si profila meramente confutativa. Essa, limitandosi ad affermare l'assenza di automatismo tra aggravamento della fattispecie delittuosa e aggravamento della misura cautelare, risulta aspecifica, in quanto non affronta il nucleo del discorso giustificativo esposto dal Tribunale, volto a sottolineare, in modo articolato, l'emersione del più alto grado di pericolosità da riconnettersi alla posizione di De.Ek., in ragione dell'accertata spregiudicatezza connotante la condotta dell'indagato, le cui modalità e circostanze sono state valutate, con argomentazioni congrue e coerenti, come indicative di una personalità priva di freni inibitori, a livello tale che, nel contesto dato, si è considerato che esclusivamente la misura custodia le carceraria risulta idonea a contenere il concreto e attuale pericolo del suo dispiegamento deviante. Non è superfluo, in tale snodo, ribadire che il giudizio di legittimità relativo alla verifica della sussistenza o meno delle esigenze cautelari (ex art. 274 cod. proc. pen.) deve riscontrare, nei limiti della devoluzione, la violazione di specifiche norme di legge o la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato, in relazione ai canoni della logica e ai principi di diritto, sempre in relazione al contenuto argomentativo del provvedimento impugnato, ma non può accedere alle censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (per tutte, Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 - 01). 3.3. Posto quanto precede, diviene conseguente concludere che il Tribunale del riesame, in sede di appello, ha esposto con motivazione adeguata e lineare la soluzione avversata dal ricorrente: e, una volta assodata l'adeguatezza della motivazione resa dai giudici dell'appello cautelare, deve considerarsi incensurabile la conseguenza trattane in punto di nuova individuazione della misura cautelare, dopo che il Pubblico ministero aveva sollevato specificamente la questione della qualificazione del fatto oggetto dell'imputazione provvisoria e degli effetti da farne derivare in tema di apprezzamento del grado delle esigenze cautelari da presidiare. Siccome questo approdo è stato contestato da De.Ek. in modo rivalutativo e generico, l'atto di impugnazione non supera il vaglio di ammissibilità. 4. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e - per i profili di colpa correlati all'irritualità dell'impugnazione (Corte cost., sent. n. 186 elei 2000) - di una somma alla Cassa delle ammende in misura che, per il contenuto dei motivi dedotti, si fissa equamente in euro tremila. Determinando la presente decisione l'assunzione di efficacia, per la raggiunta definitività, del provvedimento impugnato, segue la disposizione alla cancelleria di dare corso agli adempimenti di cui all'art. 28 del Regolamento di esecuzione del codice di rito. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen. Così deciso il 30 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1605 del 2024, proposto da Me. Vi. e Tu. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Di Pa. e Si. Du., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Inps Direzione Centrale Credito Welfare e Strutture Sociali, Gestione ex I.N.P.D.A.P., non costituito in giudizio; Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Ministero della Cultura, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 17093/2023, resa tra le parti, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e di Ministero della Cultura e di Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per Le Province di Salerno e Avellino; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Di Pa. e Aq. in dichiarata delega dell'avvocato An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La controversia riguarda la restituzione delle somme percepite (asseritamente in applicazione del meccanismo della revisione prezzi) Me. Vi. e Tu. s.p.a., a seguito dell'affidamento del servizio di svolgimento dei soggiorni studio all'estero. 2. La società Me. Vi. e Tu. s.p.a. ha impugnato la nota n. prot. INPS.0045.19/05/2020.0008033 del 19 maggio 2020 intitolata "Soggiorni estivi in Italia e all'estero Stagione estiva 2010 - Soggiorni senior 2010. Adeguamento prezzi" e la nota n. INPS0045.25/06/2015.0017333, con le quali l'Istituto nazionale della previdenza sociale (già Inpdap e di seguito: "Inps") ha richiesto la restituzione delle somme percepite, oltre al bando, disciplinare e capitolato e dei contratti collegati, ove intesi come ostativi al riconoscimento dell'adeguamento prezzi anche ai sensi dell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 3. La stessa ricorrente ha, altresì, presentato una domanda di accertamento del diritto alla revisione prezzi di cui dell'art. 115 del D.lgs. 163 del 2006 in relazione al contratto in questione. 4. Il Tar, con sentenza 15 novembre 2023 n. 17093, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione. 5. La società ha appellato la sentenza con ricorso n. 1605 del 2024. 6. Nel corso del giudizio di appello si sono costituiti l'Inps e il Ministero della cultura. 7. All'udienza del 9 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è infondato. 9. Con unico motivo l'appellante ha censurato la sentenza per avere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia. 9.1. Deve confermarsi il difetto di giurisdizione di questo Giudice. 9.2. E' impugnata la nota 19 maggio 2020, con la quale l'Inps ha richiesto all'appellante la restituzione (tramite bonifico bancario recante nella causale "Restituzione somme adeguamento prezzi 2010") delle somme percepite in applicazione dell'"istituto dell'adeguamento dei prezzi di cui alla disciplina all'epoca vigente, ovvero l'art. 115 del d.lgs. 163/2006", in ragione del fatto che detto istituto "non può applicarsi alla fattispecie in esame". Il Tar, ritenendo che non operi nel caso di specie "il meccanismo della revisione prezzi", ha statuito che "la fattispecie in esame attiene alla Giurisdizione del Giudice Ordinario". Con il gravame l'appellante ha censurato la decisione di ritenere non applicabile al caso di specie l'istituto della revisione prezzi, la cui asserita applicabilità supporta la giurisdizione del giudice amministrativo. Oggetto di controversia è quindi la sussistenza, o meno, della giurisdizione di questo Giudice a cagione dell'applicabilità, o meno, dell'istituto della revisione prezzi. In materia di revisione prezzi è prevista la giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. E' dell'ambito applicativo di detta fattispecie di giurisdizione esclusiva che si controverte. 9.3. Non si rinvengono infatti, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, ragioni, che possano giustificare la sussistenza della giurisdizione di questo Giudice, alternative alla suddetta previsione di giurisdizione esclusiva in materia di revisione prezzi. In particolare, difettano i presupposti per ricomprendere il caso de quo nella generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. 9.4. Nel settore degli appalti la giurisdizione esclusiva comprende tutta la fase preparatoria, che si conclude con la stipulazione del contratto (art. 133 lett. e) n. 1 c.p.a.). Ciò in quanto, nel suo complessivo dispiegarsi, l'attività contrattuale dell'Amministrazione è connotata da profili pubblicistici e privatistici, che vedono la presenza di interessi legittimi e diritti soggettivi, in un intreccio tale per cui il legislatore l'ha devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così rendendo non necessaria la (complessa e incerta) qualificazione della posizione del privato. Nella fase esecutiva del contratto (di appalto) non si rinviene una corrispondente posizione del privato, né, corrispondentemente, una analoga previsione di giurisdizione esclusiva. La relazione paritaria che di norma connota detta fase non è idonea a supportare una diversa scelta del legislatore, in linea con l'impostazione costituzionale del riparto di giurisdizione. L'art. 103 comma 1 Cost. infatti non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi.Presupposto della giurisdizione esclusiva è quindi il "necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive" (Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204). Da ciò consegue che "deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto" (Corte cost. 11 maggio 2006 n. 191 e 15 luglio 2022 n. 178). In presenza delle posizioni paritarie che caratterizzano il momento esecutivo del contratto non si ravvisano i presupposti della giurisdizione esclusiva e si riespande quindi la generale regola di riparto della giurisdizione, alla base del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, al quale è attribuita la giurisdizione di legittimità in presenza di interessi legittimi, fatte salve le previsioni di giurisdizione esclusiva che possono interessarla, quale la giurisdizione esclusiva sulla revisione prezzi (su cui infra). Per quanto di interesse in questa sede, affinché la situazione giuridica soggettiva del privato sia qualificata in termini di interesse legittimo, così rinvenendosi la giurisdizione di legittimità non è sufficiente la previsione di un rimedio di adeguamento del corrispettivo economico nei contratti di durata e in particolare nel contratto d'appalto. L'ambito privatistico, infatti, conosce i rimedi conservativi dei contratti, specie di durata, pur in costanza della regola generale di vincolatività del contratto (art. 1372 comma 1 c.c.). I rimedi manutentivi possono essere regolamentati dalla stesse parti, nell'esercizio dell'autonomia contrattuale, e, in termini generali, trovano fondamento nell'art. 1467 c.c., che, dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita, consente la riduzione a equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili, al momento della conclusione del contratto, verificatisi durante l'esecuzione del contratto. Con specifico riferimento al contratto d'appalto, il rimedio manutentivo della revisione prezzi è disciplinato dall'art. 1664 c.c. La revisione prezzi ivi prevista, che si distingue dalla revisione prezzi di stampo pubblicistico (su cui infra), è un istituto che interviene in caso di alterazione del nesso di interdipendenza anche economica fra le prestazioni, collegata alla comparsa delle sopravvenienze. Essa trova fondamento, al pari degli altri rimedi correttivi, nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, proteggendo la parte dal rischio di un eccezionale aggravamento economico di quest'ultima per gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. L'ubi consistam dell'aggravamento è nella maturata sproporzione tra i valori delle prestazioni, nel senso che l'una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva. Detta revisione connota i contratti stipulati fra privati corrisponde ed è oggetto di un diritto soggettivo dell'appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa riguardante l'adempimento contrattuale, peraltro relativo all'aspetto prettamente economico dello stesso. Essa non implica di per sé la permanenza di una posizione di potere in capo all'Amministrazione, non ravvisandosi la presenza di un interesse pubblico che l'istituto è preordinato a tutelare. La revisione prezzi è quindi un rimedio correttivo apprestato dall'ordinamento civilistico che non altera la posizione delle parti del rapporto contrattuale. Non richiedendo la spendita di potere pubblico (diversamente da quanto avviene per la revisione prezzi di natura pubblicistica, su cui infra) non giustifica di per sé la cognizione del giudice amministrativo nell'ambito della giurisdizione di legittimità . E ciò né in riferimento all'atto che (in tesi) riconosce la revisione, né in riferimento all'atto con il quale la parte chiede la restituzione della somma corrisposta a tale titolo, che quindi non può essere qualificato quale esercizio del potere di autotutela (implicante la valutazione dell'interesse pubblico). A maggior ragione rientrano nelle ordinarie modalità esecutive del contratto le questioni che ineriscono all'eventuale rivalutazione del prezzo, attinendo alla mera regolamentazione di partite economiche che non richiedono di per sé la spendita di potere pubblico. 9.5. Pertanto è soltanto riconducendo il caso de quo alla revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che può essere giustificata la sussistenza della giurisdizione (esclusiva) di questo Giudice. La revisione di natura pubblicistica trova infatti una specifica ratio nell'esigenza di "salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse (incidente sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta), e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte" (Ad. plen. 2021 n. 14) e di "evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto". Al contempo "disciplina è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni". La presenza di un interesse pubblico sotteso all'istituto, e la conseguente necessità della spendita di un potere pubblico al fine di perseguirlo, determina il riconoscimento di situazioni giuridiche, almeno in parte, di interesse legittimo. Infatti il richiedente è titolare di un interesse legittimo con riferimento all'an ("La posizione dell'appaltatore in ordine all'an della revisione ha -come si è accennato- natura di interesse legittimo", così l'Ad. plen. 2021 n. 14) e di un diritto soggettivo al successivo quantum (Ad. plen. 2021 n. 14 e Cass. civ., sez. I, ordinanza 24 novembre 2023 n. 32672). Trova quindi giustificazione la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. con riferimento alle controversie relative "alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163". 9.6. Senonché il caso de quo non può essere compreso nell'ambito applicativo della revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. La lex specialis di gara prevede espressamente che l'appalto rientri fra gli appalti di servizi elencati nell'allegato II B di cui all'art. 20 comma 1 del d.lgs. n. 163 del 2006 (punto 2 del bando, premesse e punto 3.1. del disciplinare e punto 2 dei capitolati). La previsione non può essere censurata in costanza di vigenza della direttiva 2004/18/CE e del d.lgs. n. 163 del 2006 (il bando è stato pubblicato nel 2008) dal momento che l'appalto è ricompreso, in base alla stessa disciplina di settore, nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. L'assunto è rilevante in quanto solo nel caso in cui il servizio è ricompreso fra quelli elencati nell'allegato II A è applicabile l'art. 115 ("Gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice", così l'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006). Non così nel caso di servizi che rientrano fra quelli di cui all'allegato II B (come si illustrerà infra). La direttiva 2004/18/CE distingue gli appalti di servizi in due categorie, che corrispondono agli appalti che figurano nell'allegato II A o nell'allegato II B. Già a partire dai considerando la distinzione è indicata come determinante. Il diciottesimo considerando prevede che occorre suddividere i servizi in categorie e riunirli in due allegati, II A e II B, "corrispondenti a talune voci di una nomenclatura comune e di riunirli in due allegati", "a seconda del regime cui sono assoggettati". La suddivisione degli appalti di servizi è poi esplicitata nelle disposizioni della direttiva 2004/18, in particolare negli artt. 20 (riguardante i servizi elencati nell'allegato II A) e 21 (riguardante servizi elencati nell'allegato II B), che trovano corrispondenza nell'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006. In base a detti articoli la classificazione degli appalti è operata considerando, da un lato, l'oggetto e, dall'altro lato, la nomenclatura di cui agli allegati. "La distinzione tra i regimi applicabili agli appalti pubblici di servizi in funzione della classificazione dei servizi in due categorie separate, operata dalle pertinenti norme del diritto dell'Unione, trova conferma nella giurisprudenza della Corte" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). E ciò anche considerando le pronunce rese sulla precedente direttiva, la n. 92/50/CE, dal momento che la stessa giurisprudenza richiama le sentenze precedenti precisando che "la distinzione tra gli appalti di servizi in funzione della classificazione di questi ultimi in due categorie separate non è stata introdotta ex novo con la direttiva 2004/18, ma esisteva già nel vigore della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Secondo la Corte di giustizia "il riferimento alla nomenclatura CPC effettuato negli allegati I A e I B della direttiva 92/50 presenta carattere vincolante" (Cgue, sez. V, 14 novembre 2002, C-411/00 e sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). La classificazione di servizi nei due allegati è quindi determinata dalla nomenclatura ivi utilizzata e deve essere effettuata "verificando in particolare la corrispondenza tra i servizi compresi in tale appalto e i numeri di riferimento della nomenclatura CPC" (Cgue, sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). Il rapporto fra gli allegati (della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006) non vede quindi la prevalenza di uno sull'altro, così da poter qualificarne uno come avente portata generale e l'altro avente portata residuale, ma la necessità di ricondurre i singoli appalti alla definizione di cui alle nomenclature ivi formulate. Infatti la distinzione "va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Nel caso qui in esame oggetto di affidamento sono i "Servizi di organizzazione di viaggio relativi ai soggiorni estivi in Italia e soggiorni di studio all'estero da erogare in favore dei figli e orfani di iscritti all'Istituto, in attività di servizio o in quiescenza, e dei figli e orfani di dipendenti Inpdap per le stagioni 2009-2010" (così dal bando). Il fondamento di detta procedura è da individuare nel regolamento di cui al d.m. 28 luglio 1998 n. 463, nella parte in cui attribuisce all'Inpdap il compito di erogare i benefici sociali ai figli dei dipendenti e agli orfani degli iscritti alla gestione in attuazione dell'art. 1 comma 245 della legge n. 662 del 1996. L'oggetto dell'appalto, così come sopra richiamato, non è assimilabile ad alcuna delle voci di cui all'allegato IIA, riguardanti i servizi di manutenzione e riparazione, i servizi di trasporto terrestre, inclusi i servizi con furgoni blindati e servizi di corriere ad esclusione del trasporto di posta, e servizi di trasporto aereo di passeggeri e merci, escluso il trasporto di posta, il trasporto di posta per via terrestre e aerea, i servizi di telecomunicazione, i servizi finanziari, i servizi informatici ed affini, i servizi di ricerca e sviluppo, i servizi di contabilità, revisione dei conti e tenuta dei libri contabili, i servizi di ricerca di mercato e di sondaggio dell'opinione pubblica, i servizi di consulenza gestionale, i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria, anche integrata, i servizi attinenti all'urbanistica e alla paesaggistica, i servizi affini di consulenza scientifica e tecnica, i servizi di sperimentazione tecnica e analisi, i servizi pubblicitari, i servizi di pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà immobiliari, i servizi di editoria e di stampa in base a tariffa o a contratto, l'eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti e la disinfestazione e servizi analoghi. Piuttosto l'oggetto dell'appalto risulta assimilabile a tre voci contenute nell'allegato II B, cioè i servizi relativi all'istruzione, anche professionale, i servizi sanitari e sociali e i servizi ricreativi, culturali e sportivi. Pertanto, atteso che "la distinzione che va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), l'appalto de quo non può che essere ricompreso nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. Manca infatti, nell'allegato II A, una voce che possa comprendere i servizi di cui al contratto qui controverso o almeno possa essere latamente assimilata al servizio qui controverso e, viceversa, sono presenti, nell'allegato II B, voci alle quali ricondurre l'appalto de quo. Né detta conclusione trova smentita nel fatto che la Corte di giustizia affermi, richiamando la Grande sezione (13 novembre 2007, C-507/03), che "gli appalti relativi ai servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18 hanno una natura specifica" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), richiedendosi piuttosto una esegesi specifica dei servizi elencati nell'allegato II B. Infatti la Grande sezione, con la sentenza del 2007, si è limitata ad affermare che "gli appalti relativi a servizi di tal genere non presentano, a priori, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga all'esito di una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto" (Cgue, Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). La circostanza che la natura specifica degli appalti ricompresi nell'allegato II B della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006 non consente infatti di assimilare il servizio reso dall'appellante nell'ambito di applicazione dell'allegato II A, che, come detto, non presenta alcuna voce assimilabile al servizio de quo. Detto ciò, all'"aggiudicazione" degli appalti di cui all'allegato II B si applicano, in base all'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006, "esclusivamente" l'art. 68 (specifiche tecniche), l'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e l'art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati), oltre che, ai sensi dell'art. 27 comma 1 del medesimo decreto, i principi generali, quali l'economicità, l'efficacia, l'imparzialità, la parità di trattamento, la trasparenza e la proporzionalità (conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia: fra le altre Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). Pertanto, con riferimento agli appalti di cui allegato II B, la regola è quella dell'inapplicabilità delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 163 del 2006 (anche per contrapposizione agli appalti di cui all'allegato II A, ai quali si applicano, per espressa previsione dell'art. 20, le disposizioni del decreto stesso). Derogano all'inapplicabilità in generale delle disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006 ai contratti di cui all'allegato II B la previsione dell'art. 20, riferita ad alcune specifiche norme. Le previsioni applicabili al contratto de quo non comprendono certamente l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, anche in ragione del fatto che riguardano la sola fase della procedura di gara, non anche il momento esecutivo del contratto. Per quest'ultimo, in termini generali, per tutti i contratti "esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice", quale quelli di cui all'allegato II B, è prevista l'applicazione dell'art. 2 commi 2, 3 e 4 (art. 27 comma 2 d.lgs. n. 163 del 2006). Con riferimento al momento esecutivo viene in evidenza il comma 4 dell'art. 2, in base al quale "Per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l'attività contrattuale dei soggetti di cui all'articolo 1 si svolge nel rispetto, altresì, delle disposizioni stabilite dal codice civile". Ne deriva che all'appalto de quo in fase esecutiva si applica il codice civile e non si applica l'art. 115 del del d.lgs. n. 163 del 2006, nonostante il riferimento a "tutti i contratti" contenuto nel medesimo art. 115, in quanto detta espressione si riferisce a "tutti i contratti che non presentano un regime speciale" (Cos. St., sez. III, 19 giugno 2018 n. 3768). Né osta in tal senso il diritto dell'Unione europea. La Corte di giustizia ha infatti sul punto statuito che la direttiva 2004/17/CE (riguardante i settori speciali, per i quali il d.lgs. n. 163 del 206 contiene una previsione di inapplicabilità dell'istituto della revisione prezzi) e i principi generali del diritto dell'Unione devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi. E ciò anche in ragione del fatto che non si può escludere che una revisione del prezzo dopo l'aggiudicazione dell'appalto possa entrare in conflitto con il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, atteso che il prezzo dell'appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte, come emerge dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all'aggiudicazione degli appalti di cui all'art. 55 par. 1 della direttiva 2004/17/CE (Cgue, sez. IX, 19 aprile 2018, C 152/17). In tale contesto non si pongono problemi di violazione del diritto Ue a cagione della non previsione dell'istituto della revisione prezzi con riferimento ad alcuni appalti. Non applicandosi l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, viene meno il presupposto specificamente previsto per incardinare la giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a., risultando quindi ininfluente anche la giurisprudenza formatasi in merito all'an e al quantum della revisione (da ultimo Cass., sez. un., 8 febbraio 2022 n. 3935). 9.7. Né può ritenersi che un eventuale autovincolo dell'Amministrazione ad applicare la revisione di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 possa supportare, in mancanza di applicazione ex lege dell'istituto pubblicistico, il riconoscimento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Innanzitutto le norme processuali sono, in linea di principio e salvo previsione contraria, inderogabili dalla volontà delle parti: esse sono infatti norme di diritto pubblico. Ne deriva che le parti non possono, accordandosi, pretendere che il giudice regolamenti e disciplini il processo sulla base di norme convenzionali o comunque volute dalle parti. In particolare, per quanto riguarda i presupposti processuali e specificamente la giurisdizione, le parti non possono, se non nei casi previsti (ad esempio dall'art. 4 della legge n. 218 del 1995 sul diritto internazionale provato, che consente una deroga alle norme sulla giurisdizione a favore del convenuto), modificarne la disciplina. Fatti salve le previsioni di legge e le regole processuali di rilievo del vizio, la giurisdizione è disciplinata quindi da norme inderogabili. Nel caso di specie, pertanto, anche a ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata ad applicare l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, nondimeno ciò non produce riflessi sulla giurisdizione, che rimane ancorata alla legge processuale. Né contrasta con tale previsione la facoltà dell'Amministrazione di autovincolarsi o delle parti di accordarsi in modo difforme dalla disciplina sostanziale: debbono infatti distinguersi i profili della disciplina sostanziale (nei termini in cui sono disponibili) dai riflessi processuali (indisponibili). Nel caso di specie, peraltro, l'Amministrazione non si è autovincolata a rispettare la regola contenuta nell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non risulta infatti che la lex specialis o il contratto stipulato contengano riferimenti all'applicazione della revisione prezzi di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non vi sono quindi i presupposti per ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata in tal senso, mancando un riferimento specifico negli atti che disciplinano la gara e il relativo rapporto contrattuale, cioè negli atti deputati a contenere gli autovincoli quali regole alle quali l'Amministrazione ha deciso di attenersi per il futuro. Piuttosto l'appellante ha dedotto la sussistenza di un autovincolo in tal senso da una nota che farebbe (in tesi) direttamente applicazione della revisione di cui all'art 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Il riferimento è alla nota con la quale l'Inps ha rappresentato all'odierna appellante la possibilità di riconoscere per "adeguamento valutario" una percentuale "pari all'l% del costo dei pacchetti degli effettivi partiti, percentuale riportata dalla tabella ISTAT del dicembre 2009 pubblicata su GURI" (n. 127433 del 9 dicembre 2010). Nondimeno con detta nota l'Amministrazione non ha predeterminato di rispettare nel futuro una certa regola (che poi, in tesi, non avrebbe seguito) ma ha direttamente tenuto una condotta (non dovuta in mancanza di previsione di legge e di autovincolo), che la stessa ha poi successivamente smentito con la nota qui impugnata. Non si tratta quindi di autovincolo, cioè di una regola autoimposta circa l'obbligo di tenere in futuro un certo comportamento. 9.8. Tanto basta per ritenere che difetti la giurisdizione di questo Giudice (senza che sia necessario scrutinare le pronunce che hanno interessato altri aspetti dello stesso appalto o appalti similari). 10. In conclusione, l'appello va respinto. 11. La peculiarità della vicenda nel suo insieme giustifica la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata. Spese del presente grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1606 del 2024, proposto da Ph. Tr. Società Cooperativa in Liquidazione soc. coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Di Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Inps Direzione Centrale Credito Welfare e Strutture Sociali, Gestione ex I.N.P.D.A.P., non costituito in giudizio; Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 17154/2023, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Di Pa. e Aq. in dichiarata delega dell'Avv. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La controversia riguarda la restituzione delle somme percepite (asseritamente in applicazione del meccanismo della revisione prezzi) Ph. Tr. soc. coop. a seguito dell'affidamento del servizio di svolgimento dei soggiorni studio all'estero. 2. Ph. Tr. soc. coop. ha impugnato la nota n. prot. INPS.0045.19/05/2020.0008036 del 19 maggio 2020 intitolata "Soggiorni estivi in Italia e all'estero Stagione estiva 2010 - Soggiorni senior 2010. Adeguamento prezzi" e la nota n. INPS0045.21/05/2015.0014464, con le quali l'Istituto nazionale della previdenza sociale (già Inpdap e di seguito: "Inps") ha richiesto la restituzione delle somme percepite, oltre al bando, disciplinare e capitolato e dei contratti collegati, ove intesi come ostativi al riconoscimento dell'adeguamento prezzi anche ai sensi dell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 3. La stessa ricorrente ha, altresì, presentato una domanda di accertamento del diritto alla revisione prezzi di cui dell'art. 115 del D.lgs. 163 del 2006 in relazione al contratto in questione. 4. Il Tar, con sentenza 16 novembre 2023 n. 17154, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione. 5. La società ha appellato la sentenza con ricorso n. 1606 del 2024. 6. Nel corso del giudizio di appello si è costituito l'Inps. 7. All'udienza del 9 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è infondato. 9. Con unico motivo l'appellante ha censurato la sentenza per avere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia. 9.1. Deve confermarsi il difetto di giurisdizione di questo Giudice. 9.2. E' impugnata la nota 19 maggio 2020, con la quale l'Inps ha richiesto all'appellante la restituzione (tramite bonifico bancario recante nella causale "Restituzione somme adeguamento prezzi 2010") delle somme percepite in applicazione dell'"istituto dell'adeguamento dei prezzi di cui alla disciplina all'epoca vigente, ovvero l'art. 115 del d.lgs. 163/2006", in ragione del fatto che detto istituto "non può applicarsi alla fattispecie in esame". Il Tar, ritenendo che non operi nel caso di specie "il meccanismo della revisione prezzi", ha statuito che "la fattispecie in esame attiene alla Giurisdizione del Giudice Ordinario". Con il gravame l'appellante ha censurato la decisione di ritenere non applicabile al caso di specie l'istituto della revisione prezzi, la cui asserita applicabilità supporta la giurisdizione del giudice amministrativo. Oggetto di controversia è quindi la sussistenza, o meno, della giurisdizione di questo Giudice a cagione dell'applicabilità, o meno, dell'istituto della revisione prezzi. In materia di revisione prezzi è prevista la giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. E' dell'ambito applicativo di detta fattispecie di giurisdizione esclusiva che si controverte. 9.3. Non si rinvengono infatti, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, ragioni, che possano giustificare la sussistenza della giurisdizione di questo Giudice, alternative alla suddetta previsione di giurisdizione esclusiva in materia di revisione prezzi. In particolare, difettano i presupposti per ricomprendere il caso de quo nella generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. 9.4. Nel settore degli appalti la giurisdizione esclusiva comprende tutta la fase preparatoria, che si conclude con la stipulazione del contratto (art. 133 lett. e) n. 1 c.p.a.). Ciò in quanto, nel suo complessivo dispiegarsi, l'attività contrattuale dell'Amministrazione è connotata da profili pubblicistici e privatistici, che vedono la presenza di interessi legittimi e diritti soggettivi, in un intreccio tale per cui il legislatore l'ha devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così rendendo non necessaria la (complessa e incerta) qualificazione della posizione del privato. Nella fase esecutiva del contratto (di appalto) non si rinviene una corrispondente posizione del privato, né, corrispondentemente, una analoga previsione di giurisdizione esclusiva. La relazione paritaria che di norma connota detta fase non è idonea a supportare una diversa scelta del legislatore, in linea con l'impostazione costituzionale del riparto di giurisdizione. L'art. 103 comma 1 Cost. infatti non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi.Presupposto della giurisdizione esclusiva è quindi il "necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive" (Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204). Da ciò consegue che "deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto" (Corte cost. 11 maggio 2006 n. 191 e 15 luglio 2022 n. 178). In presenza delle posizioni paritarie che caratterizzano il momento esecutivo del contratto non si ravvisano i presupposti della giurisdizione esclusiva e si riespande quindi la generale regola di riparto della giurisdizione, alla base del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, al quale è attribuita la giurisdizione di legittimità in presenza di interessi legittimi, fatte salve le previsioni di giurisdizione esclusiva che possono interessarla, quale la giurisdizione esclusiva sulla revisione prezzi (su cui infra). Per quanto di interesse in questa sede, affinché la situazione giuridica soggettiva del privato sia qualificata in termini di interesse legittimo, così rinvenendosi la giurisdizione di legittimità non è sufficiente la previsione di un rimedio di adeguamento del corrispettivo economico nei contratti di durata e in particolare nel contratto d'appalto. L'ambito privatistico, infatti, conosce i rimedi conservativi dei contratti, specie di durata, pur in costanza della regola generale di vincolatività del contratto (art. 1372 comma 1 c.c.). I rimedi manutentivi possono essere regolamentati dalla stesse parti, nell'esercizio dell'autonomia contrattuale, e, in termini generali, trovano fondamento nell'art. 1467 c.c., che, dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita, consente la riduzione a equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili, al momento della conclusione del contratto, verificatisi durante l'esecuzione del contratto. Con specifico riferimento al contratto d'appalto, il rimedio manutentivo della revisione prezzi è disciplinato dall'art. 1664 c.c. La revisione prezzi ivi prevista, che si distingue dalla revisione prezzi di stampo pubblicistico (su cui infra), è un istituto che interviene in caso di alterazione del nesso di interdipendenza anche economica fra le prestazioni, collegata alla comparsa delle sopravvenienze. Essa trova fondamento, al pari degli altri rimedi correttivi, nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, proteggendo la parte dal rischio di un eccezionale aggravamento economico di quest'ultima per gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. L'ubi consistam dell'aggravamento è nella maturata sproporzione tra i valori delle prestazioni, nel senso che l'una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva. Detta revisione connota i contratti stipulati fra privati corrisponde ed è oggetto di un diritto soggettivo dell'appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa riguardante l'adempimento contrattuale, peraltro relativo all'aspetto prettamente economico dello stesso. Essa non implica di per sé la permanenza di una posizione di potere in capo all'Amministrazione, non ravvisandosi la presenza di un interesse pubblico che l'istituto è preordinato a tutelare. La revisione prezzi è quindi un rimedio correttivo apprestato dall'ordinamento civilistico che non altera la posizione delle parti del rapporto contrattuale. Non richiedendo la spendita di potere pubblico (diversamente da quanto avviene per la revisione prezzi di natura pubblicistica, su cui infra) non giustifica di per sé la cognizione del giudice amministrativo nell'ambito della giurisdizione di legittimità . E ciò né in riferimento all'atto che (in tesi) riconosce la revisione, né in riferimento all'atto con il quale la parte chiede la restituzione della somma corrisposta a tale titolo, che quindi non può essere qualificato quale esercizio del potere di autotutela (implicante la valutazione dell'interesse pubblico). A maggior ragione rientrano nelle ordinarie modalità esecutive del contratto le questioni che ineriscono all'eventuale rivalutazione del prezzo, attinendo alla mera regolamentazione di partite economiche che non richiedono di per sé la spendita di potere pubblico. 9.5. Pertanto è soltanto riconducendo il caso de quo alla revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che può essere giustificata la sussistenza della giurisdizione (esclusiva) di questo Giudice. La revisione di natura pubblicistica trova infatti una specifica ratio nell'esigenza di "salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse (incidente sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta), e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte" (Ad. plen. 2021 n. 14) e di "evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto". Al contempo "disciplina è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni". La presenza di un interesse pubblico sotteso all'istituto, e la conseguente necessità della spendita di un potere pubblico al fine di perseguirlo, determina il riconoscimento di situazioni giuridiche, almeno in parte, di interesse legittimo. Infatti il richiedente è titolare di un interesse legittimo con riferimento all'an ("La posizione dell'appaltatore in ordine all'an della revisione ha -come si è accennato- natura di interesse legittimo", così l'Ad. plen. 2021 n. 14) e di un diritto soggettivo al successivo quantum (Ad. plen. 2021 n. 14 e Cass. civ., sez. I, ordinanza 24 novembre 2023 n. 32672). Trova quindi giustificazione la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. con riferimento alle controversie relative "alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163". 