Sentenze recenti ricongiungimento familiare

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Consigliere Dott. PATERNO' RADDUSA Benedetto - Relatore Dott. TONDIN Federica - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Pe.An., nato a N il (Omissis avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 9 marzo 2023 visti gli atti, l'ordinanza impugnata e il ricorso; udita la relazione del Consigliere Benedetto Paterno Raddusa; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro Cimmino, che ha concluso per la reiezione del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 9 ottobre 2020, Pe.An. è stato assolto dalle imputazioni allo stesso mosse e in particolare dai maltrattamenti contestati al capo b) della rubrica, secondo l'accusa realizzati ai danni della moglie Ch.Ad., per la ritenuta non sussistenza del fatto nonché dalle violazioni degli artt. 570 comma 2 n. 2 e 388 cod. pen. descritte al capo a (per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie e ai tre figli minori non versando, dal febbraio del 2015 e con condotta perdurante, l'integrale importo mensile stabilito per il mantenimento dei suddetti con ordinanza presidenziale resa in sede di separazione giudiziale), perché il fatto non costituiva reato. 2. Interposto appello dalla Procura Generale territorialmente competente e dalla difesa della parte civile, la Corte di appello di Napoli, con la sentenza descritta in epigrafe, ha ribaltato il precedente esito assolutorio e ha condannato il ricorrente alla pena ritenuta di giustizia con riguardo alle imputazioni mosse nei suoi confronti. 3. Propone ricorso la difesa dell'imputato e lamenta in primo luogo violazione di legge e vizio di motivazione avuto riguardo alla ritenuta responsabilità per i contestati maltrattamenti in famiglia, conclusione non adeguatamente supportata dal necessario sforzo argomentativo imposto dalla assoluzione in primo grado, perché essenzialmente fondata sulla sostenuta attendibilità e compiutezza delle dichiarazioni della persona offesa, assertivamente integrate da quelle della madre, quando, di contro, il primo giudice aveva rimarcato l'inadeguatezza probatoria di tali deposizioni, prive di concreti e puntuali riferimenti su specifici episodi, ripetuti in termini di abitualità, a conferma dei tratti costitutivi del reato in esame. Genericità che non poteva ritenersi superata dalla rinnovazione della deposizione resa in primo grado, la cui genuinità era all'evidenza messa in dubbio dall'esito del primo giudizio e dalla possibilità della parte civile costituita di meglio assestare in modo speculativo il contenuto del propalato in una ottica maggiormente conforme alla prospettiva accusatoria. L'assenza di una adeguata tenuta argomentativa della decisione gravata, ad avviso della difesa, troverebbe, inoltre, riscontro nel ben più modesto approfondimento probatorio reso rispetto al perimetro della valutazione resa dal Tribunale, avendo la Corte territoriale integralmente pretermesso lo scrutinio delle deposizioni, di contro pienamente apprezzata a sostegno della assoluzione, rese dai diversi soggetti escussi (quasi tutti indicati dalla Procura oltre che partenti della persona offesa), i quali hanno escluso di aver assistito o di avere comunque contezza dei contegni vessatori attribuiti al Pe.An. dall'accusa. 3.1. Con il secondo e il terzo motivo di ricorso, la difesa contesta la condanna riferita all'imputazione di cui al capo a) della rubrica, dalla quale il ricorrente era stato assolto per la ritenuta assenza del dolo alla luce della riscontrata volontà dell'imputato di garantire ai familiari i mezzi di sussistenza mediante i riscontrati adempimenti parziali, non contestati dalla persona offesa, evidenziando, inoltre, l'assoluta assenza di riferimenti argomentativi alle ragioni fondati la responsabilità dell'imputato anche per la fattispecie di cui all'art. 388 cod. pen., contestata in continuazione con le condotte punite ai sensi dell'art 570 comma 2 n. 2 dello stesso codice. 3.2. Con il quarto motivo, la sentenza impugnata viene contrastata in relazione alle negate attenuanti generiche, non accordate malgrado l'incensuratezza dell'imputato, la sua collaborazione processuale, il seppur parziale adempimento agli obblighi di mantenimento. 4. Da ultimo il ricorso sollecita la correzione dell'errore materiale che connota la decisione gravata quanto all'imputazione descritta al capo a), laddove reca il riferimento nominativo ad un soggetto (Ru.Ad.) diverso dalla persona offesa (Ch.Ad.). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso merita un parziale accoglimento cui consegue, per le ragioni di seguito precisate, l'annullamento con rinvio della decisione gravata limitatamente al tema della rideterminazione del trattamento sanzionatorio da irrogare all'imputato. 2. In linea di principio va ribadito che, in caso di ribaltamento di una precedente statuizione assolutoria, la decisione di appello con la quale si pervenga al giudizio di responsabilità potrà ritenersi immune ai vizi solo se il relativo percorso argomentativo risulti tracciato mettendo in luce l'incompletezza o la non correttezza ovvero l'incoerenza delle argomentazioni spese a sostegno dell'assoluzione: la motivazione che sostiene la condanna disattendendo l'assoluzione resa in primo grado non può che essere frutto di una rigorosa e penetrante analisi critica della prima decisione seguita da completale/convincente dimostrazione che, sovrapponendosi "in toto" a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, così da rispettare senza incertezze la regola di giudizio di cui all'art. 533, comma 1, cod. proc. pen. 3. Avuto riguardo alla condanna per maltrattamenti, ad avviso del Collegio, la Corte di appello si è puntualmente attenuta al detto obbligo di "motivazione rafforzata". 3.1. Al fine, giova evidenziare che il primo giudice ebbe a delimitare l'ambito delle condotte da considerare rispetto ai maltrattamenti contestati all'arco temporale, successivo al dicembre del 2015, nel corso del quale, dopo una iniziale separazione, sfociata nel provvedimento presidenziale citato dal capo a) della imputazione, era ripresa la convivenza familiare. In particolare, il portato della conflittualità da valorizzare nell'ottica dei ritenuti maltrattamenti venne circoscritto al periodo compreso tra settembre 2016 e giugno 2017, momento nel quale la convivenza ebbe (nuovamente) a cessare. Avuto riguardo a siffatto torno temporale, il Tribunale, senza mettere in discussione l'attendibilità soggettiva della persona offesa (ed anzi rimarcandone l'assenza di animosità e di intenti persecutori), nel pervenire all'esito assolutorio riferito ai maltrattamenti ebbe a sottolineare la genericità di riferimenti resi dalla dichiarante e per altro verso la intrinseca contraddittorietà del relativo narrato. Più precisamente, la persona offesa non sarebbe stata in grado di contestualizzare in modo circostanziato l'aggressività messa in atto dal marito, solo genericamente prospettata, limitandosi a puntualizzare solo tre episodi, due dei quali avvenuti (a dicembre 2016 e giugno 2017) nel corso della convivenza mentre un terzo doveva ritenersi successivo al cessare della stessa (quello dell'ottobre del 2017, confermato anche dal referto medico acquisito). Al contempo, la sentenza appellata mise in evidenza una contraddittorietà intrinseca del relativo narrato, giacché la persona offesa avrebbe riferito di violenze patite ogni sera nel tentativo di opporsi a rapporti sessuali imposti dal marito ma al contempo avrebbe anche evidenziato che lo stesso usciva ogni sera, per poi rientrare a tarda notte e spesso dopo giorni. Si evidenziava, ancora, l'altrettanto generico portato delle dichiarazioni della madre della persona offesa, che avrebbe notato lividi su braccia e gambe della figlia (piangente dopo un litigio), senza contestualizzare il dato riferito (se precedente o coincidente con quello coperto dalla imputazione). 3.2. In appello, una volta sentita nuovamente la persona offesa, se ne è invece rimarcata, alla luce anche delle precisazioni rese nel corso della nuova deposizione, la adeguatezza probatoria. Si è precisato che le condotte, ingiuriose e aggressive, tenute dall'imputato e riferite dalla Ch.Ad., avevano connotato anche la fase matrimoniale precedente alla separazione del 2014; e che, al ricongiungimento, avvenuto nel 2016, si era pervenuti solo per ragioni economiche, atteso che l'imputato non provvedeva al versamento del dovuto a titolo di mantenimento. In questa fase, dopo un iniziale momento di serenità, dal dicembre del 2016 erano nuovamente iniziate le condotte aggressive, verbali e fisiche, realizzate con cadenza pressoché quotidiana, sfociate talvolta in imposizioni sessuali. Condotte che in genere si realizzavano di notte e che erano continuate anche dopo la nuova separazione. Con la sentenza gravata, inoltre, si è ribadito che tali dichiarazioni avrebbero trovato conferme documentali (in particolare il referto medico del 2017 e foto attestanti le conseguenze di lesioni patite nel 2013, che seppur antecedenti al periodo coperto dall'imputazione, valevano da riscontro alla attendibilità della dichiarante); ma anche supporto nel narrato della madre (che, pur non riuscendo a circostanziare temporalmente i fatti riferiti, aveva raccolto gli sfoghi della figlia e visto dei lividi sul corpo della stessa, ancora una volta a conferma della complessiva attendibilità della parte civile). Il tutto a fronte di un narrato lineare, puntuale e sufficientemente circostanziato non messo in discussione dalle incertezze mostrate in primo grado, giustificate dalla delicatezza delle situazioni in fatto rassegnate con la deposizione e dal tempo trascorso rispetto al momento dell'escussione. 3.3. Ciò premesso, ritiene la Corte che la decisione di appello regga senza incertezze il confronto comparato con le argomentazioni spese in primo grado a sostegno della assoluzione, considerata, in particolare, l'evidente inadeguatezza di quest'ultima, peraltro connotata da una impostazione di fondo tutt'altro che condivisibile. 3.3.1. Sotto quest'ultimo versante, in particolare, non può non rimarcarsi come la decisione appellata delimitasse erroneamente il portato dell'imputazione da valorizzare nell'ottica dei maltrattamenti alle sole condotte realizzate nel corso del secondo momento di convivenza, escludendo quelle realizzate dopo la fine della relativa coabitazione, quando il ricorrente ebbe ad abbandonare definitivamente il domicilio coniugale. Di contro, in linea con quanto ritenuto in appello, la perduranza dei vincoli familiari -correlati al rapporto di coniugio, all'epoca non integralmente rescisso- dava conto della persistente sussistenza del contesto sociale apprezzato dalla norma di riferimento anche per le condotte successive al venir meno della seconda convivenza coniugale (così da consentire di implementare il numero degli episodi circostanziati già acquisiti in forza del narrato reso in primo grado primo, considerando in particolare anche quello dell'ottobre del 2017). 3.3.2. Ancora, la sentenza di primo grado escludeva, dal novero dei fatti apprezzabili a sostegno della credibilità della persona offesa, i riferimenti operati alle condotte tenute nel corso della convivenza matrimoniale precedente alla prima interruzione del rapporto. Condotte, queste, certamente estranee all'imputazione, ma altrettanto coerentemente apprezzate dalla Corte del merito nel valutare la complessiva credibilità soggettiva della persona offesa e del suo racconto, perché comunque destinate ad offrire un quadro di riferimento del relativo contesto familiare all'evidenza compatibile con il narrato della Ch.Ad., perché ulteriormente ribadito dagli specifici episodi, circostanziati e mai disconosciuti dal primo giudice, avvenuti nel torno di tempo compreso dall'imputazione. In questa ottica, del resto, anche le dichiarazioni della madre della Ch.Ad. sono state coerentemente apprezzate dalla Corte del merito, a differenza di quanto opinato dal Tribunale: per un verso, infatti, dette propalazioni non consentono di escludere che le condotte aggressive del ricorrente riferitele continuarono dopo il primo abbandono del domicilio comune; per altro verso, danno complessivo corpo al tema della aggressività del ricorrente siccome riferita alla dichiarante dalla figlia, quale che fosse il contesto temporale al quale riferire le confidenze riferite dalla persona offesa. 3.3.3. A ciò si aggiunga, ancora, che il modesto ambito temporale coperto dalle condotte in contestazione (in definitiva poco meno di un anno, considerato che l'ultima aggressione risale all'ottobre del 2017), di per sé non ostativo al riscontro della abitualità tipica dei maltrattamenti, finiva, al contempo, per contribuire al riscontro dei tratti costitutivi dell'ipotesi di reato contestata, già fermandosi al quadro fattuale fotografato dal primo giudice: denotava, infatti, una intensità reiterativa, nel breve periodo, degli episodi di vessazione puntualmente circostanziati dal narrato della Ch.Ad., già validati, nel loro portato di credibilità anche dal Tribunale. Al contempo, finiva anche per dare sostanza anche alle più generiche indicazioni legate agli agiti quotidiani patiti dalla persona offesa, che, proprio per la detta cadenza sistematica, erano difficili da circostanziare con maggiore dettaglio. 3.3.4. Il fatto, poi, che nella sentenza di appello non siano state apprezzate le altre deposizioni testimoniali è aspetto privo di valenza dirimente, alla luce del contesto unicamente familiare nel quale si innestavano le condotte vessatorie descritte dalla persona offesa, tale da rendere probatoriamente indifferente il narrato dei terzi estranei alla relativa realtà. Quanto, infine, alla intrinseca contraddittorietà rappresentata dal Tribunale (con riferimento ai diuturni abusi sessuali patiti dalla persona offesa riferiti in primo grado), vale osservare che la stessa, nella sua effettiva consistenza, risulta essenzialmente neutralizzata dalle precisazioni rese nel corso della deposizione resa in appello (con la quale le condotte aventi uno sfondo " sessuale" non sono state più rappresentante in termini di sistematica quotidianità): in parte qua, piuttosto, il narrato si connota per una certa genericità (tanto da non aver supportato alcuna ulteriore imputazione ai danni del ricorrente) ma tanto non vale, di per sé, a mettere in discussione la complessiva attendibilità del racconto della Ch.Ad., per altri versi, probatoriamente consolidato. Da qui la reiezione del ricorso avuto riguardo alla condanna per maltrattamenti. 4. Ad una soluzione diversa si perviene con riguardo alle altre imputazioni. 4.1. La sentenza merita una conferma parziale quanto alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all'art. 570 comma 2, n. 2, cod. pen., escluso in primo grado per la ritenuta insussistenza del dolo. In linea di principio non possono che condividersi le argomentazioni rese dalla decisione gravata in relazione alla sostanziale indifferenza - sia sul piano della relativa condotta materiale che su quello del riscontro dell'elemento soggettivo del reato in contestazione- da ascrivere agli adempimenti parziali realizzati dal ricorrente laddove gli stessi non siano stati in grado di incidere sullo stato di bisogno dei soggetti beneficiari (nel caso non solo presunto, in ragione della minore età dei figli ma anche concretamente confermato dalla comprovata necessità della persona offesa di rivolgersi ai propri genitori a causa del mancato sostegno economico correlato agli inadempimenti del ricorrente). La sentenza, piuttosto, entra in una insanabile contraddizione laddove si precisa che in occasione del secondo periodo di coabitazione coniugale (settembre 2016/giugno 2017) il Pe.An. " avrebbe pagato tutte le spese familiari e il canone di locazione": situazione fattuale, quest'ultima, che mal si attaglia all'ipotesi di un adempimento parziale e lascia più coerentemente pensare all'insussistenza in sé della condotta materiale contestata in questo determinato contesto materiale. Siffatta situazione, così ricostruita, avrebbe dovuto portare alla conferma della decisione appellata limitatamente a tali condotte, seppur mutando la formula assolutoria. Ma produce, anche, ulteriori ricadute sulla responsabilità del Pe.An. in relazione a tale capo. La soluzione di continuità creata dal riscontrato adempimento impone, infatti, di frazionare in tre autonome porzioni fattuali l'unitarietà della contestazione mossa con l'imputazione. Occorrerà considerare partitamente, infatti: -le condotte comprese tra dicembre 2015 e agosto 2016, precedenti al detto adempimento integrale, attualmente tutte prescritte in mancanza di periodi di sospensione, non utilmente riscontrati; -le condotte comprese tra settembre 2016 e giugno 2017, per le quali, l'imputato andava assolto, per quanto già evidenziato; -le condotte successive al luglio 2017, realizzate sino alla sentenza di primo grado (9 ottobre 2020), in ragione del tipo di contestazione mossa (non chiusa alla data di esercizio dell'azione penale), rispetto alla quale vale il giudizio di responsabilità reso in appello, a fronte della indifferenza degli adempimenti parziali addotti dalla difesa mentre la mantenuta unitarietà della condotta riferita a questa porzione degli inadempimenti , riscontrati sottrae la relativa vicenda fattuale alla disciplina della prescrizione, portandola sotto l'egida propria dell'improcedibilità dettata dall'art 344 bis cod. proc. pen. Si impone in coerenza un annullamento della decisione impugnata che assume i toni dell'intervento rescindente integrale per i primi due periodi sopra indicati; e dell'annullamento con rinvio al solo fine di definire la quota di pena da considerare in aumento per il capo di imputazione in questione, limitatamente alla sola parte di condotta ricompresa nei più ristretti ambiti temporali definiti dalla presente statuizione. 4.2. L'annullamento è invece senza rinvio con riguardo all'imputazione mossa ai sensi dell'art 388 cod. pen., contestato all'interno del medesimo capo di imputazione relativo all'art 570 cod. pen. La sentenza impugnata, per il vero, argomenta con esclusivo riferimento solo su tale ultima imputazione; né, ancora, contiene cenni esplicativi riferiti alla imputazione di cui all'art 388 cod. pen. in tema di determinazione dell'aumento apportato per la continuazione riconosciuta con i maltrattamenti (complessivamente irrogato in mesi due di reclusione). Ciò premesso, in radice, va esclusa la correttezza in diritto di questa contestazione. Deve escludersi infatti che sussistano gli estremi del delitto di cui all'art. 388, comma 2, cod. pen. laddove la contestazione risulti, come nella specie, limitata, al semplice riferimento al mancato adempimento all'obbligo, imposto in sede di separazione personale, di versare una certa somma mensile al coniuge, quale contributo per il mantenimento dei figli minori. L'inosservanza di tale obbligo non rientra, infatti, nel paradigma delittuoso delineato dalla citata disposizione, la quale dà rilievo penale alla elusione dell'esecuzione di un "provvedimento del giudice civile, che concerna l'affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescrive misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito". Il concetto di "affidamento" di cui alla richiamata disposizione attiene esclusivamente alla relazione di fatto con la persona (tenendola presso di sé) o al complesso dei rapporti morali o giuridici di protezione relativa alla persona; di contro, esula da tale concetto, pur ampio, l'aspetto economico connesso al provvedimento di affidamento, autonomo rispetto a questo e non riverberantesi sull'esecuzione di esso. Conseguentemente, la violazione dell'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento in favore dei figli minori non concreta l'elusione del provvedimento del giudice in tema di affidamento dei minori stessi, proprio perché non va ad incidere direttamente sul rapporto interpersonale, che è oggetto esclusivo ed immediato della statuizione che disciplina l'affidamento (in termini, pedissequamente riportati, Sez. 6, n. 9414 del 02/05/2000, Rv. 217704). Da qui l'annullamento senza rinvio della decisione gravata in parte qua. 5. All'annullamento segue la competenza del Giudice del rinvio quanto alla determinazione delle spese affrontate dalla parte civile nel grado, come da nota allegata; nonché l'eventuale correzione dell'errore materiale indicato dalla difesa dell'imputato nel ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata quanto al reato di cui all'art 570 cod. pen. per il periodo sino ad agosto del 2016 per essere il reato estinto per prescrizione e per le condotte da settembre 2016 a giugno 2017 per non avere commesso il fatto. Annulla senza rinvio la medesima sentenza in relazione all'imputazione di cui all'art 388 cod. pen. perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso e rinvia per rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Così deciso in Roma il 30 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio Augusto - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Relatore Dott. TOSCANI Eva - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.Pi. nato a B il (Omissis) avverso la sentenza del 26/06/2023 della CORTE APPELLO SEZ. DIST. di TARANTO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO VALERIO LANNA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Taranto del 06/04/2022, che aveva ritenuto Di.Pi. colpevole, in concorso con Ca.Do., del reato di cui all'art. 12, comma 5, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per aver favorito - al fine di trarne un ingiusto profitto - la permanenza il territorio italiano della cittadina cinese Yu.Ho., non avente titolo di residenza permanente in Italia, in quanto la pratica di riconoscimento della protezione internazionale e il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di asilo politico, dalla stessa richiesta all'atto del suo ingresso in Italia il 03/10/2014, non era stata evasa e, per l'effetto, lo aveva condannato - previa applicazione della diminuente del rito abbreviato - alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro quattromila di multa, oltre che al pagamento delle spese processuali e con il beneficio della sospensione condizionale della pena. 2. Ricorre per cassazione Di.Pi., a mezzo dell'avv. Ti.Sa., deducendo due motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità o di inutilizzabilità, in relazione agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. Nel rendere sommarie informazioni testimoniali alla polizia giudiziaria in data 06/11/2019, Li.Ma. aveva immediatamente fatto riferimento al fatto che il matrimonio contratto con la cittadina cinese Yu.Ho. fosse fittizio e gli fosse stato proposto di contrarlo - dietro compenso economico - al solo fine di consentire a quest'ultima di ottenere il permesso di soggiorno in Italia. Li.Ma. avrebbe dovuto quindi, fin dall'inizio della sua deposizione, essere ritenuto indagabile e così essere ascoltato solo se assistito dalle garanzie di legge, con interruzione immediata del verbale di sommarie informazioni; ciò è avvenuto, invece, solo dopo oltre un'ora di deposizione, allorquando il Li.Ma. stesso aveva riferito una gran quantità di informazioni. Come già rappresentato in sede di appello, pertanto, le dichiarazioni rese da Li.Ma. sono affette da inutilizzabilità patologica. 2.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per manifesta illogicità della motivazione. Quando Li.Ma. e la Yu.Ho. si sono uniti in matrimonio, quest'ultima non era irregolarmente presente in Italia, dato che il rigetto della sua domanda di protezione internazionale è intervenuta solo in data 03/03/2022 e anzi, da tale momento, ella avrebbe ancora potuto presentare ricorso, avverso la decisione reiettiva. 3. Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, che si limita a reiterare le medesime questioni affrontate da entrambi i giudici di merito, che le hanno disattese con doppia pronuncia conforme e con motivazione congrua e priva di illogicità manifeste. La giurisprudenza di legittimità ha escluso la inutilizzabilità, nei confronti di terze persone, delle dichiarazioni rese da un soggetto prima della interruzione del verbale ex art. 63 cod. proc. pen. Parimenti da rigettare è il secondo motivo, essendo risultata palese la condizione di illegale permanenza in Italia, nella quale versava la cittadina cinese Yu.Ho. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Come sintetizzato in parte narrativa, la difesa con il primo motivo sostiene, anzitutto, la generale inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal Li.Ma., deducendo violazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. 2.1. È sufficiente ribadire, allora, il principio di diritto da tempo fissato da questa da questa Corte - e correttamente richiamato nella motivazione dell'impugnata sentenza - in base al quale le dichiarazioni rese dinanzi alla polizia giudiziaria, da una persona al momento non sottoposta ad indagini ed aventi una connotazione autoindiziante, a carico del dichiarante stesso, non sono utilizzabili nei confronti del soggetto che le ha rese, ma sono pienamente utilizzabili a carico dei terzi, atteso che la garanzia di cui all'art. 63, comma 1, cod. proc. pen. è posta a tutela del solo dichiarante (Sez. 2, n. 28583 del 18/06/2021, Costantino, Rv. 281807; Sez. 2, n. 5823 del 26/11/2020, dep. 2021, Santoro, Rv. 280640; Sez. 2, n. 23594 del 11/06/2020 Trapani, Rv. 279804; Sez. 2, n. 30965 del 14/07/2016, Di Giacomo, Rv. 267571; Sez. 5, n. 43508 del 28/05/2014, Barba, Rv. 261078; Sez. 2, n. 283 del 01/10/2013, dep. 2014, Palminio, Rv. 258105). 2.2. In ipotesi difensiva, inoltre, la denunciata violazione di norme processuali si anniderebbe nell'esser stato il verbale a carico di Li.Ma. interrotto non immediatamente dopo la emersione di affermazioni autoindizianti, bensì, del tutto impropriamente, solo allorquando questi aveva praticamente già reso l'intera gamma delle sue propalazioni di contenuto eteroaccusatorio. Deduce sostanzialmente la difesa che, non interrompendo subito il verbale, siano state acquisite surrettiziamente dichiarazioni eteroaccusatorio, provenienti da soggetto già raggiunto da elementi indizianti ricavabili dalle sue stesse dichiarazioni. Trattasi, però di un vizio del tutto insussistente. Come sopra chiarito, infatti, la garanzia ex art. 63, comma 1, cod. proc. pen. è posta a tutela dello stesso dichiarante e non dei terzi; tale dato giustifica l'assenza della sanzione di inutilizzabilità contra alias delle dichiarazioni rese dopo l'emersione di elementi autoindizianti. Né una sanzione di tal genere può ricavarsi, come pretende la difesa, dal mero dato della tempestività dell'interruzione del verbale di assunzione di informazioni. 3. Il secondo motivo è aspecifico e meramente confutativo, oltre che ripetitivo della medesima doglianza che aveva già formato oggetto del secondo motivo di gravame e che la Corte territoriale ha disatteso, con argomentazioni logiche, puntuali e prive del pur minimo profilo di contraddittorietà. Come osservato dal Procuratore generale in sede di requisitoria, la succitata cittadina cinese versava in una situazione di irregolarità nel territorio dello Stato, al momento dei fatti, dato che il suo permesso di soggiorno temporaneo era scaduto il 22/07/2018 e non ne era stato più richiesto il rinnovo. Allorquando tale permesso venne a scadenza, infatti, non fu seguito da altra domanda di analogo tenore, bensì dalla differente richiesta di permesso per ricongiungimento familiare, originato proprio dal (fittizio) matrimonio per ilo quale si è proceduto. Deriva da tale iter il fatto che, nel momento in cui contrasse matrimonio con Li.Ma., la donna fosse irregolarmente presente in territorio nazionale. La motivazione adottata dalla Corte di appello di Lecce, in conclusione, pare anche sul punto adeguata e priva di vuoti, narrativi o logici, quindi immune da possibili censure nel giudizio di legittimità. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, si impone il rigetto del ricorso; segue ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Ricorrendone le condizioni, infine, deve essere disposta l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 26 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 18 giugno 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati: Dott. MELONI Marina - Presidente Dott. TRICOMI Laura - Consigliere Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere- Rel. SENTENZA sul ricorso 15058/2023 proposto da: De.Do., elettivamente domiciliata presso l'avv. Do.Mo. (in sostituzione dell'avv. Si.Be.) dal quale è rappres. e difesa, per procura speciale in atti; -ricorrente - -contro Ca.Gi., elett.te domic. presso l'avv. Cl.Pi. dal quale è rappres. e difeso, per procura speciale in atti; -controricorrente- Comune di Casalmaiocco, in persona del sindaco p.t.; avv. Ma.Na., nella qualità di curatrice speciale del minore Ca.Gi.: Procura Generale presso la Corte d'appello di Milano; -intimati- avverso il decreto della Corte d'appello di Milano, n. 390/2023, pubblicato in data 9.02.2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio, dal Cons. rel., dott. Rosario Caiazzo, a seguito della pubblica udienza del 30.01.2024; udito il Pubblico Ministero. FATTI DI CAUSA Con decreto del 2018 il Tribunale di Lodi disponeva l'affidamento del minore Ca.Gi., nato a B. il (Omissis), al Comune di Casalmaiocco, con collocamento presso la madre, incaricando il Servizio sociale di regolamentare le visite paterne, con obbligo per il padre, Ca.Gi., di contribuire al mantenimento del minore con la somma di Euro 250,00 mensile, oltre al 50% delle spese straordinarie. Con decreto emesso il 17.6.22, il Tribunale, decidendo sul ricorso di Ca.Gi.- il quale aveva chiesto l'affido esclusivo del minore con collocamento prevalente presso di sé, e di statuire l'obbligo della madre di contribuire al mantenimento del minore con la somma di Euro 250,00 mensile- previo espletamento di c.t.u. sulla capacità genitoriale delle parti e sulla situazione psicofisica del minore, disponeva: l'affidamento del minore al suddetto Comune; il collocamento temporaneo del minore in contesto comunitario, la cui attuazione ad opera del Servizio Sociale dell'ente affidatario era consentito anche con l'ausilio della forza pubblica; incaricava il suddetto Servizio del Comune affidatario di regolamentare i tempi e le modalità per il diritto di visita di entrambi i genitori, nell'esclusivo interesse del minore, e di realizzare tutti gli interventi opportuni, anche di tipo psicologico ed educativo; poneva a carico di entrambe le parti l'obbligo di contribuire, nella misura del 50%, a tutte le spese ritenute necessario comunque utili da parte dell'ente affidatario per il periodo di collocamento del minore presso il contesto comunitario. A sostegno della decisione, il Tribunale richiamava le conclusioni del c.t.u. che, rilevata l'incapacità dei genitori di fornire risposte emotive ed adatte al minore per il loro impegno nel conflitto di coppia che aveva investito il minore fin dalla nascita, aveva concluso per l'opportunità di confermare l'affido del minore all'ente, prevedendo il collocamento temporaneo dello stesso in comunità, stante l'inadeguatezza del contesto di vita attuale, non idoneo a garantirgli sane prerogative di crescita perché compromesso dalla presenza ingombrante della madre e dalle sue fragilità genitoriali, anche quanto all'incapacità di preservare la figura paterna. Il Tribunale evidenziava altresì, sulla scorta delle relazioni del Servizio Sociale, confermate dalla c.t.u., la presenza di plurimi aspetti di criticità legati all'incapacità della madre di preservare la relazione del minore con il padre, sia di aspetti di fragilità ed immaturità del padre, tali da escludere il collocamento prevalente del minore presso uno dei genitori che, per diverse ragioni, presentavano rilevanti carenze nell'esercizio del ruolo genitoriale, in quanto, la madre del minore, De.Do. aveva posto in essere comportamenti ostruzionistici che avevano reso impossibile la frequentazione tra padre e figlio, se non per sporadiche occasioni in prossimità di provvedimenti giudiziari; tale condotta dimostrava una preoccupante immaturità nella gestione del rapporto con il figlio- confermando la sua tendenza a caricare il minore delle proprie paure irrazionali rispetto alla figura paterna, influenzandolo negativamente nel rapporto con il padre (ripetendo gli atteggiamenti di diffidenza sperimentata con la madre, come emerso nell'audizione del minore); a fronte di ciò, il padre presentava tratti caratteriali di passività che escludevano l'opportunità di un collocamento di Ca.Gi. presso di lui, anche per la condotta di radicale chiusura del minore verso il padre (che rendeva necessaria l'adozione di adeguati supporti per realizzare una conoscenza reciproca e un riavvicinamento graduali fra i due, i cui rapporti erano stati interrotti negli ultimi cinque anni); era stato rilevato il fallimento del tentativo di collocamento comunitario diurno del minore, in ragione delle interferenze della madre (la quale aveva violato l'esigenza di riservatezza, attraverso una massiccia azione divulgativa sui social network e sui media locali per svalutare l'operato del Servizio Sociale e le decisioni giudiziarie, e inoltre, contrariamente alle prescrizioni, accompagnando Ca.Gi. al centro sempre con terzi, ingenerando così la chiusura del minore rispetto al centro diurno nel quale non aveva mai voluto entrare). Pertanto, il Tribunale aveva disposto l'immediato collocamento del minore in una struttura residenziale. Avverso tale decreto proponeva reclamo la madre del minore, chiedendo il rientro di quest'ultimo presso la casa familiare. Con decreto del 18.1.23, la Corte d'appello ha rigettato il reclamo, sulla base delle risultanze della c.t.u. e delle numerose relazioni del Servizio sociale, osservando che: la madre non era allineata ai bisogni del bambino; il padre manteneva un corretto esame della realtà, ma appariva bisognoso di essere supportato; con riferimento al minore, erano emerse criticità che deponevano per una prognosi infausta circa il possibile sviluppo di psicopatologie che ne condizionavano una sana ed armonica crescita; al riguardo, l'assetto ambientale era certamente definibile come fattore ad alto rischio di morbosità mentale; lo stato psichico attuale del minore deponeva per la presenza di una pericolosa e ingiustificata polarizzazione verso il materno che mirava alla distruzione del padre; la riuscita del bambino in ambito extrafamiliare non appariva un indicatore del buon funzionamento del contesto nel quale era inserito, ma una difesa psichica messa in atto dallo stesso per salvare parti di sé dalla distruzione totale; in definitiva, il contesto di vita del minore, sperimentato nell'ambiente materno, non sembrava garantire allo stesso sane prerogative di crescita, sia per l'incapacità della madre di preservare la relazione del figlio con il padre, sia per l'insussistenza di un legame tra la genitrice e il figlio che possa servire allo stesso come base di rassicurazione e di individuazione di sé nella forma più originaria; ciò che nuoceva al minore era la relazione tra i genitori come fattore di destabilizzazione, per cui lo stesso stava sviluppando una pericolosa pscicopatia derivante da una percezione del mondo esterno e da quello affettivo; pertanto, il c.t.u., data la diffusa compromissione del contesto di vita del minore, la nefasta prognosi di strutturare la propria personalità in senso psico-patologico e la mancanza di attaccamenti significativi e sani, esprimeva la necessità di mantenere l'affido all'ente e del collocamento in una struttura comunitaria. In definitiva, la Corte d'appello, sulla base della c.t.u. e delle varie relazioni del Servizio Sociale, ha respinto il reclamo, ritenendo che il ricollocamento del minore presso la sua abitazione avrebbe pregiudicato definitivamente le possibilità di un percorso di alfabetizzazione emotiva di Ca.Gi. e di interiorizzazione equilibrata di entrambe le figure genitoriali, esponendolo nuovamente alla personalità disturbata della madre la quale, peraltro, non aveva acconsentito ad un percorso di sostegno alla genitorialità, non fornendo al Servizio Sociale e alla stessa Corte, informazioni sul percorso psicologico asseritamente intrapreso presso un terapeuta privato. De.Do. ricorre in cassazione con sette motivi. Ca.Gi. resiste con controricorso. Il Procuratore Generale ha depositato la requisitoria, chiedendo il rigetto del ricorso. All'udienza pubblica del 30 gennaio 2024, le parti hanno discusso la causa, con l'intervento del Pubblico Ministero. MOTIVI DELLA DECISIONE Il primo motivo denunzia violazione degli artt. 3 Cedu, 13, 117 Cost., per aver la Corte d'appello confermato il provvedimento di prelievo del minore con l'uso della forza, anche in violazione della riserva di legge ex art. 13 Cost., in quanto disposto ed eseguito con modalità disumane e degradanti. In particolare, la ricorrente lamenta l'assoluta stringatezza della motivazione, in gran parte fondata sul recepimento dei rilievi del c.t.u. e del Servizio Sociale, specie con riguardo alla questione della violazione della suddetta riserva di legge, che sarebbe stata consumata attraverso le modalità disumane del prelievo del minore presso la casa comunale, in contrasto altresì con gli artt. 330, 333, c.c. Il secondo motivo denunzia violazione degli artt. 330, 333, c.c., e omesso esame di fatto decisivo, per aver la Corte d'appello omesso di verificare l'attendibilità scientifica della teoria posta a base della sostanziale diagnosi o qualificazione formulata nei confronti della ricorrente di "madre ostacolante". Al riguardo, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia deciso recependo le conclusioni del c.t.u., sostanzialmente fondata sulla stigmatizzazione della sua figura, intesa come "madre ostacolante", con connessa alienazione parentale ai danni del padre, ritenuta non avente dignità scientifica, e paventando che il brusco distacco del minore dalla madre non risponda all'interesse del minore. Il terzo motivo denunzia violazione degli artt. 330, 333, c.c., e omesso esame di fatto decisivo, per aver la Corte d'appello omesso di indicare un termine per la presumibile durata dell'affido etero-familiare del minore, senza aver approntato un preciso progetto di recupero della capacità genitoriale, considerando che il minore si trova nella comunità dal luglio del 2022. Il quarto motivo denunzia violazione degli artt. 337 octies c.c., 315 bis, c.3, c.c., 336 c.p.c. 38 disp. att. c.p.c., e della normativa in materia di audizione del minore, per aver la Corte territoriale omesso ogni valutazione delle dichiarazioni del minore in sede di ascolto. Al riguardo, la ricorrente richiama il verbale dell'ascolto del figlio innanzi al Tribunale, il 3.5.22, in ordine al timore del padre. Il quinto motivo denunzia violazione degli artt. 132, c.2, n.4, c.p.c., 111, c.6, Cost., per non aver la Corte d'appello tenuto conto della realtà fattuale e di tutti gli elementi della fattispecie. La ricorrente lamenta che la Corte d'appello abbia pronunciato sula base della rilevata conflittualità tra la stessa e il Servizio Sociale, in considerazione della pregressa mancata collaborazione della madre, trattandosi di motivazione apparente. Il sesto motivo denunzia violazione degli artt. 8 Cedu, 117 Cost., per aver la Corte d'appello estromesso la madre dalla relazione con il figlio, con misura sproporzionata, che non indica un termine finale. Il settimo motivo denunzia violazione degli artt. 6, 8 Cedu, 117 Cost., per aver la Corte d'appello dilatato inutilmente il decorso del tempo impedendo al minore il ricongiungimento con la madre, in violazione delle disposizioni sulla ragionevole durata del procedimento, essendo il procedimento stato promosso nel 2018, e da allora perdura l'allontanamento del minore dai genitori. Il primo motivo è inammissibile. La ricorrente contesta che il provvedimento che ha disposto il collocamento temporaneo del minore in contesto comunitario, motivato sul solo recepimento delle conclusioni del c.t.u., sia stato eseguito, con l'uso della forza, con modalità disumane e degradanti, avendo altresì stigmatizzato l'aggressività della madre, lamentando che tale misura costituisca comunque, di per sé, prassi violenta, traumatica e dannosa per il bambino. Il provvedimento impugnato è stato disposto sulla base di quanto relazionato dal c.t.u. e dai Servizi sociali che hanno ritenuto non conforme al miglior interesse del minore la permanenza dello stesso nell'abitazione familiare, considerato che il contesto di vita del minore, sperimentato nell'ambiente materno (come sopra esposto) non sembrava garantire al minore sane prerogative di crescita, sia per l'incapacità della madre di preservare la relazione del figlio con il padre, sia per l'insussistenza di un legame tra la genitrice e il figlio che potesse servire allo stesso come base di rassicurazione e di individuazione di sé nella forma più originaria, con la conseguente nefasta prognosi di strutturare la propria personalità in senso psico-patologico nel caso in cui il minore non fosse stato sottratto all'ambiente familiare. Pertanto, i riferimenti della ricorrente ai minori emigrati o ai maltrattamenti in famiglia non appaiono pertinenti. Circa la critica afferente alla motivazione stringata, va osservato che l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, consente di censurare, per omesso esame, la sentenza che abbia recepito la consulenza tecnica, ove venga individuato un preciso fatto storico, sottoposto al contraddittorio delle parti, di natura decisiva, che il giudice del merito abbia omesso di considerare (Cass., n. 18886/23). Nella specie, la ricorrente ha genericamente lamentato la stringatezza della motivazione, senza addurre l'omesso esame di fatti decisivi inerenti alle conclusioni cui il c.t.u. è pervenuto. Quanto alla specifica doglianza relativa alle modalità degradanti del prelievo forzoso del minore, essa è inammissibile, sia perché dal provvedimento non si evincono tali modalità di esecuzione del provvedimento impugnato, sia in quanto non decisiva, nel senso che riguarda un fatto ormai verificatosi e anche a voler ritenere non giustificata la previsione del ricorso alla Forza Pubblica non si vede, infine, quale interesse avrebbe, in oggi, la ricorrente a farne dichiarare l'illegittimità, posto che nessuna utilità pratica essa ritrarrebbe da un ipotetico accoglimento delle sue doglianze. Al riguardo, rimane comunque sullo sfondo la questione del prelievo forzoso dei minori in casi analoghi a quello per cui è causa che, in linea di principio, rimane legittimo se rientra nei limiti strettamente necessari per realizzare il miglior interesse del minore in ordine alla sua salute (la citata ordinanza n. 9691 rimarcava, in motivazione, la non conformità dell'uso della forza ai principi dello Stato di diritto- ex artt. 2, 13, Cost.-nei confronti del minore nello specifico caso esaminato in cui essa non appariva proporzionata alle concrete esigenze del minore). Il secondo motivo è inammissibile. Anzitutto, va rilevato che le pronunce di questa Corte in ordine alla cd. "alienazione parentale" riguardano fattispecie diverse da quella in esame nelle quali la tutela del minore era ravvisata nell'esigenza di sottrarre il minore alla madre che tendeva a distaccarlo (alienarlo) dal padre (v. Cass., n. 13217/21; n. 9691/22: in tema di affidamento del figlio di età minore, qualora un genitore denunci i comportamenti dell'altro tesi all'allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), nella specie nella forma della sindrome della cd. "madre malevola" (MMS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova comprese le consulenze tecniche e le presunzioni, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.). Come detto, nella fattispecie, il provvedimento impugnato tende a preservare il minore dall'influenza di entrambi i genitori, attraverso il suo collocamento presso una struttura comunitaria ove il minore si trova, con motivazione non sindacabile in questa sede. Né è rilevante il riferimento all'art. 32 Cost. in ordine all'imposizione alla madre del cd. percorso di sostegno psicologico, se si consideri che la Corte d'appello ha ritenuto di valorizzare tale rifiuto da parte della ricorrente come mancanza di volontà di adattare la propria condotta di genitore alle esigenze del figlio. Il terzo e sesto motivo, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono inammissibili. Al riguardo, è stato affermato che l'affidamento familiare dei minori non può essere prorogato sine die, poiché si tratta di una misura per natura temporanea, destinata a dare soluzione ad una situazione transitoria di difficoltà o di disagio della famiglia di origine, che mira al reinserimento del minore nel suo ambiente familiare, come si evince anche dal disposto dell'art. 4 L. n. 184 del 1983, che prevede l'indicazione della sua presumibile durata e stabilisce tempi e modalità dell'eventuale proroga, senza che possa essere strumentalmente utilizzato per nascondere una diversa tipologia di affidamento, quale può essere l'affidamento a rischio giuridico o quello disposto in pendenza del giudizio di accertamento dello stato di abbandono (Cass., n. 33147/22, n. 24727/21). Nella specie, il provvedimento riguardante il minore non indica un termine finale, ma ciò non equivale a dire che esso possa preludere ad una diversa tipologia di affidamento, trattandosi comunque di collocamento temporaneo presso una comunità, decisione rebus sic stantibus suscettibile di variazioni nel caso di fatti nuovi sopravvenuti, nel superiore interesse del minore. Il quarto motivo è inammissibile. La ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso ogni valutazione delle dichiarazioni del minore (rese innanzi al Tribunale il 3.5.22) in ordine al rapporto con il padre, dalle quali emergeva il timore del minore nei confronti di quest'ultimo. Al riguardo, la ricorrente, pur avendo ampiamente premesso la normativa e l'orientamento giurisprudenziale circa l'obbligo di ascoltare il minore, lamenta solo che la Corte d'appello non avrebbe tenuto conto delle suddette dichiarazioni del figlio circa i rapporti con il padre, sul presupposto che quest'ultimo fosse condizionato dalla madre. La critica non è pertinente, né decisiva, in quanto il provvedimento impugnato ha per oggetto il collocamento temporaneo del minore in comunità, sulla base, come detto, della relazione del c.t.u. e delle plurime relazioni dei Servizi sociali, mentre entrambi i genitori hanno diritto di visita. Il motivo tende, in realtà, ad ottenere una diversa valutazione del merito vagliato dalla Corte di appello sulla base dell'esame comparativo sia delle risultanze istruttorie (consulenza, relazioni, colloqui etc.) che dell'audizione del minore. Il quinto motivo è inammissibile in quanto la Corte d'appello ha motivato sulla base di plurimi rilievi attinti dalla c.t.u. e dalle suddette relazioni, dando atto anche dell'atteggiamento scarsamente collaborativo della madre del minore nei confronti dei Servizi sociali. Invero, il motivo è chiaramente finalizzato ad ottenere un inammissibile riesame del merito, a fronte delle motivate conclusioni della Corte d'appello. Al riguardo, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 04/04/2017, 8758; Cass., 02/08/2016, n. 16056; Cass., Sez. U., 27/12/2019, n. 34476; Cass., 04/03/2021, n. 5987). Il settimo motivo è parimenti inammissibile, tendendo al riesame dei fatti; giova altresì rilevare che il decorso del tempo dovuto alla complessità e delicatezza del caso, di per sé, non può intendersi come fattore che depone per il rientro del minore nel contesto familiare, considerando che il collocamento temporaneo del minore tende al superamento della crisi familiare e prelude ad un provvedimento definitivo fondato sull'esito di tale misura. Le spese seguono la soccombenza. La causa risulta esente dal contributo unificato. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 4.200,00 oltre alla maggiorazione del 15% per rimborso forfettario delle spese generali, oltre iva e cpa. Dispone altresì che ai sensi dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti. Così deciso nella camera di consiglio del 30 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2024

