Sto cercando nella banca dati...
Risultati di ricerca:
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto LUCIA TRIA - Presidente - Pubblico impiego- Retribuzione CATERINA MAROTTA - Consigliere - IRENE TRICOMI - Consigliere - Ud. 02/07/2024 - PU ROBERTO BELLE’ - Consigliere - R.G.N. 20113/2023 DARIO CAVALLARI - Cons. Rel. - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 20113/2023 proposto da: ASL Avellino, in persona del legale rappresentante p.t., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione e rappresentata e difesa dagli Avv.ti Marco Mariano, Marcello Abbondandolo e Mariagiusy Guarente; -ricorrente- contro Antonio Viscio, Fabrizio Iorizzi, Emilio Palmisano e Maria Patrizia Tedesco, elettivamente domiciliati in Roma, via Galati Giuseppe Vito 100/C, presso l’Avv. Enzo Giardiello, rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Barrasso; -controricorrenti- avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO DI NAPOLI, n. 1360/2023, pubblicata l’11 aprile 2023. udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2 luglio 2024 dal Consigliere DARIO CAVALLARI; udite le conclusioni del P.M. in persona dell’Avvocato generale Rita Sanlorenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi l’Avv. Marco Mariano, per la parte ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso, e l’Avv. Giuseppe Barrasso, per i controricorrenti, che ne hanno domandato il rigetto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con distinti ricorsi depositati presso il Tribunale di Benevento e poi riuniti Antonio Viscio, Emilio Palmisano, Maria Patrizia Tedesco e Fabrizio Iorizzi hanno convenuto l’ASL Avellino davanti al Tribunale di Benevento, esponendo che: erano dirigenti medici di I livello in servizio presso l’ASL Avellino; durante lo svolgimento del rapporto lavorativo, contrariamente a quanto accadeva per i giorni di presenza in servizio, della durata di 6 ore e 20 minuti, i giorni di assenza peer ferie, malattia, festività, permessi e assenze similari erano calcolati nella misura di 6 ore al giorno; in questo modo, vi era stato un calcolo errato del c.d. debito orario, con conseguente svolgimento di un orario di lavoro supplementare non dovuto (di 20 minuti per ogni giorno di assenza dal lavoro). I ricorrenti hanno chiesto, quindi, di accertare e dichiarare illegittimo ed errato il sistema di calcolo adottato dall’ASL Avellino per determinare il c.d. debito orario assolto a seguito di assenze per ferie, malattie, festività, permessi e altre assenze similari nei periodi da loro indicati e di condannare l’ASL Avellino a corrispondere le differenze retributive. Il Tribunale di Benevento, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1301/2020, ha accolto i ricorsi. L’ASL Avellino ha proposto appello che la Corte d’appello di Napoli, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1360/2023, ha rigettato. L’ASL Avellino ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo. Gli intimati si sono difesi con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Con un unico motivo l’ASL Avellino lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 24, comma 3, e 27 d.lgs. n. 165 del 2001 e 14 del CCNL della dirigenza medica del 3 novembre 2005 in quanto nel pubblico impiego sarebbe stato vigente il principio di omnicomprensività della retribuzione dei dirigenti pubblici. Essa osserva che per i dirigenti medici non vi sarebbe stato un orario fisso su base settimanale in quanto l’organizzazione del loro lavoro imponeva che i loro compiti fossero espletati, per ragioni di organizzazione aziendale, attraverso un sistema di turnazione che non sempre consentiva di effettuare, in maniera sistematica, le 38 ore settimanali. I controricorrenti avrebbero espletato l’esatto orario complessivo di lavoro per il quale erano stati retribuiti e non sarebbe stato dimostrato che essi avessero dovuto recuperare orari non dovuti. La P.A. ricorrente rappresenta, altresì, che ai dirigenti in questione non avrebbe potuto essere riconosciuto alcun orario eccedente nell’esecuzione della prestazione lavorativa, come si sarebbe potuto ricavare dall’art. 65 del CCNL 5 dicembre 1996. In ogni caso, essi sarebbero stati pagati sempre sulla base di 38 ore settimanali e non avrebbero mai avuto diritto a prestare la loro opera per 6 ore e 20 minuti. Ciò che avrebbe dovuto essere chiaro è che il sistema di rilevazione delle presenze non sarebbe stato collegato a quello economico-retributivo e che l’indicazione di 6 ore o 6 ore e 20 minuti per la giornata di assenza o presenza avrebbe rappresentato un dato puramente formale. L’ASL Avellino evidenzia, quindi, che avrebbero dovuto essere gli attuali controricorrenti a dimostrare di avere posto le loro energie lavorative a disposizione dell’ASL per un numero di ore superiore a quello retribuito per previsione del contratto collettivo. L’eventuale svolgimento di più ore lavorative non avrebbe potuto comportare, comunque, una maggiore retribuzione, ma, al limite, un credito orario da utilizzare con riposi compensativi. 2) La doglianza merita accoglimento. 2.1) La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte. 2.2) Secondo i medici, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché, altrimenti, si crea un indebito aumento della prestazione lavorativa, mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza. 2.3) Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in un indebito aumento della prestazione lavorativa, da retribuire in termini di differenze retributive). 2.4) Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa vi è, ormai, il giudicato interno, come si evince dalla sentenza di appello. Gli stessi controricorrenti riferiscono, peraltro, che la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento e «a decorrere dal mese di marzo 2019, il c.d. debito orario (…) è sempre stato correttamente indicato e calcolato». Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l’orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti». 2.5) Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali. 2.6) Il giudice di appello ha ritenuto che la richiesta di condanna dell’ASL Avellino a pagare differenze retributive andasse accolta perché si sarebbe determinato un indebito aumento della prestazione lavorativa del sanitario turnista. 2.7) Questo approdo non può essere condiviso per le ragioni che seguono. 3) Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria - parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 - determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l’eventuale superamento dell’orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato». Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell’incarico affidatogli. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario. 3.1) In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012). 3.2) Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia. Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l’orario di lavoro e l’orario notturno nonché l’art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 - 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica). L’art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall’art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l’impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all’espletamento dell’incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che: (i) «i volumi prestazionali richiesti all’equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell’art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell’assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»; (ii) «l’impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l’orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell’art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L’orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all’incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l’azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all’art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l’equipe interessata l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell’art. 4, comma 2, lett. G)». 3.3) L’interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l’attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. Soprattutto, dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)». Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale. 3.4) Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a un indebito aumento della prestazione lavorativa discende, come logica conseguenza, l’irrilevanza delle allegazioni dei medici. 3.5) Nella specie, i dirigenti medici, che non è revocato in dubbio abbiano assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostengono di essere stati costretti, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze. Quindi, il problema non è il superamento delle 38 ore, ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc. Ed allora la stessa prospettazione della domanda originaria, come intesa a ottenere l’esatto adempimento, è infondata, solo che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta. Il problema potrebbe spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione dei medici - intesa come insieme di debito orario e di risultati – che, dunque, potevano riposare e non lo hanno fatto, perché la ASL ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l. 3.6) Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta. Nella prospettazione dei dirigenti medici non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto - come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico-fisica legate a tempi prolungati della prestazione - che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi. 3.7) Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri dei medici o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, 10 rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in ordine ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale dei dipendenti, in violazione dell’art. 2087 c.c., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35). Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero, in ogni caso, dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (Cass. n. 7921/2017, cit.). 4) Il ricorso è accolto. La sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa è decisa nel merito ex art. 384, comma 2, c.p.c. con il rigetto delle domande originarie dei lavoratori di condanna dell’ASL Avellino a pagare le differenze retributive, in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo 11 risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici». 5) Per la novità e peculiarità della questione, oggetto, peraltro, di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, si stima equo compensare interamente le spese dell’intero processo. P.Q.M. La Corte, - accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande originarie dei lavoratori di condanna dell’ASL Avellino a pagare le differenze retributive; - compensa le spese di lite dell’intero processo. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 2 luglio 2024. L’estensore Il Presidente Dario Cavallari Lucia Tria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto LUCIA TRIA - Presidente - Pubblico impiego- Retribuzione CATERINA MAROTTA - Consigliere - IRENE TRICOMI - Consigliere - Ud. 02/07/2024 - PU ROBERTO BELLE’ - Consigliere - R.G.N. 19175/2023 DARIO CAVALLARI - Cons. Rel. - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 19175/2023 proposto da: Antonio Panico, elettivamente domiciliato in Roma, via Galati Giuseppe Vito 100/C, presso l’Avv. Enzo Giardiello, rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Barrasso; -ricorrente- contro ASL Avellino, in persona del legale rappresentante p.t., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione e rappresentata e difesa dagli Avv.ti Marco Mariano, Marcello Abbondandolo e Mariagiusy Guarente; -controricorrente- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI NAPOLI, n. 1405/2023, pubblicata l’11 aprile 2023. udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2 luglio 2024 dal Consigliere DARIO CAVALLARI; lette e udite le conclusioni del P.M., in persona dell’Avvocato generale Rita Sanlorenzo, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso; uditi l’Avv. Giuseppe Barrasso, per la ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso, e l’Avv. Marco Mariano, per parte controricorrente, che ne ha domandato il rigetto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Antonio Panico, con ricorso depositato il 13 gennaio 2020, ha convenuto l’ASL Avellino davanti al Tribunale di Benevento, esponendo che: era dirigente medico di I livello in servizio presso l’ASL Avellino; la CGIL aveva più volte posto il problema del calcolo del c.d. debito orario e dell’orario di lavoro per la dirigenza medica turnista, ossia quella che effettuava orario settimanale su 6 giorni lavorativi, per un ammontare di 6 ore e 20 minuti giornalieri (c.d. debito orario contrattuale); se il turno di lavoro era di 6 ore e 20 minuti al giorno, anche le assenze per ferie, malattia, festività, permessi e assenze similari avrebbero dovuto essere computati su tale periodo di tempo; in realtà, l’ASL Avellino le aveva computate su un lasso di 6 ore al giorno; in questo modo, sarebbe stato creato pure un indebito aumento dell’orario di lavoro, in quanto il debito orario era incrementato di 20 minuti per il recupero di ogni legittima assenza. Il ricorrente ha chiesto, quindi, la condanna dell’ASL Avellino a corrispondere la somma di € 5.151,99 a titolo di differenze retributive, dopo avere dichiarato illegittimo il sistema di calcolo adottato dall’ASL Avellino per determinare il debito orario assolto a seguito di assenze per ferie, malattie, festività, permessi e altre assenze similari nel periodo dal 1° gennaio 2013 al 31 luglio 2018. Il Tribunale di Benevento, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 523/2021, ha accolto il ricorso in parte, rigettandolo in ordine alla richiesta di pagamento dell’importo richiesto, sul presupposto che il ricorrente fosse stato comunque retribuito. Antonio Panico ha proposto appello che la Corte d’appello di Napoli, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1405/2023, ha rigettato. Antonio Panico ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. L’ASL Avellino si è difesa con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Con un unico articolato motivo, preceduto da “richiesta preliminare” (così definita a p. 12 del ricorso per cassazione) di declaratoria dell’intervenuto giudicato sull’illegittimità del sistema di calcolo adottato dall’ASL Avellino, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., in riferimento all’art. 14 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 3.11.2005, agli artt. 21, 23 e 24 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 5.12.1996 e all’art. 14 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 10.02.2004, nonché in relazione all’art. 36 della Cost. Lamenta, inoltre, la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., nonché l’omessa pronuncia sulle prove documentali presentate e, ancora, la contraddittorietà, illogicità e carenza di motivazione della sentenza della Corte territoriale; si duole, infine, della violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., in relazione al principio di non contestazione, e dell’omessa valutazione e pronuncia in riferimento al quantum dovuto. In sintesi, il ricorrente sostiene, principalmente, che la Corte d’appello avrebbe adottato un’opzione interpretativa errata, che si sarebbe tradotta in una implicita abrogazione dell’art. 14, comma 2, del c.c.n.l. 3.11.2005 della Dirigenza Medica. Questo perché l’indicazione dell’orario assolto di diritto (per ferie, festività, permessi, ecc.) in misura di 6 ore e non di ore 6 e 20 minuti «non è un fatto solo formale», in quanto «la distorta e illegittima composizione del debito assolto nell’ambito del monte ore contrattualmente dovuto determina un indebito aumento della prestazione lavorativa (i venti minuti tagliati per i giorni di assenza vengono caricati sui turni di lavoro effettivo per giungere sempre a 38 ore settimanali)» (p. 21 ricorso per cassazione) e, di conseguenza, la costrizione a un «lavoro supplementare non dovuto» (p. 3 ricorso per cassazione), donde la spettanza delle differenze retributive di cui in ricorso; differenze retributive richieste a titolo di prestazione lavorativa eccedente rispetto a quella che avrebbe reso qualora non si fosse assentato. Il ricorrente sostiene, altresì, la contraddittorietà della motivazione, anche in relazione alle norme del c.c.n.l. in menzione, alle risultanze documentali e al contegno processuale delle parti, non avendo la ASL contestato il quantum della pretesa né il conteggio delle ore di lavoro a credito per l’erroneo calcolo del c.d. debito orario contrattuale giornaliero in oggetto connesso alle assenze per malattia, ferie, festività, permessi ecc. 2) Il motivo non è fondato. 2.1) La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte. 2.2) Secondo il medico, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché, altrimenti, si crea «un indebito aumento della prestazione lavorativa» (p. 21 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza. 2.3) Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in «un indebito aumento della prestazione lavorativa», da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1° cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione). 2.4) Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa vi è, ormai, il giudicato interno, come evidenziato anche dalla Procura generale nelle sue conclusioni. Lo stesso medico riferisce, peraltro, che la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento «e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza». Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l’orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti». 2.5) Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali. 2.6) Il giudice di appello ha ritenuto, comunque, che la richiesta di condanna dell’ASL Avellino a pagare differenze retributive andasse respinta, avendo i medici percepito la retribuzione loro spettante in relazione all’orario contrattualmente dovuto. 2.7) Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà. 3) Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria - parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 - determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l’eventuale superamento dell’orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato». Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell’incarico affidatogli. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario. 3.1) In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012). 3.2) Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia. Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l’orario di lavoro e l’orario notturno nonché l’art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 - 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica). L’art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall’art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l’impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all’espletamento dell’incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che: (i) «i volumi prestazionali richiesti all’equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell’art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell’assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»; (ii) «l’impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l’orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell’art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L’orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all’incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l’azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all’art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l’equipe interessata l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell’art. 4, comma 2, lett. G)». 3.3) L’interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l’attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)». Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale. 3.4) Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a «un indebito aumento della prestazione lavorativa» discende, come logica conseguenza, l’irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell’entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali. 3.5) Nella specie, il dirigente medico, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze. Quindi, il problema non è il superamento delle 38 ore, ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc. Ed allora la stessa prospettazione della domanda, come intesa a ottenere l’esatto adempimento, è infondata, solo che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta. Il problema potrebbe spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico - intesa come insieme di debito orario e di risultati – che, dunque, poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l. 10 3.6) Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta. Nella prospettazione del dirigente medico non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto - come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico-fisica legate a tempi prolungati della prestazione - che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi. 3.7) Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in ordine ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 c.c., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35). Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero, 11 in ogni caso, dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (Cass. n. 7921/2017, cit.). 4) Il ricorso è rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici». 5) Per la novità e peculiarità della questione, oggetto, peraltro, di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, si stima equo compensare interamente le spese del giudizio di legittimità. Si attesta che sussistono i presupposti processuali perché il ricorrente versi un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto. P.Q.M. La Corte, - rigetta il ricorso e compensa le spese di lite; - attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 2 luglio 2024. L’estensore Il Presidente Dario Cavallari Lucia Tria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LUCIA TRIAPresidente CATERINA MAROTTAConsigliere IRENE TRICOMIConsigliere ROBERTO BELLE'Consigliere FABRIZIO GANDINIConsigliere-Rel. Oggetto: RETRIBUZIONE PUBBLICO IMPIEGO Ud.02/07/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 20519/2023 R.G. proposto da: A.S.L. AVELLINO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati GUARENTE MARIAGIUSY, ABBONDANDOLO MARCELLO e MARIANO MARCO, con domicilio digitale eletto press la PEC dei difensori -ricorrente- contro LOSANNO NICOLA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA VITO GIUSEPPE GALATI 100-C, presso lo studio dell’avvocato GIARDIELLO ENZO, rappresentato e difeso dall'avvocato BARRASSO GIUSEPPE -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO NAPOLI n. 1378/2023 depositata il 28/04/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/07/2024 dal Consigliere FABRIZIO GANDINI. udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato MARCO MARIANO; udito l'avvocato GIUSEPPE BARRASSO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza n.1378/2023 pubblicata il 28.4.2023, ha rigettato il gravame proposto dalla A.S.L. di Avellino nella controversia con Nicola Losanno. 2. La controversia ha per oggetto la domanda di pagamento delle differenze retributive spettanti a seguito della erronea determinazione del c.d. debito orario assolto a seguito di assenze per ferie, malattia, festività, permessi ed altre assenze giustificate da parte di un dirigente medico di primo livello in servizio presso la A.S.L. di Avellino, con orario di lavoro di 38 ore settimanali. 3. Il Tribunale di Avellino accoglieva la domanda. 4. La Corte di Appello ha ritenuto, in conformità ai precedenti della medesima sezione di quella corte, che nonostante la flessibilità dell'orario di lavoro dei dirigenti medici rimanesse ferma la necessità di individuare la durata media della giornata lavorativa, stabilita in 38 ore settimanali dal CNNL per la dirigenza medica; e sulla base di questa premessa è giunta alla conclusione che “se il dirigente anziché essere in ferie, malattia etc. avesse reso la sua prestazione, essa sarebbe durata 6 ore e 20 minuti e non solo 6 ore, per cui nella stessa misura va calcolata l'assenza”. 5. La Corte territoriale ha ritenuto che tale interpretazione non confliggesse con l'esclusione del lavoro straordinario per la dirigenza medica, come previsto dall’art.65 CCNL 5 dicembre 1996, versandosi non in ipotesi di retribuzione per il lavoro straordinario, ma nella diversa ipotesi dell'erroneo computo delle ore lavorative nei giorni di legittima assenza, “qualora l’ASL avesse correttamente computato l'orario lavorativo in considerazione delle assenze, il debito orario sarebbe stato certamente differente”. 6. Infine la Corte territoriale ha ritenuto la mancanza di contestazione dei conteggi prodotti dal lavoratore, essendosi la A.S.L. limitata a contestare la pretesa in punto an debeatur. 7. Per la Cassazione della sentenza ricorre la A.S.L., con un ricorso affidato ad un unico motivo, cui si oppone con controricorso Nicola Losanno. 8. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative. 9. La P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con unico articolato motivo si denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 24-27 d.lgs. n. 165/2001 e all’art. 14 del c.c.n.l. dell’Area dirigenza medica del 3.11.2005; si lamenta violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione. 2. La ASL osserva che nella vigenza del principio di onnicomprensività della retribuzione, al dirigente medico non può essere in ogni caso concessa alcuna remunerazione di orario eccedente quello contrattualmente previsto anche se, come nella specie, derivante da un erroneo calcolo del “debito orario” giornaliero. 3. La Corte partenopea era incorsa in errore perché, da un lato, aveva correttamente ritenuto non potesse venire in considerazione il concetto di lavoro straordinario ma, dall’altro, in contraddizione rispetto alle premesse, aveva rilevato che il lavoro eccedentario (rispetto alle 38 ore settimanali), svolto a causa dell’erroneo computo delle ore di assenza (per ferie, permessi ecc.), dovesse essere comunque remunerato, ciò in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione. 4. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dal controricorrente in relazione alla violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per difetto del requisito della sommaria esposizione dei fatti di causa. 5. Il principio di specificità del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l'oggetto della controversia e il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d'interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l'attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Cass. n. 8117/2022); il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. consiste in un’esposizione che deve garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione non solo del fatto sostanziale che ha originato la controversia, ma anche del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la sentenza impugnata (Cass., Sez. U. 28 novembre 2018, n. 30754, che richiama Cass. n. 21396/2018). 6. Ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una sintesi funzionale alla piena valutazione dei motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la testuale riproduzione dei quali in tutto o in parte è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (Cass. n.24340/2018). 7. Rileva il Collegio che il ricorso è stato redatto nel rispetto di tali principi, in quanto ha chiarito l’oggetto delle doglianze mosse all’iter argomentativo della sentenza impugnata ed ha sinteticamente svolto la narrativa della vicenda processuale senza riprodurre il testo integrale degli atti del giudizio di merito; l’inserimento di alcuni stralci dei medesimi è stato effettuato nell’ambito di una sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata. 8. Ciò posto, il motivo di ricorso è fondato. 9. La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte. 9. Secondo il dirigente medico, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché altrimenti si crea «un indebito aumento della prestazione lavorativa» (p. 22 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza. 10. Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in «un indebito aumento della prestazione lavorativa», da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1° cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione). 11. Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa il controricorrente riferisce che «dopo diffide e ricorsi» la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento «e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza». Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l'orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti». 12. Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova decisamente rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali. 13. L’indicazione in 38 ore dell’orario contrattuale settimanale, contenuta nella disciplina applicabile, senza specificazione dell’orario convenzionale giornaliero, ha indotto il giudice d’appello a negare le rivendicate differenze retributive, alla stregua del disposto di cui all’art. 24 d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale la retribuzione remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti al dirigente, escludendo la fondatezza della pretesa di un compenso “aggiuntivo” fondata sulla parametrazione oraria della retribuzione. 14. Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà. 15. Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria - parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 ‒ determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l'eventuale superamento dell'orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell'obiettivo assegnato». 16. Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell'orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell'incarico affidatogli. 17. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario. 18. In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione. 19. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012). 20. Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia. Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l'orario di lavoro e l'orario notturno nonché l'art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 ‒ 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica). 21. L'art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall'art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l'impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all'espletamento dell'incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che: (i) «i volumi prestazionali richiesti all'equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell'art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell'assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»; (ii) «l'impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l'orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell'art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L'orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all'incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l'azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all'art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l'equipe interessata l'applicazione dell'istituto previsto dall'art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell'art. 4, comma 2, lett. G)». 22. L'interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l'attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. 23. Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)». 24. Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto. 25. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente. 26. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale. 27. Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a «un indebito aumento della prestazione lavorativa» discende, come logica conseguenza, l'irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell'entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali. 28. Nella specie il dirigente medico, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze. 29. Quindi il problema non è il superamento delle 38 ore ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc. 30. Ed allora la stessa prospettazione della domanda come intesa ad ottenere l’esatto adempimento è infondata sol che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta. 31. Il problema potrebbe allora spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico ‒ intesa come insieme di debito orario e di risultati ‒ che dunque poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l. 32. Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta. 33. Nella prospettazione della dirigente medica non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto ‒ come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico- fisica legate a tempi prolungati della prestazione ‒ che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L'ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi. 34. Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l'inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35). 35. Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l'azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.). 36. Tanto basta per l’accoglimento del ricorso; l’impugnata sentenza dev’essere pertanto cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito (art. 384 comma 2 cod. proc. civ.) con reiezione dell’originario ricorso dei lavoratori e in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici». 37. Per la novità e peculiarità della questione, oggetto peraltro di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, stimasi equo compensare fra le parti le spese dell’intero processo. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda del lavoratore; compensa le spese dell’intero processo. Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Corte di cassazione, Sezione Lavoro, il 2/7/2024. Il Consigliere estensore (Fabrizio Gandini) La Presidente (Lucia Tria)