9.6. Senonché il caso de quo non può essere compreso nell'ambito applicativo della revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. La lex specialis di gara prevede espressamente che l'appalto rientri fra gli appalti di servizi elencati nell'allegato II B di cui all'art. 20 comma 1 del d.lgs. n. 163 del 2006 (punto 2 del bando, premesse e punto 3.1. del disciplinare e punto 2 dei capitolati). La previsione non può essere censurata in costanza di vigenza della direttiva 2004/18/CE e del d.lgs. n. 163 del 2006 (il bando è stato pubblicato nel 2008) dal momento che l'appalto è ricompreso, in base alla stessa disciplina di settore, nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. L'assunto è rilevante in quanto solo nel caso in cui il servizio è ricompreso fra quelli elencati nell'allegato II A è applicabile l'art. 115 ("Gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice", così l'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006). Non così nel caso di servizi che rientrano fra quelli di cui all'allegato II B (come si illustrerà infra). La direttiva 2004/18/CE distingue gli appalti di servizi in due categorie, che corrispondono agli appalti che figurano nell'allegato II A o nell'allegato II B. Già a partire dai considerando la distinzione è indicata come determinante. Il diciottesimo considerando prevede che occorre suddividere i servizi in categorie e riunirli in due allegati, II A e II B, "corrispondenti a talune voci di una nomenclatura comune e di riunirli in due allegati", "a seconda del regime cui sono assoggettati". La suddivisione degli appalti di servizi è poi esplicitata nelle disposizioni della direttiva 2004/18, in particolare negli artt. 20 (riguardante i servizi elencati nell'allegato II A) e 21 (riguardante servizi elencati nell'allegato II B), che trovano corrispondenza nell'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006. In base a detti articoli la classificazione degli appalti è operata considerando, da un lato, l'oggetto e, dall'altro lato, la nomenclatura di cui agli allegati. "La distinzione tra i regimi applicabili agli appalti pubblici di servizi in funzione della classificazione dei servizi in due categorie separate, operata dalle pertinenti norme del diritto dell'Unione, trova conferma nella giurisprudenza della Corte" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). E ciò anche considerando le pronunce rese sulla precedente direttiva, la n. 92/50/CE, dal momento che la stessa giurisprudenza richiama le sentenze precedenti precisando che "la distinzione tra gli appalti di servizi in funzione della classificazione di questi ultimi in due categorie separate non è stata introdotta ex novo con la direttiva 2004/18, ma esisteva già nel vigore della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Secondo la Corte di giustizia "il riferimento alla nomenclatura CPC effettuato negli allegati I A e I B della direttiva 92/50 presenta carattere vincolante" (Cgue, sez. V, 14 novembre 2002, C-411/00 e sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). La classificazione di servizi nei due allegati è quindi determinata dalla nomenclatura ivi utilizzata e deve essere effettuata "verificando in particolare la corrispondenza tra i servizi compresi in tale appalto e i numeri di riferimento della nomenclatura CPC" (Cgue, sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). Il rapporto fra gli allegati (della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006) non vede quindi la prevalenza di uno sull'altro, così da poter qualificarne uno come avente portata generale e l'altro avente portata residuale, ma la necessità di ricondurre i singoli appalti alla definizione di cui alle nomenclature ivi formulate. Infatti la distinzione "va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Nel caso qui in esame oggetto di affidamento sono i "Servizi di organizzazione di viaggio relativi ai soggiorni estivi in Italia e soggiorni di studio all'estero da erogare in favore dei figli e orfani di iscritti all'Istituto, in attività di servizio o in quiescenza, e dei figli e orfani di dipendenti Inpdap per le stagioni 2009-2010" (così dal bando). Il fondamento di detta procedura è da individuare nel regolamento di cui al d.m. 28 luglio 1998 n. 463, nella parte in cui attribuisce all'Inpdap il compito di erogare i benefici sociali ai figli dei dipendenti e agli orfani degli iscritti alla gestione in attuazione dell'art. 1 comma 245 della legge n. 662 del 1996. L'oggetto dell'appalto, così come sopra richiamato, non è assimilabile ad alcuna delle voci di cui all'allegato IIA, riguardanti i servizi di manutenzione e riparazione, i servizi di trasporto terrestre, inclusi i servizi con furgoni blindati e servizi di corriere ad esclusione del trasporto di posta, e servizi di trasporto aereo di passeggeri e merci, escluso il trasporto di posta, il trasporto di posta per via terrestre e aerea, i servizi di telecomunicazione, i servizi finanziari, i servizi informatici ed affini, i servizi di ricerca e sviluppo, i servizi di contabilità, revisione dei conti e tenuta dei libri contabili, i servizi di ricerca di mercato e di sondaggio dell'opinione pubblica, i servizi di consulenza gestionale, i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria, anche integrata, i servizi attinenti all'urbanistica e alla paesaggistica, i servizi affini di consulenza scientifica e tecnica, i servizi di sperimentazione tecnica e analisi, i servizi pubblicitari, i servizi di pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà immobiliari, i servizi di editoria e di stampa in base a tariffa o a contratto, l'eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti e la disinfestazione e servizi analoghi. Piuttosto l'oggetto dell'appalto risulta assimilabile a tre voci contenute nell'allegato II B, cioè i servizi relativi all'istruzione, anche professionale, i servizi sanitari e sociali e i servizi ricreativi, culturali e sportivi. Pertanto, atteso che "la distinzione che va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), l'appalto de quo non può che essere ricompreso nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. Manca infatti, nell'allegato II A, una voce che possa comprendere i servizi di cui al contratto qui controverso o almeno possa essere latamente assimilata al servizio qui controverso e, viceversa, sono presenti, nell'allegato II B, voci alle quali ricondurre l'appalto de quo. Né detta conclusione trova smentita nel fatto che la Corte di giustizia affermi, richiamando la Grande sezione (13 novembre 2007, C-507/03), che "gli appalti relativi ai servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18 hanno una natura specifica" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), richiedendosi piuttosto una esegesi specifica dei servizi elencati nell'allegato II B. Infatti la Grande sezione, con la sentenza del 2007, si è limitata ad affermare che "gli appalti relativi a servizi di tal genere non presentano, a priori, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga all'esito di una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto" (Cgue, Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). La circostanza che la natura specifica degli appalti ricompresi nell'allegato II B della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006 non consente infatti di assimilare il servizio reso dall'appellante nell'ambito di applicazione dell'allegato II A, che, come detto, non presenta alcuna voce assimilabile al servizio de quo. Detto ciò, all'"aggiudicazione" degli appalti di cui all'allegato II B si applicano, in base all'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006, "esclusivamente" l'art. 68 (specifiche tecniche), l'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e l'art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati), oltre che, ai sensi dell'art. 27 comma 1 del medesimo decreto, i principi generali, quali l'economicità, l'efficacia, l'imparzialità, la parità di trattamento, la trasparenza e la proporzionalità (conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia: fra le altre Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). Pertanto, con riferimento agli appalti di cui allegato II B, la regola è quella dell'inapplicabilità delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 163 del 2006 (anche per contrapposizione agli appalti di cui all'allegato II A, ai quali si applicano, per espressa previsione dell'art. 20, le disposizioni del decreto stesso). Derogano all'inapplicabilità in generale delle disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006 ai contratti di cui all'allegato II B la previsione dell'art. 20, riferita ad alcune specifiche norme. Le previsioni applicabili al contratto de quo non comprendono certamente l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, anche in ragione del fatto che riguardano la sola fase della procedura di gara, non anche il momento esecutivo del contratto. Per quest'ultimo, in termini generali, per tutti i contratti "esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice", quale quelli di cui all'allegato II B, è prevista l'applicazione dell'art. 2 commi 2, 3 e 4 (art. 27 comma 2 d.lgs. n. 163 del 2006). Con riferimento al momento esecutivo viene in evidenza il comma 4 dell'art. 2, in base al quale "Per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l'attività contrattuale dei soggetti di cui all'articolo 1 si svolge nel rispetto, altresì, delle disposizioni stabilite dal codice civile". Ne deriva che all'appalto de quo in fase esecutiva si applica il codice civile e non si applica l'art. 115 del del d.lgs. n. 163 del 2006, nonostante il riferimento a "tutti i contratti" contenuto nel medesimo art. 115, in quanto detta espressione si riferisce a "tutti i contratti che non presentano un regime speciale" (Cos. St., sez. III, 19 giugno 2018 n. 3768). Né osta in tal senso il diritto dell'Unione europea. La Corte di giustizia ha infatti sul punto statuito che la direttiva 2004/17/CE (riguardante i settori speciali, per i quali il d.lgs. n. 163 del 206 contiene una previsione di inapplicabilità dell'istituto della revisione prezzi) e i principi generali del diritto dell'Unione devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi. E ciò anche in ragione del fatto che non si può escludere che una revisione del prezzo dopo l'aggiudicazione dell'appalto possa entrare in conflitto con il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, atteso che il prezzo dell'appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte, come emerge dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all'aggiudicazione degli appalti di cui all'art. 55 par. 1 della direttiva 2004/17/CE (Cgue, sez. IX, 19 aprile 2018, C 152/17). In tale contesto non si pongono problemi di violazione del diritto Ue a cagione della non previsione dell'istituto della revisione prezzi con riferimento ad alcuni appalti. Non applicandosi l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, viene meno il presupposto specificamente previsto per incardinare la giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a., risultando quindi ininfluente anche la giurisprudenza formatasi in merito all'an e al quantum della revisione (da ultimo Cass., sez. un., 8 febbraio 2022 n. 3935). 9.7. Né può ritenersi che un eventuale autovincolo dell'Amministrazione ad applicare la revisione di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 possa supportare, in mancanza di applicazione ex lege dell'istituto pubblicistico, il riconoscimento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Innanzitutto le norme processuali sono, in linea di principio e salvo previsione contraria, inderogabili dalla volontà delle parti: esse sono infatti norme di diritto pubblico. Ne deriva che le parti non possono, accordandosi, pretendere che il giudice regolamenti e disciplini il processo sulla base di norme convenzionali o comunque volute dalle parti. In particolare, per quanto riguarda i presupposti processuali e specificamente la giurisdizione, le parti non possono, se non nei casi previsti (ad esempio dall'art. 4 della legge n. 218 del 1995 sul diritto internazionale provato, che consente una deroga alle norme sulla giurisdizione a favore del convenuto), modificarne la disciplina. Fatti salve le previsioni di legge e le regole processuali di rilievo del vizio, la giurisdizione è disciplinata quindi da norme inderogabili. Nel caso di specie, pertanto, anche a ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata ad applicare l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, nondimeno ciò non produce riflessi sulla giurisdizione, che rimane ancorata alla legge processuale. Né contrasta con tale previsione la facoltà dell'Amministrazione di autovincolarsi o delle parti di accordarsi in modo difforme dalla disciplina sostanziale: debbono infatti distinguersi i profili della disciplina sostanziale (nei termini in cui sono disponibili) dai riflessi processuali (indisponibili). Nel caso di specie, peraltro, l'Amministrazione non si è autovincolata a rispettare la regola contenuta nell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non risulta infatti che la lex specialis o il contratto stipulato contengano riferimenti all'applicazione della revisione prezzi di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non vi sono quindi i presupposti per ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata in tal senso, mancando un riferimento specifico negli atti che disciplinano la gara e il relativo rapporto contrattuale, cioè negli atti deputati a contenere gli autovincoli quali regole alle quali l'Amministrazione ha deciso di attenersi per il futuro. Piuttosto l'appellante ha dedotto la sussistenza di un autovincolo in tal senso da una nota che farebbe (in tesi) direttamente applicazione della revisione di cui all'art 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Il riferimento è alla nota con la quale l'Inps ha rappresentato all'odierna appellante la possibilità di riconoscere per "adeguamento valutario" una percentuale "pari all'l% del costo dei pacchetti degli effettivi partiti, percentuale riportata dalla tabella ISTAT del dicembre 2009 pubblicata su GURI" (n. 127433 del 9 dicembre 2010). Nondimeno con detta nota l'Amministrazione non ha predeterminato di rispettare nel futuro una certa regola (che poi, in tesi, non avrebbe seguito) ma ha direttamente tenuto una condotta (non dovuta in mancanza di previsione di legge e di autovincolo), che la stessa ha poi successivamente smentito con la nota qui impugnata. Non si tratta quindi di autovincolo, cioè di una regola autoimposta circa l'obbligo di tenere in futuro un certo comportamento. 9.8. Tanto basta per ritenere che difetti la giurisdizione di questo Giudice (senza che sia necessario scrutinare le pronunce che hanno interessato altri aspetti dello stesso appalto o appalti similari). 10. In conclusione, l'appello va respinto. 11. La peculiarità della vicenda nel suo insieme giustifica la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata. Spese del presente grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1607 del 2024, proposto da Sa. Ma. To. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Di Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Inps Direzione Centrale Credito Welfare e Strutture Sociali, Gestione ex I.N.P.D.A.P., non costituito in giudizio; Inps- Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 17094/2023, resa tra le parti, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Inps- Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Di Pa. e Aq. in dichiarata delega dell'Avv. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La controversia riguarda la restituzione delle somme percepite (asseritamente in applicazione del meccanismo della revisione prezzi) Sa. Ma. To. s.p.a. a seguito dell'affidamento del servizio di svolgimento dei soggiorni studio all'estero. 2. Sa. Ma. To. s.p.a. ha impugnato la nota n. prot. INPS.0045.19/05/2020.0008037 del 19 maggio 2020 intitolata "Soggiorni estivi in Italia e all'estero Stagione estiva 2010 - Soggiorni senior 2010. Adeguamento prezzi" e la nota n. INPS0045.25/06/2015.0017327, con le quali l'Istituto nazionale della previdenza sociale (già Inpdap e di seguito: "Inps") ha richiesto la restituzione delle somme percepite, oltre al bando, disciplinare e capitolato e dei contratti collegati, ove intesi come ostativi al riconoscimento dell'adeguamento prezzi anche ai sensi dell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 3. La stessa ricorrente ha, altresì, presentato una domanda di accertamento del diritto alla revisione prezzi di cui dell'art. 115 del d.lgs. 163 del 2006 in relazione al contratto in questione. 4. Il Tar, con sentenza 15 novembre 2023 n. 17094, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione. 5. La società ha appellato la sentenza con ricorso n. 1607 del 2024. 6. Nel corso del giudizio di appello si è costituito l'Inps. 7. All'udienza del 9 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è infondato. 9. Con unico motivo l'appellante ha censurato la sentenza per avere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia. 9.1. Deve confermarsi il difetto di giurisdizione di questo Giudice. 9.2. E' impugnata la nota 19 maggio 2020, con la quale l'Inps ha richiesto all'appellante la restituzione (tramite bonifico bancario recante nella causale "Restituzione somme adeguamento prezzi 2010") delle somme percepite in applicazione dell'"istituto dell'adeguamento dei prezzi di cui alla disciplina all'epoca vigente, ovvero l'art. 115 del d.lgs. 163/2006", in ragione del fatto che detto istituto "non può applicarsi alla fattispecie in esame". Il Tar, ritenendo che non operi nel caso di specie "il meccanismo della revisione prezzi", ha statuito che "la fattispecie in esame attiene alla Giurisdizione del Giudice Ordinario". Con il gravame l'appellante ha censurato la decisione di ritenere non applicabile al caso di specie l'istituto della revisione prezzi, la cui asserita applicabilità supporta la giurisdizione del giudice amministrativo. Oggetto di controversia è quindi la sussistenza, o meno, della giurisdizione di questo Giudice a cagione dell'applicabilità, o meno, dell'istituto della revisione prezzi. In materia di revisione prezzi è prevista la giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. E' dell'ambito applicativo di detta fattispecie di giurisdizione esclusiva che si controverte. 9.3. Non si rinvengono infatti, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, ragioni, che possano giustificare la sussistenza della giurisdizione di questo Giudice, alternative alla suddetta previsione di giurisdizione esclusiva in materia di revisione prezzi. In particolare, difettano i presupposti per ricomprendere il caso de quo nella generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. 9.4. Nel settore degli appalti la giurisdizione esclusiva comprende tutta la fase preparatoria, che si conclude con la stipulazione del contratto (art. 133 lett. e) n. 1 c.p.a.). Ciò in quanto, nel suo complessivo dispiegarsi, l'attività contrattuale dell'Amministrazione è connotata da profili pubblicistici e privatistici, che vedono la presenza di interessi legittimi e diritti soggettivi, in un intreccio tale per cui il legislatore l'ha devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così rendendo non necessaria la (complessa e incerta) qualificazione della posizione del privato. Nella fase esecutiva del contratto (di appalto) non si rinviene una corrispondente posizione del privato, né, corrispondentemente, una analoga previsione di giurisdizione esclusiva. La relazione paritaria che di norma connota detta fase non è idonea a supportare una diversa scelta del legislatore, in linea con l'impostazione costituzionale del riparto di giurisdizione. L'art. 103 comma 1 Cost. infatti non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi.Presupposto della giurisdizione esclusiva è quindi il "necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive" (Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204). Da ciò consegue che "deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto" (Corte cost. 11 maggio 2006 n. 191 e 15 luglio 2022 n. 178). In presenza delle posizioni paritarie che caratterizzano il momento esecutivo del contratto non si ravvisano i presupposti della giurisdizione esclusiva e si riespande quindi la generale regola di riparto della giurisdizione, alla base del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, al quale è attribuita la giurisdizione di legittimità in presenza di interessi legittimi, fatte salve le previsioni di giurisdizione esclusiva che possono interessarla, quale la giurisdizione esclusiva sulla revisione prezzi (su cui infra). Per quanto di interesse in questa sede, affinché la situazione giuridica soggettiva del privato sia qualificata in termini di interesse legittimo, così rinvenendosi la giurisdizione di legittimità non è sufficiente la previsione di un rimedio di adeguamento del corrispettivo economico nei contratti di durata e in particolare nel contratto d'appalto. L'ambito privatistico, infatti, conosce i rimedi conservativi dei contratti, specie di durata, pur in costanza della regola generale di vincolatività del contratto (art. 1372 comma 1 c.c.). I rimedi manutentivi possono essere regolamentati dalla stesse parti, nell'esercizio dell'autonomia contrattuale, e, in termini generali, trovano fondamento nell'art. 1467 c.c., che, dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita, consente la riduzione a equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili, al momento della conclusione del contratto, verificatisi durante l'esecuzione del contratto. Con specifico riferimento al contratto d'appalto, il rimedio manutentivo della revisione prezzi è disciplinato dall'art. 1664 c.c. La revisione prezzi ivi prevista, che si distingue dalla revisione prezzi di stampo pubblicistico (su cui infra), è un istituto che interviene in caso di alterazione del nesso di interdipendenza anche economica fra le prestazioni, collegata alla comparsa delle sopravvenienze. Essa trova fondamento, al pari degli altri rimedi correttivi, nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, proteggendo la parte dal rischio di un eccezionale aggravamento economico di quest'ultima per gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. L'ubi consistam dell'aggravamento è nella maturata sproporzione tra i valori delle prestazioni, nel senso che l'una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva. Detta revisione connota i contratti stipulati fra privati corrisponde ed è oggetto di un diritto soggettivo dell'appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa riguardante l'adempimento contrattuale, peraltro relativo all'aspetto prettamente economico dello stesso. Essa non implica di per sé la permanenza di una posizione di potere in capo all'Amministrazione, non ravvisandosi la presenza di un interesse pubblico che l'istituto è preordinato a tutelare. La revisione prezzi è quindi un rimedio correttivo apprestato dall'ordinamento civilistico che non altera la posizione delle parti del rapporto contrattuale. Non richiedendo la spendita di potere pubblico (diversamente da quanto avviene per la revisione prezzi di natura pubblicistica, su cui infra) non giustifica di per sé la cognizione del giudice amministrativo nell'ambito della giurisdizione di legittimità . E ciò né in riferimento all'atto che (in tesi) riconosce la revisione, né in riferimento all'atto con il quale la parte chiede la restituzione della somma corrisposta a tale titolo, che quindi non può essere qualificato quale esercizio del potere di autotutela (implicante la valutazione dell'interesse pubblico). A maggior ragione rientrano nelle ordinarie modalità esecutive del contratto le questioni che ineriscono all'eventuale rivalutazione del prezzo, attinendo alla mera regolamentazione di partite economiche che non richiedono di per sé la spendita di potere pubblico. 9.5. Pertanto è soltanto riconducendo il caso de quo alla revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che può essere giustificata la sussistenza della giurisdizione (esclusiva) di questo Giudice. La revisione di natura pubblicistica trova infatti una specifica ratio nell'esigenza di "salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse (incidente sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta), e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte" (Ad. plen. 2021 n. 14) e di "evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto". Al contempo "disciplina è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni". La presenza di un interesse pubblico sotteso all'istituto, e la conseguente necessità della spendita di un potere pubblico al fine di perseguirlo, determina il riconoscimento di situazioni giuridiche, almeno in parte, di interesse legittimo. Infatti il richiedente è titolare di un interesse legittimo con riferimento all'an ("La posizione dell'appaltatore in ordine all'an della revisione ha -come si è accennato- natura di interesse legittimo", così l'Ad. plen. 2021 n. 14) e di un diritto soggettivo al successivo quantum (Ad. plen. 2021 n. 14 e Cass. civ., sez. I, ordinanza 24 novembre 2023 n. 32672). Trova quindi giustificazione la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. con riferimento alle controversie relative "alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163". 9.6. Senonché il caso de quo non può essere compreso nell'ambito applicativo della revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. La lex specialis di gara prevede espressamente che l'appalto rientri fra gli appalti di servizi elencati nell'allegato II B di cui all'art. 20 comma 1 del d.lgs. n. 163 del 2006 (punto 2 del bando, premesse e punto 3.1. del disciplinare e punto 2 dei capitolati). La previsione non può essere censurata in costanza di vigenza della direttiva 2004/18/CE e del d.lgs. n. 163 del 2006 (il bando è stato pubblicato nel 2008) dal momento che l'appalto è ricompreso, in base alla stessa disciplina di settore, nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. L'assunto è rilevante in quanto solo nel caso in cui il servizio è ricompreso fra quelli elencati nell'allegato II A è applicabile l'art. 115 ("Gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice", così l'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006). Non così nel caso di servizi che rientrano fra quelli di cui all'allegato II B (come si illustrerà infra). La direttiva 2004/18/CE distingue gli appalti di servizi in due categorie, che corrispondono agli appalti che figurano nell'allegato II A o nell'allegato II B. Già a partire dai considerando la distinzione è indicata come determinante. Il diciottesimo considerando prevede che occorre suddividere i servizi in categorie e riunirli in due allegati, II A e II B, "corrispondenti a talune voci di una nomenclatura comune e di riunirli in due allegati", "a seconda del regime cui sono assoggettati". La suddivisione degli appalti di servizi è poi esplicitata nelle disposizioni della direttiva 2004/18, in particolare negli artt. 20 (riguardante i servizi elencati nell'allegato II A) e 21 (riguardante servizi elencati nell'allegato II B), che trovano corrispondenza nell'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006. In base a detti articoli la classificazione degli appalti è operata considerando, da un lato, l'oggetto e, dall'altro lato, la nomenclatura di cui agli allegati. "La distinzione tra i regimi applicabili agli appalti pubblici di servizi in funzione della classificazione dei servizi in due categorie separate, operata dalle pertinenti norme del diritto dell'Unione, trova conferma nella giurisprudenza della Corte" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). E ciò anche considerando le pronunce rese sulla precedente direttiva, la n. 92/50/CE, dal momento che la stessa giurisprudenza richiama le sentenze precedenti precisando che "la distinzione tra gli appalti di servizi in funzione della classificazione di questi ultimi in due categorie separate non è stata introdotta ex novo con la direttiva 2004/18, ma esisteva già nel vigore della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Secondo la Corte di giustizia "il riferimento alla nomenclatura CPC effettuato negli allegati I A e I B della direttiva 92/50 presenta carattere vincolante" (Cgue, sez. V, 14 novembre 2002, C-411/00 e sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). La classificazione di servizi nei due allegati è quindi determinata dalla nomenclatura ivi utilizzata e deve essere effettuata "verificando in particolare la corrispondenza tra i servizi compresi in tale appalto e i numeri di riferimento della nomenclatura CPC" (Cgue, sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). Il rapporto fra gli allegati (della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006) non vede quindi la prevalenza di uno sull'altro, così da poter qualificarne uno come avente portata generale e l'altro avente portata residuale, ma la necessità di ricondurre i singoli appalti alla definizione di cui alle nomenclature ivi formulate. Infatti la distinzione "va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Nel caso qui in esame oggetto di affidamento sono i "Servizi di organizzazione di viaggio relativi ai soggiorni estivi in Italia e soggiorni di studio all'estero da erogare in favore dei figli e orfani di iscritti all'Istituto, in attività di servizio o in quiescenza, e dei figli e orfani di dipendenti Inpdap per le stagioni 2009-2010" (così dal bando). Il fondamento di detta procedura è da individuare nel regolamento di cui al d.m. 28 luglio 1998 n. 463, nella parte in cui attribuisce all'Inpdap il compito di erogare i benefici sociali ai figli dei dipendenti e agli orfani degli iscritti alla gestione in attuazione dell'art. 1 comma 245 della legge n. 662 del 1996. L'oggetto dell'appalto, così come sopra richiamato, non è assimilabile ad alcuna delle voci di cui all'allegato IIA, riguardanti i servizi di manutenzione e riparazione, i servizi di trasporto terrestre, inclusi i servizi con furgoni blindati e servizi di corriere ad esclusione del trasporto di posta, e servizi di trasporto aereo di passeggeri e merci, escluso il trasporto di posta, il trasporto di posta per via terrestre e aerea, i servizi di telecomunicazione, i servizi finanziari, i servizi informatici ed affini, i servizi di ricerca e sviluppo, i servizi di contabilità, revisione dei conti e tenuta dei libri contabili, i servizi di ricerca di mercato e di sondaggio dell'opinione pubblica, i servizi di consulenza gestionale, i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria, anche integrata, i servizi attinenti all'urbanistica e alla paesaggistica, i servizi affini di consulenza scientifica e tecnica, i servizi di sperimentazione tecnica e analisi, i servizi pubblicitari, i servizi di pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà immobiliari, i servizi di editoria e di stampa in base a tariffa o a contratto, l'eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti e la disinfestazione e servizi analoghi. Piuttosto l'oggetto dell'appalto risulta assimilabile a tre voci contenute nell'allegato II B, cioè i servizi relativi all'istruzione, anche professionale, i servizi sanitari e sociali e i servizi ricreativi, culturali e sportivi. Pertanto, atteso che "la distinzione che va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), l'appalto de quo non può che essere ricompreso nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. Manca infatti, nell'allegato II A, una voce che possa comprendere i servizi di cui al contratto qui controverso o almeno possa essere latamente assimilata al servizio qui controverso e, viceversa, sono presenti, nell'allegato II B, voci alle quali ricondurre l'appalto de quo. Né detta conclusione trova smentita nel fatto che la Corte di giustizia affermi, richiamando la Grande sezione (13 novembre 2007, C-507/03), che "gli appalti relativi ai servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18 hanno una natura specifica" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), richiedendosi piuttosto una esegesi specifica dei servizi elencati nell'allegato II B. Infatti la Grande sezione, con la sentenza del 2007, si è limitata ad affermare che "gli appalti relativi a servizi di tal genere non presentano, a priori, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga all'esito di una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto" (Cgue, Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). La circostanza che la natura specifica degli appalti ricompresi nell'allegato II B della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006 non consente infatti di assimilare il servizio reso dall'appellante nell'ambito di applicazione dell'allegato II A, che, come detto, non presenta alcuna voce assimilabile al servizio de quo. Detto ciò, all'"aggiudicazione" degli appalti di cui all'allegato II B si applicano, in base all'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006, "esclusivamente" l'art. 68 (specifiche tecniche), l'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e l'art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati), oltre che, ai sensi dell'art. 27 comma 1 del medesimo decreto, i principi generali, quali l'economicità, l'efficacia, l'imparzialità, la parità di trattamento, la trasparenza e la proporzionalità (conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia: fra le altre Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). Pertanto, con riferimento agli appalti di cui allegato II B, la regola è quella dell'inapplicabilità delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 163 del 2006 (anche per contrapposizione agli appalti di cui all'allegato II A, ai quali si applicano, per espressa previsione dell'art. 20, le disposizioni del decreto stesso). Derogano all'inapplicabilità in generale delle disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006 ai contratti di cui all'allegato II B la previsione dell'art. 20, riferita ad alcune specifiche norme. Le previsioni applicabili al contratto de quo non comprendono certamente l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, anche in ragione del fatto che riguardano la sola fase della procedura di gara, non anche il momento esecutivo del contratto. Per quest'ultimo, in termini generali, per tutti i contratti "esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice", quale quelli di cui all'allegato II B, è prevista l'applicazione dell'art. 2 commi 2, 3 e 4 (art. 27 comma 2 d.lgs. n. 163 del 2006). Con riferimento al momento esecutivo viene in evidenza il comma 4 dell'art. 2, in base al quale "Per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l'attività contrattuale dei soggetti di cui all'articolo 1 si svolge nel rispetto, altresì, delle disposizioni stabilite dal codice civile". Ne deriva che all'appalto de quo in fase esecutiva si applica il codice civile e non si applica l'art. 115 del del d.lgs. n. 163 del 2006, nonostante il riferimento a "tutti i contratti" contenuto nel medesimo art. 115, in quanto detta espressione si riferisce a "tutti i contratti che non presentano un regime speciale" (Cos. St., sez. III, 19 giugno 2018 n. 3768). Né osta in tal senso il diritto dell'Unione europea. La Corte di giustizia ha infatti sul punto statuito che la direttiva 2004/17/CE (riguardante i settori speciali, per i quali il d.lgs. n. 163 del 206 contiene una previsione di inapplicabilità dell'istituto della revisione prezzi) e i principi generali del diritto dell'Unione devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi. E ciò anche in ragione del fatto che non si può escludere che una revisione del prezzo dopo l'aggiudicazione dell'appalto possa entrare in conflitto con il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, atteso che il prezzo dell'appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte, come emerge dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all'aggiudicazione degli appalti di cui all'art. 55 par. 1 della direttiva 2004/17/CE (Cgue, sez. IX, 19 aprile 2018, C 152/17). In tale contesto non si pongono problemi di violazione del diritto Ue a cagione della non previsione dell'istituto della revisione prezzi con riferimento ad alcuni appalti. Non applicandosi l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, viene meno il presupposto specificamente previsto per incardinare la giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a., risultando quindi ininfluente anche la giurisprudenza formatasi in merito all'an e al quantum della revisione (da ultimo Cass., sez. un., 8 febbraio 2022 n. 3935). 9.7. Né può ritenersi che un eventuale autovincolo dell'Amministrazione ad applicare la revisione di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 possa supportare, in mancanza di applicazione ex lege dell'istituto pubblicistico, il riconoscimento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Innanzitutto le norme processuali sono, in linea di principio e salvo previsione contraria, inderogabili dalla volontà delle parti: esse sono infatti norme di diritto pubblico. Ne deriva che le parti non possono, accordandosi, pretendere che il giudice regolamenti e disciplini il processo sulla base di norme convenzionali o comunque volute dalle parti. In particolare, per quanto riguarda i presupposti processuali e specificamente la giurisdizione, le parti non possono, se non nei casi previsti (ad esempio dall'art. 4 della legge n. 218 del 1995 sul diritto internazionale provato, che consente una deroga alle norme sulla giurisdizione a favore del convenuto), modificarne la disciplina. Fatti salve le previsioni di legge e le regole processuali di rilievo del vizio, la giurisdizione è disciplinata quindi da norme inderogabili. Nel caso di specie, pertanto, anche a ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata ad applicare l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, nondimeno ciò non produce riflessi sulla giurisdizione, che rimane ancorata alla legge processuale. Né contrasta con tale previsione la facoltà dell'Amministrazione di autovincolarsi o delle parti di accordarsi in modo difforme dalla disciplina sostanziale: debbono infatti distinguersi i profili della disciplina sostanziale (nei termini in cui sono disponibili) dai riflessi processuali (indisponibili). Nel caso di specie, peraltro, l'Amministrazione non si è autovincolata a rispettare la regola contenuta nell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non risulta infatti che la lex specialis o il contratto stipulato contengano riferimenti all'applicazione della revisione prezzi di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non vi sono quindi i presupposti per ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata in tal senso, mancando un riferimento specifico negli atti che disciplinano la gara e il relativo rapporto contrattuale, cioè negli atti deputati a contenere gli autovincoli quali regole alle quali l'Amministrazione ha deciso di attenersi per il futuro. Piuttosto l'appellante ha dedotto la sussistenza di un autovincolo in tal senso da una nota che farebbe (in tesi) direttamente applicazione della revisione di cui all'art 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Il riferimento è alla nota con la quale l'Inps ha rappresentato all'odierna appellante la possibilità di riconoscere per "adeguamento valutario" una percentuale "pari all'l% del costo dei pacchetti degli effettivi partiti, percentuale riportata dalla tabella ISTAT del dicembre 2009 pubblicata su GURI" (n. 127433 del 9 dicembre 2010). Nondimeno con detta nota l'Amministrazione non ha predeterminato di rispettare nel futuro una certa regola (che poi, in tesi, non avrebbe seguito) ma ha direttamente tenuto una condotta (non dovuta in mancanza di previsione di legge e di autovincolo), che la stessa ha poi successivamente smentito con la nota qui impugnata. Non si tratta quindi di autovincolo, cioè di una regola autoimposta circa l'obbligo di tenere in futuro un certo comportamento. 9.8. Tanto basta per ritenere che difetti la giurisdizione di questo Giudice (senza che sia necessario scrutinare le pronunce che hanno interessato altri aspetti dello stesso appalto o appalti similari). 10. In conclusione, l'appello va respinto. 11. La peculiarità della vicenda nel suo insieme giustifica la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata. Spese del presente grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1608 del 2024, proposto da In. - St. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Di Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Inps Direzione Centrale Credito Welfare e Strutture Sociali, Gestione ex I.N.P.D.A.P., non costituito in giudizio; Inps- Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 17092/2023, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Inps- Istituto Nazionale della Previdenza Sociale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Di Pa. e Aq. in dichiarata delega dell'Avv. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La controversia riguarda la restituzione delle somme percepite (asseritamente in applicazione del meccanismo della revisione prezzi) In. - St. s.p.a. a seguito dell'affidamento del servizio di svolgimento dei soggiorni studio all'estero. 2. In. - St. s.p.a. ha impugnato la nota n. prot. INPS.0045.19/05/2020.0008035 del 19 maggio 2020 intitolata "Soggiorni estivi in Italia e all'estero Stagione estiva 2010 - Soggiorni senior 2010. Adeguamento prezzi" e la nota n. 0045.25/06/2015.0017331, con le quali l'Istituto nazionale della previdenza sociale (già Inpdap e di seguito: "Inps") ha richiesto la restituzione delle somme percepite, oltre al bando, disciplinare e capitolato e dei contratti collegati, ove intesi come ostativi al riconoscimento dell'adeguamento prezzi anche ai sensi dell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 3. La stessa ricorrente ha, altresì, presentato una domanda di accertamento del diritto alla revisione prezzi di cui dell'art. 115 del d.lgs. 163 del 2006 in relazione al contratto in questione. 4. Il Tar, con sentenza 15 novembre 2023 n. 17092, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione. 5. La società ha appellato la sentenza con ricorso n. 1608 del 2024. 6. Nel corso del giudizio di appello si è costituito l'Inps. 7. All'udienza del 9 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è infondato. 9. Con unico motivo l'appellante ha censurato la sentenza per avere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia. 9.1. Deve confermarsi il difetto di giurisdizione di questo Giudice. 