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7518 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Questura di Roma, non costituito in giudizio; Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con provvedimento del 14 aprile 2022, la Questura di Roma rigettava l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi commerciali e di lavoro autonomo già rilasciato al cittadino -OMISSIS- -OMISSIS-, odierno appellante. Il provvedimento veniva adottato sulla base di una valutazione negativa di pericolosità sociale. Il Questore, in particolare, evidenziava che la Corte di Appello di Roma aveva pronunciato contro lo straniero sentenza di condanna il 18 ottobre 2021 per il reato di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309/1990, ipotesi ritenuta ostativa al rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 4, comma terzo, d.lgs. n. 286/1998, ratione temporis vigente. Valorizzava altresì quanto specificato nella sentenza di condanna, ossia che l'odierno appellante conduce un'attività di autolavaggio e ha negato il possesso di ingente quantitativo di dosi si stupefacenti, tentando di occultarli e darsi alla fuga. Specificava inoltre che lo straniero non aveva legami qualificati in Italia, era stato cancellato dai Servizi Telematici del Comune di Roma per irreperibilità il 6 maggio 2020 e che, in seguito alla comunicazione di cui all'art. 10 bis l. n. 241/1990, non aveva prodotto alcuna documentazione sulla propria residenza o sulla disponibilità di un alloggio. Il provvedimento del Questore veniva impugnato davanti al Tar del Lazio, chiedendone l'annullamento previa sospensione dell'esecuzione. Deduceva la sussistenza di rapporti familiari sul territorio nazionale, dove vive -OMISSIS-, e l'omessa valutazione della propria condizione di integrazione sociale e lavorativa. Valorizzava inoltre il riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna e della sospensione condizionale della pena, oltre al decorso del tempo necessario a estinguere il reato. Si costituiva il Ministero dell'Interno, sostenendo l'assenza di vizi del provvedimento questorile, che avrebbe correttamente effettuato il bilanciamento richiesto dalla legge. Il Tar respingeva l'istanza cautelare e l'ordinanza veniva impugnata innanzi al Consiglio di Stato. Quest'ultimo, con ord. n. -OMISSIS-, accoglieva il ricorso, ritenendo presenti i requisiti per la concessione della misura, anche in ragione dei dubbi di incostituzionalità dell'automatismo espulsivo nell'ipotesi di condanna ex art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309/1990. Con sent. n. -OMISSIS-, il Tar Lazio rigettava il ricorso, deducendo che il Questore non avrebbe operato un automatismo nella negazione del rinnovo del titolo, avendo tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie. Quanto agli altri motivi, affermava che l'odierno appellante non aveva dato prova di vivere con -OMISSIS- e che non rilevano né la sospensione condizionale della pena né l'estinzione del reato o della pena, a fronte del disvalore della condotta in esame e della condanna subita. La sentenza del Tar veniva appellata, deducendo tre diversi motivi, e ne veniva chiesta la sospensione degli effetti. In particolare, il Tar non avrebbe tenuto in considerazione né la sent. n. 88/2023 della Corte Costituzionale, che censura l'automatismo espulsivo nei casi di spaccio di lieve entità, né l'esercizio da parte dell'appellante di un'attività imprenditoriale e il suo reinserimento sociale ed economico né i benefici della non menzione e della sospensione condizionale. Inoltre, errerebbe nel ritenere non pertinente la violazione del diritto al ricongiungimento familiare, stante la presenza -OMISSIS- dell'odierno appellante in Italia. Infine, la sentenza andrebbe riformata avendo ritenuto che l'estinzione del reato ha effetto solo sul piano penalistico, non elidendo da sola il disvalore del fatto, autonomamente valutabile dalla p.a. Si costituiva il Ministero dell'Interno, chiedendo la reiezione dell'appello. Con ordinanza n. -OMISSIS-, è stato respinto l'appello cautelare. Alla pubblica udienza dell'8 febbraio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO L'appello è fondato e deve essere accolto. Tutti i motivi di ricorso, stante la stretta connessione, possono essere trattati congiuntamente. Dagli atti di causa, invero, risulta che l'appellante è stato condannato unicamente per la fattispecie di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 il 18 marzo 2016. In tale occasione, il Giudice penale riconosceva il beneficio della sospensione condizionale della pena. La pronuncia è stata confermata in appello. Dalla documentazione si evince che, prima dell'emanazione del provvedimento questorile, il reato si era estinto ai sensi degli artt. 163 c.p. e 167 c.p., fatto di cui l'amministrazione non ha tenuto conto nella valutazione effettuata ai fini del rigetto. Questa Sezione, con ordinanza n. 5492, pubblicata in data 1 luglio 2022, ha sollevato la questione di rilevanza costituzionale dell'art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con agli artt. 3, 117, primo comma, Cost. in riferimento all'art. 8 Cedu nella parte in cui, richiamando tutti "i reati inerenti gli stupefacenti" prevedeva che la fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 fosse automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno. Con la richiamata ordinanza, esclusa la percorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, la Terza Sezione ha dubitato della tenuta costituzionale sotto molteplici profili tutti attinenti alla violazione del principio di proporzionalità e del principio di ragionevolezza. Per il Collegio: "anche nel caso della condotta di spaccio di sostanza stupefacente di lieve entità, privare l'amministrazione del potere di valutare la situazione concreta - il percorso di reinserimento nella società, l'integrazione socio-lavorativa, l'assenza di legami familiari anche nel Paese di origine, la personalità dell'autore - sia contrario al principio di proporzionalità perché non necessario. La scelta legislativa di parificare fattispecie di reato che si connotano per violenza, efferatezza, condotte contrarie alla vita, all'incolumità fisica e psichica, alla libertà sessuale (quali, tra gli altri, reati di omicidio, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni) con un reato che, ancorché suscettibile di essere un potenziale pericolo per beni di interesse rilevantissimo - la salute, la sicurezza pubblica, il benessere delle future generazioni - lo stesso legislatore, per le modalità di realizzazione della condotta criminosa nonché per il minor grado di aggressione al bene giuridico, ha ritenuto meno grave, prevedendo una collocazione topografica autonoma, un trattamento sanzionatorio più mite e un conseguente regime processuale differenziato nei termini che seguono". La Corte Costituzionale, con sentenza 8 maggio 2023, n. 88, sopra richiamata, dopo aver ricordato i propri precedenti e quelli della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in materia di principio di proporzionalità, ha dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, chiarendo che: "in presenza di una questione concernente il bilanciamento tra due diritti, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del test di proporzionalità, che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi (ex plurimis, sentenze n. 260 del 2021, n. 20 del 2019 e n. 137 del 2018). Così, nel vagliare la complessiva ragionevolezza e proporzionalità delle previsioni che, come nel caso oggi in esame, implicano l'allontanamento dal territorio nazionale di uno straniero, questa Corte ha affermato la necessità di "un conveniente bilanciamento" tra le ragioni che giustificano la misura di volta in volta prescelta dal legislatore, tra le quali, segnatamente, la commissione di reati da parte dello straniero, "e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell'interessato, fondato appunto sull'art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi" (ordinanza n. 217 del 2021, di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE). Se, dunque, per un verso, al legislatore va riconosciuta un'ampia discrezionalità nella regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno di uno straniero nel territorio nazionale, in considerazione della pluralità degli interessi che tale regolazione riguarda (ex plurimis, sentenze n. 277 del 2014, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994), per altro verso occorre chiarire che tale discrezionalità "non è assoluta, dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disciplina dell'immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei confronti del cittadino e del non cittadino" (sentenza n. 202 del 2013; in precedenza, anche sentenze n. 172 del 2012, n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010, n. 78 del 2005). Del resto, come ripetutamente affermato da questa Corte, "le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit" (ex plurimis, sentenze n. 253 del 2019, n. 268 del 2016, n. 213 e n. 57 del 2013), sussistendo l'irragionevolezza della presunzione assoluta tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (ex plurimis, sentenza n. 213 del 2013, nello stesso senso, sentenze n. 202 e n. 57 del 2013"). In particolar modo, la Corte Costituzionale ha precisato che: "nel caso oggi in esame, esiste, infatti, la possibilità concreta di accadimenti contrari alla presunzione introdotta dalla norma censurata. Ben può verificarsi, invero, che uno straniero commetta il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale, per la sua lieve entità, per le circostanze del fatto, per il tempo ormai trascorso dalla sua commissione, per il percorso rieducativo eventualmente seguito alla condanna, non sia tale da comportare un giudizio di pericolosità attuale riferito alla persona del reo. Risulta allora contrario al principio di proporzionalità, letto anche alla luce dell'art. 8 CEDU, escludere, in dette ipotesi, la possibilità che l'amministrazione valuti la situazione concreta, in relazione al percorso di inserimento nella società . Tanto più ove si consideri che si fa qui riferimento, come chiarito, alla sola ipotesi di rinnovo, e non di rilascio, del permesso di soggiorno: ciò che lascia intravvedere - particolarmente in considerazione della circostanza che si tratta di permesso per lavoro - un possibile processo di integrazione dello straniero, processo che sarebbe irreversibilmente compromesso ove non si consentisse la prosecuzione del percorso lavorativo intrapreso. Di tanto è necessario che l'amministrazione procedente dia conto nella valutazione che deve essere alla stessa rimessa, in sede di disamina della domanda di rinnovo del permesso, al fine di evitare che tale valutazione si traduca in un giudizio astratto e, per ciò solo, lesivo dei diritti garantiti dall'art. 8 CEDU". Per effetto della pronuncia del giudice delle leggi, l'appello deve quindi essere accolto, con il conseguente obbligo per la Questura di riesaminare la situazione del cittadino straniero, provvedendo a valutare in concreto la sua pericolosità sociale tenendo conto, da un lato, del tipo di reato commesso e della sua estinzione e, dall'altro, della sua condizione familiare, lavorativa e abitativa attuale in base agli elementi di fatto forniti dall'interessato. Opererà quindi il necessario bilanciamento tra gli opposti interessi, fornendo un'adeguata motivazione sulla scelta operata che, allo stato, risulta affetta da irragionevolezza e sproporzione. Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi tra le parti, ricorrendo giusti motivi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, accoglie il ricorso in primo grado e annulla il provvedimento impugnato. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente, Estensore Stefania Santoleri - Consigliere Giovanni Pescatore - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Angelo Roberto Cerroni - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3398 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Na. Ur., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Questura Bologna, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Prima -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Questura Bologna e di Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il cittadino -OMISSIS- -OMISSIS-, titolare del permesso di soggiorno n. -OMISSIS-, rilasciato per motivi di lavoro subordinato, scaduto in data 30 marzo 2020, in data 29 maggio 2020 ha presentato istanza di rinnovo del citato titolo. 2. Con decreto del 3 agosto 2021, il Questore di Bologna ha rigettato la richiesta, sul rilievo della pericolosità sociale dell'interessato. 3. Avverso tale diniego, l'interessato ha proposto ricorso avanti al competente Tar per l'Emilia Romagna, il quale con ordinanza n. -OMISSIS- ha accolto l'istanza cautelare invitando l'Amministrazione a "procedere al riesame della posizione del ricorrente, con valutazione complessiva di tutti gli elementi concorrenti alla definizione della domanda di concessione del rinnovo del beneficio in parola, nel bilanciamento di tutti valori". 4. All'esito del riesame, con provvedimento del 30 dicembre 2021, il Questore ha confermato il precedente rifiuto. In particolare, l'Amministrazione ha evidenziato l'esistenza a suo carico di numerosi precedenti penali e carichi pendenti, per vari reati di particolare allarme sociale, alcuni dei quali rientranti nel cata dei reati ostativi alla concessione del provvedimento richiesto (art. 4, comma 3 T.U.I.). Inoltre, l'Amministrazione ha ritenuto, nonostante le disposizioni di cui ai commi 5 e 5 bis dell'art. 5 T.U.I., che i vincoli familiari dell'interessato sul territorio (-OMISSIS-, che nell'ottobre del 2021 hanno richiesto e ottenuto la cittadinanza) non sono idonei ad una positiva rivalutazione dello straniero. 5. Anche il nuovo diniego veniva impugnato davanti al medesimo giudice, il quale disponeva la riunione dei ricorsi. 6. La Prima Sezione del Tar Emilia Romagna, con sentenza n. -OMISSIS-, ha dichiarato improcedibile il primo ricorso e rigettato il secondo. Nello specifico, il giudice di primo grado ha affermato la correttezza logico-motivazionale del provvedimento impugnato, che avrebbe "ampiamente rivalutato la posizione del ricorrente adeguatamente contemperando anche il diritto all'unità familiare con le esigenze di tutela della sicurezza pubblica, ritenendo quest'ultima prevalente alla luce delle numerose condanne penali e dei procedimenti a carico del ricorrente stesso, peraltro alcuni riguardanti fatti commessi in costanza di rapporto di lavoro". 7. Con l'appello notificato in data 4 aprile 2023 e depositato in data 17 aprile 2023, l'interessato ha proposto impugnazione avverso la decisione del giudice di primo grado. 7.1 Con un unico, articolato, motivo di appello, ha censurato il vizio di difetto di motivazione e violazione di legge, per aver la sentenza di primo grado aderito pedissequamente alla valutazione espressa dal Questore di Bologna, senza tener conto adeguatamente delle circostanze concrete che depongono a favore dell'interessato. In particolare, il soggetto sarebbe pienamente integrato nella comunità nazionale, all'interno della quale risiede a far data dal -OMISSIS-: ha una famiglia composta da-OMISSIS-, tutti cittadini italiani e svolge regolarmente attività lavorativa con contratto a tempo indeterminato. Dunque, la P.A. avrebbe attribuito automatica valenza ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno a precedenti penali risalenti nel tempo, senza fare una valutazione complessiva della posizione del ricorrente, e segnatamente dei vincoli familiari che lo legano al territorio nazionale. A tal proposito, l'appellante invoca - per il tramite dell'art. 117 Cost. - la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che all'art. 8 riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Alla luce di ciò la P.A. avrebbe dovuto valorizzare maggiormente la situazione familiare dell'interessato che ne giustificherebbe senz'altro la sua permanenza nel territorio dello Stato. 8. Con ordinanza n. -OMISSIS-, la Sezione ha respinto l'istanza cautelare. 9. La Questura di Bologna e il Ministero dell'Interno si sono costituiti in giudizio in data 5 febbraio 2024. 10. Alla pubblica udienza del giorno 8 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO 1. L'appello è infondato. 2. In disparte ogni considerazione circa le menzionate condotte per le quali l'appellante è stato deferito all'autorità giudiziaria (comunque sintomatiche di pericolosità sociale), ai fini del presente giudizio, risulta dirimente la presenza a carico della parte appellante di cinque condanne per reati di notevole gravità, tutti rientranti tra quelli previsti dall'art. 380 c.p.p. Ebbene, ai sensi dell'art. 4, comma 3 T.U. immigrazione, tali condanne costituiscono cause automatiche e vincolate di esclusione del rilascio del rinnovo del permesso di soggiorno. In particolare, l'art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall'art. 4, comma 1, lett. b), l. 30 luglio 2002, n. 189, stabilisce che non è ammesso in Italia lo straniero che "che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale"; l'art. 5, comma 5, dello stesso decreto prevede che "il permesso di soggiorno o suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili". In forza di tali disposizioni, quindi, le condanne emerse a carico dell'interessato - puntualmente indicate nel provvedimento del Questore di Bologna - sono automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno, senza che rilevi neppure l'eventuale concessione della sospensione condizionale, e ciò per il grave disvalore che il legislatore attribuisce "a monte" ai reati in questione, ai fini della tutela della sicurezza pubblica (Cons. Stato, sez. III, 15 aprile 2021, n. 3120; 6 dicembre 2019, n. 8343). 3. Tale automatismo ostativo può essere mitigato solo dalla presenza di vincoli familiari, dovendo in tal caso il Questore operare un bilanciamento tra gli opposti interessi alla tutela della pubblica sicurezza da un lato, e al rispetto della vita familiare del cittadino straniero dall'altro (Cons. Stato, sez. III, 2 febbraio 2021, n. 955). Ove cioè sussistano legami familiari, l'Amministrazione non può avvalersi degli automatismi ostativi connessi a pregresse condanne, dovendo procedere ad una più ampia valutazione che tenga conto anche della "natura" e della "effettività dei vincoli familiari", nonché della "esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine" e della "durata del suo soggiorno nel territorio nazionale", come espressamente richiesto dall'art. 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998 per gli stranieri che abbiano beneficiato del ricongiungimento familiare (Cons. Stato, sez. III, 20 febbraio 2019, n. 1173). Nel caso in esame, però, come correttamente osservato dal giudice di prima cure, la situazione socio-familiare dello straniero "è stata adeguatamente presa in considerazione dal Questore che però ha avuto accuratamente modo di mettere in evidenza come essa sia recessiva rispetto alla posizione de ricorrente cittadino straniero rispetto ai precedenti penali e alla gravità delle imputazioni da lui riportate lì dove, per la quantità e l'entità delle condotte illegali tenute il medesimo ha evidenziato inclinazione a delinquere e chiaro disvalore circa le regole di civile e pacifica convivenza sociale". Infatti, occorre precisare che, nell'ambito del quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato, la presenza ed effettività di legami familiari sul territorio nazionale non vincola affatto quanto all'esito l'Amministrazione, che, titolare di un potere ampiamente discrezionale, deve pur sempre effettuare un controllo sulla concreta pericolosità sociale dello straniero richiedente. Dunque, in quest'ottica, non vi è alcun automatismo, non essendo sufficiente la sola sussistenza di vincoli familiari a giustificare la permanenza dello straniero in Italia, vincolando in tal senso l'Amministrazione. 4. Ebbene, nel caso in esame, emerge come il soggetto abbia commesso diversi reati "ostativi" in maniera ripetuta nel tempo, per alcuni dei quali è intervenuto il giudicato di condanna, laddove per altri sono ancora in corso i giudizi d'impugnazione (senza considerare i recenti deferimenti per reati della stessa indole). In tale ottica, a nulla giova la pluriennale presenza del soggetto in territorio italiano, posto che la condotta criminosa contestatagli nel provvedimento di diniego è caratterizzata per l'appunto da abitualità e costanza nel tempo, non risolvendosi certo in episodi isolati e risalenti nel tempo. Peraltro, molti di tali reati - come sottolineato tanto nel provvedimento di diniego quanto nella sentenza impugnata - sono stati perpetrati in un contesto familiare e socio-economico apparentemente normale, e non già a causa di situazioni particolari da collegarsi all'assenza di una stabilità sociale e familiare. Pertanto, appare del tutto corretta la valutazione del Questore, confermata dal Tar emiliano, secondo la quale le esigenze di prevenzione risultano meritevoli di una prevalente esigenza di tutela rispetto ai legami familiari pur vantati dal ricorrente. Questi, infatti, nel caso in esame, non appaiono sufficienti a far venir meno la correttezza del giudizio prognostico di pericolosità . 5. Sotto un diverso ma collegato profilo, peraltro, va considerato come il giudizio di bilanciamento tra l'interesse pubblico alla sicurezza e l'interesse dello straniero a vedersi rinnovato il permesso di soggiorno può essere compiuto esclusivamente dall'Amministrazione in sede procedimentale. Ne consegue che rispetto a provvedimenti di tal guisa il sindacato del giudice amministrativo non può che limitarsi ad un sindacato volto precipuamente a verificare la logicità, la coerenza e la ragionevolezza del processo valutativo compiuto dall'Amministrazione, così come esso emerge dalla motivazione del provvedimento impugnato. Ebbene, nel caso di specie va evidenziato come il Questore di Bologna, in sede di riesame della posizione del soggetto interessato all'esito dell'ordinanza del Tar Emilia Romagna, si sia lungamente soffermato sulla situazione familiare ed abbia sufficientemente motivato sulla prevalenza delle esigenze di tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico alla luce di un'analisi complessiva di tutti gli elementi utili ai fini della valutazione. In punto di motivazione, infatti, l'Amministrazione ha puntualmente dato conto delle normative nazionali e sovranazionali che vengono in rilievo in subiecta materia, nonché degli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale. Alla luce di tutti questi referenti, esaminate con attenzione tutte le circostanze utili ai fini della formulazione di un ben ponderato giudizio prognostico, il Questore ha infine valutato che il quadro complessivo del richiedente fosse idoneo a giustificare la prevalenza delle esigenze di tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico sui pur consistenti vincoli familiari che l'odierno appellante mantiene sul territorio. Merita pertanto conferma la sentenza resa all'esito del giudizio di prime cure secondo cui "nel caso all'esame, la determinazione negativamente assunta dal sig. Questore di Bologna in sede di riesame, per compiutezza di indagine, meticolosità degli elementi oggetto di giudizio nonché per ragionevolezza e rigore della valutazione comparativa effettuata tra gli elementi a favore e quelli a sfavore del ricorrente, appare giustificata, sorretta da una idonea e congrua motivazione nonché frutto di un'accurata istruttoria e perciò stesso immune dai vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto i vari profili denunciati dall'interessato." 6. In conclusione, per i suesposti motivi, l'appello deve essere respinto. 7. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente, Estensore Stefania Santoleri - Consigliere Giovanni Pescatore - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Angelo Roberto Cerroni - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da: Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina Anna R. - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Relatrice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da La.Mi. nato in Romania il 18/01/1983 avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Reggio Calabria il 29/06/2023 visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Stefania Riccio; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Nicola Lettieri, che ha concluso per il rigetto del ricorso letta la memoria dell'Avv. Do.In., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la condanna alla pena di anni tre di reclusione irrogata dal Tribunale di Palmi in data 9 maggio 2022 nei confronti di La.Mi.. L'imputato è stato ritenuto responsabile del reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 cod. pen. per avere, in stato di ubriachezza abituale, maltrattato la compagna La.Ju., sottoponendola a reiterate vessazioni fisiche e psicologiche,, nonché del reato di lesioni personali, aggravate dall'avere commesso il fatto contro la convivente e in occasione del delitto di maltrattamenti, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti e sulla recidiva reiterata. 2. Nel proposto ricorso, l'imputato, per il tramite del difensore di fiducia, articola due motivi, di seguito sintetizzati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Inosservanza od erronea applicazione di legge in relazione agli artt. 572 e 612-bis cod. pen. Le condotte in addebito, sebbene sorte in ambito familiare, esulano dalla fattispecie dei maltrattamenti perché si collocano in una fase successiva alla cessazione della convivenza, in cui ricorrente e persona offesa non coabitavano e neppure nutrivano reciproche aspettative di solidarietà. La condotta in addebito avrebbe dovuto essere riqualificata nel reato di atti persecutori, essendo integrati, per effetto degli agiti intimidatori e violenti del ricorrente nei confronti della persona offesa, gli eventi pur alternativamente richiesti dalla fattispecie incriminatrice, ossia: a) un perdurante stato di ansia e di paura; b) il fondato timore per l'incolumità propria e di prossimi congiunti; c) la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. Difetta inoltre l'abitualità delle condotte, sostanziatesi in due soli episodi, avvenuti in due giorni consecutivi. 2.2. "Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Valutazione delle prove dichiarative". E' stata ritenuta l'aggravante della intossicazione derivante dall'uso abituale di sostanze alcoliche, ai sensi dell'art. 94 cod. pen. sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, senza verificare l'abitualità di tale condizione e senza alcun previo accertamento medico legale che abbia rilevato uno stato patologico assimilabile al vizio di mente. 3. Il Sostituto Procuratore generale ha concluso per il rigetto, evidenziando che l'indirizzo giurisprudenziale che ritiene configurabile il delitto di atti persecutori in forma aggravata attiene alla condizione, non configurabile nella specie data anche l'esistenza di un figlio, di cessazione della convivenza more uxorio da cui non residuano vincoli ufficiali di solidarietà. 4. Non essendo stata richiesta nei termini la discussione orale, il giudizio dinanzi a questa Corte si è svolto a trattazione scritta. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato, ai limiti della inammissibilità, per le ragioni di seguito illustrate. 2. Il primo motivo attiene alla qualificazione giuridica del fatto, lamentando il ricorrente l'operato inquadramento della condotta di cui al capo 1) - che egli colloca in una fase in cui sarebbe cessata la convivenza - nella fattispecie dei maltrattamenti, anziché in quella degli atti persecutori. Non è contestabile che nella vicenda si sia in presenza di condotte ascrivibili sul piano naturalistico ad entrambe le norme incriminatrici, il cui nucleo fattuale è costituito da violenze di natura fisica e/o psicologica, reiterate nel tempo, determinative di stati di ansia e, con riguardo al segmento temporale successivo alla separazione, anche lesive della sfera di autodeterminazione della vittima, costretta ad alterare le proprie abitudini di vita. La difesa evoca l'orientamento giurisprudenziale per cui nelle relazioni di fatto, la cessazione della convivenza risulta ostativa alla configurabilità dei maltrattamenti. La direttrice ermeneutica in tal senso è stata tracciata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2021 che - pur vertendo sulla questione di legittimità sollevata in relazione ad altra norma - ha delineato il discrimen tra il reato di cui all' art. 572 cod. pen. e quello di cui all' art. 612-ò/s, comma 2, cod. pen., ed ha ammonito in ordine alla praticabilità di una diffusa opzione interpretativa, di natura teleologico valoriale, invalsa nei pronunciamenti di questa Corte. Il riferimento è a quell'indirizzo giurisprudenziale che ha ravvisato il reato di maltrattamenti, con assorbimento di quello di atti persecutori, purché la relazione di coppia sia connotata da legami stretti o aspettative solidaristiche e di assistenza; mentre si configurerebbe il reato di atti persecutori, nella forma aggravata di cui all'art. 612-bis, comma 2, cod. pen., per essere stato il fatto commesso in danno del coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, quando tra l'autore e la persona offesa non siano sorti o mantenuti vincoli assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (tra le tante, Sez. 6, n. 37077 del 31/11/2020, M., Rv. 280431; Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697). Tale indirizzo individua specialmente nella genitorialità condivisa la fonte di obblighi di cooperazione e di rispetto reciproco tra genitori, anche se non conviventi, i quali hanno la loro matrice nell'art. 337-bis cod. civ. (Sez. 6, n. 7259 del 26/11/2021, L., Rv. 283047; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078). La Consulta ha al riguardo ribadito il divieto di analogia a sfavore del reo, canone il quale "non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali", risultandone diversamente svuotata la riserva assoluta di legge in materia penale, con l'attribuzione al giudice di un ruolo creativo che non gli compete. Nel solco della citata pronuncia del Giudice delle leggi, l'orientamento sopra riportato, volto a dilatare lo spazio applicativo della fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen., è stato rivisitato da altra impostazione teorica che, privilegiando il dato testuale, qualifica le azioni violente o persecutorie compiute da un partner ai danni dell'altro, in epoca successiva alla convivenza, a prescindere dalla esistenza di figli della coppia, come atti persecutori aggravati ai sensi dell'art. 612-bis, comma 2, cod. pen. sul presupposto logico che il concetto di convivenza, nell'accezione più ristretta, presupponga una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo (Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398; Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv. 283939; Sez. 6, n. 9663 del 16/02/202, P., Rv. 283120). 4. Tanto premesso, il ricorso non si confronta con la decisione impugnata nella sua integralità e non esprime una critica effettiva nei confronti dell'apparato motivazionale che la sorregge. La Corte di appello ha evidenziato come le condotte prevaricatrici oggetto di addebito siano state tenute in costanza di convivenza e che la separazione ha avuto origine proprio dall'intensificarsi delle aggressioni; peraltro, dopo la crisi esplosa nei primi mesi dell'anno 2021, con allontanamento del La.Mi. dall'abitazione familiare, vi è stato il ricongiungimento della coppia. Nel frattempo, l'imputato avrebbe continuato a frequentare abitualmente l'abitazione comune, ove risiedeva anche il figlio, e la persona offesa avrebbe trattenuto alcuni effetti personali dello stesso. Come spiegato nella sentenza di primo grado - che con quella impugnata, trattandosi di pronunce conformi, forma un unitario corpo argomentativo -, la relazione di comunanza e di convivenza non era del tutto cessata. La verifica non è agevole per la fluidità e complessità della relazione in questa fase ma, in definitiva, le sentenze di merito danno atto di un temporaneo intervallo della coabitazione, ovvero di una transitoria discontinuità, di per sé non assimilabile alla cessazione della convivenza nell'accezione sopra intesa (per una compiuta ricostruzione della tematica v. Sez. 6, 9187 del 15/09/2022, C., n. mass.). La contraria prospettazione del ricorrente aspira, in definitiva, ad una non consentita rilettura dei dati processuali e ad una diversa ricostruzione storica, laddove è compito del giudice di legittimità stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 nonché in precedenza Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428), mentre esula dalle competenze della Corte lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione (Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rezzuto, Rv. 285504, Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). 5. Del resto, anche a ritenere che la convivenza fosse cessata in relazione all'ultimo segmento temporale della condotta di maltrattamenti ascritta in contestazione, sussisterebbero i presupposti del concorso tra i reati, come già ritenuto da precedenti arresti di questa Corte di legittimità (tra questi, Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, Rv. 283003 - 02 ha valutato immune da vizi la sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori). Tale impostazione ricostruttiva comporterebbe la necessità di scorporare la frazione di condotta corrispondente al periodo successivo alla cessazione della convivenza e di applicare in relazione ad essa un incremento di pena a titolo di continuazione, con la conseguenza che l'impugnazione proposta sarebbe non sorretta da interesse. Condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, ai sensi dell'art. 568, comma quarto, cod. proc. pen l'interesse deve invero essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento oggetto dell'impugnazione e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693 Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093; tra le tante, Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016, Conte, Rv. 267172). Nella prospettiva utilitaristica accolta dal sistema, un tale interesse - rispetto al quale l'impugnante ha quantomeno un onere di allegazione, che in questo caso non è stato assolto - non può risolversi nella pretesa, meramente formale, all'esattezza giuridica della decisione, e dunque all'applicazione, in linea teorica corretta, di una norma, sostanziale o processuale, senza riflessi in punto di utilità concreta. 6. Sotto altro profilo, è inammissibile la censura relativa alla mancanza di abitualità della condotta, formulata sul rilievo che la persona offesa abbia riferito di due soli episodi violenti, verificatisi in due giorni consecutivi. In realtà, le sentenze di merito hanno evidenziato in termini coerenti che le condotte violente sono state tutt'altro che estemporanee e che gli episodi indicati nel capo di imputazione sono solo gli ultimi verificatisi in ordine di tempo, prima della sporta denuncia. In ogni caso, va considerato che l'estensione dell'arco temporale entro il quale si manifestano le condotte maltrattanti è un dato tendenzialmente neutro ai fini della configurabilità del reato, fermo restando che, "se la convivenza si è protratta per un periodo limitato, è necessario che le condotte vessatorie siano state poste in essere in maniera continuativa o con cadenza ravvicinata" (Sez. 6, n. 21087 del 10/05/2022, C., Rv. 283271). 7. Il secondo motivo, relativo al mancato accertamento medico legale della abituale ubriachezza non è stato devoluto in appello. La censura sarebbe comunque infondata perché l'abuso di sostanze alcoliche è stato riferito dalla persona offesa, constatato dai verbalizzanti ed in parte ammesso anche dall'imputato e, diversamente dalla cronica intossicazione da alcool, non integra una condizione patologica il cui accertamento richieda una diagnosi o una valutazione medico legale, 8. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 23 aprile 2024 Depositato in cancelleria il 7 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ACIERNO Maria - Presidente Dott. MELONI Marina - Consigliere Dott. TRICOMI Laura - Consigliere Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere - Rel. Dott. AMATORE Roberto - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 22518/2021 R.G. proposto da: MINISTERO DELL'INTERNO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO ((...)) che lo rappresenta e difende - ricorrente - contro Ke.Mo., rappresentata e difesa dall'avvocato Se.Gi. (Omissis), - contro ricorrente - avverso SENTENZA della CORTE D'APPELLO CATANZARO, nel proc.to n. 1488/2019, pubblicata il 15/02/2021. Sentito il Procuratore Generale, nella persona della Dott. ssa De.Lu., che chiede l'accoglimento del ricorso. Nessuno presente per il Ministero ricorrente. Sentito il difensore della controricorrente che chiede il rigetto del ricorso. Udita la relazione svolta all'udienza pubblica del 06/03/2024 dalla Consigliera Giulia Iofrida. FATTI DI CAUSA La Corte d'appello di Catanzaro, con sentenza n. 185/2021 pubblicata il 15/2/2021, ha riformato la decisione del Tribunale di Catanzaro del 2019 che aveva respinto il ricorso di Ke.Mo., cittadina colombiana, avverso diniego da parte del Questore di Vibo Valentia di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari, in base a D.Lgs. 30/2007 o a D.Lgs. 286/1998, in quanto (entrata in Italia con un visto turistico nell'ottobre 2017) conviveva di fatto con un cittadino italiano, tale Me.Sm.. Il tribunale aveva respinto il ricorso in assenza di una certificazione amministrativa comprovante la stabilità della convivenza. In particolare, i giudici di appello, premesso che sia ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari, sulla base di un'interpretazione conforme ai principi costituzionali e comunitari, sia ai fini del rilascio della carta di soggiorno per motivi familiari ex artt. 3 e 10 D.Lgs. 30/2007, emanato in attuazione della Direttiva 2004/38/CE, occorre una prova rigorosa di una stabile convivenza more uxorio, hanno affermato che tale prova, tuttavia, oltre a potere essere attestata dalla pubblica amministrazione, può anche essere accertata giudizialmente; nella specie, l'esistenza di un rapporto stabile di convivenza more uxorio era emersa dalla testimonianza del Me.Sm., il quale aveva confermato "in maniera credibile...la genesi e l'evoluzione del loro rapporto, nonché la l'attuale loro convivenza", anche spiegando di non potere "regolarizzare" la suddetta convivenza, in quanto coniuge separato ma non divorziato con altra donna (e "la ricorrente, entrata in Italia con visto turistico di comodo, per vivere con lui, avrebbe potuto, proprio per tale ragione, avere ripercussioni sfavorevoli in caso di dichiarazione di convivenza"). Avverso la suddetta pronuncia, il Ministero dell'Interno propone ricorso per cassazione, notificato il 6/9/2021, affidato a unico motivo, nei confronti di Ke.Mo. (che resiste con controricorso). Entrambe le parti hanno depositato memoria. Con ordinanza interlocutoria n. 29893/2023, la causa è stata rimessa all'udienza pubblica del 6/3/2024. Il PG ha depositato memoria, chiedendo l'accoglimento del ricorso. La controricorrente ha depositato ulteriore memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1 .Il Ministero ricorrente lamenta, con unico motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art.360 n. 3 c,p.c. degli artt. 1, 2 e 3 della Direttiva 38/2004, 1 e 2 D.Lgs. 30/2007, 1 l. 76/2016, per avere la Corte d'appello, riformando la decisione di primo grado, ritenuto che, in relazione a istanza di rilascio di permesso di soggiorno per motivi familiari, nell'ambito di applicazione della Direttiva 38/2004/CE e del D.Lgs. 30/2007, non sia necessario un rapporto qualificato, di coniugio o di unione civile o al più convivenza registrata ai sensi della l.76/2016, ma sia sufficienza una convivenza more uxorio di fatto con cittadino europeo (italiano), dimostrata con prova per testi. 2.La censura è infondata. 2.1.La Corte d'appello ha ritenuto che la ricorrente sia in possesso dei requisiti per ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari, richiesta inoltrata prima dalla ricorrente al Questore e da questi respinta e quindi avanzata in sede giurisdizionale. II Ministero ricorrente sostiene che il titolo di soggiorno in esame, stante la necessità di assicurare "un doveroso controllo dei flussi di entrata nel territorio della UE", debba essere rilasciato soltanto a quei soggetti che vantino un rapporto qualificato, tipizzato e oggettivamente accertabile con cittadino europeo e quindi, oltre ai casi di rapporto coniugale o unione civile registrata secondo la 1.76/2016, al più, nell'ipotesi di stabile convivenza che risulti da dichiarazione anagrafica (in atto pubblico che lo certifichi esponendo il dichiarante, in caso di dichiarazione falsa, a responsabilità) non anche in quella "di conio giurisprudenziale", con conseguente impossibilità di fare ricorso ad una prova testimoniale ai fini della dimostrazione del suddetto rapporto qualificato. Il P.G., concludendo per il rigetto del ricorso, richiama il comma 37 dell'art. 1 l. 76/2016 (secondo cui per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'art.4 ed alla lett. b) del comma 1 dell'art.13 del Regolamento di cui al D.P.R. n. 223/1989), nonché l'art. 2, comma 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE e l'art.2, comma 1 lett. b), del D.Lgs. 30/2007, rilevando che la formalità della registrazione della dichiarazione anagrafica, prevista dalla normativa nazionale e da quella eurounitaria, pur volendola considerare, come ritenuto dalla Corte d'appello, "una mera presunzione di legge sulla serietà e sulla stabilità del rapporto", è necessaria per attestare effettività, stabilità e credibilità della convivenza di fatto e non può essere sostituita da prove di diversa natura, come prove testimoniali, stante l'evidente necessità di garanzia di un effettivo controllo dei flussi di entrata nel territorio comunitario. 2.2. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), firmata a Roma il 4 novembre 1955, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, dedica alla famiglia gli artt. 8 e 12, che rispettivamente sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare (oltre che del domicilio e della corrispondenza) e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. La Corte Edu ha da tempo affermato che il diritto alla vita privata e familiare non implica un obbligo generale degli Stati di rispettare la scelta operata dagli stranieri circa il Paese in cui risiedere . In particolare, la Corte ha ribadito che, in materia di immigrazione, l'art. 8, isolatamente considerato, non può imporre ad uno Stato un obbligo generale di rispettare la scelta del paese di residenza dei coniugi o di autorizzare il ricongiungimento familiare nel suo territorio (Biao v. Denmark, App. No. 38590/10, par. 117). Tuttavia, è stato anche precisato che, qualora una causa riguardi sia la vita familiare che l'immigrazione, la portata dell'obbligo dello Stato di accogliere nel proprio territorio i congiunti di persone residenti varia in ragione delle particolari circostanze in cui si trovano le persone coinvolte e dell'interesse generale (Jeunesse v. Netherlands, par. 107, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, par 67-68; Gul c. Svizzera, par 38; Ahmut c. Paesi Bassi, par 63; Osman c. Danimarca, par 54; Berisha c. Svizzera, par 60.) 2.3. L'art. 10 del D.Lgs. 30/2007, emanato in attuazione della Direttiva 2004/38/CE, recita: "Carta di soggiorno per i familiari del cittadino comunitario non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dell'Unione europea 1. I familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all'articolo 2, trascorsi tre mesi dall'ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la "Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione", redatta su modello conforme a quello stabilito con decreto del Ministro dell'interno da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo. ... 3. Per il rilascio della Carta di soggiorno, è richiesta la presentazione: a) del passaporto o documento equivalente, in corso di validità; b) di un documento rilasciato dall'autorità competente del Paese di origine o provenienza che attesti la qualità di familiare e, qualora richiesto, di familiare a carico ovvero di membro del nucleo familiare ovvero del familiare affetto da gravi problemi di salute, che richiedono l'assistenza personale del cittadino dell'Unione, titolare di un autonomo diritto di soggiorno; c) dell'attestato della richiesta d'iscrizione anagrafica del familiare cittadino dell'Unione; d) della fotografia dell'interessato, in formato tessera, in quattro esemplari; d-bis) nei casi di cui all'articolo 3, comma 2, lettera b), di documentazione ufficiale attestante l'esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell'Unione)). 4. La carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione ha una validità di cinque anni dalla data del rilascio...... L'art.2 del D.Lgs. 30/2007 stabilisce che, ai fini del decreto legislativo, si intende, per "cittadino dell'Unione", qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro, e per "familiare", il coniuge ovvero "il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante". Deve rilevarsi che il considerando 5 della Direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, così recita: "Il diritto di ciascun cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. Ai fini della presente direttiva, la definizione di "familiare" dovrebbe altresì includere il partner che ha contratto un'unione registrata, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio". L'art.2 (Definizioni) della Direttiva 2004/38/CE definisce quindi come familiare, anzitutto, il "partner", vale a dire il soggetto " che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante". L'art. 3, intitolato "Aventi diritto", della suddetta Direttiva, al comma 2, prevede, poi, che lo Stato membro ospitante debba agevolare "conformemente alla sua legislazione nazionale, ...l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone: a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, punto 2, se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente; b) il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata" e, al comma 3, si precisa che lo Stato membro ospitante debba effettuare un esame approfondito della situazione personale e giustificare l'eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno. L'Art.10 della Direttiva , al par. 2, prevede che " Ai fini del rilascio della carta di soggiorno, gli Stati membri possono prescrivere la presentazione dei seguenti documenti:. b) un documento che attesti la qualità di familiare o l'esistenza di un'unione registrata". Il Considerando 6 precisa poi che "Per preservare l'unità della famiglia in senso più ampio senza discriminazione in base alla nazionalità, la situazione delle persone che non rientrano nella definizione di familiari ai sensi della presente direttiva, e che pertanto non godono di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante, dovrebbe essere esaminata dallo Stato membro ospitante sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l'ingresso e il soggiorno possano essere concessi a tali persone, tenendo conto della loro relazione con il cittadino dell'Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell'Unione". L'art. 3 dello stesso D.Lgs. 30/2007 in esame prevede poi che il decreto legislativo si applica "a qualsiasi cittadino dell'Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera b), che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo" e che lo Stato membro ospitante, senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno di "ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, comma 1, lettera b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente" ovvero del "partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)". Tale ultimo inciso è stato introdotto per effetto della Legge europea n. 97 del 6/8/2013 ("Disposizioni volte a porre rimedio al non corretto recepimento della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari. Procedura di infrazione 2011/2053"), nata da una procedura di infrazione elevata contro l'Italia per non corretto recepimento della Direttiva 2004/38/CE, con sostituzione delle parole: "dallo Stato del cittadino dell'Unione", presenti nel precedente testo normativo, con quelle "con documentazione ufficiale". L'art. 3, co. 2, lett. b), del D.Lgs. 30/2007, prima della Novella del 2013, in attuazione dell'art. 3, par. 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE, - il quale stabilisce che il diritto di ingresso e di soggiorno, in uno Stato membro UE ospitante un cittadino di altro Stato membro, viene riconosciuto anche al partner di quest'ultimo, a condizione che fra i due soggetti sussista una relazione stabile "debitamente attestata" (essendo qualificato familiare "il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata"), - aveva introdotto una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare detta "stabile relazione": infatti, si disponeva che tale rapporto - fra il cittadino dell'altro Stato membro e il suo partner - dovesse essere attestato dallo Stato al quale appartiene il primo, con esclusione, pertanto, non soltanto del documenti ufficiali dello Stato di provenienza del partner (se diverso dall'altro), ma anche dei mezzi di prova non costituiti da documenti. L'espressione "documentazione ufficiale" utilizzata dall'art. 3, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 30/2007, nel testo introdotto, a seguito di procedura di infrazione apertasi contro l'Italia, dalla legge europea n. 97/2013 ("Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato, lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone: a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, comma 1, lettera b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente; b) il partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale"), non contiene alcuna definizione di "ufficialità". Queste, peraltro, sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE (di cui il D.Lgs. 30/2007 e atto di recepimento in Italia), al punto 2.1.1, in relazione alla nozione di familiare relativamente al "partner": "il partner con cui un cittadino dell'Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell'articolo 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo. Il requisito della stabilità della relazione va valutato alla luce dell'obiettivo della direttiva di preservare l'unità della famiglia in senso ampio. Le norme nazionali per determinare la stabilità dell'unione possono prevedere come criterio che l'unione duri da un certo periodo minimo di tempo, ma devono comunque tener conto anche di altri aspetti pertinenti (ad esempio, ipoteca congiunta per l'acquisto di una casa)". Se ne deve trarre che la Commissione europea consente l'imposizione di oneri documentali, purché ragionevoli, ma salvaguarda la possibilità di prova, da parte dell'interessato, con "qualsiasi idoneo mezzo". 2.4. Al riguardo, occorre anche sottolineare che, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C-27 del 25 luglio 2008 (caso Metock), negli orientamenti successivi, questa Corte, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che "al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell'Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell'interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell'Unione, ai sensi dell'art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell'Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d'ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall'aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell'arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell'Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo" (principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis c.p.c., n. 1, Cass. n. 13112 del 2011; Cass. n.3210 del 2011; Cass.n. 12745 del 2013). Si è, in conclusione, definitivamente escluso il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare (Cass. n. 12745 del 2013 cit.). La Corte di Giustizia, nella sentenza 12.7.2018, Secretary of State for the Home Department c/ Ba.Ro., causa (Omissis) - chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da una cittadina del Sudafrica, partner di un cittadino del Regno Unito i quali avevano vissuto dapprima nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Regno Unito ove la ricorrente aveva poi richiesto la carta di soggiorno - ha affermato che l'articolo 21 TFUE obbliga lo Stato membro di cui un cittadino dell'Unione possiede la cittadinanza ad agevolare il rilascio di un titolo di soggiorno al partner, cittadino di uno Stato terzo, con il quale il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile, quando detto cittadino dell'Unione abbia esercitato il suo diritto di libera circolazione e faccia ritorno con il suo partner nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza per soggiornarvi. Nella stessa pronuncia, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che un provvedimento di diniego di rilascio di un'autorizzazione al soggiorno per il partner non registrato, cittadino di un Paese terzo, di un cittadino dell'Unione il quale, dopo aver esercitato il suo diritto di libera circolazione in un altro Stato membro, faccia ritorno nello Stato membro di cui ha la cittadinanza, deve essere fondato su un esame approfondito della situazione personale del richiedente e deve essere motivato. In una recente pronuncia del 15/9/2022 la Corte di Giustizia (Causa C-22/21, caso SRS) ha affermato che "L'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, ... dev'essere interpretato nel senso che: la nozione di "ogni altro familiare convivente con un cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale", menzionata in tale disposizione, designa le persone che intrattengono con tale cittadino un rapporto di dipendenza, basato su legami personali stretti e stabili, creati all'interno di uno stesso nucleo familiare, nell'ambito di una comunione di vita domestica che va al di là di una mera coabitazione temporanea, determinata da motivi di pura convenienza". Il richiamo è utile perché è si verteva sul legame di convivenza esistente tra due cugini (pakistani) e si è chiarito (par. 24) che, a differenza dei familiari del cittadino dell'Unione definiti all'articolo 2, punto 2, della direttiva 2004/38 (tra i quali rientrano il coniuge e il "partner"), gli "altri familiari" di tale cittadino, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), di tale direttiva, "non beneficiano di un diritto di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante di detto cittadino, bensì della possibilità di ottenere tale diritto, come enunciato dal considerando 6 di detta direttiva, tenendo conto della loro relazione con il cittadino dell'Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell'Unione". Al par. 24, si è chiarito che una siffatta interpretazione - della nozione di "altri familiari" del cittadino UE, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), di tale direttiva - è "corroborata dall'obiettivo perseguito dall'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38, letto alla luce del suo considerando 6, il quale precisa che tale direttiva ha lo scopo di "preservare l'unità della famiglia in senso più ampio", agevolando l'ingresso e il soggiorno delle persone che, pur non rientrando in una delle categorie di "familiare" di un cittadino dell'Unione definite all'articolo 2, punto 2, della suddetta direttiva, tuttavia presentano vincoli familiari stretti e stabili con tale cittadino in ragione di specifiche circostanze di fatto"; nei successivi paragrafi, si è precisato che l'"altro familiare", per poter essere considerato convivente, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2, primo comma, lettera a), della direttiva 2004/38, di un cittadino dell'Unione che gode di un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, "deve fornire la prova di un legame personale stretto e stabile con tale cittadino, che attesti una situazione di effettiva dipendenza tra tali due persone nonché la condivisione di una comunione di vita domestica che non sia stata determinata dallo scopo di ottenere l'ingresso e il soggiorno in tale Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 5 settembre 2012, Rahman e a., C-83/11, EU:C:2012:519, punto 38)", e che importanti elementi da prendere in considerazione sono il grado di parentela e la durata della comunione di vita domestica. 2.5. Nella distinta Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, che fissa le condizioni dell'esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri, all'art. 5 è stabilito "... La domanda è corredata dei documenti che comprovano i vincoli familiari ed il rispetto delle condizioni previste dagli articoli 4 e 6 e, nel caso siano applicabili, dagli articoli 7 e 8, e di copie autenticate dei documenti di viaggio del membro o dei familiari. Ove opportuno, per ottenere la prova dell'esistenza di vincoli familiari, gli Stati membri possono convocare per colloqui il soggiornante e i suoi familiari e condurre altre indagini che ritengano necessarie. Nell'esaminare una domanda concernente il partner non coniugato del soggiornante, gli Stati membri tengono conto, per stabilire se effettivamente esista un vincolo familiare, di elementi quali un figlio comune, una precedente coabitazione, la registrazione formale della relazione e altri elementi di prova affidabili.". 2.6.Come già ricordato il diritto di soggiorno del familiare del cittadino italiano è regolato dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 7, comma 1, lett. d) ("Il cittadino dell'Unione ha diritto di soggiornare nel territorio nazionale per un periodo superiore a tre mesi quando:. d) è familiare, come definito dall'articolo 2, che accompagna o raggiunge un cittadino dell'Unione che ha diritto di soggiornare ai sensi delle lettere a), b) o c)") e dall'art. 10. Le due disposizioni normative riguardano specificamente il cittadino dell'Unione e i suoi familiari e sono inserite in un contesto legislativo che mira a garantire la circolazione in ambito UE. Il requisito della convivenza tra il familiare extracomunitario e cittadino italiano, residente in Italia, costituisce dunque un presupposto del rilascio della carta, non trattandosi di coniugi (invece, come da tempo chiarito da questa Corte, il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni familiari in favore di un cittadino extraeuropeo, coniuge di un cittadino italiano o dell'UE, disciplinato dal D Igs. n. 30 del 2007, non richiede il requisito della convivenza tra i coniugi, salve le conseguenze dell'accertamento di un matrimonio fittizio o di convenienza, ai sensi dell'art. 35 della direttiva 2004/38/CE e, dunque, dell'art. 30, comma 1 bis del D Lgs. n. 286 del 1998, essendo tale presupposto del tutto estraneo al disposto degli articoli, 7 comma 1, lett. d) e 12 e 13 del D.Lgs. citato, Cass. 10925/2019; Cass. 5303/2014). In tema, con sentenza n. 3876/2020 di questa Corte, si è affermato (in fattispecie in cui si discuteva del diritto al rilascio di una carta di soggiorno "per congiunti della UE", in favore di cittadino ecuadoregno genitore di un figlio nato in Italia da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, essendo stata respinta, nel 2013, dal Questore competente la relativa richiesta inoltrata in sede amministrativa) il seguente principio di diritto: "in materia di riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2, 3 e 10, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all'Unione Europea, di minore, cittadino dell'Unione, e convivente con cittadina dell'Unione, pur costituendo un presupposto la convivenza tra il familiare non appartenente all'U. E. e la cittadina dell'Unione, residente in Italia, non trattandosi di coniugi, la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta ed il cittadino dell'Unione, "debitamente attestata" con "documentazione ufficiale", ai sensi dell'art. 3, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 30/2007, nel testo introdotto dalla legge europea n. 97/2013, può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla legge n. 76/2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l'epoca di presentazione dell'istanza, e quindi vagliando anche l'atto di nascita del minore o altra documentazione idonea". Sul contenuto dei diritti di cui godono coloro che sono in possesso dei requisiti per ottenere la carta di soggiorno, si è soffermata anche Cass. n. 20856 del 2022, decidendo sul ricorso proposto da un cittadino brasiliano, in possesso dei requisiti per ottenere la predetta carta di soggiorno (in quanto figlio infraventunenne di una cittadina di un paese terzo coniugata regolarmente con un cittadino italiano e pacificamente divenuta da tempo cittadina italiana per matrimonio) avverso il provvedimento di diniego emesso in ragione del fatto che il ricorrente, in sede amministrativa, si era limitata a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari e non invece la carta di soggiorno. Nella decisione in esame questa Corte, dopo aver ricordato che, come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 25 luglio 2008, Blaise e altri, relativa alla causa C-127/08, "i cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell'Unione, ricavano dalla direttiva 2004/38 il diritto di raggiungere il detto cittadino dell'Unione nello Stato membro ospitante, a prescindere dal fatto che quest'ultimo si sia ivi stabilito prima o dopo aver costituito una famiglia" (punto 90), ha precisato che la carta di soggiorno attribuisce al titolare dei diritti di gran lunga più incisivi di quelli di un comune permesso di soggiorno per motivi familiari o umanitari. Da tale premessa, i giudici di legittimità hanno concluso - interpretando l'art. 10 del D.Igs. n. 30 del 2007 "in modo conforme all'impianto della normativa UE in materia (volta ad assicurare in modo sostanziale il diritto all'unità familiare)" - che nel giudizio in esame il giudice può attribuire qualunque forma di protezione ritenga adeguata ai fatti allegati dell'interessato, riguardando tale facoltà anche la fase amministrativa del procedimento, sulla base del ruolo attivo di cooperazione istruttoria svolto dalle diverse autorità -amministrative e giurisdizionali - nell'individuare la tipologia di misura di protezione adottabile in concreto, e senza che il riconoscimento di un "diritto fondamentale e autodeterminato", come quello in esame, possa essere escluso dando prevalenza a meri formalismi. 2.7. L'art. 30 del D.Lgs. 286/1998 disciplina poi il "permesso di soggiorno per motivi familiari", prevedendo che esso possa essere rilasciato (lett. b) agli stranieri "regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell'UE ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti" o (lett. c) al "familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell'UE residenti in Itala ovvero con straniero regolarmente soggiornante in Italia.". Va ricordato che l'art. 28 del T.U.I. ("Diritto all'unità familiare"), al comma 2, stabilisce che "Ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione Europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1656, - oggi sostituito dal D.Lgs. n. 30 del 2007 -fatte salve quelle più favorevoli della presente legge o del regolamento di attuazione". Per effetto di tale disposizione quindi è consentito ai familiari stranieri del cittadino italiano di utilizzare i diversi strumenti di accesso al ricongiungimento familiare e di mantenimento dell'unità familiare offerti di volta in volta sia dal Testo unico sull'immigrazione sia della disciplina di recepimento del diritto europeo in materia di coesione familiare. Ogni concreta situazione deve essere quindi esaminata alla luce della normativa più favorevole che entrambe le discipline (D.Lgs. n. 286/1998 e D.Lgs. n.30/2007) possano offrire. 2.8. Orbene, nel precedente del giudice amministrativo richiamato dalla controricorrente (Consiglio Stato n. 5040/2017), si è affermato che, anche in assenza di un reale rapporto di lavoro subordinato, qualora sussista un rapporto di convivenza "evidente e dichiarato", la Questura non può emanare un provvedimento espulsivo basandosi sulla sola assenza dei requisiti di reddito. Il Consiglio di Stato si è pronunciato in favore di una cittadina extracomunitaria contro la decisione del Tar Lombardia che aveva confermato il diniego al rilascio del permesso della questura di Brescia. Per il giudice amministrativo, nonostante la sostanziale natura fittizia del rapporto di lavoro di collaborazione domestica, il rapporto di convivenza onerava comunque l'Amministrazione a valutare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari e, nell'interpretazione della normativa sui permessi di soggiorno,non può non tenersi in considerazione il principio di eguaglianza sostanziale di cui all'articolo 8 Cedu, ormai altresì consacrato, a livello di legislazione interna, anche dall'articolo 1, comma 36, legge 20 maggio 2016 n. 76. Di conseguenza, "non può non applicarsi, in base ad una interpretazione analogica anche al partner con cui il cittadino dell'Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale", secondo la formula prevista, seppure in riferimento al diritto di soggiorno di un cittadino di uno Stato membro UE dei suoi familiari in un altro Stato membro, dall'art. 3, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 30 del 2007. Il Consilio di Stato , pur avendo proceduto ad una interpretazione analogica estendendo l'ipotesi del permesso di soggiorno per motivi familiari anche a favore di cittadino extracomunitario convivente con cittadino UE o italiano, ha comunque ribadito la necessità che si tratti di convivenza stabile "dichiarata", con documentazione ufficiale. Ne consegue che tale pronuncia non è comunque dirimente in relazione alla questione oggetto della presente causa. 2.9.Nella sentenza n. 35684/2023 questa Corte ha, di recente, affermato, con riguardo alla protezione speciale nazionale dello straniero, che " In materia di immigrazione, ai sensi dell'art. 19, comma 1.1., del D.Lgs. n. 286/1998, nel testo vigente ratione temporis, nonché ai sensi dell'art. 13 comma 2 bis del medesimo decreto, integra causa ostativa all'espulsione del cittadino straniero la sussistenza di "legami familiari" nel territorio dello Stato, con le concrete connotazioni previste da tali norme, in quanto espressione del diritto di cui all'art. 8 CEDU, bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati, ma da declinarsi secondo i principi dettati dalla Corte di Strasburgo, in particolare dovendo perciò attribuirsi la nozione di "famiglia" non soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio, ma anche ad altri "legami familiari" di fatto. In motivazione, in relazione al disposto dell'art.19, comma 1.1., del T.U.I .a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 130 del 2020 (conv. con modif. dalla l. n. 173 del 2020 e vigente ratione temporis, ossia prima dell'entrata in vigore del D.L. 10.3.2023 n. 20, conv. nella L. 5.5.2023 n. 50), richiamata la necessità di un'interpretazione rispettosa delle coordinate ermeneutiche e le specificazioni indicate dalla Corte di Strasburgo, in relazione all'art.8 della CEDU, si è affermato che con l'introduzione del comma 1.1. dell'art. 19 T.U.I., il legislatore, nell'attribuire diretta rilevanza non solo alla tutela della vita familiare, ma anche a quella privata, in attuazione dell'articolo 8 CEDU, abbia inteso attribuire autonoma rilevanza al parametro dei "legami familiari" e si e precisato che "non rileva, quanto all'accertamento del requisito del "vincolo familiare", la circostanza che il cittadino straniero non sia unito in matrimonio alla donna che allega essere la sua compagna", alla luce anche di consolidata giurisprudenza della Corte EDU (vedi Johnston e altri c. Irlanda del 18 dicembre 1986 par 56, Serie A n. 112), in quanto "la nozione di "famiglia" di cui all'art. 8 della Convenzione non è limitata soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio e può comprendere altri "legami familiari" di fatto, in cui le parti convivono fuori dal matrimonio (è stato finanche ritenuto nelle cause Kroon e altri c. Paesi Bassi, del 27 ottobre 1994, serie A n. 297-C, e Vallianatos e altri c. Grecia, Grande Camera, ric. n. 29381/09 32684/09, che possono esistere legami sufficienti per una vita familiare anche in assenza di convivenza)". 2.10. Venendo al caso che qui interessa, occorre chiarire se la dichiarazione anagrafica, ai fini della convivenza di fatto, rappresenta uno strumento privilegiato di prova ma non l'unico, potendo i conviventi, dimostrare la relazione con "ogni mezzo idoneo", quale, nella specie, una prova testimoniale. E' utile, al riguardo, rammentare che la legge n. 76 del 2016, rubricata "Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze", ha dato spazio, anche, alla "convivenza di fatto", che integra una situazione fattuale da cui da cui discendono effetti giuridici, che necessitano di essere regolati. La legge non ha imposto per la sua costituzione alcun adempimento formale, come si può evincere dal combinato disposto dei commi 36 e 37, art. 1. Nello statuire, infatti, al comma 36, che: "si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile", il disposto del comma 37 rimanda proprio a tale definizione per l'individuazione dei presupposti affinché detta convivenza appaia rispondente ai requisiti normativi: "ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223". Il tutto, in relazione ai vari diritti riconosciuti al convivente di fatto (in caso di malattia, in caso di morte, quanto al diritto di abitazione nella casa di comune residenza di proprietà del de cuius e quanto all'assegnazione degli alloggi popolari), ove non si dia luogo anche al contratto di convivenza ivi previsto come facoltativo. L'art. 4 del D.P.R. n. 223 del 1989 (regolamento anagrafico), come modificato per effetto della l.76/2016, intende per famiglia, agli effetti anagrafici, "un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune". Esiste dunque un discrimen tracciato dal legislatore del 2016 tra le famiglie di fatto e le famiglie di fatto registrate, al fine del prodursi di determinati effetti, ma entrambe si riferiscono ad una formazione sociale nella quale si svolge la personalità dell'individuo meritevole comunque di una disciplina di tutela nel nostro ordinamento in forza dell'art. 2 della Costituzione. Al fine del prodursi degli effetti giuridici descritti dalla legge n 76, il comma 37 richiede comunque l'iscrizione anagrafica quale unico mezzo di accertamento della convivenza (presupponendo che essa sia "in fedele corrispondenza" al fatto), salvo la prova contraria. Si è comunque osservato, in dottrina, che la qualità di convivente preesiste alla dichiarazione anagrafica, "recando con sé il diritto procedimentale alla certazione stessa, coerentemente del resto con la più generale configurabilità dell'iscrizione anagrafica come un diritto soggettivo corrispondente alla situazione di fatto ad essa logicamente preesistente e perciò doverosamente dichiarata dall'interessato". E nella giurisprudenza di merito si è così affermato che " La dichiarazione anagrafica è dunque un elemento per accertare la stabile convivenza ma non il presupposto". 2.11. Orbene, il Ministero ricorrente (e il PG) obiettano che, nella materia specifica, occorre dare rilievo alla esigenza di ordine pubblico, cosicché si deve considerare che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari avvenga in forza di una verifica amministrativa condotta ex ante, al fine di evitare meccanismi elusivi dei decreti sui flussi migratori. Si rileva poi che l'atto pubblico che certifica il rapporto qualificato espone i dichiaranti a responsabilità in caso di dichiarazione falsa. Ma, a tale ultimo riguardo, si deve obiettare che anche una deposizione testimoniale espone il testimone che dichiari il falso a responsabilità penale. Deve pertanto ritenersi che, in caso di rifiuto da parte dell'amministrazione, diniego motivato dalla mancata allegazione di "documentazione ufficiale" attestante la convivenza tra il familiare richiedente il permesso e il cittadino italiano, e di impugnazione del diniego, il "diritto" soggettivo al soggiorno dovrà essere accertato nel giudizio dinanzi al giudice ordinario e nell'ambito del giudizio può essere dato ingresso anche a una prova testimoniale, ai fini di offrire una prova, sera e rigorosa, della convivenza e del legame famigliare esistente tra lo straniero e il cittadino UE. Giova aggiungere che, in controricorso, si deduce che il sig. Me.Sm. avrebbe comunque anche sottoscritto "dichiarazione di convivenza e presa a carico del 16/03/2018, già acquisita agli atti del procedimento", con allegazione di sentenza di separazione relativa al precedente matrimonio. Trattasi di circostanza non riportata però nella decisione impugnata e a cui il ricorrente non ha ritenuto di replicare. 3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Ricorrono giusti motivi, in considerazione della complessità e novità della specifica questione di diritto, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si dà atto della non ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, trattandosi di ricorso proposto da un'Amministrazione statale. P.Q.M. La Corte respinge il ricorso e dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell'art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, da atto della non ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 6 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. CATENA Rossella - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Relatore Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere Dott. FRANCOLINI Giovanni - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI PERUGIA nel procedimento a carico di: Co.Re. nato a C il (Omissis) Ar.Lu. nato a R il (Omissis) St.Fr. nato a P il (Omissis) Tr.Vi. nato a N il (Omissis) Im.Ma. nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 09/06/2022 della CORTE APPELLO di PERUGIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIOVANNI FRANCOLINI; uditi in pubblica udienza: il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte di cassazione LUIGI GIORDANO, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; l'avvocato Br.An. che, nell'interesse di Im.Ma., si è riportato alla memoria depositata e ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; l'avvocato St.Te. che, nell'interesse di Ar.Lu., si è riportato alla memoria depositata e ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; l'avvocato Ma.Bi. che, nell'interesse di St.Fr., si è riportato alla memoria depositata e ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; l'avvocato Cr.Pa. che, nell'interesse di Tr.Vi., si è riportato alla memoria depositata e ha insistito per la conferma della sentenza impugnata; l'avvocato Es.Mo. che, nell'interesse di Co.Re., ha illustrato gli argomenti a sostegno della richiesta di inammissibilità del ricorso; l'avvocato Fr.Co. che, nell'interesse di Co.Re., ha illustrato le censure mosse al ricorso presentato e ne ha chiesto il rigetto; RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 9 giugno 2022 la Corte di appello di Perugia, per quel che qui rileva, in parziale riforma della pronuncia in data 14 ottobre 2020 del Tribunale di Perugia, ha assolto Co.Re., Ar.Lu., St.Fr., Im.Ma., Tr.Vi. (che avevano interposto appello) dall'imputazione di sequestro di persona (capo 1 della rubrica), in cui già il primo Giudice aveva ritenuto assorbita una frazione del fatto a loro contestato al capo 16 e l'intera condotta contestata ai soli Im.Ma. e Le. al capo 12; il Giudice distrettuale ha, inoltre, revocato le statuizioni civili. Le imputazioni sono state elevate in relazione all'attività svolta tra il (Omissis) dagli imputati, appartenenti alla Polizia di Stato, che ha condotto al rimpatrio in K di Al.Sh. (dapprima collocata nel C.I.E. di Ponte Galeria), moglie di Mu.Al. (ricercato dal K e con lo status di rifugiato politico riconosciuto dal Regno Unito) e della minore Al.Ab.a (figlia dei due). 2. Avverso la sentenza di secondo grado, limitatamente alle predette statuizioni assolutorie, è stato proposto ricorso per cassazione dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Perugia, che ha articolato due motivi (di seguito esposti, nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.), cui ha premesso una ricostruzione dei fatti. 