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LUCIA TRIAPresidente CATERINA MAROTTAConsigliere IRENE TRICOMIConsigliere ROBERTO BELLE'Consigliere FABRIZIO GANDINIConsigliere-Rel. Oggetto: RETRIBUZIONE PUBBLICO IMPIEGO Ud.02/07/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 22530/2023 R.G. proposto da: DELLE CAVE ROSALIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA VITO GIUSEPPE GALATI 100-C, presso lo studio dell’avvocato GIARDIELLO ENZO, rappresentata e difesa dall'avvocato BARRASSO GIUSEPPE -ricorrente- contro A.S.L. AVELLINO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC degli avvocati GUARENTE MARIAGIUSY, MARIANO MARCO e ABBONDANDOLO MARCELLO che la rappresentano e difendono -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO NAPOLI n. 1955/2023 depositata il 01/06/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/07/2024 dal Consigliere FABRIZIO GANDINI. Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato GIUSEPPE BARRASSO; udito l'avvocato MARCO MARIANO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza n.1955/2023 pubblicata il 1.6.2023, ha accolto il gravame proposto dalla A.S.L. di Avellino nella controversia con Rosalia Delle Cave. 2. La controversia ha per oggetto la domanda di pagamento delle differenze retributive spettanti a seguito della erronea determinazione del c.d. debito orario assolto a seguito di assenze per ferie, malattia, festività, permessi ed altre assenze giustificate da parte di una dirigente medico di primo livello in servizio presso la A.S.L. di Avellino, con orario di lavoro di 38 ore settimanali. 3. Il Tribunale di Avellino accoglieva la domanda. 4. La Corte di Appello ha integralmente riformato la sentenza appellata, rigettando la domanda. La corte territoriale ha ritenuto che la dirigente avesse omesso di allegare e dunque di dimostrare di avere posto le sue energie lavorative a disposizione della A.S.L. per un numero di ore superiore a quello retribuito per previsione della contrattazione collettiva. 5. Pur ritenendo tale omissione “sufficiente per suffragare il rigetto della domanda”, la corte territoriale ha rilevato che l’art.14 del CCNL applicabile non prevede alcun orario giornaliero da osservare, né prevede il diritto del sanitario a prestare la propria opera per 6 ore e 20 minuti al giorno, essendo tale quantificazione il frutto di una “arbitraria suddivisione dell’orario su sei giorni”, laddove lo stesso art.14 prevede che l’articolazione dei turni possa essere effettuata su tutti i giorni della settimana. 6. La Corte d’appello ha poi aggiunto che l’art.24 d.lgs. 165/200, nel remunerare tutte le funzioni ed i compiti attribuiti al dirigente, esclude la possibilità di una sua remunerazione oraria; e che il CCNL del 1996, in quella parte ancora applicabile, disciplina il regime delle ferie, festività e permessi su base giornaliera, e non oraria. 7. Per la Cassazione della sentenza ricorre Rosalia Delle Cave, con un ricorso affidato a due motivi. La A.S.L. resiste con controricorso. 8. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative, mentre la P.G. ha concluso, con requisitoria scritta, per l’accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo è articolato sulla base di profili distinti e cumulati. La ricorrente lamenta anzitutto la violazione dell’art.360 co.1 nn. 3 e 5 c.p.c., in relazione all’art.14 CCNL della dirigenza medica del 3.11.2005, degli artt.21, 23 e 24 del CCNL della dirigenza medica del 5.12.1996, dell’art.14 del CCNL della dirigenza medica del 10.2.2004, nonché dell’art.36 Cost. Secondo la prospettazione della ricorrente la corte territoriale avrebbe errato nella interpretazione dell’art.14 del CCNL della dirigenza medica del 3.11.2005, sostanzialmente abrogandolo, laddove ha ritenuto che tale disposizione non consentisse di determinare il debito orario giornaliero del dirigente medico sulla base di un orario settimanale di lavoro di 38 ore suddiviso su 6 giorni alla settimana, circostanza quest’ultima pacifica ed incontestata nel giudizio di merito. La ricorrente deduce che dall’art.14 cit. può desumersi un orario giornaliero di 6 ore e 20 minuti (38 ore diviso 6 giorni settimanali). E che tale è la quantità della prestazione imputabile all’assenza per ferie, malattia, permessi ed altri motivi giustificati, come previsti dagli artt.21, 23 e 24 del CCNL della dirigenza medica del 5.12.1996; ovvero nei casi dei permessi e congedi per eventi o cause particolari, come previsto dall’art.14 del CCNL del 10.2.2004. La ricorrente deduce che tali disposizioni della contrattazione collettiva, sostanzialmente sussumibili nel caso della prestazione lavorativa virtuale, postulano la necessità di determinare il debito orario giornaliero, al fine della determinazione dell’assolvimento del debito orario, nei termini sopra prospettati. Diversamente opinando si determinerebbe un aumento indebito della prestazione lavorativa. 2. La ricorrente deduce poi la violazione dell’art.360 co.1 nn.3 e 5 c.p.c., in relazione all’art.2697 c.c. e in relazione all’omesso esame e alla omessa pronuncia sulle prove documentali presentate, quali i fogli presenza. 3. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 comma primo nn. 3 e n. 5 cod. proc. civ. per omessa valutazione ed omessa pronuncia in riferimento al quantum debeatur. Deduce che la quantificazione del proprio credito compiuta per mezzo dei conteggi allegati al ricorso introduttivo non è stata specificamente contestata dalla A.S.L., che si è invece limitata a contestare l’an debeatur. 4. Il primo motivo di ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile. 5. In sintesi, la ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe adottato un’opzione interpretativa errata, che si traduceva in una implicita abrogazione dell’art. 14, comma 2, del c.c.n.l. 3.11.2005 della Dirigenza Medica. Questo perché l’indicazione dell’orario assolto di diritto (per ferie, festività, permessi, ecc.) in misura di 6 ore e non di ore 6 e 20 minuti «non è fatto solo formale», in quanto «la distorta e illegittima composizione del debito assolto nell’ambito del monte ore contrattualmente dovuto determina un indebito aumento della prestazione lavorativa (i 20 minuti tagliati nei giorni di assenza vengono caricati sui turni di lavoro effettivo per giungere sempre alle 38 ore settimanali)» (p. 24 ricorso per cassazione) e, di conseguenza, la costrizione a un «lavoro supplementare non dovuto» (p. 2 ultimo cpv. ricorso per cassazione), donde la spettanza delle differenze retributive di cui in ricorso; differenze retributive richieste a titolo di «prestazione lavorativa eccedente rispetto a quella che avrebbe reso qualora non si fosse assentato» (p. 36, terz’ultimo cpv. del ricorso per cassazione). 6. La ricorrente sostiene, altresì, la contraddittorietà della motivazione, anche in relazione alle norme del c.c.n.l. in menzione, alle risultanze documentali e al contegno processuale delle parti, non avendo la ASL contestato il quantum della pretesa né il conteggio delle ore di lavoro a credito per l’erroneo calcolo del c.d. debito orario contrattuale giornaliero in oggetto connesso alle assenze per malattia, ferie, festività, permessi ecc. 7. La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte. 8. Secondo la dirigente medica, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché altrimenti si crea «un indebito aumento della prestazione lavorativa» (p. 22 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza. 9. Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in «un indebito aumento della prestazione lavorativa», da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1° cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione). 10. Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa la ricorrente riferisce che «dopo diffide e ricorsi» la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento «e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza». Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l'orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti». 11. Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova decisamente rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali. 12. L’indicazione in 38 ore dell’orario contrattuale settimanale, contenuta nella disciplina applicabile, senza specificazione dell’orario convenzionale giornaliero, ha indotto il giudice d’appello a negare le rivendicate differenze retributive, alla stregua del disposto di cui all’art. 24 d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale la retribuzione remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti al dirigente, escludendo la fondatezza della pretesa di un compenso “aggiuntivo” fondata sulla parametrazione oraria della retribuzione. 13. Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà. 14. Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria - parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 ‒ determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l'eventuale superamento dell'orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell'obiettivo assegnato». 15. Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell'orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell'incarico affidatogli. 16. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario. 17. In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione. 18. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012). 19. Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia. Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l'orario di lavoro e l'orario notturno nonché l'art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 ‒ 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica). 20. L'art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall'art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l'impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all'espletamento dell'incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che: (i) «i volumi prestazionali richiesti all'equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell'art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell'assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»; (ii) «l'impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l'orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell'art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L'orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all'incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l'azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all'art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l'equipe interessata l'applicazione dell'istituto previsto dall'art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell'art. 4, comma 2, lett. G)». 21. L'interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l'attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. 22. Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)». 23. Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto. 24. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente. 25. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale. 26. Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a «un indebito aumento della prestazione lavorativa» discende, come logica conseguenza, l'irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell'entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali. 27. Nella specie la dirigente medica, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze. 28. Quindi il problema non è il superamento delle 38 ore ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc. 29. Ed allora la stessa prospettazione della domanda come intesa ad ottenere l’esatto adempimento è infondata sol che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta. 30. Il problema potrebbe allora spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico ‒ intesa come insieme di debito orario e di risultati ‒ che dunque poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l. 31. Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta. 32. Nella prospettazione della dirigente medica non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto ‒ come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico- fisica legate a tempi prolungati della prestazione ‒ che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L'ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi. 33. Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l'inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35). 34. Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l'azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.). 35. Per le considerazioni sopra esposte deve ritenersi l’infondatezza – in parte qua- del primo motivo di ricorso. 36. Nella parte restante il motivo di ricorso è inammissibile, in quanto: a) in parte si risolve nella censura relativa all’omesso apprezzamento della prova dell’indebito aumento della prestazione lavorativa in relazione alla attribuzione della durata figurativa di 6 ore alle assenze per ferie, permessi ed altre assenze giustificate, con particolare riferimento alla concludenza dei fogli presenza depositati in allegato al ricorso introduttivo; censura riservata al giudice del merito in quanto afferente alla valutazione di prove non legali secondo il suo prudente apprezzamento, ex art.116 comma primo cod. proc. civ.; b) la asserita contraddittorietà, illogicità e carenza di motivazione non rientra (più) tra i motivi di critica vincolata previsti dall’art.360 comma primo cod. proc. civ., fatta eccezione per la violazione del c.d. minimo costituzionale della motivazione che però nel caso in esame non è stato dedotto nei limiti della autosufficienza del ricorso; c) la asserita violazione del principio di non contestazione difetta di specificità e non appare conforme al principio di autosufficienza in quanto -in disparte dalla insussistenza della violazione- nel motivo di ricorso non vengono trascritti gli atti di parte e la motivazione della sentenza impugnata nelle parti necessarie per apprezzare la sussistenza del vizio lamentato. 37. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha rigettato la domanda della odierna ricorrente ritenendo la insussistenza del diritto in punto an debeatur, ossia del presupposto logico-giuridico della quantificazione del credito, che forma oggetto del motivo in parola. 38. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici». 39. Per la novità e peculiarità della questione, oggetto peraltro di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, stimasi equo compensare interamente le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente fra le parti le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Corte di cassazione, Sezione Lavoro, il 2/7/2024. Il Consigliere estensore (Fabrizio Gandini) La Presidente (Lucia Tria)
AULA 'B' 2024 3105 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCIA TRIA - Presidente - Dott. CATERINA MAROTTA - Consigliere - Dott. IRENE TRICOMI - Consigliere - Dott. ROBERTO BELLE' - Consigliere - Dott. SALVATORE CASCIARO - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 18584-2023 proposto da: CATALDO CARLO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITO GIUSEPPE GALATI 100/C, presso lo studio dell'avvocato ENZO GIARDIELLO, rappresentato e difeso dall'avvocato GIUSEPPE BARRASSO; - ricorrente - contro A.S.L. AVELLINO, in persona del Direttore legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l'indirizzo PEC degli avvocati MARIAGIUSY GUARENTE, MARCO MARIANO, MARCELLO ABBONDANDOLO che la rappresentano e difendono; - controricorrente - Oggetto Retribuzione pubblico impiego R.G.N. 18584/2023 Cron. Rep. Ud. 02/07/2024 PU avverso la sentenza n. 1346/2023 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 03/04/2023 R.G.N. 1299/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2024 dal Consigliere Dott. SALVATORE CASCIARO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato GIUSEPPE BARRASSO; udito l'avvocato MARCO MARIANO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza oggetto di ricorso, rigettando l’appello di Carlo Cataldo, dirigente medico di I livello in servizio presso l’ASL di Avellino, ha confermato la decisione di primo grado con la quale il Tribunale di Benevento, pur dichiarando l’illegittimità, nel periodo 1.1.2013–28.2.2018, del sistema di calcolo ‒ per sei ore anziché sei ore e venti minuti ‒ adottato dalla ASL per determinare il debito orario giornaliero assolto per ferie, malattia, festività, permessi e altre assenze similari, aveva però rigettato la pretesa economica relativa alle differenze retributive determinate dalla maggior prestazione di 20 minuti resa per ogni giorno di assenza. 2. La Corte d’appello – dato atto che ormai doveva ritenersi coperta da giudicato la declaratoria d’illegittimità del sistema di calcolo adottato dalla ASL per determinare il debito orario assolto a seguito delle assenze del dirigente – ha ritenuto priva di fondamento la pretesa economica, in quanto: a) dall’esame del contratto collettivo doveva ricavarsi che le sue disposizioni non radicavano in capo al sanitario il diritto a prestare la propria opera per 6 ore e 20 minuti al giorno: tale quantificazione era frutto di una ipotetica suddivisione dell’orario settimanale di 38 ore sui sei giorni che in concreto non trovava attuazione per la flessibilità oraria prevista; b) non era allegato né provato che, per assolvere il debito settimanale, l’appellante avesse lavorato oltre il limite delle 38 ore: anche se la giornata di riposo era convenzionalmente calcolata in sei ore, non poteva dubitarsi che essa fosse fruita per intero dal dipendente che non subiva una perdita di riposo. Di qui la conclusione in merito alla infondatezza della originaria pretesa di pagamento della somma di €. 7.171,30. 3. Contro tale pronuncia propone ricorso per cassazione sulla base di unico motivo il dirigente medico, cui resiste con controricorso la ASL Avellino. 4. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative, mentre la P.G. ha concluso, con requisitoria scritta, per l’accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico articolato motivo, preceduto da “richiesta preliminare” (così definita a p. 14 del ricorso per cassazione) di declaratoria dell’intervenuto giudicato sull’illegittimità del sistema di calcolo adottato dall’ASL Avellino, si denuncia violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., in riferimento all’art. 14 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 3.11.2005, agli artt. 21, 23 e 24 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 5.12.1996 ed all’art. 14 del c.c.n.l. della Dirigenza Medica del 10.02.2004, nonché in relazione all’art. 36 della Cost. Si lamenta violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., in relazione all’art. 2697 cod. civ., nonché omessa pronuncia sulle prove documentali presentate e, ancora, contraddittorietà, illogicità e carenza di motivazione della sentenza della Corte territoriale; ci si duole infine della violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., in relazione al principio di non contestazione. In sintesi, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe adottato un’opzione interpretativa errata, che si traduceva in una implicita abrogazione dell’art. 14, comma 2, del c.c.n.l. 3.11.2005 della Dirigenza Medica. Questo perché l’indicazione dell’orario assolto di diritto (per ferie, festività, permessi, ecc.) in misura di 6 ore e non di ore 6 e 20 minuti «non è fatto solo formale», in quanto «la distorta e illegittima composizione del debito assolto nell’ambito del monte ore contrattualmente dovuto determina un indebito aumento della prestazione lavorativa (i 20 minuti tagliati nei giorni di assenza vengono caricati sui turni di lavoro effettivo per giungere sempre alle 38 ore settimanali)» (p. 24 ricorso per cassazione) e, di conseguenza, la costrizione a un «lavoro supplementare non dovuto» (p. 2 ultimo cpv. ricorso per cassazione), donde la spettanza delle differenze retributive di cui in ricorso; differenze retributive richieste a titolo di «prestazione lavorativa eccedente rispetto a quella che avrebbe reso qualora non si fosse assentato» (p. 36, terz’ultimo cpv. del ricorso per cassazione). Il ricorrente sostiene, altresì, la contraddittorietà della motivazione, anche in relazione alle norme del c.c.n.l. in menzione, alle risultanze documentali e al contegno processuale delle parti, non avendo la ASL contestato il quantum della pretesa né il conteggio delle ore di lavoro a credito per l’erroneo calcolo del c.d. debito orario contrattuale giornaliero in oggetto connesso alle assenze per malattia, ferie, festività, permessi ecc. 2. Il motivo non è fondato. 2.1 La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte. 2.2 Secondo il medico, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché altrimenti si crea «un indebito aumento della prestazione lavorativa» (p. 22 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza. 2.3 Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in «un indebito aumento della prestazione lavorativa», da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1° cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione). 2.4 Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa c’è ormai, come rileva finanche il P.G. nella sua requisitoria, il giudicato interno, di cui dà atto la sentenza impugnata. Lo stesso medico riferisce, peraltro, che «dopo diffide e ricorsi» la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento «e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza». Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l'orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti». 2.5 Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova decisamente rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali. 2.6 L’indicazione in 38 ore dell’orario contrattuale settimanale, contenuta nella disciplina applicabile, senza specificazione dell’orario convenzionale giornaliero, ha indotto il giudice d’appello a negare le rivendicate differenze retributive, alla stregua del disposto di cui all’art. 24 d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale la retribuzione remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti al dirigente, escludendo la fondatezza della pretesa di un compenso “aggiuntivo” fondata sulla parametrazione oraria della retribuzione. 2.7 Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà. 3. Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria - parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994- 95 ‒ determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l'eventuale superamento dell'orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell'obiettivo assegnato». Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell'orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell'incarico affidatogli. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario. 3.1 In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012). 3.2 Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia. Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l'orario di lavoro e l'orario notturno nonché l'art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 ‒ 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica). L'art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall'art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l'impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all'espletamento dell'incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che: (i) «i volumi prestazionali richiesti all'equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell'art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell'assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»; (ii) «l'impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l'orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell'art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L'orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all'incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l'azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all'art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l'equipe interessata l'applicazione dell'istituto previsto dall'art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell'art. 4, comma 2, lett. G)». 3.3 L'interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l'attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti 10 in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)». Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale. 3.4 Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a «un indebito aumento della prestazione lavorativa» discende, come logica conseguenza, l'irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell'entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali. 3.5 Nella specie il dirigente medico, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze. 11 Quindi il problema non è il superamento delle 38 ore ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc. Ed allora la stessa prospettazione della domanda come intesa ad ottenere l’esatto adempimento è infondata sol che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta. Il problema potrebbe allora spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico ‒ intesa come insieme di debito orario e di risultati ‒ che dunque poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l. 3.6 Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta. Nella prospettazione del dirigente medico non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto ‒ come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico-fisica legate a tempi prolungati della prestazione ‒ che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L'ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi. 12 3.7 Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l'inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35). Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l'azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.). 4. Tanto basta per la reiezione del ricorso in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che 13 il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici». 5. Per la novità e peculiarità della questione, oggetto, peraltro, di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, si stima equo compensare interamente le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente fra le parti le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Corte di cassazione, Sezione Lavoro, il 2/7/2024. Il Consigliere estensore La Presidente (Salvatore Casciaro) (Lucia Tria)
AULA 'A' 2024 2892 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI - Presidente - Dott. CARLA PONTERIO - Consigliere - Dott. GUGLIELMO CINQUE - Rel. - Consigliere - Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO - Consigliere - Dott. ANTONELLA CIRIELLO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 2205-2023 proposto da: ROMANO TEODORO, BAGNASCO LORENZO, domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato LIBORIO GAMBINO; - ricorrenti- contro S.A.I.S. TRASPORTI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 23, presso lo studio degli avvocati CARLO BOURSIER NIUTTA, ROBERTO SCELFO, ANTONIO ARMENTANO, che la rappresentano e difendono; - controricorrente – avverso la sentenza n. 637/2022 della CORTE D'APPELLO di PALERMO, depositata il 18/07/2022 R.G.N. 846/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/06/2024 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE; Oggetto Risarcimento rapporto privato R.G.N.2205/2023 Cron. Rep. Ud. 25/06/2024 PU udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. OLGA PIRONE, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato LIBORIO GAMBINO. Fatti di causa 1. I lavoratori in epigrafe indicati, autisti addetti a tratte superiori a 50 km con qualifica di operatori di esercizio par. 183 della SAIS Trasporti sas, adivano il Tribunale di Palermo per chiedere la condanna della datrice di lavoro al pagamento dei rispettivi importi di euro 59.714,55 (per Bagnasco Lorenzo – periodo 2007- 2013) e di euro 69.555,15 (per Romano Teodoro – periodo 2007- 2014), a titolo di risarcimento per mancato godimento dei riposi settimanali maturati e non goduti, nonché a titolo di differenze retributive per indennità di agente unico (euro 730,23 per Bagnasco ed euro 2.742,63 per Romano). 2. L’adito Tribunale rigettava le domande rilevando, quanto al profilo risarcitorio, una sostanziale carenza di allegazione e, con riferimento alle rivendicazioni retributive, l’inadeguatezza deduttiva e probatoria circa la vantata pretesa. 3. La Corte di appello di Palermo, con la sentenza n. 637/2022, confermava la pronuncia di primo grado evidenziando che: a) ai sensi del Regolamento CE n. 561/2006, ciò che conta, ai fini dell’osservanza di quanto statuito dall’art. 8, è che i conducenti godano di un congruo periodo, mai inferiore alle 69 ore complessive, entro la fine della terza settimana successiva, per ritemprarsi dalle fatiche dei viaggi affrontati (pur sempre superiori ai 50 km al giorno) e recuperare le proprie energie psico-fisiche; b) tale esigenza finalistica poteva essere adeguatamente garantita anche attraverso la funzione di riposo equivalente in più frazioni, a condizione che le stesse fossero prese entro la fine della terza settimana successiva e fossero attaccate ad altro periodo di riposo di almeno nove ore, come dal 2015 previsto dalla Circolare del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali 29.4.2015 prot. N. 7136 (interpretativa e attuativa dell’art. 8 par. 6 del suddetto Regolamento); c) i ricorrenti non avevano provato di avere fruito di un numero complessivo di ore di riposo inferiore a quello previsto dal Regolamento comunitario; d) per le richieste di differenze retributive, i passaggi motivazionali della pronuncia de Tribunale non erano stati oggetto di specifiche censure. 4. Avverso la sentenza di secondo grado i lavoratori in epigrafe indicati proponevano ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resisteva con controricorso la società intimata. 5. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso. 6. La controricorrente ha depositato memoria. Ragioni della decisione 1. I motivi possono essere così sintetizzati. 2. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, in particolare degli artt. 1, 4, 7, 8 e 19 del Regolamento CE n. 561/2006, per avere la Corte territoriale ritenuto corretta la fruizione dei riposi in modalità frazionata interpretando ed applicando la circolare interpretativa del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 29.4.2015 prot. N. 7136 quale fonte integrativa ex nunc. Essi sostengono che, a differenza di quanto ritenuto dai giudici di seconde cure, il Regolamento CE prevedeva la infrazionabilità dei riposi e che, ai sensi delle disposizioni euro- unitarie, ai lavoratori spettavano, nell’arco di due settimane, due riposi ordinari di 45 ore (pari a complessive 90 ore) oppure un riposo ordinario ed uno ridotto di 24 (per ore 69) con obbligo della società di recuperare le restanti 21 ore entro la terza settimana attaccate ad un periodo di almeno 9 ore di riposo, con la conseguenza che il dipendente doveva recuperare un riposo mancante di 30 ore (21 + 9) in aggiunta alle 69 ore già godute nelle due settimane precedenti. Secondo i ricorrenti, pertanto, era errato l’assunto della Corte territoriale che aveva individuato in 69 ore di riposo il limite che i lavoratori avrebbero dovuto fruire nell’arco di tre settimane. 3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 29 del Regolamento CE 561/2006, per avere ritenuto la Corte territoriale che l’infrazionabilità dei riposi di cui al Regolamento suddetto si applicasse dalla data di emanazione della Circolare ministeriale del 29 aprile 2015, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc sulla interpretazione della norma e all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc sull’errore in iudicando e della motivazione, in relazione al contrasto tra norme interne e comunitarie. Si obietta che la Corte territoriale aveva erroneamente applicato la disposizione interna in modo difforme da quella comunitaria di rango superiore, attribuendo efficacia interpretativa sin dall’11.4.2007 (data di entrata in vigore del Regolamento citato) ad una disposizione di una circolare ministeriale di rango inferiore rispetto alla norma euro-unitaria. 4. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, artt. 115, 116 e 132 co. 4 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 4 cpc, nonché la motivazione apparente, per avere i giudici di seconde cure posto a base della decisione due presupposti, non corretti in diritto e in fatto, riguardanti le circostanze che i lavoratori avevano fruito delle ore di riposo (individuate in 69 nell’arco di tre settimane) in maniera discontinua e che vi era stato un difetto di allegazione, quando, invece, dalle produzioni documentali allegate all’atto introduttivo del giudizio, emergeva chiaramente che essi avevano dedotto la mancata fruizione dei riposi come statuiti dal Regolamento CE 561/2006. 5. Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione di disposizioni di legge, artt. 2697 cc, 112 e 116 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc: sostengono l’errata inversione dell’onere della prova in ordine alla loro richiesta, la nullità del procedimento per omessa pronuncia sulle istanze istruttorie in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, la mancata ricognizione delle prove e l’omesso esame su un punto decisivo della controversia e conseguente vizio di motivazione, anche in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, in tema di mancato espletamento di una ctu contabile e di mancata ammissione delle prove articolate. 6. Il primo motivo è fondato. 7. E’ opportuno precisare che, nella fattispecie in esame, si applica ratione temporis (con riguardo agli anni oggetto della domanda originaria) il Regolamento CE n. 561/2006 e non quello successivo n. 1054/2020. 8. Ciò premesso, le disposizioni del Regolamento da prendere in considerazione sono: Articolo 1: “il presente regolamento disciplina periodi di guida, interruzioni e periodi di riposo per i conducenti che effettuano il trasporto di persone e di merci su strada, al fine di armonizzare le condizioni di concorrenza fra diversi modi di trasporto terrestre, con particolare riguardo a trasporto su strada, nonché di migliorare le condizioni di lavoro e la sicurezza stradale: Il presente regolamento mira, inoltre, ad ottimizzare il controllo e l’applicazione da parte degli Stati membri nonché a promuovere migliori pratiche nel settore dei trasporti su strada”. Articolo 4: “Ai fini del presente regolamento si applicano le seguenti definizioni: […] h) “periodo di riposo settimanale”: periodo settimanale durante il quale il conducente può disporre liberamente del suo tempo e designa sia il “periodo di riposo settimanale regolare” sia il “periodo di riposo settimanale ridotto”; - “periodo di riposo settimanale regolare”: ogni tempo di riposo di almeno 45 ore; - “periodo di riposo settimanale ridotto”: ogni tempo di riposo inferiore a 45 ore, che può essere ridotto, nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 8, paragrafo 6, ad una durata minima di 24 ore continuative; i) “settimana”: il periodo di tempo compreso tra le ore 00.00 di lunedì e le ore 24.00 della domenica”. Articolo 8 comma 6: “Nel corso di due settimane consecutive i conducenti effettuano almeno: - due periodi di riposo settimanale regolare, oppure; - un periodo di riposo settimanale regolare ed un periodo di riposo settimanale ridotto di almeno 24 ore. La riduzione è tuttavia compensata da un tempo di riposo equivalente preso entro la fine della terza settimana successiva alla settimana in questione. Il periodo di riposo settimanale comincia al più tardi dopo sei periodi di 24 ore dal termine del precedente periodo di riposo settimanale. 9. La questione in fatto, sottesa alla pretesa in diritto degli originari ricorrenti, per gli anni in contestazione addetti alle mansioni di operatore di esercizio par. 183 delle declaratorie contrattuali per tratte superiori a km. 50, è rappresentata dalla circostanza di avere usufruito, solo ed esclusivamente, di un solo riposo settimanale ridotto di ore 24. 10.La Corte territoriale, in sintesi, ritenuta pacifica la frazionabilità dei riposi, ha ritenuto che ciò che rilevava fosse il fatto che entro la terza settimana, successiva alla settimana in cui i riposi devono essere fruiti, i conducenti avessero goduto di riposi non inferiori alle 69 ore complessive per recuperare le proprie energie psico-fisiche. 11.Orbene, ritiene questa Corte che l’interpretazione dell’art. 8 co. 6 del Regolamento menzionato, fornita dai giudici di seconde cure, non sia corretta. 12.Invero, dalla lettura della norma europea e dal chiaro tenore letterale della stessa emerge con evidenza che il termine complessivo di riposo, che deve essere fruito entro la terza settimana, è di 90 ore (due riposi ordinari di 45 ore nel corso di due settimane consecutive oppure un riposo ordinario di 45 ed uno ridotto di 24 con la possibilità di recupero delle ore mancanti (21) entro la terza settimana affiancandole ad altro periodo di riposo. 13.A prescindere dalla tematica della infrazionabilità dei riposi e dei limiti in cui questa è consentita, ad essere errato, pertanto, è il dato di partenza del ragionamento della Corte territoriale che ha ritenuto il termine minimo delle ore di riposo da fruire entro la terza settimana in 69 ore e, quindi, ha considerato che i tre riposi di 24 ore, goduti ogni settimana dai ricorrenti per un totale di 72 ore, fossero comunque idonei per il recupero delle energie psico-fisiche: ciò, come detto, non è condivisibile. 14.Tutta la problematica della idoneità delle allegazioni, ai fini di valutare le vantate pretese, della rilevanza e validità della Circolare ministeriale del 29.4.2015 e della idoneità delle prove documentali prodotte deve, quindi, essere rivalutata alla luce del nuovo parametro normativo come sopra individuato e non secondo quello erroneamente indicato dalla Corte territoriale. 15.Alla stregua di quanto esposto, il primo motivo deve essere accolto, con assorbimento della trattazione dei restanti. 16.Dell'impugnata sentenza s'impone, pertanto, la cassazione con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo, che in diversa composizione, procederà a nuovo esame, facendo applicazione della suindicata interpretazione della norma regolamentare. 17.Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione. PQM La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di Palermo, in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 giugno 2024 Il Presidente Dr. Adriano Piergiovanni Patti Il cons est. Dr. Guglielmo Cinque