9.2. E' impugnata la nota 19 maggio 2020, con la quale l'Inps ha richiesto all'appellante la restituzione (tramite bonifico bancario recante nella causale "Restituzione somme adeguamento prezzi 2010") delle somme percepite in applicazione dell'"istituto dell'adeguamento dei prezzi di cui alla disciplina all'epoca vigente, ovvero l'art. 115 del d.lgs. 163/2006", in ragione del fatto che detto istituto "non può applicarsi alla fattispecie in esame". Il Tar, ritenendo che non operi nel caso di specie "il meccanismo della revisione prezzi", ha statuito che "la fattispecie in esame attiene alla Giurisdizione del Giudice Ordinario". Con il gravame l'appellante ha censurato la decisione di ritenere non applicabile al caso di specie l'istituto della revisione prezzi, la cui asserita applicabilità supporta la giurisdizione del giudice amministrativo. Oggetto di controversia è quindi la sussistenza, o meno, della giurisdizione di questo Giudice a cagione dell'applicabilità, o meno, dell'istituto della revisione prezzi. In materia di revisione prezzi è prevista la giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. E' dell'ambito applicativo di detta fattispecie di giurisdizione esclusiva che si controverte. 9.3. Non si rinvengono infatti, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, ragioni, che possano giustificare la sussistenza della giurisdizione di questo Giudice, alternative alla suddetta previsione di giurisdizione esclusiva in materia di revisione prezzi. In particolare, difettano i presupposti per ricomprendere il caso de quo nella generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. 9.4. Nel settore degli appalti la giurisdizione esclusiva comprende tutta la fase preparatoria, che si conclude con la stipulazione del contratto (art. 133 lett. e) n. 1 c.p.a.). Ciò in quanto, nel suo complessivo dispiegarsi, l'attività contrattuale dell'Amministrazione è connotata da profili pubblicistici e privatistici, che vedono la presenza di interessi legittimi e diritti soggettivi, in un intreccio tale per cui il legislatore l'ha devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così rendendo non necessaria la (complessa e incerta) qualificazione della posizione del privato. Nella fase esecutiva del contratto (di appalto) non si rinviene una corrispondente posizione del privato, né, corrispondentemente, una analoga previsione di giurisdizione esclusiva. La relazione paritaria che di norma connota detta fase non è idonea a supportare una diversa scelta del legislatore, in linea con l'impostazione costituzionale del riparto di giurisdizione. L'art. 103 comma 1 Cost. infatti non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi.Presupposto della giurisdizione esclusiva è quindi il "necessario collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive" (Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204). Da ciò consegue che "deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto" (Corte cost. 11 maggio 2006 n. 191 e 15 luglio 2022 n. 178). In presenza delle posizioni paritarie che caratterizzano il momento esecutivo del contratto non si ravvisano i presupposti della giurisdizione esclusiva e si riespande quindi la generale regola di riparto della giurisdizione, alla base del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, al quale è attribuita la giurisdizione di legittimità in presenza di interessi legittimi, fatte salve le previsioni di giurisdizione esclusiva che possono interessarla, quale la giurisdizione esclusiva sulla revisione prezzi (su cui infra). Per quanto di interesse in questa sede, affinché la situazione giuridica soggettiva del privato sia qualificata in termini di interesse legittimo, così rinvenendosi la giurisdizione di legittimità non è sufficiente la previsione di un rimedio di adeguamento del corrispettivo economico nei contratti di durata e in particolare nel contratto d'appalto. L'ambito privatistico, infatti, conosce i rimedi conservativi dei contratti, specie di durata, pur in costanza della regola generale di vincolatività del contratto (art. 1372 comma 1 c.c.). I rimedi manutentivi possono essere regolamentati dalla stesse parti, nell'esercizio dell'autonomia contrattuale, e, in termini generali, trovano fondamento nell'art. 1467 c.c., che, dettato per i contratti a esecuzione periodica, continuata o differita, consente la riduzione a equità delle condizioni di contratto, in considerazione del sopravvenuto venir meno della corrispettività del sinallagma funzionale per lo squilibrio fra le prestazioni causato da fatti imprevedibili, al momento della conclusione del contratto, verificatisi durante l'esecuzione del contratto. Con specifico riferimento al contratto d'appalto, il rimedio manutentivo della revisione prezzi è disciplinato dall'art. 1664 c.c. La revisione prezzi ivi prevista, che si distingue dalla revisione prezzi di stampo pubblicistico (su cui infra), è un istituto che interviene in caso di alterazione del nesso di interdipendenza anche economica fra le prestazioni, collegata alla comparsa delle sopravvenienze. Essa trova fondamento, al pari degli altri rimedi correttivi, nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, proteggendo la parte dal rischio di un eccezionale aggravamento economico di quest'ultima per gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. L'ubi consistam dell'aggravamento è nella maturata sproporzione tra i valori delle prestazioni, nel senso che l'una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva. Detta revisione connota i contratti stipulati fra privati corrisponde ed è oggetto di un diritto soggettivo dell'appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa riguardante l'adempimento contrattuale, peraltro relativo all'aspetto prettamente economico dello stesso. Essa non implica di per sé la permanenza di una posizione di potere in capo all'Amministrazione, non ravvisandosi la presenza di un interesse pubblico che l'istituto è preordinato a tutelare. La revisione prezzi è quindi un rimedio correttivo apprestato dall'ordinamento civilistico che non altera la posizione delle parti del rapporto contrattuale. Non richiedendo la spendita di potere pubblico (diversamente da quanto avviene per la revisione prezzi di natura pubblicistica, su cui infra) non giustifica di per sé la cognizione del giudice amministrativo nell'ambito della giurisdizione di legittimità . E ciò né in riferimento all'atto che (in tesi) riconosce la revisione, né in riferimento all'atto con il quale la parte chiede la restituzione della somma corrisposta a tale titolo, che quindi non può essere qualificato quale esercizio del potere di autotutela (implicante la valutazione dell'interesse pubblico). A maggior ragione rientrano nelle ordinarie modalità esecutive del contratto le questioni che ineriscono all'eventuale rivalutazione del prezzo, attinendo alla mera regolamentazione di partite economiche che non richiedono di per sé la spendita di potere pubblico. 9.5. Pertanto è soltanto riconducendo il caso de quo alla revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, che può essere giustificata la sussistenza della giurisdizione (esclusiva) di questo Giudice. La revisione di natura pubblicistica trova infatti una specifica ratio nell'esigenza di "salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse (incidente sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta), e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte" (Ad. plen. 2021 n. 14) e di "evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto". Al contempo "disciplina è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni". La presenza di un interesse pubblico sotteso all'istituto, e la conseguente necessità della spendita di un potere pubblico al fine di perseguirlo, determina il riconoscimento di situazioni giuridiche, almeno in parte, di interesse legittimo. Infatti il richiedente è titolare di un interesse legittimo con riferimento all'an ("La posizione dell'appaltatore in ordine all'an della revisione ha -come si è accennato- natura di interesse legittimo", così l'Ad. plen. 2021 n. 14) e di un diritto soggettivo al successivo quantum (Ad. plen. 2021 n. 14 e Cass. civ., sez. I, ordinanza 24 novembre 2023 n. 32672). Trova quindi giustificazione la devoluzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a. con riferimento alle controversie relative "alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell'ipotesi di cui all'art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163". 9.6. Senonché il caso de quo non può essere compreso nell'ambito applicativo della revisione disciplinata, per quanto di interesse ratione temporis, dall'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. La lex specialis di gara prevede espressamente che l'appalto rientri fra gli appalti di servizi elencati nell'allegato II B di cui all'art. 20 comma 1 del d.lgs. n. 163 del 2006 (punto 2 del bando, premesse e punto 3.1. del disciplinare e punto 2 dei capitolati). La previsione non può essere censurata in costanza di vigenza della direttiva 2004/18/CE e del d.lgs. n. 163 del 2006 (il bando è stato pubblicato nel 2008) dal momento che l'appalto è ricompreso, in base alla stessa disciplina di settore, nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. L'assunto è rilevante in quanto solo nel caso in cui il servizio è ricompreso fra quelli elencati nell'allegato II A è applicabile l'art. 115 ("Gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice", così l'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006). Non così nel caso di servizi che rientrano fra quelli di cui all'allegato II B (come si illustrerà infra). La direttiva 2004/18/CE distingue gli appalti di servizi in due categorie, che corrispondono agli appalti che figurano nell'allegato II A o nell'allegato II B. Già a partire dai considerando la distinzione è indicata come determinante. Il diciottesimo considerando prevede che occorre suddividere i servizi in categorie e riunirli in due allegati, II A e II B, "corrispondenti a talune voci di una nomenclatura comune e di riunirli in due allegati", "a seconda del regime cui sono assoggettati". La suddivisione degli appalti di servizi è poi esplicitata nelle disposizioni della direttiva 2004/18, in particolare negli artt. 20 (riguardante i servizi elencati nell'allegato II A) e 21 (riguardante servizi elencati nell'allegato II B), che trovano corrispondenza nell'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006. In base a detti articoli la classificazione degli appalti è operata considerando, da un lato, l'oggetto e, dall'altro lato, la nomenclatura di cui agli allegati. "La distinzione tra i regimi applicabili agli appalti pubblici di servizi in funzione della classificazione dei servizi in due categorie separate, operata dalle pertinenti norme del diritto dell'Unione, trova conferma nella giurisprudenza della Corte" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). E ciò anche considerando le pronunce rese sulla precedente direttiva, la n. 92/50/CE, dal momento che la stessa giurisprudenza richiama le sentenze precedenti precisando che "la distinzione tra gli appalti di servizi in funzione della classificazione di questi ultimi in due categorie separate non è stata introdotta ex novo con la direttiva 2004/18, ma esisteva già nel vigore della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Secondo la Corte di giustizia "il riferimento alla nomenclatura CPC effettuato negli allegati I A e I B della direttiva 92/50 presenta carattere vincolante" (Cgue, sez. V, 14 novembre 2002, C-411/00 e sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). La classificazione di servizi nei due allegati è quindi determinata dalla nomenclatura ivi utilizzata e deve essere effettuata "verificando in particolare la corrispondenza tra i servizi compresi in tale appalto e i numeri di riferimento della nomenclatura CPC" (Cgue, sez. VI, 24 settembre 1998, C-76/97). Il rapporto fra gli allegati (della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006) non vede quindi la prevalenza di uno sull'altro, così da poter qualificarne uno come avente portata generale e l'altro avente portata residuale, ma la necessità di ricondurre i singoli appalti alla definizione di cui alle nomenclature ivi formulate. Infatti la distinzione "va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10). Nel caso qui in esame oggetto di affidamento sono i "Servizi di organizzazione di viaggio relativi ai soggiorni estivi in Italia e soggiorni di studio all'estero da erogare in favore dei figli e orfani di iscritti all'Istituto, in attività di servizio o in quiescenza, e dei figli e orfani di dipendenti Inpdap per le stagioni 2009-2010" (così dal bando). Il fondamento di detta procedura è da individuare nel regolamento di cui al d.m. 28 luglio 1998 n. 463, nella parte in cui attribuisce all'Inpdap il compito di erogare i benefici sociali ai figli dei dipendenti e agli orfani degli iscritti alla gestione in attuazione dell'art. 1 comma 245 della legge n. 662 del 1996. L'oggetto dell'appalto, così come sopra richiamato, non è assimilabile ad alcuna delle voci di cui all'allegato IIA, riguardanti i servizi di manutenzione e riparazione, i servizi di trasporto terrestre, inclusi i servizi con furgoni blindati e servizi di corriere ad esclusione del trasporto di posta, e servizi di trasporto aereo di passeggeri e merci, escluso il trasporto di posta, il trasporto di posta per via terrestre e aerea, i servizi di telecomunicazione, i servizi finanziari, i servizi informatici ed affini, i servizi di ricerca e sviluppo, i servizi di contabilità, revisione dei conti e tenuta dei libri contabili, i servizi di ricerca di mercato e di sondaggio dell'opinione pubblica, i servizi di consulenza gestionale, i servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria, anche integrata, i servizi attinenti all'urbanistica e alla paesaggistica, i servizi affini di consulenza scientifica e tecnica, i servizi di sperimentazione tecnica e analisi, i servizi pubblicitari, i servizi di pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà immobiliari, i servizi di editoria e di stampa in base a tariffa o a contratto, l'eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti e la disinfestazione e servizi analoghi. Piuttosto l'oggetto dell'appalto risulta assimilabile a tre voci contenute nell'allegato II B, cioè i servizi relativi all'istruzione, anche professionale, i servizi sanitari e sociali e i servizi ricreativi, culturali e sportivi. Pertanto, atteso che "la distinzione che va operata tra gli appalti di servizi a seconda che essi figurino nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 2004/18" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), l'appalto de quo non può che essere ricompreso nell'ambito di applicazione dell'allegato II B. Manca infatti, nell'allegato II A, una voce che possa comprendere i servizi di cui al contratto qui controverso o almeno possa essere latamente assimilata al servizio qui controverso e, viceversa, sono presenti, nell'allegato II B, voci alle quali ricondurre l'appalto de quo. Né detta conclusione trova smentita nel fatto che la Corte di giustizia affermi, richiamando la Grande sezione (13 novembre 2007, C-507/03), che "gli appalti relativi ai servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18 hanno una natura specifica" (Cgue, sez. III, 17 marzo 2011, C-95/10), richiedendosi piuttosto una esegesi specifica dei servizi elencati nell'allegato II B. Infatti la Grande sezione, con la sentenza del 2007, si è limitata ad affermare che "gli appalti relativi a servizi di tal genere non presentano, a priori, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga all'esito di una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto" (Cgue, Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). La circostanza che la natura specifica degli appalti ricompresi nell'allegato II B della direttiva e del d.lgs. n. 163 del 2006 non consente infatti di assimilare il servizio reso dall'appellante nell'ambito di applicazione dell'allegato II A, che, come detto, non presenta alcuna voce assimilabile al servizio de quo. Detto ciò, all'"aggiudicazione" degli appalti di cui all'allegato II B si applicano, in base all'art. 20 del d.lgs. n. 163 del 2006, "esclusivamente" l'art. 68 (specifiche tecniche), l'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e l'art. 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati), oltre che, ai sensi dell'art. 27 comma 1 del medesimo decreto, i principi generali, quali l'economicità, l'efficacia, l'imparzialità, la parità di trattamento, la trasparenza e la proporzionalità (conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia: fra le altre Grande sezione, 13 novembre 2007, C-507/03). Pertanto, con riferimento agli appalti di cui allegato II B, la regola è quella dell'inapplicabilità delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 163 del 2006 (anche per contrapposizione agli appalti di cui all'allegato II A, ai quali si applicano, per espressa previsione dell'art. 20, le disposizioni del decreto stesso). Derogano all'inapplicabilità in generale delle disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006 ai contratti di cui all'allegato II B la previsione dell'art. 20, riferita ad alcune specifiche norme. Le previsioni applicabili al contratto de quo non comprendono certamente l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, anche in ragione del fatto che riguardano la sola fase della procedura di gara, non anche il momento esecutivo del contratto. Per quest'ultimo, in termini generali, per tutti i contratti "esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice", quale quelli di cui all'allegato II B, è prevista l'applicazione dell'art. 2 commi 2, 3 e 4 (art. 27 comma 2 d.lgs. n. 163 del 2006). Con riferimento al momento esecutivo viene in evidenza il comma 4 dell'art. 2, in base al quale "Per quanto non espressamente previsto nel presente codice, l'attività contrattuale dei soggetti di cui all'articolo 1 si svolge nel rispetto, altresì, delle disposizioni stabilite dal codice civile". Ne deriva che all'appalto de quo in fase esecutiva si applica il codice civile e non si applica l'art. 115 del del d.lgs. n. 163 del 2006, nonostante il riferimento a "tutti i contratti" contenuto nel medesimo art. 115, in quanto detta espressione si riferisce a "tutti i contratti che non presentano un regime speciale" (Cos. St., sez. III, 19 giugno 2018 n. 3768). Né osta in tal senso il diritto dell'Unione europea. La Corte di giustizia ha infatti sul punto statuito che la direttiva 2004/17/CE (riguardante i settori speciali, per i quali il d.lgs. n. 163 del 206 contiene una previsione di inapplicabilità dell'istituto della revisione prezzi) e i principi generali del diritto dell'Unione devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi. E ciò anche in ragione del fatto che non si può escludere che una revisione del prezzo dopo l'aggiudicazione dell'appalto possa entrare in conflitto con il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, atteso che il prezzo dell'appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte, come emerge dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all'aggiudicazione degli appalti di cui all'art. 55 par. 1 della direttiva 2004/17/CE (Cgue, sez. IX, 19 aprile 2018, C 152/17). In tale contesto non si pongono problemi di violazione del diritto Ue a cagione della non previsione dell'istituto della revisione prezzi con riferimento ad alcuni appalti. Non applicandosi l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, viene meno il presupposto specificamente previsto per incardinare la giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 lett. e) n. 2 c.p.a., risultando quindi ininfluente anche la giurisprudenza formatasi in merito all'an e al quantum della revisione (da ultimo Cass., sez. un., 8 febbraio 2022 n. 3935). 9.7. Né può ritenersi che un eventuale autovincolo dell'Amministrazione ad applicare la revisione di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 possa supportare, in mancanza di applicazione ex lege dell'istituto pubblicistico, il riconoscimento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Innanzitutto le norme processuali sono, in linea di principio e salvo previsione contraria, inderogabili dalla volontà delle parti: esse sono infatti norme di diritto pubblico. Ne deriva che le parti non possono, accordandosi, pretendere che il giudice regolamenti e disciplini il processo sulla base di norme convenzionali o comunque volute dalle parti. In particolare, per quanto riguarda i presupposti processuali e specificamente la giurisdizione, le parti non possono, se non nei casi previsti (ad esempio dall'art. 4 della legge n. 218 del 1995 sul diritto internazionale provato, che consente una deroga alle norme sulla giurisdizione a favore del convenuto), modificarne la disciplina. Fatti salve le previsioni di legge e le regole processuali di rilievo del vizio, la giurisdizione è disciplinata quindi da norme inderogabili. Nel caso di specie, pertanto, anche a ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata ad applicare l'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, nondimeno ciò non produce riflessi sulla giurisdizione, che rimane ancorata alla legge processuale. Né contrasta con tale previsione la facoltà dell'Amministrazione di autovincolarsi o delle parti di accordarsi in modo difforme dalla disciplina sostanziale: debbono infatti distinguersi i profili della disciplina sostanziale (nei termini in cui sono disponibili) dai riflessi processuali (indisponibili). Nel caso di specie, peraltro, l'Amministrazione non si è autovincolata a rispettare la regola contenuta nell'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non risulta infatti che la lex specialis o il contratto stipulato contengano riferimenti all'applicazione della revisione prezzi di cui all'art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Non vi sono quindi i presupposti per ritenere che l'Amministrazione si sia autovincolata in tal senso, mancando un riferimento specifico negli atti che disciplinano la gara e il relativo rapporto contrattuale, cioè negli atti deputati a contenere gli autovincoli quali regole alle quali l'Amministrazione ha deciso di attenersi per il futuro. Piuttosto l'appellante ha dedotto la sussistenza di un autovincolo in tal senso da una nota che farebbe (in tesi) direttamente applicazione della revisione di cui all'art 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. Il riferimento è alla nota con la quale l'Inps ha rappresentato all'odierna appellante la possibilità di riconoscere per "adeguamento valutario" una percentuale "pari all'l% del costo dei pacchetti degli effettivi partiti, percentuale riportata dalla tabella ISTAT del dicembre 2009 pubblicata su GURI" (n. 127433 del 9 dicembre 2010). Nondimeno con detta nota l'Amministrazione non ha predeterminato di rispettare nel futuro una certa regola (che poi, in tesi, non avrebbe seguito) ma ha direttamente tenuto una condotta (non dovuta in mancanza di previsione di legge e di autovincolo), che la stessa ha poi successivamente smentito con la nota qui impugnata. Non si tratta quindi di autovincolo, cioè di una regola autoimposta circa l'obbligo di tenere in futuro un certo comportamento. 9.8. Tanto basta per ritenere che difetti la giurisdizione di questo Giudice (senza che sia necessario scrutinare le pronunce che hanno interessato altri aspetti dello stesso appalto o appalti similari). 10. In conclusione, l'appello va respinto. 11. La peculiarità della vicenda nel suo insieme giustifica la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata. Spese del presente grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente Dott. FERRANTI Donatella - Consigliere Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. MARI Attilio - Relatore Dott. GIORDANO Bruno - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ri.An. nato a C il (Omissis); avverso la sentenza del 14/09/2023 della CORTE APPELLO di SALERNO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ATTILIO MARI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata; letta la memoria depositata dal responsabile civile, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso dell'imputato con revoca delle statuizioni civili; letta la memoria depositata dalle parti civili, che hanno replicato alle conclusioni del Procuratore Generale. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Salerno, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Vallo della Lucania il 02/11/2022, con la quale Ri.An. era stato ritenuto responsabile del reato previsto dagli artt. 41, comma 1 e 589 cod. pen. e condannato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione (con beneficio della sospensione condizionale) e, in solido con il responsabile civile Azienda Sanitaria Locale di S, al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti civili, con determinazione di una provvisionale esecutiva. 1.1 Nell'atto di esercizio dell'azione penale era specificamente stato contestato al predetto imputato - nella propria qualità di medico di pronto soccorso in servizio presso l'Ospedale di V - di avere dimesso la paziente Fu.An. poche ore dopo il ricovero (avvenuto alle 22,09 del 27/02/2015) nonostante i dati clinici (quali il dolore toracico e l'anamnesi di crisi ipertensiva) e di laboratorio (l'aumento della troponina) facessero ipotizzare un infarto del miocardio, contribuendo quindi (in concorso con i coimputati Da.Gi. e Fi.Al.) a cagionare il decesso della paziente medesima, sopravvenuto il 04/03/2015. 1.2 La Corte territoriale ha premesso la ricostruzione del fatto operata dal giudice di primo grado, rilevando come lo stesso avesse valorizzato le dichiarazioni testimoniali rese dai congiunti della vittima e da una vicina di casa della stessa, nonché le valutazioni compendiate nella perizia d'ufficio disposta dal Tribunale; ha esposto che, sulla base degli atti, risultava che l'odierno imputato, dopo gli accertamenti strumentali e di laboratorio effettuati nella notte tra il 27 e il 28/02/2015, aveva dimesso la paziente con una diagnosi di "riferito dolore toracico in ipertesa" con indicazione di terapia farmacologica; che, il 03/03/2015, la paziente si era recata presso il medico di base (poi assolto) in considerazione della permanenza del dolore al torace e che questi, attesa la presenza di un picco glicemico, aveva concordato con la Fu.An. un ulteriore ricovero; che la donna, tornata al domicilio, aveva lamentato dispnea e dolore toracico e che il medico del 118 intervenuto sul posto (pure assolto) aveva attribuito la sintomatologia a uno stato ansioso dopo avere appreso del pregresso accesso ospedaliero e della relativa dimissione; che, alle ore 20,14 del 03/03/2015, la paziente si era recata presso lo stesso pronto soccorso, attesa la persistenza dei sintomi, dove era quindi deceduta - dopo la diagnosi di sindrome coronarica acuta - per asistolia refrattaria alle manovre di ECP. 1.3 La Corte ha quindi rilevato che il Tribunale aveva dato conto delle conclusioni esposte dai consulenti del p.m. e delle parti civili, dalle quali era emerso che gli esami disposti in occasione del primo accesso presso il pronto soccorso erano univocamente indicativi di un problema cardiaco, a fronte dei quali l'imputato avrebbe dovuto disporre la ripetizione degli esami attinenti al valore della troponina; esponendo, altresì, che il perito nominato d'ufficio aveva censurato la scelta di non effettuare un ecocardiogramma e di non ripetere il dosaggio delle troponine sieriche, nonostante il valore risultasse di tre volte superiore a quello normale, ponendo tali omissioni in diretto rapporto causale con il successivo decesso. La Corte territoriale ha quindi dichiarato infondato il motivo di appello inerente a una dedotta incompatibilità del consulente del p.m., attesa la non applicabilità neanche in via analogica della disposizione contenuta nell'art. 225, comma 3, cod. proc. pen., nonché l'eccezione relativa all'omessa notifica dell'inizio delle operazioni peritali. In punto di merito, ha ritenuto infondate le censure dell'appellante inerenti all'effettiva causa ultima del decesso della paziente e tanto anche in assenza dell'espletamento di un'autopsia; ha rilevato che, sulla base delle osservazioni del perito, in presenza di dolore toracico era assolutamente necessario procedere a una diagnosi differenziale tra patologie in grado di determinare un esito letale e che un corretto approccio avrebbe imposto l'effettuazione di un ecocardiogramma e la ripetizione del dosaggio delle proteine sieriche, tanto in adesione alle linee guida applicabili nel caso concreto nella gestione delle sindromi coronariche acute (SCA); in tal modo essendosi determinato - per effetto di tale omissione - un ritardo diagnostico che aveva favorito la progressione della patologia sino all'esito finale. La Corte ha altresì ritenuto infondata l'argomentazione difensiva in base alla quale gli effetti dell'omissione ascrivibile all'imputato sarebbero stati neutralizzati, nella loro efficienza causale, dalle successive omissioni riscontrabili in capo agli altri sanitari poi intervenuti, peraltro assolti da parte del giudice di primo grado. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Ri.An., tramite il proprio difensore, articolando sei motivi di impugnazione. 2.1 Con il primo motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 222, 359 e 360 cod. proc. pen. in merito alla dedotta incompatibilità del dott. Ma.Ad., quale consulente del p.m., nonché l'omessa o insufficiente motivazione sul punto, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Ha dedotto che il suddetto consulente, in quanto inquadrato negli organici dell'Azienda Sanitaria Locale S n. (Omissis), avrebbe dovuto astenersi dall'accettare l'incarico atteso che i medici coinvolti nel processo appartenevano alla stessa struttura, con conseguente inutilizzabilità delle relative risultanze peritali. 2.2 Con il secondo motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 222, 359 e 360 cod. proc. pen., per non avere il consulente tecnico comunicato l'inizio delle operazioni e la violazione dell'art. 192, cod. proc. pen. e dell'art. 111 Cost. in relazione al libero convincimento del giudice e al principio del contraddittorio nonché - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. - l'omissione della motivazione sul punto. Ha dedotto che, al momento dell'inizio delle operazioni svolte dal consulente tecnico, il ricorrente era stato già iscritto nel registro degli indagati, ragione per la quale era dovuto il relativo avviso dell'inizio delle operazioni; esponendo come il giudice di primo grado si fosse pronunciato sulla relativa eccezione senza avere conoscenza degli esiti e delle modalità della disposta consulenza tecnica e, quindi, senza essere a conoscenza del carattere ripetibile o meno dei relativi accertamenti (elementi di fatto posti a base di istanza di ricusazione, dichiarata inammissibile dalla Corte d'appello). 2.3 Con il terzo motivo ha dedotto - ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. - l'omessa motivazione in ordine alla preferenza accordata dai giudici di merito alle conclusioni espresse dal perito nominato d'ufficio e la contraddittorietà della sentenza di primo grado in relazione agli esiti della perizia suddetta nonché l'omessa motivazione in ordine alla esclusione, a fini decisori, delle conclusioni espresse a opera dei consulenti di parte e l'omessa motivazione in ordine alle conclusioni degli ausiliari in punto di mancata prova del nesso di causalità tra la patologia diagnosticata il 27/02/2015 e quella che aveva causato la morte della paziente, nonché l'omessa verifica di altre possibili cause in ordine al decesso. Ha dedotto che tutti gli ausiliari erano stati concordi nel ritenere che, senza il rilievo autoptico, non fosse possibile stabile se la paziente avesse già avuto un infarto nei giorni precedenti e la sua eventuale incidenza; avendo lo stesso perito d'ufficio ritenuto come non si potesse escludere che la paziente fosse deceduta per un evento patologico autonomo; avendo pure gli stessi ausiliari ritenuto che l'alto valore della troponina era compatibile con altra infezione o patologia quale quella bronchiale da cui era affetta la Fu.An.; esponendo come il giudice di primo grado - in tanto confermato dalla Corte d'appello - non avesse ravvisato responsabilità in capo al sanitario intervenuto il 03/03/2015 a bordo dell'ambulanza e di quelli intervenuti lo stesso giorno presso il nosocomio, pure avendo gli stessi potuto adottare scelte terapeutiche diverse; ha quindi dedotto come non fosse emersa la prova del nesso causale tra la condotta del ricorrente e il decesso. 2.4 Con il quarto motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dell'art. 468, comma 4, cod. proc. pen. nonché dell'art. 507 cod. proc. pen.; ha dedotto che il giudice di primo grado avrebbe violato le suddette disposizioni non ammettendo l'escussione a prova contraria di un teste (individuato come Pi.Fr.) che avrebbe dovuto confermare la circostanza in base alla quale la Fu.An. si sarebbe volontariamente allontanata dal pronto soccorso nella notte tra il 27 e il 28/02/2015. 2.5 Con il quinto motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b - la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. e dell'art. 111 Cost., nonché il difetto di motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per avere la sentenza omesso ogni motivazione in ordine alle dichiarazioni spontanee rese dall'imputato e al memoriale scritto dallo stesso depositato. 2.6 Con il sesto motivo ha dedotto - in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. - la violazione dei criteri legali in punto di determinazione della pena, per non essere la stessa stata quantificata nel minimo edittale e per essere stata esclusa la diminuente prevista dall'art. 114 cod. pen. 3. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta nella quale ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essersi il reato estinto per prescrizione. La responsabile civile Azienda Sanitaria Locale di S ha depositato conclusioni scritte nelle quali ha chiesto di accogliere il ricorso dell'imputato con revoca delle statuizioni civili. La difesa dell'imputato ha depositato nota scritta nella quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso con la formula più favorevole anche ai fini civili. Le parti civili hanno fatto pervenire memoria con la quale hanno replicato rispetto alle conclusioni del Procuratore Generale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi manifestamente infondati. 2. Va premesso che, vertendosi - in punto di responsabilità dell'odierno ricorrente - in una fattispecie di c.d. doppia conforme, le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi le stesse a vicenda, secondo il tradizionale insegnamento della Suprema Corte; tanto in base al principio per cui "Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile" (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079; Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti, Rv. 225671; Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617). 3. Con il primo motivo, la difesa ha dedotto la violazione della legge processuale derivante dall'omesso rilievo dell'incompatibilità con l'incarico espletato in capo al consulente del p.m., escusso in dibattimento e il cui elaborato è stato acquisito al fascicolo ai sensi dell'art. 501, comma 2, cod. proc. pen. Il motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato. Sul punto, va osservato che costituisce giurisprudenza consolidata di questa Corte quella in base alla quale è assorbente il fatto che le norme in tema di incompatibilità previste dall'art. 225 cod. proc. pen., comma 3, non trovano applicazione nei confronti dei consulenti del p.m. nominati ai sensi dell'art. 359 cod. proc. pen. Risulta, difatti, chiaramente dalla collocazione sistematica della norma che le incompatibilità previste per il perito ed i consulenti riguardino la perizia ed il suo espletamento. Le medesime "garanzie" non hanno invece ragion d'essere quando si tratti di una consulenza di parte disposta dal p.m. in sede di indagini preliminari. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, orientata nel senso che nei confronti dei consulenti tecnici nominati dal p.m. ai sensi dell'art. 359 cod. proc. pen. non trovano applicazione, neppure in via analogica, le ipotesi di incapacità ed incompatibilità previste dall'art. 225 cod. proc. pen., comma 3; né gli accertamenti compiuti dal consulente del p.m. che si trovi in una delle situazioni previste dall'art. 222 c.p.p., comma 1, lett. a), b), c) d), richiamato dal suddetto art. 225 cod. proc. pen., possono essere annoverati tra gli atti inutilizzabili (Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 247870; Sez. 3, n. 39512 del 26/04/2017, N., Rv. 271421, in motivazione). In ogni caso, va rilevato che - a differenza di quanto previsto per il consulente tecnico d'ufficio nominato in sede civile (art. 51 e 63 cod. proc. civ.) - il codice di procedura penale non prevede, nell'ambito dell'art. 222 cod. proc. pen. e del successivo art. 225 cod. proc. pen. (richiamato a proposito dei consulenti di parte), alcuna ipotesi di incompatibilità con l'ufficio derivante da rapporti di dipendenza con una delle parti e dal conseguente conflitto di interessi; dovendosi sottolineare come le cause di incompatibilità abbiano carattere tassativo e non estensibile in via analogica (Sez. 3, n. 21939 del 19/04/2016, B., Rv. 267471; Sez. 3, n. 25313 del 05/02/2019, Monteleone, Rv. 276004). Ulteriormente, va comunque evidenziato che nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per conseguente aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 6, n. 18764 del. 05/02/2014, Barilari, Rv. 259452; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218); onere evidentemente non adempiuto nel caso di specie, in cui la difesa non ha esplicitato quale sarebbe stata la concreta incidenza degli elementi forniti dal consulente del p.m. sulle conclusioni raggiunte dai giudici di merito. 4. Il secondo motivo, attinente alla asserita nullità derivante dal mancato invio dell'avviso - da parte del consulente del p.m. - dell'inizio delle operazioni, è pure manifestamente infondato oltre che intrinsecamente aspecifico. Difatti, come congruamente dato atto da parte dei giudici di merito, gli accertamenti demandati al consulente del p.m. consistevano in un esame della documentazione medica finalizzato a chiarire la causa del decesso della paziente; si verteva, quindi, in un'ipotesi di accertamento tecnico non presentante i caratteri dell'irripetibilità e in relazione ai quali non erano pertanto dovuti gli avvisi previsti nello specifico ambito regolato dall'art. 360 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 3178 del 01/06/2000, Brunello, Rv. 216940; Sez. 6, n. 48415 del 14/10/2008, Nirta, Rv. 242385). Essendo del tutto inconferente il rilievo in base al quale il giudice sarebbe venuto a conoscenza aliunde del carattere ripetibile dell'atto prima ancora che il consulente fosse escusso in dibattimento con conseguente sussistenza di un causa di ricusazione, peraltro risultante come dichiarata inammissibile dalla Corte d'appello; rilevando che il mancato adempimento rispetto all'obbligo di astensione, pure denunciato nel motivo, non determina alcuna nullità della sentenza non essendovi alcuna norma che contenga una previsione esplicita in tal senso; e che nemmeno tale nullità può farsi derivare dal disposto di cui all'art. 178 lett. a) cod. proc. pen., posto che l'incompatibilità non configura un difetto di capacità del giudice, il quale si concreta nella mancanza dei requisiti occorrenti per l'esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche in relazione al difetto delle condizioni specifiche per l'esercizio di tale funzione in un determinato procedimento (Sez. 3, n. 2115 del 14/11/2003, dep. 2004, Jayasurya, Rv. 227588; Sez. 6, n. 18707 del 09/02/2016, Balducci, Rv. 266990). In ogni caso, il motivo risulta affetto dal medesimo vizio di aspecificità intrinseca rilevato in ordine al motivo precedente, attesa la mancata puntualizzazione della concreta incidenza degli elementi forniti dal consulente del p.m. sulle conclusioni raggiunte dai giudici di merito. 