2.1. Con il primo motivo - richiamando art. 606, comma 1, lett. b), cod, proc. pen. - è stata denunciata l'erronea applicazione degli artt. 533 e 603 cod. proc. pen. In primo luogo, la Corte distrettuale avrebbe riformato la statuizione di condanna senza la previa rinnovazione dell'istruttoria, non potendo valere in senso contrario l'orientamento richiamato nella sentenza impugnata (che ne esclude la necessità nei casi di riforma in melius della prima decisione), allorché - come nella specie - il giudizio di inattendibilità investa tutti i testimoni (la persona offesa, i suoi avvocati, taluni dei pubblici ufficiali che hanno reso deposizioni a carico degli imputati, ponendosi "fuori dal coro" di chi ha rappresentato la legittimità del loro operato) le cui dichiarazioni sono state poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità; la motivazione della sentenza impugnata - secondo il ricorrente - assume, infatti, l'inverosimiglianza del narrato dei detti testi, tanto da pervenire ad una pronuncia assolutoria piena e non fondata sul dubbio a fronte dell'articolata pronuncia di primo grado, senza neppure disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero per procedere in relazione a testimonianze che, coerentemente, avrebbero dovuto ritenersi false se non calunniose. Più in dettaglio, la Corte di appello ha sostenuto che: la persona offesa non avrebbe dichiarato le proprie reali generalità per proteggere il marito né avrebbe chiesto asilo politico, non esibendo i documenti che ne avrebbero impedito l'espulsione; i suoi avvocati avrebbero mentito su quanto accadde all'udienza celebrata innanzi al Giudice di pace (in ordine alla mancata formalizzazione della richiesta di protezione internazionale) e sui colloqui presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma con i dottori Ro. e Al.; parimenti non sarebbero credibili le deposizioni di Ve.Se. e Bo.Se. sorella e cognato di Al.Sh. (sulla condotta serbata dagli esponenti della Polizia di Stato in sede di perquisizione della casa abitata dalla donna e sulle percosse che il cognato avrebbe subito), e dei suoi domestici (sull'agire violento posto in essere la notte tra il (Omissis) e sull'identità della loro datrice di lavoro), nonché quella del dott. Bo., funzionario dell'Ufficio Immigrazione (sulla conversazione telefonica che sarebbe intercorsa tra il Co.Re. e l'Im.Ma.). In secondo luogo, in ogni caso la Corte di appello non avrebbe reso la prescritta motivazione rafforzata, segnatamente: - ritenendo inattendibile il narrato del Bo.. in ordine alla detta telefonata, in virtù di considerazioni in astratto corrette e, tuttavia, non tenendo presente il contesto in cui la conversazione deve collocarsi (dato che il Co.Re. aveva in precedenza ricevuto i funzionari kazaki ed organizzato la perquisizione per la cattura del marito della Al.Sh.); quindi, sarebbe del tutto verosimile che egli abbia contattato l'Im.Ma.; così come sarebbe priva di rilevanza la circostanza che della telefonata non è stata trovata traccia nei tabulati, non essendovi "alcuna certezza" sull'acquisizione di quelli relativi a tutte le utenze in uso agli indagati e non potendosi escludere che siano state utilizzate utenze ignote agli inquirenti; inoltre, contrariamente a quanto assunto dal Giudice di appello, il Bo. non avrebbe avuto particolare interesse a coinvolgere i propri superiori; - omettendo di fornire una spiegazione convincente a sostegno dell'asserto secondo cui la persona offesa non ha rappresentato la propria situazione al personale della Questura, dato che gli interrogativi al riguardo sollevati dalla Corte di merito potrebbero trovare "una risposta anche contraria", ben essendo probabile che ella l'abbia esposta (pur non chiedendo formalmente asilo politico per non svelare, in maniera comprensibile, la propria identità di copertura ed essendo molto probabile che ella non avesse contezza di cosa occorresse per ottenere l'asilo); - parimenti, non argomentando compiutamente sulla ritenuta inattendibilità dell'avvocato Ol. (in ordine al colloquio dopo i fatti con il dott. Al.. la cui deposizione sarebbe "sufficiente per credere che qualcuno ebbe a fare pressione sulla Procura per ottenere il nulla osta all'espulsione", tanto che esso è stato reso anche dal Procuratore della Repubblica); - infine, ancorando l'inattendibilità dei testimoni, che hanno riferito su quanto accaduto nel corso della perquisizione e sull'aggressione subita da Bo.Se. all'impossibilità che certi fatti si verifichino (tenuto conto che "la perquisizione mirava alla cattura di un latitante ritenuto solito accompagnarsi con terroristi ed è quindi più che verosimile che qualche agente abbia tenuto comportamenti scorretti ed illeciti; e che la certificazione medica rilasciata al Bo.Se. "difficilmente può essere confutata"), 2.2. Con il secondo motivo - richiamando l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. -sono stati denunciati la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione e il "travisamento del fatto". Ad avviso della Parte pubblica ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe parcellizzato le risultanze processuali, non contestualizzato l'accaduto, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla significatività di talune condotte e travisato i fatti interpretando la vicenda da una prospettiva errata e non condivisibile: - attribuendo rilevanza alla mancata individuazione del perché alti funzionari dello Stato avrebbero agito contra legem e alla mancata contestazione di illeciti a coloro che ne sarebbero stati i mandanti, quantunque la vicenda si sia articolata in due distinte fasi caratterizzate da diverse finalità (dapprima la cattura del latitante e poi l'espulsione della moglie) e non vi siano stati veri e propri mandanti, avendo il Co.Re. e l'Im.Ma. agito "con particolare zelo" senza "alcun ordine dall'alto", essendo sufficiente per indirizzarne la condotta "l'interessamento dei vertici del Ministero dell'Interno" (al fine di dimostrarsi dirigenti "affidabili", tanto che il primo è stato nominato Questore di Palermo, il secondo dapprima Questore di Rimini poi "vertice della Pojfer"); - apprezzando in maniera parcellizzata e decontestualizzando le molte illegalità e le troppe prassi anomale che hanno avuto luogo (in relazione alla collocazione della Al.Sh. in un C.I.E., pur dovendo ella accudire la figlia minore, affidata a un domestico; alla valutazione del pericolo di fuga, alla ritenuta falsità del passaporto della donna, alla sua ostinazione nel celare le propria identità, al mancato ascolto di quanto da lei rappresentato in ordine ai pericoli correlati al suo rimpatrio, al fatto che sia stata privata del telefono cellulare, alla collaborazione degli esponenti della Polizia di Stato con i kazaki nella preparazione dei documenti necessari al rimpatrio, alle pressioni sui magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma per ottenere in tempi brevi il nulla osta, alle modalità di affidamento della minore alla madre prima della partenza); - incentrando l'assoluzione sul fatto che il collocamento della persona offesa presso il CIE e la sua espulsione siano state determinate dal fatto che ella non abbia mostrato i documenti che li avrebbero impediti, senza però affermare che i dirigenti ed i funzionari della Questura di Roma posero in essere le condotte a loro ascritte perché indotti in errore dal comportamento della donna (dato che gli imputati ben sapevano chi era in realtà la sedicente Al.Ay.), ritenendo soltanto che vi fossero i presupposti per agire tal modo e non spiegando - il che renderebbe carente la motivazione - perché gli imputati abbiano omesso volutamente di compiere accertamenti prima di incidere "sulla libertà di (una) madre e di una minorenne", non prendendo in considerazione i motivi che giustificavano la condotta della Al.Sh. (in particolare, la paura di mettere in difficoltà il marito e diventare merce di scambio); infine, non rendendo una motivazione plausibile sulla collaborazione "poco ortodossa" tra la Polizia di Stato e l'Autorità kazaka (cui sono state fornite le fotografie estratte dal passaporto ritenuto falso) per l'emissione dei documenti necessari all'espulsione, né sulle vicende relative all'affidamento della minore dapprima al domestico (per consentire la collocazione della donna nel C.I.E.) e dopo (solo all'aeroporto) alla stessa Al.Sh. (senza informarla della possibilità dì adire il Tribunale per i minorenni per non essere espulsa immediatamente, tenuto conto del disposto dell'art. 13 D.Lgs. 286/1998 e della circolare ad esso relativa emanata dal Capo della Polizia, di certo nota agli imputati), così non rendendo la necessaria motivazione rafforzata. 3. Sono state presentate memorie dai difensori degli imputati. 3.1 L'avvocato St.Te. del Foro di Perugia, nell'interesse di Ar.Lu., ha addotto che: il primo motivo ricorso non avrebbe dato conto compiutamente dell'attività istruttoria svolta dal Giudice di appello; la prospettazione relativa alla necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale sarebbe in contrasto con la giurisprudenza delle Sezioni Unite; l'Ar.Lu. avrebbe preso parte soltanto alla riunione volta alla pianificazione della perquisizione de qua senza poi parteciparvi personalmente; la Corte di merito avrebbe argomentato correttamente a proposito del trattenimento presso il CIE e dell'espulsione della Al.Sh.. ritenendo che siano stati determinati dal fatto di quest'ultima; ha, poi, assunto che il secondo motivo sarebbe inammissibile, poiché proporrebbe una diversa lettura del materiale probatorio, apprezzato dalla Corte di merito in maniera immune da vizi, considerato pure che sarebbe stata acclarata la legittimità degli atti amministrativi posti in essere nella specie e a fortiori della condotta dell'Ar.Lu., il quale si sarebbe limitato a siglare due atti riconosciuti definitivamente leciti (non essendo oggetto del ricorso la statuizione liberatoria resa nei suoi confronti in relazione ai capi 6 e 10). 3.2 L'avvocato Ma.Bi., nell'interesse di St.Fr.. ha addotto l'inammissibilità del primo motivo di ricorso, nella parte in cui ha assunto, in difformità dalla giurisprudenza di legittimità, la necessità di una rinnovazione dell'istruttoria (non richiesta dalla Procura generale distrettuale nel corso del giudizio di appello); in relazione all'asserito difetto di una motivazione rafforzata - che comunque sarebbe stata resa, secondo i principi posti al riguardo dalla giurisprudenza, confutando la capacità rappresentativa degli elementi posti dal Tribunale a sostegno della propria decisione ed indicando gli ulteriori dati probatori cui ha riconosciuto rilievo -, poiché generico e volto a una propria ricostruzione dei fatti; nonché la palese inammissibilità del secondo motivo in quanto versato in fatto e volto a offrire una diversa lettura degli accadimenti; ha chiesto, comunque, il rigetto dell'impugnazione. 3.3 L'avvocato Cr.Pa., nell'interesse di Tr.Vi., ha rappresentato l'inammissibilità del ricorso, in quanto avrebbe ad oggetto la valutazione di elementi probatori, non consentita nel giudizio di legittimità; comunque, ne ha chiesto il rigetto, poiché le motivazioni offerte dal Giudice di appello sarebbero fondate in fatto ed in diritto, nonché logiche e coerenti. 3.4 L'avvocato Br.An., difensore di fiducia di Im.Ma., ha evidenziato come la premessa del ricorso contenga considerazioni in punto di fatto sconfessate dalla ricostruzione della Corte di merito e che, comunque, non avrebbero dovuto essere sottoposte al vaglio del Giudice di legittimità; ha prospettato la manifesta infondatezza e la genericità del primo motivo di ricorso, difforme dai principi posti anzitutto dalle Sezioni Unite in tema di rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello (cui, peraltro, la Parte pubblica si era opposta) e di motivazione rafforzata (che nella specie sarebbe stata espressa); ha rappresentato che con il medesimo motivo sarebbe stata propugnata una diversa ricostruzione dei fatti, senza indicare da quali atti del procedimento quest'ultima discenda; ha assunto che la Corte di merito non solo avrebbe diversamente interpretato il materiale assunto nel corso del giudizio di primo grado, ma ne avrebbe altresì colmato le lacune istruttorie, assumendo la testimonianza dei magistrati che si sono occupati della emissione del nulla osta all'espulsione e, dunque, avendo un "contatto diretto" con "le prove dichiarative ritenute essenziali" (al fine di apprezzare la veridicità del narrato dei medesimi testi e la non credibilità, in tutto o in parte, delle dichiarazioni poste a sostegno della prima decisione); infine, ha addotto l'inammissibilità del secondo motivo di ricorso, poiché non identificherebbe in alcun modo gli atti del procedimento che dovrebbero consentire di apprezzare il lamentato vizio di motivazione; tale motivo, inoltre, risulterebbe manifestamente infondato in quanto proporrebbe di censure di merito, sulla scorta di una valutazione del tutto parziale del materiale probatorio, che la difesa ha inteso comunque confutare. CONSIDERATO IN DIRITTO Il primo motivo di ricorso è inammissibile; è invece fondato, nei limiti di seguito esposti, il secondo motivo. 1. Al fine di provvedere su entrambi i motivi di ricorso, è utile premettere che "il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva" (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 - 01; Sez. 4, n. 2474 del 15/10/2021 - dep. 2022, Nappa, Rv. 282612 -01; Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Vollero Rv. 281404 - 01). Difatti, "il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna operato dal giudice di appello pur senza rinnovazione della istruzione dibattimentale è perfettamente in linea con la presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen." (Sez. U, n. 14800/2017, dep. 2018, cit.); purtuttavìa, "quando riforma in senso radicale la condanna di primo grado pronunciando sentenza di assoluzione, ha l'obbligo di confutare in modo specifico e completo le precedenti argomentazioni, essendo necessario scardinare l'impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova"; "ne discende che il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte" (ivi). In altri termini, "in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell'appello ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (...), mettendo alla luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. sez. 2 n. 50643 del 18/11/2014, Rv. 261327), dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni" (Sez. 4, n. 24439/2021, cit.). 2. Tanto premesso, il primo motivo - che, pur assumendo la violazione della legge penale, ha in realtà inteso denunciare un vizio di motivazione (sul potere di questa Corte di qualificare i motivi di ricorso sulla base del contenuto dell'atto di impugnazione cfr. Sez. 4, ord. n. 4264 del 05/04/1996, Lucifora, Rv. 204447 - 01) - è manifestamente infondato e versato in fatto. Esso, infatti, ha assunto, in difformità rispetto ai principi appena richiamati e senza chiarire compiutamente sulla scorta di quale iter logico-giuridico essi debbano essere disattesi, che nel caso di specie la riforma della statuizione di condanna richiedesse la rinnovazione dell'istruttoria, sol perché il giudizio di inattendibilità avrebbe investito tutti i testimoni a carico (senza neppure disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero per procedere in relazione ai reati da costoro commessi per il tramite delle rispettive deposizioni). Nel resto, pur deducendo che la Corte distrettuale non avrebbe fondato la riforma della prima decisione su di una motivazione rafforzata, contiene una prospettazione alternativa (e, talora, pure ipotetica), poiché perora un diverso apprezzamento degli elementi di prova esposti (di cui non ha neppure dedotto il travisamento), non consentito in questa sede, dato che - per costante giurisprudenza - l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non attribuisce al giudice della legittimità un'indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella già effettuata nei gradi di merito -valutazione, per vero, preclusa alla Corte di cassazione, innanzi alla quale non può utilmente dedursi il travisamento del fatto (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 - 01). 3. È, invece, fondato - secondo quanto si va a chiarire - il secondo motivo di ricorso. Occorre premettere che la copiosa giurisprudenza di questa Corte, in tema di favor impugnationis, va, senza alcun dubbio, utilizzata anche nell'esegesi di un atto di impugnazione da parte della pubblica accusa; pertanto, l'atto va valutato nel suo complesso (tra le altre: Sez. 6, n. 29235 del 18/05/2010, Amato e altri, Rv. 248205; Sez. 5, n. 23412 del 06/05/2003, Caratossidis, Rv. 224932). Alla stregua di tale principio, benché anche il motivo in esame rechi numerose allegazioni versate in fatto, così come il primo motivo, esso, tuttavia, non può dirsi inammissibile nella parte in cui ha denunciato il difetto di una motivazione rafforzata rispetto a quella del primo Giudice. 3.1 Anzitutto, la Corte di merito - pur ammettendo che la decisione di primo grado abbia correttamente individuato nel dolo generico l'elemento soggettivo del contestato delitto di sequestro di persona (Sez. 5, n. 19548 del 17/04/2013, L., Rv. 256747 - 01) - ha ritenuto decisiva una chiave di lettura degli elementi di prova che, anche sotto il profilo della responsabilità a titolo di concorso ex art. 110 cod. pen., la mancata individuazione del perché gli imputati, tenuto conto della rispettiva veste istituzionale, si sarebbero prestati a porre in essere i fatti (illeciti, nella prospettiva accusatoria) a loro attribuiti, rende la ricostruzione accusatoria un'ipotesi priva di seria credibilità; non risulta, quindi, possibile attribuire rilievo al "medesimo obiettivo" che avrebbe orientato l'agire dei diversi soggetti in discorso secondo i desiderata dell'Autorità kazaka. Osserva il Collegio che, del tutto pacificamente, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato il principio della irrilevanza del motivo rispetto al dolo generico (cfr. Sez. 5, n. 3884 del 24/06/2021, C., n.m.; Sez. 1, n. 1903 del 26/10/2017 - dep. 2018, Klotz, Rv. 272046 - 01; Sez. 2, n. 24645 del 21/03/2012, Presicce, Rv. 252824 - 01; Sez. 6, n. 48745 del 06/12/2011, Politi, Rv. 251653 - 01); in secondo luogo, la stessa Corte di appello ha affermato come la vicenda avesse preso le mosse dal tentativo di catturare il marito della donna, latitante (su input dell'Autorità kazaka), e che ben potrebbero essere stati posti "in essere atti illegittimi, o addirittura reati, al momento della prima perquisizione, in quello della identificazione della Al.Sh., oppure ancora denunciando costei al Pubblico Ministero od organizzandone il trasferimento a Ponte Galeria o a Ciampino", adducendo, poi - senza una compiuta spiegazione -, che "nulla imporrebbe di ricollegare quelle condotte a un ben definito e unico contesto". Peraltro, la sentenza impugnata rimarca il difetto di elementi a carico di mandanti che si collocherebbero "a un livello (istituzionale) molto più alto", il che è stato ritenuto un elemento ostativo per la disamina del compendio probatorio nell'ottica accusatoria, poiché, secondo la Corte territoriale, "chi vuole sostenere che il Co.Re. partecipò al presunto ordito criminale perché ricevette disposizioni in tale senso, o così ritenne di interpretarle, dovrebbe anche disporre la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica per l'accertamento di quelle responsabilità ulteriori al piano di sopra", assunto questo - ad avviso del Collegio di merito -congetturale. In sostanza, quindi, la mancata individuazione di responsabilità a livello "politico", secondo la Corte di merito, destituirebbe irrimediabilmente di plausibilità la ricostruzione accusatoria - condivisa dal primo Giudice - secondo cui gli esecutori di direttive scaturenti da scelte e accordi politici non istituzionali con esponenti di uno Stato estero (nella specie il K), abbiano potuto commettere reati nell'attuazione delle stesse. A parte la facile constatazione che tale impostazione metodologica condurrebbe al paradosso secondo cui, ad esempio, in assenza della individuazione dei determinatori o istigatori, non si potrebbe ritenere sufficientemente "seria" l'accusa nei confronti degli esecutori materiali di un reato, ciò che va rimarcato, a parere del Collegio, è come vada sgombrato il campo da un equivoco di fondo: che organi istituzionali di uno Stato, anche nel contesto di una democrazia parlamentare, possano concludere accordi di tipo riservato con funzionari esponenti di organismi e/o settori di altri Stati, e, come tali, non istituzionalmente ostensibili né manifestabili alla pubblica opinione, appare di tutta evidenza. Le tipologie possibili dell'agire, da parte di settori istituzionali, anche attraverso canali riservati e quali che ne siano le modalità, appartengono alla sfera di scelte, appunto, di tipo esclusivamente politico, la cui discrezionalità certamente non è sindacabile in sede giurisdizionale. Diverso, ovviamente, rispetto a tale piano puramente discrezionale, valutabile solo nell'ottica di una responsabilità politica, si colloca quello della possibilità che, in esecuzione ed attuazione di tali scelte, coloro che sono chiamati a realizzarle in concreto, attuando le superiori direttive, possano scegliere delle modalità operative suscettibili di integrare fatti penalmente rilevanti; l'esecuzione di condotte penalmente illecite, ovviamente, non può essere scriminata né giustificata dalla scelta politica discrezionale ed insindacabile - se non a livello politico, appunto - che costituisce il motivo della condotta stessa. Il che significa che, nel caso di specie - al di fuori di elementi dimostrativi del concorso di un "terzo livello", nei reati ascritti agli imputati - l'individuazione della ipotizzabile scelta politica e degli accordi a monte tra alti livelli istituzionali di differenti paesi (lo Stato italiano e lo Stato kazako), non appare affatto dirimente e decisiva nell'ottica di considerare la rilevanza penale dell'agire degli imputati. In tal senso, quindi, la motivazione della Corte di merito, sul punto, si appalesa come illogica ed avulsa da corretti criteri ricostruttivi. 3.2 In secondo luogo, la Corte di merito, pur non escludendo che il collocamento della Al.Sh. presso il C.I.E. di Ponte Galeria potesse essere conforme alla prassi, ha, tuttavia, dato conto della inusuale celerità che ne ha, nondimeno, condotto all'espulsione. Come incontestatamente verificato dalla sentenza di primo grado, dall'orario in cui la Al.Sh. era stata accompagnata presso gli uffici della Squadra Mobile della Questura di Roma, alle prime ore del mattino del 29 maggio 2013, dopo la perquisizione dell'abitazione in C, sino al momento in cui la predetta, insieme alla figlia minore, era stata fatta imbarcare su di un aereo diretto in K, messo a disposizione dalle autorità kazake e giunto da L a C, erano trascorse circa sessanta ore, mentre appena sette ore erano trascorse dalla convalida del trattenimento presso il C.I.E. di Ponte Galeria, intervenuta alle ore 11,40 del 31 maggio 2013, e la partenza del vettore aereo con a bordo la donna e la bambina. Come accertato, la ragione del provvedimento di espulsione discendeva dall'essere stata la Al.Sh. sottoposta ad indagini preliminari per il delitto di cui all'art. 497-bis cod. pen., avendo ella esibito, in sede di perquisizione, un passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana intestato ad Al.Ay., nata in K il (Omissis) - stessa data di nascita della Al.Sh. -ed avendo sin da quel momento sostenuto di chiamarsi Al.Ay.: tale documento, alla stregua degli accertamenti svolti, era risultato falsificato. Sul punto è necessario ricordare come la stessa Corte di merito, dopo aver dato atto di tali circostanze, abbia ricordato che il sequestro del passaporto - come indicato alle pagg. 207 e segg. della sentenza impugnata - era stato, tuttavia, annullato dal Tribunale del riesame di Roma, e che la stessa Corte di cassazione, con ordinanza n. 17407/2014, pronunciandosi sul provvedimento di convalida del trattenimento emesso dal Giudice di pace, ne aveva disposto l'annullamento senza rinvio, esprimendosi nel senso della genuinità del passaporto; peraltro, già il 12 luglio 2013 il Prefetto di Roma aveva revocato, in autotutela, il decreto di espulsione, in quanto era emerso che la donna fosse in possesso di un passaporto kazako e di due permessi di soggiorno, di cui uno, quello lettone, che, in quanto emesso da uno Stato appartenente all'area Schengen, avrebbe consentito la libera circolazione della titolare per la durata di tre mesi, impedendone, in ogni caso, l'espulsione con accompagnamento alla frontiera, in quanto alla intestataria di tale permesso avrebbe dovuto essere rivolto l'invito ad allontanarsi dal paese entro un termine determinato. La sentenza impugnata ha, quindi, individuato le ragioni per superare la decisione del primo Giudice sul punto non solo ritenendo accertata la falsità del passaporto centrafricano, ma soprattutto osservando che mai la Al.Sh. - ritenuta del tutto inattendibile - aveva rappresentato di essere in possesso di un passaporto kazako o di altri titoli che ne legittimassero la permanenza in Italia, né tali circostanze erano mai state rappresentate dai suoi difensori, avendo la predetta continuato a sostenere di chiamarsi Al.Ay. e di essere in possesso di un valido passaporto sudafricano, laddove l'ammissione delle sue reali generalità e l'indicazione dei titoli in suo possesso ne avrebbe evitato l'espulsione. In realtà, ciò che appare determinante, ai fini della valutazione della logicità del percorso seguito dalla sentenza impugnata, non è tanto la condotta serbata dalla Al.Sh. o dai suoi difensori, quanto la circostanza, chiaramente ammessa dalla Corte di merito, che i funzionari coinvolti nella vicenda fossero ben consapevoli della reale identità della donna sin dalla prima perquisizione, posto che la nota verbale dell'ambasciata del K, consegnata il (Omissis), indicava la possibile presenza dell'Mu.Ab. in una villa di C, ove questi dimorava insieme alla moglie, per cui "è (...) pacifico che chiunque si fosse occupato della perquisizione era già informato che imbattersi nella coniuge del latitante risultava assai probabile" (pag. 199 della sentenza impugnata); inoltre, anche l'informativa del 30 maggio 2013 n. 500/1/Sez. Crim.Org. richiamava l'attenzione della Procura destinataria sul compimento dell'attività di perquisizione e sequestro del ricercato in campo internazionale, Mu.Ab., nonché la denuncia in stato di libertà della moglie di questi, indicata come Al.Ay.. per il reato di cui all'art. 497-bis cod. pen., con la conseguenza che non è possibile sostenere "che vi fu una qualsivoglia volontà di rappresentare falsamente gli esiti delle indagini, ovvero di tacere o 'spalmare' chissà cosa: quella donna era pacificamente la consorte del soggetto sfuggito alla cattura, e tutti l'avevano compreso a prescindere dal rilievo che ella avesse la pretesa di attribuirsi un cognome fasullo, avvalendosi di un documento che poteva fondatamente sospettarsi - ed era, per quanto si dirà nel paragrafo seguente - parimenti falso (...) l'attribuzione alla signora della veste di coniuge del latitante era perfettamente in linea con quel che aveva già scritto il Bo. nel più volte ricordato appunto per il C.I.E. di Ponte Galeria, dove si presentava la persona trattenuta come 'moglie di un ricercato in campo internazionale (...) Ancora nella prima pagina dell'informativa del 30 maggio, nell'elencare le utenze oggetto di richiesta di acquisizione dei tabulati del traffico telefonico cellulare, chi scrisse la nota (St.Fr.), chi la firmò (Ar.Lu.) e chi vi appose il visto (Co.Re.) fecero presente che una delle stesse era intestata a una terza persona ma "in uso ad Al.Ay., nata il (Omissis), moglie del ricercato Mu.Ab." (pagg. 201-202 sentenza impugnata). Ne consegue, quindi, che la Corte di merito avrebbe dovuto considerare la condotta degli imputati proprio alla luce di tale indiscussa consapevolezza, posto che proprio detta circostanza rende chiaro come le falsità e le reticenze, ascritte dalla sentenza impugnata a tutti i testi, non avessero avuto alcuna incidenza sul fatto che, sin dalla prima fase dell'attività di polizia giudiziaria, i soggetti in essa coinvolti avessero ben chiara l'identità della Al.Sh.. Tale rilevante consapevolezza, quindi, avrebbe dovuto essere, da un punto di vista logico, la cornice ermeneutica in cui contestualizzare ed inquadrare le condotte degli imputati, rispetto alle quali le reticenze e le falsità ritenute dalla Corte di merito - che sul punto ha articolato una capillare motivazione - non hanno avuto, all'evidenza, alcuna influenza determinante. L'impasse logico in cui è caduta la sentenza impugnata è stato quello - una volta ritenuta l'inattendibilità delle deposizioni testimoniali della Al.Sh.. dei suoi familiari e conviventi, nonché dei suoi legali - di ritenere, in tal modo, definitivamente confutata la tesi accusatoria accolta dal primo Giudice; in realtà, la sentenza impugnata non è riuscita in alcun modo a spiegare in che modo la scelta difensiva della Al.Sh. di non ammettere la sua reale identità abbia determinato le anomalie oggettivamente emerse nella gestione della vicenda - tra le righe della motivazione ammesse anche dalla Corte di merito -, posto che ben chiara, sin dall'inizio delle operazioni era l'identità della donna. Peraltro, la Cassazione - con l'ordinanza con cui ha disposto l'annullamento senza rinvio del provvedimento con cui il Giudice di pace di Roma convalidava, con decreto di trattenimento presso il C.I.E. di Roma-Ponte Galeria, il provvedimento di espulsione adottato ai sensi dell'art. 13, comma secondo, lettera a), D.Lgs. n. 286 del 1998, per essere la cittadina straniera entrata nel territorio dello Stato in data 17 gennaio 2004 attraverso la frontiera del Brennero sottraendosi ai controlli dovuti e, conseguentemente, aver soggiornato illegalmente in Italia essendo in possesso di un passaporto diplomatico alterato o contraffatto - ha rilevato come la specificità del caso - ossia la rapida successione temporale dell'emissione del provvedimento di espulsione e la sua esecuzione coercitiva - rendessero sindacabile il giudizio di convalida sotto l'aspetto della "doppia tutela", fondata sulla separatezza ed autonomia dei due giudizi, quello a cognizione piena relativo all'opposizione all'espulsione, e quello esclusivamente limitato al controllo dell'esistenza ed efficacia del provvedimento presupposto, richiamando la sentenza interpretativa di rigetto n. 105 del 2001 della Corte costituzionale, in tema di mancata previsione normativa esplicita del sindacato giurisdizionale della misura dell'accompagnamento coattivo immediatamente conseguente all'espulsione, realizzabile quando non sussistano le esigenze di differimento poste a base del trattenimento presso i C.I.E. Con tale pronuncia il Giudice delle leggi, oltre a ritenere coerente con un'interpretazione costituzionalmente orientata l'estensione del giudizio di convalida all'accompagnamento coattivo, ha osservato come "Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale"; la sentenza ha, altresì, aggiunto: "Né potrebbe dirsi che le garanzie dell'art. 13 Cost. subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani". A questo fondamentale arresto della Corte costituzionale, secondo il provvedimento della Cassazione, devono, poi, aggiungersi i principi stabiliti dalla Corte EDU, sia nella pronuncia Hokic e Hrustic c. Italia del 1712/2009 (ric. n. 3449 del 2009), sia nella successiva Seferovic c. Italia del 8/2/2011 (ric. n. 12921 del 2004), che hanno definito la differenza tra espulsione originariamente illegittima, in cui la violazione della libertà personale è grave e manifesta, da quella nella quale l'irregolarità della detenzione si manifesta solo successivamente ad uno specifico accertamento giudiziale. Nel caso della Al.Sh., secondo la Cassazione, il provvedimento espulsivo emesso rientra nella categoria della manifesta illegittimità originaria del medesimo: "Le stesse modalità fattuali (l'irruzione notturna avente, secondo la prospettazione della stessa parte controricorrente, una finalità diversa dalla generica prevenzione e repressione dell'immigrazione irregolare), la conoscenza dell'effettiva identità della ricorrente, la validità ed efficacia anche del passaporto diplomatico centroafricano oltre al possesso di ben due titoli di soggiorno in corso di validità, uniti all'oggettiva mancanza delle condizioni temporali e linguistiche per poter chiarire in modo inequivoco l'effettiva condizione di soggiorno in Italia da parte della ricorrente, inducono a ritenere del tutto privo delle condizioni di legittimità il titolo espulsivo ab origine e, conseguentemente il successivo ordine di accompagnamento coattivo e trattenimento presso il C.I.E., ancorché di molto breve durata. Peraltro, non può non rilevarsi, l'anomalia e la contraddittorietà tra le indicate ragioni dell'accompagnamento coattivo (ritenute ostative all'alternativa modalità della partenza volontaria) unite alla necessità del trattenimento, ed il successivo, quasi immediato reperimento del vettore aereo. La contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della ricorrente, dall'irruzione alla partenza, hanno determinato nella specie un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa. Peraltro, il controllo della sussistenza di due titoli validi di soggiorno intestate a Al.Sh. sarebbe stata operazione non disagevole, attesa la conoscenza preventiva dell'identità della ricorrente che ha costituito una delle ragioni determinanti il sospetto (rivelatosi errato) dell'alterazione del passaporto diplomatico in quanto intestato non a Al.Sh. ma ad Al.Ay.". In realtà, quindi, anche a prescindere dalla circostanza relativa alla falsità o meno del passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana - elemento ripetutamente utilizzato in motivazione dalla sentenza impugnata - emergono evidenti ben altre circostanze che la Corte di merito avrebbe dovuto considerare per valutare la condotta degli imputati: la contrazione dei tempi del rimpatrio, l'immediato reperimento del vettore aereo, lo stato di trattenimento e sostanziale isolamento della Al.Sh., dall'irruzione nell'abitazione di C alla partenza. In tal senso non risultano, infatti, smentite dalla Corte di merito alcune rilevanti circostanze: ad esempio, il verbale di sequestro del passaporto centrafricano era stato redatto e fatto sottoscrivere alla Al.Sh. senza alcuna traduzione, né in inglese né in russo, e senza dare atto che tale passaporto recasse anche i nomi dei figli minori dell'intestataria; il verbale di elezione di domicilio era stato redatto parimenti in italiano, senza alcuna traduzione, dando, però, atto che la donna non avesse nominato alcun difensore di fiducia ed omettendo, altresì, la nomina di un difensore di ufficio; una volta giunta al C.I.E., la Al.Sh. aveva interloquito unicamente con il Tr.Vi.. il quale ha confermato di aver informato la donna che egli avrebbe chiamato l'ambasciata del K, cosa che risulta anche dagli accertamenti sui tabulati telefonici, essendosi la donna rifiutata di parlare con il suo interlocutore kazako; il funzionario kazako informato dall'Im.Ma. del trattenimento della Al.Sh. presso il C.I.E. rendeva nota la disponibilità immediata di un vettore aereo, per cui, allo scopo di formare i certificati di rimpatrio, si procedeva a scattare delle foto delle immagini della Al.Sh. e della figlia contenute nel passaporto ritenuto falso, utilizzando una funzionalità del programma photoshop, risultando da tali certificati, funzionali all'espulsione, che la donna e la figlia minore erano nate in Italia; agli avvocati Ri. e Fe.Ol., nel frattempo nominati difensori di fiducia dalla Al.Sh.. non era stato consentito di conferire con la propria assistita; nel corso dell'udienza di convalida il rappresentante della Questura di Roma non consegnava al Giudice di pace né ai difensori il contenuto del proprio corposo fascicolo di ufficio, mentre il fascicolo del giudice risultava contenere solo i documenti prodotti dai difensori di fiducia della Al.Sh.; in ogni caso, nel corso dell'udienza di convalida risultavano ulteriormente confermate le generalità reali della Al.Sh.; durante le operazioni per la successiva traduzione all'aeroporto di Ciampino, la Al.Sh. era rimasta in attesa in un locale del C.I.E. ed aveva richiesto, senza successo, di poter effettuare una telefonata, né le era stato consentito l'utilizzo del cellulare dell'assistente La.Sc. nel corso del trasporto verso l'aeroporto, avendo quest'ultima rappresentano che il suo era un cellulare di servizio. In relazione a tali circostanze la Corte di merito è certamente venuta meno al proprio obbligo di motivazione rafforzata, che non può dirsi soddisfatto, in termini di logica ricostruttiva solo perché non è stato dimostrato l'accordo o il concerto tra i kazaki e la Polizia italiana, né il coinvolgimento di mandanti di livello più elevato (pag. 164 e segg. della sentenza impugnata). Altrettanto deve dirsi in riferimento ad ulteriori snodi motivazionali della sentenza impugnata, nella parte in cui si evidenzia la mancata individuazione delle motivazioni degli imputati nel commettere il reato a loro ascritto, nell'ipotesi in cui essi non avessero eseguito ordini dall'alto, così come nella parte in cui si evidenzia il mancato coinvolgimento nelle indagini degli operatori del C.I.E. in relazione alle condotte volte ad impedire che la Al.Sh. potesse comunicare con l'esterno. Non appare possibile, in altri termini, evidenziare le lacune - che la Corte distrettuale ha ravvisato - delle indagini preliminari per eludere la valutazione, in un quadro unitario e contestuale, delle condotte ascritte agli imputati, peraltro ammettendo che - forse - il trattenimento della donna non corrispondeva alla prassi amministrativa (pag. 171 - 184 della sentenza impugnata). Tanto più che la stessa Corte di merito, valutando accuratamente il materiale documentale e testimoniale, in riferimento alle connotazioni del clima politico in K, ammette che la situazione politica del paese, nonostante fonti non del tutto univoche, fosse sicuramente meritevole di verifica (pagg. 192 - 195 della sentenza impugnata); seppure, quindi, come sembra ipotizzare la Corte di merito, non esisteva un preciso obbligo informativo da parte degli uffici preposti di informarsi quotidianamente degli sviluppi inerenti la situazione politica di un paese, non si comprende in quali termini la motivazione della sentenza impugnata, tuttavia, ritenga logica la concreta e peculiare modalità di svolgimento del procedimento, nel caso di specie, pur a fronte di indici non definitivamente tranquillizzanti circa le condizioni politiche del paese estero verso il quale la Al.Sh. e la figlia minore sarebbero state espulse, ascrivendo in sostanza, al silenzio ed alle omissioni della predetta - verosimilmente, per come emerge alle pagg. 227 e segg. della sentenza impugnata, anche frutto di una strategia difensiva della Al.Sh. volta al tentativo, estremo e privo di efficacia, di coprire il coniuge - la mancanza di approfondimento da parte dell'autorità che procedeva, dimenticando, però, che certamente tali reticenze ed omissioni non avrebbero potuto, in ogni caso, giustificare la singolare rapidità della procedura e le modalità esecutive dell'espulsione, come in precedenza descritte e non messe in discussione dalla Corte di merito. Né appare appagante la motivazione in esame sotto altro aspetto, che pure sarebbe stato doveroso approfondire, proprio alla luce delle singolari modalità della procedura di espulsione, ammesse dalla Corte di merito: la giurisprudenza civile di questa Corte ha, da tempo, analizzato la rilevanza della mancata comunicazione di adeguate informazioni sulle modalità attraverso le quali presentare istanza di protezione internazionale, osservando che qualora risultino indicazioni che cittadini, stranieri o apolidi, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere - fondato sull'espressa previsione contenuta nell'art. 8 della Direttiva UE 26 giugno 2013, n. 32, e, ancor prima della sua entrata in vigore, sull'interpretazione conforme alle Direttive europee in corso di recepimento e costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale - di fornire a tali cittadini le necessarie informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l'accesso alla procedura di asilo (Cass. civ., Sez. 1, n. 12592 del 10/05/2023, Rv. 668954; Sez. 6-1, n. 10743 del 24/02/2017, Rv. 651965; Sez. 6-1, n. 5926 del 25/03/2015, Rv. 654730). A prescindere dal fatto che la violazione di tali doveri determini la nullità dei conseguenti decreti, ciò che rileva nella presente sede è la ripetuta affermazione, da parte della giurisprudenza di questa Corte, di tale dovere di informazione nei confronti di cittadini sottoposti alla procedura di espulsione, fondato su precise direttive europee e, prima ancora, sulla necessità di interpretare le disposizioni in tema di immigrazione, nonché la loro applicazione pratica, in senso costituzionalmente orientato al rispetto delle norme CEDU. La Corte ha del tutto eluso tale aspetto, che avrebbe dovuto, invece, essere specificamente analizzato, alla luce delle argomentazioni del primo Giudice, posto che proprio il ruolo di pubblici funzionari dei soggetti coinvolti - di cui la Corte di merito ha più volte sottolineato, in maniera estremamente argomentata, la competenza e la professionalità - avrebbe imposto uno specifico approfondimento motivazionale in relazione alla elusione di tali doveri - non contestata dalla sentenza impugnata -, elusione ancor più macroscopica se si considera la incontestata professionalità degli imputati stessi, ineccepibilmente analizzata dalla Corte di merito. 