R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ANTONIO MANNA - Presidente - Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO - Consigliere - Dott. IRENE TRICOMI - Consigliere - Dott. ROBERTO BELLE' - Rel. Consigliere - Dott. DARIO CAVALLARI - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 21016-2016 proposto da: ARST S.P.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Toscana 10 presso lo studio dell’Avv. Antonio Rizzo e dell’Avvocato Stefano Manso che la rappresentano e difendono; - ricorrente - contro USELLI RENZO, SANNA SERGIO, MASALA SALVATORE, LEDDA COSIMO, CROBU GIANFRANCO, CAU FELICE, CAU ANTONELLO, ATZENI JEAN FRANCK domiciliati come da pec registri di giustizia presso l’Avv. Gianfranco Meloni e l’Avv. Carlo Caboni, che li rappresentano e difendono - controricorrenti - e contro MUSU SALVATORE, MELE TONINO, SCANU RAIMONDO, OPPO MASSIMINO, FADDA DOMENICO, PORCU GABRIELE NUNZIATINO, SIMULA SALVATORE, SCHIRRA LEONARDO, PORCU FRANCESCO, domiciliati come da pec registri di giustizia presso l’Avv. Giuseppe Mele, che li rappresenta e difende - controricorrenti - avverso la sentenza n. 59/2016 della CORTE D'APPELLO di CAGLIARI, depositata il Oggetto SERVIZI DI TRASPORTO DI PERSONE – REGOLAMENTO CE n. 561/2006 – CRITERI DI APPLICAZIONE ED EFFETTI - PRINCIPI. R.G.N. 21016/2016 Cron. Rep. Ud. 06/03/2024 PU 10.3.2016, R.G.N. 360/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2024 dal Consigliere dott. ROBERTO BELLE’; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso e per il rigetto del primo; udito l'avvocato ANTONIO RIZZO per ASRT e l’Avv. FRANCESCO CUCCHIARELLI, per delega dell’Avv. GIUSEPPE MELE per i controricorrenti difesi da quest’ultimo. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’Appello di Cagliari , riformando solo parzialmente la sentenza del Tribunale di Oristano, ha confermato in diversa misura l’accoglimento della domanda con cui alcuni autisti di autobus di linea di ARST avevano chiesto il pagamento di un indennizzo per non avere goduto del riposo settimanale “regolare” di almeno 45 ore, di cui all’art. 4 lett. h) del Regolamento CE n. 561/2006 e per avere superato il limite massimo bisettimanale di 90 ore di guida (art. 6, n. 3 del medesimo Regolamento), il tutto in riferimento al periodo tra l’11 aprile 2007, data di entrata in vigore del Regolamento, ed il 6 dicembre 2010.. La Corte d’Appello, per quanto ancora in discussione, riteneva applicabile nella fattispecie di causa il Regolamento CE n. 561/2006, sul presupposto che non ricorresse l’ipotesi di esclusione prevista dall’articolo 3 lett. a) per i veicoli adibiti al trasporto di passeggeri in servizio regolare di linea il cui percorso non supera i 50 chilometri. Essa riteneva infatti che le schede prodotte da entrambe le parti in causa relativamente a ciascun turno-percorso mostravano come il chilometraggio fosse sempre superiore ai 50 Km. Spesso tale distanza era compiuta senza fermate intermedie, come in alcuni percorsi; in altri casi la distanza tra una fermata e l’altra era inferiore a 50 Km ma il tragitto complessivo era comunque assai più lungo e non vi era ragione per escludere simili percorsi dalla applicazione del regolamento, né era decisiva in senso diverso la nota del Ministero del Lavoro del 4 agosto 2008, sia perché non costituente fonte dei diritto, sia perché essa si riferiva al «singolo percorso» senza chiarire, al pari del regolamento CE, il significato di tale espressione. Per singolo percorso non poteva intendersi, secondo la Corte di merito, la distanza tra un abitato e l’altro, perché così il Regolamento avrebbe avuto ben poca applicazione, essendo rari, in Europa, i tratti stradali di 50 Km dove non vi sia neppure una località. Neppure poteva farsi riferimento alla distanza tra il punto di partenza ed il capolinea finale, in quanto non era chiaro quale fosse il capolinea, dovendo gli autisti raggiungerne più di uno ogni giorno, come nel caso del percorso AB020 che inizia da un paese, per raggiungerne un altro e tornare quindi al primo, per poi raggiungere un ulteriore altro paese e tornare ancora al primo e così via. Era infine incongruo considerare come «percorso» la distanza tra il punto di partenza e la località più lontana, criterio che avrebbe penalizzato chi doveva raggiungere più capolinea, ciascuno situato a meno di 50 Km dal luogo di partenza. In conclusione, il limite dei 50 Km, secondo la Corte, escludeva solo gli autisti urbani o suburbani che compivano molte volte la stessa tratta ed era invece corretta la interpretazione del Tribunale, secondo cui il “percorso” identificava il tragitto complessivo del conducente extraurbano nella giornata lavorativa. Erroneamente il Tribunale aveva però riconosciuto un indennizzo forfettario uguale per tutti, sicché le somme dovevano essere ricalcolate sulla base dei turni espletati da ciascun lavoratore. Ai fini del conteggio del superamento del limite di guida bisettimanale – secondo la Corte di merito - occorreva poi tenere conto dell’intera durata del turno e non del solo tempo passato effettivamente al volante, ciò sulla base dell’art. 6, punto 3, del Regolamento, il quale, nel fissare il limite orario di 90 ore, si riferiva al «periodo di guida» complessivo in un periodo di due settimane consecutive e della definizione contenuta nel precedente art. 4 lettera k), secondo cui il «periodo di guida» giornaliero era quello compreso tra due periodi di riposo giornaliero (o tra un periodo di riposo giornaliero ed un periodo di riposo settimanale) il che equivaleva alla durata di un turno giornaliero. Non era corretto invece fare riferimento al «tempo di guida», cioè al tempo passato al volante secondo la lettera j dello stesso articolo 4, in quanto il limite di 90 ore settimanali era riferito non ad esso, ma al «periodo di guida». Pertanto, nel calcolare i tempi di lavoro, la Corte d’Appello ha poi considerato non solo quelli di guida, ma la durata complessiva del turno, anche se impiegato in tempi di attesa o mansioni accessorie. Sulla base dei menzionati criteri, la Corte territoriale condannava quindi al pagamento di distinte somme per ciascuno dei lavoratori ricorrenti. 2. ARST ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, resistiti dai due gruppi di lavoratori indicati in epigrafe con distinti difensori e controricorsi. 3. Sulle questioni di cui meglio si dirà in prosieguo, con ordinanza depositata il 12.5.2022, questa S.C. ha proposto rinvio interpretativo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha pronunciato in proposito con sentenza del 9 novembre 2023, in causa ivi rubricata al n. C-477/22. È stata quindi fissata nuova udienza pubblica presso questa S.C., con partecipazione del Pubblico Ministero e dei difensori come specificato in epigrafe. Tutte le parti ed il Pubblico Ministero prima dell’udienza hanno depositato memorie difensive. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo ARST spa ha denunciato ― ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c.― la violazione e/o falsa applicazione del regolamento CE nr. 561/2006, articoli 4 lettera h) ed 8, in relazione all’articolo 3 lettera a), da interpretare anche attraverso i principi di cui ai punti 16 e 24 del preambolo. La censura afferisce alla definizione esposta nella sentenza impugnata del limite di applicabilità del regolamento CE consistente, nel caso di trasporto di passeggeri in servizio regolare di linea, nel percorso non superiore a 50 chilometri. In proposito si deduce che, in conformità con le indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro, il regolamento non troverebbe applicazione nel caso in cui il percorso seguito dal conducente sia organizzato in più linee o tratte, ciascuna delle quali inferiore a 50 Km. Sulla base dell’interpretazione proposta si sostiene quindi la inapplicabilità del regolamento nella fattispecie di causa o, in subordine, la sua applicazione nelle sole rare occasioni in cui gli autisti abbiano percorso tratte superiori ai 50 Km, con significativa riduzione del numero dei riposi non goduti e del relativo indennizzo. Con la seconda censura si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 6 nr. 3 regolamento CE nr. 561/2006, in relazione al punto 16 del preambolo ed agli articoli 4, lettere e) -j)- k)- l) e 6 nr.5. Si contesta la distinzione operata nella sentenza impugnata tra le due espressioni «tempo di guida» e «periodo di guida» (come indicanti, rispettivamente, la prima il tempo effettivo di guida e la seconda l’intero turno di lavoro). Secondo le deduzioni della società ricorrente, non vi sarebbe una distinzione concettuale tra tali locuzioni; anche il «periodo di guida» si riferirebbe ad una guida effettiva, dovendo semplicemente sommarsi ai fini del calcolo del periodo di guida giornaliero più «tempi di guida» tra due riposi giornalieri. Con la conseguenza che ai fini del computo del limite bisettimanale di 90 ore occorrerebbe considerare soltanto la guida effettiva e non la durata dei turni di lavoro, come invece calcolata dalla Corte di merito. 2. Poiché i temi sollecitati sono destinati, almeno in parte, ad intersecarsi tra loro, le censure possono essere esaminate congiuntamente, secondo l’ordine logico- giuridico delle questioni, precisando che l’eccezione di inammissibilità sollevata con uno dei controricorsi, per avere la ricorrente dispiegato la ricostruzione del fatto processuale in buona parte mediante trascrizione degli atti delle fasi di merito è palesemente infondata, in quanto si tratta a tutto concedere di prolissità del tutto ininfluente per la comprensione della vicenda processuale – se non anzi utile a definirne tutti gli aspetti – e come tali inidonea a comportare un vizio di rito (art., 156, co. 3, c.p.c.). 3. La prima tematica coinvolta è quella dell’ambito dei trasporti la cui disciplina, anche secondo la connotazione concreta di essi, è destinata ad essere quella di cui al Regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada. 3.1 Le norme interessate sono l’art. 2, paragrafo 1, lett. b) e l’art. 3, lett. a) del Regolamento. Entrambe hanno congiuntamente la funzione di individuare – qui per quanto interessa ai trasporti di passeggeri su strada – i casi cui si applica il Regolamento. L’art. 2 lett. b) fa riferimento al trasporto di passeggeri con «veicoli che, in base al loro tipo di costruzione e alla loro attrezzatura, sono atti a trasportare più di nove persone compresso il conducente e destinati a tal fine», disponendo appunto che in tali casi il Regolamento trova appunto applicazione. L’art. 3 lett. a) stabilisce tuttavia che il Regolamento «non si applica» ai «veicoli adibiti al trasporti di passeggeri in servizio regolare di linea, il cui percorso non superi i 50 chilometri». 4. In relazione all’ambito di applicazione del Regolamento, alla Corte di Giustizia era stato chiesto di precisare quale fosse la nozione di «percorso che non superi i 50 chilometri», sottoponendosi ad essa alcune alternative, ovverosia se il “percorso” coincidesse con l’itinerario (linea) individuato dall’impresa per il pagamento del titolo di viaggio, oppure se esso riguardasse il chilometraggio complessivo dell’autista nel turno di lavoro giornaliero o ancora nella massima distanza raggiunta dal veicolo rispetto al punti di partenza (raggio) o quale altro criterio. La Corte di Giustizia, rispetto a questo punto, ha fornito un’interpretazione rigorosamente calibrata sul testo del Regolamento, rilevando intanto che quest’ultimo non contiene alcun riferimento alla distanza effettivamente percorsa da un singolo conducente nella giornata lavorativa, che dunque non è parametro per l’applicazione della normativa unionale. Ciò già comporta l’accoglimento del ricorso per cassazione, avendo la Corte territoriale, come detto, assunto a base un parametro “soggettivo”, calibrato sul lavoro svolto dal singolo conducente nella giornata di lavoro. 4.1 Esclusi i parametri di tipo soggettivo, la Corte di Giustizia, quanto ai parametri di natura “oggettiva”, ovverosia riconnessi al veicolo ed ai percorsi da esso coperti, ha evidenziato come il termine “percorso” designi un «itinerario o un tragitto … che collega un punto di partenza a un punto di arrivo» e che il termine “linea” designa «un tratto continuo che collega tali punti», aggiungendo che l’itinerario rilevante per il Regolamento deve riguardare il trasporto passeggeri «nell’ambito di servizi regolari al quale il veicolo di cui trattasi è adibito». La Corte unionale ha quindi richiamato l’art. 2, punto 2, del Regolamento n. 1073/2009 (al quale fa rinvio, a fini definitori, l’art. 4 lettera n) del Regolamento qui interessato) secondo cui per “servizi regolari” si intendono «i servizi che assicurano il trasporto di passeggeri con una frequenza e su un itinerario determinati e in cui l’imbarco o lo sbarco dei passeggeri hanno luogo alle fermate preventivamente stabilite». La nozione di “itinerari determinati” ha consentito quindi alla Corte di Giustizia non solo di ulteriormente escludere la rilevanza del chilometraggio “soggettivo” del singolo conducente, ma anche di escludere che abbia rilevanza, al fine di dare applicazione al Regolamento, «la distanza massima percorsa dal veicolo di cui trattasi rispetto al suo punto di partenza», che vada «al di là di tale itinerario». Il tutto per concluderne che la nozione di «percorso [di linea che] non supera i 50 chilometri», propria dell’art. 3 lett. a) del Regolamento e finalizzata ad escludere dall’applicazione di esso, «corrisponde all'itinerario stabilito dall'impresa di trasporto, non superiore a tale distanza, che il veicolo di cui trattasi deve percorrere su strada per collegare un punto di partenza a un punto di arrivo e per servire, se del caso, fermate intermedie preventivamente stabilite, al fine di effettuare il trasporto di passeggeri nell'ambito del servizio regolare cui è adibito». 4.2 In altre parole, ciò che conta è l’itinerario di linea, inteso come tratta predeterminata dall’impresa del servizio di trasporto, destinata ad intercorrere tra un punto di partenza ad un punto di arrivo, con o senza fermate intermedie per l’imbarco e lo sbarco dei passeggeri. Nel senso che un veicolo comporta l’applicazione del Regolamento al lavoro svolto dal suo conducente, se esso sia destinato a servizi di linea predeterminati che raggiungano destinazioni (punto di arrivo) la cui distanza sia superiore ai 50 Km rispetto al punto di partenza. 4.3 Vanno peraltro presi in considerazione – al fine di calibrare anche rispetto ad essi le conclusioni assunte dalla Corte di Giustizia - alcuni casi descritti dalla Corte d’Appello. La Corte d’Appello ha infatti evidenziato come nel caso di specie vi siano percorsi (come AB007), per così dire a “raggiera” in quanto essi partono da un luogo, raggiungono altri luoghi e quindi tornano alla prima località, per poi raggiungere un altro luogo, tornare alla prima località e così via, fino a tornare comunque al termine al medesimo luogo iniziale. Il caso è una mera versione più complessa di quando un medesimo veicolo svolga il percorso dal punto di partenza a quello di arrivo per poi rientrare al punto di partenza. In proposito, ritiene il collegio che l’impostazione, rigorosamente basata sul dato formale del “percorso”, quale servizio regolare predeterminato tra un “punto di partenza” ed un ”punto di arrivo”, con distanza tra l’uno e l’altro non superiore ai 50 Km, imponga di ritenere che, almeno di regola, i casi appena detti (percorso “a raggiera” o percorso di andata e ritorno) non permettano la sommatoria delle singole sottotratte, ma identifichino più percorsi, che rientrano nell’applicazione del Regolamento solo se tra il punto di partenza ed il punto di arrivo vi sia una distanza superiore ai 50 chilometri e ciò a prescindere dal fatto che, sommando la tratta di ritorno o le ulteriori tratte successive, si superino i 50 Km, perché la Corte di Giustizia ha espressamente escluso (punto 27) la rilevanza in sé delle tratte “massime” percorse dal veicolo. Del resto, opinando altrimenti e sommando i percorsi di andata e ritorno da un medesimo luogo, si finirebbe inevitabilmente per realizzare quasi sempre, sulla base della mera ripetitività, il requisito di applicazione del Regolamento, il che appare contrario alla fisionomia della normativa. Semmai, potrebbe essere da computare l’intera andata e ritorno se il “percorso”, nel caso concreto, sia impostato come unico (ad es. giro panoramico unitario). Viceversa, in caso di percorso “circolare”, evidentemente la coincidenza tra punto di partenza e punto di arrivo è irrilevante e dovrà di regola considerarsi tutta la lunghezza del percorso tra l’inizio e la fine del trasporto. In ogni caso, l’identificazione del “percorso” coinvolge in sostanza accertamenti di fatto, suscettibili di varianti concrete qui non ponderabili, su cui non si può ulteriormente approfondire. Analogamente, possono ipotizzarsi ulteriori questioni, ad es. ove l’impresa di trasporto in ipotesi artatamente segmentasse i percorsi al solo fine di sottrarsi alla disciplina del Regolamento, ma non è ciò quanto dibattuto nel giudizio di legittimità e dunque ancora non vi è luogo ad attardarsi su temi complessi – anche in fatto – che sono estranei all’attuale contenzioso. 5. Il ragionamento impone tuttavia ulteriori precisazioni giuridiche, necessarie a spiegare il senso dell’approccio “formale” del Regolamento e dell’interpretazione che di esso ha dato la Corte di Giustizia. Va infatti osservato che l’utilizzazione di un conducente in “percorsi”, così formalmente individuati, che portino all’applicazione del Regolamento, ha per effetto il riconoscimento, in favore del medesimo, delle regole di salvaguardia a vario titolo dettate dagli artt. 5 ss. del Regolamento. Quindi, esemplificando e concentrando l’attenzione sul regime dei riposi e degli orari, ciò significa quanto segue. Se un conducente, in una giornata, effettua un “percorso” che rientra nell’ambito di applicazione del Regolamento, egli sarà soggetto al limite orario giornaliero, per l’intera attività di guida, di cui all’art. 6, par. 1 (9 ore) ed anche alle regole di cui all’art. 7 (interruzioni nella guida) ed alle regole sui riposi di cui all’art. 8 in ragione dell’attività svolta. Se un conducente, in una settimana, effettui uno o più percorsi che rientrano nell’ambito di applicazione del Regolamento, egli sarà soggetto, oltre alle regole sui limiti giornalieri di cui si è detto, al limite di orario di guida settimanale di cui all’art. 6, paragrafo 2 (56 ore e comunque non oltre l’orario di cui alla direttiva 2002/15/CE) ed alle regole, sui riposi, di cui all’art. 8. Se un conducente lavori su percorsi soggetti all’applicazione del Regolamento nel corso di due settimane consecutive, si applicheranno in suo favore, sia le regole di cui sopra, sia la regola di salvaguardia di cui all’art. 6, paragrafo 3 (massimale di 90 h) e così via. Come ha precisato la stessa Corte di Giustizia, sulla scia di rilievo della Commissione, ciò tuttavia non osta al fatto che per i percorsi cui il Regolamento non si applica, non debbano ricorrere norme di salvaguardia del conducente, che sono però rimesse, dall’art. 15 del Regolamento, a «regole nazionali» finalizzate ad assicurare – afferma la Corte di Giustizia - il rispetto delle «norme stabilite dalla direttiva 2002/15, per quanto concerne, in particolare, gli orari di lavoro, i riposi intermedi e i periodi di riposo». Ma non solo. È infatti evidente che anche quando il Regolamento si applica, oltre alle salvaguardie di cui a tale normativa specifica, si applicano necessariamente – come reso evidente dal già citato caso di cui all’art. 8, co. 2 del Regolamento ove si richiama espressamente la Direttiva 2002/15/CE – anche le regole di tutela del lavoro imposte dalla menzionata Direttiva e dalle norme interne destinate a dare attuazione ad essa. Tutto ciò spiega l’interpretazione rigorosamente “formale” resa dalla Corte di Giustizia rispetto al Regolamento ed al suo ambito di applicazione – altrimenti di dubbia razionalità anche rispetto ai fini di tutela ultimi da essa perseguiti – nel senso che al Regolamento si deve guardare come fonte che fornisce tutela ineludibile per i casi in cui vi sia comunque l’utilizzazione del conducente in quei “percorsi”, che sono assunti come base convenzionale perché operino le regole di eventuale miglior tutela conseguenti a tale disciplina. Senza però che tali tutele escludano l’applicazione delle altre tutele proprie dell’orario di lavoro - inteso nella sua durata complessiva ed effettiva, in presenza o meno di itinerari e percorsi che rilevano ai soli fini “convenzionali” del Regolamento - e che sono comunque imposte dalla specifica normativa eurounitaria di cui alla citata Direttiva 2002/15 CE concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto e quelle di eventuali legislazioni nazionali di tutela, tra cui in Italia il d. lgs. n. 234 del 2007, di attuazione di essa e che non a caso all’art. 2 prevede appunto l’applicazione (anche) agli autotrasporti disciplinati dal Regolamento. Con l’evidente conseguenza che, ad essere applicate, a meno di espresse eccezioni, sono comunque le regole di miglior favore per il lavoratore – contestualmente destinate a tradursi in miglior sicurezza per l’utenza e per i terzi, essendo la salvaguardia di essa in rapporto anche alle condizioni del conducente del mezzo - derivino esse dall’una o dall’altra fonte dell’intero e composito sistema normativo e curando comunque di evitare duplicazioni di una medesima tutela. Altrimenti detto, il Regolamento non va inteso come disciplina unitaria ed univoca di un certo regime di lavoro, ma come eventuale normativa di tutela ultima, uniforme sia quanto a lavoratori beneficiari sia quanto ad imprese ad essa vincolate, allorquando siano eseguiti giornalmente, settimanalmente o per tempi superiori, uno o più trasporti che rientrino in quella disciplina secondo i parametri propri di essa. 7. Su tali premesse è agevole anche l’applicazione degli altri principi sanciti dalla Corte di Giustizia 7.1 Questa S.C. aveva chiesto alla Corte di Giustizia di esprimersi in ordine al se il fatto che l’impresa effettui con certi veicoli itinerari superiori ai 50 Km, sia ragione di applicazione del Regolamento per l’intero servizio di trasporto da essa svolto e dunque anche per veicoli che siano utilizzati in tratte di misura inferiore. La Corte di Giustizia sul tema ha espresso il principio per cui «il regolamento non si applica alla totalità dei trasporti stradali effettuati dall'impresa interessata, qualora i veicoli adibiti al trasporto di passeggeri in servizio regolare siano utilizzati per coprire, in via principale, percorsi di linea non superiori a 50 km e, occasionalmente, percorsi di linea superiori a 50 km», in quanto viceversa, «detto regolamento si applica solo quando tali percorsi sono superiori a 50 km». Non vi è qui da addentrarsi in ulteriori particolari ed è pacifico il fatto che, in esito a Corte di Giustizia 9 settembre 2021, comunque l’uso del tachigrafo è dovuto per i veicoli adibiti a trasporti “misti” anche nei giorni in cui essi servano a trasporti il cui percorso non supera i 50 Km, profilo che non è qui in discussione. Attenendosi invece al principio per come espresso dalla Corte di Giustizia rispetto a quanto qui controverso, esso, ove letto nella logica di cui si è detto e che coglie nell’ ”itinerario” il parametro di individuazione dell’applicabilità o meno del Regolamento, comporta che è l’esistenza di un percorso superiore ai 50 Km a determinare l’applicazione delle regole di salvaguardia relative ad orari e riposi, su base giornaliera, settimanale, bisettimanale etc., a seconda della cadenza con cui quei percorsi siano coperti dal singolo conducente con il veicolo. 8. Infine, l’ulteriore questione sottoposta alla Corte di Giustizia riguarda le modalità di calcolo del tempo di lavoro da considerare al fine di calcolare il superamento o meno dei limiti di durata della guida in due settimane consecutive sanciti dal Regolamento (art. 6, paragrafo 3). La Corte di Giustizia ha in proposito ritenuto che la nozione di «periodo di guida complessivamente accumulato in un periodo di due settimane consecutive» includa solo il «tempo di guida», ai sensi dell'articolo 4, lettera j), di tale regolamento - e dunque il tempo di guida registrato - «ad esclusione di tutte le “altre mansioni”, ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 5, di detto regolamento, svolte dal conducente nel corso di tali due settimane» e con esclusione altresì, secondo quanto precisato al punto 43 della motivazione, del tempo che «il conducente trascorre alla guida di un veicolo al quale tale regolamento non si applica», in quanto altrimenti ciò equivarrebbe – dice la Corte U.E. in sostanziale coerenza con l’impostazione complessiva della pronuncia - a far rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 6, paragrafo 3, trasporti stradali che ne sono espressamente esclusi. Il principio è chiaro ed è difforme da quanto affermato in proposito dalla Corte territoriale, sicché anche da questo punto di vista si impone la cassazione. 9. I motivi vanno dunque complessivamente accolti e la Corte del rinvio deciderà facendo applicazione, in ragione delle domande dispiegate in causa dei principi di cui sopra, che comunque è opportuno declinare nelle massime che seguono: - «il Regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, quale interpretato Corte di Giustizia 9 novembre 2023, si applica ai conducenti addetti al trasporto passeggeri con veicoli atti a trasportare più di nove persone compreso il conducente e su percorsi superiori ai 50 chilometri, quale distanza da intendere come riguardante l’itinerario di linea che il veicolo deve percorrere per collegare su strada un punto di partenza a un punto di arrivo al fine di effettuare il trasporto nell'ambito del servizio regolare e predeterminato dall’impresa cui il mezzo è adibito, senza che rilevi il percorso di guida giornalmente svolto dal singolo conducente o la distanza percorsa da quel veicolo oltre tale itinerario e senza altresì che rilevino, per il calcolo del periodo di guida accumulato dal singolo conducente perché si applichi la tutela di cui all’art. 6 paragrafo 3 del menzionato Regolamento, in caso di guida in un periodo di due settimane consecutive, le “altre mansioni” accessorie o comunque le attività del lavoratore diverse dalla guida svolte nel corso di tali due settimane e i periodi trascorsi alla guida di un veicolo al quale tale regolamento non si applica»; - «qualora un conducente svolga, in singole giornate, settimane o per periodi di due settimane o maggiori, servizi di trasporto che comportino l’applicazione del Regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006, quale interpretato Corte di Giustizia 9 novembre 2023, nei riguardi del medesimo si applicano gli artt. 6, 7 e 8 e 9 di tale Regolamento sui periodi di lavoro ed i riposi, quali regole di eventuale miglior tutela, che non escludono l’applicazione, ai medesimi lavoratori, delle ulteriori regole sulla durata dell’orario di lavoro e sui riposi stabilite dalla Direttiva 2002/15/CE o dalle normative nazionali, tra cui il d. lgs. n. 234 del 2007, di attuazione di essa, curando comunque di evitare duplicazioni di una medesima tutela». P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 marzo 2024 Il Consigliere estensore Il Presidente Roberto Bellè Antonio Manna
Tribunale di Padova SEZIONE LAVORO N.R.G. 2328/2018 Il Giudice Dott. Francesco Perrone, all'udienza del 06/03/2024 pronunciato e letto contestualmente la seguente SENTENZA nella causa proposta da (...), con l'Avv.to MO.GI,. e l'Avv.to VE.AL. ricorrente contro (...), l'Avv.to (...) e (...) resistente OGGETTO: quantum debeatur. In merito alla quantificazione del quantum debeatur in forza della sentenza non definitiva n. 333 del 29 giugno 2023, rilevato che: - sulla base dei conteggi elaborati dal CTU dottor (...) nella consulenza tecnica del 29/12/2023 e nell'integrazione peritale del 2/2/2024, le cui conclusioni sono integralmente condivise da questo giudice in quanto analiticamente sviluppate e logicamente argomentate, è accertato che il ricorrente ha maturato un quantum debeatur da determinarsi secondo i criteri di computo che seguono; - quanto alle differenze retributive conseguenti all'inquadramento nel 3 livello del C.C.N.L. Commercio-Terziario a partire dall'1/1/2012 nulla quaestio che il quantum débeatur debba essere determinato in 20.405,57 Euro; - quanto alle differenze retributive maturate a titolo di lavoro straordinario a partire dall'1/1/2011, innanzitutto deve essere chiarito che la sentenza non definitiva ha incluso dell'orario di lavoro il solo "tempo di viaggio impiegato per raggiungere i singoli cantieri" (v. pag. 18, secondo paragrafo, della sentenza non definitiva), non anche i tempi di percorrenza impiegati dal ricorrente nei viaggi di ritorno. Ciò in quanto i viaggi di andata sono percorsi vincolati che il lavoratore deve inesorabilmente compiere per poter essere operativo in cantiere all'orario stabilito. Per contro, sulla base degli elementi acquisiti in giudizio ed allegati dallo stesso ricorrente, deve ritenersi che egli, una volta conclusa l'esecuzione della prestazione lavorativa contrattualmente dovuta presso ciascun cantiere, fosse libero di impiegare il tempo come meglio riteneva, senza vincoli di rientro in sede (pag. 20 del ricorso). Risulta che la decisione se rientrare presso la propria abitazione ovvero recarsi in qualunque altro luogo, a proprio piacimento e con i tempi ritenuti più opportuni, era rimessa alla libertà del lavoratore. Il ricorrente nemmeno allega elementi che possono far ritenere che tale libertà di scelta sia mai stata sindacata dalla società datrice di lavoro. Ciò è confermato dal fatto che il ricorrente è stato dotato nel tempo di due auto aziendali (del tipo Fiat Punto Van), così come anche il collega con cui veniva mandato in missione presso i diversi cantieri, sig. (...) (pag. 6 del ricorso), con autorizzazione a trattenerla per il week end (pag. 8 del ricorso); - a questo punto, merita una menzione la circostanza che, a pagina della CTU, si dà conto del fatto che i "consulenti ed i legali deh parti nella riunione peritale del 13.11.2023 (...) hanno convenuto di viaggio di andata del lunedì e del solo viaggio di ritorno del venerdì per tutte le trasferte verso cantieri situati fuori regione". Alla luce di quanto sopra detto, ciò non era dovuto. Ciononostante, le parti hanno ritenuto di disporre negozialmente di tale particolare profilo del computo, pertanto quanto meno il risultato finale del calcolo cui e giunto il CTU deve comunque essere tenuto per buono. Tanto premesso, il quantum debeatur a tale titolo è determinato in 9.078,42 Euro (somma quantificata al netto di quanto già corrisposto nel medesimo periodo a titolo di straordinario forfettizzato); - quanto alla domanda di risarcimento del danno per il carattere usurante della prestazione lavorativa, la più recente giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di riconoscere la risarcibilità del danno c.d. "da stress" o "da usura psicofisica", che si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale (Cass. n. 2886 del 2014; n. 15043 del 2015; n. 26450 del 2021). Esso si verifica quale conseguenza di una prestazione lavorativa che ecceda di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protragga per diversi anni. Tale danno si distingue dal danno biologico inteso quale lesione dell'integrità psicofisica del soggetto (danno alla salute), che si concretizza, a differenza del danno da usura psicofisica, in una "infermità" fisica e/o psichica. Pertanto, quando il datore di lavoro sia inadempiente nell'assicurare al lavoratore il diritto al riposo, così come garantito dall'art. 36 Cost., oltre che dai molteplici istituti stabiliti dalla legge ed eventualmente della contrattazione col letti v e tale inadempimento sia di gravità sufficiente alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, l'esistenza del danno da usura psicofisica, a differenza del danno biologico, è presunta nell'ai. Ai fini della determinazione dell'entità del danno, in applicazione dei principi generali, occorre tenere conto della gravità dell'inadempimento datoriale; - nel caso di specie risulta che il ricorrente, nel corso del rapporto di lavoro, ha svolto in media 8,15 ore settimanali lavoro straordinario, corrispondenti a 388,18 ore annuali di lavoro straordinario, calcolato su 11 mesi ed esclusione delle ferie. Gli artt. 4 e 5 del d.lgs. 66 del 2003 fissano la durata massima dell'orario di lavoro settimanale e il numero massimo di ore di lavoro straordinario rispettivamente in 48 e 250 ore. Anche il CCNL applicabile al rapporto di lavoro, all'art. 148, fissa in 250 ore annue il limite massimo del lavoro straordinario esigibile; - tale superamento del limite orario legale e contrattuale risulta sufficientemente significativo. Inoltre, il ricorrente ha operato in trasferta per intere settimane, con corrispondente recisione dei propri abituali interessi di vita privata e sociale. Detta situazione si è protratta con continuatività per oltre 7 anni, a partire da gennaio 2011 (v. allegato 11 alla CTU); - tali rilievi, oltre a confermare la presunzione di sussistenza nel caso concreto del danno da stress, rilevano alla stregua il parametro di determinazione della sua entità e della sua quantificazione in via equitativa. Liquidando quindi tale danno in 1,50 Euro per ogni ora di lavoro straordinario svolto in eccedenza rispetto al limite di 250 ore annue, esso va computato in 4.446,25 Euro (1,50 Euro x 2964 ore di lavoro straordinario svolte in eccedenza dall'1.1.2011 al 27.1.2018), oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi di legge dalla data di scadenza del titolo al saldo; - quanto alla domanda avente ad oggetto la condanna al pagamento dell'indennità di mancato preavviso, l'emersione di un danno da stress così come accertato, unitamente all'omesso integrale pagamento della retribuzione per il lavoro straordinario prestato, costituiscono giusta causa di dimissioni senza preavviso, così come rassegnate dal lavoratore in data 27 luglio 2018; - il quantum debeatur a tale titolo è quindi determinato in 4.711,84 Euro (di cui 1.895,89 Euro per indennità di mancato preavviso trattenuta in busta paga e 2.815,95 Euro per indennità di mancato preavviso rideterminata al 3 livello CCNL); - su tali somme, così come determinate, è dovuta la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi legali dalla data di maturazione di ciascun titolo al saldo; - è infine dovuto il rimborso delle spese di CTP, ammontanti a Euro 500,00 (v. fattura depositata all'udienza del 6/3/2024), oltre interessi legali dalla data di maturazione del titolo al saldo, atteso che si tratta pur sempre di spese direttamente connesse alla gestione della lite; - le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, facendo applicazione dello scaglione Euro 26.000,00-Euro 52.000,00 del D.M. n. 147 del 13/08/2022 (il quantum complessivamente dovuto è pari a 38.642,08 Euro), valori massimi relativamente a tutte le fasi, in ragione della complessità della controversia; - le spese di CTU sono poste definitivamente a carico di parte resistente, e si liquidano come in dispositivo; P.Q.M. Il giudice, ogni altra istanza rigettata: - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente di Euro 20.405,57, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi legali dalla data di maturazione di ciascun titolo al saldo; - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente di Euro 9.078,42, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi legali dalla data di maturazione di ciascun titolo al saldo; - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente di Euro 4.711,84, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi legali dalla data di maturazione di ciascun titolo al saldo; - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente di Euro 4.446,25, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat e interessi legali dalla data di maturazione di ciascun titolo al saldo; - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente di Euro 500,00, oltre interessi legali dalla data di maturazione del titolo al saldo; - condanna la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente delle spese di lite, che liquida in Euro 13.886,00 oltre 15% per spese generali, I.V.A. qualora dovuta e C.P.A. come per legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario; - pone definitivamente a carico della società resistente le spese della consulenza tecnica d'ufficio, liquidate in Euro 4.500,00, oltre accessori di legge. Così deciso in Padova il 6 marzo 2024. Depositata in Cancelleria l'8 marzo 2024.