5. Con il terzo motivo, la difesa ha lamentato il difetto di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha recepito le conclusioni spiegate da parte del perito nominato dal Tribunale a preferenza di quelle espresse dai consulenti del p.m. e delle parti private; nonché per avere omesso la necessaria motivazione in ordine alle dichiarazioni degli ausiliari, nella parte in cui questi avrebbero - deduttivamente - ritenuto carente la prova del nesso di causalità tra le omissioni addebitate all'imputato e la morte della paziente, non avendo quindi i giudici di merito tenuto adeguatamente conto della valenza causale da attribuire al comportamento dei sanitari intervenuti dopo il 27/02/2015 ovvero a eventuali eventi patologici autonomi sopravvenuti dopo tale data. Il motivo è complessivamente inammissibile, in quanto manifestamente infondato. 5.1 Va quindi premesso che, per consolidata giurisprudenza, in tema di controllo sulla motivazione, il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d'ufficio, in difformità da quelle del consulente di parte, non può essere gravato dell'obbligo di fornire autonoma dimostrazione dell'esattezza scientifica delle prime e dell'erroneità delle seconde, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito di ufficio, senza ignorare le argomentazioni del consulente ; conseguentemente, può ravvisarsi vizio di motivazione, denunciabile in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo, lettera e), cod. proc. pen., solo qualora risulti che queste ultime siano tali da dimostrare in modo assolutamente lampante ed inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali recepite dal giudice (Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Cadore, Rv. 269909; Sez. 3, n. 17368 del 31/01/2019. Giampaolo, Rv. 275945). Nel caso di specie, quindi, non era richiesto uno specifico onere motivazionale sul punto; fermo restando, comunque, che i giudici di merito hanno operato una puntuale disamina delle argomentazioni e delle conclusioni - contrapponendole a quelle esposte dagli altri ausiliari - formulate da parte del consulente dell'imputato. 5.2 II complesso delle argomentazioni riferite alla valenza causale da attribuire al comportamento doveroso omesso da parte dell'imputato sono pure complessivamente inammissibili in quanto manifestamente infondate. A tale proposito va fatto richiamo alle considerazioni espresse nella parte motiva di Sez. 5, n. 15816 del 20/01/2020, Mascolo, Rv. 279417 - a propria volta fondate sull'esame della consolidata giurisprudenza di questa Corte - che si ritiene di dover integralmente condividere e nella quale si è rilevato come il relativo accertamento di responsabilità, in punto di rapporto di causalità, debba avvenire sulla base della legge statistica di riferimento, al fine di stabilire se nel caso concreto sussistano o meno altri fattori di tipo alternativo in nesso causale con l'evento. Tale principio in generale discende dalle affermazioni delle Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese, Rv. 222138/222139 hanno fissato, specificamente in una fattispecie concreta di causalità omissiva impropria, alcuni snodi logico-giuridici fondamentali per la verifica del nesso di causalità nei reati colposi, confermati dalla giurisprudenza successiva (tra le tante, riferite a ipotesi di responsabilità del sanitario, Sez. 3, n. 5460 del 4/12/2013, dep. 2014, Grassini, Rv. 258847; Sez. 4, n. 9695 del 12/02/2014, S., Rv. 260159; Sez. 3, Sentenza n. 10209 del 07/10/2020, dep. 2021, Ceriani, Rv. 281710, nonché - in diverso ambito fattuale - Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261103). Le Sezioni Unite hanno stabilito che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Allo stesso modo, l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del nesso causale tra condotta ed evento - e cioè il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell'omissione dell'agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo - comportano l'esito assolutorio del giudizio. 5.2.1 Va quindi rilevato che causalità omissiva e causalità commissiva nei reati colposi rispondono a regole identiche ai fini della verifica della sussistenza del nesso di causalità, poiché i comportamenti che le realizzano sono strettamente connessi, dato che, nella condotta omissiva, nel violare le regole cautelari, il soggetto non sempre è assolutamente inerte, ma, frequentemente, pone in essere un comportamento diverso da quello dovuto, cioè da quello che sarebbe stato doveroso secondo le regole della comune prudenza, perizia, attenzione. La distinzione attiene, quindi, soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso, per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anziché fondato sui dati della realtà, come nella causalità commissiva; infatti, nel caso di comportamento omissivo, è solo con riferimento alle regole cautelari inosservate che può formularsi un concreto rimprovero nei confronti del soggetto e verificarsi, con giudizio controfattuale ipotetico, la sussistenza del nesso di causalità (Sez. 4, n. 3380 del 15/11/2005, dep. 2006, Fedele, Rv. 233237). Ne consegue che, seguendo l'impostazione della citata sentenza delle Sezioni Unite, al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo, ovvero: la verifica sul nesso causale tra la condotta e l'evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto; la successiva verifica, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, dell'attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Occorre cioè verificare - sulla base delle evidenze processuali - che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione doverosa omessa (nel reato colposo omissivo improprio) o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell'evento (nel reato commissivo colposo), ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato (oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva). 5.2.2 D'altra parte, l'interpretazione di tale criterio passa attraverso la delimitazione del concetto di "probabilità logica", il quale - a propria volta - muove dalla divisione, nell'ambito delle leggi scientifiche, tra leggi di carattere universale e leggi di carattere statistico; intendendosi per le prime che asseriscono, nella successione di determinati eventi, invariabilità regolari mentre le seconde si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa (si vedano sul punto le considerazioni spiegate in parte motiva, pure qui integralmente condivise, da Sez. 4, n. 9705 del 15/12/2021, dep. 2022, Pazzoni, Rv. 282855). A proposito di tale distinzione, questa Corte ha affermato che il ricorso alle leggi statistiche da parte del giudice è più che legittimo perché il modello della sussunzione sotto leggi sottende, il più delle volte, necessariamente il distacco da una spiegazione causale deduttiva che implicherebbe una impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti; affermando quindi le Sezioni unite che, ove si ripudiasse la natura eminentemente induttiva dell'accertamento giudiziale e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica certezza assoluta, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari, stabilendo conseguentemente che la spiegazione causale dell'evento può essere tratta da leggi scientifiche, universali o statistiche, enucleabili anche da rilevazioni epidemiologiche (Sez. U, 10 luglio 2002, Franzese, cit.). Per colmare le carenze derivanti da parametri che, di per sé stessi, non assicurano la certezza del nesso causale, le Sezioni Unite hanno quindi elaborato il concetto di probabilità logica, a propria volta da distinguere da quello di probabilità statistica; difatti, mentre la prima attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell'intera evidenza disponibile, dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica per il singolo evento e delia persuasiva e razionale credibilità dell'accertamento giudiziale; dunque, il concetto di probabilità logica impone di tener conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi astrattamente idonei a modificarla. Se la probabilità statistica viene invece integrata da tutti gli elementi forniti dall'evidenza disponibile, è possibile pervenire ad una valutazione, in un senso o nell'altro, connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici. Le caratteristiche del caso concreto da prendere in considerazione potranno inerire all'età, al sesso del paziente, allo stadio cui era pervenuta la patologia, alla tempestività dell'accertamento della malattia, alle condizioni di salute generale del soggetto, alla presenza di altre patologie, alla necessaria assunzione, da parte del paziente, di altri farmaci che interferiscono con la terapia praticata e, in generale, a tutte le circostanze che possono aumentare o diminuire le speranze di sopravvivenza. 5.2.3 Sul punto le Sezioni unite, nella sentenza Franzese, hanno affermato che anche coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica o da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche, pur imponendo verifiche particolarmente attente sia in merito alla loro fondatezza che alla specifica applicabilità alla fattispecie concreta, possono essere utilizzati per l'accertamento del nesso di condizionamento, ove siano corroborati dal positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti in via alternativa. Il procedimento logico, non dissimile, secondo le Sezioni unite, dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettata, in tema di prova indiziaria, dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., deve pertanto condurre alla conclusione, caratterizzata da "un alto grado di credibilità razionale", quindi alla "certezza processuale che, esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, sia stata condizione "necessaria" dell'evento, attribuibile perciò all'agente come fatto proprio. 5.2.4 L'ulteriore passo sarà costituito, nell'ottica del giudizio di probabilità logica, dalla ricerca ed eventualmente, dall'esclusione di decorsi causali alternativi. Dunque, l'attività investigativa del pubblico ministero prima e quella istruttoria del giudice poi non devono essere dirette soltanto ad ottenere la conferma dell'ipotesi formulata ma devono riguardare anche l'esistenza di fattori causali alternativi, che possano costituire elementi di smentita dell'ipotesi prospettata. L'impossibilità di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, l'esistenza di fattori causali alternativi non consente di ritenere processualmente certo il rapporto di causalità e dunque di attribuire, sotto il profilo oggettivo, l'evento all'imputato. In giurisprudenza, si è, in proposito, precisato però che il giudice deve adeguatamente motivare la conclusione sulla possibile esistenza di fattori alternativi di spiegazione dell'evento e che lo stesso non può contrapporre ai dati di fatto accertati mere congetture per ipotizzare tali spiegazioni alternative (Sez. 4, Sentenza n. 20560 del 02/03/2005, Herreros, Rv. 231356); mentre le Sezioni Unite hanno ribadito che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sulla base dell'analisi delle connotazioni del fatto storico e delle peculiarità del caso concreto. (Sez. U, n. 38343 de/ 24/04/2014, Rv. 261103, sopra citata). 5.2.5 In tale contesto, il principio dell'oltre il ragionevole dubbio segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura; difatti il principio stesso rappresenta nient'altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento sulla base delle prove raccolte, nonché del collegamento tra il fatto concreto e l'ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica e idoneo, pertanto, a supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con "elevato grado di credibilità razionale", in quanto non permanga un "dubbio ragionevole" (ossia, non meramente congetturale) che l'evento possa essere stato determinato da una causa diversa. Non è possibile, dunque, invocare il principio dell'oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, poiché in tal modo si confonde il piano processuale con quello sostanziale e si attribuisce valenza probatoria fattuale ad una regola di giudizio che rappresenta, appunto, un canone logico di ragionamento e non un'evidenza concreta (in tal senso si esprime la richiamata sentenza n. 9695 del 2014). In altre parole, il giudice ha il dovere di verificare il nesso di causalità secondo le regole della sussunzione della causalità entro leggi scientifiche universali sufficientemente valide e in tale operazione deve lasciarsi guidare dal criterio di alta probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata, ma non può usare, per validare la propria verifica, il canone logico del ragionevole dubbio, che, invece, si manifesta all'esito di tale verifica, come piano di sintesi logico-giuridica degli accertamenti di fatto già svolti, alla luce dell'art. 533 cod. proc. pen. Conseguendone quindi, dalle predette considerazioni, la conclusione in base alla quale in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l'accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l'effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (Sez. 4, n. 10175 del 04/03/2020, Bracchitta, Rv. 278673; Sez. 4, n. 33230 del 18/11/2020, Campo, Rv. 280074; Sez. 4, n. 28182 del 06/07/2021, R., Rv. 281737), conseguendone che l'esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l'ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili (Sez. 4, n. 32121 del 16/06/2010, Chiodo, Rv. 248210). 5.2.6 In tale quadro concettuale, deve ritenersi che i giudici di merito si siano adeguatamente confrontati con i predetti principi; mentre, d'altro canto, le considerazioni poste alla base del motivo di ricorso appaiono frutto di un'impropria sovrapposizione tra la nozione di alta probabilità logica e quella di ragionevole dubbio, a propria volta fondata sulla configurazione meramente ipotetica - e non sostenuta da adeguati elementi logici - in ordine alla presenza di un decorso causale alternativo rispetto a quello configurato nella pronuncia impugnata. In particolare, deve ritenersi che, nel caso di specie, le sentenze di merito - con motivazione immune dal denunciato vizio di illogicità - abbiano dato compiutamente conto del nesso di causalità sussistente tra la condotta omissiva addebitata all'imputato e l'evento letale con un complessivo percorso argomentativo pienamente aderente ai suddetti postulati. Tanto con specifico riferimento ai principi applicabili in caso di responsabilità derivante da un'omissione diagnostica, in relazione alla quale il giudizio controfattuale, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, ove eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, si richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto (cd. giudizio esplicativo), mentre il giudizio controfattuale (c.d. giudizio implicativo) implica la necessaria valutazione sul potenziale carattere salvifico della condotta doverosa omessa, sulla base di un giudizio ipotetico fondato alla luce del paradigma indiziario disponibile imperniato sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati (Sez. 4, n. 29889 del 05/04/2013, De Florentis, Rv. 257073; Sez. 4, Sentenza n. 16843 del 24/02/2021, Suarez Cardenas, Rv. 281074; Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021, dep. 2022, Castriotta, Rv. 282559). 5.2.7. Nel caso di specie, deve quindi ritenersi che le sentenze di merito si caratterizzino per una motivazione immune dal denunciato vizio di illogicità; in particolare avendo compiutamente evidenziato - sulla base del sapere scientifico acquisito nel corso del processo - sia il tenore della condotta doverosa omessa e sia, in applicazione dei principi in tema di giudizio controfattuale, la sua concreta incidenza sull'evento ascritto, con una valutazione pienamente calata nelle specifiche contingenze del caso concreto. In via pregiudiziale, va rilevato come i giudici di merito abbiano univocamente ricondotto - con argomentazioni immuni da vizi logici - il decesso della paziente a un infarto acuto del miocardio seguito da choc cardiogeno; tanto sulla scorta di quanto riferito sia dal perito sia dal consulente del p.m., anche sulla base della diagnosi formulata presso il nosocomio di ricovero. Sul punto, la Corte d'appello - nel replicare a deduzione posta alla base di motivo di gravame e poi riproposta in sede di ricorso per cassazione - ha osservato, in aderenza a quanto esposto dal perito, che l'esame autoptico non assume valenza determinante quando, come nel caso di specie, l'evento non sia stato traumatico ma conseguenza di una c.d. morte aritmica. 5.2.8 I giudici di merito hanno quindi provveduto, con valutazioni univoche e immuni da censure di carattere logico - e con le quali, di fatto, il motivo di ricorso ha omesso di confrontarsi adeguatamente - a esaminare i profili di colpa omissiva ravvisabili nei confronti dell'odierno ricorrente. Specificamente, è stato rilevato che - a fronte dei sintomi manifestati dalla paziente in sede di ingresso presso il pronto soccorso (dolore al petto e pressione alta) e dopo l'effettuazione di un elettrocardiogramma e del dosaggio della troponina sierica - fosse necessaria l'effettuazione di un ecocardiogramma nonché la ripetizione del dosaggio suddetto, atteso che le stesse risultavano comunque di valore superiore di circa il triplo rispetto ai valori normali (41,73 rispetto a un valore di sicura esclusione del danno miocardico compreso nel range pari a 0/15); tanto in richiamo alle linee guida AHA/ACC del 2014 in materia di gestione della sindrome coronarica acuta (SCA) e che impongono tale ripetizione dopo ulteriori tre ore e sei ore in tutti i pazienti presentati sintomi compatibili con la sindrome medesima; ciò anche in considerazione della circostanza, pure esposta dal perito in sede di dibattimento, in base alla quale lo stesso elettrocardiogramma presentava comunque elementi di dubbia interpretazione. In tale quadro, quindi, i giudici di merito hanno univocamente concluso - con considerazioni conseguenti al suddetto sapere scientifico e intrinsecamente logiche - che l'imputato, in presenza degli elementi a propria disposizione, aveva posto in atto un'omissione diagnostica, in particolare omettendo di procedere a una diagnosi differenziale tra le patologie in grado di determinare un esito letale; aggiungendo che tale condotta doverosa sarebbe stata comunque necessaria anche in presenza di un elettrocardiogramma negativo, atteso che lo stesso può presentarsi privo di alterazioni in un quinto dei pazienti con dolore toracico conseguente a sindrome coronarica acuta. Ulteriormente, sempre sulla base di quanto esposto dal perito, il Tribunale ha argomentato che la ripetizione dell'esame alle scadenze dovute avrebbe consentito con ragguardevole certezza di diagnosticare la cardiopatia ischemica, atteso il prospettico e sicuro aumento dei valori delle troponine; avendo altresì evidenziato (specificamente, sul punto, la sentenza di appello) che, anche in presenza di un valore di troponina astrattamente compatibile con una patologica bronchiale - ovvero quella diagnosticata dall'imputato e menzionata nell'esposizione del motivo di appello, con argomentazione riproposta in sede di ricorso per cassazione - il dolore toracico e la crisi ipertensiva costituivano comunque elementi, alla luce delle suddette linee guida, tali da imporre la ripetizione dell'esame sierologico. Con conseguente e logica valutazione, i giudici di merito hanno quindi evidenziato un'univoca violazione dei criteri imposti dalle linee guida, concretizzatasi per avere omesso odi tenere sotto osservazione la paziente e di disporre i dovuti approfondimenti diagnostici, anziché dimetterla con la sola prescrizione di una terapia antibiotica e broncodilatatrice da infezione respiratoria. 5.2.9 A fronte di tale accertato comportamento omissivo, i giudici di merito hanno operato valutazioni che sono del tutto immuni dal denunciato vizio di omessa motivazione in ordine alla complessiva eziologia che ha portato al decesso della paziente e alla sussistenza del nesso causale con la predetta omissione diagnostica. In particolare, i giudici di merito hanno congruamente rigettato l'argomentazione difensiva - riproposta, peraltro, in questa sede - in base alla quale, essendo il decesso intervenuto dopo quattro giorni dall'intervento dell'imputato, l'evento non avrebbe potuto che essere attribuito alle omissioni ascrivibili ai sanitari intervenuti nei giorni successivi essendosi verificata una interruzione del rapporto causale. A tale proposito - in riferimento alla tematica del nesso causale - va richiamato il principio in base al quale, in caso di condotte colpose indipendenti non può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità: difatti, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (Sez. 4, n. 30991 del 06/02/2015, Pioppo, Rv. 264315; Sez. 4, n. 50038 del 10/10/2017, De Fina, Rv. 271521). Sul punto, con argomentazione immune dai denunciati vizi di illogicità e in risposta alle relative argomentazioni della difesa, il giudice di primo grado ha osservato che l'intervento salvavita era stato (tardivamente) posto in essere dopo quattro giorni dall'accesso al pronto soccorso proprio per effetto dell'omissione e dell'erroneo inquadramento diagnostico originariamente ascrivibile all'odierno imputato. Erroneo inquadramento diagnostico che - sempre in risposta alle argomentazioni difensive - era, di contro, stato idoneo a giustificare un incolpevole affidamento in capo ai due sanitari successivamente intervenuti e che hanno assunto la veste di coimputati (ovvero il medico di base della paziente e il sanitario intervenuto a bordo dell'ambulanza chiamato il 03/03/2014 e che non ne dispose l'immediato ricovero), nei cui confronti i giudici di merito hanno ritenuto non ravvisabile alcuna condotta colposa. 5.2.10 Conclusivamente, i giudici di merito hanno escluso, con valutazioni di fatto intangibili in questa sede e basate sul sapere scientifico esaminato, che la patologia che ha determinato l'esito letale fosse in corso di sviluppo al momento dell'intervento dell'imputato e che il rispetto del corretto percorso diagnostico avrebbe consentito in termini tempestivi - mediante l'effettuazione di un ecocardiogramma e la ripetizione del dosaggio del troponine, presupponenti l'osservazione successiva della paziente - di giungere a una corretta e precoce diagnosi, la quale avrebbe a propria volta consentito di evitare l'evento con un margine probabilistico che il perito (con valutazione fatta propria dai giudici di merito) ha ritenuto prossimo a quello della certezza. Deve quindi ritenersi che la valutazione compiuta dai giudici di merito sia pienamente aderente e rispettosa rispetto al corpus di principi sopra riassunti; avendo gli stessi operato un coerente giudizio in punto di sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento, sulla base del citato criterio di alta probabilità logica calato nella circostanze del caso concreto, con conseguente formulazione di una coerente conclusione in punto della rilevanza della condotta doverosa omessa e - quindi - di giudizio controfattuale. 6. Il quarto motivo, con il quale è stata dedotta la violazione del diritto alla controprova ai sensi dell'art. 468 cod. proc. pen., nonché - in via logicamente subordinata - censurata la mancata attivazione dei poteri officiosi conferiti dall'art. 507 cod. proc. pen., è inammissibile in quanto manifestamente infondato in ordine a entrambi i profili. In relazione al primo aspetto, sulla base della stessa prospettazione contenuta nel motivo di ricorso, emerge come la relativa richiesta formulata ai sensi dell'art. 468, comma 4, cod. proc. pen. sia stata presentata al Giudice nel corso dell'istruzione dibattimentale e sulla base degli elementi emersi nel corso della stessa in riferimento al profilo fattuale rappresentato dal comportamento tenuto dalla paziente durante l'accesso al pronto soccorso avvenuto nella notte tra il 27 e il 28/02/2015. Ciò posto, va quindi rilevato che - in riferimento al disposto dell'art. 468, comma 4, cod. proc. pen., in base al quale "in relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte può chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non compresi nella propria lista ovvero presentarli al dibattimento" - il relativo diritto alla controprova trova un termine finale nell'esaurimento della fase degli atti introduttivi rispetto al dibattimento e, quindi, fino all'ordinanza di ammissione delle prove (Sez. 6, n. 18755 del 16/04/2008, Bacarelli, Rv. 239979; Sez. 3, n. 15368 del 03/03/2010, Arseni, Rv. 246613); potendo il relativo termine trovare una deroga solo nel caso di indicazione di nuovi mezzi di prova ovvero di ammissione di prove d'ufficio ai sensi degli artt. 506 e 507 cod. proc. pen. Deve quindi escludersi che, nel caso di specie, l'ordinanza di rigetto dell'assunzione di prova testimoniale formulata del corso dell'istruttoria abbia leso le prerogative difensive conferite dalla predetta disposizione. Quanto alla censura attinente alla mancata assunzione della prova per effetto della omessa attivazione dei poteri conferiti dall'art. 507 cod. proc. pen., la stessa risulta pure manifestamente infondata; atteso che - per giurisprudenza assolutamente consolidata - la mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo di ricorso per cassazione, può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione ai sensi dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l'invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all'art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (tra le altre, Sez. 5, n. 4672 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiaschetti, Rv. 269270; Sez. 2, n. 884 del 22/11/2023, dep. 2014, Pasimeni, Rv. 285722). 7. Il quinto motivo, con il quale è stato dedotto il difetto di motivazione delle sentenze di merito per non avere le stesse tenuto conto delle dichiarazioni spontanee e del memoriale scritto reso dall'imputato, è inammissibile in quanto manifestamente infondato. Sul punto, deve rilevarsi che le dichiarazioni spontanee, rese ai sensi dell'art. 494 cod. proc. pen., prima della discussione dall'imputato sottrattosi al contraddittorio per effetto della mancata sottoposizione all'esame, non sono idonee a confutare il quadro probatorio complessivamente considerato, non potendo essere equiparate alle dichiarazioni rese in sede di esame stesso, né utilizzate neanche come prove a carico di terzi (Sez. 2, n. 30653 del 24/09/2020, Capasso, Rv. 279911; risultando necessitata la relativa conclusione sulla scorta del disposto dell'art. 526, comma 1 bis, cod. proc. pen., in base al quale la prova della colpevolezza non può essere desunta sulla base di dichiarazioni rese da chi si è sottratto volontariamente all'esame). Ne consegue che le dichiarazioni spontanee - non rappresentando ontologicamente un mezzo di prova valutabile a favore di chi le abbia rese - non rientrano tra gli elementi che debbano essere esaminati e valutati dal giudice in sede di redazione della sentenza ai sensi dell'art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. 8. Il sesto e ultimo motivo, con il quale sono state censurate le sentenze di merito in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, è inammissibile in quanto manifestamente infondato. Sul punto, questa Corte ha avuto più volte modo di precisare che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione - non sindacabile in sede di legittimità - è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (ex multis, Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017. Mastro, Rv. 271243); essendosi altresì stato precisato che non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288). Nel caso di specie, quindi, va rilevato come la pena concretamente inflitta sia stata applicata dai giudici di merito in misura prossima al minimo edittale e previa concessione delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione, ragione per la quale non può ravvisarsi alcuna carenza motivazionale sullo specifico punto. Manifestamente infondato è anche il profilo di doglianza relativo alla mancata applicazione della circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen.; atteso che la stessa può essere concessa nei delitti colposi solo nel caso di cooperazione colposa contestata ai sensi dell'art. 113 cod. pen. e non anche nel caso, del tutto diverso, del concorso causale di condotte colpose - peraltro non ritenuto in sentenza - in cui manca la necessaria e reciproca consapevolezza dei cooperanti di contribuire alla condotta altrui (Sez. 4, n. 11439 del 04/10/2012, dep. 2013, Taccetti, Rv. 255419). 9. Alla declaratoria d'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Nulla va provveduto in relazione al rapporto processuale con la parte civile, la quale - in sede di memoria depositata prima dell'udienza - non ha chiesto la liquidazione delle spese né presentato specifica nota. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso il 24 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9887 del 2020, proposto da: Sk. It. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. D'O., Ot. Gr., Fa. Ca., Ma. Zo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti - Co., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gi. e Ca. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. La. e Iv. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Ar. 32., Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci., Associazione Ut. Se. Ra., Altroconsumo, U.D. - Unione per la Di. dei Co., Ra. - Ra. It. S.p.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 09584/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, del Co. e dell'Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci.; Vista l'ordinanza collegiale n. 1391/2024, con la quale la Sezione ha ravvisato profili di connessione/pregiudizialità tra il presente ricorso e il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, e ha rimesso la causa al Presidente della Sezione per le determinazioni di competenza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e uditi, per le parti, gli avvocati Ot. Gr., Gi. Ce. Ri. (in delega dell'avvocato Fa. Ca.), Ma. Cr. Ca. (in dichiarata delega dell'avvocato Ca. Ri.), e l'avvocato dello Stato Vi. Ce.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO A. PREMESSE IN FATTO E SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO. 1. Sk. It. s.r.l. ha appellato la sentenza n. 9584/2020, con la quale il T.A.R. per il Lazio - sede di Roma ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento n. 27545, con cui l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha accertato due pratiche commerciali scorrette della Società in relazione alle offerte del Pacchetto Calcio (rimodulato all'esito della gara indetta dalla Lega Calcio per l'assegnazione dei diritti per la trasmissione delle partite), e ha irrogato alla stessa la sanzione complessiva pari a 7.000.0000,00 (sette milioni/00) di euro. 2. In punto di fatto l'appellante ha esposto, in primo luogo, che, in data 13.6.2018 la Lega Calcio aveva assegnato i diritti per la trasmissione in diretta delle partite del campionato di calcio di Serie A per il triennio 2018-2021, all'esito di una gara che non aveva più previsto la vendita "per piattaforma" ma "per prodotto", con suddivisione del campionato in quattro eventi, stante anche l'intervenuto divieto legale di acquisire in esclusiva tutti i pacchetti relativi alle dirette (art. 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008). Sk. si era aggiudicata 7 partite di Serie A su 10 per ogni giornata, con 16 big match su 20 a stagione, mentre la società Pe. In. Li. (titolare dell'offerta "DAZN") si era aggiudicata le rimanenti 3 partite di Serie A, quattro big match, e le partite della Serie B. Il mutamento della formula di assegnazione e gli esiti della gara erano stati oggetto dell'attenzione dei media non solo sportivi (punti 2-6 del ricorso in appello). 2.1. Operata tale premessa Sk.ha esposto che, in data 28.8.2018, l'A.G.C.M. aveva avviato il procedimento istruttorio PS11232, finalizzato ad accertare l'eventuale violazione delle disposizioni di cui agli artt. 21, comma 1, lett. b), 24, 25 e 65 del D.Lgs. n. 205/2006 (doc. n. 1 del fascicolo di primo grado di Sk.). In particolare, l'Autorità aveva comunicato che le condotte oggetto del procedimento erano due. Secondo l'Autorità - nella fase di presentazione dell'offerta - Sk. avrebbe posto in essere, nei confronti dei potenziali nuovi clienti, una condotta ingannevole inerente alla modalità di presentazione, sul web e tramite spot televisivi, dell'offerta del pacchetto Sk. Ca. per la stagione 2018/19; infatti, a fronte dell'enfasi del claim utilizzato sul web "Il tuo calcio, tutto da vivere", inserito nelle principali pagine del sito, Sk. non avrebbe informato adeguatamente il consumatore sui limiti dell'offerta relativa alla trasmissione e fruizione delle partite di serie A, in particolare, con riferimento alle fasce orarie. Le stesse carenze informative si sarebbero riscontrate in altri messaggi contenuti nella pagina internet e su "Fa.", e nello spot televisivo relativo al pacchetto Sk. Ca., in cui masse di tifosi con le maglie di varie squadre si dirigevano verso uno stadio alla ricerca di un posto a sedere, senza alcun messaggio esplicativo circa il contenuto specifico dell'offerta (condotta sub a)). Inoltre, l'Autorità aveva evidenziato come Sk. avesse indotto i propri clienti (già abbonati al pacchetto calcio) al rinnovo automatico del contratto nell'erronea convinzione di poter disporre, anche per la stagione 2018/19, del medesimo contenuto del pacchetto Sk. Ca. dell'anno precedente - ovvero la visione di tutte le partite di calcio della serie A - senza che questi fossero consapevoli del diverso contenuto dell'offerta. Sk. non avrebbe, inoltre, prospettato a tali clienti la possibilità, a fronte della modifica dell'offerta, di recedere senza il pagamento di penali, costi di disattivazione e restituzione degli eventuali sconti di cui avevano fruito. La condotta di Sk., consistente nella variazione dei contenuti dell'offerta, avrebbe potuto integrare nei confronti dei clienti già abbonati una violazione dell'articolo 65 del Codice del consumo nella misura in cui il professionista non aveva acquisito il prescritto consenso da parte del cliente/utente all'adesione ad un servizio nuovo rispetto all'abbonamento principale sottoscritto; in fase di rinnovo automatico dell'abbonamento a Sk. TV, il professionista non avrebbe, infatti, richiesto il consenso espresso del consumatore per la nuova opzione del pacchetto Sk. Ca. 2018/19, modificata e significativamente ridimensionata (condotta sub b)). 2.2. Al termine del procedimento l'A.G.C.M. ha adottato il provvedimento n. 27545, con il quale ha accertato che: i) la condotta sub a) aveva costituito una violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 206/2006 (di seguito anche "Codice del Consumo"); ii) la condotta sub b) aveva costituito una violazione delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del D.lgs. n. 206/2005. L'Autorità aveva, quindi, vietato la diffusione o reiterazione delle condotte e aveva irrogato, per la prima condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 3.000.000,00 (tre milioni/00), e, per la seconda condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 4.000.000 (quattro milioni/00). L'Autorità ha, inoltre, ordinato a Sk. di pubblicare una dichiarazione rettificativa ai sensi dell'art. 27, comma 8, del D.Lgs. n. 206/2005. 2.3. Sk. ha dedotto, inoltre, che anche l'A.G.Com. aveva adottato la delibera n. 488/18/CONS in relazione alla condotta tenuta da Sk. nei confronti dei propri clienti a seguito della modifica delle condizioni contrattuali conseguenti alla rimodulazione del pacchetto Sk.. L'A.G.Com. aveva, altresì, adottato la delibera n. 154/2019/CONS, con la quale aveva irrogato alla Società una sanzione pari a euro 2.400.000,00 (duemilioniquattrocentomila/00), per l'inottemperanza alla precedente diffida. Tali provvedimenti sono oggetto del ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, trattato anch'esso all'udienza pubblica del 23.4.2024. 3. Sk. ha impugnato il provvedimento dell'Autorità dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sede di Roma. In relazione alla pratica sub a), Sk. ha dedotto: i) la contraddittorietà intrinseca, la carenza di istruttoria e violazione di legge alla luce del contenuto e del contesto dell'intera campagna pubblicitaria; ii) la contraddittorietà e violazione di legge in relazione alla nozione di consumatore medio/tifoso; iii) l'assenza di ingannevolezza dei quattro messaggi presi in considerazione dall'Autorità . In relazione alla pratica sub b), Sk. ha dedotto: i) la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta era già stata contestata a Sk. dall'A.G.Com; ii) l'inesistenza del presupposto della contestazione, perché Sk. non aveva garantito - né avrebbe potuto farlo - un contenuto minimo di partite di calcio di Serie A e B; iii) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore; iv) lo sviamento di potere e la sostanziale incidenza sulle politiche di pricing di Sk.; v) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore, stante la possibilità di recedere secondo le regole contrattuali. Sk. ha, in ultimo, censurato la sanzione irrogata per: i) difetto di motivazione; ii) erronea valutazione della gravità e della durata, omessa analisi degli effetti, e violazione del principio di proporzionalità . La Società ha chiesto anche di rideterminare la sanzione ai sensi dell'art. 134 c.p.a. 4. Il T.A.R. ha integralmente respinto il ricorso con motivazioni che saranno esposte - nei limiti di quanto necessario - nel prosieguo della trattazione. 5. Sk. ha proposto appello, articolato in tre nuclei, relativi alla pratica sub a), alla pratica sub b), e al trattamento sanzionatorio (v., infra, Sezioni "C", "D" e "E" della presente sentenza). Si sono costituiti in giudizio l'Autorità, l'Associazione Co., e il Co. chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica dell'8.2.2024 l'Autorità, Sk. e il Co. hanno depositato memorie conclusionali; le ultime due parti hanno depositato anche memorie di replica. All'esito dell'udienza dell'8.2.2024 la Sezione ha adottato l'ordinanza n. 1391/2024, con la quale ha ravvisato la sussistenza di ragioni di connessione/pregiudizialità con il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, relativo alla controversia tra Sk. e l'A.G.Com. Per la trattazione di entrambi i ricorsi in appello è stata, quindi, fissata l'udienza pubblica del 23.4.2024; a tale udienza la causa è stata trattenuta in decisione, dopo la discussione. B. SULL'ISTANZA DI DIFFERIMENTO DELLA TRATTAZIONE DEL RICORSO IN APPELLO. 7. Preliminarmente il Collegio osserva come la difesa di Sk. abbia chiesto in sede di discussione la trattazione non congiunta della controversia R.G. n. 4522/2021 e della presente controversia, in ragione della ritenuta possibilità per la parte di poter scegliere quale delle sanzioni (irrogate da due Autorità amministrative indipendenti e afferenti a fatti ritenuti identici) possa essere esaminata per prima dal Giudice, così da poter successivamente dedurre la sussistenza di un bis in idem fondato, per l'appunto, su una decisione sanzionatoria divenuta definitiva. A sostegno di tale richiesta la Società - che, in precedenza, aveva chiesto di disporre la trattazione congiunta delle due controversie - ha richiamato la sentenza della Sezione n. 2791 del 22.3.2024, sopravvenuta, quindi, alla precedente istanza. 7.1. Osserva il Collegio come la questione evidenziata dalla Società sia irrilevante nella presente controversia atteso che il provvedimento dell'A.G.Com. è, comunque, illegittimo per le ragioni che sono esposte nella sentenza decisa dal Collegio alla medesima camera di consiglio, e che prescindono dalla dedotta applicazione del principio del ne bis in idem. Inoltre, anche il provvedimento dell'A.G.C.M. risulta illegittimo nella parte relativa alla condotta sub b), per ragioni che saranno di seguito esposte e che non involgono, neanche esse, la tematica della violazione del principio del ne bis in idem (v., infra, Sezione "D2" della presente sentenza). In ultimo, deve, comunque, osservarsi che, nel caso di specie, non sussiste alcuna violazione del principio del ne bis in idem, per i motivi che saranno esposti (v., infra, punto 21.1 della presente sentenza). In ogni caso, deve osservarsi come la questione esaminata dalla Sezione nella sentenza n. 2791/2024 risulti di assoluta peculiarità, riguardando il rapporto tra sanzioni disposte da un'Autorità giurisdizionale straniera e l'A.G.C.M., e che il punto invocato dalla difesa della parte è, invero, la mera riproduzione di una statuizione della Corte di Giustizia, e, in particolare, di quanto la Corte ha espresso nella sentenza del 14.9.2023, causa C-27/22, su rinvio pregiudiziale disposto dalla Sezione proprio in relazione alla causa decisa con sentenza n. 2791/2024. Di tale affermazione la Sezione ha, quindi, preso atto in applicazione del disposto di cui all'art. 267 del T.F.U.E., senza, pertanto, affermare - a sua volta - un principio generale che possa ritenersi operante anche nelle controversie meramente "interne". C. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB A). C.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 8. In ragione di quanto esposto nella precedente sezione può, quindi, procedersi ad esaminare il merito del ricorso in appello, prendendo l'abbrivio dal primo motivo relativo alla condotta sub a). Stante la complessità delle questioni sottoposte all'attenzione del Collegio occorre seguire uno stringente ordine metodologico, esponendo: i) la ricostruzione operata dall'Autorità ; ii) la decisione del Giudice di primo grado in ordine alle censure articolate da Sk.; iii) i motivi di appello della Società . 9. Seguendo l'impostazione metodologica sopra indicata si osserva che l'Autorità ha ritenuto i messaggi pubblicitari relativi all'offerta calcio per la stagione 2018/19, privi di informazioni chiare e immediate sul contenuto del servizio, e, in particolare, prime di informazioni sulle partite suscettibili di visione sottoscrivendo l'abbonamento. Tale valutazione è stata espressa in relazione: i) ad uno spot televisivo in cui erano state mostrate masse di tifosi con le maglie di varie squadre che correvano verso uno stadio, portando con sé sedie, sgabelli o poltrone alla ricerca di un posto a sedere; i consumatori venivano invitati a prendere posto e a mettersi comodi perché sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile" (par. 20 del provvedimento); ii) alla "homepage" del sito web di Sk. dedicata al calcio che, dal 14.6.2018 e quanto meno fino alla data di avvio del procedimento, aveva riportato in alcune date l'immagine di una squadra di calcio su cui compariva la scritta esplicativa "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk.", affiancata dal della Serie A e della Champions League. Inoltre, in altre date la "homepage" aveva riportato un'immagine in cui su uno sfondo rosso e blu aveva campeggiato la frase "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021", seguita dal ben visibile della serie A e dal claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" (par. 21 del provvedimento). 9.1. Secondo l'Autorità questi messaggi non avevano specificato le informazioni relative alle partite ricomprese nell'abbonamento, e, quindi, avevano lasciato intendere che il professionista avesse offerto un pacchetto comprensivo di tutte le partite del campionato di serie A, senza chiarire che sarebbe stata possibile la visione di solo 7 partite su 10 per ogni giornata della Serie A. Tale informazione era ritenuta particolarmente significativa, considerato che, nel triennio precedente, erano state trasmesse tutte le partite della Serie A. Di conseguenza, il consumatore sarebbe potuto facilmente incorrere nell'errore di ritenere l'offerta comprensiva di tutte le partite. Inoltre, l'Autorità ha osservato come la circostanza che la diversa offerta fosse dipesa dal mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti non potesse esimere il professionista dall'adempimento dell'obbligo di fornire una informazione corretta e completa in merito alle caratteristiche di tale offerta, al fine di evitare che il consumatore medio potesse essere indotto in errore e assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Queste considerazioni avevano rilievo pur considerando lo spot un messaggio di carattere "emozionale", considerata la necessità di un'informazione chiara e corretta sin dal momento del c.d. primo aggancio. Pertanto, lo spot televisivo doveva ritenersi una informazione ingannevole. Stesse considerazioni valevano per i messaggi sulla pagina internet e "Fa.", anche atteso che l'utilizzo del lemma "tutto" avrebbe potuto indurre il consumatore a ritenere che l'offerta fosse completa. Inoltre, questo messaggio era comparso in varie date e, quindi, non poteva ritenersi riferito alla specifica offerta del 14.6.2018. 10. Il T.A.R. per il Lazio ha respinto le censure di Sk. articolate nel ricorso di primo grado osservando che: i) nei claim presi in considerazione nel provvedimento impugnato, e trasmessi a partire dal 14.6.2018, erano state utilizzate espressioni ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk."; "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021") che effettivamente avrebbero potuto essere interpretare nel senso che l'abbonamento al Pacchetto Sk. Ca. sarebbe stato comprensivo, per la stagione successiva e/o per tutto il triennio 2018/2021, di tutte le partite della serie A, evocata sia espressamente che implicitamente, mediante il riferimento "alla tua squadra"; ii) i claims non erano stati, in alcun modo, circostanziati, non contenendo alcun riferimento alla possibilità di accedere, per ogni giornata del campionato di Serie A, solo a 7 partite su 10, né all'esclusione del Pacchetto delle partite della serie B, e neppure avevano invitato l'utente a prendere visione delle condizioni di contratto e della programmazione in relazione all'intervenuta modifica dei diritti di esclusiva concessi a Sk.; iii) i claims utilizzati nei messaggi oggetto del provvedimento erano stati, quindi, oggettivamente ed astrattamente idonei ad indurre in errore il consumatore interessato a sottoscrivere un contratto relativo al Pacchetto Sk. Ca., ed erano stati mandati in onda dal 14.6.2018, malgrado l'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva fosse già intervenuta a far tempo dal giorno precedente; iv) non potevano condividersi le deduzioni difensive di Sk. fondate sulla tipologia di consumatore-tipo, appassionato di calcio e, quindi, informato del nuovo meccanismo di assegnazione dei diritti, dovendosi considerare come tali caratteristiche non si potevano rinvenire in tutti i consumatori interessati alla visione del calcio e come la nozione rilevante di "consumatore" fosse quella di "consumatore medio" - inteso come un soggetto normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici - e che, quindi, essendo il calcio seguito da milioni di tifosi della più disparata provenienza ed istruzione, non era ragionevole ritenere che tale concetto potesse comprendere solo consumatori particolarmente attivi nell'informarsi sul contenuto dei contratti e sulle vicissitudini che avevano portato all'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva; v) neppure poteva condividersi l'assunto di Sk. secondo cui doveva tenersi conto del complesso delle informazioni veicolate, atteso che la correttezza dell'informazione commerciale doveva essere assicurata sin dal primo contatto e che la completezza e la veridicità di un'offerta dovevano essere valutate nel contesto del singolo messaggio promozionale, senza che potesse rilevare la possibilità di approfondire, in altri momenti, le modalità di fruizione del prodotto stesso e le sue effettive qualità ; vi) tali considerazioni valevano a fortiori qualificando il messaggio come "emozionale", dovendosi in tali ipotesi prestare maggior attenzione all'impatto indotto dalla passione per lo sport; vii) doveva escludersi l'erronea applicazione della disposizione di cui all'art. 21 del D.Lgs. n. 206/2005, dedotta in ragione delle limitazioni intrinseche del mezzo, atteso che la scelta del mezzo giustificava un adeguamento, ma non un affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza, importando semplicemente la ricerca di modalità alternative di comunicazione e non elidendo la necessità delle stesse. 11. Passando alle deduzioni contenute nel primo motivo del ricorso in appello, il Collegio osserva come la parte abbia, in primo luogo, riportato alcuni passaggi della sentenza che - nella prospettiva di Sk. - avrebbero confermato l'illegittimità del provvedimento impugnato. In particolare, Sk. ha osservato che la sentenza: i) aveva dato atto che il provvedimento aveva contestato esclusivamente l'ingannevolezza dei quattro messaggi, escludendo l'intenzione dell'Autorità di sanzionare l'intera campagna promozionale, con implicita conferma della liceità della stessa; ii) non aveva contestato la sussistenza di una massiccia campagna informativa in ordine al mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti televisivi; iii) aveva confermato come il consumatore da prendere a riferimento fosse il c.d. consumatore-tifoso; iv) aveva ritenuto indimostrata la tesi di Sk., secondo la quale il consumatore-tifoso doveva ritenersi a conoscenza della diversa modulazione dei diritti televisivi. 11.1. Le deduzioni sono infondate anche per le ragioni che saranno in modo analitico esposte nel prosieguo. Limitando questo segmento della decisione ad alcune considerazioni preliminari (relative a quanto dedotto da Sk. e riportato nel punto precedente), il Collegio osserva che: i) il primo dei passaggi della sentenza riportato da Sk. riguarda, invero, la questione connessa alla durata dell'infrazione e, in ogni caso, non costituisce un'affermazione di liceità dell'intera campagna pubblicitaria di cui hanno fanno parte, comunque, i messaggi sui quali si è incentrata l'attenzione dell'Autorità, che, come si esporrà, hanno integrato pratiche commerciali scorrette; ii) la sussistenza di una massiccia campagna informativa non è stata contestata dal T.A.R. che, tuttavia, ha, correttamente, enfatizzato i limiti di tale circostanza, non trattandosi di un elemento che avrebbe potuto "integrare" i claims pubblicitari con un dato notorio, deprivando tali messaggi della portata decettiva che deve riconoscersi agli stessi; iii) il riferimento al consumatore-tifoso non è stata una circostanza che ha escluso il carattere ingannevole della condotta, avendo il T.A.R. spiegato come fosse necessario tener conto della natura composita di tale modello di consumatore, all'interno della quale dovevano ricomprendersi soggetti la cui passione o interesse per lo sport non era necessariamente tale da condurli ad una informazione puntuale ed integrale su aspetti collaterali del calcio, come l'assegnazione dei diritti televisivi. 12. Procedendo ad esaminare il primo motivo il Collegio osserva come Sk. abbia dedotto l'errata valutazione dei quattro messaggi ritenuti integranti una pratica commerciale scorretta, la violazione di legge e l'eccesso di potere in ordine all'applicazione della nozione di consumatore medio e l'erroneità nel merito delle valutazioni sul consumatore-tifoso (ff. 8-12 del ricorso in appello). In particolare, la Società ha dedotto che: i) la valutazione della pratica commerciale deve effettuarsi caso per caso e tenendo conto della fattispecie concreta, come affermato dalla giurisprudenza unionale e dalle decisioni della stessa Autorità ; ii) la nozione di consumatore medio non è di carattere statistico ma deve tener conto del contesto economico e sociale di riferimento e del grado di avvedutezza o diligenza che è ragionevole attendersi dal tipo di consumatore preso in considerazione; iii) nel caso di specie l'Autorità non aveva condotto un'apposita istruttoria sulla effettiva diffusione dei quattro messaggi, non verificando neppure le testate televisive e/o giornalistiche ove i messaggi erano stati veicolati; iv) inoltre, l'Autorità si era limitata a far riferimento ad una nozione statistica di consumatore medio, senza tener conto delle peculiarità del consumatore-tifoso e della particolare risonanza mediatica del nuovo meccanismo di assegnazione; v) non aveva rilievo la giurisprudenza indicata dal T.A.R., non avendo la Società fatto riferimento alla necessità di un'etero-integrazione dei messaggi ma, al contrario, al dovere di tenere conto del patrimonio cognitivo del soggetto a cui il messaggio era rivolto, e, quindi, al consumatore-tifoso che ha un livello di informazione superiore rispetto ad ogni altro consumatore-medio interessato al calcio; vi) doveva considerarsi anche il contenuto complessivo della campagna informativa di Sk., che aveva fatto riferimento in varie occasioni al contenuto del Pacchetto Calcio e aveva, altresì, reclamizzato i c.d. Ticket DAZN, e, cioè, la possibilità per i clienti Sk. di fruire, a condizioni scontate, dell'offerta DAZN comprensiva delle 3 rimanenti partite della Serie A aggiudicate a Perform; vii) pertanto, i quattro messaggi contestati non erano stati in grado di orientare le scelte del consumatore ma avevano solo promosso la generale offerta calcistica di Sk., i cui contenuti erano noti all'appassionato di calcio; viii) l'informazione sul numero di partite offerte era di carattere fattuale e non giuridico, con conseguente erroneità del segmento di sentenza, in cui il T,.A.R. aveva fatto riferimento alla necessità per il consumatore di essere a conoscenza di concetti giuridici, non necessariamente alla portata dello stesso. 12.1. Le censure sono infondate per le ragioni di seguito esposte. 12.2. Prima di procedere ad illustrare le ragioni della decisione, occorre tratteggiare, pur en abré gé e con riserva delle ulteriori integrazioni necessarie, il quadro normativo di riferimento. 12.2.1. A tal fine si osserva che l'espressione "pratiche commerciali scorrette" designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 del Codice del Consumo, in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. Per "pratiche commerciali" si intendono tutti i comportamenti - sia commissivi che omissivi - tenuti da professionisti che siano oggettivamente "correlati" alla "promozione, vendita o fornitura" di beni o di servizi a consumatori e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali (v. art. 2, par. 1, lett. d), della direttiva). La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni. 12.2.2. Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno "scorretta", l'art. 20, comma 2, del D.Lgs. n. 206/2005 stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se "è contraria alla diligenza professionale" ed "è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori". 12.2.3. Nella trama normativa, la definizione generale si scompone, poi, in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25). Il legislatore ha, inoltre, analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. "liste nere") da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni "speciali" di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), in relazione alle quali non è necessario accertare la loro contrarietà alla "diligenza professionale" nonché dalla sua concreta attitudine "a falsare il comportamento economico del consumatore" (cfr.: Corte di Giustizia dell'Unione europea, 23 aprile 2009, cause riunite C-261/07 e C-299/07; Id., 14 gennaio 2010, causa C-304/08; Id., 19 giugno 2019, causa C-628/17). 12.2.4. In ultimo si osserva che il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non è veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, ingannano o possono ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio; in tal modo, tale pratica è idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza della stessa. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, vietata. 12.3. Nel caso di specie, l'Autorità ha accertato la violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo, la quale considera "ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso", ove le informazioni siano relative alle "caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l'esecuzione, la composizione, gli accessori, l'assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto". 12.4. Operate queste premesse generali si osserva come la nozione di consumatore medio applicata nel caso di specie non può ritenersi di impronta meramente statistica, e, quindi, contraria al dato normativo unionale di riferimento, né è stata determinata in modo errato da parte dell'Autorità . 12.4.1. Il considerandum n. 18 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE, afferma, con chiarezza, che la nozione di consumatore medio "non è statistica" e che il consumatore medio è "normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici". La nozione di consumatore medio va, quindi, correttamente, declinata in relazione alla generale tipologia di soggetto che essa raggiunge o alla quale essa è diretta, tenendo conto, quindi, delle condizioni sociali e culturali di questa tipologia generale, e non anche di possibili sotto-categorie di consumatori ai quali il prodotto è destinato. Infatti, diversamente opinando, si correrebbe il rischio di non considerare propriamente il consumatore medio, ma, in ultima analisi, solo alcuni tipi di consumatori senza avere riguardo, quindi, alla generale platea alla quale il prodotto è rivolto. La conseguenza di una simile impostazione sarebbe quella di selezionare, all'interno della nozione di consumatore medio, un sotto insieme di consumatori singoli particolarmente avveduti e attenti, senza, invece, considerare la generalità dei soggetti ai quali il prodotto è destinato. Una simile prospettiva risulta contraria sia alla previsione testuale di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo che fa riferimento, generalmente, al consumatore medio, e, quindi, all'integrale platea di soggetti ai quali la pratica è rivolta, sia alla valenza della nozione di gruppo (quale possibile sotto-insieme di una generale platea di consumatori) che si ricava nell'intelaiatura sistematica del Codice del Consumo, ove una "à ctio fì nium regundò rum" che restringa la platea dei destinatari è effettuata in ottica eminentemente protettiva e in ragione della peculiare vulnerabilità di determinare sotto-categorie di consumatori (v. art. 20, comma 2 e 3, del Codice e considerandum n. 18 della Direttiva) e non al fine di innalzare alcune sotto-categorie a prototipi necessari per la definizione del consumatore medio. 12.4.2. In secondo luogo, una prospettiva come quella dell'appellante risulta, in sostanza, incentrata su una selezione delle tipologie di consumatore medio, prendendo come punto di riferimento un certo prototipo di tifoso, particolarmente attento e informato della complessa realtà calcistica, e, in particolare, non solo degli aspetti propriamente sportivi ma, altresì, dagli ulteriori aspetti - economici, regolatori, etc. - che risultano, comunque, involti al fenomeno del calcio. La nozione di consumatore medio viene, quindi, associata ad un paradigma edificato sui consumatori-tifosi maggiormente attenti anche a questi ulteriori aspetti e, quindi, più che ad un consumatore propriamente medio ad un prototipo modello di consumatore singolo, fruitore dell'offerta sportiva e informato di ogni aspetto relativo al mondo del calcio. Questa prospettiva, oltre a risultare aliena al telaio normativo sopra delineato, espone anche al rischio di deprivare di effettività il sistema di tutela delineato dal legislatore europeo, risultando contraria alle rationes su cui riposano le previsioni normative di riferimento. Osservando i potenziali sviluppi logico-giuridici degli assi concettuali su cui la tesi poggia si evince come una simile operazione sostanzia una nozione di consumatore medio particolarmente avveduto, rispetto al quale, per parafrasare un'autorevole dottrina, "persino l'inganno o l'aggressione meglio costruiti possono fallire". In definitiva, il rischio della prospettiva tracciata dalla Società è quello - già esposto - di esondare dai confini della nozione di consumatore medio per sostituirla con un prototipo di consumatore particolarmente avveduto e accorto, avendo, quindi, riguardo piuttosto ad un singolo consumatore (o, comunque, ad un modello calibrato su caratteristiche singolari di un gruppo di consumatori) (cfr., per la distinzione tra la nozione di consumatore medio e la nozione di consumatore individuale, pur se in relazione ai rapporti tra public enforcment e concreti giudizi risarcitori, Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791). 12.5. Alla luce delle considerazioni svolte la nozione di consumatore medio deve essere ricostruita tenendo conto dell'intera platea degli appassionati di sport e del complesso dei fattori economici, sociali e culturali di riferimento per delineare le caratteristiche del soggetto medio al quale è rivolta l'offerta in questione. A tal fine, si osserva come sia un fatto notorio (inteso come un "fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo"; Cassazione civile, sez. III, 15 febbraio 2024, n. 4182) come il calcio sia seguito in Italia da milioni da tifosi e appassionati, appartenenti a vari ceti sociali e con condizioni economiche e culturali molto differenti. Si tratta, infatti, dello sport maggiormente seguito dalla popolazione, come testimoniano anche i valori della gara per l'assegnazione dei diritti televisivi (all'esito della quale è stato rimodulato il pacchetto Sk. Ca.), nonché il numero di abbonati al Pacchetto Calcio, quantificato dall'Autorità pur in relazione alla condotta sub b). In questo contesto la platea dei consumatori risulta, quindi, particolarmente variegata e comprende soggetti con differenti condizioni economiche e sociali e con gradi di istruzioni e di informazione eterogenei. Questa situazione ha peculiare incidenza proprio procedendo secondo quella logica del "caso per caso" e della "fattispecie concreta" evocata dall'appellante. Dovendo, infatti, declinare la nozione al caso concreto, non può neppure omettersi di considerare come il tipo di informazione che la parte postula come parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore-tifoso è, invero, relativa ad un aspetto (certamente "fattuale" e non giuridico, come esposto da Sk.) non propriamente sportivo ma afferente alla regolazione dei diritti televisivi. Tematica rispetto alla quale è inverosimile attribuire la conoscenza a tutti i soggetti del composito ambito dei consumatori interessati, trattandosi, infatti, di aspetti che, proprio perché estranei ai temi prettamente calcistici, non possono postularsi come parte integrante del patrimonio conoscitivo di ogni tifoso. Pertanto, pur considerando la rilevanza che i media dell'epoca aveva conferito alla questione relativa alle modalità di assegnazione dei diritti televisivi, costituisce, comunque, un'errata configurazione della nozione di consumatore medio quella che prospetta tale questione come notoria per l'intera platea degli appassionati di calcio, dovendosi considerare, per converso, l'eterogeneità sociale e culturale dei tifosi e il carattere non propriamente sportivo (e, quindi, di non necessario interesse) dell'aspetto in trattazione. 12.6. Le considerazioni esposte non sono suscettibili di smentita dalla deduzione di Sk., secondo la quale si sarebbe dovuto tenere in considerazione la campagna complessiva e, in particolare, la reclamizzazione dei pacchetti DAZN. L'eventuale correttezza di alcuni messaggi pubblicitari non priva, infatti, del carattere di ingannevolezza i messaggi oggetto del provvedimento dell'A.G.C.M., ove questi ulteriori elementi non sono presenti e che inducono a ritenere il prodotto in grado di assicurare la visione integrale di tutto il calcio. 13. Con una seconda censura (ff. 9-12 del ricorso in appello), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha escluso che, nel caso di specie, fosse stato invertito l'onere della prova. Secondo la Società gravava sull'A.G.C.M. "l'onere di dimostrare che il consumatore-tifoso, tenuto conto del patrimonio cognitivo e del bagaglio informativo che gli è proprio, non fosse a conoscenza delle vicende legate all'Assegnazione e agli esiti della stessa e potesse dunque essere sviato dai Quattro Messaggi sul numero di partite incluse nel Pacchetto Calcio di Sk.". 13.1. La censura è infondata in quanto risulta calibrata su un prototipo di consumatore medio che non è asseribile in ragione delle eterogenee condizioni culturali, sociali ed economiche dei potenziali fruitori del prodotto, come in precedenza esposto. Nel caso di specie, non si tratta di presumere la non conoscenza di tale aspetto in capo al consumatore medio (rovesciando sulla Società l'onere di provare il contrario), ma di tener conto degli elementi della fattispecie concreta e, quindi, del numero elevato di destinatari dell'offerta, delle loro eterogenee condizioni, e del carattere non propriamente sportivo della tematica in questione. In ragione di quanto spiegato, la portata decettiva dei messaggi non può, quindi, elidersi ipotizzando che le vicende relative all'acquisizione dei diritti televisivi fossero parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore, e, che, quindi, i messaggi fossero, sostanzialmente, inoffensivi. Né era necessario per l'Autorità svolgere indagini sul mercato per verificare quale fosse il livello di conoscenza di tali vicende tra i consumatori-tifosi sia per la correttezza di tale nozione (confermata dal Collegio), sia tenendo conto, comunque, delle plurime segnalazioni ricevute che avevano costituito un campione significativo per poter stimare la capacità di indurre in errore il consumatore medio. 14. Le considerazioni sin qui svolte rendono non necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea del quesito prospettato da Sk. al punto 12 del ricorso in appello. In particolare, Sk. ha chiesto al Collegio di rimettere alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale preposta all'applicazione della normativa di attuazione della direttiva medesima, nell'ambito della valutazione circa la decettività di una pratica asseritamente ingannevole non ricompresa nell'elenco delle pratiche di cui all'allegato 1, con l'effetto di: (a) assumere, quale parametro per la valutazione di tale decettività, una nozione "statistica" di consumatore medio, del tutto avulsa dal contesto e dal bagaglio conoscitivo attribuibile alla specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente (b) addossare al professionista l'onere della prova circa il fatto che la specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente quale interessata dalla presunta pratica scorretta non potesse essere sviata dai messaggi asseritamente ingannevoli". 14.1. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione, e risolverla sotto la propria responsabilità, qualora l'interpretazione corretta del diritto dell'Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio (ordinanza del 27 aprile 2023, causa C-495/22; sentenza del 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C561/19). Nel caso di specie, la nozione di consumatore medio applicata non è stata di carattere statistico ma, al contrario, ha tenuto conto delle specifiche indicazioni del diritto dell'Unione. 14.2. La giurisprudenza della Corte di giustizia UE ha definito il consumatore medio come il consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto (si vedano la sentenza, 16 luglio 1998, C-210/96, Gut Springenheide GmbH, Rudolf TuSk. c. Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt - Amt fü r Lebensmittelü berwachung, in Foro it., 1999, IV, 71; ma anche le sentenze: 12 maggio 2011, C122/10, Konsumentombudsmannen v. Ving Sverige AB; 18 ottobre 2012, C-428/11, Purely Creative Ltd c. Office of Fair Trading; 19 dicembre 2013, C-281/12, Trento Sviluppo s.r.l. c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; 25 luglio 2018, C-632/16, Dyson ltd and Dyson BV c. BSH Home Appliances NV; 13 settembre 2018, C-54/17, Autorità garante della concorrenza e del mercato c. Wind Tre S.p.A.). Da tale definizione non si è discostata - per tutto quanto detto - l'azione dell'Autorità non potendosi pretendere che il consumatore tifoso al quale si rivolge l'offerta sia mediamente a conoscenza delle complesse vicende dell'assegnazione dei diritti di trasmissione sulle partite del campionato di serie e sulle modalità di messa a gara dei relativi diritti (che si appalesa come questione meramente applicativa) né dovendosi svolgere sul punto un'analisi statistica (potendo per quanto già detto l'analisi condursi sul piano della comune esperienza e dei fatti notori). La Direttiva europea 2005/29/CE, al diciottesimo "considerando", chiarisce che per consumatore medio deve intendersi un "consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia". In questo passaggio consiste la nozione, ivi formalizzata per la prima volta in ambito normativo, che il legislatore continentale ha mutuato dalla giurisprudenza europea, alla quale del resto lo stesso legislatore espressamente rimanda quale criterio ermeneutico di chiusura della norma stessa. Particolare importanza al fine di qualificare la nozione in parola ha avuto la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 16 luglio 1998, resa nella causa C-210/96, nella quale si dispose che per stabilire se una determinata dicitura pubblicitaria, volta a promuovere la vendita di un prodotto, sia idonea ad indurre in errore l'acquirente del prodotto stesso, il giudice nazionale deve riferirsi all'aspettativa presunta, connessa a tale dicitura, di un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto. Al fine di perseguire questo obiettivo, il giudice nazionale può avvalersi, secondo questo arresto giurisprudenziale europeo, anche di sondaggi o statistiche demoscopiche, in quanto ammissibili in base alla normativa processuale applicabile, al fine di valutare in maniera corretta l'influenza della condotta posta in essere dal professionista rispetto ai consumatori. 14.3. E' evidente, però, che la definizione di consumatore medio non possa essere considerata in modo statico ed assolutamente univoco, proprio alla luce della lettera del diciottesimo "considerando" della direttiva; la nozione deve necessariamente evolversi nel tempo e soprattutto essa deve essere riferita ai prodotti e servizi considerati ed alla tipologia di soggetti coinvolti, persino alla loro provenienza geografica, e quindi in sostanza alla tipologia di mercato coinvolto nella fattispecie consumeristica. In sostanza, il consumatore medio è una figura ipotetica, tipizzata, che può essere identificata con una persona mediamente avveduta (il famoso "buon padre di famiglia" nel diritto civile italiano), sia sotto il profilo cognitivo, dell'esperienza e dell'informazione, che sotto quello del grado di cautela e precauzione che egli usa nel rapportarsi al mercato di riferimento quando si appresta a porre in essere un'operazione economica concreta nella specie essendo del tutto ragionevole postulare che dovesse essere fornita l'informazione sul cambiamento del pacchetto di partite visionabili e comunque non dovesse essere trasmessa con l'enfasi che ha caratterizzato la diffusione dei messaggi contestati (La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021. Il tuo calcio tutto da vivere"). 14.5. Di conseguenza, le questioni interpretative prospettate non sono rilevanti e non richiedono l'intervento della Corte di Giustizia dell'Unione europea. C.2. SUL SECONDO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 15. Con il secondo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erronea e arbitraria applicazione della previsione di cui all'art. 21 del Codice del Consumo, osservando come la contestazione non avesse fatto riferimento ad azioni ingannevoli ma ad omissioni informative, rilevanti, nel caso, ai sensi della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo, che, al comma 1, prevede che sia considerata "ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". 15.1. Secondo la parte l'omessa applicazione della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo avrebbe determinato la mancata effettuazione del test legale ivi previsto che impone di tenere conto dei limiti del mezzo di comunicazione e di tutte le circostanze del caso al fine di accertare se siano omesse informazioni di cui il consumatore ha bisogno, avendo, comunque, riguardo alle misure adottate dal professionista per rendere disponibili le informazioni ai consumatori. 15.2. A sostegno del motivo Sk. ha evocato la giurisprudenza della Corte di Giustizia e, in particolare, la sentenza del 7 maggio 2011, causa C-122/10, ove la Corte ha affermato che "la portata delle informazioni (...) che un professionista è tenuto a comunicare (...) deve essere valutata a seconda del contesto (...), della natura e delle caratteristiche del prodotto nonché del supporto impiegato per la comunicazione". In quest'ottica, talune informazioni potrebbero essere omesse "qualora il mezzo di comunicazione impiegato per la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio, purché i consumatori (...) possano reperire agevolmente tali informazioni su tale sito Internet o attraverso di esso" (sentenza del 30 marzo 2017, causa C-145/16). Inoltre, secondo Sk., questi principi sarebbero stati affermati anche dalla giurisprudenza nazionale (punto 15 del ricorso in appello), e, non si tradurrebbero in un "affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza" dell'informazione, ma nella necessità di valutare i messaggi tenendo conto delle loro caratteristiche (pubblicità volte a promuovere in generale l'offerta calcistica di Sk.), della tipologia di prodotto interessato (l'offerta sportiva relativa al calcio di Sk. in generale, comprensiva cioè anche della Champions League e dell'Europa League, i cui diritti Sk. pure aveva acquisito), della forma del mezzo utilizzato (tv in un caso e Internet in tre casi), nonché del contesto complessivo in cui venivano diffusi i quattro Messaggi, incluse le informazioni fornite da Sk. nella propria più ampia campagna pubblicitaria. 15.3. I motivi sono infondati in quanto la condotta contestata dall'Autorità non ha soltanto e puramente natura omissiva ma commissiva ed è consistita nella promozione del Pacchetto Calcio che, per la presentazione assunta, è stata ritenuta idonea ad indurre in errore il consumatore medio in ordine ad una caratteristica principale del prodotto quale il numero di partite che l'abbonamento avrebbe consentito di visionare e, quindi, ad indurlo ad adottare una decisione commerciale che ragionevolmente non avrebbe preso. Dal carattere commissivo della condotta discende la correttezza dell'applicazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), in luogo della diversa previsione invocata dalla Società (art. 22), con conseguente non necessità di sottoporre la pratica al test ivi indicato. C.3. SUL TERZO MOTIVO DI APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 16. Con il terzo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto i messaggi ingannevoli, evidenziando, in primo luogo, come i messaggi non avevano contenuto informazioni sulle caratteristiche del pacchetto. Secondo l'appellante si sarebbe trattato, infatti, di messaggi finalizzati a pubblicizzare il "brand" e il pacchetto calcio offerto "in generale e nella sua interezza", senza alcun riferimento al Pacchetto per la stagione 2018/2019. Per tale ragione i messaggi non avevano contenuto informazioni di dettaglio sui singoli pacchetti. In sostanza, i messaggi avevano avuto una mera funzione pubblicitaria generale. 16.1. La censura è infondata atteso che i messaggi oggetto del provvedimento hanno fatto riferimento alla stagione calcistica e, in ogni, caso rientrano nella nozione di pratica commerciale rilevante ai sensi del Codice del Consumo. In particolare, il promo aveva invitato gli spettatori a prendere posto e mettersi comodi in quanto sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile". La seconda comunicazione aveva fatto riferimento alla Serie A su Sk. "anche per il triennio 2018/2021", con il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". La terza comunicazione aveva fatto riferimento alla "tua squadra in Italia e in Europa su Sk.". L'ultima comunicazione aveva, ancora, riportato il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". Questi messaggi non avevano, quindi, rappresentato una generale pubblicità del brand, ma dallo specifico prodotto, costituito dall'offerta delle partite di Serie A e, in taluni casi, delle competizioni europee. 16.2. Inoltre, occorre considerare come la previsione di cui all'art. 18, comma 1, lett. d), definisce le pratiche commerciali come "qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori". Nel caso di specie i messaggi hanno inteso riferirsi al Pacchetto Calcio, in quanto è proprio questo il prodotto che Sk. aveva offerta ai nuovi abbonati. Il Pacchetto Calcio, pur se non espressamente nominato, era, in altri termini, l'oggetto dei messaggi pubblicitari in quanto era questo il prodotto che i messaggi avevano inteso promuovere. 17. Le considerazioni esposte rendono infondate anche le deduzioni articolate da Sk. con specifico riferimento al promo (punto 21 del ricorso in appello). 18. Inoltre, sono infondate le ulteriori deduzioni di Sk. relative ai messaggi diffusi via internet e "Fa.". 18.1. Sul punto, la Società ha evidenziato che: i) gli unici due claim citati dalla sentenza ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." e "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021"), non avevano contenuto alcun riferimento all'abbonamento (e all'inclusione in esso di tutte le partite della serie A), essendo stati finalizzati a presentare la generale offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire; ii) l'espressione "la tua squadra" non avrebbe potuto suggerire che l'abbonamento avrebbe ricompreso "quantomeno tutte le partite della serie A", trattandosi di considerazione apodittica e che non teneva conto delle caratteristiche del consumatore-tifoso; iii) contestualmente al claim pubblicitario "generalista", Sk. aveva fornito informazioni di dettaglio sul contenuto del Pacchetto Calcio 2018/19, poste in prossimità dei claim principali e in modo da renderle agevolmente accessibili, e, in particolare, sulla "landing page" alla quale si sarebbe giunti automaticamente cliccando sul claim; iv) era irrilevante la circostanza che i messaggi erano stati diffusi dopo l'assegnazione, trattandosi, al contrario, di un aspetto coerente con la finalità degli stessi; v) quanto esposto valeva anche per il terzo claim censurato ("Il tuo calcio, tutto da vivere"), che era stata la trasposizione italiana di una campagna europea del gruppo Sk. ("feel it all"), utilizzata trasversalmente per promuovere non solo diverse tipologie di contenuto sportivo, ma anche i pacchetti Sk. Famiglia e Sk. Cinema, senza peraltro essere mai stata oggetto di contestazioni negli altri Stati membri ove il claim era stato utilizzato. 18.2. Osserva il Collegio come la prima deduzione non sia condivisibile non tenendo conto che "l'offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire" si sostanzia proprio nel riferimento al pacchetto di abbonamento previsto, con la conseguenza che i claim è a tale pacchetto che avevano inteso riferirsi. In secondo luogo l'espressione "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." era stata ingannevole in quanto avrebbe potuto indurre ragionevolmente a ritenere che "su Sk." sarebbe stato possibile vedere la propria squadra, e, quindi, in assenza di indicazioni precise, il complesso di partite che l'avrebbero vista impegnata "in Italia e in Europa". Alcun rilievo ha, poi, la nozione di consumatore-medio evocata da Sk., per le ragioni già chiarite nella disamina del primo motivo. Inoltre, occorre considerare come la deduzione relativa all'accessibilità di ulteriori informazioni mediante la "landing page" oblitera uno dei principi fondamentali vigenti in materia di pubblicità scorretta, secondo il quale la chiarezza, trasparenza e comprensibilità delle comunicazioni commerciali deve sussistere sin dal "primo contatto" ed al fine di evitare "agganci ingannevoli" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 6 dicembre 2021, n. 8155; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 11 maggio 2017, n. 2178). Infatti, "l'obbligo di estrema chiarezza, che viene violato proprio da pratiche ingannevoli o false che in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, ingannino o possano indurre in errore il contraente medio, deve essere congruamente assolto dal professionista sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un'immediata percezione della offerta economica pubblicizzata" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 marzo 2021, n. 2083). A tal fine si rammenta che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, 19 settembre 2017, n. 4878) grava sul professionista un obbligo di chiarezza e completezza dei messaggi promozionali al fine di evitare qualsivoglia forma di aggancio scorretta e ingannevole; ciò in quanto l'onere di completezza e chiarezza informativa previsto dalla normativa a tutela dei consumatori richiede che ogni messaggio rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare e sanziona la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, qualora ciò renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato. Nello scenario in esame non è, poi, irrilevante (come dedotto dall'appellante), la circostanza che i messaggi fossero stati diffusi dopo la procedura di assegnazione; diversamente da quanto esposto dalla parte, la procedura di assegnazione aveva determinato il mutamento dei contenuti dell'offerta e, proprio per tale ragione, il professionista avrebbe dovuto astenersi dal diffondere messaggi equivoci, che avrebbero potuto indurre il consumatore medio a ritenere - stante il tenore degli stessi messaggi - che l'offerta sarebbe stata comprensiva di tutte le partire di Serie A. In ultimo, si osserva che il claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" aveva, comunque, portata ingannevole in quanto, come correttamente esposto dall'Autorità, questo lemma ("tutto") è, "per sua natura generico, e vi si possono attribuire molteplici significati, che possono essere esplicitati solo in associazione con altri termini"; "tra questi, l'attribuzione di un'accezione di totalità delle partite di serie A come pubblicizzate, in assenza di alcuna specificazione in merito alle limitazioni dell'offerta, è del tutto possibile e legittima, e in ogni caso tale da poter indurre in errore il consumatore medio" (par. 46 del provvedimento). 