Sentenze recenti riposo settimanale

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promosso dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza civile, nel procedimento vertente tra L. A. e altri e il Ministero dell’economia e delle finanze, con ordinanza del 3 agosto 2022, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2022, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 22 marzo 2023. Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2023 il Giudice relatore Marco D’Alberti; deliberato nella camera di consiglio dell’11 maggio 2023. Ritenuto in fatto 1.− Con ordinanza del 3 agosto 2022, la Corte d’appello di Bologna, sezione terza civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui dispone – attraverso il richiamo all’art. 1-ter, comma 3, della medesima legge, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – l’inammissibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata di un processo amministrativo, nel caso di mancata presentazione di istanza di prelievo almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001. 1.1.− La questione è sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 1.2.− Il rimettente dubita che l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), possa essere considerata un rimedio “effettivo”, ossia efficacemente sollecitatorio, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, al fine del rispetto dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, che riconosce il diritto a un equo processo, e dell’art. 13 CEDU, sul diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale. 1.3.− La questione è stata sollevata nell’ambito di un giudizio instaurato da alcuni agenti di polizia penitenziaria, che avevano fatto domanda di equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001 per la durata eccessiva di un processo amministrativo, avente ad oggetto l’accertamento e la declaratoria del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, e la conseguente condanna del Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per l’attività lavorativa prestata nei giorni di riposo settimanale non recuperata, pendente da oltre otto anni. Il giudice a quo ha precisato che il giudizio di primo grado, a fronte del ricorso presentato il 19 marzo 2014, è stato definito dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna – sezione staccata di Parma con sentenza del 22 febbraio 2015, mentre l’appello, proposto al Consiglio di Stato il 7 ottobre 2015, risultava pendente, nonostante la proposizione di istanza di prelievo in data 20 luglio 2017. Il rimettente rileva che gli appellanti hanno presentato opposizione contro il decreto che ha dichiarato inammissibile la domanda, ai sensi degli artt. 2, comma 1, e 1-ter, comma 3, della legge n. 89 del 2001, per non essere stata proposta «l’istanza di prelievo ex art. 71 comma 2 CPA almeno sei mesi prima dei termini di cui all’art. 2 comma 2-bis l. 89/2001 ossia nei due anni per il secondo grado: quindi nel caso concreto entro un anno e sei mesi dal 7/10/2015». 2.− Il giudice a quo, in punto di rilevanza, osserva che, diversamente da quanto sostenuto dagli opponenti, le norme applicabili al caso in esame non sono state oggetto di dichiarazione di illegittimità costituzionale e, pertanto, il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla rimessione della questione a questa Corte. 2.1.− Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene applicabili al caso di specie i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 34 del 2019, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU – dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al d.lgs. n. 104 del 2010, e dall’art. 1, comma 3, lettera a), numero 6), del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69). La disposizione prevedeva l’improponibilità della domanda di equa riparazione se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo, in cui si assumeva essersi superato il termine ragionevole di durata del processo, non fosse stata presentata l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, cod. proc. amm. Il giudice rimettente richiama anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, la quale, nel ribadire che l’art. 13 CEDU impone che l’ordinamento interno offra un «ricorso effettivo» per quanto riguarda la violazione dedotta, aveva escluso che l’istanza di prelievo potesse efficacemente accelerare la decisione in merito alla causa sottoposta all’esame del giudice e condizionare il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo. Il giudice a quo osserva anche che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma solo se effettivi e, cioè, nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente (è citata la sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). 2.2.− Secondo il giudice a quo − il quale richiama sul punto anche la sentenza di questa Corte n. 88 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui non prevedeva che la domanda di equa riparazione potesse essere proposta in pendenza del procedimento presupposto − la presentazione dell’istanza di prelievo costituirebbe un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la sanzione di inammissibilità della domanda di indennizzo non risulterebbe coerente con l’obiettivo del contenimento della durata del processo, né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata. In sostanza, la presentazione dell’istanza di prelievo non offrirebbe alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesterebbe un modello procedimentale alternativo, tenuto conto che «ai sensi dell’art. 71 bis CPA, a seguito della presentazione dell’istanza di prelievo il giudice “può” definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata, ma non è obbligato a adottare tale strumento processuale»; non inciderebbe sull’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti e non costituirebbe, pertanto, uno strumento a disposizione della parte interessata per prevenire effettivamente l’ulteriore protrarsi del processo. 3.− È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, poiché la disposizione in esame sarebbe diversa da quelle che hanno formato oggetto della citata sentenza n. 34 del 2019, nonché della sentenza di questa Corte n. 169 del 2019. Quest’ultima pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge n. 89 del 2001, ove, in relazione al processo penale, si stabiliva che non fosse riconosciuto alcun indennizzo in mancanza di deposito da parte dell’imputato di istanza di accelerazione nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di sua ragionevole durata. Ciò in quanto il sistema della legge n. 89 del 2001, come rimodulato dall’art. 1, commi 777 e 781, della legge n. 208 del 2015, subordinerebbe l’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per durata non ragionevole del processo non già alla proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” – ossia a un adempimento puramente formale – bensì alla proposizione di possibili e concreti “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato. Nello specifico, il rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter, comma 3, della legge n. 89 del 2001, di cui la parte richiedente l’indennizzo nel caso di specie non si è avvalsa, sarebbe quello previsto dall’art. 71-bis cod. proc. amm., introdotto dall’art. 1, comma 781, lettera b), della legge n. 208 del 2015, riguardante la proposizione di un’istanza di accelerazione della definizione del ricorso in camera di consiglio, con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm. La disposizione sospettata di illegittimità costituzionale avrebbe previsto, dunque, un rimedio preventivo assimilabile a quelli esperibili nel processo civile, previsti dall’art. 1-ter, comma 1, della legge n. 89 del 2001, già ritenuti da questa Corte nella sentenza n. 121 del 2020 “effettivi” e perciò conformi alla Costituzione. Considerato in diritto 1.