Tribunale di Trapani, Sentenza n. 130/2024 del 05-03-2024 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRAPANI Il Giudice del lavoro, dott. (...) nella causa iscritta al n. 1996/2021 R.G.L. promossa DA (...) rappresentato e difeso dall'avv. (...) - ricorrente - CONTRO (...) in persona del (...) pro-tempore, rappresentata e difesa dall'avv. (...) - resistente - ha pronunciato la seguente SENTENZA Con ricorso ritualmente depositato in data (...) il ricorrente in epigrafe, avendo premesso di avere prestato attività lavorativa presso l'(...) di (...) da ultimo con la qualifica di (...) di (...) e (...) presso i (...) per l'U.O.C. per la Tutela della (...) dell'(...) della (...) e della (...) del (...) sino al giorno 01.05.2020 data in cui veniva collocato a riposo, rilevava: - che alla cessazione del rapporto di lavoro aveva maturato 72 giorni di ferie non godute; - che con pec del giorno 11.05.2020, rinnovata il successivo 15.07.2020, aveva presentato richiesta di pagamento dell'indennità sostitutiva per corrispondenti n. 39 giorni di ferie maturati e non fruiti per fatti a lui non imputabili, ai sensi dell'art. 33 del CCNL della (...) - che contestualmente, ai sensi dell'art. 34 del predetto (...) manifestava la volontà di voler cedere ed a titolo gratuito all'(...) sanitaria i 33 giorni di ferie residui; - che alle predette note non perveniva alcun riscontro e fino al mese di ottobre 2021 l'Asp non aveva utilizzato alcun giorno dei 33 giorni di ferie messi a disposizione dal ricorrente. Tanto premesso, il ricorrente chiedeva dichiararsi il suo diritto all'indennità sostitutiva per mancato godimento delle ferie e, di conseguenza, la condanna dell'azienda resistente al relativo pagamento per complessivi Euro 17.467,01, ovvero in subordine, nella denegata ipotesi in cui non venisse riconosciuto il diritto relativamente ai 33 giorni di ferie in precedenza ceduti ma mai utilizzati dall'(...) la minore somma di Euro. 9.473,08. (...) convenuta, regolarmente costituitasi in giudizio, contestava la fondatezza del ricorso chiedendone il rigetto. La causa, istruita in via documentale, è stata decisa sulle conclusioni di cui alle note di trattazione scritta. Ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, occorre delineare il quadro normativo di riferimento. In particolare, l'art. 5, comma 8, del D.L. 95/2012, convertito con modificazioni dalla legge 135/2012, prevede che "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche ... sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile". La disposizione in esame, finalizzata al contenimento della spesa pubblica, non introduce, di fatto, un divieto assoluto di monetizzazione delle ferie maturate e non godute all'atto della cessazione del rapporto, dovendosi piuttosto ricercare un'interpretazione coerente alla "ratio" della disposizione, che si sostanzia in esigenze di contenimento della spesa pubblica, nonché conforme al dettato costituzionale e comunitario. Come è noto, l'art. 36 della (...) riconosce il diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite. Come affermato dalla Corte Suprema, il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'articolo 36 (...) è ricollegabile non solo ad una funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma altresì - riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 616 del 1987 e n. 158 del 2001 - al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale - a prescindere dalla effettività della prestazione - mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro (Cass., sez. un., n. 14020 del 2001). Seguendo il medesimo solco interpretativo, a livello comunitario si ravvisa l'articolo 7, paragrafo 1, della (...) 2003/88/CE, il quale statuisce che "gli (...) membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali" e, analogamente, l'art. 31, paragrafo 2, della (...) dei (...) fondamentali dell'(...) riconosce il diritto fondamentale di ogni lavoratore a un periodo annuale di ferie retribuite. Alla luce dei predetti paradigmi, la Corte di Giustizia dell'(...) sull'assunto che "il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell'(...) al quale non si può derogare"((...) 12 giugno 2014, causa C 118/13, (...) punto 15) ha rimarcato la funzione delle ferie, essendo queste dirette a "consentire al lavoratore di riposarsi rispetto all'esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall'altra, di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione" ((...) 20 gennaio 2009, cit., punto 25; (...) 22 novembre 2011, cit., punto 31; (...) 21 giugno 2012, cit., punto 19). Da tale sistema si evince, quindi, come debba essere apprestata ogni misura necessaria a far sì che le ferie siano effettivamente fruite, vietando che, nel corso del rapporto di lavoro, il diritto alla fruizione in natura sia sostituito dalla monetizzazione, poiché ciò si risolverebbe di fatto nella rinuncia alle ferie in cambio di denaro. Tuttavia, il sopra richiamato art. 7 della Direttiva CE, nel vietare la monetizzazione delle ferie, prevede il diritto comunitario inderogabile all'indennità sostitutiva se il rapporto di lavoro cessa con ferie maturate e non godute per causa non imputabile al lavoratore. Il divieto di monetizzazione in corso di rapporto ha infatti la funzione di non vanificare la fruizione del riposo quale bene in natura. Pertanto, una volta che questo, a causa della cessazione del rapporto, resti irreversibilmente pregiudicato, viene garantita l'indennità sostitutiva al lavoratore incolpevole. In tal senso, la Corte di Giustizia UE (sentenza 20 luglio 2016, causa C-341/15) ha ribadito che, qualora sia cessato il rapporto di lavoro e non sia più possibile la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite, il lavoratore ha diritto a un'indennità finanziaria in virtù dell'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, per evitare che, a causa di tale impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria (sul punto v. sentenze del 20 gennaio 2009, (...) e a., C 350/06 e C 520/06, EU:C:2009:18; del 3 maggio 2012, (...) C 337/10, EU:C:2012:263, nonché del 12 giugno 2014, (...) C 118/13, EU:C:2014:1755), così intendendo limitare tale diritto alle ipotesi in cui il lavoratore non sia stato in grado di usufruire del suo diritto alle ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro. In particolare, la Corte, con riferimento alla fattispecie ad essa sottoposta, ha affermato "conformemente all'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, che un lavoratore, che non sia stato posto in grado di usufruire di tutte le ferie retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute. A tal fine è privo di rilevanza il motivo per cui il rapporto di lavoro è cessato" concludendo che "(...) luce di quanto precede, si deve constatare che l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che priva del diritto a un'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro è cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non è stato in grado di usufruire del suo diritto alle ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro" (CGE sent. 20.7.2016, C-341/15) e cioè che non le ha godute senza sua colpa. In sintonia con gli approdi della Corte di Giustizia, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha rimarcato che, costituendo il diritto alle ferie oggetto "di una tutela rigorosa, di rilievo costituzionale, visto che l'art. 36 Cost., comma 3, prevede testualmente che "il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi" - il mancato godimento del periodo feriale, per causa non imputabile al lavoratore, dà diritto al pagamento della relativa indennità sostitutiva" (Cass. n. 17353/2012; Cass. n. 11462/2012). Occorre, altresì, rilevare che la normativa comunitaria estende i propri effetti in tema di ferie anche ai dirigenti, infatti, l'art. 17 della (...) 2003/88/CE, nel consentire agli (...) membri un diverso trattamento rispetto ai diritti dei dirigenti, esclude dalle norme derogabili l'art. 7, riguardante appunto le ferie. Da tale assunto ne consegue che sarà compito del giudice nazionale, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest'ultimo, pervenire ad un'interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell'(...) (si veda Corte di Giustizia 6 novembre 2018, (...). In tal senso, secondo la giurisprudenza di legittimità, nell'attuare il coordinamento fra i diversi livelli normativi e al fine di assicurare che il lavoratore sia stato messo effettivamente nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alle ferie, il giudice nazionale dovrebbe improntare il proprio ragionamento su dei punti cardini, consistenti: a) nella necessità che il lavoratore sia invitato "se necessario formalmente" a fruire delle ferie e "nel contempo informandolo in modo accurato e in tempo utile... se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento" (punto 45); b) nella necessità di "evitare una situazione in cui l'onere di assicurarsi dell'esercizio effettivo del diritto alle ferie annuali retribuite sia interamente posto a carico del lavoratore" (punto 43); c) infine, sul piano processuale, nel prevedere che "l'onere della prova, in proposito, incombe al datore di lavoro .... sicché la perdita del diritto del lavoratore non può aversi ove il datore "non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto". (Cass. 6 giugno 2022, n. 18140). Facendo applicazione dei suddetti principi, occorre dunque valutare se la mancata fruizione delle ferie sia imputabile al ricorrente ovvero se lo stesso non sia stato posto in grado di usufruire di tutte le ferie retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro per causa a lui non imputabile. Nel caso di specie, con riferimento a n. 39 giorni, la mancata fruizione delle ferie residue non può essere addebitata al ricorrente, avendo questi ottemperato al proprio obbligo di cooperazione nell'attuazione del proprio diritto. Come emerge dalla ricostruzione dei fatti e dalla produzione documentale offerta, il dott. (...) avendo i requisiti stabiliti dall'art. 14, comma 1, del D. L. n.4/ 19 - convertito in L. n. 26/2019 - ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione anticipata, presentava in data (...) le proprie dimissioni volontarie alla (...) di (...) All'uopo, con il precipuo fine di assicurare il rispetto del termine di preavviso di mesi sei (6), stabilito dall'art. 14, comma 6 lettera c, del sopra citato (...) e, tenuto conto del periodo di ferie maturate ed ancora non godute, indicava quale termine ultimo del rapporto di lavoro la data del 30.04.2020. Infatti, decorso il tempo da imputarsi al prescritto periodo di preavviso, presentava in data (...) alla competente (...) umane, tre distinte domande di ferie relative al periodo intercorrente dal 11.12.2019 al 24.01.2020, istanze tutte regolarmente vistate dal (...) della (...) dell'(...) nella qualità di (...) F.F. della (...) Alle precedenti, seguirono altre istanze di ferie che coprivano tutto il periodo dal 27.01.2020 al 30.04.2020 (all. 12-13-14). Tuttavia, la (...) con nota prot. n. 28880/2020 del 5 marzo 2020, vista l'emergenza epidemiologica legata all'insorgenza del (...) ed al fine di garantire la piena efficienza assistenziale, disponeva la sospensione delle ferie per tutto il personale dipendente, e conseguentemente anche del dott. (...) il quale riprendeva il servizio dal 06.03.2020. (...) revoca della precedente sospensione del periodo di ferie, disposta nei confronti del ricorrente con nota prot. 101 del 9.03.2020 (all.16), faceva seguito nuovamente la chiamata in servizio con nota prot. n. 111 del 10.03.2020 (all.21) al fine di ottemperare alle prescrizioni di cui al (...) del 09.03.2020. Pertanto, alla luce dell'esigenze e della normativa emergenziale e della consecutio delle note aziendali, il dott. (...) dal 06.03.2020 riprendeva il servizio fino al 30.04.2020 senza aver fruito più di alcun giorno di ferie. Il rilievo dell'ASP di (...) secondo cui la permanenza in servizio del Dott. (...) sarebbe da addebitare ad una personale scelta "non essendo le sue prestazioni essenziali ai fini della cura per il contrasto alla pandemia" ed evidenziando che la direzione strategica aveva stabilito che la presenza in servizio del personale non strettamente necessario sarebbe stata da ricondurre ad una responsabilità delle direzioni mediche dei (...) (v. nota (...) del 3.4.2020 - all.1 memoria), appare inconferente alla fattispecie in esame. All'uopo, infatti, occorre richiamare la nota n. 7865 del 25.03.2020 del Ministero della (...) che fra le attività non procrastinabili durante il periodo emergenziale, evidenziava quelle ostetriche e ginecologiche tipiche dei servizi assistenziali offerti dal (...) di (...) presso il quale l'odierno ricorrente prestava la propria attività, in qualità di unico ginecologo. Analogamente la (...) per la lotta alla povertà e per la programmazione sociale del Ministero del (...) e delle politiche sociali, con il precipuo obiettivo di garantire la continuità degli interventi svolti, stabiliva a pag. 4 della Circolare n.1 del 27 marzo 2020 che "non è prevista alcuna sospensione per consultori, (...) centri diurni, centri per senza tetto" (v. produzione documentale del ricorrente del 30.05.2022). Ciò posto, le motivazioni e le condizioni che condussero il ricorrente a non fruire delle ferie non ancora godute sia da ascrivere a fatti sopravvenuti e non imputabili al dipendente. La tempistica della presentazione delle proprie dimissioni, delle diverse richieste di ferie fatte per tempo e della imprevista ed imprevedibile situazione emergenziale devono condurre a ritenere che il mancato godimento dei 39 giorni di ferie residui all'epoca del pensionamento sia da addebitare ad una circostanza sopravvenuta e non imputabile al ricorrente, sicché appare del tutto illegittimo il diniego dell'ASP di monetizzarle e corrispondere al ricorrente la relativa indennità sostitutiva. Del resto, non osta a tale soluzione, ma anzi vi appare conforme, la disciplina contrattuale che prevede, al comma 9 dell'art. 33, del (...) area sanità 2016-2018, "Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili fatto salvo quanto previsto dal successivo comma 10 (...)" e al comma 10 che "Le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative (...)" (comma 10). Concludendo la domanda relativa alla condanna della resistente al pagamento dell'indennità sostitutiva relativa a n.39 giorni di ferie maturate, richieste e non godute deve essere accolta. Passando alla quantificazione, tenuto conto della mancata contestazione di parte convenuta dei conteggi elaborati dal ricorrente, l'ASP di (...) va condannata al pagamento della somma di euro 9.473,08, a titolo di indennità sostituiva di trentanove (39) giorni di ferie non godute, di cui ventotto (28) giorni relativi all'anno 2019 e undici (11) giorni relativi all'anno 2020. Va invece respinta l'ulteriore domanda relativa alla richiesta di monetizzazione delle 33 giornate di ferie non godute e cedute dal Dott. (...) per le finalità di cui all'art. 34 del Contratto Collettivo Area Sanità - triennio 2016 2018. La tesi del ricorrente secondo cui, non avendo l'(...) fornito prova della richiesta pervenuta da dirigenti che si trovassero nelle condizioni di necessità legittimanti la fruizione, le predette giornate di ferie cedute dal ricorrente cedente sarebbero poi ritornate nella sua disponibilità ai sensi del comma 9 dell'art. 34 cit., non coglie nel segno. Vero è che la predetta disposizione, dopo aver previsto la facoltà del dirigente di cedere, in tutto o in parte, ad altro dirigente della stessa azienda o ente che abbia necessità di prestare assistenza a figli minori che necessitano di cure costanti per particolari condizioni di salute, le giornate di ferie nella propria disponibilità (quelle eccedenti le quattro settimane annuali e le quattro giornate di riposo per le festività soppresse di cui all'art. 33, comma 6), statuisce al comma 9 che "(...) cessino le condizioni di necessità legittimanti, prima della fruizione, totale o parziale, delle ferie e delle giornate di riposo da parte del richiedente, i giorni tornano nella disponibilità degli offerenti, secondo un criterio di proporzionalità.". Epperò, nel caso di specie, a prescindere dal fatto che la natura sperimentale della norma potrebbe anche avallare la scelta dell'ASP di accantonare le giornate di ferie cedute in una banca ore, appare comunque tranciante la considerazione che la mancata fruizione delle predette giornate di ferie sia indubbiamente imputabile al ricorrente il quale, con scelta spontanea e fatta in prossimità del pensionamento, ha ceduto dette giornate di ferie per finalità solidaristiche, senza che fino alla data del pensionamento ne chiedesse la remissione in disponibilità, così impedendo di fatto, per sua esclusiva scelta, qualsivoglia possibilità di fruirne prima della cessazione del rapporto. Le spese di lite vanno compensate per metà, in considerazione del parziale accoglimento della domanda, mentre la restante metà va posta a carico della resistente, liquidata come in dispositivo tenuto conto dell'assenza di attività istruttoria. P.Q.M. Condanna l'ASP di (...) al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 9.473,08, oltre accessori di legge, a titolo di indennità sostituiva di ferie non godute. Compensa per metà le spese di lite e condanna l'ASP di (...) al pagamento della restante metà che liquida in euro 2.000,00 oltre accessori, con distrazione al difensore.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. LEONE Margherita Maria - Consigliere Dott. RIVERSO Roberto - Rel. Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 3745-2023 proposto da: Pa.Fr., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati Lu.Cr., Fa.Cr.; - ricorrente - contro E. Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, (...), presso lo studio dell'avvocato St.Ve., rappresentata e difesa dall'avvocato Lo.Io.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 2843/2022 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/07/2022 R.G.N. 2593/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2024 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per il rigettodel ricorso; udito l'Avvocato Fa.Cr.; udito l'Avvocato Lo.Io.. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'appello di Napoli con la sentenza in atti ha rigettato l'appello proposto da Pa.Fr. avverso la sentenza del tribunale che aveva respinto la domanda con cui il ricorrente, lavoratore con mansioni di conducente di linea, aveva chiesto di ottenere la trasformazione del rapporto da part-time a tempo pieno ed il pagamento di differenze retributive pari ad Euro 196.586,87, per avere osservato un orario di lavoro superiore a quello contrattualmente stabilito. 2. La Corte d'appello ha affermato che, sulla base delle prove testimoniali assunte in giudizio, risultava che gli autisti una volta parcheggiato l'autobus potessero allontanarsi e che andasse affermata l'insussistenza di un obbligo di custodia nel mezzo nei tempi di sosta tra l'arrivo a Salerno e la ripartenza per Benevento; rilevava inoltre la mancanza di un obbligo di reperibilità prescritto dall'azienda e che l'attività accessoria svolta raggiungesse i 40 minuti e che, conseguentemente, l'orario complessivo settimanale svolto, inclusi i tempi accessori non superasse le 24 ore settimanali contrattualmente pattuiti e non comportava pertanto né l'invocata trasformazione in rapporto a tempo pieno per fatti concludenti né le rivendicate differenze salariali. La Corte sosteneva altresì che il lavoratore avesse rifiutato il cambio del turno per essere adibito ad un turno diverso. 3. Per quanto riguardava il diniego della domanda di indennizzo per violazione dell'art. 20 dell'Accordo nazionale del 28/11/2015 la Corte ribadiva la non vigenza di tale norma all'atto della stipula del contratto part-time, laddove invece la disciplina della fattispecie si doveva rinvenire nell'articolo 2 lett. B dell'Accordo nazionale del 04/12/2004 la cui violazione tuttavia non era sanzionata con la conversione del rapporto a tempo pieno. 4. In relazione alla richiesta di incentivo alla produttività per la vendita a bordo dei titoli di viaggio per gli operatori di esercizio, sulla base del trattamento economico aziendale, previsto dall'art. 36 del CCNL, la Corte sosteneva che non fosse stato indicato tuttavia dallo stesso ricorrente alcun accordo aziendale su cui si fondava la richiesta, né quanti fossero i titoli emessi e se fosse prevista una maggiorazione sul prezzo di vendita dei titoli a bordo, di tal che la pretesa risultava generica in ordine ai presupposti su cui era fondata. 5. Avverso la domanda ha proposto ricorso per cassazione Pa.Fr. con cinque motivi ai quali ha resistito Etac Srl con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell'articolo 6 comma 1 lett. f) legge 138/1958 e disapplicazione dell'articolo 6 comma 1 lett. c) legge n.138/1958 e dell'articolo 3 D.Lgs. n. 234/2007, nonché violazione articolo 20 CCNL autoferrotranvieri in relazione all'art. 360 n.3 c.p.c. per avere la Corte d'appello erroneamente confermato quanto sostenuto dal primo giudice includendo nel calcolo della prestazione lavorativa svolta i soli tempi effettivi di guida e i tempi accessori, non potendo considerarsi ore lavorate quelle trascorse in sosta presso il parcheggio di Salerno perché in quel frangente il lavoratore restava inoperoso, con ci violando la normativa di riferimento. Al contrario, secondo il ricorrente, andava applicato l'articolo 6 lett. c) della legge 138/1958 che stabilisce: si computa come lavoro effettivo per il personale viaggiante il tempo impiegato per la guida e il periodo durante il quale il lavoratore è comandato a disposizione dell'azienda. La sentenza gravata in modo apodittico invece aveva erroneamente applicato al caso di specie la disciplina prevista dalla lett. f) della medesima legge n. 138/1958. 2. Con il secondo motivo si deduce nullità della sentenza per omessa pronuncia e violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'articolo 132 c.p.c. ex articolo 360 n. 4 c.p.c. per avere la Corte d'appello disconosciuto l'indennizzo per la violazione dell'articolo 20 del CCNL autoferrotramvieri da valutarsi ai sensi dell'art. 8 decreto legislativo n. 61/2000 che consente al giudice di liquidare il danno in via equitativa, anche per sopperire alle difficoltà del lavoratore di precostituirsi una prova negativa a dimostrazione delle difficoltà di reperire altre attività garantendo le quattro ore da contratto. 2.1. I primi due motivi da esaminarsi unitariamente per la connessione che li avvince, non sono fondati. Il ricorrente sostiene l'applicazione alla fattispecie che lo riguarda della lett. c) dell'art. 6 della legge 138/1958 il quale prevede che si computi nell'orario di lavoro effettivo del personale viaggiante il tempo impiegato per la guida ed il periodo durante il quale il lavoratore è comandato a disposizione dell'azienda. Non spiega percome si concili questa tesi con le risultanze dell'istruttoria svolta secondo cui il ricorrente dopo il parcheggio del mezzo di trasporto era del tutto privo di vincoli, essendo libero di autodeterminarsi senza essere assoggettato ad alcun comando, né ad obbligo di reperibilità mai neppure dedotto, né ad altro potere organizzativo datoriale. Proprio sulla scorta di tale accertamento di fatto la conclusione presa dai giudici di merito appare invece del tutto in linea con il diritto, dovendosi fare riferimento nel caso di specie alla previsione della lett. f) citata, la quale prevede per il personale viaggiante un'aliquota non inferiore al 12 per cento nel periodo di tempo che il lavoratore trascorre inoperoso fuori residenza, e senza altro obbligo per esso che quello della reperibilità, ed escluso il periodo di riposo giornaliero di cui all'art. 7. 2.3. Non si può invece riferire alla fattispecie la soluzione di cui all'invocata sentenza di questa Corte n. 19537/2005 che riguardava un lavoratore che rimaneva a bordo dell'autobus dovendo alternarsi alla guida con un altro autista e dedicarsi di seguito ai servizi accessori. 2.4. Inoltre, neppure può essere applicata nel caso in esame l'invocata disciplina dell'art.3 del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 234 (di attuazione della direttiva 2002/15/CE concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporti,) la quale prevede appunto che " Agli effetti delle disposizioni di cui al presente decreto si intende per a) orario di lavoro: ogni periodo compreso fra l'inizio e la fine del lavoro durante il quale il lavoratore mobile è sul posto di lavoro, a disposizione del datore di lavoro ed esercita le sue funzioni o attività." 2.5. Nemmeno può venire in applicazione la disciplina invocata dell'art.20 del CCNL dell'articolo 20 dell'Accordo azionale del 28/11/2015 in quanto non risulta impugnata l'autonoma ratio decidendi con cui la Corte ha ribadito la non vigenza di tale norma all'atto della stipula del contratto part-time, la cui disciplina si doveva rinvenire invece nell'articolo 2 lett. B dell'Accordo nazionale del 04/12/2004 la violazione del quale tuttavia non era sanzionata con la conversione del rapporto a tempo pieno. 2.6. Inoltre il ricorso invoca infondatamente l'art. 8 D.Lgs. n. 61/2000, pur se la sentenza impugnata ha affermato che nulla ha dedotto e nulla ha eccepito, in sede di impugnazione, il ricorrente appellante quanto alle condizioni di applicabilità di tale disposizione, con passaggio motivazionale anch'esso non impugnato e non suscettibile, pertanto, di un autonomo riesame in questa sede di legittimità. 3. Con il terzo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione dell'articolo 36 del CCNL autoferrotranvieri del 4/12/2004 e del CCNL autoferrotranvieri del 28/11/2015 in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. avendo la Corte d'appello errato ad affermare che per quanto attiene all'incentivo alla produttività di cui all'art.36 del CCNL, il ricorrente non avesse indicato l'accordo aziendale su cui si fondava la richiesta, né quanti fossero i titoli emessi, né se fosse prevista una maggiorazione sul prezzo di vendita dei titoli a bordo di talché la pretesa risultava essere generica in ordine ai presupposti su cui si fonda; posto che l'art. 36 del CCNL prevede che in assenza dell'accordo aziendale per le utilizzazioni è fissato nel 50% della maggiorazione. 4. Col quarto motivo si deduce nullità della sentenza per violazione dell'art. 115 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 4c.p.c., error in procedendo ed error in iudicando per aver affermato che il Pa.Fr. non avrebbe fornito la prova di quanti biglietti fossero stati emessi e se fosse prevista una maggiorazione sul prezzo di vendita dei titoli; avendo invece il ricorrente prodotto i conteggi che venivano notificati alla datrice di lavoro insieme al ricorso introduttivo senza essere contestati. 4.1. Il terzo ed il quarto motivo da esaminare unitariamente per connessione sono infondati. La Corte ha affermato che l'incentivo alla produttività per la vendita a bordo dei titoli di viaggio per gli operatori di esercizio sulla base del trattamento economico aziendale, non fosse dovuto perché non era stato indicato dallo stesso ricorrente alcun accordo aziendale su cui si fondava la richiesta, né quanti fossero i titoli emessi e se fosse prevista una maggiorazione sul prezzo di vendita dei titoli a bordo, di talché la pretesa risultava essere generica in ordine ai presupposti su cui era fondata. 4.2. La materia è regolata dalla fonte collettiva per cui risulta assorbente la mancata produzione della contrattazione aziendale su cui si fonda la domanda ed a nulla servirebbe neppure sapere se fosse stata acquisita o meno la prova dei biglietti venduti. Mentre nulla è dato sapere sull'art.36 del CCNL posto a base della domanda. 4.3. Inoltre, la pretesa applicazione dell'art.115 c.p.c. non risulta nemmeno autosufficiente non essendo stato prodotto né il conteggio, né gli atti da cui si desume la pretesa non contestazione e pacificità del fatto; dovendo pure rammentarsi in applicazione della giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5 -, Ordinanza n. 31619 del 06/12/2018) che la parte che deduca una non contestazione in sede di impugnazione è tenuta ad indicare specificamente in quale atto processuale il fatto sia stato esposto, al fine di consentire al giudice di verificarne la chiarezza e se la controparte abbia avuto occasione di replicare. 5. Con il quinto motivo si prospetta la nullità della sentenza per omessa pronuncia, violazione dell'art. 112 e dell'art. 132 c.p.c. ex art. 360 n. 4 c.p.c. per avere omesso di pronunciarsi sulla domanda con cui veniva chiesto che, fino a quando non era intervenuto l'innalzamento delle ore lavorate da 20 a 24, la violazione del contratto di lavoro era stata sistematica da parte della datrice secondo il conteggio effettuato dall'impugnata sentenza che determinava, si ripete erroneamente, in 23 ore settimanali l'orario di lavoro effettuato in concreto dal ricorrente; il mancato riconoscimento del diritto alle differenze retributive scaturenti dalle ore in più a partire dal 29/4/2011 fino al 31/5/2012 allorquando è stato innalzato l'orario a 24 ore, rendeva nulla l'impugnata sentenza nulla. 5.1. Il motivo è anzitutto inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo stata documentata la domanda svolta sul punto in primo grado con la trascrizione del ricorso. In ogni caso risulta pure che, secondo la Corte d'appello, l'orario complessivamente svolto, inclusi i tempi accessori, non superasse le ventiquattro ore settimanali contrattualmente pattuiti e non comportasse pertanto né l'invocata trasformazione in rapporto a tempo pieno per fatti concludenti, né le rivendicate differenze salariali; avendo quindi la Corte accertato che il ricorrente fosse stato interamente saldato delle proprie spettanze a concorrenza dell'orario contrattuale di 24 ore lavorate, secondo un valutazione dei fatti che non è suscettibile di essere di per sé rivista in questa sede di legittimità. 6. Pertanto, alla stregua delle premesse il ricorso de quo va respinto. Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della controricorrente; segue il raddoppio del contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi 4500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma all'udienza del 10 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2024.