19. Le considerazioni esposte rendono non rilevante la questione di diritto dell'Unione europea prospettata da Sk. al punto 23 del ricorso in appello. La parte ha, infatti, chiesto a questo Consiglio - "qualora (...) ritenesse di condividere l'errata declinazione del paradigma normativo di valutazione dei Quattro Messaggi contenuta nel Provvedimento e fatta propria dalla Sentenza" - di rimettere alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: "1) Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale competente con l'effetto di considerare di per sé illegittimo il ricorso da parte di un professionista a iniziative pubblicitarie di natura generale volte a promuovere l'offerta del professionista nella sua interezza. 2) Se, ai fini della risposta alla precedente questione, rilevi la circostanza che dette iniziative pubblicitarie si inseriscono in un contesto nel quale il consumatore medio individuato quale target delle stesse (e tenendo conto del bagaglio cognitivo che gli è proprio) è stato pienamente informato, in modo completo e veritiero, sui contenuti dell'offerta del professionista per mezzo di altre comunicazioni pubblicitarie". Nel richiamare le considerazioni già esposte al punto 14.1 della presente sentenza, il Collegio osserva, altresì, come le questioni risultano in concreto irrilevanti in quanto espongono in forma di apparente dubbio interpretativo questioni meramente applicative: i) i messaggi non hanno avuto carattere generale ma hanno integrato una pratica commerciale ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. d), del Codice del Consumo, essendo stati diretti alla promozione dello specifico prodotto (il Pacchetto) relativo al calcio (v. supra) e non a pubblicizzare l'impresa in quanto tale; ii) il secondo quesito ripropone la nozione di consumatore medio già ritenuta dal Collegio contraria all'intelaiatura normativa unionale in quanto suppone un consumatore tifoso particolarmente avveduto e, inoltre, nega la rilevanza dell'informazione completa e veritiera sin dal primo contatto, contrariamente a quanto si impone in applicazione proprio del diritto unionale. 19.1. In definitiva, tutti i motivi di ricorso in appello relativi alla pratica scorretta sub a) sono infondati e, pertanto, l'appello va respinto in parte qua. D. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB B). 20. Passando ad esaminare le censure relative alla seconda pratica commerciale scorretta, occorre, preliminarmente, riprodurre, in sintesi, la ricostruzione e le valutazioni esposte dall'Autorità nel provvedimento impugnato. A tal fine si osserva come l'A.G.C.M. abbia contestato la natura scorretta della pratica consistente, nella fase di gestione di contratti già attivi Sk. e a fronte del significativo ridimensionato dei contenuti del pacchetto Sk. Ca. (e in particolare la riduzione del 30% delle partite trasmesse di serie A e la totale eliminazione delle partire di serie B), nel non aver permesso ai propri abbonati, interessati prevalentemente o esclusivamente alla visione delle partite di calcio, di poter effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto, inducendoli al rinnovo del contratto nell'erronea convinzione di poter fruire dei medesimi contenuti rispetto a quanto originariamente sottoscritto, con l'imposizione di addebiti dei costi mensili invariati, oppure a recedere dal contratto a titolo oneroso. 20.1. L'Autorità ha ritenuto la condotta contraria alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo osservando come il carattere scorretto della pratica fosse enfatizzato dalle caratteristiche del consumatore medio inciso dalla condotta del professionista, "il quale decide se aderire o meno ad un'offerta nella sua veste di tifoso e in funzione del soddisfacimento di un proprio specifico interesse per una squadra di calcio, per determinati match o per uno specifico torneo" (par. 50 del provvedimento). L'A.G.C.M. ha, inoltre, evidenziato che, "alla luce delle caratteristiche del consumatore medio/tifoso e in considerazione del rilievo (...) del cambiamento dei criteri di assegnazione dei diritti del campionato di serie A che (aveva) di fatto mutato le scelte di consumo relative alla visione delle partite di Serie A, non più fruibili attraverso la sola Sk., il professionista avrebbe dovuto porre il consumatore nella condizione di poter effettuare le proprie scelte di consumo liberamente, contrariamente a quanto si è verificato". Secondo l'Autorità : i) Sk. aveva, da un lato, imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto, in considerazione della posizione di supremazia detenuta in ragione dell'esclusiva dei diritti di trasmissione del 70% delle partite di calcio di serie A; ii) dall'altro, Sk. aveva imposto ai clienti tifosi (non interessati al solo downgrade del pacchetto Calcio) il recesso dal contratto a titolo oneroso, con il pagamento di penali e/o la perdita di sconti e promozioni connessi con offerte con vincolo di durata minima. Tale condotta sarebbe stata "ancor più grave", in quanto i clienti si erano resi conto autonomamente delle modifiche apportate al pacchetto Sk. Ca., che avevano precedentemente scelto in base a condizioni diverse, mentre continuavano a subire gli addebiti inerenti l'abbonamento, tra l'altro in misura invariata nonostante il diverso e ridotto contenuto dell'offerta. In ultimo, l'Autorità ha ritenuto non suscettibile di accoglimento la tesi della Società secondo la quale tale contestazione avrebbe violato il principio del ne bis in idem, in quanto la condotta sarebbe stata da ricondurre alla presunta ingannevolezza del comportamento di Sk., già contestata in relazione alla prima condotta. La tesi sarebbe stata infondata stante la diversità delle condotte integranti le pratiche commerciali scorrette sub a) e sub b). D.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B): VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM IN RAGIONE DEI PROVVEDIMENTI ADOTTATI DALL'A.G.COM. 21. Ricostruiti i tratti essenziali del segmento del provvedimento sub observatione, può procedersi ad esaminare il primo dei motivi di ricorso in appello relativi alla condotta sub b). Con tale motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza con riferimento alla violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta materiale sarebbe stata contestata dall'A.G.Com. con la diffida di cui alla delibera n. 488/18/CONS, e, successivamente, con l'irrogazione di una sanzione pecuniaria di euro 2.400.000 per inottemperanza a tale diffida (punti 24-29 del ricorso in appello). 21.1. Osserva il Collegio come la parte non possa, invero, ritenersi avere un interesse alla decisione di questo motivo di ricorso in appello atteso che i provvedimenti dell'A.G.Com. sono stati, comunque, annullati all'esito della camera di consiglio del 23.4.2024, nella quale è stato esaminato anche il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021. Inoltre, va considerato come il provvedimento dell'A.G.C.M. sia, comunque, illegittimo per le ragioni che saranno esposte nel prosieguo. In ogni caso, il Collegio ritiene di osservare (in ragione della possibile riedizione dei poteri da parte delle Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), come la censura sia, comunque, infondata per i dirimenti rilievi costituiti: i) dalla diversità di oggetto della delibera dell'A.G.Com. n. 154/19, che ha, propriamente, sanzionato l'inottemperanza alla precedente diffida dell'A.G.Com.; ii) dall'impossibilità di predicare l'applicazione del principio del ne bis in idem in relazione alla diffida, che è atto di esercizio di un potere diverso da quello sanzionatorio e, come tale, non ricompreso nell'alveo di applicazione del principio evocato dalla Società (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791, par. "G.3", i cui principi sono applicabili anche ai rapporti tra due Autorità "interne"). D.2. SUL SECONDO, TERZO E QUARTO MOTIVO DI APPELLO RELATIVI ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B). 22. I motivi di appello indicati in rubrica possono esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi e afferenti alla possibilità di configurare la condotta di Sk. come pratica commerciale scorretta vietata dalle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. 22.1. Nel caso di specie, l'Autorità ha, come già esposto, ritenuto che la pratica potesse ritenersi aggressiva e, quindi, rientrare nell'alveo applicativo di cui all'art. 24 del Codice del Consumo, a mente del quale è "considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". La successiva disposizione di cui all'art. 25 del Codice del Consumo prevede che, nel determinare se una pratica commerciale comporta molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, sono presi in considerazione i seguenti elementi: "a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza; b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale; c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto; d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista; e) qualsiasi minaccia di promuovere un'azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata". La nozione di indebito condizionamento è precisata dalla disposizione di cui all'art. 18, comma 1, lett. i), a mente della quale si intende per indebito condizionamento "lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole". 23. Esaurita l'esposizione del quadro normativo di riferimento può procedersi ad esaminare i motivi di appello, tenendo conto di come, in sostanza, l'Autorità abbia ritenuto che la Società avesse esercitato un indebito condizionamento nei confronti dei clienti già abbonati al pacchetto Sk. Ca., "costringendoli ad optare tra due scelte, entrambe svantaggiose, ossia il mantenimento del contratto con la prosecuzione degli addebiti in misura invariata nonostante la diversa (e ridotta) offerta oppure il recesso a titolo oneroso" (par. 54 del provvedimento). 24. Sk. ha, in primo luogo, dedotto che, discostandosi dall'impostazione accusatoria, la sentenza aveva affermato che gli abbonati "non avevano un reale interesse ad esercitare il recesso poiché ciò avrebbe impedito di vedere in diretta le partite di Serie A i cui diritti erano stati aggiudicati a Sk. per il triennio 2018/2021" (par. 17.3.3) e che Sk. avrebbe quindi dovuto concedere "una riduzione del canone di abbonamento", doverosa in quanto il consumatore "non aveva una reale alternativa" in virtù dell'esclusiva sulla maggior parte dei diritti delle partite del campionato di Serie A (7 partite su 10). L'appellante ha, quindi, contestato che il T.A.R. avrebbe mutato la prospettiva accusatoria, ponendo rilievo alla mancata riduzione del canone, anche in considerazione dell'insussistenza di una valida alternativa costituita dal recesso. In relazione a quest'ultimo aspetto, Sk. ha contestato come: i) non fossero previste penali ma solo il rimborso del mero costo di disattivazione (pari a soli Euro 11,53), ritenuto consentito dalle disposizioni di cui al d.l. n. 7/2007; ii) l'ammontare del costo non poteva considerarsi condizionante, trattandosi di euro 11.53 a fronte di un abbonamento annuo del costo di euro 480,00; iii) la legittimità del recesso ad nutum, a fronte del pagamento delle spese legate ai costi di gestione/disattivazione dell'abbonamento/restituzione di sconti già fruiti mediante promozioni, era stata considerata legittima da questo Consiglio (sentenza n. 1442/2010); iv) occorreva considerare come fosse sempre possibile effettuare il "downgrade" dell'abbonamento riducendo o sostituendo i pacchetti di cui lo stesso era composto (punti 31-40 del ricorso in appello). 25. Sk. ha, inoltre, contestato il capo della sentenza nel quale il T.A.R. ha ritenuto che la mancata riduzione del canone, a fronte dell'esercizio del diritto da parte di Sk. di "modificare unilateralmente il contenuto del Pacchetto Calcio" in base alle condizioni generali di abbonamento, avesse integrato un abuso del diritto stante la mancanza di alternative per il consumatore. Inoltre, secondo Sk., la riduzione delle partite della Serie A e l'eliminazione delle partite di Serie B non aveva integrato una modifica unilaterale del contratto, in quanto le condizioni generali non avevano garantito un contenuto minimo di partite (art. 6.2). In sostanza, la variabilità dei pacchetti sarebbe stata una caratteristica fisiologica e inevitabile, espressamente prevista dalle condizioni generali (atteso che i programmi inclusi nei canali dipendevano dai diritti audiovisivi che Sk. sarebbe riuscita ad ottenere), e non costituente una modifica del contratto anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza del 26 novembre 2015, causa C-326/14). In ultimo, Sk. ha dedotto di aver aggiunto nel Pacchetto Calcio i contenuti di "Sk. Sport Football" e di aver aumentato il numero dei campionati di calcio stranieri trasmessi e le partite delle squadre straniere dei campionati Champions League ed Europa League (punti 41-47 del ricorso in appello). 26. Sk. ha, inoltre, contestato il punto della sentenza in cui il T.A.R. ha fatto riferimento ad una condotta commissiva della Società, consistente nel contattare i clienti tramite i call center, osservando che tale condotta non era stata contestata nel provvedimento ma era stata indicata solo in alcuni punti dell'istruttoria (punti 48-51 del ricorso in appello). 27. Con un ulteriore motivo Sk. ha dedotto l'omesso esame della censura con cui era stata prospettato lo sviamento del potere, in quanto la misura sanzionatoria era stata utilizzata per stigmatizzare, in sostanza, l'assetto contrattuale previsto, non considerando, inoltre, come la riduzione del canone non potesse ritenersi imposta (trattandosi di aspetto relativo al prezzo e, quindi, all'equilibrio economico del sinallagma), e come andasse, comunque, rispettata la libertà di iniziativa economica. Secondo Sk., l'A.G.C.M. avrebbe utilizzato le previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice per sanzionare l'applicazione di un prezzo e la previsione di un costo di recesso, ascrivendosi poteri manifestamente estranei alla propria sfera di attribuzioni. 28. Sk. ha prospettato al Collegio un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, nell'ipotesi di mancata condivisione delle censure sin qui esposte. In particolare, la Società ha chiesto di sottoporre alla Corte la seguente questione: "Se gli artt. 2, lett. j), 8 e 9 della Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debbano essere interpretati nel senso che ostano a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di limitare la possibilità del professionista di decidere autonomamente la propria politica dei prezzi, imponendogli la determinazione di prezzi congrui o proporzionati rispetto ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, anche considerata la libera determinazione dei prezzi nel mercato in questione" (punto 58 del ricorso in appello). 29. Sk. ha articolato un ulteriore motivo con il quale ha dedotto l'erronea interpretazione della nozione di indebito condizionamento, che la sentenza di primo grado ha ritenuto sussistente affermando che erano state poste in essere sia condotte commissive (poste in essere dai "call center"), che condotte omissive (in relazione allo sfruttamento dell'esclusiva detenuta su 7 partite su 10 e all'omessa riduzione del canone a fronte della modifica unilaterale dell'offerta). La Società ha osservato che l'indebito condizionamento comporta: i) la sussistenza di una situazione di potere rispetto al consumatore, qualificata da circostanze aggiuntive (in fatto o in diritto) che rendano il consumatore particolarmente vulnerabile rispetto al professionista; ii) lo sfruttamento di tale posizione da parte del professionista; iii) l'idoneità di tale condotta a limitate notevolmente la capacità negoziale del consumatore medio. Nel caso di specie, la sentenza avrebbe ritenuto integrato un indebito condizionamento da una mera omissione, non da sola idonea ad essere ricondotta nella fattispecie di riferimento secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, che ha, invece, richiesto la sussistenza di comportamenti positivi suscettibili di limitare la libertà di scelta del consumatore (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 11 maggio 2012, n. 14), o, comunque di una condotta fortemente invasiva per le pressioni in cui consiste (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763). Questa configurazione sarebbe stata confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (che ha fatto riferimento a un condizionamento che "comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore"; Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17), e dalla Commissione europea negli orientamenti per l'attuazione della Direttiva del 2005, ove è stato ribadito che, "per qualificarsi come aggressiva e sleale, una pratica commerciale non deve soltanto condizionare la decisione di natura commerciale del consumatore, ma anche essere attuata facendo ricorso a modalità specifiche"; "ciò significa che una pratica aggressiva deve consistere in un comportamento attivo del professionista (molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento) che limiti la libertà di scelta del consumatore". 29.1. A margine del motivo Sk. ha prospettato un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia in caso di mancata condivisione dei propri argomenti difensivi. Ha chiesto, quindi, di sottoporre alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quale quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di ritenere che la nozione di indebito condizionamento costituisca una fattispecie di chiusura e per l'effetto possa includere anche condotte meramente omissive, quale l'omessa riduzione del prezzo applicato ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi o l'omessa deroga a norme contrattuali sul recesso liberamente e consapevolmente accettate dal consumatore, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, previste nelle condizioni contrattuali". 30. I motivi sono fondati per le ragioni di seguito esposte. 30.1. Occorre, in primo luogo, evidenziare come la sentenza di primo grado abbia fatto riferimento alle condotte - certamente di natura commissiva - che sarebbero state poste in essere dagli operatori dei "call-center" (punto 17.3.1). Secondo la sentenza queste condotte sarebbero consistite nel contattare il consumatore e nel somministrare allo stesso false informazioni al solo scopo di far rivedere la decisione di recedere dal contratto. 30.2. Osserva, invero, il Collegio come queste condotte non siano state oggetto di una specifica istruttoria da parte dell'Autorità e non siano state neppure menzionate nella parte del provvedimento relativa alle valutazioni dell'A.G.C.M. sulla condotta. Riferimenti all'operato dei "call center" compaiono, in primo luogo, al paragrafo 28, ove l'Autorità ha esposto che le evidenze acquisite in corso di istruttoria avevano mostrato come numerosi clienti che avevano scelto il pacchetto Sk. Ca. fossero stati convinti di poter disporre anche per il biennio 2018/19 dell'offerta originariamente scelta, completa di tutta la serie A e di tutta la serie B, anche in considerazione del costo invariato. Questa circostanza era emersa "da alcune delle segnalazioni pervenute, in base alle quali clienti che da molti anni erano abbonati al pacchetto Sk. Ca., in alcuni casi dopo aver in un primo tempo effettuato la disdetta ed essere stati ricontattati da Sk., (avevano) rinnovato il contratto in considerazione delle ampie rassicurazioni in merito all'identità dei contenuti dell'offerta e dei costi ricevute da parte del servizio clienti della Società che li aveva contattati". In secondo luogo, l'Autorità ha esposto, al paragrafo 29, che altri abbonati avevano evidenziato "il condizionamento subì to ad opera del professionista che li (aveva) posti di fronte a due alternative, entrambe svantaggiose: mantenimento del contratto con i relativi addebiti o recesso dal contratto a titolo oneroso"; in particolare, secondo l'Autorità, Sk. aveva richiesto a coloro che avevano provveduto ad effettuare la disdetta dal contratto il pagamento di penali per il recesso anticipato e/o la perdita delle condizioni vantaggiose connesse a offerte sottoscritte in promozione, non tenendo conto che la risoluzione anticipata del contratto era stata determinata da una modifica dei contenuti del pacchetto e non da una libera scelta del cliente. 30.3. In relazione a tali condotte non vi sono, tuttavia, indicazioni nel provvedimento in ordine all'istruttoria compiuta al fine di verificare se quanto riferito dai segnalanti fosse realmente accaduto. Le circostanze riferite da alcuni consumatori non sono state, quindi, verificate da parte dell'Autorità e, anche volendo ritenere queste indicazioni parti dell'accertamento che ha sorretto la misura sanzionatoria, si riscontra, comunque, un deficit istruttorio in parte qua che non consente di ritenere provati tali elementi fattuali. 30.4. Depurata la condotta materiale da elementi non sorretti da evidenze, la stessa si riduce, in sostanza, all'ipotesi (che verrà di seguito verificata) di "aver privato il consumatore della possibilità di effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto rispetto a quanto era stato originariamente sottoscritto, imponendogli o di subire gli addebiti dei costi mensili, tra l'altro in misura invariata, relativi a tale pacchetto, oppure di recedere dal contratto a titolo oneroso" (par. 40 del provvedimento). Tale condotta è, del resto, la pratica su cui si sono soffermate le valutazioni dell'Autorità, come compendiate nella parte iniziale di questa sezione della presente sentenza. 30.5. La disamina che deve essere effettuata consiste, quindi, nel verificare se tale condotta possa ricondursi alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, che ha costituito il parametro normativo individuato dall'Autorità per affermare il carattere scorretto della pratica. Tale notazione - apparentemente lapallissiana - ha, invero, rilievo esiziale, in quanto oggetto necessario del presente giudizio è quello di verificare la correttezza dell'operazione logico-giuridica che ha portato l'Autorità a riscontrare nella condotta una pratica commerciale qualificabile aggressiva e, quindi, sanzionabile ai sensi delle disposizioni del Codice del Consumo. Non spetta, invece, al Collegio valutare la liceità o legittimità di tale condotta alla luce di previsioni differenti, anche di settore, che non hanno costituito il parametro normativo su cui si è fondato il potere sanzionatorio dell'Autorità . La rilevanza di tale premessa si coglierà, con chiarezza, nella trama argomentativa che sorregge il giudizio del Collegio. 30.6. Entrando in medias res, va osservato che, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la valutazione della pratica commerciale deve essere effettuata tendono conto "delle circostanze del singolo caso in questione", e, quindi, prendendo in considerazione "tutte le caratteristiche del comportamento del professionista in quel dato contesto fattuale". Di conseguenza, una pratica commerciale può essere qualificata come aggressiva, ai sensi della direttiva 2005/29, soltanto al termine di una valutazione concreta e specifica dei suoi elementi, effettuando una disamina alla luce dei criteri enunciati agli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29. Inoltre, la nozione di indebito condizionamento consiste nello sfruttamento di una posizione di potere nei confronti del consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole. Un indebito condizionamento non è necessariamente un "condizionamento illecito, bensì un condizionamento che, fatta salva la sua liceità, comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore" (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). 30.7. Incentrando, quindi, l'attenzione sul caso concreto non può omettersi di considerare come la pratica contestata sia stata posta in essere - secondo l'Autorità - con riferimento ai consumatori già titolari del Pacchetto Calcio, e, quindi, a soggetti legati al professionista da un vincolo contrattuale, la disamina del cui contenuto risulta, quindi, particolarmente rilevante per valutare la condotta di Sk.. Nelle condizioni generali di abbonamento Sk. aveva previsto che i Pacchetti sarebbero stati soggetti a modifiche dei canali e/o dei contenuti, in relazione ai diritti di cui Sk. sarebbe stata titolare di volta in volta (art. 6.2, lett. ii)). Questa regola era consequenziale alla tipologia del servizio offerto e, in particolare, alla necessità per il professionista di adeguare l'offerta a seconda dei diritti audiovisivi acquistati. Nel caso del Pacchetto Calcio non era stata prevista, quindi, l'immutabilità dell'offerta atteso che i diritti dovevano essere acquistati da Sk. all'esito di gare indette dalla Lega Calcio. In relazione al Pacchetto in esame, la variazione era stata consequenziale agli esiti della gara indetta dalla Lega e, quindi, i contenuti dello stesso erano mutati per tale ragione fattuale. Del resto, proprio in ragione del meccanismo descritto la Società non avrebbe potuto assicurare l'invarianza dei contenuti del Pacchetto, che è sempre soggetto a modificazioni in peius o anche in melius, a seconda dei diritti acquisiti da Sk.. 30.8. Collocando, quindi, il primo tassello rilevante per la vicenda in esame deve affermarsi che la modificazione era stata prevista dal contratto e che i contenuti concreti del Pacchetto erano necessariamente a "geometria variabile", dipendendo dai diritti acquistati. L'invarianza del Pacchetto avrebbe, certamente, costituito, in astratto, l'optimum per il consumatore e anche per la stessa Società, perché avrebbe postulato l'aggiudicazione di tutte le partite oggetto della gara, ma tale situazione ottimale non era, comunque, realizzabile in considerazione di quanto disposto dall'articolo 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008. 30.9. Dinanzi al diverso scenario determinatosi dopo la gara della Lega Calcio, erano possibili varie opzioni per il consumatore, previste dalle condizioni generali di abbonamento. In particolare, il consumatore avrebbe potuto: i) mantenere il contratto, nonostante la variazione dei contenuti del Pacchetto derivante dalle circostanze sopra esposte; ii) effettuare il c.d. "downgrade" del Pacchetto, consistente nel mantenimento dell'abbonamento per il Pacchetto Base (Sk. TV) e nell'eliminazione del solo Pacchetto Calcio, con riduzione corrispondente del canone; iii) recedere dal contratto corrispondendo i costi per il recupero del decoder (non previsti in caso di recesso al momento della scadenza contrattuale) e l'importo degli sconti fruiti in caso di mancato rispetto dei termini di durata minima del contratto previste dalla singole offerte promozionali. 30.10. Le opzioni previste dal contratto di abbonamento che, in assenza di ulteriori circostanze, hanno sostanziato la pratica attuata da Sk. non sono idonee a configurare, valutare sotto la lente delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, un indebito condizionamento nei termini sopra precisati dalla Corte di Giustizia. 30.11. Come spiegato in apertura il dato rilevante non è costituito dalla conformità o meno della condotta alle normative di settore ma la possibilità di definirla come pratica commerciale aggressiva, realizzata mediante un indebito condizionamento. Procedendo con ordine si osserva, in primo luogo, come si tratti, in ogni caso, di possibilità delle quali il consumatore era stato informato, trattandosi di specifiche clausole contrattuali dallo stesso sottoscritte. In secondo luogo, occorre osservare come il mantenimento del Pacchetto a costi invariati era una possibilità non soltanto prevista dal contratto ma conseguente al meccanismo di acquisizione dei diritti. In relazione a questa possibilità l'A.G.C.M. ha enfatizzato la circostanza che Sk. aveva "imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto" (par. 51 del provvedimento). Ma questa situazione, lungi dal costituire una imposizione, non era altro che la conseguenza della modificazione dei diritti acquistati da Sk. e, quindi, dei contenuti del Pacchetto, ed era situazione espressamente prevista dalla clausola contrattuale richiamata. Ora, se è vero che il condizionamento indebito non è necessariamente illecito (e, quindi, può configurarsi in astratto anche laddove sia conforme a precetti normativi e/o a vincoli contrattuali), per poterne predicare la sussistenza, è, comunque, necessario che sia posto in essere un comportamento attivo che si sostanzi in una pressione della volontà del consumatore (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). Il mero mantenimento del Pacchetto pur a prezzi invariati non costituisce, tuttavia, una pressione per il consumatore, il quale continua a fruire del Pacchetto, pur con i diversi contenuti determinati in ragione dei diritti acquisiti, e, comunque, secondo un meccanismo accettato dallo stesso consumatore al momento della sottoscrizione e aderente alle caratteristiche del prodotto acquistato. 30.12. Nel stigmatizzare tale condotta il Giudice di primo grado ha evidenziato come fosse necessaria una riduzione dei costi a fronte della significativa modificazione dei Pacchetti. Deve, però, osservarsi che una simile conclusione postulerebbe, a rigore, l'affermazione dell'astratta invalidità della clausola contrattuale in parola e la sua sostituzione con una diversa regola negoziale che comporti la variazione del canone ad ogni variazione in peius (ma, per coerenza logica, anche in melius) dei contenuti del Pacchetto, e, quindi, l'inserzione di una diversa regola contrattuale per non ritenere il comportamento - a valle del contratto - suscettibile di configurare una pratica aggressiva. Questa situazione è stata considerata dal T.A.R. la regola ottimale per il consumatore ma, pur ipotizzando la correttezza di questo assunto, il giudizio espresso non tiene conto del differente assetto negoziale accettato dalle parti. 30.12.1. La tesi del T.A.R. si traduce in un'operazione di adeguamento negoziale che è, tuttavia, condotta attraverso uno strumento diverso da quelli conferiti dall'ordinamento per assicurare la c.d. "giustizia contrattuale" (nelle plurime figure che possono ricondursi nell'alveo di questa formula), ivi compresi i casi in cui si ammette anche un intervento diretto sul contenuto economico del contratto. In sostanza, questa operazione di "Anpassung" (per mutuare il termine utilizzato anche dalla dottrina civilistica italiana per ricomprendere i vari fenomeni di adeguamento del contenuto contrattuale, anche in ragione di possibili sopravvenienze) viene attuato mediante uno strumento sanzionatorio che, tra l'altro, non si dirige a situazioni di abuso nella contrattazione (e, quindi, di abuso della libertà contrattuale da parte del professionista con conseguente sindacato sulla clausola negoziale che di tale abuso è espressione), ma si limita a predicarne il carattere di scorrettezza sotto la diversa lente degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. La stigmatizzazione di questa condotta (o di questo segmento della complessiva condotta) - abilitata dal contratto ed imposta anche dal sistema del mercato dei diritti audiovisivi - si traduce, per le ragioni sin qui indicate, in uno sviamento nell'esercizio del potere sanzionatorio che è impropriamente utilizzato per sindacare, in sostanza, un segmento del complessivo assetto negoziale, la cui "ingiustizia" potrebbe, in astratto, affermarsi ricorrendo ai diversi strumenti e rimedi che l'ordinamento conferisce, e non certo mediante una sanzione come quella applicata, la quale, tra l'altro, lascia inalterato l'assetto contrattuale che, invece, i rimedi evocati dal Collegio consentono di adeguare. 30.12.1. Inoltre, pur ritenendo in via di mera ipotesi possibile il ricorso al meccanismo prescelto dall'Autorità, difetterebbero, comunque, i presupposti per ritenere integrato un indebito condizionamento. La clausola in esame non è, infatti, ex se idonea a configurare una condotta di indebita pressione sul consumatore, né ove atomisticamente considerata e né valutando il comportamento complessivo provato dall'Autorità (espunte, quindi, le condotte non sorrette da evidenze), come si esporrà nel prosieguo della presente sentenza. 30.13. Del pari, non è predicare un indebito condizionamento nell'aver consentito, in alternativa al mantenimento del contratto a prezzi invariati ma con contenuti limitati, il "downgrade" del Pacchetto e il recesso dall'abbonamento. 30.14. La prima ipotesi consente, infatti, al consumatore di eliminare il Pacchetto Calcio, con riduzione del canone e con l'eventuale pagamento di costi di gestione (art. 6.1, lett. ii) delle condizioni di abbonamento). Questa possibilità non è stata, invero, congruamente esaminata né dal provvedimento né dalla sentenza di primo grado. Si tratta di una modalità che, in sostanza, esclude costi di recesso e consente il mantenimento degli altri pacchetti, con la riduzione del canone. A questa modalità può, in ipotesi, estendersi la valutazione critica del T.A.R. nella parte in cui ha osservato come il recesso avrebbe, comunque, precluso la visione del 70 per cento delle partite di Serie A; situazione che si sarebbe verificata anche esercitando il "downgrade" del Pacchetto Calcio, e che, per completezza di valutazioni, deve essere, quindi, esaminata dal Collegio. 30.14.1. Deve, però, evidenziarsi come simili considerazioni postulano che, per escludere il carattere aggressivo della condotta, dovrebbe ipotizzarsi, in alternativa, il mantenimento dei precedenti contenuti a costi invariati - non realizzabile per le ragioni esposte supra in relazione agli esiti della gara - o la rimodulazione del canone in ragione del mutamento dei contenuti, che, tuttavia, riconduce questa soluzione alla situazione in precedenza esaminata (punti 30.12 ss. della presente sentenza) e, quindi, alle motivazioni ivi esposte, alle quali può rinviarsi evitando una inutile duplicazione. Inoltre, anche in tal caso, la condotta - esaminata sia isolatamente che congiuntamente alla possibilità di mantenere il contratto a costi invariati - non si sostanzia in uno sfruttamento di una posizione di potere idonea a limitare notevolmente la liberta negoziale del consumatore medio. Nel caso concreto il consumatore avrebbe potuto, comunque, mantenere il contratto, integrando i contenuti con i c.d. tickets DAZN, che, tra l'altro, avevano condizioni dedicate per gli abbonati Sk.. Pertanto, l'abbonato particolarmente appassionato di Calcio (e che, come tale, avrebbe ritenuto insufficienti le 7 partite su 10 del pacchetto) avrebbe, comunque, potuto agevolmente ottenere una visione di tutte le partite di calcio, seppur, certamente, con costi ulteriori rispetto al passato; ma l'entità di tali costi non è stata accertata dall'Autorità e, quindi, è stata omessa la verifica di un tassello, comunque, astrattamente importante per verificare la complessiva condotta, che, invece, allo stato di quanto effettivamente accertamento dall'A.G.C.M., non può ritenersi idonea ad integrale una pratica aggressiva. 30.15. In ultimo, l'abbonato avrebbe potuto ritenere privo di interesse un Pacchetto limitato e, quindi, recedere dal contratto. L'Autorità ha evidenziato come si sarebbe trattato di un recesso oneroso e proprio l'onerosità di tale recesso ha assunto peculiare rilievo nella logica del condizionamento subito dal consumatore. Deve, tuttavia, osservarsi come le condizioni generali di abbonamento avevano previsto che, in caso di recesso anticipato, sarebbe stato necessario rimborsare i costi per il recupero del decoder, quantificati in euro 11,53, e corrispondere l'importo degli sconti fruiti non rispettando i termini di durata del contratto previsto dalle singole offerte promozionali. Come spiegato in apertura non è compito del Collegio verificare la legittimità o meno di tali previsioni alla normativa di riferimento anche di carattere settoriale, ma accertare, al contrario, se questa situazione - complessivamente valutata - possa integrare un indebito condizionamento. 30.15.1. Invero, deve osservarsi, in primo luogo, come si tratti, anche in tal caso, di clausole negoziali che non sono valutate sotto la lente dei differenti strumenti volti a censurare l'abuso della libertà nella contrattazione, ma solo per l'effetto di condizionamento sul consumatore che sarebbero state idonee a creare. Inoltre, questa posizione di potere ravvisata dall'Autorità non è stata qualificata da ulteriori circostanze che abbiano reso il consumatore particolarmente vulnerabile. Questo effetto non può, inoltre, ritenersi derivante né dalla clausola ex se, né dalla portata/incidenza della clausola nella vicenda fattuale complessivamente presa in considerazione. Infatti, non è ravvisabile un condizionamento derivante dalla necessità di corrispondere i costi di gestione che sono pari a 11,53 euro, a fronte di un costo di abbonamento annuo pari a euro 480,00, con incidenza pari al 2,40 per cento rispetto al costo del canone. Risulta, quindi, arduo ipotizzare che, a fronte del dovere di sostenere questa spesa di minima entità, il consumatore sia stato condizionato a mantenere il Pacchetto che aveva costi ben più elevati. 30.15.2. Un diverso discorso deve effettuarsi in relazione all'obbligo di corrispondere gli importi connessi alle promozioni in precedenza ricevute. Come evidenziato da questo Consiglio, l'offerta promozionale e, quindi, a prezzo ridotto, e per la quale le parti accettano una durata minima, ha un contraltare posto a tutela del professionista ("che ha fatto affidamento su un arco temporale di vigenza del rapporto contrattuale per coprire i costi sostenuti e realizzare il corrispettivo che gli è dovuto in ragione della controprestazione offerta"), e che consiste nella possibilità di "recuperare, al momento del recesso anticipato, quanto il ripensamento legittimo dell'utente non gli ha consentito di ottenere". In tal caso, il contratto ha una "sua intrinseca e sostanziale natura sinallagmatica, nel senso che l'impegno di non recedere prima di una certa data è il "prezzo" che, di fatto, l'utente paga al fine di godere del vantaggio rappresentato dallo sconto sui servizi acquistati". Una diversa soluzione comporta "il travolgimento dell'equilibrio sinallagmatico su cui si base l'offerta promozionale, finendo, in definitiva, per mortificare l'autonomia negoziale delle parti in nome di una iperprotezione dell'utente - da tutelare sempre e comunque, anche in assenza di profili di possibile abuso - che certamente trascende gli obiettivi perseguiti dal legislatore" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 marzo 2010, n. 1442). L'obbligo di corrispondere gli importi pari alla promozione ricevuta non può ritenersi, quindi, un indebito condizionamento, trattandosi di una regola posta a presidio del sinallagma. Affermare il carattere scorretto di una pratica fondata su una simile clausola significherebbe, infatti, imporre al professionista di alterare l'equilibrio negoziale in proprio danno. Inoltre, questa regola ha operato nel caso di specie solo per alcune categorie di abbonati e, nel provvedimento impugnato, non è stata effettuata alcuna quantificazione né del numero di abbonati coinvolti né dei costi medi di tale operazione, e neppure della effettiva incidenza di questa clausola in relazione alla pratica contestata, con ulteriore carenza di prova su un aspetto rilevante della vicenda complessiva. 30.16. In ragione di quanto esposto i motivi di appello sin qui esaminati sono fondati e, pertanto, in riforma della sentenza di primo grado deve essere annullato il provvedimento dell'A.G.C.M. in relazione alla condotta sub b). E. SUL TRATTAMENTO SANZIONATORIO: TERZO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO. 31. Con il terzo motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto le censure articolate in primo grado, in relazione al trattamento sanzionatorio comminato dall'Autorità . 