3.3 Inoltre, la Corte di appello, in particolare all'esito della integrazione istruttoria disposta, ha dato conto di come il dott. Al., magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, abbia riferito di aver intrattenuto una conversazione ("non del tutto serena e un po' sgradevole") con l'Im.Ma.. il quale gli aveva sollecitato la celere emissione del nulla-osta al rimpatrio della Al.Sh.: tale interlocuzione si era verificata dopo la sospensione del precedente nulla osta verbale, richiesto dal Co.Re., ed era scaturita dal colloquio tra l'Al. e l'avvocato Ol., difensore della donna. Nel sollecitare nuovamente l'emissione del nulla-osta, in particolare, era stata prospettata al magistrato, a fronte delle sue obiezioni, correlate ai tempi necessari per le verifiche, l'urgenza derivante dalla disponibilità di un aereo in partenza per il K; il tutto senza, però, rappresentare al dott. Al. che i documenti per il rimpatrio avevano valore solo per quella data, nonché rappresentando per iscritto che la Al.Sh. era in condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore, indicando che la minore era in quel momento affidata a persona nominata dal Tribunale per i minorenni, dato, quest'ultimo, che ha trovato smentita, alla luce di quanto esposto nella sentenza impugnata. Su tale aspetto, peraltro, la sentenza impugnata ha ritenuto che la Al.Sh. avesse sempre manifestato la volontà di affidare la propria figlia minore ad altri (presupposto indicato, quanto meno secondo la prassi invalsa, come necessario per condurre la donna presso il C.I.E. di Ponte Galeria) e, successivamente, ha dato conto delle dichiarazioni della coimputata assolta La.Sc.. reputata credibile, secondo cui era stato l'Im.Ma. a dare disposizione perché la Al.Sh. chiamasse a casa, in modo da poter dire alla sorella che ella era d'accordo a farsi raggiungere dalla figlia, con la quale, infatti, era stata rimpatriata in K (pag. 309 e segg. della sentenza impugnata). Tuttavia - come emerge dalla motivazione - proprio la La.Sc. aveva riferito che il Tr.Vi. aveva affermato che, "arrivato sottobordo" dell'aereo, "intendeva dire alla donna della possibilità di affidamento della bambina e dei suoi diritti", e che le avrebbe spiegato che se non avesse firmato il verbale la bambina sarebbe rimasta in Italia; peraltro, la sentenza impugnata ha considerato proprio le dichiarazioni del Tr.Vi., dalle quali, come riportato in motivazione, non si comprende se tali informazioni abbiano avuto luogo; ha preso in esame quanto affermato del teste Mi.De., che ha ricordato come fosse stato lo St.Fr. a riferire che il sostituto procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Roma, dott. Postiglione, aveva autorizzato lo spostamento da casa della bambina per essere riaffidata alla madre, senza però dare alcun rilievo alla circostanza che - a differenza di quanto avrebbe dovuto avvenire, come emerge, tra l'altro, dalla relazione del dott. De.An., all'epoca sostituto procuratore presso il detto Tribunale per i minorenni di Roma - non era mai stato interessato il Tribunale per i minorenni di Roma. La Al.Sh.. peraltro, ha riferito che "nessuno la informò che, negando l'assenso a vedersi riaffidata la piccola, a quel punto non sarebbe stato possibile neppure espellere lei", circostanza che la Corte di merito riscontra nella documentazione agli atti (verbale del 14 maggio 2015 sottoscritto da Gi.Lu. e verbale del 4 giugno 2015 sottoscritto da Si.Ag., pag. 317 della sentenza impugnata). Nondimeno, la Corte di merito ha, del tutto illogicamente, negato a tali dati portata dimostrativa rispetto alla ricostruzione della vicenda (pag. 322 della motivazione). In particolare, infatti, quanto alle modalità di rimpatrio della minore, non sembra che la sentenza impugnata si confronti adeguatamente con quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l'art. 31 D.Lgs. 286/1998 prevede che l'espulsione di un minore straniero possa essere adottata solo a condizione che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore, su richiesta del Questore, dal Tribunale per i minorenni; quanto al genitore, l'art. 31 prevede che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, possa autorizzare l'ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle disposizioni del testo unico. Ciò che la giurisprudenza ha da tempo evidenziato è che la tutela del minore si attua al di fuori dell'ambito di applicazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ed anzi l'art. 19 D.Lgs. 286/1998 indica come soggetti non espelligli gli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi, implicitamente negando rilievo alla mera veste di genitore affidatario di figlio minore sul territorio italiano; l'art. 2 comma 11, lett. h-bis) del D.Lgs. 25 del 2008 (come modificato ad opera dell'art. 25, comma 1, lett. b), n. 1) del D.Lgs. 142 del 2015, del resto, definisce le "persone vulnerabili", includendovi, oltre ai minori, i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le vittime della tratta di esseri umani, le persone che hanno subito stupri, torture o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, le vittime di mutilazioni genitali, ed anche "i genitori singoli con figli minori" (Cass. civ., Sez. 1, n. 14167 del 23/05/2023, Rv. 667946; Sez. 1, n. 6587 del 09/03/2020, Rv. 657415; Sez. 1, n. 13079 del 15/05/2019, Rv. 654164; Sez. 6-1, n. 18608 del 03/09/2014, Rv. 631945). Peraltro, i criteri posti dall'art. 13, comma 2 bis, del D.Lgs. n. 286 del 1998 (introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2007), relativi alla necessità di tenere conto della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza dei legami con il suo Paese di origine, pur dettati per lo straniero che abbia chiesto il ricongiungimento familiare in Italia, si applicano, con valutazione caso per caso, anche in sede di opposizione al decreto di espulsione (Cass. civ., Sez. 6, n. 35653 del 05/12/2022, Rv. 666293; Cass. 35653/2022; Cass. 1665/2019). Appare opportuno, per maggiore chiarezza sul punto, richiamare il contenuto della pronuncia di Cass. civ., Sez. 1, n. 35684 del 21/12/2023, Rv. 669812, che ha analizzato ampiamente la questione anche in riferimento alla successione delle disposizioni: "In materia di espulsione, questa Corte ha affermato l'estensione dell'ambito di applicazione dell'art. 13, comma 2, bis D.Lgs. n. 286/1998 - che contiene un richiamo al profilo 'della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato', oltre alla 'durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine' - anche al cittadino straniero, il quale, ancorché non si trovi nelle condizioni per richiedere formalmente il ricongiungimento familiare, abbia legami familiari nel territorio nazionale, secondo un ampliamento della nozione del diritto all'unità familiare formatosi in sede di giurisprudenza EDU e fatto proprio dalla Consulta con la sentenza n. 202 del 2013 (Cass. 2395/2018; Cass. 781/2019; conf. Cass. 1665/2019; Cass. 11955/2020; Cass. 24908/2020). Il 'diritto vivente' ha, quindi, individuato il profilo dei legami familiari come elemento ostativo all'espulsione, che consente allo straniero privo del permesso di soggiorno di poter comunque permanere nel territorio nazionale con un permesso rilasciato a norma dell'art. 28 lett. b) D.P.R. 394 del 1999 (che riguarda gli stranieri 'che si trovano nelle documentate circostanze di cui all'art. 19 comma 2 lett. c) del testo unico'). In particolare, è stato evidenziato da questa Corte (Cass. n. 781/2019; conf. Cass. n. 11955/2020) che 'In tema di espulsione del cittadino straniero, l'art. 13, comma 2 bis, del D.Lgs. n. 286 del 1998, secondo il quale è necessario tener conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della natura e dell'effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno, nonché dell'esistenza dì legami con il paese d'origine, si 6 di 12 applica - con valutazione caso per caso ed in coerenza con la direttiva comunitaria 2008/115/CE - anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare, in linea con la nozione di diritto all'unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all'art. 8 CEDU e fatta propria dalla sentenza n. 202 del 2013 della Corte Costituzionale. Tuttavia il giudice del merito è tenuto, onde pervenire all'applicazione della tutela rafforzata di cui al citato art. 13, comma 2 bis, a dare conto di tutti gli elementi qualificanti l'effettività di detti legami (rapporto di coniugio, durata del matrimonio, nascita di figli e loro età, convivenza, dipendenza economica dei figli maggiorenni ecc.) oltre che delle difficoltà conseguenti all'espulsione, senza che sia possibile, fuori dalla valorizzazione in concreto di questi elementi, fare riferimento ai criteri suppletivi relativi alla durata del soggiorno, all'integrazione sociale nel territorio nazionale, ovvero ai legami culturali o sociali con il Paese di origine'. Questa Corte, nell'interpretazione dell'art. 13 comma 2 bis D.Lgs. n. 286/1998, ha, dunque, ritenuto come elemento imprescindibile, integrante causa ostativa all'espulsione, quello dei "legami familiari", ritenendo gli altri criteri indicati nell'ultima parte del comma 2 bis non rilevanti autonomamente, ma meramente integrativi, nel senso che possono venire in rilievo solo se lo straniero abbia "legami familiari nel territorio dello Stato". 3.2. Tale impostazione ermeneutica necessita di ulteriore allargamento a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 130 del 2020 (conv. con modif. dalla L. n. 173 del 2020 e vigente ratione temporis, ossia prima dell'entrata in vigore del D.L. 10.3.2023 n. 20, conv. nella L. 5.5.2023 n. 50), che ha introdotto, all'art. 19 del D.Lgs. n. 286/1998, il comma 1.1., a norma del quale, ai fini della valutazione del rischio di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare 'si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine'. Ora, anche se tale norma non richiama espressamente l'art.8 CEDU, l'evocazione di quest'ultima disposizione è resa evidente, come ha già chiarito questa Corte (Cass. 7861/2022), dal riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano di cui all'art.5, comma 6, T.U.I. e dall'impiego della stessa formulazione testuale, fermo restando, comunque, che il diritto di cui all'art. 8 'alla vita privata e familiare' non è assoluto e deve essere bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati (sicurezza nazionale e pubblica, benessere economico del paese, difesa dell'ordine e prevenzione di reati, protezione della salute e della morale, protezione dei diritti e delle libertà altrui). E' stato ulteriormente chiarito con la citata ordinanza n. 7861/2022, che la norma ha individuato "...tre diversi parametri di 'radicamento' sul territorio nazionale del cittadino straniero - quali il radicamento familiare (che prescinde dalla convivenza), quello sociale e quello desumibile dalla durata del soggiorno sul territorio nazionale - rilevanti ai fini della configurazione, in caso di espulsione, di una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall'art. 8 CEDU che, non prevedendo un diritto assoluto, ma bilanciabile su base legale con una serie di altri valori, tutela non soltanto le relazioni familiari, ma anche quelle affettive e sociali e, naturalmente, le relazioni lavorative ed economiche, le quali pure concorrono a comporre la vita privata di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ". 3.3. L'interpretazione della nuova disciplina e del 'radicamento familiare'deve essere declinata secondo le coordinate ermeneutiche e le specificazioni indicate dalla Corte di Strasburgo. Solo la Corte EDU, infatti, è autorizzata a riempire di contenuti le norme della Convenzione e alle sue indicazioni le autorità nazionali si devono attenere (Cass. 8400/2023), sicché acquista particolare rilievo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 14 febbraio 2019 (Ricorso n. 57433/15 - Causa Narjis contro Italia) e cioè che l'art. 8 CEDU tutela anche il diritto di allacciare e intrattenere legami con i propri simili e con il mondo esterno, e comprende a volte alcuni aspetti dell'identità sociale di un individuo, e si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di 'vita privata' ai sensi dell'art. 8 citato. Deve, pertanto, ritenersi che, con l'introduzione del comma 1.1. dell'art. 19 T.U.I., il legislatore, nell'attribuire diretta rilevanza non solo alla tutela della vita familiare, ma anche a quella privata, in attuazione dell'articolo 8 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo nei termini sopra illustrati, abbia inteso riconoscere pari dignità ai parametri dei 'legami familiari' e della 'integrazione sociale', nel senso che quest'ultima non si configura più come elemento meramente integrativo dei 'legami familiari', ma riveste autonoma rilevanza, sicché, correlativamente e per coerenza sistematica, la medesima autonoma rilevanza non può che rivestire anche il parametro dei 'legami familiari'. 3.4. Infine, sempre in base alle coordinate ermeneutiche indicate dalla Corte di Strasburgo, non rileva, quanto all'accertamento del requisito del 'vincolo familiare', la circostanza che il cittadino straniero non sia unito in matrimonio alla donna che allega essere la sua compagna. In proposito, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte EDU (vedi Johnston e altri c. Irlanda del 18 dicembre 1986 par. 56, Serie A n. 112), la nozione di "'famiglia' di cui all'art. 8 della Convenzione non è limitata soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio e può comprendere altri 'legami familiari' di fatto, in cui le parti convivono fuori dal matrimonio (è stato finanche ritenuto nelle cause Kroon e altri c. Paesi Bassi, del 27 ottobre 1994, serie A n. 297-C, e Vallianatos e altri c. Grecia, Grande Camera, ric. n. 29381/09 32684/09, che possono esistere legami sufficienti per una vita familiare anche in assenza di convivenza). 4. La Corte ritiene di dover enunciare il seguente principio di diritto ex art. 384 cod. proc. civ.: "In materia di espulsione, ai sensi dell'art. 19, comma 1.1., T.U.I., nel testo vigente "ratione temporis", ossia prima dell'entrata in vigore del D.L. 10.3.2023 n. 20, conv. nella L. 5.5.2023 n. 50, nonché ai sensi dell'art. 13 comma 2 bis D.Lgs. n. 286/1998, integra causa ostativa all'espulsione del cittadino straniero la sussistenza di suoi "legami familiari" nel territorio dello Stato, con le concrete connotazioni previste dalle citate norme, in quanto espressione del diritto di cui all'art. 8 CEDU, bilanciato su base legale con una serie di altri valori tutelati, ma da declinarsi secondo i principi dettati dalla Corte di Strasburgo, in particolare dovendo perciò attribuirsi la nozione di 'famiglia' non soltanto alle relazioni fondate sul matrimonio, ma anche ad altri 'legami familiari' di fatto". La chiara enunciazione dei principi di diritto vigenti, anche all'epoca dei fatti, confligge con la motivazione della Corte di merito sul punto e richiede, quindi, una più specifica analisi anche in relazione alla mancanza di informazione, da parte dei funzionari della Questura, circa le opzioni che la Al.Sh. avrebbe potuto esercitare in relazione all'affidamento della figlia minore. 3.4. Inoltre, la sentenza impugnata ha adombrato dubbi sulla causazione di lesioni al cognato della Al.Sh., Bo.Se., in occasione della perquisizione domiciliare eseguita nella notte tra il (Omissis), a dispetto della certificazione del pronto soccorso, perché il Bo.Se. (visitato il 30 maggio successivo) ha riferito "di un'aggressione alle ore 23,00 del giorno prima, non la notte ancora anteriore", quantunque gli avvocati Ri.Ol. e Fe.Ol. abbiano riportato di aver notato segni sul volto dell'uomo nella tarda serata del 29, perché - ad avviso del Collegio di appello - "la foto segnaletica in atti non ne dà pacifica conferma" e comparando la descrizione delle lesioni da parte della Al.Sh. con la fotografia del cognato e non il contenuto del referto. 3.5. La Corte di merito ha ritenuto "mere aporie" le difformità nei verbali che documentano la perquisizione, segnatamente in relazione alle sigle in essi apposte (che non si rinvengono nelle "due versioni" redatte), fondando la decisione su una ricostruzione ipotetica dell'accaduto, negando rilevanza a quanto vergato dal Bo.Se., in lingua russa e nell'immediatezza, su uno dei documenti, sulla scorta di talune "osservazioni di buon senso", tra cui la laconica negazione delle tracce di percosse subite dall'uomo (nonostante il richiamato referto) e chiedendosi perché mai - a fronte degli abusi attribuiti agli operanti - costoro non abbiano strappato la copia in discorso, asserto, quest'ultimo, del tutto privo di effettiva portata esplicativa. 3.6. La Corte di merito, in altri termini, ha svolto un'amplissima motivazione funzionale a dimostrare la mancata attendibilità delle persone esaminate nel corso dell'istruttoria dibattimentale, e ciò con particolare riferimento ad Al.Sh., la quale non solo avrebbe utilizzato un passaporto falso, ma avrebbe costantemente omesso di riferire la sua reale identità. Sebbene tale snodo motivazionale possa ritenersi ampiamente articolato, il vero punto critico della tenuta logica della sentenza impugnata risiede nel fatto che la dimostrazione della condotta decettiva tenuta ostinatamente dalla Al.Sh. - secondo l'assunto della Corte di merito - non dimostra, tuttavia, l'insussistenza del reato di sequestro di persona ascritto agli imputati in danno della predetta. In conclusione, la decisione impugnata, nei termini predetti, non ha compiutamente reso una motivazione atta a spiegare la - ritenuta - insostenibilità logica della ricostruzione svolta e delle valutazioni effettuate nel precedente grado di merito, motivazione necessaria per poter ricostruire gli aspetti rilevanti sub specie iuris dell'occorso, prodromica all'affermazione o meno della sussistenza del reato in contestazione. Alla stregua di un'analisi della condotta di ciascun imputato nella sua globalità, al di là della parcellizzazione dei singoli episodi in cui la complessa vicenda si è dipanata, avrebbe dovuto essere vagliato, quindi, anche l'elemento soggettivo del reato, tenendo conto, ovviamente, delle competenze professionali specifiche dei soggetti agenti, dato sicuramente rilevante in relazione sia alle modalità da osservare nell'adozione della procedura di espulsione, quanto delle tutele da approntare in favore dei diritti del soggetto estradando. Ne discende, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Firenze che, nella piena libertà valutativa del compendio probatorio, si atterrà ai principi di diritto sin qui illustrati. Ai sensi dell'art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003, si dispone che sia apposta a cura della medesima cancelleria, sull'originale della sentenza, l'annotazione prevista dall'art. 52, comma 3, cit., volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Firenze. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 19 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. ACETO Aldo -Presidente Dott. SCARCELLA Alessio -Consigliere Dott. CORBO Antonio -Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria -Relatore Dott. MAGRO Beatrice -Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Da.Bi., nato a C (Venezuela) il (omissis); anche nei confronti di In.Fr. e De.Mo. (parti civili) avverso la sentenza del 09/03/2023 della Corte di appello di L'Aquila; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro Maria Andronio; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato; udito, per la parte civile, l'avv. Ti.Lu., che ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito, per l'imputato, l'avv. Bo.Ro.. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 9 marzo 2023, la Corte di appello di L'Aquila ha parzialmente riformato la sentenza emessa in data 30 ottobre 2020 dal Gup del Tribunale di Sulmona all'esito di giudizio abbreviato, con la quale l'imputato era stato condannato alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione, oltre alle pene accessorie, essendo stato ritenuto responsabile dei seguenti reati: - capo A) delitto di cui agli artt. 81, 609-quater, primo comma, nn. 1) e 2), e comma 5, 609-septies, quarto comma, nn. 2) e 5), cod. pen., perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, compiva atti sessuali, sostanziatisi in penetrazioni vaginali e anali, con la minorenne In.Fr., prima del compimento del decimo anno e sino al raggiungimento del sedicesimo anno di età della stessa, approfittando delle occasioni in cui ella veniva affidata alla sua custodia (dal 2008 al novembre 2015); - capo B) delitto di cui agli artt. 81 e 609-quinquies, secondo e quarto comma, cod. pen., perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, mostrava alla minore di anni quattordici In.Fr. materiale pornografico, rappresentato da filmati, e oggetti per l'autoerotismo, al fine di indurla a compiere o, comunque, a subire gli atti sessuali di cui al capo A). Con l'aggravante di aver commesso i fatti approfittando delle occasioni in cui la minore veniva affidata alla sua custodia (dal 2009 al novembre 2013). La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai reato di cui agli artt. 609-quater, primo comma, n. 1), cod. pen., limitatamente alle condotte poste in essere dal 10/11/2009 al 05/03/2010, perché estinto per prescrizione, ed ha assolto l'imputato dal reato di cui all'art. 609-quinquies, cod. pen., limitatamente alle condotte poste in essere fino al 23/10/2012, perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, rideterminando la pena, per i reati residui, in anni 5 e mesi 6 di reclusione e confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso la sentenza d'appello l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. Con un primo motivo di doglianza, si censurano la violazione dell'art. 609-quater, cod. pen., oltre che la mancanza e la contraddittorietà della motivazione, in relazione alla conferma della condanna per il reato di atti sessuali con minorenni, aggravato dall'età inferiore ai dieci anni. In merito alla rilevanza delle lettere scritte dalla persona offesa all'imputato nell'arco temporale in cui questa avrebbe subito gli abusi, il ricorrente ne asserisce l'inconciliabilità con le dichiarazioni rese dalla minore nel 2017. La Corte territoriale avrebbe male interpretato le ammissioni dell'imputato, le quali non sminuirebbero la rilevanza delle lettere sopra menzionate ma, anzi, le renderebbero pienamente compatibili con la versione dei fatti resa dalla difesa, in base alla quale, quando la minore non aveva ancora raggiunto la maturità sessuale, l'imputato intratteneva con lei un rapporto esclusivamente filiale e, solo a seguito della rottura della relazione con la madre della minore ed il raggiungimento da parte della stessa della maturità sessuale, tale rapporto si sarebbe tramutato in un sentimento amoroso che aveva condotto i due a stringere una relazione di carattere sentimentale e sessuale. La motivazione del provvedimento impugnato risulterebbe altresì viziata con riferimento alle ragioni della genesi delle accuse, le quali sarebbero frutto di sentimenti di gelosia, frustrazione e rancore nati nella minore a seguito dell'interruzione del rapporto sentimentale. Non sarebbe stata adeguatamente tenuta in considerazione la circostanza che, all'epoca dei presunti abusi subiti dalla persona offesa, quest'ultima manifestava affetto nei confronti dell'imputato, come risulterebbe provato dalle lettere prodotte in giudizio e dall'assenza di qualsiasi condotta o dichiarazione indicativa di un disagio manifestato dalla asserita vittima. Il provvedimento impugnato, inoltre, avrebbe fatto riferimento alla manipolazione subita dalla minore all'epoca in cui aveva meno di dieci anni; manipolazione che, tuttavia, si porrebbe in aperto contrasto proprio con le dichiarazioni della persona offesa, la quale avrebbe raccontato di essere stata vittima di un rapporto violento, minaccioso e coercitivo. Secondo la difesa, un tale rapporto avrebbe dovuto generare sentimenti di avversione nei confronti dell'imputato, mentre la minore aveva, sempre nelle lettere inviate al ricorrente, manifestato solo affetto per quest'ultimo. Le modalità della denunciata violenza si porrebbero altresì in contrasto con la motivazione resa dalla Corte territoriale, secondo cui la ragazza aveva preso coscienza degli abusi subiti solo con il raggiungimento dell'età adulta; infatti, la vittima avrebbe affermato di essere stata ben consapevole del carattere violento e coercitivo dei comportamenti asseritamente posti in essere dall'imputato, dovendosi escludere un fenomeno di rimozione dei suddetti episodi. Quanto alla genesi della notitia criminis, i giudici territoriali, per avvalorare l'attendibilità delle dichiarazioni della minore, avrebbero prospettato ipotesi ricostruttive poco plausibili, allo scopo di cercare di far quadrare le dichiarazioni accusatorie con elementi di prova dell'istruttoria che invece le contraddirebbero. La già menzionata circostanza, secondo cui la presunta vittima si sarebbe resa conto degli abusi solo con il raggiungimento di un'età più matura, mal si concilierebbe con l'ulteriore circostanza che quest'ultima, anche dopo la fine della relazione tra l'imputato e la madre della minore, avesse continuato a frequentarlo e a scambiarsi con lui decine di messaggi. La continuazione della frequentazione tra la minore e il ricorrente anche dopo il termine della relazione con la madre della persona offesa smentirebbe quanto sostenuto dalla Corte di appello, secondo cui, con il termine della relazione, la minore avrebbe goduto di serenità familiare proprio perché sottratta agli abusi che subiva dall'imputato. Sarebbe illogico sostenere quanto riportato nella motivazione impugnata, ovvero che la minore aveva maturato la consapevolezza degli abusi subiti solo nel 2015, al termine della relazione dell'imputato con la madre, posto che aveva continuato ad intrattenere rapporti con il ricorrente sino al 2016. Quest'ultima ricostruzione smentirebbe la versione accusatoria e si concilierebbe perfettamente con quanto dichiarato dall'imputato, ovvero che, la minore, dopo aver appreso di un possibile riavvicinamento dell'imputato alla madre, per gelosia e ritorsione nei confronti dello stesso, avrebbe costruito una storia che la vedeva vittima di abusi sessuali. Per la difesa, i giudici di merito hanno illegittimamente giustificato le numerose contraddizioni della persona offesa, in particolare con riferimento: alle spiegazioni fornite circa l'assenza di segni di violenza, al non aver provato dolore, al non essersi recata in ospedale, al non aver confidato a nessuno quanto accadesse, al fatto che la madre non si fosse accorta della perdita di sangue della figlia dopo il primo rapporto sessuale. Anche in relazione alla confutazione delle considerazioni difensive sugli asseriti riscontri esterni la sentenza impugnata avrebbe continuato ad applicare il metodo giustificazionistico e probabilistico sin qui criticato; ciò si paleserebbe con particolare riferimento: all'episodio del parcheggio dell'auto sul retro dell'abitazione dell'imputato, che non avrebbe trovato riscontro; alla consulenza medico-legale, che avrebbe smentito le asserite violente aggressioni sessuali; alla circostanza che la minore non sia stata in grado di ricordare la patologia che si era riflessa sulla morfologia e il funzionamento del pene dell'imputato all'epoca dei presunti abusi, che confermerebbe la versione difensiva secondo cui la relazione era iniziata nel 2015, dopo che la patologia era stata superata. La motivazione della sentenza risulterebbe altresì viziata con riferimento all'interpretazione del contenuto dei messaggi scambiati tra la persona offesa e l'imputato: i giudici di merito ne avrebbero travisato il reale contenuto, perché essi proverebbero invece che i rapporti sessuali erano avvenuti solo dal 2015 in poi e non in epoca antecedente. 2.2. Con una seconda doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 178, comma 1, lettera c), e 546, cod. proc. pen., nonché la carenza assoluta di motivazione quanto alle ampie e decisive argomentazioni difensive esposte nel giudizio di appello. I giudici territoriali avrebbero meramente riproposto la motivazione della sentenza di primo grado, determinando la nullità del provvedimento, per violazione del principio del contraddittorio. 2.3. Con una terza censura, si denunciano l'inosservanza dell'art. 192, cod. proc. pen. e il vizio della motivazione del provvedimento impugnato in ordine ai criteri di valutazione delle dichiarazioni provenienti dalla minore, costituitasi parte civile nel presente procedimento. I giudici territoriali avrebbero altresì erroneamente valutato le dichiarazioni dell'imputato qualificandole come contraddittorie; si tratterebbe, in realtà, di un disvelamento progressivo senza alcuna contraddittorietà, avendo lo stesso ricorrente spiegato le ragioni per le quali aveva omesso in un primo momento di raccontare dei rapporti intimi avuti con la parte offesa, che non sarebbero stati inizialmente rivelati a causa del profondo sentimento di vergogna che lo travolgeva. Si critica, in ultimo luogo, la motivazione relativa alle ragioni generanti il turbamento che aveva invaso la minore, venuta a conoscenza della possibile riconciliazione della madre con l'imputato. Si ribadisce che, contrariamente a quanto sostenuto della sentenza impugnata, tale turbamento non era frutto della paura di subire nuovamente gli abusi da parte dell'imputato, ma esclusivamente del fatto che la ragazza aveva avuto una relazione intima con lo stesso, oltre che delle implicazioni emotive che un eventuale nuovo inizio del rapporto sentimentale tra l'imputato e sua madre avrebbe determinato in lei. 2.4. In quarto luogo, si lamentano la violazione dell'art. 609-quinquies cod. pen. nonché la carenza e manifesta contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, in relazione alla conferma della condanna per il reato di corruzione di minorenne tra il 24/10/2012 e il novembre 2013. Sul punto, si richiamano le argomentazioni esposte in ordine alla ritenuta insussistenza del delitto di atti sessuali con minorenne, con particolare riferimento alla collocazione temporale dei fatti. 2.5. Con un quinto motivo, si denunciano la violazione degli artt. 62-bis e 133, cod. pen. e il vizio della motivazione del provvedimento impugnato, in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Si sarebbero trascurati elementi favorevoli all'imputato, quali: l'incensuratezza, la generale condotta di vita, il buon inserimento sociale ed economico, l'età, la lontananza temporale dei fatti, lo stato di salute, il contegno processuale. 2.6. Con una sesta censura, si denunciano la violazione degli artt. 81, secondo comma, e 133, cod. pen., oltre che il vizio della motivazione del provvedimento impugnato con riferimento all'aumento per la continuazione. La Corte di appello avrebbe utilizzato l'espressione "più volte" senza tuttavia specificare il numero degli asseriti illeciti e non avrebbe correttamente motivato in relazione al conseguente aumento per la continuazione. 2.7. Con un'ultima doglianza, si lamentano la violazione dell'art. 609-quater, quinto comma, cod. pen. e il vizio della motivazione del provvedimento impugnato in relazione al mancato riconoscimento dell'ipotesi della minore gravità. Si richiamano integralmente le argomentazioni esposte in ordine alla supposta continuazione, ribadendo che la mancata quantificazione del numero degli asseriti illeciti nel corso di sette anni impedirebbe di accertare il grado di effettiva compromissione dell'integrità sessuale della persona offesa. 3. Con successiva memoria, l'imputato ha presentato motivi nuovi. In primo luogo, si insiste per l'accoglimento del ricorso, ribadendo le argomentazioni già esposte con i motivi precedenti e, in particolare, si ribadisce l'inattendibilità del narrato della persona offesa, con riguardo alla genesi della notitia criminis e all'assenza di riscontri esterni. In subordine, si richiede il proscioglimento per intervenuta prescrizione relativamente al capo A) dell'imputazione, quanto ai reati asseritamente commessi tra il 06/03/2010 e il 06/11/2010. 4. Le parti civili, tramite i propri legali, hanno presentato memoria, con la quale si censurano le argomentazioni poste a sostegno del ricorso dell'imputato, aderendo alle motivazioni dei giudici di merito. 5. Infine, il ricorrente ha depositato memoria di replica, con la quale si criticano le argomentazioni delle parti civili, lamentandone l'inammissibilità, a fronte della loro attinenza al solo merito e alla luce del difetto di correlazione rispetto ai motivi presentati nel ricorso dall'imputato, oltre che dell'illegittimo approccio metodologico utilizzato. Si insiste, pertanto, nell'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. Va premesso, in via generale, che le censure sono dirette, con argomentazioni in parte generiche e in parte manifestamente infondate, ad ottenere una rivalutazione di elementi già presi adeguatamente in considerazione dai giudici di merito, riducendosi ad una mera contestazione delle risultanze emerse dalla motivazione, senza la prospettazione di elementi puntuali, precisi e di immediata valenza esplicativa, tali da dimostrare un'effettiva carenza motivazionale su punti decisivi del gravame (ex plurimis, Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, Rv. 276566; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). Nella maggior parte dei casi, a fronte della ricostruzione e della valutazione della Corte di appello, il ricorrente non offre la compiuta rappresentazione e dimostrazione, di alcuna evidenza (pretermessa ovvero infedelmente rappresentata dal giudicante) di per sé dotata di univoca, oggettiva e immediata valenza esplicativa, tale, cioè, da disarticolare, a prescindere da ogni soggettiva valutazione, il costrutto argomentativo della decisione impugnata, per l'intrinseca incompatibilità degli enunciati. Inoltre, il requisito della specificità dei motivi implica, a carico della parte impugnante, non soltanto l'onere di dedurre le censure che intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi fondanti le censure medesime, al fine di consentire al giudice di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (ex plurimis, Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, Rv. 281112). Ne consegue che il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione (ex multis, Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Rv. 277518). 1.1. Tale premessa si attaglia pienamente al primo motivo di doglianza, riferito alla condanna per il reato di atti sessuali con minorenni, in quanto sostanzialmente diretto ad ottenere una rivalutazione del merito della responsabilità penale. Va premesso che, per il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, la testimonianza della persona offesa può costituire fonte probatoria esclusiva e determinante dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, ove la sua attendibilità intrinseca sia confermata attraverso il rigoroso vaglio delle garanzie procedurali emergenti dalla progressione processuale, senza la-necessità di reperire i riscontri esterni di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. (ex plurimis, Sez. 5, n. 12045 del 16/12/2020; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018). Nel caso di specie, le dichiarazioni della persona offesa sono state adeguatamente valutate, essendo state considerate dettagliate, costanti nel tempo e non viziate da contraddizioni; inoltre, il narrato della minore risulta corroborato da numerosi riscontri esterni quali le dichiarazioni della zia, De.Mo., i messaggi scambiati con l'imputato e gli accertamenti effettuati dagli inquirenti nell'abitazione dello stesso. Relativamente alla presunta erronea interpretazione del contenuto delle lettere affettuose scritte dalla minore in età infantile ed indirizzate al ricorrente, va rilevato che il provvedimento impugnato ha logicamente motivato sul punto, spiegando come sia ben possibile che la In.Fr. abbia nutrito e manifestato, nei confronti del ricorrente, sentimenti di affetto filiale in tenera età, non comprendendo il disvalore e la gravità di quanto stesse accadendo, anche e soprattutto a causa del ruolo che il Da.Bi. rivestiva all'interno del nucleo familiare e della soggezione psicologica che aveva determinato nella minore. Coerente ed immune da vizi logici appare la motivazione resa dai giudici territoriali nello spiegare che gli abusi subiti dalla minore in tenera età siano stati il frutto di una profonda manipolazione posta in essere dall'imputato, il quale aveva instillato in lei una soggezione che l'aveva indotta a subire per anni la sua volontà. Dalle dichiarazioni della minore, infatti, si desume una corruzione psicologica in età infantile, avvenuta attraverso l'abuso del ruolo che l'imputato rivestiva all'interno della famiglia, e non, come prospettato dalla tesi difensiva, una violenza fisica, che infatti non è oggetto di imputazione. Anche con riferimento alla genesi della notitia criminis, la Corte di appello ha dato conto di come fosse vero che dopo la relazione con madre della ragazza l'imputato non era rimasto del tutto assente dal contesto familiare, avendo trascorso con la famiglia della vittima il giorno di ferragosto del 2016 ed avendo continuato ad intrattenere, fino a novembre dello stesso anno, rapporti whatsapp con la minore. Tuttavia, ciò non può in alcun modo disarticolare il costrutto accusatorio, poiché la minore ha, da un lato, ammesso questi episodi dando una plausibile spiegazione degli stessi, ovvero che i messaggi si riferivano alla possibilità di riallacciare la relazione sentimentale con la madre, e dall'altro, ha evidenziato come tale possibilità avesse determinato in lei un grave turbamento per il timore di poter essere nuovamente vittima delle manipolazioni del ricorrente; paura che ha condotto la minore a denunciare quanto sofferto nel corso degli anni. Con riguardo, invece, alle presunte incoerenze e contraddizioni presenti nel narrato della persona offesa, la Corte territoriale ha preso in adeguata considerazione ogni elemento richiamato dal ricorrente, con doglianze poi pedissequamente ripetute nel ricorso per cassazione. Infatti-, relativamente alla dichiarazione resa dalla minore secondo cui il Da.Bi. era solito parcheggiare sul retro dell'abitazione la propria auto, evitando così che fosse visibile dalla strada, non confermata nel corso delle indagini, i giudici di merito hanno adeguatamente spiegato come si trattasse di un dato del tutto neutro, posto che il fatto che l'imputato, ordinariamente, non parcheggiasse la macchina sul retro, non può essere letto come una smentita alle dichiarazioni della ragazza, essendo altamente probabile che quando l'imputato si recava nell'abitazione con la minore, nascondesse l'autovettura al fine di evitare di essere notato. Anche relativamente alla mancanza di segni di violenza sul corpo della persona offesa, al mancato ricovero della stessa dopo gli abusi, alla presunta mancanza di danni psicologici subiti dalla vittima, la Corte di appello fornisce una compiuta motivazione. Si ribadisce, infatti, che non è mai stata contestata una condotta violenta all'imputato, mentre il provvedimento impugnato logicamente spiega come sia normale che dopo un rapporto intimo, anche il primo, non sia necessario recarsi in ospedale e che, inoltre, eventuali segni di rapporti sessuali, tanto anali quanto vaginali, non siano ravvisabili sul corpo della minore una volta passati anni dagli accadimenti contestati. Del pari, la presenza di ripercussioni psicologiche sulla minore è stata evidenziata nel corso delle indagini, dalle quali è emerso che questa, nel periodo adolescenziale, aveva manifestato segni di disagio, comprovati dalle certificazioni attestanti ripetuti accessi al pronto soccorso con sintomatologie quali vertigini, cefalea, crisi d'ansia e attacchi di panico. La sentenza ha inoltre spiegato, riprendendo anche parte della consulenza tecnica presentata dalla difesa sul punto, che non esiste una sindrome da stress specificatamente riferibile all'abuso sessuale e che il disagio si può manifestare in varie forme. Relativamente al mancato ricordo, da parte della persona offesa, della patologia al membro che l'imputato afferma di avere avuto nel corso di alcuni mesi del 2014, la Corte territoriale evidenzia l'irrilevanza di tale circostanza, tenuto conto che i rapporti sessuali venivano consumati con cadenze temporali variabili, e che, dunque, è possibile che per un periodo di tempo non vi siano stati episodi di penetrazione; cosicché è verosimile che la persona offesa ignorasse l'esistenza di tale patologia. Elemento particolarmente probante circa la responsabilità penale dell'imputato è - secondo la corretta e conforme valutazione dei giudici di primo e secondo grado - il contenuto dei messaggi scambiati tra l'imputato e la minore nel giugno 2017, nei quali il ricorrente, a fronte di specifiche contestazioni della persona offesa, ammette l'attrazione fisica nei confronti di lei e, implicitamente, la relazione inappropriata che aveva avuto con la stessa. Dal tenore delle conversazioni è evidente come il riferimento a fatti accaduti anni prima, che la ragazza avrebbe dovuto comprendere ora che era "grande", non può essere compatibile né con la prima versione dei fatti resa dall'imputato, ovvero che il fugace contatto si sia verificato alcuni mesi prima delle conversazioni su whatsapp, né con la seconda versione resa dall'imputato, ove veniva ammessa una relazione sessuale avuta con la persona offesa conclusasi nel 2016, dunque di recente rispetto allo scambio dei messaggi. Entrambe le versioni - che per la loro contraddittorietà denotano una generale inattendibilità della prospettazione difensiva confermando indirettamente il costrutto accusatorio - sono inconciliabili con il contenuto dei messaggi nei quali la In.Fr. fa esplicito riferimento all'età che aveva quando erano iniziati gli abusi, ovvero l'età di dieci anni. Da tali considerazioni la Corte d'appello fa logicamente conseguire che il contenuto dei messaggi corrobora fortemente il narrato della vittima, essendosi raggiunta la duplice prova che tra i due vi fossero stati rapporti sessuali e che tali rapporti erano risalenti nel tempo. 1.2. Il secondo motivo di ricorso - riferito all'omessa presa in considerazione delle argomentazioni difensive esposte nel giudizio di secondo grado - è inammissibile. Diversamente da quanto asserito dal ricorrente, la Corte territoriale ha compiutamente dato risposta ad ognuna delle doglianze sollevate con l'atto d'appello. In ogni caso, il motivo di ricorso risulta generico, posto che non indica analiticamente in quali punti la motivazione del provvedimento impugnato risulti carente. 3. La terza doglianza - riferita ai criteri di valutazione delle dichiarazioni provenienti dalla minore - è inammissibile. Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, la valutazione sull'attendibilità e credibilità delle dichiarazioni della minore non è stata condotta esclusivamente sulla base dell'intrinseca coerenza del racconto, ma ha riguardato tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, dall'analisi delle quali sono emersi numerosi elementi di riscontro: le rivelazioni fatte alla zia materna; il contenuto dei messaggi di cui si è già detto; l'accertamento effettuato nella casa dell'imputato, ove sono stati rinvenuti film pornografici e oggetti per autoerotismo, dei quali aveva fatto menzione la persona offesa nel corso della propria audizione. Come già evidenziato, le dichiarazioni del ricorrente sul punto non hanno rilevanza al fine di inficiare la versione accusatoria, posto che l'imputato ha esposto in maniera contraddittoria i fatti oggetto di procedimento, negando e poi ammettendo di aver avuto rapporti sessuali con la figlia della propria compagna, e poi inverosimilmente spiegando tali gravi discrepanze con una pretesa ritrosia alla confessione. Infine, la circostanza secondo cui la ragazza avrebbe inventato di sana pianta le accuse perché turbata, risentita o gelosa per il possibile ricongiungimento della propria madre con l'imputato risulta essere una mera diversa prospettazione dei fatti operata dalla difesa-; prospettazione, tuttavia sprovvista di qualsiasi fondamento probatorio ed in ogni caso puntualmente smentita dalla motivazione del provvedimento impugnato. Dunque, la difesa si è limitata a richiamare una serie di aspetti esclusivamente valutativi della vicenda in esame, e pertanto preclusi al sindacato di questa Suprema Corte. Infatti, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di contraddittorietà processuale (o travisamento della prova) vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, ma non del suo significato, per il divieto di rilettura nel merito dell'elemento di prova (ex plurimis, Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370). 