TRIBUNALE DI ROMA I sezione lavoro REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il dr. Paola Giovene di Girasole presso il Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza all'esito dell'udienza di discussione dell'I febbraio 2023 nella causa iscritta nel ruolo generale degli affari contenziosi della sezione lavoro, al n. 16417/2023 TRA (...), rappresentata e difesa dal l'avv., (...), ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, (...), per mandato in atti; ricorrente E (...), in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti (...), (...) ed (...), ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultimo in Roma, alla via (...), per mandato in atti; resistente FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 17.5.2023 la ricorrente in epigrafe ha dedotto di essere stata dipendente della (...) coop., ed impiegata dal 1993 nell'appalto presso l'Istituto Poligrafico di Roma, con mansioni di operaia, livello 2 del CCNL Multiservizi, con orario dal lunedì al venerdì, dalle 6,30 alle 12,30; che a seguito del cambio di appalto, in data 11.4.23, il servizio era stato affidato, con decorrenza 22.4.23, alla (...) facente parte del (...) soc. coop., con passaggio diretto di tutti i lavoratori impiegati; alle medesime condizioni contrattuali; che, in occasione della convocazione per sottoscrivere la lettera di assunzione presso la (...), in data 18.04.23, alla sola ricorrente era stato proposto uri Cambio di fascia oraria, dalle 15,00 alle 20;00, e dalle 15,00 alle 21,00 nei giorni festivi; che la ricorrente non aveva accettato; che la ricorrente era impossibilitata a lavorare in siffatta fascia oraria in quanto nel pomeriggio doveva occuparsi dell'anziana madre, affetta da Parkinson e con necessità di assistenza continua, per la quale aveva presentato richiesta ex l. 104/92, in attesa di definizione; che vane erano state le diffide inviate alla (...), di assumere la ricorrente alle medesime condizioni, anche di fascia oraria, precedentemente osservate. Tanto premesso, ha dedotto l'illegittimità della mancata assunzione presso la (...) perché contraria all'art. 4 CCNL Multiservizi, applicabile alla fattispecie in esame, che impone alla società subentrata nell'appalto l'assunzione di tutti i lavoratori impiegati da almeno 4 mesi con la precedente appaltatrice, alle stesse condizioni da quella praticate. Ha quindi sostenuto la contrarietà ai principi di correttezza e buona fede del comportamento tenuto dalla (...) nei confronti della ricorrente, laddove ha preteso di modificarle unilateralmente le condizioni contrattuali relative alla fascia oraria di lavoro. Ha dedotto che il cambiamento di orario lavorativo avrebbe comportato per la ricorrente l'impossibilità di assistere la madre. Ha quindi concluso chiedendo accertare e dichiarare l'obbligo della convenuta di assumere la ricorrente alle medesime condizioni contrattuali della precedente appaltatrice, con condanna della stessa al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di subentro della società nell'appalto all'effettiva assunzione della ricorrente. Si è costituita in giudizio la (...) soc. coop. contestando la fondatezza della domanda e chiedendone il rigetto. All'udienza fissata per la discussione la ricorrente ha chiesto integrarsi il contraddittorio nei confronti della (...) soc. coop., con cui nelle more la (...) aveva stipulato un contratto di cessione di ramo di azienda, con passaggio di tutti i lavoratori a quest'ultima società ed, altresì, nei confronti della (...), nel frattempo ulteriormente subentrata nell'appalto. Quindi, rigettata la richiesta di integrazione del contraddittorio, esperito con esito negativo il tentativo di conciliazione, ritenuta la causa documentalmente istruita, all'esito .dell'udienza dell'1 febbraio 2024 tenutasi in trattazione scritta ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., viste le note di trattazione delle parti, la causa è stata decisa come da dispositivo e contestuale motivazione. Va innanzitutto rimarcato come la presente pronuncia costituisca presupposto indispensabile per poter eventualmente agire nei confronti delle altre società nel frattempo subentrate a vario titolo alla (...), laddove l'integrazione del contraddittorio richiesta da parte ricorrente non avrebbe invece potuto produrre alcun risultato utile per la (...), non potendosi dar luogo in questa sede ad una pronuncia nei confronti della (...), fondata sui medesimi fatti di cui il presente giudizio. Ed infatti un'eventuale richiesta di condanna delle suddette società, presupporrebbe accertamenti di fatto su circostanze ulteriori rispetto a quelle qui dedotte, non più deducibili nel presente giudizio (modalità della cessione alla (...) soc. coop. del ramo di azienda di cui dovrebbe far parte la ricorrente, e della successiva cessione dell'appalto alla (...)). Conseguentemente va disattesa l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla (...) r.l., essendo invece tale società l'unica nei cui confronti la ricorrente potrebbe ottenere una pronuncia favorevole, fonte in ogni caso di responsabilità a carico della stessa, e comunque indispensabile presupposto per poter poi agire nei confronti delle altre società. Tanto premesso, si osserva che l'art. 4 del CCNL Pulizia Multiservizi applicato nella fattispecie in esame, in materia di cambio di appalto, stabilisce: "Rilevato che il settore è caratterizzato, nella generalità dei casi, dalla produzione dei servizi tramite contratti di appalto e che da questo conseguono frequenti cambi di gestione fra le imprese con risoluzione di rapporti di lavoro da parte dell'impresa cedente e predisposizione delle necessarie risorse lavorative, con assunzioni ex novo, da parte dell'impresa subentrante, le Parti intendono tenere conto, da un lato, delle caratteristiche strutturali del settore medesimo e delle attività delle imprese e, dall'altro, dell'obiettivo di tutelare nel modo più concreto i livelli complessivi della occupazione.... Alla scadenza del contratto di appalto possono verificarsi 2 casi: a) in caso di cessazione di appalto a parità di termini, modalità e prestazioni contrattuali l'impresa subentrante si impegna a garantire l'assunzione, senza periodo di prova, degli addetti esistenti in organico sull'appalto risultanti da documentazione probante che lo determini almeno 4 mesi prima della cessazione stessa, .salvo, casi particolari quali dimissioni, pensionamenti, decessi; b) in caso di cessazione di appalto con modificazioni di termini, modalità e prestazioni contrattuali, l'impresa subentrante - ancorché sia la stessa che già gestiva il servizio - sarà convocata presso l'Associazione territoriale cui conferisce mandato, o in assenza presso la Direzione Provinciale del Lavoro o eventuale analoga istituzione territoriale competente, ove possibile nei 15 giorni precedenti con la rappresentanza sindacale aziendale e le Organizzazioni Sindacali stipulanti territorialmente competenti'per un esame della situazione, al fine di armonizzare le mutate esigenze tecnico-organizzative dell'appalto con il mantenimento dei livelli occupazionali, tenuto conto delle condizioni professionali e di utilizzo del personale impiegato, anche facendo ricorso a processi di mobilità da posto di lavoro a posto di lavoro nell'ambito dell'attività dell'impresa ovvero a strumenti quali part-time, riduzione orario di lavoro, flessibilità delle giornate lavorative, mobilità...." (doc. 1 prod. ricorr. e resist.). La ricorrente ha lavorato fino ad aprile 2022 alle dipendenze della (...) soc. coop. p.a., impiegata presso l'appalto di pulizie dell'Istituto Poligrafico di Roma, via Salaria n. 691 (doc. 2 prod. ricorr.). Alla fine del 2022 il (...) coop. consortile stabile è risultato aggiudicatario della gara di appalto relativa ai servizi di pulizia bandita dall'Istituto Poligrafico Zecca dello Stato di Roma. In data 27 dicembre 2022 il Consorzio, le consorziate (...) e le organizzazioni sindacali Filcams CGIL, Fisascat CISL e UILTrasporti di Roma, nonché le RSA si sono incontrate al fine di avviare la procedura di cambio appalto prevista dal CCNL Pulizia Multiservizi applicato. In tale sede è stato raggiunto un accordo che prevedeva il passaggio dei dipendenti aventi diritto, "secondo le caratteristiche di inquadramento contrattuale (qualifica, livello, mansione) e di parametro orario settimanale ivi indicato con applicazione delle stesse condizioni economiche e normative in essere e previste dal CCNL Contratto Collettivo Nazionale di lavoro per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati multiservizi sottoscritto da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltrasporti Uil e CIR Pulizie, Servizi Integrati - Multiservizi" (doc. 2 prod. resist.). Nel suddetto accordo si è inoltre previsto che (...) soc. coop. r.l., per armonizzare le mutate esigenze tecnico organizzative dell'appalto prevedranno e metteranno in atto una organizzazione del servizio su 6 giorni lavorativi con riposo alternato di sabato a domenica...". Siffatta previsione si è resa necessaria in quanto il nuovo capitolato d'appalto, all'art. 10, prevede espressamente che le attività giornaliere di pulizia vengano garantite, su 6 giorni settimanali, mentre il precedente capitolato nulla precisava sul punto (docc. 5 e 6 prod. resist.), e (...) aveva organizzato il servizio su 5 giorni, dal lunedì al venerdì. Con specifico riferimento al complesso di via (...), cui era addetta la ricorrente, nel nuovo capitolato è stato previsto, con riguardo ai punti ristoro aziendali ivi presenti che "i servizi a canone dovranno essere svolti con. .la frequenza di due volte al giorno, da espletare nella fascia oraria pomeridiana post chiusura pomeridiana del servizio e nella fascia oraria intermedia fra il servizio bar di mattina ed il servizio mensa del primo pomeriggio", mentre nel precedente capitolato non vi era tale previsione. Il nuovo capitolato d'appalto, inoltre, si differenzia dal precedente anche per le maggiori frequenze con cui effettuare i vari servizi di pulizia. Il nuovo capitolato d'appalto ha quindi espressamente previsto che "l'impresa dovrà pertanto garantire lo svolgimento del servizio, nei tempi e nei modi concordati con la Stazione Appaltante, nel rispetto delle suddette attività, dei turni di lavoro e delle eventuali modifiche o urgenze che si rendessero necessarie" (doc. 5 prod. resist.). All'accordo del 27.12.22 è poi seguito un verbale di incontro dell'11.4.23 in cui le parti hanno concordato un nuovo incontro, da tenersi dopo 30 giorni dall'inizio dell'esecuzione dell'appalto, per valutare eventuali modifiche organizzative resesi eventualmente necessarie per effetto delle nuove condizioni dell'appalto, ed a cui hanno allegato l'elenco dei lavoratori interessati al cambio di appalto, con indicazione del livello di inquadramento e del monte ore da ciascuno effettuato (doc. 4 prod. resist.). La (...) coop. è la cooperativa, tra le consorziate aggiudicatane dell'appalto in questione, cui è stata affidata la gestione della pulizia delle sedi di via (...) e di via (...), dove la ricorrente era addetta. Pertanto, conformemente al contenuto degli accordi del 27.12.22 e dell'11.4.23, e tenuto conto delle richieste dell'appaltante, dopo averla appositamente convocata in data 18.4.23, ha proposto alla (...) l'assunzione "alle medesime condizioni contrattuali precedenti", e precisamente, offrendole stessa sede (via (...)), stesso monte ore settimanale (30), stessa qualifica é livello di inquadramento (2), stesso CCNL Multiservizi. La differenza rispetto al precedente contratto ha riguardato solo la fascia oraria, passata da quella della mattina dalle 6,30 alle 1:2,30, dal lunedì al venerdì, alla fascia pomeridiana, dalle 15,00 alle 20,00 nei giorni feriale, e dalle 15,00 alle 21,00 nei giorni festivi (doc. 9 prod. resist.). Ciò risulta conforme al disposto dell'art. 4 del CCNL Multiservizi ed agli accordi sindacali intervenuti nell'ambito del cambio appalto, i quali hanno sancito il mantenimento, oltre che del livello e delle mansioni - del "parametro orario settimanale" indicato nella tabella allegata al doc. 4, che indica appunto il solo monte ore settimanale e non l'articolazione oraria, dipendendo questa dalla scelta organizzativa dèi datore di lavoro, sulla base delle richieste della società appaltante. Ed infatti l'accordo sincadale del 27.12.22, come visto, ha espressamente previsto che le società appaltatici organizzino i turni di lavoro su 6 giorni lavorativi, con riposo alternato di sabato o domenica "per armonizzare le mutate esigenze tecnico organizzative". In sostanza, gli accordi sindacali stipulati hanno dato atto delle modifiche apportate all'organizzazione dell'appalto, e hanno conseguentemente esplicitamente previsto a tal fine la possibilità del mutamento della distribuzione oraria, con il mantenimento del solo monte ore. Proprio perché il mutamento della fascia oraria è dipeso dalle nuove esigenze manifestate dall'appaltante, la nuova distribuzione dell'orario di lavoro, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, non ha riguardato solo la ricorrente, ma anche altri dipendenti addetti all'appalto in via (...). Specificamente, la resistente ha documentato che anche al dipendente (...), con monte ore di 30 settimanali, pari a quello della ricorrente, è stata assegnata la turnistica pomeridiana (fascia 15-21) per l'intera settimana, lavorando nel turno mattutino solo il sabato o la domenica, a turni alternati; ai lavoratori (...) con molte ore, rispettivamente, di 30,00 e 35,00 settimanali, al contrario, è stato collocato nella fascia pomeridiana il turno del sabato, dalle 14:00 alle 19:00; laddove gli altri dipendenti assegnati esclusivamente ai turni mattutini risultano avere un monte ore inferiore; (doc. 8 prod. resist.). Né dati diversi sembrano evincersi dai turni allegati alla produzione di parte ricorrente, che risultano illeggibili (doc. 6 prod. ricorr.). Quanto alla ricorrente, la proposta contrattuale che la riguardava prevedeva, come per il turni pomeridiani infrasettimanali, ed un solo turno mattutino, il sabato o la domenica (doc. 9 prod. resist.). Tale ripartizione dei turni di lavoro appare ragionevole e peraltro conforme, a detta della resistente, a quelle che erano state le indicazioni delle OO.SS., che avevano manifestato l'opportunità che i lavoratori con un monte ore di 20 settimanali continuassero ad avere una collocazione oraria su 5 giorni dal lunedì al venerdì, affidando i turni del sabato e della domenica a quelli con un maggior monte ore. Inoltre la resistente ha sottolineato come il responsabile avesse evidenziato l'opportunità di affidare i turni pomeridiani, più sguarniti, al personale più esperto ed autonomo nello svolgimento delle attività, e che (...) soc. coop. proprio per tale motivo ha proposto di inserire la (...) nel turno pomeridiano, in affiancamento al (...) entrambi con lo stesso monte ore settimanale di 30, e con inquadramento al 2 livello, scelta approvata dal (...). Deve dunque ritenersi adeguatamente dimostrato da parte della resistente, in assenza di altri elementi addotti dall'istante, che il mutamento della fascia oraria richiesto alla ricorrente nella proposta di assunzione formulata dalla (...) sia stata determinata da effettive ragioni organizzative che hanno imposto, rispetto al precedente appalto, una distribuzione del lavoro su 6, invece che su 5 giorni settimanali, ed altresì un maggior impegno, rispetto al passato, nella fascia pomeridiana, e che la scelta della ricorrente per l'assegnazione alla fascia oraria sia dipesa da precisi criteri. Parte ricorrente non ha poi dedotto specifiche circostanze, oltre quella relativa alla necessità di assistere la madre, che però non risultava all'epoca dei fatti certificata, per cui la scelta di assegnare la fascia pomeridiana dovesse ricadere su altri lavoratori piuttosto che su di lei. Mentre la dipendente (...), con monte ore settimanale di 27,50, ha conservato la collocazione oraria mattutina che aveva in precedenza, proprio in quanto gode dei benefici di cui alla l. 104/1992. Sicché, in definitiva, l'unilaterale modifica datoriale della fascia oraria di lavoro part-time della ricorrente deve ritenersi legittima, in quanto dettata dalle mutate esigenze economico-organizzative dell'impresa appaltante, ed avvenuta nel rispetto delle condizioni fissate dall'art. 4 CCNL Multiservizi, e degli accordi sindacali del 27.12.22 e dell'11.4.23. La domanda va dunque rigettata. Spese compensate, vertendosi in materia di interpretazione di norme contrattuali. P.Q.M. Definitivamente pronunciando, rigetta la domanda e compensa integralmente tra le parti le spese di lite. Così deciso in Roma il 6 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NAPOLI Sezione VI COLL.B composto da: Dr. Francesco Pellecchia - Presidente Dr. Stefania Daniele - Giudice Dr.ssa Diana Bottillo - Giudice estensore all'udienza dell' ha emesso la seguente SENTENZA nei confronti di Fi.Lu. nato a T. del G. il (...), residente in S. G. a C. via M. n.14 - domicilio dichiarato per le notifiche ex art. 161 c.p.p. LIBERO ASSENTE IMPUTATO (COME DA ALLEGATO) IMPUTATO A) del reato p e p. dall'articolo 572 c. p. - 612 bis, 61 n. 5 c. p., perché, con condotte reiterate, da oltre vent'anni durante il periodo di convivenza ed anche quando, circa otto anni fa, si allontanava dall'abitazione spostandosi in altro Comune, maltrattava in vario modo, le persone offese, ossia i suoi zii Be.Ad. di anni 84 e Co.Fr. di anni 89, in particolare, aggredendoli verbalmente con cadenza quasi quotidiana, disturbando il loro riposo, sbattendo a terra le sedie della loro abitazione, esasperandoli con continue richieste di somme di danaro (con le condotte descritte al capo C), - da ultimo in data 21.10.2020, arrivava a presentarsi presso l'abitazione degli zii, li costringeva ad aprire la porta, urlando per lungo tempo di lasciarlo entrare e, allorquando la zia Be.Ad. gli consentiva l'ingresso, li minacciava ripetutamente - come meglio descritto ai capi seguenti - intimando loro la consegna di una somma di danaro pari a 80 Euro e, poi, ancora di 30 Euro; in tal modo determinava nelle persone offese un perdurante e grave stato di ansia e paura, nonché ingenerava nelle stesse un fondato timore per la incolumità propria e dei propri familiari e, altresì, le costringeva ad alterare le proprie abitudini di vita; Con la circostanza aggravante di aver commesso il fatto su soggetti in condizoni di minorata difesa e con reiterate minacce. In Portici, dal 2000 circa con condotta perdurante fino al 21.10.2020 (arresto) B) del reato p. e p. dagli articoli 582, 585, 576 comma 1 n. 1 (in relazione all'articolo 61 n. 2) e n. 5 c. p., perché cagionava a Be.Ad. e Co.Fr., con la condotta descritta al capo A, lesioni consistite in "stato di agitazione reattiva per riferita aggressione verbale"; Con le circostanze aggravanti di aver commesso il fatto per eseguire il reato indicato al capo A essendosi reso autore del reato previsto dall'articolo 572 c.p. In Portici, il 21.10.2020 C) del reato p. e p. dagli articoli 81 cpv., 629. 56 e 629 commi 1 e 2 in relazione all'articolo 628 comma 3 n. 3 bis. 3 quinquies c. p., perché, in tempi e modi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, con cadenza quasi quotidiana, con minacce consistite nel riferire con tono alterato alle persone offese Be.Ad. di anni 84 e Co.Fr. di anni 89 che non sene sarebbe andato di casa se non gli avessero dato somme di danaro tra 20 e 200 Euro, si faceva consegnare tali somme al fine di acquistare sostanze stupefacenti, procurando a sé un ingiusto profitto con altrui danno, in particolare, in data 15.10.2020, con le condotte minacciose sopra descritte, costringeva Be.Ad. a consegnargli addirittura 200 Euro; in data 21.10.2020, dopo aver bussato alla porta dell'abitazione degli zii ultraottantenni per oltre 20 minuti, con tono di voce alterato, e aver costretto la zia Be.Ad. a farlo entrare, minacciava la stessa che se non gli avesse consegnato le somme prima di 80 Euro e poi di 30 Euro, non se ne sarebbe più andato, inoltre, utilizzava violenza impedendo alla stessa B. di contattare la Polizia, trattenendola per le mani, in tal modo compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad ottenere la consegna del danaro per procurarsi l'ingiusto profitto con corrispettivo danno per le vittime (evento che non si verificava per la pronta reazione di altro soggetto che contattava il 113); Con le circostanze aggravanti di aver commesso i fatti nei luoghi indicati dall'articolo 624 bis c. p. e nei confronti di soggetti ultraottantenni In Portici, sino al 21.10.2020 (arresto) Con recidiva Persone offese: 1) Be.Ad. (N. (...): 2) Co.Fr. (N. (...)), residenti a P. in Via Z. n. 27: Evidenziata l'acquisizione delle seguenti fonti di prova: MOTIVI DELLA DECISIONE - SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto emesso in data 14.01.2021 il Giudice per le indagini preliminari ha disposto il giudizio immediato nei confronti di Fi.Gi. per i reati come in epigrafe ascritti dinanzi al Tribunale di Napoli in composizione collegiale per l'udienza del 5.03.2021. Alla prima udienza, assente l'imputato regolarmente citato e non comparso, il Giudice ha disposto la rimessione del fascicolo al presidente coordinatore rilevando la competenza collegiale. Assegnato il processo a questo Collegio, all'udienza del 30.04.2021, in assenza di questioni preliminari, il Tribunale ha dichiarato aperto il dibattimento e pronunciato l'ordinanza di ammissione delle prove; acquisita la prova documentale (vds. referto sanitario), si rinviava per l'istruttoria, stante l'assenza dei testimoni. Differito alla successiva udienza il processo per esigenze di ruolo, all'udienza dell'11.02.2022, con l'accordo delle parti è stata data lettura del verbale di arresto e degli atti d'indagine redatti dagli ufficiali di polizia della Stazione Carabinieri di Portici, procedendosi, poi, all'esame, con domande integrative, del teste di polizia Es.Ma., in servizio presso il medesimo ufficio. Alla successiva udienza del 29.04.2022, acquisito il certificato di morte relativo alla persona offesa Co.Fr., sono stati esaminati i testimoni Bi.Co. e Pa.Vi., quest'ultimo su domande residuali atteso l'accordo delle parti per la lettura del correlativo verbale di sommarie informazioni testimoniali rese in data 21.10.2020. Rinviato in prosieguo istruttoria il processo, seguiva ulteriore rinvio all'udienza del 18.11.2022 per l'adesione dei difensori all'astensione forense con conseguente sospensione dei termini di prescrizione dei reati ex art. 159 c.p. All'udienza del 17.03.2023, acquisito il certificato di morte relativo anche alla persona offesa Be.Ad., veniva data formale lettura del verbale di sommarie informazioni testimoniali rese in data 21.10.2020 da Co.Fr. e del verbale di ricezione di denuncia/querela presentata nella medesima data, alle ore 11,02 da Be.Ad. nonché del verbale di integrazione della denuncia/querela delle ore 12,52. Terminata l'istruttoria dibattimentale, revocata l'ordinanza di ammissione degli ulteriori testimoni, il Collegio ha dichiarato utilizzabili le prove orali assunte e gli atti acquisiti al fascicolo disponendo il rinvio per la discussione. Disposto all'udienza del 23.06.2023 rinvio per esigenze di ruolo, all'odierna udienza, udite le rispettive conclusioni come in epigrafe trascritte, il Tribunale, espletata la camera di consiglio, ha pronunciato sentenza mediante pubblica lettura del dispositivo con riserva di deposito dei motivi. FATTO E VALUTAZIONE DELLE PROVE Osserva il Tribunale che le risultanze probatorie non consentono di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati come ascritti in rubrica. Le fonti di prova poste a fondamento della decisione odierna constano del verbale di arresto e della testimonianza dell'ufficiale di polizia Es.Ma., in servizio presso la Stazione Carabinieri di Portici; delle testimonianze rese da Bi.Co. e Pa.Vi.; del verbale di sommarie informazioni testimoniali rese in data 21.10.2020 da tale ultimo teste; della denuncia presentata in data 21.10.2020 dalla persona offesa Be.Ad. (deceduta) e del verbale di sommarie informazioni testimoniali rese in pari data da Co.Fr.; di prova documentale sub specie, referti medici di soccorso sanitario 118 del 21.10.2020 nn.