32. Prima di procedere all'illustrazione delle censure occorre osservare come l'annullamento del provvedimento nella parte relativa alla pratica sub b), comporti la possibilità di assorbire le deduzioni relative a tale pratica. 33. Incentrando l'attenzione sulla condotta sub a), si osserva che il provvedimento aveva osservato che: i) con riguardo alla gravità della violazione occorreva tener conto del profilo di ingannevolezza che aveva contraddistinto l'attività promozionale di Sk., fondata sulla mancata evidenziazione delle caratteristiche principali del prodotto; ii) inoltre, occorreva tener conto della dimensione economica del professionista, del suo livello di notorietà in ambito nazionale, in quanto leader nel settore dei servizi televisivi via satellite in Italia, dell'ampiezza di diffusione della pratica, realizzata attraverso il web e la televisione; iii) la durata della violazione doveva computarsi tenendo conto della data del primo messaggio e fino dalla data dell'ultimo messaggio. In ragione di tali circostanze, l'Autorità aveva determinato la sanzione in euro 3.000.000,00, per la condotta sub a), tenendo conto anche della recidiva della Società . 34. Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha fatto riferimento all'incidenza della sanzione sul fatturato di Sk. e ai profitti che la Società si sarebbe presumibilmente procurata, effettuando un calcolo che Sk. ha ritenuto errato e arbitrario. 34.1. Osserva il Collegio come il riferimento al fatturato dell'impresa sia corretto atteso che la previsione di cui all'art. 27 del D.Lgs. n. 206/2005 rinvia alla regola di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, che impone, ex aliis, di tener conto delle condizioni economiche del soggetto agente. 34.2. In relazione al computo effettuato dal T.A.R. (contestato ai punti 66 e 67 del ricorso in appello), il Collegio osserva come si tratti di aspetti che non sono stati posti a fondamento della decisione, con la conseguenza che è corretto l'assunto di Sk., la quale ha evidenziato come la sentenza avesse, in sostanza, sostituito in parte qua il provvedimento. 34.3. In ogni caso, la sanzione irrogata dall'A.G.C.M. risulta congrua, in considerazione dei vari elementi esposti nel provvedimento. Infatti, declinando i criteri di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, si osserva che: i) la violazione deve ritenersi, effettivamente, grave, trattandosi di condotte ingannevoli e che sono state poste in essere nei confronti di una tipologia di consumatore, le cui scelte sono mosse anche dalla passione, e che, quindi, risulta maggiormente influenzabile; ii) non sono state dedotte azioni per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze della violazione; iii) l'agente è una Società di rilievo primario, leader nel settore dei servizi televisivi via satellite; iv) la condotta è stata posta in essere mediante mezzi di comunicazione capaci di raggiungere una vasta platea di consumatori; v) le condizioni economiche dell'agente sono state correttamente valutate, tenendo conto che si tratta di un soggetto che, al 30.6.2018, aveva un fatturato pari a circa 3 miliardi di euro. 34.4. Parimenti infondato è il motivo relativo al computo della durata della pratica, che la Società pretenderebbe di limitare ai soli giorni di diffusione del messaggio. Simile prospettazione non tiene conto dell'effetto decettivo della condotta che non si esaurisce nel solo giorno di pubblicazione del messaggio da parte del consumatore, con la conseguenza che il termine finale della condotta è stato determinato in modo persino favorevole alla Società stessa. 35. In ragione delle considerazioni sin qui esposte non si rinvengono i presupposti per la riduzione in parte qua della sanzione, ai sensi dell'art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a., tenendo conto anche dell'annullamento del provvedimento in relazione alla condotta sub b), e dell'intervenuto annullamento della sanzione irrogata dall'A.G.Com. F. STATUIZIONI FINALI. 36. Alla luce di quanto sin qui esposto, il ricorso in appello deve essere accolto limitatamente alla parte relativa al capo di sentenza relativo alla pratica sub b), e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il provvedimento impugnato deve essere annullato ai sensi e nei limiti indicati. 37. Si precisa che le questioni esaminate e decise esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 38. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate in ragione della soccombenza reciproca delle parti. 39. Va invitata la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazione in ragione delle motivazioni esposte nella decisione in relazione all'insussistenza dei presupposti del ne bis in idem. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: i) lo accoglie in parte, e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annulla il provvedimento impugnato nella sola parte relativa alla condotta sub b), e, comunque, nei sensi e nei limiti indicati in motivazione; ii) compensa tra le parti le spese di lite del doppio grado di giudizio; iii) invita la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. ACETO Aldo - Relatore Dott. DI STASI Antonella - Consigliere Dott. MACRÌ Ubalda - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Zu.Ma., nato a M il (omissis); avverso l'ordinanza del 10/11/2023 del TRIBUNALE di MILANO; udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO; lette le richieste del PG, RAFFAELE PICCIRILLO, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni dell'AVV. DA.TO., difensore della parte civile COMUNE DI MILANO, che ha chiesto che il ricorso venga rigettato o dichiarato inammissibile. RITENUTO IN FATTO 1. Il sig. Zu.Ma. ricorre per l'annullamento dell'ordinanza del 10 novembre 2023 del Tribunale di Milano che, accertata la diversità del fatto rispetto a quello descritto nell'imputazione, ha disposto la restituzione degli atti alla Procura della Repubblica di Milano per quanto di competenza. 1.1. Con unico motivo deduce l'abnormità dell'ordinanza impugnata. Lamenta, in particolare, che secondo quanto emerso dall'istruttoria dibattimentale (e secondo quanto risulta dalla lettura della stessa ordinanza impugnata) egli avrebbe dovuto essere assolto piuttosto che (testualmente) esser lasciato "tra coloro che son sospesi" in attesa delle eventuali determinazioni del pubblico ministero, non essendo la sua impresa produttrice (e dunque titolare) dei rifiuti illecitamente smaltiti, essendosi egli limitato a segnalare al committente dei lavori, e su richiesta di questi, il soggetto incaricato del trasporto (non abilitato allo smaltimento) nell'erronea convinzione che il materiale dovesse solo essere spostato da una struttura alberghiera ad un'altra e non smaltito illecitamente. Esclusa la diversità del fatto storico contestato rispetto a quello ritenuto (non potendosi ritenere tale il possibile concorso di altra persona nel reato), l'ordinanza impugnata ha comportato l'indebita regressione del procedimento, restituito alla fase delle indagini preliminari con conseguente abnormità dell'ordinanza stessa. 2. Il Comune di Milano, parte civile costituita nel processo a carico del ricorrente, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile o che venga comunque rigettato, con vittoria di spese. 3. Il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Premesso che: 2.1. il ricorrente è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 81, 110 cod. pen., 256, comma 1, lett. a) e b), comma 2, D.Lgs. n. 152 del 2006, in concorso con gli autori materiali dell'abbandono dei rifiuti (tali Fe. e Sa.); 2.2. gli si imputa, in particolare, di aver provveduto all'illecita gestione di rifiuti pericolosi e non pericolosi, prodotti a seguito di lavori di manutenzione da lui eseguiti presso una struttura alberghiera, affidandoli per lo smaltimento ad un soggetto privo di autorizzazione alla raccolta ed al trasporto dei rifiuti (il Fe.) che, con l'ausilio di altra persona (il Sa.), li abbandonava su un'area a fondo naturale all'interno del parco Agricolo Sud di Milano; 2.3. all'esito dell'istruttoria dibattimentale, il Tribunale ha ritenuto la radicale diversità del fatto rispetto a quello contestato sul rilievo che: a) l'impresa produttrice dei rifiuti era altra (la Energy Advice Group, legalmente rappresentata da tal Am.Si.), cui competeva anche lo smaltimento dei rifiuti; b) l'Am.Si. non aveva subappaltato lo smaltimento dei rifiuti all'odierno ricorrente; c) questi si era limitato a segnalare il nominativo del trasportatore dei rifiuti; d) in conclusione: l'attività di smaltimento dei rifiuti pericolosi è stata gestita dall'Am.Si. tramite il trasportatore Fe. indicato dallo Zu.Ma. 5. Tanto premesso, osserva il Collegio: 5.1. la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati. Così recita l'art. 568, comma 1, cod. proc. pen., che fissa il principio della tipicità e tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei relativi mezzi di impugnazione, secondo il quale: a) non è possibile impugnare un provvedimento se la legge non lo consente espressamente; b) non è possibile impugnare un provvedimento con un mezzo diverso da quello espressamente previsto. E tuttavia, l'art. 111, comma settimo, Cost., consente sempre il ricorso per cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali. L'art. 568, comma 2, cod. proc. pen., codifica il principio stabilendo, a sua volta, che sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell'art. 28. La giurisprudenza di legittimità ne ha tratto argomento per dar corpo, già in costanza del precedente codice di rito, alla figura dei provvedimenti ed. abnormi, astrattamente non impugnabili in base al principio di tassatività e tipicità dei mezzi di impugnazione e tuttavia ricorribili per cassazione; 5.2. la figura dell'abnormità dei provvedimenti del giudice - spiega la Suprema Corte (Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Tarantelli) - rappresenta il risultato di una lunga elaborazione giurisprudenziale con cui - a partire dall'entrata in vigore del codice del 1930 - è stata creata, accanto a quella tradizionale della invalidità, la categoria del provvedimento abnorme. L'intento dichiarato di tale operazione di integrazione normativa è stato quello di introdurre un correttivo al principio della tassatività dei mezzi di impugnazione, nel senso che si è inteso apprestare il rimedio del ricorso per cassazione contro quei determinati provvedimenti che, pur non essendo oggettivamente impugnabili, risultino, tuttavia, affetti da anomalie genetiche o funzionali così radicali da non poter essere inquadrati in alcuno schema legale e da giustificarne la qualificazione dell'abnormità. Il ricorso per cassazione costituisce, pertanto, "lo strumento processuale utilizzabile per rimuovere gli effetti di un provvedimento che, per la singolarità e la stranezza del suo contenuto, deve essere considerato avulso dall'intero ordinamento giuridico" (cfr. Sez. Un., 9 maggio 1989, Goria). In mancanza di una definizione legislativa, la giurisprudenza della Suprema Corte ha configurato il paradigma del provvedimento abnorme ponendone in risalto i caratteri salienti nel fatto che esso si discosta e diverge non solo dalla previsione di determinate norme ma anche dall'intero sistema organico della legge processuale, tanto da porsi come atto insuscettibile di ogni inquadramento normativo e da risultare imprevisto e imprevedibile rispetto alla tipizzazione degli atti processuali compiuta dal legislatore (Sez. 3, 9 luglio 1996 P.M. in proc. Cammarata; Sez. 1, 19 maggio 1993, La Ruffa ed altro; Sez. 6, 19 novembre 1992, Bosca; Sez. 5, 22 giugno 1992, P.M. in proc. Zinno). In altre decisioni è stato precisato che è abnorme non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell'ambito dell'ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite (Sez. 3, 21 febbraio 1997, Cazzaniga ed altro; Sez. 1, 11 giugno 1996, P.M. in proc. Settegrana; Sez. 5, 13 gennaio 1994, P.M. in proc. Marino ed altro). Nella ricerca degli elementi qualificanti la figura del provvedimento abnorme è stato altresì stabilito che l'atto abnorme rappresenta un'evenienza del tutto eccezionale essendo emesso in assoluta carenza di potere, oltre che con radicale divergenza dagli schemi e dai principi ispiratori dell'ordinamento processuale (Sez. 6, 30 settembre 1993, Russo ed altro), e che l'abnormità inerisce soltanto a quei provvedimenti che si presentano avulsi dagli schemi normativi e non anche a quelli che, pur essendo emessi in violazione di specifiche norme processuali, rientrano tra gli atti tipici dell'ufficio che li adotta (Sez. 2, 10 aprile 1995, P.M. in proc. Saraceno). Inoltre, è stato posto in luce che l'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché, per la sua singolarità, si pone fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur non estraneo al sistema normativo, determina la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (Sez. 3, 14 luglio 1995, P.M. in proc. Beggiato ed altri; Sez. 5, 11 marzo 1994, P.M. in proc. Luchino ed altro). L'assenza di criteri omogenei e uniformi di identificazione dei caratteri distintivi del provvedimento abnorme ha contribuito ad una progressiva estensione di tale categoria alla quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto ricorso per rimuovere situazioni processuali "extra ordinem" - altrimenti non eliminabili - create da provvedimenti del giudice inficiati da anomalie genetiche o funzionali che ne impediscono l'inquadramento nei tipici schemi normativi e li rendono incompatibili cori le linee fondanti del sistema processuale. È opportuno, poi, osservare che il legislatore del 1988, pur prendendo atto del diritto vivente e della flessibilità inerente alla nozione di provvedimento abnorme, ha preferito astenersi da qualsiasi diretto intervento normativo, motivando la scelta dell'esclusione di una espressa previsione dell'impugnazione dei provvedimenti abnormi con "la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l'esistenza e di fissarne le caratteristiche ai fini della impugnabilità. Se infatti, proprio per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque l'esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall'ordinamento" (Relazione al prog. prel., pag. 126). Delineata nei termini sopra indicati la figura del provvedimento abnorme, e rilevato che uno dei suoi tratti essenziali è quello di sottrarsi ad una rigida tipizzazione classificatoria, deve porsi in evidenza che l'abnormità è stata considerata dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione come motivo di deroga al principio di tassatività delle impugnazioni e non anche come ragione che dispensi dall'osservanza delle forme e dei termini ordinari prescritti dalla legge processuale per l'ammissibilità del ricorso per cassazione. L'operatività dei normali termini di decadenza per l'impugnazione dei provvedimenti abnormi è stata affermata sia con riferimento alla disciplina dettata dagli artt. 190 e 199 del codice del 1930 (Sez. 1, 28 aprile 1987, Galloni; Sez. 5, 25 novembre 1983, Corleone; Sez. 4, 11 novembre 1983, Gasparri; Sez. 5, 22 giugno 1983, Podini; Sez. 5, 18 dicembre 1968, Portanova) sia rispetto alla corrispondente normativa posta dagli artt. 569 e 585 del codice vigente (Sez. 5, 3 dicembre 1996, Pavan; Sez. 4, 16 maggio 1995, ric. P.M.; Sez. 1, 28 febbraio 1992, Macedonio) (così, in motivazione, Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Tarantelli, cit.); 5.3. in sintesi: è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l'atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (Sez. U, n. 17 del 10/12/1997 - dep. 1998 - Di Battista; Sez. U, n. 26 del 24/11/1999 - dep. 2000 - Magnani); 5.4. dunque, come ricordato in motivazione da Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, "non si può ricorrere alla categoria dell'abnormità quando l'atto o il provvedimento che si vuole rimuovere rientri nei poteri del Giudice che lo ha adottato, e cioè discende da un potere riconosciuto o attribuito dalla legge, dato che in tal caso nessuna estraneità al sistema può evidenziarsi. Così è nell'ipotesi in cui si faccia valere l'inosservanza di norme che prevedono l'adozione di un determinato atto a date condizioni di fatto, e l'eventuale insussistenza delle stesse ne determina l'illegittimità ma non l'abnormità e, quindi, si tratterà di un provvedimento "contro norma" ma non "extra norma" (...) la configurazione di un atto abnorme non richiede verifica ulteriore rispetto a quella concernente l'assenza di potere del giudice di provvedere, con la conseguenza che il ricorso per cassazione con denuncia di abnormità non può autorizzare la verifica, in sede di legittimità, di un vizio di legge del provvedimento, ex art. 606 comma 1 lett. c) C.P.P., "salvo eludere lo stesso fondamento del concetto di abnormità" e porre nel nulla il principio di tassatività delle impugnazioni" (nello stesso senso, già Sez. U, n. 4 del 31/01/2001, Romano, secondo cui "va peraltro ribadita la rigorosa affermazione giurisprudenziale (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 22.11.2000, P.M. in proc. Boniotti) per la quale il solo fatto che un provvedimento sic! inficiato da una qualsivoglia violazione di legge non ne giustifica, di per sé, l'immediata ricorribilità per cassazione in nome della categoria dell'abnormità, la quale non può essere surrettiziamente utilizzata, dilatandone i confini, al fine di aggirare la preclusione correlata alla tipicità dei mezzi d'impugnazione secondo il dettato degli artt. 568 e 586 del codice di rito, insieme con il principio di tassatività delle nullità stabilito dall'art. 177 stesso codice"); 5.5. più recentemente, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, in fattispecie di dedotta abnormità dell'ordinanza del giudice che, in caso di nullità dell'atto introduttivo del giudizio, aveva restituito gli atti al pubblico ministero, hanno ribadito che il dato dirimente è costituito dal fatto che quando la nullità rilevata attiene alla notificazione della citazione a giudizio, il provvedimento di restituzione degli atti è adottato in chiaro difetto di potere, per la semplice ragione che l'ordinamento processuale, siccome conferisce al giudice il potere di rinnovazione della notifica, al contempo e per necessità logica non può che privarlo del potere di restituzione degli atti all'organo di accusa. Quando è l'attribuzione a mancare difetta il legittimo esercizio della funzione giurisdizionale, con la conseguenza obbligata dall'abnormità del provvedimento. Il provvedimento di regressione in caso di nullità della notificazione della citazione a giudizio rientra nell'area della abnormità strutturale, perché il giudice esercita un potere che non gli è dato, o meglio esercita una attribuzione completamente al di fuori dei casi consentiti, perché il potere, espressamente concessogli, di rinnovare la notificazione implica che il generale potere di disporre la regressione in caso di nullità afferente ad un atto propulsivo non gli è, in tale situazione, riconosciuto. L'abnormità funzionale sollecita, invece, un'indagine sull'atto che si giustifica solo quando non si sia già in grado di cogliere i caratteri dell'abnormità strutturale per carenza di potere in astratto o anche solo in concreto, quando il potere è esercitato in assenza delle condizioni legislativamente poste. Quando un provvedimento causa la stasi processuale, se non si è in grado di individuare le specifiche ragioni normative di un difetto di potere, occorre interrogarsi se il sistema accordi altri rimedi perché, ammoniscono le Sezioni Unite, non va mai dimenticato il carattere eccezionale dell'istituto dell'abnormità (che, proprio per questo motivo, resta pur sempre "residuale"). Se altri rimedi sono possibili, ciò significa che l'ordinamento, pur non regolando la modalità espressiva del potere il cui esercizio ha dato luogo alla stasi, non la disconosce, tanto da aver in sé gli strumenti per fronteggiarla. Quando, invece, non si rinvengono altre vie per porre rimedio all'esercizio di un potere non regolato, neanche implicitamente, dal sistema, perché se il pubblico ministero desse impulso al processo incorrerebbe in un atto nullo, non può che configurarsi l'abnormità di tipo funzionale che, in fondo, è essa stessa rivelatrice di un difetto di potere in capo al giudice che ha emesso l'atto, perché quell'atto, seppure riconducibile in astratto ad una previsione di legge, nella concretezza della singola vicenda si rivela radicalmente incompatibile con la progressione processuale e quindi con la destinazione funzionale che gli è propria. Non si può negare che, nel caso di restituzione degli atti al pubblico ministero per nullità della notificazione della citazione a giudizio, il regresso è disposto in carenza di potere, perché al giudice spetta il potere di rinnovare la notificazione e gli è tacitamente preclusa la modalità di esercizio della potestà decisoria che alla dichiarazione di nullità fa seguire l'ordine di restituzione degli atti al pubblico ministero e quindi la regressione (Sez. U, n. 42603 del 13/07/2023, El Karti, Rv. 285213 - 02); 5.6. in altra fattispecie di dedotta abnormità dell'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare che, investito della richiesta di rinvio a giudizio, aveva disposto, ai sensi dell'art. 33-sexies cod. proc. pen., la restituzione degli atti al pubblico ministero sull'erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio, Sez. U, n. 37502 del 28/04/2022, Scarlini, Rv. 283552 - 01, hanno richiamato (e ribadito) la propria copiosa giurisprudenza secondo la quale è abnorme non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell'ambito dell'ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L'abnormità dell'atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché, per la sua singolarità, si ponga fuori dal sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e la impossibilità di proseguirlo. In questo contesto, la anomala regressione del procedimento ad una fase anteriore nonostante la regolare costituzione del rapporto processuale costituisce sintomo tipico della abnormità dell'atto (vengono citate, Sez. U, n. 19 del 18/06/1993, Garonzi, Rv. 194061; Sez. U, n. 8 del 24/03/1995, Grulli, in motivazione; Sez. U, n. 10 del 09/07/1997, Baldan, Rv. 208220; Sez. U., n. 4 del 31/01/2001, Romano, in motivazione; Sez. U. n. 22807 del 29/05/2002, Manca, Rv. 221999; Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238240). L'indebita regressione - affermano - costituisce un serio vulnus all'ordo processus, inteso come sequenza logico-cronologica ordinata di atti, in spregio dei valori costituzionali dell'efficienza e della ragionevole durata del processo. Tuttavia, come detto, l'indebita regressione costituisce solo un sintomo della natura abnorme dell'atto che l'ha disposta, non un suo predicato esclusivo, dando così atto, la sentenza, della giurisprudenza che ha escluso la natura abnorme dei provvedimenti che hanno erroneamente disposto la regressione del procedimento. E così, non è stato considerato abnorme il provvedimento del giudice del dibattimento che, rilevata l'invalidità della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini di cui all'art. 415-bis cod. proc. pen., in realtà ritualmente eseguita, aveva dichiarato erroneamente la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la trasmissione degli atti al PM, in quanto si tratta di provvedimento che, lungi dall'essere avulso dal sistema, costituisce espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall'ordinamento e che non determina la stasi del procedimento, potendo ili PM disporre la rinnovazione della notificazione del predetto avviso (Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590). L'esigenza è quella di rimarcare la necessità di un inquadramento rigoroso di un istituto che ha caratteri di eccezionalità escludendosi che la nozione possa essere riferita a situazioni di mera illegittimità, considerate altrimenti non inquadrabili e non rimediabili. In tale prospettiva, nel rapporto tra giudice e pubblico ministero, la Sez. U, Toni, cit., ha delimitato l'abnormità strutturale in termini di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall'ordinamento (carenza di potere in astratto) ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo dì modello legale, nel senso di esercizio di un potere previsto dall'ordinamento, ma in una situazione legale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge, cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché al di là di oltre ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto). L'abnormità funzionale, ravvisabile nei casi di stasi del procedimento e di impossibilità di proseguirlo, è stata riferita, dalle Sez. U, Toni, all'ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo, rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo: solo in tali limiti il pubblico ministero può ricorrere, lamentando che il conformarsi al provvedimento minerebbe la regolarità del processo; altrimenti è tenuto ad ottemperare, in un sistema che non ammette la possibilità di conflitto in caso di contrasto tra pubblico ministero e giudice, senza che possa dirsi di per sé caratterizzante dell'abnormità l'effetto della regressione del processo ad una fase precedente. Le Sezioni Unite osservano: viene in rilievo un potere in astratto attribuito al giudice ed esercitato nella sede propria e nel tempo previsto, ma in violazione della concreta disciplini sul riparto dei procedimenti e oltre i limiti consentiti, così da determinare un'alterazione nello sviluppo della sequenza procedimentale; ciò non si traduce solo in una violazione dei principi di rilievo costituzionale, ex art. 111, comma 2, Cost., di efficienza e di ragionevole durata, ma anche in una situazione di stasi, derivante non dal mero fatto della regressione in sé, quanto dall'imposizione al pubblico ministero di un adempimento "contra legem" che dà luogo ad un atto affetto da nullità, rilevabile nel corso del giudizio; il decreto di citazione diretta a giudizio che il pubblico ministero sarebbe "costretto" ad emettere è certamente nullo: l'erronea attribuzione di un processo, infatti, determina un vizio assimilabile alla nullità a regime intermedio, suscettibile di essere rilevata entro precise scansioni temporali; poiché l'udienza preliminare rappresenta uno snodo processuale maggiormente garantito, la cui mancanza produce un evidente, specifico "vulnus" alle facoltà difensive, l'atto propulsivo che ne pretermette lo svolgimento determina una nullità certamente rilevabile nello sviluppo del processo; la mancanza dell'udienza preliminare dà luogo anche ad una grave alterazione della corretta sequenza procedimentale, che concerne, fra l'altro, la competenza funzionale in materia di riti alternativi, oltre a determinare la diretta esposizione delle parti ad una fase processuale connotata da pubblicità, prima del momento in cui il vaglio assicurato dal giudizio demandato al giudice dell'udienza preliminare sia stato svolto; tali considerazioni non valgono invece nell'ipotesi inversa, cioè quella dello svolgimento, pur non previsto, dell'udienza preliminare, la quale costituisce una causa di espansione delle facoltà difensive e la cui fissazione non può di per sé dare luogo ad alcuna nullità, salva la deducibilità con le modalità e nei limiti stabiliti, della relativa questione, al fine di salvaguardare l'assetto normativamente previsto; la centralità del ruolo assunto dallo svolgimento dell'udienza preliminare nella disciplina dedicata dal codice di rito ai vari tipi di patologie che possono verificarsi in sede di riparto di attribuzioni si evince dal fatto che, nel caso di svolgimento dell'udienza preliminare, può porsi solo una questione di riparto delle attribuzioni in senso orizzontale (artt. 33-septies, comma 1, cod. proc. pen.; art. 516, comma 1-bis cod. proc. pen.), essendo prevista invece la trasmissione degli atti al pubblico ministero nei casi in cui sia rilevata la mancata celebrazione dell'udienza preliminare (art. 33-septies, comma 2, cod. proc. pen. e art. 516, comma 1-ter cod. proc. pen.); non possono perciò nutrirsi dubbi sul fatto che la questione del mancato svolgimento dell'udienza preliminare, ove tempestivamente dedotta, possa essere riproposta nel corso del giudizio, anche in sede di impugnazione, pur non essendo specificamente menzionata dall'art. 33-octies, cod. proc. pen.; né possono desumersi argomenti di segno contrario dal disposto dell'art. 33-novies, cod. proc. pen., che esclude l'invalidità degli atti e l'inutilizzabilità delle prove per il solo fatto dell'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale; va invece rilevato come sia stata ribadita l'insussistenza di una nullità nel caso della celebrazione dell'udienza preliminare, seppur non prevista per il reato oggetto del procedimento. In conclusione, in tutti i casi di indebita restituzione degli atti ai sensi dell'art. 33-sexies cod. proc. pen., perché si proceda con citazione diretta a giudizio, ricorre - affermano le Sezioni Unite - almeno un'ipotesi di abnormità funzionale, da cui discende una situazione di stasi, in quanto il provvedimento, di cui non può direttamente ravvisarsi e dichiararsi la nullità, si risolve nell'imposizione di un successivo adempimento, cioè l'atto di impulso consistente nell'emissione del decreto di citazione diretta a giudizio, che è affetto da nullità rilevabile nello sviluppo del processo, nullità che non deve essere inquadrata tra le nullità assolute. Di conseguenza il pubblico ministero, il quale non può opporsi al provvedimento, sollevando conflitto, ha uno specifico interesse alla sua rimozione, non essendo a tal fine sufficiente il meccanismo contemplato dall'art. 550, comma 3, cod. proc. pen., incentrato sulla successiva formulazione dinanzi al giudice del dibattimento di eccezione avente ad oggetto il mancato svolgimento della prevista udienza preliminare. Non si tratta, spiegano le Sezioni Unite, tanto di evitare il relativo, tortuoso meccanismo processuale quanto di prendere atto dell'esigenza di scongiurare l'imposizione di un atto derivante da una patologia processuale e affetto da nullità rilevabile, e del conseguente interesse a ricorrere, correlato all'esigenza di assicurare l'ordinato svolgimento del processo, secondo le cadenze prestabilite, evitando l'adozione di un successivo atto nullo, idoneo ad arrecare pregiudizio alle parti, la cui costituzione nel giudizio dibattimentale si sarebbe potuta prevenire con lo svolgimento dell'udienza preliminare. L'esigenza, annotano le Sezioni Unite, di restringere la nozione di atto abnorme, che fra l'altro può costituire illecito disciplinare del magistrato, non sussiste in questo caso ove si discute di una nozione che assume rilievo tecnico-processuale, mentre la formula usata per definire l'illecito disciplinare fa immediato riferimento ad un'ipotesi di provvedimento emesso in carenza di potere, primariamente produttivo di sviamento della giurisdizione in chiave strutturale, e rinvia più in generale, nella prospettiva deontologica, ad un complessivo giudizio di macroscopicità e di inescusabilità, che, al di fuori di qualsivoglia automatismo, implica la valutazione del caso concreto. 6. Nel caso di specie viene in rilievo la regressione del processo ad una fase precedente all'esercizio dell'azione penale sulla base del dedotto malgoverno dell'art. 521 cod. proc. pen.; in buona sostanza, la regressione non sarebbe giustificata perché non sussiste la radicale diversità del fatto ritenuto dal giudice rispetto a quello contestato dal pubblico ministero con l'editto accusatorio sicché la regressione è ingiustificata. 6.1. Secondo l'autorevole e consolidato insegnamento di questa Corte, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619). 6.2. La diversità del fatto che impone la modifica del capo di imputazione e preclude al giudice di pronunciarsi, imponendogli di restituire gli atti al pubblico ministero, è solo quella che determina una effettiva lesione del diritto al contraddittorio e del conseguente diritto di difesa. Per "fatto" si deve intendere quello storico costituito dalla condotta, dall'evento e dal nesso causale, dalla riferibilità soggettiva della prima e dalla sua realizzazione nelle circostanze di tempo e di luogo date (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799; Sez. 3, n. 21994 del 01/02/2018, Pigozzi, Rv. 273220). 6.3. Non v'è dubbio che, nel caso di specie, l'individuazione di un concorrente nel reato ulteriore e diverso da quelli già indicati dalla rubrica non determina la radicale diversità del fatto contestato. Si è affermato, al riguardo, che non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando, contestato a taluno un reato commesso "uti singulus", se ne affermi la responsabilità in concorso con altri (Sez. 2, n. 22173 del 24/04/2019, Michetti, Rv. 276535 - 01; Sez. 6, n. 21358 del 05/05/2011, Cella, Rv. 250072 - 01; Sez. 6, n. 24438 del 06/05/2005, Rv. 231855 - 01; Sez. 1, n. 2794 del 29/01/1998, Presti, Rv. 210005 - 01); correlativamente, è stata esclusa la violazione del principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata, allorché, contestata a taluno una condotta concorsuale, ne venga, poi, affermata la responsabilità per attività individualmente svolta (Sez. 1, n. 9545 del 10/07/1995, Verme, Rv. 202422 - 01). 6.4. È stato così ritenuto abnorme il provvedimento con cui il giudice dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero rilevando che all'esito dell'istruttoria sia emerso un "fatto diverso", nel caso in cui da detta istruttoria risulti che a concorrere nel reato contestato vi sia stato anche un altro soggetto oltre agli imputati (Sez. 5, n. 17938 del 18/12/2017, Carducci, Rv. 273716 - 01, secondo cui il tribunale avrebbe dovuto limitarsi a trasmettere gli atti al pubblico ministero per le iniziative di competenza in ordine alla posizione del solo "nuovo" concorrente nel reato; nello stesso senso Sez. 6, n. 29114 del 30/03/2012, Lorusso, secondo cui non comporta mutamento del fatto, l'aggiunta di un ulteriore concorrente rispetto a quelli originariamente indicati nella imputazione, nel caso in cui la condotta contestata rimanga invariata). 6.5. Nel caso di specie, la ritenuta responsabilità dell'Am.Si. a titolo concorsuale non muta (tantomeno in modo radicale) il fatto storico attribuito al ricorrente costituito, pur sempre e comunque, dalla condotta dell'aver materialmente individuato la persona incaricata del materiale trasporto (e abbandono) dei rifiuti. 6.6. Ne consegue che il Tribunale non poteva restituire gli atti al pubblico ministero non ricorrendone le condizioni. 7. Sennonché: a) l'indebita regressione costituisce, come ampiamente spiegato, solo un indice dell'abnormità dell'atto, sopratutto quando espressione di una prerogativa del giudice; b) manca, nel caso di specie, la sollecitazione al compimento di un atto nullo, non potendosi ritenere tale il rinnovato esercizio dell'azione penale per un fatto (erroneamente) ritenuto diverso dal giudice; c) manca la prova della stasi del procedimento; d) ma sopratutto, ed è questo il punto, il ricorrente non ha un qualificato interesse a impugnare l'ordinanza in questione. 7.1. Anche per essere legittimati al ricorso per abnormità del provvedimento occorre avere interesse (Sez. 3, n. 43127 del 12/09/2019, F., Rv. 277177 - 01). L'interesse sussiste, nel caso di pronuncia asseritamente abnorme, quando la stessa produca effetti pregiudizievoli per l'interessato, in via primaria e diretta, e sussista dunque un interesse pratico e attuale alla sua rimozione (Sez. 6, n. 25683 del 02/04/2003, Donzelli, Rv. 228307 - 01). 7.2. Sicché, è stata ritenuta inammissibile l'impugnazione dell'imputato contro il provvedimento del giudice del dibattimento che, erroneamente ritenendo la diversità o la novità del fatto a norma dell'art. 521 cod. proc. pen. abbia trasmesso gli atti al pubblico ministero, il quale abbia provveduto a richiedere un nuovo decreto di rinvio a giudizio con l'imputazione modificata. In tal caso, l'interesse ad impugnare l'ordinanza del tribunale è del P.M., che si vede coartato dal Tribunale nelle modalità di esercizio dell'azione penale, mentre quel provvedimento non viola alcun diritto dell'imputato che, pertanto, non ha interesse all'impugnazione (Sez. 6, n. 3606 del 02/02/1995, Gualtieri, Rv. 201106 - 01). 7.3. Né tale interesse può consistere nella prospettata possibilità astratta di una assoluzione nel merito non garantendo l'eliminazione del provvedimento impugnato altro se non la restituzione del processo alla fase decisoria, non di certo l'impossibile previsione dell'esito. 6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 3.000,00. Il giudice della cognizione provvederà alla liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile nella presente fase di giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 20 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. DI NICOLA Vito - Presidente Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio Augusto - Relatore Dott. CALASELICE Barbara - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Sa.An., nato a P il (omissis), Gi.Fr., nato a P il (omissis), Gi.Gi., nato a B il (omissis), Sa.Ni., nato a B il (omissis); avverso la sentenza del 15/01/2021 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LUIGI FABRIZIO AUGUSTO MANCUSO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO che ha concluso chiedendo: il P.G. conclude chiedendo l'inammissibilità di tutti i ricorsi; udito il difensore: L'avv. AM.Fa. conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi, deposita conclusioni e nota spese. L'avv. BA.Et. si associa alle conclusioni del P.G., deposita conclusioni e nota spese. L'avv. BO.Ra. conclude chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. L'avv. GI.Vi. conclude riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 12 luglio 2019, il Tribunale di Palermo, per quanto rileva in questa sede, così decideva: dichiarava gli imputati Sa.Ni., Gi.Gi., Sa.An. e Gi.Fr. per il reato di associazione mafiosa di cui al capo "1" dell'epigrafe, con l'aggravante della disponibilità di armi e con l'aggravante di cui al comma sesto dell'art. 416-bis cod. pen., per aver fatto parte, dal 2013 all'epoca della sentenza, della famiglia mafiosa di B; dichiarava gli imputati Sa.Ni. e Gi.Gi. responsabili, inoltre, del reato di tentata estorsione, aggravata da metodo e finalità mafiose, di cui al capo "7", in danno di Va.Be., e del reato di violenza privata, aggravata da metodo e finalità mafiose, di cui al capo "8" dell'epigrafe, in danno di Mu.Am.; riteneva per Sa.Ni. e Gi.Gi. la continuazione tra i fatti loro contestati e tra questi ultimi ed altri giudicati precedentemente con sentenze irrevocabili; condannava gli imputati alle pene principali e accessorie che riteneva conformi a giustizia; disponeva nei confronti di tutti gli imputati la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni; condannava gli imputati al risarcimento dei danni nei confronti dei soggetti costituiti parti civili. 2. Con sentenza del 15 gennaio 2021, la Corte di appello di Palermo, adita da tutti gli imputati, così decideva in riforma parziale della sentenza di primo grado, per quanto rileva in questa sede: per tutti gli appellanti, escludeva la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen.; affermava l'applicabilità della cornice sanzionatoria prevista precedentemente alla novella legislativa di cui alla legge n. 69 del 2015; rideterminava la pena per Sa.Ni. in diciotto anni di reclusione; per Gi.Gi. in quindici anni di reclusione; per Sa.An., riconosciuta la continuazione con il reato oggetto della sentenza pronunciata dalla stessa Corte il 20 luglio 2011, divenuta irrevocabile il 4 maggio 2012, in dodici anni di reclusione; per Gi.Fr. in nove anni di reclusione. Per il resto, la Corte di appello confermava la sentenza impugnata. 3. L'avv. Ra.Bo., in difesa di Sa.An., ha proposto ricorso per cassazione con atto articolato in tre motivi. 3.1. Con il primo motivo il ricorrente, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione al reato associativo, sostenendo che la Corte di appello, senza rispondere alle doglianze difensive, ha ritenuto la configurabilità a carico di Sa.An. del reato associativo, sebbene a costui non sia stato contestato alcun reato-fine tra quelli indicati nel medesimo capo. In particolare, la difesa critica la motivazione della sentenza impugnata laddove questa fonda l'accertamento su precedenti giudicati, omettendo di verificare se Sa.An., dopo la prima condanna, a far data dal 2013, abbia partecipato, in modo concreto, al sodalizio mafioso di B. Il ricorrente afferma che dalle intercettazioni di conversazioni non emerge alcun minimo coinvolgimento da parte sua. 3.2. Con il secondo motivo il ricorrente, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione all'aggravante di cui all' art. 416-bis, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente afferma che non è stato provato il possesso di armi da parte di Sa.An. e neppure da parte dell'organizzazione criminale nel suo complesso, non essendo sufficiente che uno degli associati ne disponga, in quanto esse, affinché sia configurata l'aggravante, devono essere a disposizione dei compartecipi, che quantomeno devono essere a conoscenza di tale circostanza. 