4. La quarta censura - con la quale si denunciano la violazione dell'art. 609-quinquies, cod. pen., e vizi motivazionali quanto alla conferma della condanna per il reato di corruzione di minorenne tra il 24/10/2012 e il novembre 2013 - è inammissibile, per mancanza di specificità. Ancora una volta, la difesa non si confronta con il testo del provvedimento impugnato, limitandosi a richiamare considerazioni già svolte in altri motivi di doglianza, la cui inammissibilità è già stata sopra evidenziata. 5. Il quinto motivo di ricorso - relativo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche - è inammissibile. I giudici di merito hanno correttamente motivato in relazione al diniego di tali circostanze e della specifica attenuante della minore gravità di cui all'art. 609-quater, quinto comma, cod. pen., valorizzando numerosi elementi da cui emerge la gravità oggettiva dei fatti: la reiterazione delle condotte in un arco temporale di quasi sette anni; il contesto, assimilabile a quello familiare, in cui i reati sono stati consumati; le modalità delle condotte, poste in essere attraverso una manipolazione psicologica agevolata dall'affidamento della persona offesa. Sul punto, occorre ribadire che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (ex plurimis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549 - 02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899). Infine, la graduazione della pena, anche in relazione -agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale può dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen., con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (ex multis, Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243). 6. La sesta censura - con la quale si denunciano si denuncia la violazione degli artt. 81, comma 2, 133, cod. pen., oltre che il vizio della motivazione del provvedimento impugnato in relazione all'aumento per la continuazione - è inammissibile per genericità, non essendo sufficiente ad escludere l'applicabilità dell'aumento per la continuazione - effettuato in misura assai contenuta in relazione alla gravità dei fatti - l'oggettiva incertezza sul numero degli episodi. 7. L'ultimo motivo di ricorso - con il quale si lamentano la violazione dell'art. 609-quater, quinto comma, cod. pen. e il vizio della motivazione del provvedimento impugnato in relazione al mancato riconoscimento dell'ipotesi della minore gravità - è inammissibile. Valgono sul punto le considerazioni già svolte sub 5., da intendersi integralmente richiamate, a fronte di una prospettazione difensiva che non tiene conto della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui evidenzia una significativa compromissione della libertà sessuale, per la reiterata consumazione delle condotte in un lungo arco temporale. 8. L'inammissibilità dell'impugnazione si estende ai motivi nuovi, ai sensi dell'art. 585, comma 4, cod. proc. pen., il cui esame è dunque precluso; esclude, altresì, il rilievo dell'eventuale prescrizione maturata, giacché impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità (ex plurimis, Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Rv. 268966). 9. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00. L'imputato deve essere anche condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, da liquidarsi in complessivi Euro 4.800,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 4.800,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 10 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1041 del 2021, proposto da -OMISSIS- rappresentato e difeso dall'avvocato An. Fu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Questura Brescia, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Seconda n. -OMISSIS-, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Questura Brescia e di Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 dicembre 2023 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con provvedimento del 5 ottobre 2020, la Questura di Brescia ha respinto l'istanza di conversione e contestuale rinnovo del titolo di soggiorno per lavoro subordinato dell'odierno appellante, cittadino marocchino. Dal procedimento istruttorio è emerso che l'interessato era stato condannato dal Tribunale di Brescia ex artt. 444 ss. c.p.p., per i delitti di detenzione e cessioni illecite di sostanze stupefacenti ai sensi degli artt. 81 c.p. e 73, comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990, alla pena di anni uno e mesi due di reclusione ed euro 2000,00 di multa. L'Amministrazione con tale provvedimento ha rigettato l'istanza nei confronti dell'interessato, dando conto, altresì, dell'assenza di legami familiari in Italia. 2. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, l'odierno appellante ha impugnato detto diniego, chiedendone l'annullamento per violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 e degli artt. 4, comma 3 e 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, per difetto di istruttoria e di motivazione ed irragionevolezza. 3. Il TAR competente, con sentenza breve n. -OMISSIS-, ha respinto il ricorso, ritenendo "le condanne inflitte in materia di stupefacenti automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno", atteso che il cittadino straniero "ha solo avviato il procedimento per ricongiungimento familiare, ma non consta che questo si sia concluso e dunque sussistano legami familiari di cui l'Amministrazione avrebbe dovuto tenere conto". Quanto all'omessa comunicazione del preavviso di rigetto, il giudice di prime cure ne ha affermato l'irrilevanza stante la natura vincolata del provvedimento reiettivo. 4. Avverso tale pronuncia, il ricorrente ha proposto appello, notificato il 2 febbraio 2021 e depositato il successivo 8 febbraio 2021. Con l'interposto gravame, previa richiesta di sospensiva, l'appellante ha riproposto i motivi esposti in primo grado, ponendoli in chiave rispetto all'impugnata sentenza. 5. L'Amministrazione si è costituita in giudizio in data 10 febbraio 2021. 6. Con l'ordinanza n. -OMISSIS-, è stata respinta l'istanza cautelare. 7. In data 22 aprile 2022, l'odierno appellante ha depositato l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, n. -OMISSIS- che gli ha concesso la riabilitazione rispetto ai reati addebitati. 8. All'udienza pubblica del 16 giugno 2022, il giudizio è stato sospeso poiché, con l'ordinanza n. -OMISSIS-, la Sezione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con gli artt. 3, 117, primo comma, Cost. in riferimento all'art. 8 Cedu nella parte in cui, richiamando tutti "i reati inerenti gli stupefacenti" prevedeva che la fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 fosse automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno. 9. All'esito del giudizio incidentale, con la sentenza 8 maggio 2023, n. 88, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 10. All'udienza pubblica del 14 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO L'appello deve essere dichiarato estinto, ai sensi dell'art. 35, comma 2 c.p.a., per mancata prosecuzione del giudizio sospeso nel termine perentorio previsto dall'art. 80 c.p.a., decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta ufficiale. Come esposto in narrativa, in seguito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Sezione con l'ordinanza n. -OMISSIS-, è stata disposta la sospensione del presente giudizio, sul presupposto che la decisione della Corte Costituzionale avrebbe potuto incidere sulla valutazione della questione di che trattasi da parte di questo Collegio. La Corte Costituzionale si è espressa con la sentenza n. 88/2023, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 10 maggio 2023, data da cui, ai sensi dell'art. 80 c.p.a, decorrono i 90 giorni per la presentazione dell'istanza di fissazione di udienza da parte dell'appellante, ai fini di consentire la prosecuzione del giudizio. Parte appellante non ha presentato l'istanza di fissazione di udienza nel termine di legge e, pertanto, ai sensi dell'art. 35, comma 2 c.p.a., deve essere dichiarata l'estinzione del presente giudizio. In conclusione, per le ragioni sopraesposte, deve dichiararsi l'estinzione del presente giudizio. La natura della controversia giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara estinto. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente, Estensore Nicola D'Angelo - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENOVESE Francesco Antonio - Presidente Dott. TRICOMI Laura - Consigliere Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere-Rel. Dott. RUSSO Rita Elvira - Consigliere SENTENZA sul ricorso 6177/2023 proposto da: Ed.Ha., elett.te domic. presso l'avv. D.Ro.Cr., che lo rappresenta e difende, per procura speciale in atti; - ricorrente - - contro - Ci.Au., elett.te domic. in Roma, presso l'avv. Pe.Cr., dalla quale è rappresentata e difesa, per procura speciale in atti; - controricorrente - Na.In., nella qualità di curatrice speciale dei minori, Procura Generale presso la Corte D'Appello di Ancona; - intimati - avverso il decreto della Corte d'appello di Ancona, pubblicato il 27 dicembre 2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15 novembre 2023 dal Cons. rel., dott. Caiazzo Rosario. FATTI DI CAUSA Con decreto del 17 giugno 2022, il Tribunale per i minorenni delle Marche "richiamati i decreti precedentemente adottati, con i quali era stata disposta la sospensione di Ed.Ha. dalla responsabilità genitoriale sui figli minori (Omissis), nato nel 2008, (Omissis), nata nel 2009 e (Omissis), nata nel 2014, rilevato che il procedimento era stato riassunto a seguito dell'ordinanza della Cassazione n. 4994/2022 dell'11 gennaio 2022, previa integrazione del contraddittorio nei confronti dei minori con la nomina del curatore speciale, e richiamato il contenuto delle dichiarazioni rese alle varie udienze dai minori (Omissis), e dai genitori "ha così provveduto: affidamento dei minori al Servizio Sociale di Fano, in collaborazione con quello di S. Benedetto del Tronto (residenza del padre) perché attuassero "congiuntamente ai consultori di riferimento "gli interventi opportuni di sostegno agli stessi minori e al nucleo familiare; attivazione urgente di un'approfondita valutazione psicodiagnostica di (Omissis), i quali avevano manifestato in sede di ascolto, un completo distacco dalla situazione, quanto al primo, e una condizione di sofferenza e di grave tensione emotiva quanto ad (Omissis), e l'attivazione immediata di un sostegno psicologico in favore dei due fratelli; approfondita valutazione psicodiagnostica e delle capacità genitoriali dei genitori, attraverso incontri protetti settimanali (anche a scopo valutativo) tra i minori e il padre, con onere a carico dei genitori d'intraprendere un percorso di supporto alla genitorialità. Avverso il suddetto provvedimento Ed.Ha. ha proposto reclamo, che è stato parzialmente accolto dalla Corte territoriale, che ha rigettato la richiesta di revoca della sospensione della responsabilità genitoriale in capo al reclamante, disponendo la graduale liberalizzazione degli incontri tra lo stesso padre e i tre figli minori, incaricando i Servizi sociali di Fano, confermando nel resto il provvedimento impugnato. In precedenza, il Pubblico Ministero aveva chiesto di adottare provvedimenti temporanei ed urgenti; il Tribunale per i minorenni, con decreto del 2016 disponeva: la sospensione di Ed.Ha. dalla responsabilità genitoriale sui tre minori, affidandoli ai Servizi sociali del Comune di M (luogo di residenza della famiglia), con l'incarico di collocarli in struttura idonea con facoltà della madre di seguirli; il divieto di allontanamento dei minori dalla struttura di protezione; che il consultorio affidatario effettuasse una valutazione psicodiagnostica e delle capacità genitoriali dei coniugi Ed.Ha.; il divieto d'incontri tra padre e i figli, fino all'acquisizione di maggiori informazioni e delle valutazioni richieste al Sert; una serie d'incontri protetti tra la madre e i minori, se la prima non avesse seguito i figli presso la struttura. Tale decreto, confermato in appello, affermava che il comportamento del padre dei minori era stato fortemente pregiudizievole rispetto alla condizione psichica dei figli e che il clima di violenza domestica in cui i figli avevano vissuto poneva a rischio la loro serena crescita (mentre la madre aveva cercato aiuto per sottrarli al clima di costante maltrattamento vissuto nell'ambiente familiare). Successivamente, il Tribunale per i minorenni, con decreto del 2019, disponeva che: il servizio affidatario eseguisse il progetto di "sgancio" di madre e minori dalla comunità; seguisse il coaffido dei minori ai Servizi Sociali del Comune di Fano, al fine di predisporre ogni intervento a tutela dei minori e di sostegno alla famiglia; il ricorrente potesse incontrare i figli solo in modalità protette con divieto di avvicinamento. La Corte d'appello respingeva il reclamo di Ed.Ha. avverso tale ultimo provvedimento. La Cassazione, con ordinanza del 2022, ha cassato il suddetto decreto, per l'omessa nomina del curatore speciale dei minori, con rinvio della causa al Tribunale, che ha poi pronunciato il provvedimento del 17 giugno 2022, oggetto del giudizio in questione. Come detto, la Corte territoriale ha respinto il reclamo avverso il predetto decreto, osservando che: la Cassazione aveva disposto il rinvio al primo giudice disponendo in particolare che quest'ultimo "esaminerà la domanda di Ed.Ha.", con ciò rendendo palese il fatto di non aver considerato la reintegra del reclamante nella responsabilità genitoriale sui figli minori quale conseguenza automatica dell'accoglimento del ricorso, per effetto del riverberarsi della nullità sul precedente provvedimento di sospensione della responsabilità genitoriale, rispetto al quale si era formato il giudicato a seguito del rigetto del reclamo e della mancata proposizione del ricorso per cassazione; infatti, la nullità del procedimento per omessa partecipazione del litisconsorte necessario (riguardo all'omessa nomina del curatore speciale dei minori) incontrava comunque il limite del giudicato formatosi relativamente alla sospensione della responsabilità genitoriale, per cui doveva escludersi che il Tribunale dovesse, a seguito del disposto rinvio da parte della Cassazione, dichiarare la nullità del procedimento e di tutti i provvedimenti adottati in tale ambito, anziché procedere alla nomina del curatore speciale e procedere a nuova valutazione della domanda proposta dall'Ed.Ha. Premesso ciò, la Corte territoriale osservava altresì che: la condanna del reclamante per maltrattamenti era oggetto di ricorso per cassazione; Ed.Ha. da tempo non corrispondeva l'assegno per il mantenimento dei figli e non ottemperava alle prescrizioni del Tribunale; erano state acquisite informazioni negative in merito ad (Omissis), per la quale gli operatori scolastici avevano rappresentato condotte fortemente disfunzionali; (Omissis) manifestava sofferenza e piangeva; tali elementi giustificavano la mancata reintegra dello Ed.Ha. nel pieno esercizio della responsabilità genitoriale, evidenziando la carenza della necessaria capacità, con ripercussione sull'esigenza di provvedere in primo luogo al superiore interesse dei minori onde consentire agli stessi di ritrovare il più sereno equilibrio nei rapporti con il genitore; tuttavia, tale situazione non impediva al reclamante di incontrare i figli in maniera progressiva, non essendo da ultimo emersi elementi di pericolosità del reclamante; d'altra parte, al riguardo, già le relazioni dei Servizi Sociali del 2021 manifestavano ottimismo sull'ipotesi di incontri liberi tra padre e figli; gli stessi figli, (Omissis), avevano rappresentato il desiderio di trascorrere più tempo con il padre, pur rilevando delle insicurezze nel rapporto con quest'ultimo. Ed.Ha. ricorre in cassazione con tre motivi, illustrati da memoria. Au.Ca., moglie separata del ricorrente, resiste con controricorso. Gli altri intimati non svolgono difese. RAGIONI DELLA DECISIONE Il primo motivo denunzia violazione degli artt. 78, 101, 102,354, c.1, c.p.c., 2909 c.c., per non aver la Corte d'appello statuito la nullità del procedimento e di tutti i provvedimenti adottati, omettendo la nomina del curatore speciale dei minori. Al riguardo, il ricorrente si duole, in particolare, dell'argomentazione della Corte territoriale secondo la quale il decreto di sospensione della responsabilità genitoriale sarebbe comunque intangibile perché confermato dalla Corte d'appello e non impugnato, e per aver comunque disatteso i principi espressi dalla Cassazione nell'ordinanza cassatoria di rinvio nella quale era stata evidenziata la nullità del procedimento per la mancata nomina del curatore. Il secondo motivo denunzia violazione degli artt. 333 c.c. in combinato disposto con gli artt. 101 c.p.c., 13 e 32, Cost., 8 Cedu, per aver la Corte d'appello posto a fondamento della sospensione dalla responsabilità genitoriale il mancato versamento del mantenimento alla moglie, fatto nuovo, e comunque giustificato dall'impossidenza economica, considerando altresì che la stessa sospensione gli aveva impedito di avere informazioni sull'educazione dei figli. Il terzo motivo denunzia violazione degli artt. 336-bis e 337-octies per non aver la Corte d'appello tenuto conto delle dichiarazioni dei minori di frequentare il padre, esigenza trascurata dal provvedimento impugnato nel prescrivere le modalità degli incontri protetti. Il primo motivo è infondato. Al riguardo, occorre premettere una disamina della disciplina normativa dell'affidamento dei minori ai Servizi sociali, anche alla luce del D.Lgs. n. 149/22. L'affidamento ai servizi sociali, oggi specificamente disciplinato dall'art. 5-bis della L. 4 maggio 1983 n. 184, "norma inserita dall'art. 28, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 "costituisce una species del più ampio genus dell'affidamento a terzi, ma presenta alcune peculiarità, in ragione della natura e delle funzioni dei servizi sociali ed anche delle ragioni che determinano il giudice della famiglia a scegliere un soggetto pubblico, avente compiti istituzionali suoi propri, prefissati per legge, e non una persona fisica individuata in ambito familiare. Il punto di partenza di queste osservazioni non può che essere il richiamo ai diritti fondamentali del minore e in primo luogo al diritto di crescere nella propria famiglia e di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente e materialmente dai suoi genitori, salvo che quest'ultimi si rivelino inadeguati, malgrado gli interventi di sostegno e aiuto che devono essere disposti in favore del nucleo familiare (art.315-bis c.c.; art 1 L. 184/1983). L'art. 30 della Costituzione, nello stabilire che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio, prevede altresì che, nei casi di incapacità dei genitori, "la legge provvede a che siano assolti i loro compiti". Gli artt. 330 e 333 c.c. stabiliscono, di conseguenza, che nel caso di condotta pregiudizievole tenuta dai genitori in danno del figlio minore il giudice possa non solo pronunciare un provvedimento ablativo (decadenza dalla responsabilità genitoriale) ma anche, secondo le circostanze, adottare "provvedimenti convenienti" e disporre l'allontanamento del minore dalla residenza familiare. Le previsioni dell'art 333 c.c. sono coerenti con le norme in tema di affidamento del minore che "pur nella veloce evoluzione normativa che la materia ha registrato negli ultimi venti anni "hanno sempre consentito al giudice, che decide sull'affidamento, di adottare i c.d. provvedimenti atipici a tutela dei minori ("ogni altro provvedimento relativo alla prole", come recita l'art. 337-ter c.c. e in precedenza, l'art. 155 c.c.), nella consapevolezza che il perseguimento degli interessi morali e materiali dei figli minori, in difetto di un adeguato accordo dei genitori, non vada rimesso a formule standardizzate e stereotipate ma deve muovere da una attenta valutazione del caso concreto e delle specifiche esigenze di quei minori di cui si discute. Questi principi vanno integrati e armonizzati con i principi affermati dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e dalla giurisprudenza della Corte EDU, unico organo legittimato a interpretare la Convenzione, che costituiscono parametro di costituzionalità delle norme nazionali, in forza del disposto dell'art. 117, primo comma, Cost. (Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007) e segnatamente, con quanto stabilito dall'art. 8 della Convenzione sul rispetto della vita privata e familiare. L'art. 8, nella lettura che ne rende la Corte EDU, tutela la vita familiare e stabilisce che l'eventuale ingerenza dei pubblici poteri nella vita privata e familiare è legittima solo qualora sia necessaria, fondata su una base legale chiara e prevedibile e persegua un fine legittimo, nel rispetto del principio di proporzionalità tra la misura e lo scopo perseguito; la norma obbliga lo Stato anche alla adozione di misure positive finalizzate a garantire i diritti degli interessati, bilanciando gli interessi individuali con quelli della società, e tenendo conto che il miglior interesse del minore costituisce considerazione preminente, di regola prevalente sull'interesse dei genitori. Per quanto infatti sia tutelato il diritto del minore di vivere nella propria famiglia, a questa regola può derogarsi quando l'ambiente familiare sia inadeguato a garantire una sua armoniosa crescita, né i genitori sono legittimati ad adottare decisioni pregiudizievoli per il figlio (Corte EDU, Grande Camera, 6 luglio 2010 Neulinger e Shuruk c. Svizzera, Corte EDU, 12 febbraio 2019, Minervino e Trausi c. Italia; Corte EDU, 13 ottobre 2015, S. H. c. Italia). Costituisce inoltre principio consolidato nella giurisprudenza CEDU quello secondo cui, sottrarre i minori alle cure dei genitori è un'ingerenza nella vita familiare che esige una giustificazione legata alla necessità di attuare il miglior interesse del minore; l'ingerenza va considerata una misura temporanea, da sospendere non appena le circostanze lo permettano; essa comporta l'obbligo positivo di adottare misure per agevolare il ricongiungimento familiare appena ciò sia ragionevolmente fattibile (Corte EDU, Grande Camera, 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri c. Norvegia). Inoltre, l'adeguatezza delle misure assunte per riunire genitori e figli deve essere valutata anche in base alla rapidità della sua attuazione, in quanto lo scorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sui rapporti tra il minore e il genitore che non vive con lui (Corte EDU, 22 giugno 2017, Barnea e Caldararu c. Italia). Infine la Corte di Strasburgo ha anche affermato che per quanto sia ragionevole che le Corti nazionali ricorrano alla collaborazione dei servizi sociali perché non possono farsi carico direttamente del benessere quotidiano dei minori, i servizi non possono modificare nella pratica la portata delle decisioni dei tribunali e questi ultimi hanno un dovere di vigilanza costante sul lavoro dei servizi sociali, di modo che il loro comportamento non venga a contraddire le decisioni delle autorità (Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta c. Italia). Ciò premesso, si osserva che, qualora i genitori si rivelino in tutto o in parte inadeguati, gli interventi in favore del minore possono essere distinti, sotto il profilo che qui interessa, in due gruppi: a) interventi di sostegno e supporto alla famiglia, ampliativi di quelle che sono le risorse destinate al benessere del minore: il giudice affianca ai genitori un soggetto terzo, con la finalità di supportarli e assisterli nello svolgimento dei loro compiti (sia pure nel rispetto del diritto di autodeterminazione, sul punto v. Cass. n. 17903 del 22/06/2023), nonché con la finalità di supportare ed assistere il minore, e per esercitare una funzione di vigilanza; in questo caso nulla viene tolto a quell'insieme di poteri e doveri che costituiscono la responsabilità genitoriale, e si procede per accrescimento o addizione delle risorse dirette ad assicurare il best interest of the child; b) interventi in tutto o in parte ablativi: rilevata l'incapacità totale o parziale del genitore ad assolvere i suoi compiti si dichiara la decadenza dalla responsabilità genitoriale o le si impongono limiti; in quest'ultimocaso alla sfera delle funzioni genitoriali (poteri e doveri) vengono sottratte alcune competenze e il compito di esercitare le funzioni tolte ai genitori (e le correlate responsabilità) viene demandato a terzi; si procede quindi per sottrazione e non per addizione. Da rilevare, inoltre, che se il provvedimento di decadenza è tipizzato (in quanto il genitore perde la responsabilità genitoriale ed è sostituito dal nominato tutore, pur se resta tenuto al dovere di mantenimento), perdurando lo status filiationis (sul punto v. Cass. n. 17578 del 20/06/2023), i provvedimenti resi ex art. 333 c.c. sono invece atipici, riferendosi genericamente la norma alla adozione di "provvedimenti convenienti". Ciò significa che il giudice può adottare provvedimenti parzialmente ablativi (per sottrazione), provvedimenti ampliativi (per addizione), ovvero ancora provvedimenti misti, quando oltre a sottrarne alcuni ai genitori ed affidarli a terzi, conferisca ai servizi sociali ulteriori compiti di supporto e vigilanza. In questo contesto quindi si inserisce il provvedimento di "affidamento" ai servizi sociali che, nella prassi giurisprudenziale, è stato utilizzato con finalità e contenuti di volta in volta diversi. Nella legislazione previgente al D.Lgs. 149/2022, la base normativa di detto provvedimento poteva individuarsi nel R.D.L. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, conv. nella L. n. 835 del 1935, e succ. modif. dove sono indicate le misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere; fra di esse rientrava l'affidamento al servizio sociale minorile "ipotesi che l'art. 25 distingueva dal collocamento in una "casa di rieducazione" "e che per espressa disposizione del successivo art. 26 poteva altresì essere disposta "quando il minore si trovi nella condizione prevista dall'art. 333 cod. civ." (sul punto v. Cass. n. 22678 del 2010 e la già citata Cass. 17578/2023). La legislazione tuttavia nulla prevede(va) sul contenuto di questa misura, rimessa alla discrezionalità del giudice, pur nella precisazione che questa Corte ha reso in ordine alle finalità della misura, affermando che la decisione con la quale l'autorità giudiziaria dispone l'affidamento ai servizi sociali rientra nei provvedimenti convenienti per l'interesse del minore, di cui all'art. 333 c.c., in quanto diretta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori, senza dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ex art. 330 c.c. (Cass. n. 31902 del 10/12/2018). Vi è anche da rilevare, incidentalmente, che la formulazione dell'art 26 cit. è oggi richiamata dall'art. 5-bis della legge 184/1983 laddove si prevede che il "minore può essere affidato al servizio sociale del luogo di residenza abituale, quando si trova nella condizione prevista dall'art. 333 del codice civile e gli interventi di cui all'art. 1, commi 2 e 3, si sono rivelati inefficaci o i genitori non hanno collaborato alla loro attuazione, fatto salvo quanto previsto all'art. 2, comma 3". Entrambe le disposizioni normative "e la seconda con molta più chiarezza della prima "legano la facoltà di affidare il minore al servizio sociale alla dichiarazione di limitazione della responsabilità genitoriale. Ciò tuttavia non esclude che si possano varare, stante il potere-dovere del giudice di adottare provvedimenti atipici a tutela del minore, altre misure che, sia pure denominate di "affidamento ai servizi sociali", non presuppongono la limitazione della responsabilità genitoriale; questo genere di provvedimenti tuttavia andrebbero distinti, non solo contenutisticamente ma anche quanto al nome, dai provvedimenti di affidamento ai servizi fondati su pronunce limitative della responsabilità genitoriale; appare più corretto utilizzare il termine affidamento solo quando i compiti del servizio sociale sono sostitutivi delle attribuzioni genitoriali e non anche integrative o additive delle stesse, potendosi "in quest'ultimo caso "più appropriatamente parlare di mandato di vigilanza e di supporto. Un'altra considerazione si rende necessaria in ordine al fatto che l'affidamento ai servizi sociali presenta alcune caratteristiche che lo distinguono dall'affidamento a terzi individuati in ambito familiare: la prima è data dal fatto che non sempre il minore viene spostato dalla residenza del genitore con il quale conviveva prima del provvedimento di affidamento; la seconda è che il servizio sociale "a differenza del parente individuato quale affidatario "non deriva i suoi poteri solo dal provvedimento del giudice, ma ha compiti suoi propri, derivanti dalla legge, segnatamente dalla L. quadro 8 novembre 2000, n. 328, e in particolare dall'art. 16 ("valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari"). Inoltre, i servizi sociali "nel processo che riguarda i minori "possono assumere di volta in volta funzioni e ruoli diversi, anche contestuali, poiché ad essi può essere affidata un'indagine conoscitiva sulle condizioni di vita del minore, con il compito di rendere una relazione che ha ingresso nel giudizio come mezzo di prova e che le parti hanno diritto di esaminare e contestare (Cass. n. 14675 del 29/12/1999; Cass. 2780 del 06/02/2013; Cass. n. 23976 del 24/11/2015); possono rivestire il ruolo di ausiliari del giudice ai sensi dell'art. 68 c.p.c. per specifiche attività, ad esempio per l'assistenza nell' attuazione dei provvedimenti di affidamento; infine possono essere investiti "come sopra si accennava "da un provvedimento di affidamento cui si affianca anche un mandato di vigilanza e supporto. Ancora, deve rilevarsi che vi è differenza tra l'affidamento ai servizi sociali disposto in corso di causa e l'affidamento ai servizi sociali disposto a conclusione del procedimento. In primo luogo perché se l'affidamento ai servizi è disposto in corso di causa, il giudice dovrà necessariamente valutare se le ragioni che hanno determinato l'adozione del provvedimento sono legate all'apertura di un procedimento ex art. 333 c.c. ovvero al profilarsi di un conflitto di interessi tra il minore e i suoi genitori e, in tal caso, dovrà nominare un curatore speciale a pena di nullità (v. Corte Cost. 11/03/2011, n. 83; Cass. 02/02 2016, n. 1957, Cass. n. 40490 del 16/12/2021; Cass. n. 11786 del 05/05/2021; Cass. n. 7734 del 09/03/2022); se le ragioni per cui si conferisce il mandato risiedono nella necessità di ampliare le misure a sostegno del minore, ma senza che si profili una condotta pregiudizievole idonea a determinare la misura limitativa, ovvero un conflitto di interessi tra minore e genitori, la nomina del curatore non sarà necessaria. Si veda, sul punto, quanto affermato e chiarito da questa Corte (Cass. n. 7734 del 09/03/2022), ove, pur dichiarando la nullità del processo di appello per la mancata nomina di un curatore speciale nel giudizio di affidamento del figlio nato fuori dal matrimonio, ove era emersa solo in grado in secondo grado una condotta pregiudizievole per il minore, è stata esclusa la necessità di regressione della causa al primo grado del giudizio, posto che "il procedimento era validamente iniziato secondo le regole ordinarie, che vedono il minore normalmente rappresentato dai genitori nelle controversie concernenti l'esercizio della responsabilità genitoriale, e si è concluso in primo grado con una pronuncia di affidamento del minore ad entrambi i coniugi, avendo il Tribunale demandato ai Servizi Sociali solo le attività di sostegno alla genitorialità e di vigilanza". Inoltre, nei processi in cui ratione temporis non si applica l'art. 5-bis cit., l'affidamento ai servizi in corso di causa non richiede necessariamente l'apposizione di un termine, poiché si tratta di un provvedimento provvisorio destinato ad essere assorbito dalla decisione di merito; ciò nonostante è necessario che vengano definiti i tempi minimi per l'attuazione delle misure di tutela della relazione familiare poiché, come sopra si è detto, l'adeguatezza delle misure assunte si valuta anche in base alla rapidità della sua attuazione. Se invece l'affidamento ai servizi sociali è disposto a conclusione del processo, sempre nel regime previgente all'entrata in vigore della riforma operata dal D.Lgs. 149/2022, è preferibile comunque apporre un termine, al fine di evidenziarne la natura provvisoria e temporanea, in conformità alla giurisprudenza CEDU sopra citata, ma in ogni caso, anche quando non sia previsto un termine finale dell'affidamento, esso è privo del carattere della definitività, risultando sempre revocabile, così come può essere sempre revocato o modificato il provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale (Cass. 31902/2018, già citata). Del resto, il provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale assunto a conclusione del procedimento non richiede, nel regime ante riforma, la nomina (o la conferma della nomina adottata in corso di causa) del curatore speciale, che nella originaria impostazione data dagli artt. 78 e 79 c.p.c. ha compiti e funzioni legati nel processo, ove rappresenta, in maniera indipendente ed imparziale, gli interessi del minore. Con la riforma data dal D.Lgs. 149/2022, invece, si è previsto, da un lato, che al curatore speciale processuale (nominato ex art. 473-bis.8 ove sono state trasposte le disposizioni relative al curatore del minore già contenute negli articoli 78 e 80 c.p.c.) possano essere attribuiti poteri di rappresentanza sostanziale; dall'altro si è data una base legale alla nomina del curatore speciale con compiti di rappresentanza sostanziale qualora il processo si concluda con la dichiarazione di limitazione della responsabilità genitoriale, nomina che resta in ogni caso facoltativa, secondo quanto dispone l'art. art. 473-bis.7 c.p.c., comma II: ("Il giudice può nominare il curatore del minore quando dispone, all'esito del procedimento, limitazioni della responsabilità genitoriale"). Da quanto sopra esposto possono trarsi alcune conclusioni: a) Qualora sia disposto l'affidamento del minore ai servizi sociali occorre distinguere, anche nel regime previgente alla entrata in vigore dell'art. 5-bis della L. 184/1983, l'affidamento con compiti di vigilanza, supporto e assistenza senza limitazione di responsabilità genitoriale (c.d. mandato di vigilanza e di supporto), dall'affidamento conseguente ad un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale. b) Nel primo caso, si tratta del conferimento da parte del giudice di un mandato con la individuazione di compiti specifici per assicurare la menzionata funzione di supporto e assistenza ai genitori ed ai figli e per vigilare sulla corretta attuazione dell'interesse del minore. Questa tipologia di "affidamento" ai servizi, che è più corretto definire mandato di vigilanza e supporto, non incidendo per sottrazione sulla responsabilità genitoriale, non richiede, nella fase processuale che precede la sua adozione, la nomina di un curatore speciale, salvo che il giudice non ravvisi comunque, in concreto, un conflitto di interessi, e non esclude che i servizi possano attuare anche altri interventi di sostegno rientranti nei loro compiti istituzionali; richiede tuttavia che il provvedimento del giudice sia sufficientemente dettagliato sui compiti demandati "con esclusione di poteri decisori "e che siano definiti i tempi della loro attuazione, che devono essere il più rapidi possibili. c) Nel secondo caso, il provvedimento di affidamento consegue a un provvedimento limitativo (anche provvisorio) della responsabilità genitoriale. Esso costituisce una ingerenza nella vita privata e familiare (similmente all'affidamento familiare; sul punto, v. Cass. n. 16569 del 11/06/2021) pertanto deve essere giustificato dalla necessità di non potersi provvedere diversamente all'attuazione degli interessi morali e materiali del minore, non avendo sortito effetto i programmi di supporto e sostegno già svolti in favore della genitorialità; l'adozione di questo provvedimento presuppone la sua discussione nel contraddittorio, esteso anche al minore, i cui interessi devono essere imparzialmente rappresentati da un curatore speciale; i contenuti del provvedimento devono essere conformati al principio di proporzionalità tra la misura adottata e l'obiettivo perseguito e il giudice deve esercitare una adeguata vigilanza sull'operato dei servizi. Pertanto si richiede, anche nel regime previgente alla entrata in vigore dell'art. 5-bis della L. 184/1983, che i compiti dei servizi siano specificamente descritti nel provvedimento, in relazione a quelli che sono i doveri e i poteri sottratti dall'ambito della responsabilità genitoriale e distinti dai compiti che sono eventualmente demandati al soggetto collocatario se questi è persona diversa da i genitori; i servizi non possono svolgere funzioni e compiti propri della responsabilità genitoriale se non specificamente individuati nel provvedimento limitativo; deve essere necessariamente nominato, nella fase processuale che precede la sua adozione, un curatore speciale del minore, i cui compiti vanno pure precisati (Cass., n. 32290/23). Detto ciò, nella specie, l'affidamento dei minori ai Servizi sociali si caratterizza per la funzione di supporto e assistenza ai genitori e ai figli e per vigilare sulla corretta attuazione dell'interesse del minore; tipologia di "affidamento" ai Servizi che, come detto, s'inquadra nell'ambito di un mandato di vigilanza e supporto. Ora, va osservato che la Corte d'appello non ha statuito la reintegra del reclamante nella responsabilità genitoriale sui figli minori quale conseguenza automatica dell'accoglimento del ricorso avverso il suddetto decreto del 2019, per effetto del riverberarsi della nullità sul precedente provvedimento di sospensione della responsabilità genitoriale, ritenendo che, al riguardo, si era formato il giudicato a seguito del rigetto del reclamo e della mancata proposizione del ricorso per cassazione. Infatti, secondo la Corte territoriale, la nullità del procedimento per omessa partecipazione del litisconsorte necessario (riguardo all'omessa nomina del curatore speciale dei minori) incontrava comunque il limite del giudicato formatosi relativamente alla sospensione della responsabilità genitoriale, per cui era da escludere che il Tribunale dovesse, a seguito dell'ordinanza di rinvio a seguito della cassazione del provvedimento impugnato, dichiarare la nullità del procedimento e di tutti i provvedimenti adottati in tale ambito, anziché procedere alla nomina del curatore speciale e procedere a nuova valutazione della domanda proposta dall'Ed.Ha. Invero, il decreto del 2016, a seguito di ricorso del Pubblico Ministero, disponeva la sospensione del ricorrente dalla responsabilità genitoriale sui tre minori, affidandoli ai Servizi sociali del Comune di M (luogo di residenza della famiglia) "con l'incarico di collocarli in struttura idonea con facoltà della madre di seguirli "e non fu impugnato; tuttavia, va escluso che si sia formato un giudicato su tale pronuncia, come invece affermato dalla Corte d'appello. Premesso che il successivo decreto del 2019 costituiva solo l'attuazione e una parziale modifica di parte delle prescrizioni dettate dal precedente provvedimento (statuendo esso che: il servizio affidatario doveva eseguire il progetto di "sgancio" di madre e minori dalla comunità; era disposto il coaffido dei minori ai Servizi sociali del Comune di Fano, al fine di predisporre ogni intervento a tutela dei minori e di sostegno alla famiglia; il ricorrente poteva incontrare i figli solo in modalità protette, con divieto di avvicinamento), va osservato che, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite (SU, n. 22423 del 25 luglio 2023) i provvedimenti de potestate adottati dal Tribunale ordinario, quando competente ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., nel corso dei giudizi aventi ad oggetto la separazione e lo scioglimento (o cessazione degli effettivi civili) del matrimonio, nel sistema normativo antecedente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022, non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, della Costituzione, trattandosi di provvedimenti temporanei incidenti su diritti soggettivi (in tal senso decisori) ma non definitivi, in quanto privi di attitudine al giudicato seppur rebus sic stantibus, essendo destinati ad essere assorbiti nella sentenza conclusiva del grado di giudizio e, comunque, revocabili e modificabili in ogni tempo per una nuova e diversa valutazione delle circostanze di fatto preesistenti o per il sopravvenire di nuove circostanze. Ora, nel caso concreto, alla luce del richiamato orientamento di questa Corte, il provvedimento del 2016 non può dirsi passato in giudicato, trattandosi di un decreto temporaneo, non definitivo, destinato ad essere assorbito nel provvedimento conclusivo del grado di giudizio e, comunque, revocabile e modificabile, per quanto suesposto. Tuttavia, il decreto della Corte d'appello, che aveva respinto il reclamo avverso il provvedimento del 2019, fu impugnato in cassazione e cassato con ordinanza del 2022, per la mancata nomina del curatore speciale dei minori, che poi fu disposta ad opera del Tribunale per i minorenni. Ora, l'argomentazione secondo la quale l'ordinanza della cassazione avrebbe prodotto anche l'effetto di travolgere il decreto del 2016 (di cui quello cassato era una mera modifica, come detto) non può dirsi corretta, poiché il provvedimento impugnato era, di fatto, di carattere consequenziale ed attuativo rispetto al decreto del 2016 che, dunque, era insuscettibile di subire gli effetti caducatori prodotti dall'ordinanza della Cassazione. Giova altresì rilevare che quest'ultimo provvedimento ha evidenziato l'ablazione parziale della responsabilità genitoriale, suscettibile di revisione sulla base degli sviluppi dell'attività di sostegno e vigilanza espletata dai Servizi sociali. Ne consegue, in definitiva, che l'argomento del ricorrente, secondo il quale la pronuncia della Cassazione avrebbe travolto tutti i provvedimenti adottati sulla base del decreto di sospensione della responsabilità genitoriale del ricorrente non è condivisibile; né può sostenersi che il Tribunale per i minorenni, con il provvedimento impugnato, non abbia applicato il principio dettato dalla Cassazione. Il secondo motivo è inammissibile in quanto, da un lato, diretto al riesame dei fatti e, in secondo luogo, è generico non cogliendo peraltro la ratio decidendi che non è fondata sulla sola questione della mancata ottemperanza all'obbligo del ricorrente di versare le somme stabilite per il mantenimento dei minori, bensì sul mancato recupero da parte di quest'ultimo delle capacità genitoriali. Sul punto, parte controricorrente allega recente sentenza della Cassazione che conferma la condanna penale del ricorrente per maltrattamenti a danno dei figli. Il terzo motivo è parimenti inammissibile, in quanto riguarda questione nuova (la mancata realizzazione delle aspirazioni dei minori a frequentare il padre) e, comunque, non attinge la ratio decidendi. Le spese seguono la soccombenza. La causa risulta esente dal contributo unificato. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo e dichiara inammissibili gli altri; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 4.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali, iva ed accessori di legge. Dispone che ai sensi dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio il 15 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI GORIZIA SEZIONE DIBATTIMENTO Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei magistrati: Dott. Marcello Coppari - Presidente dott.ssa Concetta Bonasia - Giudice rel. dott.ssa Caterina Caputo - Giudice alla pubblica udienza dell' 11.1.2024 ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente SENTENZA nei confronti di: Ca.Me., nata a V. (P.) il (...), con dom. dich. presso lo studio dell'avv. Gi.Me., del Foro di Trieste libera presente imputata vedasi foglio allegato Con l'intervento del Pubblico Ministero dott. G.CA., Sostituto Procuratore della Repubblica e dell'avv. M.GI. difensore di fiducia del Foro di Trieste e dell'avv. D.LO. difensore di fiducia del Foro di Trieste. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto ritualmente notificato, Ca.Me. è stata rinviata a giudizio, affinché rispondesse dei reati descritti in epigrafe; all'udienza dell'1.3.2021, dichiarato aperto il dibattimento, sono stati ammessi i mezzi di prova. L'udienza del 17.2.2022 è stata rinviata per legittimo impedimento dell'imputata e l'udienza del 29.9.2022 per la necessità del Collegio di definire processi prioritari ex art. 132 bis disp. att. c.p.p. All'udienza del 18.5.3023, sono stati escussi Lu.Ve. e Mi.Ma.; il p.m. ha rinunciato all'esame del teste Gr.Fl., revocato dal Tribunale. All'udienza del 21.9.2023 è stata escussa Di.Sa.. All'udienza del 14.12.2023, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale, le parti hanno illustrato le rispettive conclusioni, come riportate in epigrafe. MOTIVI DELLA DECISIONE All'esito dell'istruttoria, s'impone sentenza assolutoria nei confronti di Ca.Me. da tutti i reati ascrittile in rubrica, per le seguenti motivazioni, che prendono le mosse dalle dichiarazioni testimoniali acquisite in dibattimento. La teste Lu.Ve. - premesso che all'epoca dei fatti era addetta, presso la Prefettura di Gorizia, alle pratiche di ricongiungimento familiare di cittadini stranieri - ha dichiarato che, nel disbrigo delle stesse, e in particolare in quelle presentate dai cittadini somali, aveva notato diverse anomalie sui passaporti allegati alle istanze di ricongiungimento, sospettandone la falsità. Tali istanze erano state tutte inoltrate dall'agenzia "So.", legalmente rappresentata da Ca.Me., unica presente in Monfalcone all'epoca dei fatti. La teste L., a specifica domanda di questo Collegio, ha chiarito che era compito della Prefettura controllare la genuinità dei documenti allegati alle istanze di ricongiungimento e che, per converso, l'agenzia "So." aveva soltanto il compito di raccogliere le stesse e inoltrarle all'Ufficio (cfr. pagg. 15 e 16 verbale di fonoregistrazione dell'udienza del 18.5.2023: noi dobbiamo controllare ... il compito dell'agenzia di disbrigo pratiche era di raccolta e inoltro ... cioè il loro compito è compilare questo modello coi dati anagrafici. Punto. Poi il controllo spetta a noi, questo è sicuro "). La teste ha aggiunto che, nel 2014-2015, non era nemmen facile per il personale della Prefettura eseguire tale controllo, sia per mancanza di conoscenze tecniche in ordine alla lettura del codice ICAO (ossia del codice di sicurezza apposto sui passaporti, a garanzia della relativa autenticità), sia perché ancora non esisteva un registro telematico delle istanze, sicché per lo sportello di Gorizia non era immediato verificare se la medesima istanza fosse stata già presentata presso un altro sportello del territorio nazionale, eventualmente con diversi dati anagrafici dei richiedenti. La teste L. ha infine dichiarato che, in seguito al rilevamento delle anomalie sospette, riguardanti le istanze dei somali, aveva segnalato la situazione al personale Questura di Gorizia, in particolare all'Ispettore Mi.Ma., che aveva effettuato un personale controllo sulle pratiche e le aveva altresì insegnato a leggere il codice ICAO. Il testimone Mi.Ma., operante di P.g., ha confermato integralmente tali dichiarazioni (... il controllo all'epoca era dello sportello unico ... di fatto loro non erano in grado di controllare ... noi gli abbiamo spiegato cosa cercare, per il futuro questo - cfr. pagg. 27 e 28 verbale di fonoregistrazione dell'udienza del 18.5.2023). Il teste M. ha aggiunto di aver eseguito una perquisizione all'interno dell'agenzia "So." nonché un servizio di o.p.c. all'esterno della stessa: da entrambe le attività di indagine era emersa una circostanza a suo giudizio anomala, ossia che non erano stati rinvenuti documenti relativi alle pratiche in questione né erano stati visti soggetti somali fare ingresso nell'agenzia. L'operante ha infine chiarito che il portale telematico delle istanze di ricongiungimento, introdotto dopo i fatti, non era comunque accessibile alle agenzie di inoltro pratiche, sicché Ca.Me. poteva benissimo non sapere che la medesima istanza era già stata presentata presso un diverso sportello della Prefettura (cfr. pag. 30 verbale di fonoregistrazione citato). La testimone N.S., premesso di aver lavorato nel 2014 presso l'agenzia "So.", ha dichiarato di aver personalmente curato le istanze di ricongiungimento familiare di molti cittadini somali, in collaborazione con Ca.Me.; ha specificato di essersi limitata a fornire ausilio nella compilazione dell'istanza da parte dello straniero, a ricevere la delega per l'inoltro dell'istanza medesima e a verificare che vi fosse allegato tutto l'elenco dei documenti richiesti dalla Prefettura. La teste N. ha infine aggiunto che non era nella loro possibilità effettuare controlli sulla genuinità dei documenti, non avendo cognizioni tecniche in materia, né verificare se la medesima istanza fosse già stata presentata dallo straniero presso un'altra agenzia di disbrigo pratiche. Così riassunte le emergenze processuali, ritiene il Collegio che le stesse consentano con sicuro convincimento di mandare assolta Ca.Me. dai reati ascrittile in rubrica, per mancanza dell'elemento soggettivo doloso richiesto dalle fattispecie contestate. Prendendo le mosse dalla fattispecie di cui al capo a), deve evidenziarsi che a Ca.Me. è contestato il reato di cui all'art. 12 del D.Lgs. n. 286 del 1998, per aver compiuto atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio nazionale di cittadini stranieri, mediante l'inoltro alla Prefettura di istanze di ricongiungimento familiare recanti passaporti falsi (in particolare, le istanze elencate dal n. 1 al n. 41 e dal n. 89 al n. 95 del capo d'imputazione in esame) ovvero mediante l'inoltro di istanze già registrate presso altri sportelli unici per l'immigrazione e recanti dati anagrafici differenti (in particolare, le istanze elencate dal n. 42 al n. 88 del capo d'imputazione sub a). Ebbene, in relazione all'elemento oggettivo del reato, è pacifico che, in tema di disciplina dell'immigrazione, il delitto di cui all'art. 12 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per la sua natura di reato di pericolo, si perfeziona per il solo fatto che l'agente pone in essere, con la sua condotta, una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato, ed indipendentemente dal verificarsi dell'evento (tra le tante, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 28819 del 22/05/2014 Ud., dep. 03/07/2014, Rv. 259915 - 01; massime precedenti conformi: N. 34053 del 2006 Rv. 234803 - 01, N. 10255 del 2008 Rv. 239239 - 01, N. 10716 del 2008 Rv. 239565 - 01). Applicati tali principi nel caso di specie, se è vero che con la presentazione delle domande di ricongiungimento Ca.Me. aveva posto in essere una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato, non è tuttavia in alcun modo dimostrato che Ca.Me. si fosse rappresentata e avesse voluto, anche a titolo di dolo eventuale, l'ingresso illegale dei cittadini somali in questione. Piuttosto, è dimostrato il contrario dal fatto che, come chiaramente emerso in istruttoria, non era compito dell'agenzia di disbrigo pratiche verificare la genuinità dei documenti allegati all'istanza di ricongiungimento, sicché ben può ritenersi che Ca.Me. non si fosse nemmen curata di effettuare approfondimenti in merito, una volta ricevuti i citati documenti dallo straniero istante. Né si vede come Ca.Me. avrebbe potuto effettuarli, dal momento che nemmeno la Prefettura, all'epoca dei fatti, aveva le cognizioni o la strumentazione tecnica per vagliare il codice di sicurezza ICAO (così per le istanze dal n. 1 al n. 41 e dal n. 89 al n. 95 del capo d'imputazione in esame) ovvero per verificare se l'istanza fosse già stata presentata presso un diverso ufficio, con dati anagrafici differenti (così per le istanze elencate dal n. 42 al n. 88 del capo d'imputazione sub a). Quanto al sospetto scaturito negli operanti dal fatto che tutte le istanze dei somali erano state inoltrate dall'agenzia dell'imputata, è sufficiente rilevare come dalle dichiarazioni della teste L., in servizio presso la Prefettura, sia emerso che la "So." era l'unica agenzia di disbrigo pratiche attiva nel Comune di Monfalcone nel 2014. In ogni caso, non è in alcun modo provato che Ca.Me. avesse previamente concertato coi soggetti somali tale sistema di potenziali ingressi illegali, posto che nessuno di tali soggetti è stato escusso in sede di indagini e che nessun elemento in tal senso è aliunde emerso, in seguito alle indagini di P.g. Quanto alle osservazioni dell'operante M., secondo cui sarebbe anomalo che, in esito alla perquisizione, nessun documento relativo alle pratiche de quibus era stato rinvenuto all'interno dell'agenzia, così come sarebbe anomalo che nessun cittadino somalo era stato osservato in agenzia, a seguito dei servizi di o.p.c, è sufficiente considerare, da un lato, che l'agenzia non aveva alcun obbligo di conservare copia delle istanze e, dall'altro, che i servizi di o.p.c. erano stati effettuati dopo l'inoltro delle pratiche in esame (pag. 33 verbale citato), di talché appare ovvio che nessuno dei soggetti istanti fosse stato avvistato successivamente, tenuto conto altresì che gli stessi non avevano motivo di tornare in agenzia. Deve pertanto necessariamente affermarsi che dall'istruttoria dibattimentale non è emerso alcun elemento di prova in ordine alla volontà di Ca.Me. di procurare l'ingresso illegale di soggetti stranieri nel territorio nazionale. Passando capo b) di rubrica, a Ca.Me. viene contestato di aver indotto in errore i competenti uffici della Questura di Gorizia, ottenendo i nulla osta al rilascio del visto di ingresso in tutti i casi indicati al capo a). Giova subito osservare - anche per dar conto della formula determinativa scelta dal Collegio nel dispositivo di assoluzione - che non può essere accolta la tesi difensiva (pag. 10 arringa avv. Lobuono), secondo cui il reato di falso in atto pubblico nel caso di specie non sussiste, poiché Ca.Me. non rivestiva la qualifica di pubblico ufficiale. Sul punto, si deve rilevare che la contestazione in esame non è ascritta a Ca.Me. semplicemente sulla base dell'art. 479 c.p., bensì in forza del combinato disposto degli artt. 48 e 479 c.p. e che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, configura il delitto di falso ideologico in atto pubblico, mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, anche la mendace attestazione resa mediante la consegna di documenti falsi dal privato al pubblico ufficiale (cfr., tra le tante, Sez. 1 - Sentenza n. 3030 del 09/12/2022 Ud.,dep. 24/01/2023, Rv. 283953 - 01; conformi: N. 11597 del 2010 Rv. 246711 - 01, N. 896 del 2015 Rv. 262047 - 01). Quel che invece rileva e va ribadito, per i motivi sopra esposti, è la mancanza totale di prova in ordine alla volontarietà di Ca.Me. in ordine alla contestata induzione in errore dei pubblici ufficiali, in sede di rilascio dei nulla-osta alle istanze di ricongiungimento. Con la conseguenza, che Ca.Me. va assolta da entrambi i reati ascrittile in rubrica, perché il fatto non costituisce reato. Appare congrua l'assegnazione del termine di giorni 30 per il deposito della motivazione ex art.544. comma 3, avuto riguardo alle questioni trattate e al carico di lavoro dell'ufficio. P.Q.M. Visto l'art. 530 c.p.p., assolve Ca.Me. dai reati ascrittile in rubrica, perché il fatto non costituisce reato. Visto l'art. 544 c.p.p., assegna termine di giorni 30 per il deposito della motivazione. Così deciso in Gorizia l'11 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2024.

  • TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA Prima Sezione Civile Il Tribunale, riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei seguenti magistrati: dott. Francesco Parisoli - presidente rel. dott. Damiano Dazzi - giudice dott.ssa Chiara Neri - giudice on. ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento di 1°grado RG 1937/2023 vol. promosso da: YY ricorrente rappresentato e difeso dall'avv. ... contro XX resistente rappresentata e difesa dall'avv. ... con l'intervento del P.M., in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia Oggetto: "affidamento e mantenimento figli minori" CONCLUSIONI Le parti, nelle note scritte depositate per l'udienza del 05.12.2023 e confermate all'udienza del 09.01.2024 hanno così concluso: Parte ricorrente: "In via principale: Disporre l'affidamento dei figli J, nato a (omissis), (Reggio Emilia), il (omissis).2010, e W, nato a (omissis), (Reggio Emilia), il (omissis).2012 al padre YY, con loro collocamento presso la casa familiare in (omissis), (Reggio Emilia), Via (omissis), n. 14 assegnata al padre e di sua proprietà; Disporre che i figli trascorrano il fine settimana dal sabato all'uscita da scuola fino alla domenica sera a week end alternati con la madre, e che la madre possa tenere con sé i figli due giorni infrasettimanali, con pernottamento, da determinarsi in base ai turni lavorativi e compatibilmente con gli impegni dei figli; Disporre che i figli trascorrano le vacanze natalizie ad anni alterni con la madre e con il padre e quelle estive con il padre, indicativamente nel mese di luglio, per almeno 15 giorni consecutivi; Disporre che la signora XX corrisponda al Signor YY l'assegno Unico per i figli dalla stessa percepito a decorrere dal mese di Dicembre 2023 e così fino a quando non saranno completate le pratiche per la rettifica del beneficiario di tale contributo presso gli Enti preposti; Disporre che le spese straordinarie, siano esse scolastiche, sportive, ricreative e medico-sanitarie, andranno concordate secondo le disposizioni del Protocollo in uso presso il Tribunale di Reggio Emilia, tenuto conto altresì delle effettive possibilità economiche dei genitori; Disporre che tali suddette spese straordinarie siano sostenute economicamente da entrambi i genitori, nella misura del 50% ciascuno, con rimborso della quota a favore del genitore che le abbia anticipate, previa esibizione delle ricevute attestanti i pagamenti sostenuti, entro il mese successivo a quello della richiesta di rimborso. In subordine: Nella denegata e non creduta ipotesi di affidamento dei minori J e W alla madre, disporre che l'Assegno Unico in favore dei figli sia percepito interamente dalla Sig.ra XX e che, in ragione delle accertate e documentate risorse economiche dei genitori, il Sig. YY versi a titolo di mantenimento ordinario la somma mensile di Euro 100,00 per entrambi i figli; Disporre che il padre possa tenere con sé i figli dal sabato all'uscita da scuola fino alla domenica sera, a week end alternati, e che possa tenere con sé i figli almeno due giorni consecutivi infrasettimanali, da individuarsi in base agli impegni dei figli; Disporre che i figli trascorrano le vacanze natalizie ad anni alterni con la madre e con il padre e quelle estive con il padre, indicativamente nel mese di luglio, per almeno 15 giorni consecutivi; Disporre che le utenze domestiche, atteso anche l'avvio del Sistema fotovoltaico, vengano corrisposte dalla signora XX così come le manutenzioni ordinarie, vengano eseguite a proprie spese dall'assegnataria dell'abitazione familiare; Disporre che le spese straordinarie, da concordarsi tra i genitori secondo quanto prescritto nel Protocollo in uso presso il Tribunale di Reggio Emilia, saranno sostenute economicamente da entrambi i genitori, nella misura del 40% a carico del Sig. YY e del 60% a carico della Sig.ra XX, con rimborso della quota a favore del genitore che le abbia anticipate, previa esibizione delle ricevute attestanti i pagamenti sostenuti, entro il mese successivo a quello della richiesta di rimborso; In via istruttoria, Si chiede autorizzazione al Giudice al deposito in cancelleria di supporto DVD in duplice copia, per fascicolo d'ufficio e per controparte, contenente n. 2 riproduzioni audiovisive e n. 2 messaggi vocali inviati tramite whatsapp dalla XX a YY; si reiterano le precedenti istanze istruttorie, con particolare riguardo a l'ammissione a testi dei signori R. S., residente in (omissis), (Reggio Emilia), S. P., residente in (omissis), (Reggio Emilia), G. C., residente in (omissis), (Mantova), F. P. residente in (omissis), (Mantova) e M. E. sui fatti di causa, in riferimento alla violenza domestica subita da YY e sull'abuso di mezzi educative e coercitivi posti in essere dalla signora XX nei confronti dei figli J e W; Si formulano nuove istanze istruttorie, in particolare ammissione per testi, indicando quale teste il Sig. D. T. sulle seguenti domande, premesso "vero che": Lei risiede a Marina di Massa? Lei conosce la famiglia YY/XX? La Sig.ra XX era in accordo con Lei per visionare e prendere in locazione/assegnazione un appartamento a Marina di Massa nei giorni indicativamente dal 10 al 15 Novembre 2023? La sig.ra XX le ha comunicato la volontà di trasferirsi nell'alloggio da visionare e locare insieme ai figli J e W? Lei è stato invitato da XX a trasferirsi qualche giorno presso l'abitazione di (omissis), (Reggio Emilia), Via (omissis), n. 14 per accudire J e W alla fine del mese di Novembre 2023? Lei aveva già frequentato anche nei giorni precedenti l'abitazione di (omissis), (Reggio Emilia)? Nell'occasione della sua permanenza, Lei ha visto la Sig.ra XX inveire verbalmente contro il Sig. YY? Nell'occasione della sua permanenza, Lei ha assistito ad attacchi fisici della Sir.ga XX nei confronti del Sig. YY? Nell'occasione, i minori J e W erano presenti in casa? Ha assistito personalmente, in altre precedenti occasioni, ad attacchi fisici e verbali della Sig.ra XX nei confronti del Sig. YY? Con vittoria di spese e compensi professionali.". Parte resistente: "In via principale, contrariis rejectis: a) disporre l'affido esclusivo dei minori J e W alla madre, mantenendo l'incarico al Servizio Sociale competente ai fini di interventi di sostegno all'esercizio della responsabilità genitoriale, nonché di redigere un calendario al fine di regolare il diritto di visita del padre tenendo conto degli impegni scolastici e non dei figli minori; b) assegnare la casa familiare e gli arredi in essa contenuti alla madre che l'abiterà con i figli minori; c) dichiarare YY tenuto a versare in favore di XX entro il giorno 10 di ogni mese l'importo mensile di euro 500,00 (euro 250,00 per ciascun figlio) a titolo di contributo al mantenimento dei figli J e W, o quella somma maggiore o minore che risulterà in corso di causa, soggetta ad aggiornamento in base alle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo intercorse nel precedente anno per le famiglie di operai ed impiegati, tenuto conto del pagamento da parte del YY della rata del mutuo acceso sulla casa familiare così come meglio descritto in premessa; d) dichiarare tenuto YY a rimborsare alla sig.ra XX il 50% delle spese straordinarie sostenute o da sostenere per i figli minori, come da protocollo del Tribunale di Reggio Emilia. In subordine nella denegata e non creduta ipotesi in cui codesto Ill.mo Tribunale non ravvisasse i presupposti per la disposizione dell'affido esclusivo dei minori alla madre: a) disporre l'affido condiviso di J e W ad entrambi i genitori con residenza prevalente presso la madre mantenendo l'incarico al Servizio Sociale competente ai fini di interventi di sostegno all'esercizio della responsabilità genitoriale, nonché di redigere un calendario al fine di regolare il diritto di visita del padre tenendo conto degli impegni scolastici e non dei figli minori; b) assegnazione della casa familiare e degli arredi in essa contenuti alla madre che l'abiterà con i figli minori; c) dichiarare YY tenuto a versare in favore di XX entro il giorno 10 di ogni mese, l'importo mensile di euro 500,00 (euro 250,00 per ciascun figlio) a titolo di contributo al mantenimento dei figli J e W, o quella somma maggiore o minore che risulterà in corso di causa, soggetta ad aggiornamento in base alle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo intercorse nel precedente anno per le famiglie di operai ed impiegati, tenuto conto del pagamento da parte del YY della rata del mutuo acceso sulla casa familiare così come meglio descritto in premessa; d) dichiarare tenuto YY a rimborsare alla sig.ra XX il 50% delle spese straordinarie sostenute o da sostenere per i figli minori, come da protocollo del Tribunale di Reggio Emilia. In ogni caso con vittoria di spese e compensi del presente giudizio.". MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Premesso che il procedimento riguarda le modalità di affidamento e mantenimento dei minori J e W, nati a (omissis), (Reggio Emilia) rispettivamente in data (omissis).2010 e (omissis).2012 dalla relazione more uxorio delle parti; che entrambi i genitori nei rispettivi atti introduttivi hanno chiesto l'affidamento esclusivo a sé dei figli minori con assegnazione in proprio favore della casa familiare, domandando che le visite con l'altro genitore vengano regolamentate dal Servizio Sociale; hanno reciprocamente chiesto, inoltre, che venga posto a carico dell'altro un contributo al mantenimento dei figli (il padre ha chiesto Euro 200,00 per ciascun figlio, la madre Euro 250,00 per ciascun figlio); che alla base delle richieste formulate dalle parti vi è una contrapposta ricostruzione delle vicende familiari ed un reciproco addebito di responsabilità per il conflitto in essere: il padre sostiene di essere stato sottoposto a continue vessazioni e aggressioni da parte della compagna, ciò che lo avrebbero indotto a reagire; la madre riferisce che sarebbe il sig. YY ad avere sempre tenuto condotte vessatorie, ad essere dedito al consumo di stupefacenti, ad averla ripetutamente tradita con altre donne e ad averla aggredita anche alla presenza dei figli minori tanto da rendere necessario in più occasioni l'intervento delle forze dell'ordine; che la situazione, già compromessa, è definitivamente degenerata in data 29.03.2023 quando, all'esito di una violenta lite - della quale le parti forniscono ancora una volta una descrizione differente - la madre ed i figli sono stati allontanati dalla casa familiare e condotti in una località protetta; che in seguito a tale accadimento la sig.ra XX ha presentato ricorso ex art. 473 bis n. 69 c.p.c. ottenendo un ordine di protezione inaudita altera parte (doc. 6 parte resistente) successivamente confermato con Decreto del 17.05.2023 (doc. 7 parte resistente); che in tale provvedimento il Giudice ha ordinato al sig. YY di cessare immediatamente dalla condotta pregiudizievole tenuta nei confronti di XX e nei confronti dei figli minorenni Y. ed J, e di allontanarsi immediatamente alla casa familiare sita a (omissis), (Reggio Emilia) prescrivendo al medesimo di non avvicinarsi alla casa familiare, al posto di lavoro della medesima (XX), alle scuole frequentate dai figli, nonché ai luoghi frequentati da questi ultimi e dalla loro madre; ha disposto altresì che in attesa dei provvedimenti che saranno assunti da parte dell'Autorità Giudiziaria competente ed al solo scopo di tutelare i figli siano i Servizi Sociali ad indicare le modalità più opportune secondo le quali, se lo desidererà, il padre potrà incontrare i figli minori in modo protetto, dando preciso mandato ai Servizi Sociali in merito; che alla data dell'udienza di comparizione del presente procedimento (29.06.2023), i rapporti tra le parti erano dunque regolati dal Decreto di cui sopra, la sig.ra XX risultava rientrata nell'abitazione familiare insieme ai figli minori e gli incontri di questi ultimi col padre venivano regolati dal Servizio Sociale; le parti davano atto altresì di avere trovato una provvisoria regolamentazione dei rapporti economici inerenti il mantenimento dei figli (il padre avrebbe continuato a corrispondere la rata del mutuo e la madre avrebbe percepito per intero l'Assegno Unico); che all'esito dell'udienza veniva incaricato il Servizio Sociale di riferire sulla situazione del nucleo familiare, sulla genitorialità delle parti e sulle condizioni dei minori, ai fini della definitiva decisione sul loro affidamento e collocamento; che il Servizio ha depositato la propria Relazione in data 08.11.2023 nella quale riferisce di essere già stato coinvolto nelle questioni riguardanti il nucleo YY - XX sia nell'anno 2016 che nell'anno 2020, sempre per episodi di conflitto e di violenza assistita, ma che la situazione in entrambi i casi era rientrata e le tensioni familiari parevano essersi appianate; che successivamente il Servizio è nuovamente stato coinvolto in seguito all'episodio occorso in data 29.03.2023 che ha dato origine all'ordine di protezione di cui si è detto; che nel corso dell'indagine gli operatori hanno sentito anche i minori i quali hanno entrambi riferito di un loro coinvolgimento nelle vicende familiari: J è apparso molto investito in uno sforzo risolutivo (...) ha spiegato di essere ingaggiato nel tentativo di far tornare insieme la madre e il padre e che dal suo punto di vista nonostante la mamma e il papà abbiano da sempre litigato parecchio la mamma potrebbe compiere uno sforzo e perdonare il padre riaccogliendolo in casa; i due genitori potrebbero imparare a confliggere di meno a mantenere i toni delle discussioni più bassi e a non alzare le mani reciprocamente; qualora essi non dovessero tornare insieme lui vorrebbe passare almeno metà del tempo con il padre se non di più W si è espresso in modo piuttosto simile al fratello riferendo agli operatori che la sua percezione è che il padre sta cercando di far la pace con la madre sebbene la madre sia piuttosto restia ad andare nella direzione di un ricongiungimento; lui avrebbe il desiderio che i genitori superassero la rottura riprendendo il loro rapporto di coppia; qualora gli stessi dovessero restare separati ha espresso il desiderio di passare più tempo con il padre che con la madre motivando tale posizione col fatto che talvolta la madre è poco gentile con lui e il fratello e li incolpa di cose per cui dal suo punto di vista non hanno colpa, arrabbiandosi in modo piuttosto importante senza buoni motivi che all'esito dell'indagine gli operatori hanno individuato da un lato alcuni negativi elementi di rischio per i minori e segnatamente - I minori sino al 29 Marzo 2023 sono stati esposti a circostanze di violenza assistita e triangolati nella dinamica conflittuale genitoriale - sia il padre che la madre per anni hanno mantenuto riserbo su quanto accadeva in casa faticando a riconoscere come ciò sia stato lesivo del diritto dei minori ed una serenità intrafamiliare e ad una crescita armonica - la madre e il padre si sono rivolti reciprocamente importanti accuse che qualora fossero veritiere delineerebbero un quadro di importante esposizione a rischi e pregiudizio per i minori - è stato ravvisato un invischiamento ed eccessiva attivazione da parte dei minori nelle dinamiche relazionali dei genitori: i figli si sono detti impegnati nel tentativo di far tornare assieme ai genitori oltre che apparsi dispiaciuti e preoccupati per la posizione del padre - il padre figura molto importante per i ragazzi, affettiva e calorosa, è apparso piuttosto in difficoltà facendo fatica a delineare un progetto di vita solido e preciso risultando confuso rispetto a quanto vorrebbe fare in alcune occasioni; ha espresso il desiderio di tornare con l'ex compagna nonostante l'abbia descritta come una persona violenta e poco trasparente; in altre occasioni ha portato come volontà poi trasferirsi a vivere in un luogo marittimo vendendo la casa di (omissis), (Reggio Emilia); nell'effettuare tali ipotesi lo stesso ha dato per scontato che i suoi figli lo potessero seguire senza considerare gli effetti di un'eventuale trasferimento sulle loro vite - la madre più ferma e razionale, più solida rispetto al proprio progetto di vita è apparsa però piuttosto normativa, incline a uno stile educativo autoritario incentrato su di una tensione verso il raggiungimento di alcuni obiettivi genitoriali risultando in parte carente sul piano affettivo e di sintonizzazione con i vissuti emotivi dei figli; gli aspetti culturali e religiosi dovuti alle diverse culture di appartenenza del padre e della madre paiono essere pregnanti rispetto alla conflittualità che insorge tra i giudici genitori che dall'altro lato hanno evidenziato positivi elementi di protezione per i minori: - entrambi i genitori si sono mostrati affettivamente sinceramente legati ai figli e seppur in modi diversi rispondenti ai bisogni materiali e concreti di J e W - il padre ha accettato di vedere i figli all'interno di incontri protetti ancor prima che l'autorità giudiziaria disponesse delle limitazioni alla propria responsabilità genitoriale mostrandosi collaborante nei confronti del Servizio - la madre ha accettato che i figli mangiassero anche gli alimenti vietati dalla religione musulmana (il padre non avrebbe diversamente dato il consenso perché potessero fermarsi in mensa e partecipare al doposcuola) - entrambi i genitori hanno aderito al percorso di valutazione delle competenze genitoriali presentandosi a tutti gli appuntamenti e mantenendo un atteggiamento positivo e di confronto con gli operatori dello scrivente Servizio - il padre ha fornito il consenso di effettuare un percorso di valutazione perso il Sert di (omissis), (Reggio Emilia) che alla Relazione sono allegati: il referto del Sert dal quale si evince che gli esiti dei controlli sul sig. YY effettuati da luglio ad ottobre 2023 hanno dato esito negativo, tranne una positività all'alcool; risulta altresì che il YY non si sia presentato per tre volte a chiamate per effettuare i controlli urinari e si chiede di poter proseguire la valutazione la relazione della psicologa che conclude riferendo di una forte conflittualità tra i genitori a causa di problematiche di coppia ed in riferimento a posizioni educative verso i figli estremamente diverse e impregnate anche di elementi legati alle differenze culturali e religiose; questi aspetti hanno fatto sì che si sia cronicizzata una dinamica familiare per cui la madre è diventata il riferimento normativo e il padre, maggiormente permissivo ed empatico verso i figli, il riferimento affettivo dei ragazzi; appare necessario quindi riposizionare le parti e rendere meno rigidi questi ruoli la relazione dell'educatore incaricato dell'educativa domiciliare e di presiedere agli incontri tra padre e figli il quale riferisce che i minori si sono sempre mostrati molto felici di incontrare il padre impazienti di sapere come questi stesse e passasse le giornate e che il padre ugualmente si mostrava visibilmente felice e a volte commosso ad incontrare i figli, comportandosi in modo molto affettuoso con entrambi e attento ad ascoltare alternativamente le richieste dei minori; essi durante i colloqui sono sempre apparsi molto sereni; quanto agli interventi a domicilio dalla madre questa si è mostrata molto accogliente nei confronti dell'operatore e i minori sono apparsi molto sereni anche a domicilio cercando di coinvolgere e sfidare l'educatore nei giochi in cui erano occupati; che la Relazione conclude chiedendo di poter proseguire il lavoro con la coppia genitoriale almeno sino a novembre 2024 con l'obiettivo di accompagnare il padre nell'ideare un nuovo progetto di vita che tenga al centro il benessere di bisogni dei figli e accompagnare la madre nel proseguire la sua funzione normativa acquisendo sempre di più una funzione affettiva e di sintonizzazione emotiva coi suoi figli nonché aiutare i genitori eventualmente anche mediante colloqui congiunti ad individuare punti di incontro circa i propri stili educativi e le proprie posizioni genitoriali e affiancarli nel dare un significato a quanto sino ad ora accaduto supportandone nel percorso di ricostruzione del proprio progetto di vita; inoltre, in favore dei minori, si può proseguire con l'intervento educativo in essere e se necessario attivare un supporto psicologico; che in data 11.01.2024 i figli minori sono stati sentiti dal Giudice al quale hanno sostanzialmente confermato quanto detto agli operatori del Servizio; in particolare J ha riferito con riguardo agli incontri col padre mi vanno bene queste modalità e sono contento di mettermi d'accordo direttamente con lui precisando che con mio papà mi trovo bene e vorrei che tornasse a vivere a (omissis) con me e mio fratello. Se i miei genitori andassero d'accordo io vorrei che stessimo tutti insieme, ma se non si riesce vorrei che tornasse mio papà. Mia madre è più severa, quando prendo brutti voti o note mi ha dato qualche cinturata sul sedere, ora ha smesso, mio padre invece mi sgrida solo a parole e dice che devo impegnarmi di più. Quanto a W egli ha riferito con riguardo al padre: vorrei che lui stesse con me tutti i giorni della settimana. Lui è meno severo della mamma, lei grida e a volte mi dà degli schiaffi, l'ultimo me lo ha dato due settimane fa perché avevo preso una nota che nelle note conclusive le parti hanno reiterato le conclusioni degli atti introduttivi: in particolare il ricorrente ha riferito delle difficoltà incontrate per avere dovuto lasciare la casa familiare, ha sostenuto che la sig.ra XX avrebbe cercato di riprendere la relazione con lui e che a fronte del suo rifiuto avrebbe scritto messaggi aggressivi; ha evidenziato la difficoltà di gestione che incontrerebbe la madre con riguardo ai figli, lavorando la stessa su turni anche notturni; ha censurato la Relazione del Servizio per non essersi espressa sul punto; la ricorrente, nelle proprie note, ha richiamato il dispositivo e le motivazioni del Decreto emesso nel procedimento ex art. 473 bis n. 69 stigmatizzando la personalità e la condotta del ricorrente ed il coinvolgimento dei figli nel conflitto con la madre col tentativo di blandire i minori per portarli dalla propria parte e criticare le condotte materne; ritenuto e considerato ritiene il Collegio opportuno e tutelante per i minori disporne l'affidamento al competente Servizio Sociale, stante la risalente e importante conflittualità tra i genitori che, se pure se a tratti è parsa rientrare, si è ripresentata in tutta la sua gravità nell'episodio del 29.03.2023; che a fronte della conflittualità risulta evidentemente impraticabile un affidamento condiviso che richiederebbe una condivisione tra i genitori di scelte ed obiettivi educativi, ma neppure si ritiene possibile un affidamento esclusivo all'uno o all'altro genitore, essendo emerse a carico di entrambi fragilità genitoriali che fanno ritenere preferibile l'affido al Servizio; che la madre invero è risultata eccessivamente rigida e normativa (come osservato dagli operatori e riferito anche dagli stessi minori), il padre per contro è parso più permissivo e ad oggi non in grado di delineare un progetto di vita solido e deciso; che entrambi i genitori, soprattutto, non hanno saputo preservare i figli dal conflitto essendo emerso che i minori abbiano assistito in prima persona alle liti familiari ed anche alla violenta colluttazione del 29.03.2023 nel corso della quale uno dei figli ha ripreso la scena col telefonino mentre l'altro contattava le forze dell'ordine; che il coinvolgimento dei minori emerge anche dalla Relazione del Servizio ove i figli sono parsi "ingaggiati" nel tentativo di comporre la lite tra i genitori nell'auspicio di una ripresa della convivenza; a fronte di ciò i genitori per anni hanno mantenuto riserbo su quanto accadeva in casa, faticando a riconoscere il pregiudizio cui hanno esposto i figli e ledendo il loro diritto alla serenità familiare e ad una crescita armonica; che vada dunque disposto l'affidamento dei minori al Servizio Sociale mantenendone l'attuale collocamento presso la madre, anche alla luce della gravità della condotta del padre in occasione della lite del 29.03.2023, come dettagliatamente ricostruita nella motivazione del Decreto 17.05.2023 emesso nel procedimento RG 2304/2023 (doc. 7 parte resistente) che descrive "un'aggressione prolungata ed estremamente violenta" con condotte caratterizzate da ferocia e gravemente pregiudizievoli nei confronti dell'integrità psico-fisica dei figli, costretti ad assistere alle percosse del padre nei confronti della madre; che al collocamento dei minori presso la madre consegua, ai sensi dell'art. 337 sexies c.c., l'assegnazione in favore di quest'ultima della casa familiare (il godimento della casa familiare è assegnato tenendo in considerazione essenzialmente l'interesse dei figli e dunque l'esigenza, che ne costituisce l'unica ragione, di conservare alla prole che vede interrotta la convivenza dei genitori, l'ambiente domestico - ex multis Cass. Civ. I, 13.10.2021, n. 27907) che vada confermato l'incarico al Servizio di regolamentare le visite tra padre e figli - revocando allo scopo il divieto di avvicinamento tra gli stessi già disposto col Decreto di cui sopra - tenendo conto, nella predisposizione del Calendario, del forte legame affettivo tra padre e figli, come emerso dalla Relazione e riferito dagli stesi minori in sede di audizione; che, sotto il profilo economico, risulta che la sig.ra XX, come dedotto da entrambe le parti, percepisca un reddito mensile di Euro 1.500,00, oltre all'intera somma erogata dall'INPS a titolo di Assegno Unico per i figli e pari ad oggi ad Euro 200,00 a figlio (Euro 400,00 complessivi), come dichiarato dalla stessa resistente; che il sig. YY, come da documentazione in atti (mod. 730/2022 e accrediti in Conto Corrente) risulta percepire un reddito netto mensile pari a circa Euro 2.350,00; lo stesso deve sostenere un'uscita mensile di Euro 500,00 a titolo di rata di rientro del mutuo contratto per l'acquisto della casa familiare nonché spese alloggiative (che egli deduce di Euro 420,00 mensili comprensivi di utenze, pur allegando un contratto di locazione di durata anomala - anni 1 + 4 - e mancante della necessaria registrazione presso l'Agenzia delle Entrate); che non possa invece conteggiarsi l'uscita mensile di Euro 191,00 a titolo di rientro di un debito con Equitalia, derivando il medesimo da inadempienza del ricorrente; che per quanto sopra, in applicazione dei criteri di cui all'art. 337 quater c.c. e dunque della capacità reddituale ed economica delle parti, dei tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore (stanno prevalentemente con la madre), dell'età dei medesimi (oggi di anni 14 e 11), considerato altresì il valore economico dell'assegnazione della casa familiare alla resistente ed il percepimento da parte di quest'ultima dell'intera somma dell'Assegno Unico (circostanza incontestata), per Euro 400,00 mensili, ritiene congruo il Collegio porre a carico del sig. YY l'onere di contribuire al mantenimento dei figli con la somma di Euro 200,00 ciascuno oltre al 50% delle spese straordinarie; che non siano rilevanti ai fini della decisione le ulteriori istanze istruttorie avanzate dalle parti; che le spese di lite, in ragione dell'esito della stessa e della reciproca soccombenza, vadano integralmente compensate tra le parti; P.Q.M. Il Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando, così dispone: 1) i minori J e W, nati a (omissis), (Reggio Emilia), rispettivamente in data (omissis).2010 e (omissis).2012, sono affidati al competente Servizio Sociale e collocati presso la madre cui è assegnata la casa familiare sita in (omissis), (Reggio Emilia), via (omissis) n. 14; 2) il padre potrà vedere e tenere con sé i figli secondo le tempistiche e le modalità stabilite dal Servizio Sociale affidatario che avrà facoltà di modificare il Calendario in itinere a seconda dell'andamento del medesimo e della rispondenza all'interesse dei minori; 3) allo scopo di consentire gli incontri di cui sub 2) è revocato in parte qua il Decreto emesso in data 17.05.2023 nel procedimento RG 2304/2023 (che ha confermato il Decreto emesso inaudita altera parte in data 02.05.2023) nella parte in cui prevede il divieto di avvicinamento del sig. YY ai figli ed ai luoghi da essi frequentati; 4) il Servizio affidatario proseguirà per 24 mesi nell'opera di monitoraggio e sostegno al nucleo familiare ed alla genitorialità, mantenendo almeno in un primo tempo il servizio di educativa domiciliare già avviato; il Servizio medierà altresì tra i genitori in caso di contrasto sulle decisioni riguardanti i figli, con facoltà di assumere direttamente tali decisioni laddove l'inerzia o il conflitto tra i genitori ne impedisca l'assunzione in tempi rapidi, con pregiudizio per i minori; 5) il sig. YY contribuirà al mantenimento dei figli mediante corresponsione in favore della sig.ra XX della somma di Euro 400,00 mensili (Euro 200,00 per ciascun figlio), con rivalutazione ISTAT annuale; contribuirà inoltre nella misura del 50% alle spese straordinarie sostenute nell'interesse dei figli, come individuate dal Protocollo in uso presso il Tribunale di Reggio Emilia (prot. 13.06.2023); 6) le spese di lite sono integralmente compensate tra le parti. Si comunichi al Servizio Sociale (Unione Bassa reggiana) Così deciso nella camera di Consiglio della prima sezione civile del Tribunale di Reggio Emilia in data 18 gennaio 2024