(...). La presente vicenda ha tratto origine dall'intervento operato dal personale della Stazione Carabinieri di Portici alle ore 8,25 del 21.10.2020 presso l'abitazione ubicata in P. via Z. n.27 scala 1 piano 2 interno 7, intervento che condusse all'arresto del prevenuto. Risulta dal verbale di arresto che, in data 21.10.2020, militari della Stazione Carabinieri di Portici, a seguito di segnalazione della centrale operativa, eseguirono un intervento presso l'abitazione della anziana Be.Ad. a causa delle condotte del nipote, Fi.Lu., soggetto tossicodipendente. Il teste Es.Ma., in servizio presso la Stazione Carabinieri di Portici, in dibattimento ha fornito alcune precisazioni in merito alle operazioni di arresto e di perquisizione (vds. udienza dell'11.02.2022). Il teste ha riferito che la perquisizione diede esito negativo; che l'imputato fu rintracciato a distanza di alcuni metri dall'edificio ove è ubicata l'abitazione dei denuncianti, nella direzione opposta, intento ad allontanarsi; che la condotta fu del tutto collaborativa e pacifica. Risulta dalla denuncia presentata da Be.Ad., zia di Fi.Lu., deceduta, con la quale l'imputato aveva coabitato per molti anni unitamente al coniuge della anziana donna, Co.Fr., a seguito della perdita dei propri genitori, che il nipote, tossicodipendente, pretendeva la dazione di somme di denaro per l'acquisto di sostanze stupefacenti, in particolar modo eroina. Raccontava il familiare in denuncia: In sede di integrazione della querela Be.Ad. ribadiva che il nipote, pur residente in altro luogo da diversi anni, si recava con cadenza settimanale o anche più volta alla settimana, per ricevere somme di denaro per l'acquisto della droga. Precisava in denuncia che le richieste avvenivano con tono di voce alterato e con frasi del tipo: "MI DOVETE DARE I SOLDI, ALTRIMENTI DA QUI NON ME NE VADO", con una tale insistenza da indurli a consegnargli il denaro. Narrava il familiare: In sede di sommarie informazioni testimoniali (vds.verbale del 21.10.2020), Co.Fr. confermava quanto riferito in sede di denuncia dal coniuge Be.Ad., dichiarando che il nipote, da anni tossicodipendente, si presentava continuamente presso la loro abitazione chiedendo loro, con insistenza e petulanza, somme di denaro per l'acquisto della droga, minacciando di non lasciare l'abitazione fino a quando non avesse ottenuto il denaro; esasperati, puntualmente cedevano alle richieste pur di allontanarlo, attesa anche la loro anziana età. In data 21.10.2020, tenuto conto della ennesima insistenza del familiare, si determinarono ad allertare i carabinieri al che il nipote, accorgendosi della telefonata alle forze dell'ordine, si diede alla fuga. Il teste Pa.Vi., in sede di sommarie informazioni testimoniali rese in data 21.10.2020 (vds. verbale in atti) ha reso dichiarazioni in merito ai fatti occorsi in data 21.10.2020: In dibattimento (udienza 29.04.2022) il teste ha dichiarato che la cognata Be.Ad., dopo aver presentato la denuncia - querela nei confronti del nipote, era fermamente intenzionata a ritirarla e a ristabilire un rapporto pacifico finanche di coabitazione con il familiare che aveva educato e cresciuto come un figlio dalla morte dei suoi genitori. La teste Bi.Co. (udienza 29.04.2022) ha dichiarato che l'imputato è il figlio di una sua sorella deceduta e che l'altra sorella, Be.Ad., deceduta nell'anno 2021, e così anche il coniuge, si è occupata con cura della educazione e della crescita del nipote rimasto orfano fino a quando costui non si trasferì in altra abitazione. Riguardo ai fatti accaduti in data 21.10.2020, la teste ha dichiarato di essere stata contattata da sua sorella poiché il nipote, dapprima impiegato presso l'esercizio commerciale familiare, poi disoccupato per la chiusura dell'attività e aiutato economicamente dai parenti, inclusa lei stessa, era particolarmente insistente a richiedere denaro. La teste ha riferito di aver allertato i carabinieri su richiesta della sorella la quale, subito dopo, trattandosi, peraltro, di persona anziana e vulnerabile, particolarmente legata affettivamente al nipote che aveva cresciuto, la ricontattò per comunicarle che non vi era necessità dell'intervento delle forze di polizia avendo avuto unicamente l'intenzione di intimorirlo per porre un freno alle sue condotte petulanti. Sul piano della prova documentale, constano in atti referti nei confronti di Be.Ad. e Co.Fr. del 21.10.2020 (ore 8,43 chiamata, ore ore 8,54 intervento) del presidio sanitario di emergenza 118 da cui risulta, quale diagnosi, "stato di agitazione reattiva per riferita aggressione verbale". Valutazione delle risultanze probatorie Queste, in sintesi, le risultanze probatorie, ritiene il Tribunale che non sia raggiunta la prova granitica, oltre il ragionevole dubbio, della penale responsabilità dell'imputato per i delitti contestati di maltrattamenti familiari - art. 572 c.p. e stalking - art.612 bis c.p. - commessi dall'anno 2000 con condotta perdurante, nonché per gli episodi contestati di estorsione consumata - artt.629 in relazione all'art.628 comma 3 n.3 bis e n.3 quinquies c.p. - condotte commesse in luogo domestico e nei confronti di persona ultrasessantacinquenne fino al 21.10.2021; infine, di lesioni personali - artt.582, 585, 576 comma 1 n.1 e n.5 c.p. (lesioni aggravate dal nesso teleologico commesse dall'autore del delitto di maltrattamenti), condotta commessa il 21.10.2020. Sinteticamente, in punto di tipicità normativa, il delitto di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. richiede il requisito della abitualità, sostanziandosi in una condotta unitaria e richiedendo l'esistenza di una relazione familiare tra l'autore della condotta e la vittima o una relazione di autorità o di affidamento; è richiesto, dunque, che la condotta si estrinsechi in una pluralità di atti seriali, delittuosi o meno, realizzati in momenti successivi con la consapevolezza di ledere l'integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo, così da cagionare privazioni e umiliazioni costanti e da sottoporlo intenzionalmente a un regime di vita dolorosamente vessatorio. L'elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è costituito dal compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fìsiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Cass. sez. 3,sentenza n. 6724 del 22/11/2017 dep. 12/02/2018 Rv. 272452 - 01). Quanto all'elemento psicologico, esso non implica l'intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria (Cass.sez 3 sentenza n. 1508 del 16/10/2018 dep. 14/01/2019 Rv. 274341 - 02). Occorre, infine, precisare che, ove parte della condotta sia commessa sotto la vigenza della disposizione incriminatrice di cui all'art. 572 cod. pen. - come modificata in senso peggiorativo dall'art. 4, comma 1, lett. d), L. 1 ottobre 2012, n. 172 - trova applicazione la normativa successiva sfavorevole al reo nel solo caso in cui si collochi dopo la sua entrata in vigore un segmento di condotta sufficiente, di per sé, a integrare l'abitualità del reato (Cass. Sez. VI, 28 giugno 2023 ud. 24 gennaio 2023 n. 28218). Anche il delitto di atti persecutori - art.612 bis c.p. - richiede l'abitualità e la serialità di condotte molestatrici idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita. In giurisprudenza è stato precisato, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, che il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa, sicché è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa (Cass. Sez. 6 -, Sentenza n. 31390 del 30/03/2023 Ud. dep. 19/07/2023 RV. 285087 - 01). Nondimeno, in tema di rapporti tra il delitto di atti persecutori e quello di molestie di cui all'art. 660 cod. pen., esso consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all'art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Cass. sez. 5 sentenza n. 15625 del 09/02/2021 Ud. dep. 26/04/2021 Rv. 281029 - 01). Quanto al delitto di estorsione consumata, la fattispecie richiede, per la sua configurabilità, l'aver costretto taluno a fare o ad omettere qualcosa, mediante violenza o minaccia esercitate sulla persona fisica, così procurandosi un profitto ingiusto con altrui danno. Riguardo al delitto di lesioni, premesso che il reato non è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia se l'autore della condotta ha avuto non solo l'intenzione di maltrattare ma anche di ledere l'integrità fisica del soggetto passivo in ragione della diversità dell'elemento soggettivo tra i due reati (così tra le altre, Cass. pen. sez. V sentenza n. 42599 del 18/07/2018 Cd. dep. 27/09/2018 Rv. 274010 - 02), nella nozione di lesioni vi rientrano unicamente le alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Cass. Sez. 5, n.33492 del 14/05/2019, G., Rv. 276930; Sez. 4, n. 22156 del 19/04/2016, D.S., Rv. 267306; Sez. 5, n. 40428 del 11/06/2009, Rv. 245378, L. e altri; Sez. 4, n. 17505 del 19/03/2008, P., Rv. 239541). Non rientra, pertanto, nella nozione di malattia, la mera agitazione psicomotoria (Cass. sez. 5 Sentenza n. 37870 del 08/09/2022 dep. 06/10/2022 Rv. 283599 - 01). Calando le coordinate ermeneutiche al caso in esame, ritiene il Tribunale che non sia raggiunta la prova della materialità dei reati in contestazione. Sul piano processuale della formazione e valutazione delle prove, si osserva che le fonti di prova primarie poste a fondamento della odierna decisione constano delle dichiarazioni predibattimentali rese dalla denunciante Be.Ad. e dal coniuge Co.Fr., entrambi deceduti, dunque divenute irripetibili e acquisite con il consenso delle parti ovvero a norma dell'art. 512 c.p.p. A tal riguardo, occorre precisare, in premessa, che le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, specie quelle che assumono valore preponderante e fondamentale per sostenere l'accusa, come nel caso in esame, non possono - conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza Europea, in applicazione dell'art. 6 della CEDU - fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale a meno che non siano corroborate da solidi riscontri oggettivi tali che il complesso degli elementi di prova sia idoneo a sorreggere nel suo insieme l'asserto accusatorio. Orbene, nel caso sub indice, le dichiarazioni rese in denuncia da Be.Ad. non appaiono già intrinsecamente connotate da quella necessaria solidità narrativa tale da sorreggere da sole l'assunto accusatorio. Invero, la denunciante ha riferito delle insistenti richieste di denaro provenienti dal nipote dovute alla tossicodipendenza e alla sua sopravvenuta condizione di disoccupazione, raccontandole, tuttavia, in termini di richieste petulanti, ripetitive e moleste senza riferire in alcun modo episodi specifici di minacce, aggressioni verbali e fisiche, violenze ai loro danni. Al contrario, le richieste di soldi erano formulate adducendo motivi di necessità primarie di vita quali l'acquisto di medicinali o il ricovero ospedaliero e caratterizzate da una particolare fastidiosa insistenza, senza mai trascendere, ripetesi, in minacce di morte o in azioni aggressive fisiche o verbali; ciononostante, veniva puntualmente accontentato pur di farne cessare i comportamenti petulanti e di allontanarlo dall'abitazione, anche in ragione dell'età avanzata di essi familiari e della conseguente condizione vulnerabile e fragile. Non ha mancato la denunciante di rimarcare il legame affettivo con il nipote che aveva sostanzialmente educato e cresciuto sin dalla morte dei suoi genitori e con il quale aveva convissuto per molti anni tale che, nella sostanza, anche per debolezza affettiva, si mostrava accondiscendente pur se tali condotte gli procuravano una condizione di stress e uno stato di esasperazione, siccome anziana. Nondimeno, la denunciante ha escluso ogni forma di minaccia o di aggressione verbale o fisica da parte del nipote il quale, utilizzando un tono di voce fermo ed elevato, otteneva quanto richiesto. In occasione dei fatti denunciati in data 21.10.2020, precisava che il nipote non gli impedì di chiamare telefonicamente la sorella, Bi.Co., alla quale disse di contattare i carabinieri e che il nipote, intuito l'imminente avvento delle forze di polizia, si allontanava spontaneamente dall'abitazione. Di analogo tenore le dichiarazioni predibattimentali rese da Co.Fr., coniuge (deceduto) di Be.Ad., il quale ha parimenti affermato che il nipote, purtroppo tossicodipendente, nonostante il legame affettivo, era petulante e insistente tanto da esasperarli e stressarli avendo, peraltro, chiara la destinazione del denaro all'acquisto della droga. Orbene, a fronte di tale compendio narrativo, non oggetto di contraddittorio dibattimentale, non possono ritenersi univocamente provati, oltre ogni dubbio ragionevole, i delitti in contestazione. Le dichiarazioni predibattimentali non forniscono granitica dimostrazione di un agire vessatorio abituale tale da infliggere intenzionalmente sofferenze e mortificazioni alle vittime, posto in essere dall'imputato nei confronti degli anziani familiari Bi.Co. e Co.Fr.. Costoro, pur stressati per le richieste continue di denaro da parte del nipote a causa della tossicodipendenza, non hanno, a ben vedere, raccontato di specifici, dettagliati episodi di minacce, violenze verbali, aggressioni fìsiche, persecuzioni, limitandosi a riferire, in modo generico, di comportamenti esagitati e irrequieti tipici del soggetto tossicodipendente in astinenza, di condotte insistenti e petulanti del familiare a fronte delle quali si mostravano remissivi e accondiscendenti sia perché legati dal vincolo affettivo con l'imputato sia perché esasperati dai suoi comportamenti fastidiosi e irritanti, tenuto conto anche della loro anzianità e fragilità emotiva. Non è provato, dunque, l'agire abituale, vessatorio e persecutorio ai danni degli indicati familiari, sorretto dal dolo unitario di infliggere loro sistematiche sofferenze, tale da renderne la vita impossibile, richiedendo il delitto un connotato qualificato e pregnante laddove, nel caso in esame, è dimostrata, per vero, la condotta petulante e fastidiosa posta in essere dall'odierno imputato che aveva necessità di reperire denaro per l'acquisto della droga. Giova, d'altro canto, evidenziare che l'imputato ha coabitato lungamente con i predetti familiari i quali hanno svolto le funzioni genitoriali, ricevendo da costoro un costante e spontaneo sostegno morale ed economico. Non è, dunque, provata la serialità delle vessazioni e delle persecuzioni come richiesta dalla norma incriminatrice, non avendo riferito alcunché i familiari di episodi specifici e circostanziati accaduti nel ventennio. Del pari, non ritiene il Tribunale di poter qualificare come estorsive le richieste di denaro mancando la prova certa del segmento materiale della violenza fisica o della effettiva minaccia correlate alle pretese arbitrarie di denaro, non potendosi ritenere tale la generica invettiva verbale o lo sbraitare nervoso in assenza di comportamenti intimidatori ben più specifici e rilevanti, collegati alle richieste di denaro. Anche in merito ai fatti più dettagliati occorsi in data 21.10.2020, le persone offese hanno riferito della ennesima richiesta di denaro da parte del nipote che sbraitava; ma, nel contempo, hanno anche riferito che il nipote adduceva necessità primarie di vita e che, allertati i carabinieri, ancor prima del loro intervento, abbandonava spontaneamente l'abitazione venendo, poi, rintracciato a breve distanza dall'edificio assumendo un contegno del tutto pacifico e collaborativo. La teste Bi.Co., a sua volta, ha dichiarato di aver contattato lei i carabinieri su richiesta della sorella la quale, immediatamente dopo, la richiamava per invitarla a desistere dal richiedere l'intervento delle forze di polizia. Dunque, sotto tale profilo, va rimarcato che la dinamica per come descritta dalla denunciante (il nipote le avrebbe impedito di chiamare telefonicamente i carabinieri trattenendola per le mani), peraltro neppure saggiata in dibattimento nel contraddittorio processuale, non solo non sembra possa configurare la violenza alla persona funzionalmente correlata alla pretesa illecita di denaro, ma risulta, poi, smentita dalla circostanza fattuale che la denunciante ha contattato la sorella esortandola a chiamare i carabinieri pur in presenza dello stesso nipote senza che ciò suscitasse alcuna sua reazione collerica o inconsulta tant'è che i militari sono stati allertati e sono intervenuti. Ritiene, pertanto, il Collegio che non sia raggiunta la prova del delitto di estorsione non essendo provata la minaccia perpetrata in stretta correlazione alla richiesta di denaro né tantomeno la violenza fisica. Occorre, infine, evidenziare che, pur a fronte di una lunga convivenza e della contestazione temporale estesa, non risultano presentate dalle parti offese pregresse denunce nei confronti dell'imputato per vicende analoghe né constano certificazioni sanitarie correlate alle aggressioni fisiche perpetrate dall'imputato. Non sono state, poi, acquisiti ulteriori e autonomi elementi di prova in grado di supportare l'assunto accusatorio, in specie, le testimonianze rese da soggetti legati da vincoli familiari sia con le vittime che con l'imputato. Dalle dichiarazioni del familiare Pa.Vi. risulta che questi ha una conoscenza indiretta delle richieste di denaro del familiare tossicodipendente pur essendo sovente intervenuto per tranquillizzare l'imputato, incline a impulsi collerici, escludendo, tuttavia, che si fosse reso autore di minacce o aggressioni ai danni degli zii. Risulta, poi, che la cognata, Be.Ad., era intenzionata a ritirare la denuncia nei confronti del nipote. Nondimeno, la teste Bi.Co., a conoscenza delle reiterate richieste di denaro avanzate dal nipote nei confronti di sua sorella Be.Ad. e del coniuge, non ha mancato di puntualizzare il legame affettivo esistente tra sua sorella e l'imputato rimarcando che la sorella la contattò telefonicamente in data 21.10.2020 per richiedere l'intervento dei carabinieri ma che, immediatamente dopo, la ricontattò per evitare la segnalazione alle forze di polizia avendo avuto unicamente l'intenzione di intimorire il nipote per porre un freno alle sue condotte petulanti e stressanti. Non ha riferito la teste di episodi di violenza o minaccia poste in essere dall'imputato nei confronti dei predetti familiari. Sul piano documentale, non constano referti sanitari pregressi rispetto a quello in occasione dell'intervento del presidio sanitario in data 21.10.2020, indicativi di reiterate aggressioni fisiche perpetrate dall'imputato dal che, sotto tale profilo, alcuna prova esterna a riscontro sorregge l'assunto accusatorio dei "maltrattamenti' oggetto della contestazione. Giova, poi, evidenziare che l'unico referto medico acquisito è dimostrativo, al più, di quanto accaduto nella data dell'arresto, ma non di certo di quella serialità ontologica di azioni di cui si compone il delitto di maltrattamenti, senza tener conto della attestazione evincibile dal certificato evocativa di uno stato di agitazione e non di lesioni corporee. Neppure la prova dei delitti può derivare da quanto è emerso storicamente in sede investigativa (vds.verbale di arresto, verbale di perquisizione, testimonianza Es.Ma. /Stazione Carabinieri di Portici) se non che l'intervento è stato operato su segnalazione di una anziana donna per riferita estorsione e che l'imputato fu rintracciato all'esterno dell'edificio nel mentre si incamminava allontanandosi dal luogo assumendo una condotta collaborativa e pacifica. Al di la di tali dati storici e del riscontro dello stato di agitazione degli anziani coniugi da parte del personale sanitario, i carabinieri hanno raccolto la denuncia dal che il verbale di arresto ha un contenuto de relato, rimandando al narrato della persona offesa e del coniuge. Orbene, alla stregua delle considerazioni svolte, reputa il Tribunale di dover pervenire al proscioglimento dell'imputato non essendo raggiunta la prova univoca e sufficiente, oltre ogni dubbio ragionevole, della sussistenza materiale del delitto in contestazione il cui requisito indefettibile e tipico è dato dalla abitualità della condotta vessatoria, requisito che evoca un connotato di perduranza temporale e di reiterazione, nel caso di specie non provato, da cui la pronuncia assolutoria. Analoghe conclusioni valgono anche per il delitto di estorsione. I dati probatori raccolti non consentono di affermare che le richieste di denaro avvenivano da parte dell'imputato con modalità intimidatorie, aggressive e violente, quanto invece con petulanza e insistenza, con un agire nervoso, tipico del soggetto aduso al consumo di stupefacenti, senza alcuna violenza fisica e senza che sia provata la minaccia rivolta ai familiari idonea a incutere il serio pericolo di un male ingiusto. Non si ritiene, pertanto, raggiunta la prova sufficiente e coerente idonea a sorreggere l'assunto accusatorio anche per tale delitto dovendosi, infine, rimarcare che la denunciante non solo si prodigò per impedire, nella data dell'arresto, l'intervento dei carabinieri ma esternò ai familiari la volontà di ritirare la denuncia nei confronti del nipote (vds.dichiarazioni testi Pa.Vi. e Bi.Co.). Vale, a tal riguardo, considerare che, i fatti accaduti in data 21.10.2020, oggetto della odierna contestazione, sono astrattamente inquadrabili nella ipotesi delittuosa della tentata estorsione (non avendo l'imputato conseguito il profitto ingiusto in base all'asserto accusatorio), in danno di congiunti, dal che, alla stregua del disposto di cui all'art. 649 c.p., trova applicazione la procedibilità a querela (e ciò anche nel caso in cui le condotte minacciose siano attuate mediante violenza sulle cose cfr. Cass. Sez. 2 - , Sentenza n. 49651 del 19/10/2023 dep. 13/12/2023 Rv. 285460 - 01; Sez. 2 - , Sentenza n. 22930 del 09/03/2023 Ud. dep. 25/05/2023 Rv. 284533 - 01 secondo cui la minaccia o la mera violenza psichica non escludono la configurabilità della causa di non punibilità e della perseguibilità a querela per i reati contro il patrimonio commessi in danno dei prossimi congiunti, in quanto la clausola derogatoria prevista dall'art. 649, comma terzo, cod. pen., opera solo quando il fatto sia commesso con violenza fisica). Quanto al delitto di lesioni contestato al capo B), osserva il Tribunale che il referto medico datato 21.10.2020, attesta lo uno stato di agitazione degli anziani coniugi, compatibile con le dichiarazioni delle persone offese. Tuttavia, occorre evidenziare che lo stato di agitazione non rientra nella nozione di lesioni fisiche in senso stretto come richiesta dalla norma incriminatrice e, comunque, si tratta di una indicazione generica non potendosi attribuire all'imputato, con granitica certezza, la responsabilità per aver cagionato l'agitazione reattiva nei familiari, soggetti, d'altro canto, vulnerabili e di facile suscettibilità emotiva in quanto persone anziane. Alla stregua delle considerazioni svolte, va emessa sentenza assolutoria con la formula di cui al dispositivo. P.Q.M. Letto l'art. 530 comma 2 c.p.p., assolve l'imputato dai reati allo stesso ascritti in rubrica perché il fatto non sussiste. Letto l'art. 544, comma 3, c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito dei motivi. Così deciso in Napoli il 12 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA In Nome Del Popolo Italiano CORTE DI APPELLO DI NAPOLI La Corte di Appello di Napoli - (...) lavoro - I unità - nelle persone dei (...) dott. (...) Presidente rel. est. dott. (...) dott. (...) riunita in camera di consiglio ha pronunziato in grado di appello alla udienza del 22/11/2023 la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 279 dell'anno 2019 TRA (...) n. il (...) in Ischia - (...) - rappresentato e difeso, in virtù di mandato in calce al ricorso introduttivo del giudizio, dall'avv. (...) presso lo studio del quale, in (...) alla (...) n. 42, è elettivamente domiciliat (...)persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in (...) alla Via del (...) n. 7/b presso lo studio dell'avv. (...) -(...) FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato il 7 febbraio 2019, (...) proponeva appello avverso la sentenza pronunziata in data 5 dicembre 2018 con la quale il Tribunale di Napoli - Giudice del lavoro - aveva dichiarato inammissibile la domanda di condanna del datore di lavoro al pagamento in suo favore di differenze di retribuzione maturate nel corso del rapporto intercorso tra il 6 giugno 2012 ed il 17 novembre 2015 per avere illegittimamente frazionato i crediti nascenti dal rapporto medesimo. Ha dedotto che con la gravata sentenza era stato malamente applicato il così detto divieto di frazionamento del credito. Esso appellante, infatti, aveva promosso, prima della domanda dichiarata inammissibile, un giudizio per l'accertamento della sussistenza di una giusta causa di dimissioni ed un ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere il pagamento del t.f.r.. Sussisteva, quindi, un interesse giuridicamente rilevante a proporre separate domande giudiziali. Ha chiesto, pertanto, che, previa ammissione dei mezzi istruttori articolati con il ricorso introduttivo del giudizio, la appellata fosse condannata al pagamento in suo favore della somma di Euro 74.068,06 a titolo di differenza di retribuzione maturate in dipendenza del rapporto di lavoro intercorso dal 6 giugno 2012 al 17 novembre 2015, oltre accessori, vinte le spese del doppio grado. La appellata società, cui veniva ritualmente notificato il ricorso in appello, non si è costituita. Sostituito il relatore, la Corte, ammetteva ed espletata prova testimoniale. All'esito veniva nominato c.t.u. contabile. Depositata la relazione, alla odierna udienza la causa è stata decisa, dandosi lettura del dispositivo. (...) proposto è parzialmente fondato e deve essere accolto per quanto di ragione. Sostiene, infatti, la difesa dell'appellante che la corretta interpretazione dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di divieto di frazionamento del credito, avrebbe dovuto condurre ad una decisione sul merito della domanda e non di inammissibilità della stessa. La censura è fondata. Con la sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017, infatti, le (...) hanno avuto modo di precisare che l'orientamento espresso dal medesimo consesso con la sentenza n. 23726 del 2007 secondo il quale non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di "un unico rapporto obbligatorio", frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, è riferito sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso. (...)à del singolo diritto di credito, in altri termini, non comporta inevitabilmente la necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra le stesse parti. La tesi secondo la quale più crediti distinti, ma relativi ad un medesimo rapporto di durata, debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando piuttosto questa costruita intorno alla diversa prospettiva della proponibilità in giudizi separati di crediti distinti seppur derivanti dal medesimo rapporto di durata. Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa ad un credito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorchè relativo ad un unico rapporto complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto in uno stesso processo quindi in uno stesso momento, dinanzi al medesimo giudice e secondo la medesima disciplina processuale con conseguente indebita sottrazione alla autonoma disciplina prevista per i diversi crediti vantati e perdita, ad esempio, della possibilità di agire in via monitoria per i crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al giudice competente per valore per ciascuno dei crediti - quindi di fruire del più semplice e spedito iter processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice-, e con possibile esposizione alla necessità di "scegliere" di proporre (o meno) una tempestiva insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive insinuazioni tardive per altri crediti. Il Giudice di legittimità ha, però, segnalato come l'ordinamento guardi con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo "ambito" oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di "preclusione" dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall'esigenza di evitare, ove possibile, la "duplicazione" di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale. Dunque, se le domande relative a singoli crediti distinti, pur riferibili al medesimo rapporto di durata, sono separatamente proponibili, le questioni relative a tali crediti che risultino inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato, così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili - nonché, in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo - possono anch'esse ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l'attore risulti in ciò "assistito" da un oggettivo interesse al frazionamento. Nel caso che qui ne occupa, il primo Giudice ha escluso la sussistenza di un siffatto interesse senza, tuttavia, considerare che il (...) aveva precedentemente azionato il diritto al pagamento del t.f.r. a mezzo di ricorso ex art. 633 c.p.c. e, dunque, di uno strumento processuale che non poteva essere utilizzato per crediti, quali quelli per cui oggi è causa - prestazione di un orario di lavoro superiore a quello retribuito, mancato godimento del riposo annuale e del riposo nelle giornate di festività, pagamento delle mensilità aggiuntive e degli scatti di anzianità - che non erano fondati su prova scritta. A non diverse conclusioni si giunge con riferimento al procedimento nrg. 27373/2015 nel quale l'odierno appellante ha agito unicamente per sentire accertare le modalità di risoluzione del rapporto di lavoro - dimissioni per giusta causa - id est per un fatto costitutivo del tutto diverso rispetto alle modalità di prestazione della attività nel corso del rapporto di lavoro. In altri termini, ad avviso di questa Corte, e contrariamente a quanto affermato nella gravata sentenza, deve escludersi che nel caso di specie sussistesse una inammissibilità della domanda vuoi perché il giudicato formatosi in ordine alle modalità di risoluzione del rapporto non era suscettibile di spiegare alcun effetto sulle modalità di svolgimento del rapporto medesimo vuoi perché sussisteva un interesse giuridicamente rilevante all'accertamento autonomo di fatti suscettibili di riverberare su differenti rapporti, quali quelli previdenziali. La involontarietà dello stato di disoccupazione, infatti, rileva a fini di corresponsione dell'indennità di disoccupazione in senso lato laddove la indennità di mancato preavviso riveste una immediata funzione alimentare che pure giustifica un separato accertamento. Dunque, la domanda proposta dal (...) era ammissibile e doveva essere valutata nel merito. A tal fine questa Corte ha ammesso ed espletato prova testimoniale. Dalle deposizioni dei testi deve ritenersi comprovata la prestazione di un orario di lavoro settimanale pari a 48 ore. I testi escussi, infatti, a diretta conoscenza dei fatti di causa in quanto colleghi di lavoro del (...) hanno riferito di un orario di lavoro pari quanto meno ad 8 ore giornaliere ed articolato su sei giorni alla settimana. La attendibilità dei testi non è in alcun modo dubitabile poiché si ha riguardo a lavoratori che non hanno alcun interesse neppure indiretto alla definizione della lite né può omettersi di considerare che la tipologia di attività disimpegnata dal (...) - addetto allo "scassettamento" delle slot machine id est alla sostituzione della cassa automatica contenente il corrispettivo delle giocate con cassa vuota - rende altamente verosimile una prolungata presenza in servizio. Con il ricorso introduttivo del giudizio, poi, era stata chiesta la condanna della datrice di lavoro al pagamento della indennità per il mancato godimento delle ferie né la (...) rimasta contumace, ha dimostrato la corretta fruizione e retribuzione del riposo annuale (cfr. Cass. Sez. lav. 25/07/2022, n.23153 ed ib. 08/07/2022, n.21780). Per la quantificazione della retribuzione secondo i minimi previsti dal c.c.n.l. applicato al rapporto in via diretta nonché delle maggiorazioni dovute per il lavoro straordinario prestato questa Corte ha nominato consulente contabile. (...) ha quantificato le differenze di retribuzione compreso quanto dovuto per 14ma mensilità e maggiorazioni per il lavoro straordinario in Euro 22.626,97. Le conclusioni cui è pervenuto il c.t.u., fondate su sani e retti criteri tecnici e non contestate dalla difesa del (...) possono essere recepite da questo Collegio. La appellata è, inoltre, tenuta al pagamento della somma di Euro 4.965,84 a titolo di indennità per il mancato godimento delle ferie nonché della somma di Euro 2.408,52 per differenze di t.f.r.. Le maggiorazioni per lavoro straordinario prestato in maniera fissa e continuativa, infatti, devono essere incluse nella base di calcolo della indennità ex art. 2120 cod. civ. I crediti come fin qui quantificati devono essere rivalutai secondo indici (...) e sulle somme via via rivalutate sono dovuti gli interessi al saggio legale dalla data di maturazione dei singoli crediti e fino al saldo. Le spese del doppio grado, liquidate in dispositivo secondo i criteri dettati dai (...) 55/2014 e 147/2022, seguono la soccombenza con attribuzione. Le spese di c.t.u., liquidate con separato decreto, vengono poste a carico di entrambe le parti, in solido tra loro. P. Q. M. La Corte così provvede: -accoglie parzialmente l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, condanna la (...) S.r.l. al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 27.592,81 a titolo di differenze di retribuzione oltre rivalutazione secondo indici (...) ed interessi al saggio legale sulle somme via via rivalutate dalla data di maturazione dei singoli crediti al soddisfo; - condanna, altresì, la società appellata al pagamento della somma di Euro 2.408,52 a titolo di differenze di t.f.r. oltre rivalutazione secondo indici (...) ed interessi al saggio legale sulla somma via via rivalutata dalla data di maturazione del credito al soddisfo; - condanna, infine, la S.r.l. alla rifusione delle spese del doppio grado che liquida in Euro 3.512,50 per il giudizio di primo grado ed in Euro 4.995,50 per l'appello oltre, per ciascun grado, spese generali come per legge, IVA e (...) - pone le spese di c.t.u., liquidate con separato decreto, a carico di entrambe le parti in solido tra loro.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA TERZA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice Dott.ssa Daniela Nunno ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 15508/2020 promossa da: Le.Cl. (C.F. (...) ), con il patrocinio dell'avv. Gi.Ca. e dell'avv. Gi.Co.; elettivamente domiciliato in Bologna, Via (...), presso il difensore avv. Gi.Ca. ATTORE contro Ci. S.R.L. (C.F. (...) ), Im. S.R.L. SOCIETÀ SPORTIVA DILETTANTISTICA SENZA FINI DI LUCRO (C.F. (...)), entrambe con il patrocinio dell'avv. An.Fr., elettivamente domiciliate in Bologna, Via (...), presso il difensore CONVENUTE CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione regolarmente notificato alle parti convenute, Le.Cl. agiva in giudizio, premettendo, in fatto, di occupare un appartamento della Ta. s.r.l. sito in B., via P. n. 9, sovrastante l'unità immobiliare di proprietà della "Ci. s.r.l.", nella disponibilità della "Im. S.R.L. società sportiva dilettantistica senza fini di lucro", che ivi vi esercita l'attività di scuola di ballo. L'attore lamentava che dal 2017, quasi tutti i giorni della settimana, dalle 16:00 alle 20:30, nei festivi e nei fine settimana anche fino a notte inoltrata, dall'immobile de quo provenivano rumori assordanti di musica ad alto volume, di calpestio e urla. A causa di tali rumori molesti aveva sporto denuncia-querela in data 18.11.2019 presso i Carabinieri di Bologna Mazzini e contattato il Comune di Bologna per far cessare le suddette immissioni sonore, ma senza alcun esito. In data 20.11.2019 il reparto di Polizia Commerciale del Comune di Bologna aveva comunicato all'attore che, in seguito al sopralluogo presso i locali della scuola di ballo, erano state accertate violazioni per cui erano state erogate delle sanzioni. L'attore allegava che, a causa di queste immissioni sonore, aveva patito una grave compromissione della propria serenità quotidiana e quindi della propria salute, come da certificati medici attestanti i disturbi lamentati. Allegava altresì due relazioni mediche a firma del Prof. Ma.Ce. e del Dott. An.Ca., che avevano accertato il nesso causale tra il disturbo del sonno patito dall'attore e l'inquinamento acustico subito all'interno dell'abitazione di residenza, con conseguenti effetti negativi sul suo stile di vita e sui suoi livelli di funzionamento biologico. In particolare, il dott. Ca. aveva stimato il danno biologico patito nella misura del 16%. Alla luce di quanto esposto, l'attore chiedeva di accertare che le immissioni provenienti dai locali delle convenute superavano ogni soglia di tollerabilità, con conseguente condanna delle società alla cessazione delle immissioni o all'adozione di misure atte a ridurne l'entità, nonché al risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non. In via subordinata, chiedeva la corresponsione di un equo indennizzo. Si costituivano le convenute, che contestavano del tutto l'atto introduttivo del giudizio, facendo rilevare come lo stesso attore, in qualità di legale rappresentante della società Ex. s.r.l., aveva concesso ad Im. s.r.l., a partire dall'1.10.2011, il godimento di un'ampia porzione del piano terra dell'edificio e sin da allora nei predetti locali era stata esercitata la medesima attività di ballo, anche dopo che la Ex. s.r.l. (e dunque Le.Cl. per essa) aveva ceduto la proprietà dell'intero piano terra dell'edificio alla Ci. s.r.l.. Prima di tale cessione, tuttavia, mai prima il L. si era lamentato delle immissioni rumorose. Le prime doglianze erano significativamente cominciate, in tesi di parte convenuta, in coincidenza con l'insorta conflittualità tra il L., legale rappresentante della Ta. s.r.l., proprietaria di parte dell'edificio, e l'amministratore di Ci. s.r.l., Pa.Pe.. Evidenziavano, inoltre, le convenute, come i locali erano insonorizzati e che l'attività era stata sospesa a partire dal mese di febbraio 2020, in coincidenza con l'inizio dell'emergenza pandemica. Inoltre, contestavano che i rumori lamentati fossero riconducibili solo all'attività di danza praticata nei locali a loro disposizione, tanto più che l'edificio era anche, in parte, adibito ad attività di ristorazione e, in altra parte, in uso ad un'associazione che organizzava eventi e feste. Concludevano chiedendo il rigetto della domanda attorea in quanto infondata. La causa veniva istruita mediante prova per testi ed espletamento di CTU fonometrica e medico-legale e all'udienza del 13.7.2023 veniva posta in decisione, con assegnazione alle parti dei termini ex art. 190 c.p.c.. 2. Le domande attoree sono fondate e meritano accoglimento per le ragioni che si passa ad esporre. L'attore lamenta che da anni, tutti i giorni della settimana, in determinate fasce orarie (pomeridiane, serali e, nei fine settimana, anche notturne), è costretto a subire immissioni rumorose provenienti dai locali sottostanti all'appartamento a lui in uso, ove si svolge attività di ballo. Chiede, dunque, in via principale, accertato il superamento della soglia della normale tollerabilità dei rumori, che le convenute siano condannate a cessare ogni attività rumorosa eccedente il predetto limite e/o ad adottare le misure idonee ad eliminare le propagazioni sonore. In ogni caso, chiede il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti in seguito alle esposizioni sonore. In via subordinata, chiede che venga riconosciuto un equo indennizzo per la diminuzione di godimento della sua abitazione, nonché per le lesioni arrecate alla sua salute ed alla sua qualità di vita. Preliminarmente all'esame del merito delle domande attoree, si ritiene utile una premessa circa il criterio che deve essere utilizzato al fine di stabilire se i rumori superino la soglia della normale tollerabilità, secondo i criteri elaborati dalla Suprema Corte. Orbene, secondo l'orientamento di legittimità ormai consolidato, l'eccedenza delle immissioni rispetto alla normale tollerabilità non va rilevata tenuto conto dei limiti massimi dettati dalla legge quadro sull'inquinamento acustico (L. n. 447 del 1995) e dalle annesse disposizioni del D.P.C.M. datato 1 marzo 1991 e del D.P.C.M. del 1997, in quanto tali provvedimenti normativi, fissando i limiti oltre i quali la fonte rumorosa è da considerarsi di per sé illecita, contengono norme volte a tutelare l'interesse pubblico ambientale e non già a regolamentare i rapporti tra i privati. L'indagine per l'individuazione della soglia di normale tollerabilità va, invece, effettuata alla stregua dei principi ricavabili dall'art. 844 c.c. (Cass. sent. n. 1418/2006, costantemente seguita dalla giurisprudenza di legittimità e di merito successiva). In altri termini, alla materia delle immissioni sonore atte a turbare il bene della tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad abitazione non è applicabile la L. 26 ottobre 1995, n. 447 sull'inquinamento acustico, poiché tale normativa come quella contenuta nei regolamenti locali, persegue interessi pubblici, disciplinando, in via generale ed assoluta, e solo nei rapporti c.d. verticali fra privati e la p.a., i livelli di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete. La disciplina delle immissioni moleste nei rapporti fra privati va rinvenuta, dunque, nell'art. 844 c.c., alla cui stregua, anche laddove dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice che tenga conto delle particolarità della situazione concreta. Il D.P.C.M. datato 1 marzo 1991, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, al pari dei regolamenti comunali limitativi dell'attività rumorosa, fissa, quale misura da non superare per le zone non industriali, una differenza rispetto al rumore ambientale pari a 3 db in periodo notturno e in 5 db in periodo diurno. La Suprema Corte ha statuito che se le emissioni acustiche superano, per la loro particolare intensità e capacità diffusiva, la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione le stesse devono per ciò solo considerarsi intollerabili ai sensi dell'art. 844 c.c. nei rapporti tra privati e, pertanto, ritenersi illecite anche sotto il profilo civilistico. Di converso, l'eventuale rispetto dei limiti previsti dalla legge non può fare ritenere senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità essere formulato in relazione alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia da quel complesso di suoni di origine varia e spesso non identificabile, continui e caratteristici del luogo, sui quali vengono a sovrapporsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo). In buona sostanza, la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restano compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio, e, dall'altro lato, alla situazione locale. La Suprema Corte, basandosi anche su nozioni di comune esperienza, ha ritenuto che nei rapporti tra privati, la soglia di tollerabilità sia superata allorché il rumore stesso sia di intensità doppia rispetto al rumore di fondo, come sopra definito. In termini di misure scientifiche, ha specificato che l'uomo è già in grado di percepire variazioni di un solo decibel e che, tenuto conto che la misurazione in decibel si basa su una scala logoritmica, un aumento di 3 decibel corrisponde già ad un raddoppio dell'intensità del suono. Ne deriva che il limite di tollerabilità cui far riferimento è dato da un aumento di 3 decibel rispetto al rumore di fondo anche nelle ore diurne (criterio di matrice giurisprudenziale, costantemente seguito a partire dalla pronuncia a Sezioni Unite n. 4848 del 2013). Con particolare riferimento alla disciplina delle immissioni connesse all'espletamento di attività produttive, la giurisprudenza ha ritenuto che "La norma sulla disciplina delle immissioni di cui all'art. 844 cod. civ., nel prevedere la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, tenendo eventualmente conto della priorità di un determinato uso, deve essere interpretata, tenendo conto che il limite della tutela della salute è da considerarsi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, sicché è legittima la statuizione del giudice di merito preclusiva del prolungamento di un'attività sostanzialmente nociva alla salute dei vicini del fondo, da considerarsi valore prevalente, in funzione del soddisfacimento del diritto ad una normale qualità della vita, rispetto alle esigenze dell'attività commerciale esercitata nel fondo confinante, nel quale la produzione, ancorché iniziata anteriormente all'edificazione dell'immobile limitrofo, si sia svolta e, poi, protratta senza la predisposizione di apposite misure di cautela idonee ad evitare o limitare l'inquinamento atmosferico" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8420 del 11/04/2006 ed in termini successivamente vedasi Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5564 del 08/03/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Sez. 2, Sentenza n. 1606 del 20/01/2017). Tanto detto, il consulente tecnico, nel caso di specie, ha accertato (pag. 7 relazione) che "In riferimento al parametro comparativo, sottraendo al rumore ambientale il valore dei residui misurati nella stessa giornata, si hanno invece valori superiori ai 3 dBA: (LAeq M3 - LAeq M1) = 32.0 - 27.8 = 4.2 dBA (LAeq M3 - LAeq M4) = 32.0 - 26.3 = 5.7 dBA Dove: - LAeq M3 (come detto) è la misura rappresentativa del rumore ambientale rilevato dalle 18 e 29 del 2 Dicembre 2021 per una durata di circa 16 minuti, in camera del sig.L. durante la lezione di Popping in corso nella sala D; - LAeq M1 è la misura rappresentativa del rumore residuo rilevato dalle 17 e 22 del 2 Dicembre 2021 per una durata di circa 15 minuti, in camera del sig.L. senza nessuna attività nella scuola di ballo; - LAeq M4 è la misura rappresentativa del rumore residuo rilevato dalle 19 e 20 del 2 Dicembre 2021 per una durata di circa 10 minuti, in camera del sig.L. senza nessuna attività nella scuola di ballo". Come rilevato dallo stesso CTU, anche nelle misurazioni effettuate in altri giorni e non presidiate i valori registrati non si sono discostati da quelli appena sopra indicati. Pertanto, applicando il criterio comparativo, il CTU ha accertato il valore differenziale superiore ai 3 decibel. La successiva attività di accertamenti integrativi condotti dal CTU al fine di rilevare la realizzazione di opere insonorizzanti nei locali delle convenute ha consentito di appurare come effettivamente i locali siano stati insonorizzati mediante l'apposizione di panelli, che i CTU, con l'ausilio di un esperto, hanno indicato come realizzata circa quattro anni prima (dunque prima dell'inizio delle operazioni peritali). Alle osservazioni avanzate sul punto dal CTP di parte attrice, i CTU hanno fornito risposte coerenti e condivisibili sul piano tecnico. Pertanto, deve ritenersi che tali opere non abbiano influito sulle risultanze delle indagini tecniche condotte in sede di consulenza, che in ogni caso hanno evidenziato il superamento del limite di tollerabilità delle immissioni sonore. Le risultanze della CTU confortano e sono coerenti con gli altri elementi istruttori acquisiti. Ci si riferisce alla documentazione prodotta da parte attrice, attestante le diverse segnalazioni rivolte dal L. al Comune di Bologna (doc. 6 parte attrice) o direttamente alle controparti (docc. 7, 8, 9, 10 parte attrice). Inoltre, sono stati documentati sopralluoghi effettuati dalla Polizia Locale di Bologna su richiesta dell'attore a causa dei rumori (docc. 23 e 24 di parte attrice). Sul punto è stato escusso il teste Isp. G.D.N., responsabile del reparto di Polizia Commerciale di Bologna, che ha confermato che a novembre 2019, una pattuglia si era recata sul posto su segnalazione dello stesso attore relativa a rumori molesti e aveva applicato una sanzione, pur non ricordando quale sia stata la violazione contestata. A riprova della perdurante situazione di immissioni sonore intollerabili provenienti dal piano terra, l'attore ha altresì prodotto (doc. 15) la disdetta del contratto di locazione dell'immobile sito al piano primo dello stabile (doc. 14), locato dalla società L. s.r.l., giustificata, tra l'altro, anche dal "perdurare negli anni della situazione di rumore, causata da livelli alti di musica provenienti dai locali posti al piano terreno, a tutte le ore del giorno e fino a tarda notte che disturba il normale svolgimento delle attività lavorative d'ufficio". Alla luce del suddetto quadro istruttorio devono ritenersi provate le doglianze attoree circa le immissioni sonore provenienti dai locali, rispettivamente, di proprietà e in uso alle convenute. Tali immissioni acustiche devono essere considerate, secondo i criteri previsti dall'art. 844 c.c., eccedenti la normale tollerabilità per gli occupanti degli immobili attigui. A tal fine si deve considerare che i locali da cui provengono i rumori si trovano al piano terra di un edificio occupato dall'attore (che vi ha stabilito la sua residenza) e da altre attività commerciali, come si desume da quanto asserito dall'attore e non contestato dalle controparti. Considerato, pertanto, lo stato dei luoghi e l'uso a cui le parti hanno destinato gli immobili da loro occupati, deve ritenersi che, quanto ai criteri previsti dall'art. 844 c.c., e in particolare quanto alla necessità di contemperare le esigenze dell'esercizio dell'attività esercitata con le ragioni del proprietario attore, seguendo i principi espressi dalla giurisprudenza sopra richiamata, le immissioni acustiche devono ritenersi illecite, avuto riguardo ai valori raggiunti ed ai possibili effetti dannosi per la salute (in applicazione dell'art. 32 Cost.); bene, quest'ultimo, da considerarsi valore prevalente rispetto alle esigenze delle attività produttive. Il superamento della soglia di tollerabilità delle immissioni si desume, in particolare, non solo e non tanto dagli accertamenti tecnici condotti (che comunque hanno accertato il superamento del limite di tollerabilità come sopra individuato, rilevante ai sensi dell'art. 844 c.c.), ma anche dal resto delle risultanze istruttorie, comprovanti il perdurare di una situazione in cui l'attore è stato costretto a subire rumori molesti causati proprio dall'attività di ballo esercitata nei locali delle convenute. Tali rumori si sono protratti per diverse ore al giorno, talvolta fino a notte, con assidua frequenza settimanale, disturbando il normale svolgimento della vita quotidiana dell'attore e minando la sua serenità, fino a ripercuotersi sul suo stato di salute. Per effetto di tali immissioni si è verificata una rilevante compressione di diritti fondamentali di parte attrice, quali il diritto alla piena e soddisfacente fruizione della proprietà privata della propria abitazione, ed altresì dei diritti della personalità, ovvero al godimento del riposo, con conseguente rilevante peggioramento delle sue condizioni ed abitudini di vita quotidiane. Pertanto, può trovare accoglimento la domanda volta all'adozione di misure necessarie a ridurre le immissioni sonore ed a ricondurle sotto la soglia di tollerabilità; misure che consentano di contemperare l'esigenza di prosecuzione delle attività svolte nei locali adibiti a scuola di ballo e le esigenze dell'attore di godere pienamente della propria abitazione senza subire immissioni moleste e ad una libera esplicazione delle proprie abitudini di vita. Sul punto, nel rispondere al quesito in ordine alle misure più idonee da adottare per ricondurre le immissioni entro i livelli di normale tollerabilità, il CTU (pag. 9 relazione) ha evidenziato come l'unica possibilità sia quella di evitare l'utilizzo della sala D per "attività con balli e diffusione di musica, e riservandola esclusivamente per corsi che possono essere svolti sia senza passi e salti sul pavimento, sia senza necessariamente la diffusione di musica"; ciò in considerazione del fatto che la predetta sala risulta essere già insonorizzata e che pertanto residuano pochi margini per migliorare le prestazioni di contrasto alla trasmissione del rumore. Non involgendo modifiche strutturali dei locali ma unicamente le modalità del loro utilizzo, detta misura può essere imposta anche alla conduttrice dei locali. Devono altresì trovare ristoro i pregiudizi patiti, in ossequio all'orientamento della Suprema Corte che, proprio in riferimento alle immissioni di rumore, ha affermato che: " Il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. "comunitarizzazione" della Cedu (Cass. n. 20927 del 16/10/2015)". Nel caso di specie è stato peraltro accertato il danno biologico lamentato dall'attore: va rammentato a tal proposito l'orientamento espresso dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo il quale è sempre necessario provare che le immissioni rumorose abbiano effettivamente causato un danno alla salute, non potendosi presumere che le stesse provochino in ogni caso un danno da stress (Cass., 18.01.2006, n. 828; Cass Sez. 3, Sentenza n. 25820 del 10/12/2009; in termini Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4394 del 20/03/2012; Cass. Sez. U., Sentenza n. 2611 del 01/02/2017). La CTU medico-legale espletata ha sul punto così concluso all'esito degli accertamenti svolti (pagg. 25-26 relazione): "in base ai dati attualmente ostensibili ed alla luce delle risultanze della consulenza psichiatrica espletata dal Prof. F., sussiste la prevalente probabilità che la prolungata esposizione alle immissioni rumorose abbia cagionato lo sviluppo di disturbi del sonno, che hanno a loro volta determinato la patologia psichiatrica diagnosticata dal Prof. F., ossia un Disturbo dell'Adattamento a componente prevalentemente ansiosa di gravità moderata, che configura un danno biologico