3.3. Con il terzo motivo il ricorrente, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio. Afferma che non sono state concesse le attenuanti generiche nonostante la situazione di difficoltà economica, il grave stato di malattia ed il breve periodo di militanza addebitato all'imputato. Inoltre, la quantificazione della pena inflitta non è prossima al minimo edittale, senza che sul punto sia stata spesa alcuna motivazione. 4. Il difensore di Sa.An. ha depositato atto di "motivi nuovi" con il quale deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., violazioni degli artt. 416-bis, primo e quarto comma, cod. pen. e degli artt. 125, 191, 192, 530, comma 2, 533, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. 5. L'avv. Ma.Po., in difesa di Gi.Fr., ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in quattro motivi. 5.1. Con il primo motivo la difesa, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c), d) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione, sostenendo che l'intraneità di Gi.Fr. al sodalizio criminoso è stata affermata sulla base di alcune conversazioni ritenute univoche dalla Corte di appello, sebbene esse non presentino quei caratteri di chiarezza e certezza necessari per assurgere al ruolo di prova. Nella ricostruzione accusatoria il prevenuto avrebbe coadiuvato il padre Gi.Gi., essendo stato considerato come indicativo della sua appartenenza al sodalizio avere spesso accompagnato il genitore o il fatto di essere stato presente in alcune occasioni nelle quali costui era stato intercettato. La difesa sottolinea che Gi.Fr., soggetto incensurato, è stato assolto già in primo grado da tutti i reati-fine nei quali si sarebbe sostanziata la sua opera e la motivazione in merito all'appartenenza al sodalizio risulta illogica e priva di riscontri, stante l'assenza di dati probatori a sostegno di tale assunto. 5.2. Con il secondo motivo la difesa, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c), d), ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. Afferma che le circostanze attenuanti generiche sono state negate, già in primo grado, in ragione dell'insidiosità delle condotte ma anche in base al comportamento processuale che secondo i giudici del merito non sarebbe stato orientato all'accertamento della verità. Il ricorrente afferma che la Corte di appello, nonostante le doglianze espresse in proposito della difesa, ha omesso sull'argomento un puntuale accertamento relativo ai singoli imputati. 5.3. Con il terzo motivo la difesa, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione, in riferimento all'affermazione di sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente afferma che non è stato provato, in particolare, né il possesso di armi da parte di Gi.Fr. e neppure da parte dell'organizzazione criminale nel suo complesso, non essendo sufficiente che uno degli associati ne disponga, in quanto, per la configurabilità dell'aggravante, è necessario che esse siano a disposizione di tutti i compartecipi, che quantomeno devono essere a conoscenza di tale disponibilità. Il giudice di appello ha tratto elementi in tale senso in base ad una asserita disponibilità di armi accertata giudizialmente in relazione a fatti antecedenti al 2003, da parte di Gi.Gi., padre di Gi.Fr. 5.4. Con il quarto motivo la difesa, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., lamenta violazioni di legge e vizi di motivazione, con riguardo all'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata anche con riferimento alla durata, superiore nel minimo edittale. 6. L'avv. Ma.Po., in difesa di Gi.Gi., ha proposto ricorso per cassazione con atto articolato in sette motivi. 6.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c), d) ed e), cod. proc. pen., mancanza, apparenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; omissione di risposta alle specifiche e decisive doglianze contenute nell'atto di appello; travisamento della prova con riguardo al reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. La difesa nota che Gi.Gi. era stato condannato con precedenti sentenze per il reato di associazione mafiosa commesso fino al 2003, ed era stato assolto quanto all'ulteriore periodo fino al 2007. Dal 2007 si era trasferito, per circa quattro anni, con la famiglia, negli Stati Uniti d'America. Nel presente processo la sua ulteriore responsabilità per tale delitto è stata ritenuta, in maniera immotivata, in base al contenuto di alcune conversazioni prive di quella univocità e chiarezza necessarie per assurgere a prova. 6.2. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. peri., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 629 cod. pen. e all'art. 7 decreto-legge n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che disciplina l'aggravante ora contemplata dall'art. 416-bis 1 cod. pen. La difesa critica la valutazione di credibilità di Va.Be., osservando che costui è stato più volte condannato, anche per il reato di falsa testimonianza. 6.3. Con il terzo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. ò), c) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 610 cod. pen. e all'art. 7 decreto-legge n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che disciplina l'aggravante ora contemplata dall'art. 416-bis 1 cod. pen. Secondo la difesa, non sussisterebbe prova alcuna che Gi.Gi. si sia recato a casa di Mu.Am. con l'intenzione di indurlo a rimettere una querela presentata nei confronti di Fu.Fr.. Si sarebbe trattato di una visita tra parenti, né risulta che sia stata commessa alcuna intimidazione. 6.4. Con il quarto motivo di ricorso, la difesa, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., deduce vizi di motivazione e violazione di legge penale in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., con riguardo alla negazione delle circostanze attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio. 6.5. Con il quinto motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., vizi di motivazione e violazione della legge penale, in relazione all'art. 416-bis, comma quarto, cod. pen., in relazione al riconoscimento dell'aggravante della disponibilità di armi da parte dell'associazione criminosa. La difesa sostiene che il giudice del merito si sia basato su presunzioni non riscontrate e su suggestioni criminologiche, in quanto non risulta in alcuna delle intercettazioni, né da altre prove assunte durante il processo, la disponibilità di armi da parte del sodalizio. 6.6. Con il sesto motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., vizi di motivazione e violazione di legge penale, in relazione all'art. 99 cod. pen., con riguardo al trattamento sanzionatorio e, in particolare, al riconoscimento della recidiva. 6.7. Con il settimo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., vizi di motivazione e violazione di legge, in relazione all'art. 417 cod. pen. circa l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, applicata per una durata superiore al minimo edittale, non essendo stata fornita in merito, sul punto, motivazione alcuna. 7. L'avv. Gi.An., in difesa di Sa.Ni., ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in tre motivi. 7.1. Con il primo motivo la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione dell'art. 416-bis cod. pen. e dell'art. 192 cod. proc. pen., sostenendo che la Corte di appello si è basata unicamente sulle precedenti condanne a carico di Sa.Ni. per associazione di tipo mafioso. In ordine all'episodio riguardante Mu.Am., Sa.Ni. non avrebbe dovuto essere ritenuto responsabile neppure di violenza privata, poiché aveva agito unicamente per ottenere una soluzione bonaria di una questione. 7.2. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa deduce violazioni degli artt. 416-bis e 192 cod. pen. in relazione alle valutazioni riguardanti l'attendibilità di Va.Be. Il giudice di appello sarebbe incorso in travisamento della prova e, omettendo di osservare le cautele previste dalla norma e i principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe errato nel considerare attendibili le accuse espresse da Va.Be. Il giudice di appello avrebbe avuto contezza del fatto che Va.Be. è stato condannato per estorsioni commesse a Pa. e che, pertanto, avrebbe dovuto essere sentito nel presente processo come imputato di reato connesso e non come persona offesa. Il giudice di appello non si sarebbe pronunciato, come invece avrebbe dovuto, sui motivi per cui ha ritenuto credibile Va.Be., che in due precedenti processi sarebbe stato condannato per falsa testimonianza. Costui nel presente processo non ha saputo circostanziare il tentativo di estorsione per il quale la Corte di appello ha confermato la valutazione di responsabilità ritenuta dal giudice di primo grado. 7.3. Con il terzo motivo di ricorso, la difesa deduce violazione della Costituzione e della legge, affermando che il giudice del merito ha commesso disparità di trattamento in relazione alla pena inflitta, in misura eccessiva, a Sa.Ni., rispetto a quella inflitta a Gi.Gi. che rispondeva delle stesse accuse. 8. L'avv. Vi.Gi., in difesa di Sa.Ni., ha proposto ricorso per cassazione con atto articolato in sei motivi. 8.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 416-bis, commi primo, terzo, quarto e quinto, cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di associazione mafiosa cui al capo "1" dell'imputazione. Nell'atto di ricorso si afferma che non siano ravvisabili, nella vicenda in esame, gli elementi costitutivi dell'associazione mafiosa, ritenuti invece, erroneamente, dalla Corte di appello. In base alle emergenze processuali, non risultano elementi concreti che dimostrino il manifestarsi verso l'esterno della forza intimidatrice e sopraffattrice della consorteria criminosa ed il conseguente stato di assoggettamento da parte dei soggetti cui la stessa si rivolgeva. La Corte di appello, inoltre, si è basata, per raggiungere le sue convinzioni, sui precedenti penali a carico di alcuni coimputati e su alcune sentenze irrevocabili precedenti nel tempo, che non potrebbero però dimostrare l'attuale inserimento di Sa.Ni. in un sistema mafioso. La Corte di appello avrebbe omesso l'accertamento di permanenza del vincolo associativo in capo a Sa.Ni., anche in considerazione della detenzione subita da costui dopo la precedente condanna. La difesa critica l'attribuzione di valore alle dichiarazioni del teste capitano De., affermando che il giudice di appello abbia sorvolato sul fatto che detto teste assunse la direzione delle indagini quando esse erano già in una fase avanzata. Egli, peraltro, non comprendeva il dialetto siciliano e non era stato in grado di riconoscere le voci degli imputati nell'ambito dei dialoghi intercettati. La difesa contesta il travisamento della prova sia in ordine agli incontri di Sa.Ni. con il coimputato Gi.Gi., che in base al ricorso sarebbero stati giustificati da ragioni meramente amicali, e in relazione alle intercettazioni, posto che il giudicante avrebbe inopinatamente identificato l'odierno ricorrente in un soggetto omonimo menzionato nelle conversazioni captate. La motivazione sarebbe viziata anche in ordine alla vicenda riguardante Va.Be., ritenuto credibile nonostante il forte rapporto di conflittualità che aveva con gli imputati, in aggiunta alla carenza di riscontri su quanto narrato. La difesa lamenta errori nella ricostruzione del fatto relativo alla controversia insorta tra Mu.Am. e Fu.Fr., nella quale l'intervento di Sa.Ni. sarebbe stato finalizzato alla risoluzione amichevole del contenzioso. 8.2. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 81, secondo comma, 56, 110, 629, primo e secondo comma, 610, 416-bis 1, con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi di imputazione "7" e "8". Secondo la difesa, il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere Sa.Ni. responsabile dei reati ascritti sulla base di intercettazioni di conversazioni e delle dichiarazioni di Va.Be. e Mu.Am. Il giudice di appello avrebbe dovuto tener conto della forte conflittualità di Va.Be. nei confronti degli imputati e del suo astio derivante dai numerosi arresti subiti, dal sequestro dei suoi beni e dal fallimento delle sue società, circostanze tutte che lo avrebbero reso non credibile. Inoltre, mancherebbero riscontri alle sue affermazioni. Il giudice del merito non avrebbe motivato adeguatamente in relazione all'affermazione che la remissione, da parte di Mu.Am., che costui aveva sporto nei confronti di Fu.Le. e Fu.An., sia stata la conseguenza di un'attività violenta o minacciosa da ascrivere a Sa.Ni. o al coimputato Gi.Gi. Secondo la difesa, l'intervento di Sa.Ni. era stato diretto esclusivamente a coinvolgere l'amico Gi.Gi., imparentato con Mu.Am., per risolvere la controversia fra quest'ultimo e i Fu., a puro titolo di cortesia e non già per adesione consapevole ad un programma criminoso. 8.3. Con il terzo motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 416-bis, commi quarto e quinto, cod. pen., con riguardo all'affermazione della disponibilità di armi da parte dell'associazione mafiosa di cui al capo "1" dell'imputazione. Secondo la difesa, dal contesto probatorio ed in particolare dalle plurime intercettazioni, non risulterebbe che Sa.Ni. abbia mai avuto disponibilità di armi né tantomeno conoscenza che un coimputato o alcuno dei componenti della famiglia di riferimento ne possedesse. Non risulterebbe, poi, che Sa.Ni. abbia commesso alcun reato avvalendosi di armi. Non risulta pertanto sufficiente, al fine di ritenere provata tale circostanza, il riferimento operato dal giudice del merito a vicende trascorse, accertate da precedenti giudicati. 8.4. Con il quarto motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 27 Cost., agli artt. 81, secondo comma, 99, 132, 133 cod. pen. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. Nel caso in esame, la norma che prevede la recidiva sarebbe stata applicata in modo illogico ed apparente ai danni di Sa.Ni. La condotta associativa contestata costituisce il segmento terminale di quella a lui ascritta in occasione di precedenti processi ed interrotta dai suoi periodi di carcerazione per poi riprendere, costituendo un unicum delittuoso che trova la sua ragione sostanziale nell'originaria volontà di associarsi al sodalizio criminoso. Pertanto, nel caso in esame la recidiva sarebbe incompatibile con la continuazione. Il giudice di appello non ha adeguatamente motivato al riguardo, essendosi limitato ad affermare che la condotta tenuta da Sa.Ni. fosse da considerare sintomatica di una maggiore propensione all'illecito. 8.5. Con il quinto motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 27 Cost., agli artt. 81, secondo comma, 99, :L32, 133 cod. pen. con riguardo all'individuazione del reato più grave, alla quantificazione della pena e al calcolo stabilito per le circostanze aggravanti e per la continuazione. Il giudice di appello, nel considerare in continuazione i reati ascritti nel presente processo con quelli giudicati con la sentenza irrevocabile emessa il 24 aprile 2001 dalla Corte di assise di appello di Palermo e con la sentenza irrevocabile emessa il 20 luglio 2011 dalla Corte di appello di Palermo, ha affermato che la condotta oggetto dell'attuale imputazione è da ritenersi come più grave e, quindi, la relativa pena va individuata come base per la rideterminazione della pena ai fini della continuazione. Invece, nel presente processo il giudice del merito avrebbe dovuto scorporare i reati valutati in continuazione nelle citate sentenze orami definitive e compararli con quelli del provvedimento impugnato, al fine di individuare quello più grave e motivare su ciascun aumento per ogni illecito satellite. Nel presente processo, la Corte di appello avrebbe dovuto ritenere quale condotta più grave quella oggetto della decisione assunta dalla Corte di assise di appello di Palermo il 20 aprile 2001, dato che anche in tale caso l'odierno ricorrente era stato condannato per il reato di associazione di stampo mafioso, ma a differenza che nel presente processo egli rivestiva allora una posizione apicale nell'ambito della famiglia mafiosa di B. Pertanto, il comportamento del Sa.Ni. doveva essere ritenuto connotato da un disvalore maggiore rispetto all'imputazione di semplice partecipazione contestata nel presente processo. 8.6. Con il sesto motivo di ricorso, la difesa deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 27 Cost. e agli artt. 62-bis cod. pen., 81, comma secondo, 132 e 133 cod. pen. La Corte ha omesso di considerare, nell'espletamento della valutazione inerente alla concessione del beneficio rappresentato dalle circostanze attenuanti generiche, l'età di Sa.Ni., le sue condizioni socio/economiche e di salute oltre al contesto ambientale di vita dell'imputato, e non ha fornito alcuna motivazione sufficiente per giustificare il diniego delle circostanze attenuanti generiche. 9. L'avv. Vi.Gi., in difesa di Sa.Ni., ha depositato atto recante motivi aggiunti. 9.1. Con il primo motivo aggiunto, il difensore deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 81, secondo comma, 56, 629, primo e secondo comma, 416-bis, primo comma, cod. pen., con riguardo al reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo "7" dell'imputazione. Il ricorrente espone osservazioni volte a far ritenere che il giudice del merito sia incorso in errori nel valutare come attendibile Va.Be., persona offesa dal reato. Secondo la difesa, il giudice del merito avrebbero fatto malgoverno dei principi interpretativi della fattispecie di tentata estorsione e delle regole in materia di valutazione della prova, così incorrendo in vizi di applicazione della legge penale e processuale penale e in manifesto vizio di motivazione. La condotta contestata all'imputato e le risultanze derivanti dalle captazioni di conversazioni e dalla prova dichiarativa assunta nel corso dell'istruzione dibattimentale sarebbero insufficienti a dimostrare la responsabilità di Sa.Ni. 9.2. Con il secondo motivo aggiunto, il difensore deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in riferimento agli artt. 81, secondo comma, 56, 629, primo e secondo comma, 416-bis, primo comma, cod. pen., in relazione all'art. 628, terzo comma, n. 3, cod. pen., con riguardo ai reati di tentata estorsione aggravata e di violenza privata aggravata di cui al capo "7" e al capo "8" dell'imputazione. Il ricorrente espone osservazioni volte a far ritenere che il giudice del merito sia incorso in errori giuridici e abbia reso motivazione carente nell'affermare la configurabìlìtà, nel caso in esame, dell'aggravante dell'agevolazione e del metodo mafiosi. 9.3. Con il terzo motivo aggiunto, il difensore deduce, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b), ed e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in riferimento agli artt. 27 Cost., all'art. 629, secondo comma, in relazione all'art. 628, terzo comma, n. 3, cod. pen., agli artt. 132 e 133 cod. pen., agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo ai reati di concorso in estorsione e in tentata estorsione di cui al capo "7" dell'imputazione. Il ricorrente espone osservazioni volte a far ritenere che l'aggravante mafiosa avrebbe dovuto essere esclusa in relazione a tali reati, perché non era stato dimostrato che Sa.Ni. avesse partecipato con un ruolo dinamico e funzionale all'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Sa.An., riguardante l'affermazione di responsabilità a suo carico, è fondato. Il ricorrente lamenta, in relazione al reato associativo contestatogli, che la Corte di appello Palermo lo abbia ritenuto membro della congrega criminale, sebbene allo stesso non sia stato contestato alcun reato-fine tra quelli indicati nel capo "1" dell'imputazione. Afferma che la motivazione della sentenza impugnata si è limitata ad una ricognizione di un pregresso accertamento circa la effettiva partecipazione al sodalizio derivante da precedenti giudicati, e abbia omesso tuttavia di verificare se egli, dopo la prima condanna, a far deità dal 2013, abbia mantenuto tale ruolo nel nucleo mafioso di B; non emergerebbe, infatti, dalle intercettazioni, alcun suo minimo coinvolgimento al riguardo. 1.1. La giurisprudenza di legittimità ha rilevato che, sebbene l'assoluzione relativa a reati scopo non risulti preclusiva ai fini dell'accertamento della responsabilità dell'imputato per il reato associativo, atteso che per la configurazione di quest'ultimo non è necessario il perfezionamento di reati scopo, ma soltanto un generico programma criminoso che preveda la loro consumazione (Sez. 4, n. 8092 del 28/01/2014, Prezioso, Rv. 259129 - 01), ciò nonostante, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la condotta di partecipazione deve essere provata con puntuale riferimento al periodo temporale considerato dall'imputazione, sicché l'esistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per lo stesso delitto in relazione ad un precedente periodo può rilevare solo quale elemento significativo di un più ampio compendio probatorio, da valutarsi nel nuovo procedimento unitamente ad altri elementi di prova dimostrativi della permanenza all'interno della associazione criminale (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Buglisi, Rv. 275586 - 01). 1.2. In applicazione del principio richiamato, pienamente condivisibile, deve affermarsi che le censure difensive meritano accoglimento. La motivazione della sentenza impugnata, infatti, non reca l'esposizione di elementi adeguati a far ritenere dimostrata la partecipazione dell'imputato alla consorteria nel periodo al quale si riferisce la contestazione relativa al presente processo. La ricognizione di un pregresso giudicato, che abbia accertato, per un periodo definito e trascorso, la pregressa qualifica di "associato", non è in proposito sufficiente. Sebbene non risulti necessaria la partecipazione alla commissione di un reato-fine, occorre, tuttavia, al fine di potersi ritenere provata la condotta ora contestata, un contegno sintomatico, non evidenziato nella motivazione della sentenza qui impugnata, circa l'effettivo apporto che il singolo abbia procurato alla congrega, ovverosia la presenza di ulteriori elementi probatori, i quali, anche suffragati dal rilievo integrato dalla pregressa, provata, partecipazione, siano espressivi dell'attualità della adesione al sodalizio. 1.3. All'accoglimento del motivo consegue l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito, affinché svolga nuovo giudizio esente dai vizi riscontrati. Gli ulteriori motivi di censura proposti nell'interesse di Sa.An. sono conseguentemente assorbiti, come sopra anticipato. 2. Il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Gi.Fr., riguardante l'affermazione di responsabilità a suo carico, è fondato. 2.1. Il ricorrente, soggetto incensurato, ha contestato la valutazione operata dal giudice di appello laddove questa ha ritenuto la sua intraneità rispetto all'associazione in base ad alcune conversazioni, interpretate dal giudicante in modo univoco, nonostante il ricorrente sostenga che non presentano quei caratteri di chiarezza e certezza necessari per assurgere al ruolo di prova. Nella ricostruzione accusatoria il prevenuto avrebbe coadiuvato il padre Gi.Gi., essendo stato considerato come indicativo dell'appartenenza al sodalizio di Gi.Fr. l'avere accompagnato il padre o essere stato presente in alcune occasioni nelle quali erano state intercettate conversazioni nelle quali era intervenuto suo padre. 2.2. La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato quali sono le condotte dalle quali possa presumersi, in assenza di dati certi, l'appartenenza di un soggetto ad un'associazione per delinquere di stampo mafioso, ritenendosi sintomatiche dell'intraneità al sodalizio criminale condotte quali: la partecipazione a più riunioni organizzative tenute in un immobile riconosciuto quale "sede" organizzativa del gruppo criminale; la partecipazione non estemporanea dell'imputato ai reati fine che connotano il programma criminoso dell'associazione o ancora la presenza e la partecipazione attiva ad una cerimonia di affiliazione (Sez. 1, n. 26684 del 12/04/2013, De Paola, Rv. 256045 - 01; Sez. 1, n. 29959 del 05/06/2013, Amaradio, Rv. 256200 - 01; Sez. 2, n. 27428 del 03/03/2017, Serratore, Rv. 270315 - 01). 2.3. In applicazione del principio richiamato, pienamente condivisibile, deve affermarsi che le censure difensive meritano accoglimento, conseguendone l'annullamento dei capi della sentenza relativi alla posizione di Gi.Fr. La motivazione della sentenza impugnata non pone in evidenza elementi dai quali possa evincersi con certezza la partecipazione dell'imputato, quale affiliato, all'organizzazione. Non sono sufficienti, a far ritenere Gi.Fr. un soggetto intraneo all'associazione a delinquere di stampo mafioso, i contegni accertati a carico dello stesso, il quale aveva accompagnato il padre ma non aveva assunto in tali occasioni dei comportamenti significativi. 2.4. All'accoglimento del motivo consegue l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito, affinché svolga nuovo giudizio esente dai vizi riscontrati. Gli ulteriori motivi di censura proposti nell'interesse di Gi.Fr., sono conseguentemente assorbiti, come sopra anticipato. 3. I motivi di ricorso proposti, rispettivamente, nell'interesse di Sa.Ni. e di Gi.Gi., relativamente all'accertamento di responsabilità inerente al reato di associazione mafiosa, sono in gran parte sovrapponibili ed entrambi infondati. I ricorrenti affermano che non sussistono elementi di prova idonei a suffragare la statuizione in parola, avendo il giudice del merito valorizzato le pregresse condanne riportate dagli imputati per la medesima imputazione e le intercettazioni. Sa.Ni. inoltre aggiunge nel proprio atto di ricorso alcune critiche ulteriori: l'assenza degli elementi costitutivi della fattispecie, ovvero la forza intimidatrice e il conseguente stato di assoggettamento promanante dalla congrega criminale, e la dubbia Va.Be. dell'apporto proveniente dalla testimonianza del capitano De. 3.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, ai fini dell'accertamento dell'appartenenza all'associazione ex art. 416-bis cod. pen., ciò che rileva - posta l'esistenza, di fatto, della struttura delinquenziale prevista dalla legge - è l'innestarsi del contributo apportato dal singolo agente nella prospettiva del perseguimento dello scopo comune (Sez. 5, n. 13071 del 14/02/2014, Petrone, Rv. 260211 - 01). 3.2. Le censure sono inammissibili, perché attengono alla ricostruzione fattuale della vicenda, in realtà operata nella sentenza impugnata in maniera immune da vizi logici manifesti, esponendo una motivazione articolata e congrua, ricca di riferimenti ad elementi oggettivi quali emergono dalle prove acquisite e richiamate. I ricorrenti operano delle prospettazioni fattuali alternative rispetto all'accertamento dei fatti contenuto in sentenza e tentano di introdurre in sede di legittimità una rivalutazione del materiale probatorio preclusa in questa sede. La motivazione è congrua nell'accertare la sussistenza di un'associazione criminale operante nella zona territoriale indicata, dimostrativa in tal senso la percezione della medesima in plurimi soggetti lesi, sia Va.Be. che Mu.Am., avvicinati dagli odierni ricorrenti. Il materiale captativo suffraga gli approdi investigativi accolti dal giudice del merito sui punti centrali delle vicende che hanno formato oggetto del processo. 4. Possono essere trattate congiuntamente, e risultano manifestamente infondate, le censure proposte nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi. con riguardo alle valutazioni del giudice del merito inerenti alle prove riguardanti il reato di tentativo di estorsione aggravato in danno di Va.Be., con particolare riguardo alla sua attendibilità. Manifestamente infondate sono anche le censure riguardanti la configurabilità dell'aggravante mafiosa. 4.1. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che le dichiarazioni di un testimone, anche se si tratti della persona offesa, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non necessitano di riscontri esterni, funzionali soltanto al vaglio di credibilità del testimone (Sez. 1, n. 7898 del 12/12/2019, dep. 2020, Hamil, Rv. 278499 - 03). 4.2. Le censure, come anticipato, sono manifestamente infondate. La sentenza di appello esplicita puntualmente i plurimi elementi che corroborano il pieno riconoscimento dell'attendibilità della persona offesa, la quale aveva subito minacce, da ambedue i ricorrenti, preordinate ad ottenere la dazione di una somma di denaro, alle quali erano seguiti sia il danneggiamento delle strutture lavorative ove Va.Be. prestava la sua opera, sia atti intimidatori, integrati dalla ricerca presso il luogo di lavoro. L'iter argomentativo analizza inoltre, escludendole, eventuali ragioni di risentimento tra gli imputati e la persona offesa, ritenuta, alla luce dei sussistenti riscontri, spontanea e credibile nella sua complessiva narrazione degli eventi. Pertanto, le censure avanzate risultano prive di pregio ed inidonee a scalfire la congrua motivazione del provvedimento impugnato, che reca congrue indicazioni anche con riguardo all'affermazione di sussistenza dell'aggravante mafiosa. 5. Risultano manifestamente infondate, e possono essere trattate congiuntamente, le censure proposte nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi. con riguardo alla qualificazione delle rispettive condotte poste in essere nei confronti di Mu.Am., con riferimento alle quali i ricorrenti asseriscono l'insussistenza di alcun connotato intimidatorio, cercando di far ritenere che si sia trattato di un interessamento finalizzato alla bonaria risoluzione della controversia instauratasi tra Mu.Am., parente di Gi.Gi., ed un parente di Sa.Ni. Manifestamente infondate sono anche le censure riguardanti la configurabilità dell'aggravante mafiosa. 5.1. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di ricorso per cassazione, la manifesta illogicità della motivazione, prevista dall'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., presuppone che la ricostruzione proposta dal ricorrente e contrastante con il procedimento argomentativo recepito nella sentenza impugnata sia inconfutabile e non rappresenti soltanto un'ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza, integrando tale ultima ipotesi un'inammissibile istanza rivalutativa della ricostruzione giudiziale operata nella fase di merito (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, Amoroso, Rv. 280589 - 02). 5.2. Le doglianze sul punto sono manifestamente infondate, come anticipato. La motivazione della sentenza di appello in proposito risulta, secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività, pienamente congrua nel suo complesso, poiché è precisa nell'indicare quegli elementi sintomatici della violenza o dell'intimidazione realizzata dagli imputati e subita dal Mu.Am., al fine di fargli rimettere la querela presentata nei confronti di @Fu.Fr., genero di Sa.Ni. Il giudice del merito ha adeguatamente ricostruito lo svolgimento degli eventi, suffragati oltre che da concordanti indizi anche da elementi probatori di segno positivo, quali le dichiarazioni degli agenti, i quali in occasione della remissione della querela da parte del Mu.Am. avevano immediatamente notato l'evidente stato di alterazione nel quale lo stesso versava, del tutto inconciliabile con le giustificazioni rese sia in quell'occasione che durante la fase processuale, con la logica conclusione per cui la volontà del soggetto in esame sia stata viziata dalla pressione subita. Le ricostruzioni alternativa risultano meramente ipotetiche, inverosimili e, da ultimo, smentite anche dalle intercettazioni relative alla vicenda de qua, in relazione alla quale il giudice del merito ha indicato anche gli elementi sui quali è stata affermata, con adeguate considerazioni, la configurabilità dell'aggravante mafiosa. 6. I motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi., volti a criticare il rigetto dei rispettivi motivi di appello riguardanti il riconoscimento della recidiva e la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, sono tutti infondati, così come quelli riguardanti la determinazione delle pene. 6.1. La giurisprudenza di legittimità ha precisato, in primo luogo, che, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale sintomo di un'accentuata pericolosità sociale dell'imputato e non come mera descrizione dell'esistenza a suo carico di precedenti penali per delitto, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull'arco temporale della loro realizzazione, ma deve esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in qual misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto (Sez. 2, Sentenza n. 10988 del 07/12/2022, dep. 2023, Antignano, Rv. 284425 - 01). 6.2. La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha chiarito che, in tema di circostanze, ai fini del diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, Sentenza n. 2233 del 17/06/2021, dep. 2022, Bianchi, Rv. 282693 - 01). 6.3. In applicazione dei richiamati principi di diritto, pienamente condivisibili, deve affermarsi, con riferimento al caso concreto ora in esame, che la sentenza impugnata è immune dai vizi lamentati e che i motivi di ricorso proposti in proposito nell'interesse di Sa.Ni. e di Gi.Gi. sono infondati. Dalla motivazione della sentenza di appello, infatti, emerge l'adeguata valutazione della pervicacia criminale dei menzionati ricorrenti. Al riguardo, il giudice di appello, dopo aver esposto alcuni cenni agli effetti della presenza dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra ricordando la sua negativa influenza sullo sviluppo culturale, sociale ed economico, con grave condizionamento degli abitanti e radicamento dell'omertà, ha precisato che le condotte dei menzionati ricorrenti si inseriscono nel citato gravissimo e antico fenomeno criminale, e non sono meritevoli di alcuna mitigazione del trattamento sanzionatorio. Il giudice di appello, inoltre, ha puntualizzato plausibilmente, senza incorrere in alcun vizio, che la recidiva qualificata, così come contestata, esprime la loro spiccata e radicata propensione a delinquere. Le censure mosse nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi., avverso i punti evidenziati della decisione impugnata, sono privo di pregio. Le statuizioni su detti argomenti non possono ritenersi viziate sulla scorta delle generiche contestazioni mosse dai ricorrenti. Inoltre, quanto alla determinazione delle pene per ciascuno degli imputati, il giudice del merito ha esercitato discrezionalmente il proprio potere al riguardo e non emerge che il giudice del merito sia incorso in alcun errore di diritto e in vizi di logicità. 7. I motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi., volti a criticare il rigetto dei rispettivi motivi di appello riguardanti il riconoscimento del carattere armato dell'associazione mafiosa di riferimento, sono infondati. 7.1. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di associazione di tipo mafioso, per la configurabilità dell'aggravante della disponibilità di armi, mentre per le c.d. mafie "storiche" la stabile dotazione di armi è desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, per le mafie "non tradizionali" o "atipiche" occorre l'accertamento della concreta disponibilità di un armamento, deducibile, anche in difetto di una esatta individuazione delle armi stesse, da fatti di sangue commessi dal gruppo criminale, dal contenuto delle intercettazioni o dalle fonti orali (Sez. 2, Sentenza n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Casamonica, Rv. 285908 - 05). 7.2. In applicazione del richiamato principio di diritto, pienamente condivisibile, deve affermarsi, con riferimento al caso specifico ora in esame, che la sentenza di appello è immune dai vizi lamentati e che i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sa.Ni. e Gi.Gi. sul punto non colgono nel segno. Il giudice di appello ha reso complete indicazioni, fra le quali è particolarmente significativo il fatto che la supremazia dei ricorrenti è indissolubilmente legata all'avvento, a capo del mandamento di Pa., importante e fondamentale articolazione territoriale di Cosa Nostra, dei fratelli Vi., i quali, a loro volta, erano strettamente legati agli esponenti della mafia corleonese, la cui connotazione peculiare è il ricorso alle armi, e finanche alle bombe, per affermare il proprio dominio. 8. Le censure proposte nell'interesse di Sa.Ni., volte a denunciare l'erroneità dell'applicazione della legge penale nell'individuazione del reato più grave ai fini della continuazione tra le condotte contestate nel presente procedimento e altre condotte precedentemente giudicate, sono inammissibili per carenza di specificità. Il ricorrente, infatti, per suffragare la propria tesi principale, secondo la quale il giudice di appello avrebbe errato nel comparare i reati giudicati nel presente processo e quelli giudicati precedentemente, ha richiamato in modo preciso alcuni principi di diritto stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità, ma, non avendo allegato al ricorso le sentenze di condanna emesse nei confronti di Sa.Ni. in esito a precedenti processi, non ha consentito di stabilire se il giudice di appello della sentenza impugnata sia incorso in errori giuridici o in vizi motivazionali, nello svolgimento del giudizio di comparazione fra i reati giudicati nel presente processo, rispetto a quelli giudicati precedentemente, e nella determinazione degli aumenti di pena per i reati satellite. Le censure riguardanti presunte carenze di motivazione nell'individuazione degli aumenti di pena per i reati satellite, poi, sono manifestamente infondate, perché dall'esame dalla sentenza di primo grado, destinata a fondersi con quella di appello, emerge il riferimento, ai fini del trattamento sanzionatorio, ai criteri previsti dall'art. 133 cod. pen. 9. Il motivo di ricorso proposto nell'interesse di Gi.Gi. con riguardo alla durata della misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti è fondato, perché il giudice del merito non ha fornito alcuna indicazione sulle ragioni della relativa quantificazione. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata limitatamente a tale punto. La sentenza deve essere annullata, limitatamente al punto analogo - affetto dal medesimo vizio - relativo alla durata della misura di sicurezza della quale è stata disposta l'applicazione nei confronti del coimputato Sa.Ni. L'annullamento discende dall'effetto estensivo dell'impugnazione del coimputato. 10. In conclusione, alla luce delle esposte ragioni, la sentenza della Corte di appello di Palermo qui impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, nei confronti di Sa.An. e Gi.Fr., ricorrenti in favore dei quali sono stati rispettivamente accolti i principali motivi di ricorso riguardanti l'accertamento della responsabilità per i fatti oggetto di contestazione, con assorbimento delle ulteriori censure. La citata sentenza, inoltre, deve essere annullata, limitatamente alla misura di sicurezza, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, nei confronti di Sa.Ni. e Gi.Gi. Su tali capi e punti, il giudice del rinvio svolgerà nuovo giudizio senza incorrere nei vizi qui riscontrati. Per il resto, i ricorsi di Sa.Ni. e Gi.Gi. devono essere rigettati. Sa.Ni. e Gi.Gi. devono essere condannati, in favore delle parti civili che hanno concluso nel presente giudizio, alla rifusione delle relative spese difensive, che si reputa giusto liquidare nelle misure indicate nel seguente dispositivo avuto riguardo all'attività svolta. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sa.An. e Gi.Fr. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sa.Ni. e Gi.Gi. limitatamente alla misura di sicurezza con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. Rigetta nel resto i ricorsi di Sa.Ni. e Gi.Gi. Condanna, inoltre, gli imputati Sa.Ni. e Gi.Gi. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Solidaria S.c.s. Onlus, Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo, Confesercenti Provinciale di Palermo, Centro studi ed iniziative culturali La.Pi. e Sos Imprese Palermo che liquida in complessivi euro 5.000 per ciascuna delle predette parti civili, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 14 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2024.
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