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7734 del 2022, integrato da motivi aggiunti, proposto da Fa. Za., rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ca. e G. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Gi. Ca. in Roma, viale (...); contro Ministero della Difesa, Dipartimento Impiego del personale dell'Esercito, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del T.R.G.A. - Sezione Autonoma della Provincia di Bolzano n. 00136/2022, resa tra le parti, concernente la determinazione n. M_D E24094 REG2021 0069993 del 25 agosto 2021 (notificata il 6 settembre 2021) con la quale il Dipartimento impiego del personale dello Stato Maggiore dell'Esercito ha rigettato l'istanza di riunione del nucleo familiare presentata dal ricorrente il 13 luglio 2021; Visti il ricorso in appello, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2023 il Cons. Ulrike Lobis e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in esame, parte ricorrente, Sottotenente dell'Esercito Italiano, in servizio presso il 4° Reggimento Aves "Altair" di Bolzano e residente nello stesso Comune in un immobile che divideva con la moglie Ma. Fr., ha appellato la sentenza n. 136/2022 del TRGA di Bolzano concernente il rigetto del gravame proposto dalla stessa parte per ottenere l'annullamento della determinazione n. M_D E24094 REG2021 0069993 del 25 agosto 2021, con la quale il Dipartimento impiego del personale dello Stato Maggiore dell'Esercito ha rigettato l'istanza di riunione del nucleo familiare presentata dal ricorrente il 13 luglio 2021. 1.1. In particolare, in data 13 luglio 2021 il ricorrente, volendo riunire il proprio nucleo familiare, ha chiesto il trasferimento presso la sede di Viterbo alla quale è stata assegnata, con decorrenza 1° luglio 2021, la sig.ra Ma. che risultava tra i vincitori di un concorso interno per la copertura di 400 posti di Vice Ispettore tecnico della Polizia di Stato, indetto con D.M. 31dicembre 2019, collocata nella relativa graduatoria di merito al 350esimo posto in generale e al ventesimo posto dei 63 assegnati ed in particolare di uno dei posti presso il servizio sanitario -profilo professionale di infermiere - vice ispettore tecnico infermiere, (cfr. allegato 2, pag. 40 della graduatoria di merito, depositata dal ricorrente in primo grado il 10.12.2021). La domanda di trasferimento per riunire il nucleo familiare è stata negata con la motivazione che" la direttiva di settore per la Forza Armata esclude l'attuazione di tale istituto 'qualora uno dei due coniugi abbia disgregato volontariamente il proprio nucleo familiare, fino a quel momento convivente, a seguito di reimpiego nell'ambito delle rispettive pianificazioni annuali ovvero ad istanza di partè . Quanto sopra, attesa la comunicazione del Ministero dell'Interno - DAGEP, con il foglio A RIFE "B" e "C", con la quale si rappresenta che il Vice Ispettore Tecnico della Polizia di Stato..., vincitrice di concorso, è stata chiamata ad esprimere 10 sedi di preferenza al fine dell'assegnazione al termine del corso di formazione. Pur essendo disponibile 1 (uno) posto nella sede di precedente servizio (omissis), ha inteso optare, in via prioritaria, per un'assegnazione presso la sede di Viterbo, indicando solo come terza scelta, la sede di (omissis). Pertanto, ne consegue l'inapplicabilità dell'istituto in parola. Si soggiunge che non si procede ai sensi dell'art. 10-bis della L. 241/1990, in quanto nessun nuovo elemento può modificare il quadro situazionale..." 1.2. Avverso il diniego, l'odierno appellante aveva proposto ricorso al TAR, eccependo quale unico motivo di impugnazione "Eccesso di potere per incongruità, illogicità, irragionevolezza, manifesta ingiustizia, eccesso di potere per erronea valutazione e/o travisamento della situazione di fatto, difetto e insufficienza di istruttoria, violazione e falsa applicazione della Direttiva DIPE "P001", edizione 2021 - Procedure per l'impiego del personale militare dell'Esercito e della Direttiva SSMD REG2017 0125294 del 28 agosto 2017 - Pari opportunità, tutela della famiglia e della genitorialità ". Secondo il ricorrente l'Amministrazione avrebbe applicato erroneamente le disposizioni relative ai militari in servizio presso la Forza Armata (prima sottocategoria della sezione Altre Fattispecie ), nonostante la consorte fosse un'appartenente alla Polizia di Stato e non già un militare dell'Esercito italiano, come il ricorrente. Le cause di esclusione riportate nel provvedimento impugnato non sarebbero applicabili al caso di specie. Sosteneva che, anche volendo ritenere applicabili le cause di esclusione, le eccezioni opposte dall'Amministrazione sarebbero comunque infondate, perché il trasferimento presso la Questura di Viterbo della moglie del ricorrente sarebbe conseguenza della prima assegnazione disposta all'esito del concorso cui la medesima ha partecipato e non costituirebbe certo un "reimpiego nell'ambito delle pianificazioni annuali", consistente, al contrario, nel processo di assegnazione (con cadenza annuale e mediante procedura programmata) del personale in servizio ai diversi Enti/Reparti dell'Amministrazione. 1.3. All'esito del giudizio di prime cure il Tar ha respinto la censura, ritenendo che: - sarebbe chiaro che il trasferimento a Viterbo della moglie del ricorrente non è avvenuta d'ufficio, ma su scelta della stessa, in presenza di alternative, nell'ambito di una procedura concorsuale; di talché non può configurarsi un trasferimento d'ufficio, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza; - alla luce della scelta posta in essere in piena volontà e libertà dalla moglie del ricorrente e dettata da ragioni esclusivamente private, l'istituto del ricongiungimento del nucleo familiare non può trovare alcuna giustificazione istituzionale, essendo espressamente previsto nella citata Direttiva DIPE del 2021 che il trasferimento su base volontaria del personale in servizio permanente non può essere disposto se uno dei due coniugi abbia disgregato volontariamente il proprio nucleo familiare, come correttamente rilevato nel provvedimento impugnato; - nella voce "Altre fattispecie", che si distingue da quella delle "Fattispecie inquadrabili nell'art. 17 della legge n. 266 del 1999", rientrano tutte le sottocategorie di cui parla il ricorrente e il paragrafo che sancisce l'esclusione dal trasferimento qualora uno dei due coniugi abbia disgregato volontariamente il nucleo familiare, contenuto nelle premesse della voce "Altre fattispecie", non può che intendersi riferito a tutte le sottocategorie di cui parla il ricorrente. 2. Avverso tale sentenza è stato interposto appello per chiederne la riforma, sostenendo che: - per i militari appartenenti alla stessa Forza Armata, la Direttiva DIPE prevede che il coniuge più alto in grado produca una "richiesta nella quale alleghi la dichiarazione del coniuge contenente l'esplicita volontà della piena disponibilità ad essere impiegato/a "a domanda" su tutto il territorio; - la medesima Direttiva disciplinerebbe, poi, la distinta ipotesi di "militari il cui coniuge (militare) presti servizio in altra Amministrazione del Comparto Difesa (Marina, Aeronautica, Carabinieri)", prevedendo che le relative istanze di ricongiungimento debbano "essere presentate congiuntamente, ai rispettivi organi d'impiego - essendo la consorte dell'appellante Tenente Za. un'ispettrice della Polizia di Stato, e non già un militare dell'Esercito italiano, come il ricorrente, al caso di specie sarebbe applicabile la disciplina dettata dalla terza sottocategoria della sezione "Altre fattispecie", ossia quella riservata alle "istanze di personale il cui coniuge appartenga al Comparto Sicurezza (Forze di Polizia e Corpi Armati dello Stato)", per la quale non opererebbe la causa di esclusione in esame, essendo per il caso del ricorrente semplicemente prescritto il generico bilanciamento, laddove possibile, "delle esigenze istituzionali con quelle del singolo", bilanciamento che l'Amministrazione, eccependo motivazioni ostative applicabili ai militari della stessa forza armata, non avrebbe minimamente operato, rigettando l'istanza di riunione del nucleo familiare presentata dal ricorrente "in quanto la Direttiva del settore per la forza armata esclude l'attuazione di tale istituto "qualora uno dei due coniugi abbia disgregato volontariamente il proprio nucleo familiare fino a quel momento convivente a seguito di un reimpiego nell'ambito delle rispettive pianificazioni annuali ovvero ad istanza di parte"; - la sentenza impugnata sarebbe errata anche con riferimento all'applicazione delle esclusioni contenute nella Direttiva DIPE P-001- con riferimento agli appartenenti alla medesima Forza Armata - all'attuazione dell'istituto della riunione del nucleo familiare; - con riferimento all'assegnazione al reparto all'esito del superamento del concorso interno per Vice Ispettore tecnico della Polizia di Stato, indetto con D.M. 31 dicembre 2019, non sarebbe prevista alcuna istanza di parte ad opera degli interessati, ma la mera indicazione, da parte dei vincitori, di gradimenti, che ben potrebbero essere disattesi dall'Amministrazione che decide autonomamente; - la signora Ma. avrebbe indicato 10 sedi gradite (Viterbo, Bolzano, Trento, Verona, Bologna, Firenze, Roma, Torino, Rimini, Mantova), e sarebbe stata infine destinata d'ufficio - alla Questura di Viterbo, con decorrenza 1° luglio 2021; - la giurisprudenza sarebbe costante nell'affermare che l'assegnazione del militare alla sede di servizio al termine della fase addestrativa non potrebbe qualificarsi come trasferimento "non venendo in rilievo un trasferimento in senso proprio bensì una destinazione alla prima sede di impiego", per cui non può, conseguentemente, ritenersi che la moglie del ricorrente abbia volontariamente disgregato il proprio nucleo familiare, essendo stata, semplicemente, destinata d'ufficio nella sede di Viterbo per effetto del superamento di un concorso interno. 2.1. L'Amministrazione appellata si è costituita con atto del 18.10.2022 e con memoria depositata il 24.10.2022 ha contestato analiticamente la fondatezza dei motivi di appello dedotti e confermato la legittimità della procedura svolta e dei provvedimenti di diniego adottati, sostenendo in particolare: - che la scelta per la sede di Viterbo operata dal Vice Isp. Tecn. Fr. Ma., effettuata volontariamente e consapevolmente, avrebbe comportato quale inevitabile conseguenza che il proprio nucleo familiare, fino a quel momento unito, venisse ora disgregato. Tale effetto disgregativo dell'unità familiare, tuttavia, non sarebbe direttamente connesso ad un trasferimento imposto autoritariamente da parte del Ministero dell'Interno che ha avuto come destinataria il Vice Isp. Tecn. Fr. Ma., ma sarebbe piuttosto il risultato di una sua libera scelta, scelta che dunque non sarebbe dipesa dall'Amministrazione di appartenenza, ma risulterebbe pienamente riconducibile all'esercizio di un "potere discrezionale" dell'interessata, la quale avendo la facoltà di stabilire dove essere destinata, ha optato per una sede lontana da quella in cui prestava servizio il marito Ten. Za.; - che la coniuge del ricorrente non avrebbe subì to alcun trasferimento d'autorità, essendo stata reimpiegata presso la sede di Viterbo su sua libera domanda, creando così lei stessa i presupposti per la richiesta di riunione del marito, per cui il caso all'esame sarebbe da ricondursi necessariamente nella seconda delle due categorie contemplate, ossia quella delle "Altre fattispecie - che di fatto nella voce "Altre fattispecie" (che si distingue da quella delle "Fattispecie inquadrabili nell'art. 17 della legge n. 266 del 1999") rientrerebbero tutte le ipotesi di cui parla l'Ufficiale, tuttavia il paragrafo in esame, nel sancire, nella parte introduttiva della voce "Altre fattispecie", l'esclusione dell'istituto della ricongiunzione in presenza di volontaria disgregazione del nucleo familiare, codificherebbe un "...principio generale di esclusione dell'istituto, riferito, per identità di ratio del fatto escludente, a tutte le cd. "sottocategorie". 2.2. Con ordinanza collegiale n. 5251/2022. del 7.11.2022 è stato ordinato all'Amministrazione (senza poter opporre la clausola escludente riferita all'avvenuto "reimpiego nell'ambito delle rispettive Pianificazioni Annuali ovvero ad istanza di parte", la cui applicabilità al caso di specie appare dubbia, meritando di essere approfondita nella pertinente sede di merito), il riesame dell'istanza presentata dall'odierno appellante "non prevedendo la direttiva per le procedure di impiego del personale militare dell'Esercito P-001 del 2021 cit. un diritto al ricongiungimento familiare del "personale il cui coniuge appartenga al Comparto Sicurezza (Forze di Polizia e Corpi Armati dello Stato)", ma soltanto la necessità, per l'Amministrazione della Difesa, di valutare in tali ipotesi le relative istanze "cercando di bilanciare, qualora possibile, le esigenze istituzionali con quelle del singolo", non è possibile nella presente sede accertare la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente (al ricongiungimento familiare), occorrendo che provveda alla relativa valutazione il Ministero intimato in sede amministrativa". 2.3. L'Amministrazione ha depositato in data 23.11.2022 il provvedimento n. M_D AB62BE8 REG2022 0158559 del 17 novembre 2022, notificato il 21 novembre 2022, con il quale il Dipartimento impiego del personale dello Stato Maggiore dell'Esercito, in esecuzione dell'ordinanza del Consiglio di Stato n. 5251/2022, ha riesaminato negativamente la posizione del ricorrente, rilevando "l'esclusione dell'istituto del ricongiungimento familiare a causa della volontaria disgregazione del nucleo familiare posta in essere da parte della coniuge del Ten. Za.". 2.4. L'appellante Za. ha proposto motivi aggiunti contro tale decisione, sostenendo, con il primo motivo aggiunto (rubricato: Eccesso di potere per incongruità, illogicità, irragionevolezza, manifesta ingiustizia, eccesso di potere per erronea valutazione e/o travisamento della situazione di fatto, difetto e insufficienza di istruttoria, violazione e falsa applicazione della Direttiva DIPE "P001", edizione 2021 - Procedure per l'impiego del personale militare dell'Esercito e della Direttiva SSMD REG2017 0125294 del 28 agosto 2017 - Pari opportunità, tutela della famiglia e della genitorialità ....); - che l'amministrazione avrebbe dimostrato di aver applicato erroneamente alla richiesta del ricorrente le disposizioni relative ai militari in servizio presso la stessa Forza Armata (prima sottocategoria della sezione "Altre fattispecie" della direttiva P-001 "Procedure per l'impiego del personale militare dell'esercito" - edizione 2021), nonostante la consorte del Sottotenente Za. fosse un'appartenente alla Polizia di Stato, e non già un militare dell'Esercito italiano, come il ricorrente; - che il trasferimento presso la Questura di Viterbo del Vice Ispettore Ma., diversamente da quanto si legge dal provvedimento di riesame sarebbe conseguenza della prima assegnazione disposta all'esito del concorso cui la medesima ha partecipato e non costituirebbe un "reimpiego nell'ambito delle pianificazioni annuali", consistente, al contrario, nel processo di assegnazione (con cadenza annuale e mediante procedura programmata) del personale in servizio ai diversi Enti/Reparti dell'Amministrazione. Con ulteriore motivo di impugnazione (rubricato: Violazione del principio conformativo discendente dalla ordinanza cautelare del Consiglio di Stato n. 5251/2022), sosteneva: - che il Consiglio di Stato, al riguardo, con sentenza Sez. V n. 833/2007, avrebbe precisato che "le misure cautelari propulsive consistono nell'ordine, rivolto all'amministrazione, di esercitare nuovamente una determinata potestà, onde pervenire all'adozione di un atto, emendato dai vizi riscontrati in sede di cognizione giurisdizionale; il c.d. remand (così è anche denominata la figura delle ordinanze propulsive) instaura dunque un dia tra la giurisdizione e l'amministrazione, mirante ad orientare l'attività discrezionale della seconda nella direzione, ritenuta giuridicamente ortodossa, suggerita dalla prima"; - che ne discenderebbe che, in sede di riesame, l'Amministrazione non avrebbe potuto far ricorso all'eccepita disgregazione, già riportata nel primo diniego e nuovamente posta a fondamento del recente riesame. 2.5. In vista dell'udienza di discussione, l'Amministrazione appellata ha depositato memoria difensiva e memoria di replica. Alla pubblica udienza del 16.03.2022 la causa è stata trattenuta in decisione. 3. L'appello è fondato. Il Collegio è dell'avviso che non può essere condivisa la decisione del TRGA di Bolzano n. 136/2022 qui appellata e che non sono condivisibili le argomentazioni giuridiche dedotte dall'Amministrazione appellata a sostegno del provvedimento adottato nel caso concreto, per i seguenti motivi. 3.1. Come correttamente affermato dall'appellante, nel caso concreto - ove per la consorte dell'appellante all'esito di un concorso interno è stata disposta l'assegnazione alla Questura di Viterbo - non si può parlare di disgregazione volontaria della famiglia, in quanto l'assegnazione è stata disposta dal Ministero degli interni in seguito ad una graduatoria di merito e alla conclusione positiva di un percorso formativo consistente nella frequentazione del II Corso di formazione tecnico professionale per la nomina a vice -ispettore tecnico della Polizia di Stato. 3.2. Infatti, come emerge dalla documentazione depositata dalle parti, nel caso concreto il bando aveva previsto la copertura di 400 posti per diverse qualifiche funzionali presso diverse Province del territorio nazionale, per cui non si trattava di un concorso per la copertura di una unica sede di trasferimento conosciuta dal concorrente sin dal bando del concorso, nè un "reimpiego nell'ambito delle pianificazioni annuali". 3.3. In particolare, nel caso della sig.ra Ma., la quale aveva partecipato al concorso interno per il profilo professionale di infermiere - vice ispettore tecnico infermiere - era prevista la copertura di una o più sedi in ogni Provincia ed i concorrenti potevano indicare, entro il 9 gennaio 2021, solamente 10 province preferite, senza possibilità, quindi, di scelta volontaria del posto bandito, in quanto l'assegnazione avveniva giusta la circolare del Ministero degli Interni n. 0025775 del 29 dicembre 2020; quest'ultima circolare, che rendeva note le sedi disponibili, recita tra l'altro che "ogni interessato, compatibilmente con il numero di posti messi a concorso e nei limiti delle vacanze effettivamente rese disponibili in relazione ai settori e, dove specificato, ai profili professionali individuati nel predetto bando di concorso dovrà indicare 10 province: l'assegnazione del dipendente alla provincia opererà secondo l'ordine di graduatoria del concorso, mentre l'abbinamento all'Ufficio sarà definito dall'Amministrazione tenendo conto dell'Ufficio di provenienza dell'interessato, delle competenze acquisite nel settore per cui si concorre e della necessità di assicurare, in ogni caso, un'equilibrata e funzionale distribuzione della forza tra tutti i circuiti tecnici interessati" (cfr. allegato 7 della parte appellante depositato il 10.10.2022). Da una attenta lettura della circolare n. 0025775 del 29 dicembre 2020 emerge, quindi, che non è prevista una istanza di parte in senso proprio ad opera degli interessati, ma la mera indicazione, da parte di costoro, di gradimenti o priorità, che ben potrebbero essere disattesi dall'Amministrazione che, sulla base dei criteri indicati nella circolare, decide autonomamente ove assegnare il proprio personale. 3.4. Pertanto, ad avviso del Collegio, il "trasferimento" presso la Questura di Viterbo diversamente da quanto si legge dal provvedimento di diniego e di riesame, è da considerare come conseguenza della prima assegnazione disposta all'esito del concorso cui la sig.ra Ma. ha partecipato. Tale assegnazione non può nemmeno rientrare nel novero di un "reimpiego nell'ambito delle pianificazioni annuali", consistente, al contrario, nel processo di assegnazione (con cadenza annuale e mediante procedura programmata) del personale in servizio ai diversi Enti/Reparti dell'Amministrazione. La causa efficiente, immediata e diretta dell'assegnazione della nuova sede non era una domanda di trasferimento in senso proprio presentata dalla sig.ra Ma., bensì il concorso bandito dal Ministero che prevedeva, per i vincitori la frequentazione di un corso di formazione, ossia la procedura di avanzamento, indetta dall'Amministrazione. 3.5. L'indicazione del gradimento nel caso concreto non si configura, pertanto, come un'istanza di parte e tantomeno come una scelta posta in essere in piena volontà e libertà dalla moglie del ricorrente e non comporta alcun obbligo per l'Amministrazione, la quale, all'esito del concorso interno e dello svolgimento di un percorso formativo consistente nella frequentazione del II Corso di formazione tecnico professionale per la nomina a vice -ispettore tecnico della Polizia di Stato, ha deciso d'ufficio ove destinare la dipendente. Infatti, anche dal testo del telex n. 5005 del Ministero degli interni del 8.3.2021 non risulta che l'assegnazione fosse avvenuta su richiesta della sig.ra Ma.; il telex a tale proposito recita testualmente: "a conclusione del citato percorso formativo il dipendente è nominato vice ispettore tecnico della Polizia di Stato, a decorrere dal 12 giugno 2021 è assegnato presso la questura di Viterbo". Anche il telex n. 8641 del 10.06.2021 non parla di un trasferimento su richiesta, ma "dispone che la dipendente, a conclusione favorevole del citato percorso formativo, sia trasferita, a decorrere dal 1 luglio 2021 dal Centro addestramento Alpino di (omissis) alla Questura di Viterbo". In tale ottica si presta anche quanto statuito nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. II, 4 maggio 2020, n. 2832, secondo la quale "è qualificabile d'ufficio il trasferimento diretto a soddisfare in via primaria l'interesse pubblico, da ritenersi prioritario nei casi di assegnazione di funzioni superiori o spiccatamente diverse o di maggiore responsabilità rispetto a quelle precedentemente ricoperte, senza che rilevino le eventuali dichiarazioni di assenso o di disponibilità dell'interessato". 3.5. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). 3.6. Concludendo, l'appello ed i motivi aggiunti vanno, in definitiva, accolti e, in riforma della sentenza impugnata, va accolto integralmente il ricorso di primo grado, annullando il diniego. 3.7. Sussistono buone ragioni, legate alla particolarità della vicenda e alla complessità di talune delle questioni trattate, per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello e sui motivi aggiunti come in epigrafe proposti, li accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie integralmente il ricorso di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2023 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Ulrike Lobis - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ANCONA Riunita in camera di consiglio e composta dai Magistrati: Dott. Gianmichele Marcelli - Presidente Dott. Pier Giorgio Palestini - Consigliere relatore Dott. Cesare Marziali - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello iscritta al n. 373/2023RG vertente tra Ab.Hu. rappresentato e difeso dall'avv. Da.Va.; -parte ricorrente in riassunzione e MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro in carica e QUESTURA DELLAPROVINCIA DI MACERATA, in persona del Questore p.t. rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona; -parte appellata FATTO E DIRITTO 1. La presente motivazione, depositata con modalità telematica, è redatta in maniera sintetica secondo quanto previsto dall'art. 132 c.p.c., dall'art. 118 disp. att. c.p.c. e dall'art. 19 del D.L. n. 83 del 2015 convertito con L. n. 132 del 2015 che modifica il D.L. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 17 dicembre 2012 nonché in osservanza dei criteri di funzionalità, flessibilità, deformalizzazione dell'impianto decisorio della sentenza come delineati da Cass. SU n. 642/2015. 2. Il presente giudizio di rinvio costituisce autonoma fase processuale originata da Cass. n. 3279/2023: "1. Con sentenza n. 58/2020 pubblicata il 22-01-2020 la Corte d'appello di Ancona ha respinto l'appello proposto da Ab.Hu., cittadino del Marocco, avverso l'ordinanza del Tribunale di Ancona che aveva rigettato la sua domanda avente ad oggetto il riconoscimento del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, negato con Provv. del 30 giugno 2017 dalla Questura di Macerata. Il giudice d'appello ha rilevato che, avendo il Comune di Recanati, con Provv. del 4 luglio 2016, dichiarato il fratello del ricorrente, H.R., cittadino italiano, decaduto dall'assegnazione dell'alloggio popolare sito in (Omissis), non poteva ritenersi integrato in capo al ricorrente il requisito del possesso dell'alloggio legittimante il rinnovo del permesso di soggiorno, a nulla rilevando che di fatto la famiglia aveva continuato a risiedere, evidentemente in modo abusivo, nell'unità abitativa di edilizia popolare 2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell'Interno, che si è costituito tardivamente, al solo fine dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione. 3. Con ordinanza interlocutoria n. 11778/2022 della Sesta Sezione civile di questa Corte la causa è stata rimessa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile. 4. Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica è stato applicato lo speciale rito "cartolare" previsto dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 e prorogato a tutto il 2022 dal D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15. La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso. Diritto RAGIONI DELLA DECISIONE 1. I motivi di ricorso sono così rubricati:"I. Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3: Violazione o falsa applicazione degli art. 30 (Permesso di soggiorno per motivi familiari) e 22, comma 3, (Lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286); II.Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5: Omesso esame e valutazione della circostanza che l'E.r.a.p. Marche richiede il pagamento del canone di locazione al fratello del ricorrente; III. Nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4: Violazione dell'art. 112 c.p.c. - Omessa pronuncia sui motivi di appello indicati nell'atto di citazione di appello ai nn. 2, 3, 4, 5 in parte qua e 6; IV. Nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4: Violazione dell'art. 132 c.p.c. per illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte di Appello di Ancona motiva in ordine alla violazione dellaL. n. 241 del 1990, art. 10 bis". Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 30 e 22 sul rilievo che la prima norma non indica l'alloggio come requisito necessario per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di famiglia, mentre la seconda norma è del tutto estranea alla fattispecie di cui è causa, concernendo la documentazione che deve produrre il datore di lavoro ove non abbia diretta conoscenza dello straniero residente all'estero; il ricorrente rileva, altresì, di poter reperire, insieme al fratello convivente, altra abitazione, nell'ipotesi in cui l'Istituto Autonomo delle Case Popolari dovesse interrompere il rapporto di locazione avente ad oggetto l'alloggio all'attualità occupato da entrambi. Con il secondo motivo denuncia l'omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere la Corte d'Appello considerato che l'ente locatore, in quattro anni, non aveva mai dato esecuzione al provvedimento di revoca dell'assegnazione dell'alloggio ed aveva continuato a richiedere al fratello del ricorrente il pagamento dei canoni di locazione. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sui motivi di appello, indicati nell'atto di citazione in appello ai nn. 2, 3, 4, 5 e, in parte qua. 6. Con il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 132 c.p.c. per illogicità della motivazione, nella parte cui la Corte di Appello ha ritenuto insussistente la dedotta violazione della L. n. 214 del 1990, artt. 10 e 10 bis. 2. Il primo motivo è fondato. 2.1. Occorre premettere che si controverte in tema di domanda di permesso di soggiorno per motivi familiari del cittadino straniero fratello di un soggetto di nazionalità italiana e la fattispecie è disciplinata dal combinato disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c), che prevede l'inespellibilità degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana, e D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, comma 1 lett. b), (regolamento di attuazione del Testo Unico dell'Immigrazione), disponendo quest'ultima norma che "Quando la legge dispone il divieto di espulsione, il questore rilascia il permesso di soggiorno per motivi familiari nei confronti degli stranieri che si trovano nelle documentate circostanze di cui all'art. 19, comma 2, lett. c), del testo unico". 2.2. La Corte d'Appello, nel proprio percorso argomentativo, non ha messo in dubbio che il ricorrente conviva effettivamente con il fratello, ma ha valutato come elemento imprescindibile per il rilascio del rinnovo del permesso di soggiorno la sussistenza del requisito del possesso legittimo di un alloggio da parte del richiedente o del suo familiare convivente, ritenendo irrilevante che di fatto la famiglia, costituita dal ricorrente e da suo fratello, avesse continuato a risiedere nell'unità abitativa di edilizia popolare dopo la revoca dell'assegnazione di detto alloggio e, quindi, senza un formale e legittimo titolo giustificativo. Posto che l'oggetto della dimostrazione "documentata" che il richiedente deve dare, in base alla citata norma, è la convivenza con il cittadino italiano a cui il primo sia legato da parentela entro il secondo grado (o da coniugio), con la citata ordinanza interlocutoria è stata evidenziata la questione, in diritto, che si pone nel caso di specie, dovendosi, in particolare, stabilire quale connotazione debba avere la suddetta convivenza, e cioè se debba essere una convivenza connotata anche dal requisito di una disponibilità "titolata" di un alloggio, come ritenuto dalla Corte d'Appello di Ancona, oppure se sia sufficiente il dato fattuale dell'effettività della convivenza, intesa quale stabile coabitazione e comunanza di vita. Va, altresì, precisato, come rilevato dalla Procura Generale, che il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, art. 30 (permesso di soggiorno per motivi familiari) e art. 22, comma 3, (lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato) a cui impropriamente anche la Corte d'appello ha fatto riferimento, ma dette norme non sono applicabili nella specie, in quanto il fratello non è contemplato tra i "familiari" per i quali è possibile il ricongiungimento (solo il coniuge, i figli maggiorenni e i genitori a carico). Ciò nondimeno, in base al contenuto della censura che si evince chiaramente dall'illustrazione della stessa e dalle ragioni, anche di fatto, esposte nel motivo che si sta scrutinando, la doglianza investe l'intero percorso argomentativo della Corte di merito, che, nella premessa, ha anche richiamato il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c) e D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, comma 1, lett. b) della cui violazione sostanzialmente l'odierno ricorrente si duole. 2.3.Tanto premesso, come si è detto, la Corte d'Appello, nel valutare imprescindibili il possesso o la disponibilità "titolati" e formali di un alloggio da parte del richiedente o del parente di secondo grado convivente, ha ritenuto che fosse necessario quel requisito ulteriore che non solo non è previsto dalle norme sopra citate del Testo Unico dell'Immigrazione e del suo regolamento di attuazione, ma neppure è desumibile per implicito dal combinato disposto delle norme sopra citate. Come condivisibilmente osservato dalla Procura Generale, la ratio delle norme è quella di introdurre un regime di favore per coloro che hanno uno stretto vincolo parentale con soggetti di nazionalità italiana, sul presupposto, implicito ma logicamente correlato alla suddetta ratio, che essi vogliano e possano supportare il congiunto, fornendogli l'aiuto materiale e morale necessario, anche ai fini di un eventuale futuro suo inserimento nel Paese di accoglienza, e ciò in virtù del lorolegame affettivo. A fronte del tenore letterale, pur scarno e minimale, delle disposizioni sopra citate, non è consentita, pena la violazione di quella ratio, un'interpretazione estensiva sistematica o per analogia, ad esempio rispetto al diverso strumento del ricongiungimento familiare, che conduca al risultato di "aggiungere" connotazioni ulteriori non previste dal legislatore, oltretutto nella delicata materia che riguarda lo status delle persone e che, perciò, non tollera esegesi penalizzanti, quale è quella effettuata dalla Corte territoriale. In quest'ottica, l'indagine fattuale dovrà svolgersi, piuttosto, accertando, in concreto e secondo le peculiarità del singolo caso, l'effettività della convivenza nel senso precisato, ossia in ragione della stabile coabitazione accompagnata da una comunanza di vita, secondo l'ordinario atteggiarsi delle relazioni familiari. 3. In conclusione, il primo motivo merita accoglimento, restando assorbiti gli altri, la sentenza impugnata va cassata, nei limiti del motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Ancona, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:" In tema di domanda di permesso di soggiorno per motivi familiari del cittadino straniero convivente con parenti entro il secondo grado o con coniuge di nazionalità italiana ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c), e D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, comma 1, lett. b), il giudice di merito è tenuto ad accertare solo l'effettività della convivenza, intesa quale stabile coabitazione accompagnata da una comunanza di vita, secondo l'ordinario atteggiarsi delle relazioni familiari, non essendo consentita un'esegesi che introduca connotazioni ulteriori non previste dal legislatore, come è quella della disponibilità "titolata" di un alloggio, in contrasto con la "ratio" del regime di favore dettato dalle citate norme". Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d'appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità. 3.Sulla natura e sulla disciplina del giudizio di rinvio va precisato quanto segue: - "il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito (giudizio di rinvio proprio).... integra.... una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente) ed è funzionale all'emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcunaprecedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti" (Cass. n. 24372/2022); - "(...) i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la decisione di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l'una e per l'altra ragione (cfr. Cass. n. 12817 del 2014; Cass. n. 27337 del 2019), come, sostanzialmente avvenuto nel caso che ci occupa. Nella prima ipotesi, il giudice è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla pronuncia della Cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo (cfr. Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5769 del 1999; Cass. n. 188 del 1994; Cass. n. 3572 del 1987; Cass. n. 27337 del 2019, in motivazione); nella seconda, invece, egli non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente (cfr. Cass., SU, n. 18303 del 2020; Cass. n. 31901 del 2018); nella terza ipotesi, infine, la potestas iudicandi del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell'applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (cfr. Cass. n. 6707 del 2004; Cass. n. 22989 del 2018; Cass. n. 27337 del 2019).Inoltre, come ancora ribadito da Cass. n. 11202 del 2018 (cfr. in motivazione), il giudice di rinvio non può - anche soltanto implicitamente rimettere in discussione gli enunciati contenuti nella sentenza di cassazione o quelli che ne costituiscono il necessario presupposto (cfr., ex aliis, Cass. n. 16171 del 2015). In altri termini, il giudizio di rinvio deve svolgersi entro i limiti segnati dalla sentenza di annullamento e non si può estendere a questioni che, pur non esaminate specificamente, in quanto non poste dalle parti o non rilevate d'ufficio, costituiscono il presupposto logico - giuridico della sentenza stessa, formando oggetto di giudicato implicito ed interno, poiché il loro riesame verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto col principio della loro intangibilità (cfr. Cass. n.7656 del 2011, nonché, in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 636 del 2019). Ciò perché il giudizio di rinvio è un "processo chiuso", in cui le parti non possono avanzare richieste diverse da quelle già prese né formulare difese, che, per la loro novità, alterino completamente il tema di decisione o evidenzino un fatto ex lege ostativo all'accoglimento dell'avversa pretesa, la cui affermazione sia in contrasto con il giudicato implicito ed interno, così da porre nel nulla gli effetti intangibili della sentenza di cassazione ed il principio di diritto che in essa viene enunciato non in via astratta ma agli effetti della decisione finale (cfr. Cass. n. 26200 del 2014; Cass. n. 18600 del 2015. In senso sostanzialmente conforme si veda anche la più recente Cass. n. 5137 del 2019)". ( Cass. n. 392/2021). 4. In applicazione degli enunciati principi la Corte deve riesaminare la domanda verificando l'effettività della convivenza nel senso precisato in ragione della stabile coabitazione accompagnata da una comunanza di vita, secondo l'ordinario atteggiarsi delle relazioni familiari indipendentemente dalla disponibilità titolata di un alloggio. La valutazione va fatta tenendo conto della situazione di fatto esistente al momento della domanda quando il diritto è stato esercitato e dunque sono irrilevanti nel presente giudizio i fatti sopravvenuti come la cessazione della convivenza. La presente decisione, in altri termini, costituisce accertamento temporalmente limitato al momento dell'impugnazione del provvedimento di diniego e va a scrutinare l'esistenza dei presupposti per l'esercizio del diritto al rilascio del permesso di soggiorno solo con riferimento a quel momento. I fatti sopravvenuti, come ad es. la cessazione della convivenza, potranno formare oggetto di nuova valutazione in sede amministrativa siccome non coperti dal giudicato derivante dal presente procedimento. In tal modo l'accertamento della sopravvenuta cessazione della convivenza potrà comportare la perdita del diritto al permesso de quo. 5. Tanto premesso rileva il Collegio che l'esistenza del requisito della convivenza (al momento della domanda giudiziale) risulta già accertato in appello così come indicato anche dalla Cassazione nella pronuncia all'origine del presente giudizio di rinvio: "La Corte d'Appello, nel proprio percorso argomentativo, non ha messo in dubbio che il ricorrente conviva effettivamente con il fratello". Pertanto sull'accertamento della convivenza da parte della Corte di Appello è sceso il giudicato ed il fatto, nel presente giudizio di rinvio, deve ritenersi come già definitivamente acclarato. D'altra parte è documentato in atti che il 22.08.2017 il ricorrente Ab.Hu. era rintracciato dalla Polizia Locale nell'immobile in via C. dei F. n. 2 insieme al fratello Hu.Ro. cittadino italiano. Di talché il presupposto della "convivenza" appare anche documentalmente riscontrato nei richiamati limiti temporali del presente accertamento. 6.In definitiva l'opposizione va accolta e, disatteso ogni contrario provvedimento, va disposto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari oggetto di causa, precisando che l'accertamento della Corte è limitato alla sussistenza dei presupposti al momento dell'opposizione e dunque resta salva la possibilità di revoca in caso di venir meno dei presupposti legittimanti per fatti successivi alla instaurazione del presente giudizio. Le spese di lite dell'intero giudizio sono interamente compensate in ragione dell'ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato. P.Q.M. LA CORTE DI APPELLO DI ANCONA definitivamente pronunziando, ogni ulteriore o difforme istanza assorbita o disattesa, così provvede: 1 - in accoglimento dell'opposizione dispone il rilascio, a favore di Ab.Hu., del permesso di soggiorno per motivi di famiglia oggetto di giudizio; 2 - spese interamente compensate. Così deciso in Ancona 12 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 4 gennaio 2024.

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