dell'8%". Il CTU ha pertanto ravvisato un nesso causale tra l'esposizione prolungata alle immissioni rumorose del periziato ed i disturbi del sonno, fonte a loro volta del disturbo dell'adattamento a componente prevalentemente ansiosa. In particolare, il CTU ha ritenuto soddisfatta, alla luce del parere specialistico redatto dal Prof. F., "un'adeguata efficienza lesiva tra la prolungata esposizione alle immissioni rumorose e lo sviluppo disturbi del sonno e stati ansiosi-depressivi". Ha poi ritenuto rispettati i restanti criteri tradizionalmente elaborati dalla dottrina per affermare la sussistenza del nesso causale nella causazione di uno stato patologico (quali il criterio il criterio cronologico, il criterio topografico, il criterio della continuità fenomenica, il criterio della esclusione delle altre cause, il criterio della ammissibilità o possibilità scientifica, il criterio statistico-epidemiologico, il criterio anatomo-patologico), "per lo meno con riferimento ad un criterio di prevalente probabilità" (pag. 21 relazione). Le risultanze del CTU appaiono tratte a seguito dei più opportuni accertamenti e di una accurata disamina della documentazione prodotta dalla parte e dei fatti in contestazione e si presentano acquisite con criteri corretti e con iter logico ineccepibile, non inficiato dalle osservazioni dei CTP a cui il CTU ha fornito adeguata e convincente replica. Esse possono pertanto essere pienamente condivise e fatte proprie da questo Giudice ai fini delle valutazioni da assumere nel giudizio de quo. Alla luce di tali risultanze, può pertanto essere riconosciuto il risarcimento del danno alla salute lamentato, essendo emerso che il disturbo accertato è causalmente riconducibile all'esposizione alla fonte di rumori che superano la soglia di tollerabilità. Del risarcimento devono essere chiamate a rispondere entrambe le convenute, l'una quale conduttrice dei locali, esercente l'attività di ballo, l'altra quale proprietaria dell'immobile. A tale ultimo proposito, si richiama l'orientamento della Suprema Corte (v. Cass. n. 4908/2018 e Cass. n. 29784/2023), secondo cui "la responsabilità ex art. 2043 c.c. per i danni derivanti dalle immissioni può essere inoltre affermata nei confronti del proprietario, locatore del bene, soltanto quando si accerti in concreto che, al momento della stipula del contratto di locazione, il proprietario avrebbe potuto prefigurarsi, impiegando la diligenza di cui all'art. 1176 c.c., che il conduttore avrebbe certamente recato danni a terzi con la propria attività". Nel caso di specie, la proprietaria Ci. s.r.l. era assolutamente in grado di prefigurarsi che l'attività esercitata dalla conduttrice provocava danni o disturbo ai terzi occupanti gli immobili attigui, anche alla luce delle diverse mail inoltrate alla predetta convenuta con cui l'attore lamentava il disturbo arrecato dai rumori provenienti dai locali nel corso delle attività ivi svolte (v. docc. 7 - 10 attore); problematiche già peraltro rappresentate nel 2014 dal conduttore dei locali del seminterrato (M.M.I. s.p.a. - v. docc. 20 -21), prima che, con l'acquisto da parte della Ci. s.r.l. dell'intero piano terra, l'attività di ballo fosse esercitata anche nella zona direttamente sottostante all'appartamento in uso al L.. Passando alla quantificazione del risarcimento, in applicazione delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano (edizione 2021), considerata l'età dell'attore al momento dei fatti (anni 62) e la misura del danno biologico accertato dal CTU (8%), si ritiene congruo liquidare l'importo di Euro 10.831,00 per i danni non patrimoniali richiesti da parte attrice (biologico/dinamico-relazionale). La somma come sopra determinata sulla base delle tabelle attualmente in vigore deve essere previamente devalutata, in base agli indici ISTAT del costo della vita, alla data del sinistro, che nel caso di specie, essendo ancora in corso le immissioni al momento della domanda, si fa coincidere con la data della stessa, ossia il 15.12.2020. In applicazione del criterio messo a punto nella sentenza delle Sezioni Unite del 17.2.1995 n. 1712, occorre poi calcolare gli interessi compensativi, al tasso legale, su tale somma progressivamente rivalutata anno per anno fino alla pronuncia odierna, da cui cominceranno a decorrere i soli interessi legali. Parte attrice ha chiesto anche la refusione dei costi delle consulenze elaborate prima dell'instaurazione del giudizio (come da fattura del Dott. Ca. del 24.9.2020 e del Prof. Ca. del 6.10.2020). Tuttavia, tale domanda non può essere accolta in quanto, trattandosi di voce di danno patrimoniale, doveva essere provato nei limiti delle preclusioni processuali, mentre le fatture delle spese sostenute sono state prodotte tardivamente. Discorso diverso deve farsi per le spese di CTP, su cui si provvede come di seguito. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, in considerazione dell'importo liquidato. Stante l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato dell'attore con delibera di ammissione del 14.4.2023, su domanda dell'1.2.2023, le spese per la fase successiva alla domanda di ammissione e pertanto relative alla sola fase decisionale (dimezzate ai sensi dell'art. 130 D.P.R. n. 115 del 2002), vanno versate in favore dell'Ex.. Le spese di CTU, come già liquidate, sono poste definitivamente a carico delle parti convenute in solido, con conseguente onere di rimborso delle spese eventualmente anticipate da parte attrice. A quest'ultima vanno altresì refuse le spese sostenute per CTP nel corso del giudizio, per l'ammontare di Euro 610,00 (dott. Ca.) ed Euro 732,00 (Prof. Ca.). Non possono essere riconosciute le spese sostenute e fatturate alla Ta. s.r.l., parte estranea al presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così decide: - condanna le convenute ad attuare le misure idonee a ricondurre le immissioni sonore nei limiti di tollerabilità, come individuate in sede di CTU ed indicate in parte motiva; - condanna le convenute in solido a versare a parte attrice, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di Euro 10.831,00, oltre rivalutazione ed interessi come in parte motiva; - condanna le parti convenute in solido a rimborsare alla parte attrice le spese di lite, che si liquidano in Euro 786,00 + 610,00 + 732,00 per spese, nonché Euro 3.376 per compensi, oltre spese generali, I.V.A., C.P.A., se dovuti e nelle aliquote legali in favore della parte, ed a versare la somma di Euro 850,50, oltre spese generali, I.V.A., C.P.A. in favore dell'Ex.; - pone le spese di CTU definitivamente a carico delle parti convenute in solido, con condanna al rimborso di quelle eventualmente anticipate da parte attrice. Così deciso in Bologna l'11 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La CORTE DI APPELLO DI SALERNO (...) La Corte di Appello di Salerno - (...) - nelle persone dei (...) Dott. (...) (...) relatore (...) (...) ha pronunziato all'udienza del 15/12/2023, celebrata in presenza, la seguente SENTENZA nel giudizio iscritto al n. 270/2022 del ruolo generale appelli lavoro TRA (...) - (...) in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. (...) e (...) in virtù di procura in atti ed elettivamente domiciliato come da pec; APPELLANTE E (...) rappresentato e difeso dagli avv. (...) e (...) come da mandato in atti, ed elettivamente domiciliato come da pec; APPELLATO OGGETTO: spettanze retributive - pagamento giornate festive infrasettimanali. Appello avverso la sentenza n. 575/2022 emessa dal Giudice del lavoro del Tribunale di Nocera Inferiore. CONCLUSIONI Per l'appellante (...) in riforma della sentenza impugnata, rigettare la domanda proposta dal lavoratore con il ricorso di primo grado, vinte le spese. Per l'appellato: rigettare l'appello, con vittoria di spese. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data (...) (...) premesso che era dipendente della (...) come "collaboratore professionale" (cat. D6 del CCNL comparto sanità); che rendeva la prestazione lavorativa secondo turni, sia nei giorni feriali che nei giorni festivi; che nel periodo dall'01/01/2015 al 31/05/2021 aveva lavorato nei giorni festivi infrasettimanali; che non aveva fruito del riposo compensativo, né della maggiorazione di cui all'art. 9 del CCNL (...) del 07/04/1999, prevista anche dall'art. 29, co. 6, (...) del 21/05/2018; che la maggiorazione era pari al 30% per lo straordinario festivo e al 50% per lo straordinario festivo e notturno (art. 34, co. 8, del (...); adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di Nocera Inferiore, chiedendo di condannare la ASL convenuta al pagamento di quanto dovuto (complessivi Euro 8.143,90), oltre accessori e spese di lite. Nel costituirsi in giudizio l'(...) eccepiva la prescrizione; nel merito, confutava tutte le avverse deduzioni in fatto e in diritto, e chiedeva il rigetto del ricorso. Con sentenza depositata in data (...) il Giudice di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso e condannava la ASL al pagamento di Euro 6.835,73. Avverso tale pronunzia la ASL proponeva appello con ricorso depositato in data (...). (...) ribadiva la non cumulabilità del compenso rivendicato in giudizio con l'altra indennità, spettante ai lavoratori turnisti ex art. 44 del (...) di (...) (con specifica maggiorazione in caso di turno in giorno festivo) e già erogata al (...) La ASL eccepiva altresì che la sentenza della Corte di Cassazione n. 1505/2021, invocata dal lavoratore e acriticamente recepita dal primo Giudice, in realtà non apportava utili elementi a sostegno della pretesa, in quanto si limitava ad affermare la astratta cumulabilità dei due emolumenti. Ribadiva che nel caso del (...) non sussistevano i presupposti richiesti dall'art. 9 del (...) per l'attribuzione della maggiorazione de qua (assenza di debito orario da compensare con le ore rese in più o presenza di surplus orario, presentazione entro 30 giorni di apposita domanda per il riposo compensativo o in alternativa per il pagamento dello straordinario). Rammentava di avere prodotto in primo grado i prospetti riepilogativi dal 2016 in poi, attestanti il debito orario mensile prevalente rispetto all'eventuale credito orario vantato in giudizio, e si doleva del mancato esame degli stessi ad opera del Tribunale. Concludeva per la riforma della sentenza impugnata, con rivalsa di spese. Nel costituirsi in giudizio con memoria difensiva depositata in data (...), l'appellato si riportava alle ragioni esposte dal Tribunale e alle statuizioni adottate dalla S.C. nel precedente già allegato (Cass. n. 1505/2021). Chiedeva quindi il rigetto del gravame, con rivalsa di spese. La causa veniva decisa all'udienza, celebrata in presenza, come da dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente si osserva che il lavoratore non ha impugnato con appello incidentale la statuizione di parziale prescrizione dei crediti, emessa dal Tribunale. Il primo giudice ha ritenuto parzialmente fondata l'eccezione di prescrizione sollevata dalla ASL ed ha attribuito al (...) solo le somme spettanti per il periodo dal marzo 2016 in poi (Euro 6.835,73), risultando quale primo atto interruttivo l'istanza del 08/03/2021 ed essendo quindi estinti i crediti maturati fino a febbraio 2016 (v. pag. 5 della sentenza di primo grado). Tale decisione non è stata censurata dal lavoratore. Ciò chiarito, l'appello della ASL non è fondato. Il lavoratore ha dedotto di avere espletato l'attività lavorativa nei giorni festivi infrasettimanali e di avere diritto al relativo compenso, da calcolare con la maggiorazione indicata dal (...) di comparto per lo straordinario. In particolare, l'art. 9, comma 1, del (...) del 07/04/1999 stabilisce che: "Ad integrazione di quanto previsto dall'art. 20 del (...) 1 settembre 1995 e 34 del (...) 7 aprile 1999, l'attività prestata in giorno festivo infrasettimanale dà titolo, a richiesta del dipendente da effettuarsi entro trenta giorni, a equivalente riposo compensativo o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo". Tale disposizione è stata confermata dal successivo (...) del 21/05/2018, il cui art. 29, comma 6, stabilisce: "(...)à prestata in giorno festivo infrasettimanale dà titolo, a richiesta del dipendente da effettuarsi entro trenta giorni, a equivalente riposo compensativo o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo". (...). 34, comma 8, della contrattazione collettiva prevede la maggiorazione del 30% della paga oraria per lo straordinario festivo e la maggiorazione del 50% per lo straordinario festivo e notturno. (...) la ASL appellante, detto compenso non sarebbe dovuto nel caso di specie, non avendo il dipendente formulato la richiesta (di riposo compensativo, o in alternativa di pagamento dello straordinario) entro il termine di cui ai citati artt. 9 e 29, e non essendo sussistenti altri presupposti (presenza di surplus orario, sì da configurare un effettivo straordinario). La ASL ha altresì eccepito la non cumulabilità di detto emolumento con la diversa indennità prevista per i lavoratori cd turnisti dall'art. 44, co. 12, del (...) di comparto 01/09/1995, poi rideterminata dall'art. 25, co. 2, (...) del 19/04/2004 ("Per il servizio di turno prestato per il giorno festivo compete un'indennità di L. 30.000 lorde se le prestazioni fornite sono di durata superiore alla metà dell'orario di turno, ridotta a L. 15.000 lorde se le prestazioni sono di durata pari o inferiore alla metà dell'orario anzidetto, con un minimo di 2 ore. Nell'arco delle 24 ore del giorno festivo non può essere corrisposta a ciascun dipendente più di un'indennità festiva"). Giova rammentare che la ASL nel presente contenzioso non ha convincentemente confutato l'espletamento della prestazione lavorativa nei giorni festivi infrasettimanali oggetto di lite. In realtà in secondo grado l'(...) non ha neppure più negato la cumulabilità del compenso di cui agli artt. 9 e 29 citati con l'indennità di cui all'art. 44, ma ha invece insistito nell'eccepire la mancanza di altri requisiti necessari per il pagamento dello straordinario, cioè l'assenza della espressa opzione del lavoratore (fra compenso straordinario e riposo compensativo) e la mancanza del debito orario (richiamando le risultanze dei cartelli marcatempo). Le deduzioni della ASL non inducono all'accoglimento dell'appello. Il compenso previsto per la prestazione resa nei giorni festivi infrasettimanali ha carattere indennitario, essendo volto a remunerare la maggiore gravosità del lavoro svolto nel giorno festivo che cade durante la settimana e non coincide con la domenica. Pur essendo il quantum parametrato all'importo previsto per lo straordinario con la relativa maggiorazione, dunque, l'emolumento oggetto di lite non costituisce "lavoro straordinario" in senso proprio, ma va invece a compensare il disagio aggiuntivo subito dai lavoratori, a prescindere dall'avvenuto completamento o meno del monte ore settimanale contrattuale del singolo dipendente. Risultano pertanto non conferenti le deduzioni della ASL circa la necessità del difetto di debito orario, quale condizione necessaria per il pagamento del compenso de quo, in quanto l'assenza del debito orario o la presenza del surplus orario è un requisito collegato al pagamento dello straordinario in senso stretto (cioè al lavoro prestato oltre il monte ore settimanale, che non viene in considerazione nel caso che qui ci occupa, e non è in effetti neppure contemplato dal (...) ai fini delle somme oggetto di lite). Parimenti non decisive sono le doglianze di parte appellante circa il mancato esercizio entro 30 giorni, ad opera del lavoratore, della opzione - prevista dagli artt. 9 e 29 già citati fra il riposo compensativo e il pagamento dei giorni festivi infrasettimanali lavorati. Spettava invero al datore di lavoro verificare tempestivamente il rispetto del debito orario (per imporre al dipendente il completamento dell'intero orario di lavoro) e controllare sollecitamente altresì l'avvenuta formulazione o meno della opzione (consentendo entro un arco di tempo ragionevole la fruizione dei riposi compensativi eventualmente chiesti dal lavoratore o provvedendo alla loro programmazione). Le eccezioni mosse sul punto dalla (...) risultano dunque tardive, in quanto la prestazione oggetto di lite è stata resa dall'appellato a partire dall'anno 2016 in poi, e non risulta che all'epoca il datore di lavoro avesse contestato alcunchè circa i cennati presupposti, di cui solo nel presente contenzioso la ASL eccepisce ora la insussistenza (surplus orario, opzione del lavoratore). Ne consegue che, una volta appurata la mancata fruizione di fatto del riposo compensativo, la maggiore onerosità della prestazione resa nei giorni festivi infrasettimanali non può che essere remunerata mediante l'altra modalità rimasta, cioè il ristoro economico. La clausola contrattuale, così come formulata, lascia invero libero il lavoratore di scegliere il riposo compensativo oppure il pagamento del lavoro festivo infrasettimanale. La monetizzazione di tale prestazione costituisce una facoltà del creditore, di fronte alla quale il datore di lavoro non può che essere obbligato al pagamento, in mancanza di espressa preferenza del dipendente circa il riposo compensativo. Trattasi di un'obbligazione alternativa con facoltà di scelta dal lato del creditore, per la quale il termine di 30 giorni, pure previsto dagli artt. 9 e 29 del (...) più volte citati, non può essere inteso quale termine di decadenza o quale termine estintivo del diritto in danno del lavoratore, in mancanza di espressa previsione in tal senso ad opera della contrattazione collettiva. (...). 1285 cod civ dispone che "Il debitore di un'obbligazione alternativa si libera eseguendo una delle due prestazioni dedotte in obbligazione, ma non può costringere il creditore a ricevere parte dell'una e parte dell'altra". Ai sensi dell'art. 1286 cod civ, "La scelta spetta al debitore, se non è stata attribuita al creditore o ad un terzo. La scelta diviene irrevocabile con l'esecuzione di una delle due prestazioni, ovvero con la dichiarazione di scelta, comunicata all'altra parte, o ad entrambe se la scelta è fatta da un terzo". (...) la S.C., "l'obbligazione alternativa, ai sensi dell'art. 1285 cod. civ., e segg., presuppone l'originario concorso di due o più prestazioni, poste in posizione di reciproca parità e dedotte in modo disgiuntivo, nessuna delle quali può essere adempiuta prima dell'indispensabile scelta di una di esse, scelta rimessa alla volontà di una delle parti e che diventa irrevocabile con la dichiarazione comunicata alla controparte. (...) cosiddetta facoltativa, invece, postula un'obbligazione semplice, avente ad oggetto una prestazione principale, unica e determinata fin dall'origine, nonchè, accanto a questa, una prestazione facoltativa - della cui effettiva ed attuale esigibilità il creditore optante abbia piena consapevolezza - dovuta solo in via subordinata e secondaria qualora venga preferita dal creditore stesso e costituisca, quindi, l'oggetto di una sua specifica ed univoca opzione, opzione che, peraltro, può essere esercitata solo fino al momento in cui non vi sia stato l'adempimento della prestazione principale" (Cass. 16 agosto 2000, n. 10853; Cass. 23 agosto 2011, n. 17512). Nel caso che ci occupa è pacifico che la ASL non abbia eseguito nessuna delle due prestazioni alternative indicate dal (...) (riposo compensativo, pagamento), e dunque non può ritenersi liberata dall'obbligazione. Né la ASL ha interpellato il dipendente, chiedendogli di formulare la scelta. Poiché il creditore/lavoratore non ha manifestato la propria volontà e non ha chiesto il riposo compensativo, resta a questo punto solo l'obbligazione inerente il compenso economico, che costituisce l'obbligo principale posto a carico del datore. Ne consegue che, in mancanza di espressa previsione di decadenza del lavoratore per difetto di opzione entro i 30 giorni di cui agli artt. 9 e 29 del (...) e risultando non più possibile la fruizione del riposo compensativo, spetta all'appellato il compenso oggetto di lite per il lavoro svolto nei giorni festivi infrasettimanali. In ordine al quantum dovuto, si osserva che i parametri di calcolo adottati dal dipendente nel conteggio di parte (percentuale applicabile ex art. 34 del (...) numero di giorni festivi infrasettimanali lavorati negli anni oggetto di causa) non sono stati confutati specificamente dalla (...) Non può infine ritenersi che l'indennità di turno ex art. 44, prospettata dalla ASL quale strumento interamente satisfattivo della prestazione resa dai cd turnisti, possa realmente compensare il disagio aggiuntivo dovuto all'esecuzione delle mansioni nei giorni festivi infrasettimanali. La mera circostanza che tale prestazione sia espletata dai lavoratori cd turnisti, i quali di regola operano secondo turni (che già coprono normalmente giorni feriali e giorni festivi) non vale in sé a rendere meno onerosa tale attività, né vale ad escludere l'obbligo di compensare in modo adeguato la prestazione mediante apposita maggiorazione. Come affermato di recente dalla S.C., "anche il recente contratto del 21 maggio 2018 per il triennio 2016/2018, oltre a mantenere la medesima collocazione sistematica delle disposizioni relative, da un lato, ai riposi ed allo straordinario e, dall'altro, alle specifiche indennità connesse a condizioni di lavoro, ha ribadito, all'art. 29 comma 6, il diritto al riposo compensativo o al trattamento retributivo previsto per il lavoro straordinario festivo, ed ha lasciato immutata la disciplina dell'indennità per il personale turnista, aggiornata negli importi (art. 86, comma 13, secondo cui "Per il servizio di turno prestato per il giorno festivo compete un'indennità di Euro 17,82 lorde se le prestazioni fornite sono di durata superiore alla metà dell'orario di turno, ridotta a Euro 8,91 lorde se le prestazioni sono di durata pari o inferiore alla metà dell'orario anzidetto, con un minimo di 2 ore ")..... Occorre ancora osservare che, quanto ai limiti massimi dell'orario settimanale, le parti collettive, già a partire dal (...) 7.4.1999, hanno previsto all'art. 27 la possibilità di una riduzione dello stesso, da concordare in sede di contrattazione integrativa, da 36 a 35 ore per il personale adibito a regimi di orario articolato in più turni, evidentemente sul presupposto di una maggiore gravosità della prestazione resa dal turnista... la clausola contrattuale della quale i lavoratori invocano l'applicazione è collocata fra le disposizioni dettate, in via generale e per tutti i dipendenti, per disciplinare l'orario di lavoro ed il regime dei riposi, mentre l'art. 44 si riferisce al solo trattamento economico e riguarda "particolari condizioni di lavoro" che per la loro maggiore gravosità (lavoro in turni, nelle terapie intensive, nei servizi di malattie infettive) sono state ritenute meritevoli di un compenso giornaliero, non orario, aggiuntivo..... La circostanza che i turnisti, poiché assegnati a servizi da rendere in modo continuativo, siano di norma obbligati a svolgere l'attività anche nelle giornate festive, non fa venire meno il diritto a prestare il lavoro negli stessi limiti orari fissati per gli altri lavoratori e, quindi, a godere del riposo compensativo o a percepire, in alternativa, il compenso per il lavoro straordinario festivo..... Questa Corte ha dunque enunciato il seguente principio di diritto: "(...)à prevista dall'art. 44, commi 3 e 12, del (...) 1.9.1995 per il personale del comparto sanità è volta a compensare la maggiore gravosità del lavoro prestato secondo il sistema dei turni, gravosità che si accresce nei casi in cui il turno ricada in giorno festivo, ed è cumulabile con il diritto, riconosciuto al lavoratore dall'art. 9 del (...) 20.9.2001, di godere del riposo compensativo per il lavoro prestato nella festività infrasettimanale o, in alternativa, di ricevere il compenso per il lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo".(Cass. n. 20743/2023; n. 6716/2021). La differenza tra l'indennità ex art. 44 (specificamente prevista per i turnisti) ed il regime del compenso per il lavoro festivo infrasettimanale (valevole per tutti i lavoratori, anche non turnisti), induce a ritenere - contrariamente a quanto sostenuto dalla ASL appellante che l'erogazione dell'indennità di cui all'art. 44 non possa ritenersi esaustiva o omnicomprensiva rispetto alla prestazione resa nei giorni festivi infrasettimanali dal lavoratore qui appellato, stante la differente ratio che sorregge i due emolumenti e la loro diversa natura. "Non è convincente l'assunto secondo cui le diverse indennità sarebbero a priori non cumulabili, salvo che sia esplicitamente previsto, in quanto il ragionamento sul cumulo o meno, oltre che sulla base di dati testuali (peraltro ravvisati nel caso di specie da questa S.C. nel fatto che il limite alla cumulabilità delle indennità di cui all'art. 44 è sancito solo rispetto alle indennità dei commi 5 e 7 di detta norma contrattuale) ben può svolgersi sulla base delle funzioni cui l'indennità è preposta; l'art. 9 cit. prevede, per il lavoro in giornata festiva infrasettimanale, il diritto ad un giorno di riposo e l'effetto di riduzione delle giornate di lavoro che da ciò si determina, non può non valere, in assenza di espresse previsioni in contrario, per tutti i lavoratori, sicché deve opinarsi diversamente da quanto sostenuto dalla ASL e deve ritenersi che anche chi lavora in turno non possa non maturare i corrispondenti diritti al riposo o al trattamento sostitutivo, previsto dalla stessa norma contrattuale con il richiamo al lavoro straordinario festivo" (Cass. n. 23880/2022). Il maggior sacrificio correlato all'espletamento della prestazione nel giorno festivo infrasettimanale, in definitiva, va compensato con l'emolumento previsto dai citati artt. 9 e 29 della contrattazione collettiva, a prescindere dall'eventuale debito orario (che riguarda una diversa problematica, e che spetta alla ASL recuperare nei modi contrattualmente previsti) e in assenza di opzione circa il riposo compensativo (in quanto, non avendo il lavoratore scelto il riposo compensativo, residua solo il ristoro economico). La sentenza di primo grado va quindi confermata. Le spese del secondo grado seguono la soccombenza. Trattandosi di pronunzia di rigetto dell'appello, si dà atto che sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, DPR n. 115/2002. P.Q.M. La Corte di Appello di (...) (...) nella causa n. 270/2022 R.G. appelli lavoro, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) nei confronti di (...) avverso la sentenza n. 575/2022 del Giudice del lavoro del Tribunale di Nocera Inferiore, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1)rigetta l'appello; 2)condanna la (...) alla rifusione, in favore dell'appellato, delle spese del secondo grado, liquidate in complessivi Euro 1.984,00, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15%, nonchè IVA e CNA come per legge, con attribuzione al difensore antistatario; 3)dà atto che sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, DPR n. 115/2002. (...) 15/12/2023. (...) estensore (...) (...) (...) RG n. 270/2022
Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.