− La Corte d’appello di Bologna, terza sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui dispone – attraverso il richiamo all’art. 1-ter, comma 3, come modificato dall’art. 1, comma 777, della legge n. 208 del 2015 – l’inammissibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata di un processo amministrativo nel caso di mancata presentazione, quale «rimedio preventivo», dell’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, cod. proc. amm. almeno sei mesi prima che sia trascorso il «termine ragionevole» di cui all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001. La questione è sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU. Il rimettente ritiene applicabili al caso sottoposto al suo esame i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 34 del 2019, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU – dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito e successivamente modificato, che prevedeva l’improponibilità della domanda di equa riparazione, là dove nel processo amministrativo, in cui si assumeva essersi superato il termine ragionevole di durata del processo, non fosse stata presentata l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, cod. proc. amm. Secondo il giudice a quo la presentazione dell’istanza di prelievo costituirebbe un adempimento formale, rispetto alla cui inosservanza la sanzione di inammissibilità della domanda di indennizzo non risulterebbe coerente né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo, né con il rimedio indennitario per il caso di sua eccessiva durata. Il rimettente dubita della legittimità costituzionale della rimodulazione della legge n. 89 del 2001 ad opera della legge n. 208 del 2015, là dove, a decorrere dal 1° gennaio 2016, ha introdotto la proposizione dell’istanza di prelievo, di cui all’art. 71, comma 2, cod. proc. amm., quale rimedio preventivo da esperire prima dello scadere dei termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, tale da condizionare l’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per la durata non ragionevole del processo amministrativo. 2. La questione non è fondata. 2.1.− L’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, cod. proc. amm. è una domanda indirizzata al presidente della sezione del TAR o del Consiglio di Stato adito dalla parte ricorrente, presentata successivamente all’istanza di fissazione dell’udienza di discussione di cui all’art. 71, comma 1, cod. proc. amm., con cui la parte chiede che il ricorso venga trattato tempestivamente, alla luce delle ragioni d’urgenza segnalate nell’istanza stessa. La finalità dell’istanza è quella di ottenere dal presidente una deroga al criterio cronologico che regola, ai sensi dell’art. 8, comma 1, dell’Allegato 2 al cod. proc. amm., l’ordine di fissazione della trattazione dei ricorsi. 2.2.− La legge n. 208 del 2015 ha inserito nel codice del processo amministrativo l’art. 71-bis, rubricato «Effetti dell’istanza di prelievo», che ha introdotto un nuovo, possibile effetto nascente dall’accoglimento dell’istanza. Secondo tale disposizione, nel caso di presentazione dell’istanza ex art. 71, comma 2, cod. proc. amm., «il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata». 3.− Questa Corte ha ripetutamente richiamato la costante giurisprudenza della Corte EDU secondo cui i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo (sentenze n. 175 del 2021 e n. 88 del 2018). D’altro canto, il ricorso ai rimedi preventivi «è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente» (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). 3.1.− In relazione alla presentazione dell’istanza di prelievo nel processo amministrativo, «per la giurisprudenza europea il rimedio interno deve garantire la durata ragionevole del giudizio o l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale ed il rimedio preventivo è tale se efficacemente sollecitatorio». Tanto premesso, questa Corte è pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 54 del d.l. n. 112 del 2008, come convertito e successivamente modificato, considerando che l’istanza di prelievo – da detta norma disciplinata «prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla legge n. 208 del 2015» – non costituiva un adempimento necessario. Esso rappresentava, infatti, «una mera facoltà del ricorrente […] con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata» (sentenza n. 34 del 2019). 3.2.− Con riferimento a uno dei rimedi introdotti per il processo civile dalla legge n. 208 del 2015, quali condizioni di ammissibilità della domanda di equo indennizzo, esso è stato invece ricondotto, per l’effetto acceleratorio della decisione che può conseguirne, alla categoria dei «rimedi preventivi volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga» (sentenza n. 121 del 2020). Questa Corte ha sottolineato la differenza tra la «proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione”», che si riduce ad un adempimento puramente formale, e la proposizione di «possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato». In tal senso, tale rimedio specifico introdotto per il processo civile presenta significative differenze rispetto a quelli che hanno formato oggetto delle sentenze n. 34 e n. 169 del 2019, vale a dire l’istanza di prelievo nel processo amministrativo – prima dell’introduzione dell’art. 71-bis cod. proc. amm. – e quella di accelerazione nel processo penale. A differenza di tali fattispecie, nel processo civile non vi è per il giudice «un mero invito […] volto ad accelerare lo svolgimento del processo», ma è previsto il «concreto suggerimento di modelli sub-procedimentali (rientranti nel quadro dei procedimenti decisori previsti dal regime processuale), teleologicamente funzionali al raggiungimento di tale scopo, con effettiva valenza sollecitatoria» (ancora sentenza n. 121 del 2020). 4.− Alla luce dei richiamati precedenti, questa Corte rileva che, diversamente dalla fattispecie regolata dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito e successivamente modificato, ove la presentazione dell’istanza di prelievo aveva una finalità meramente sollecitatoria, il rimedio introdotto per il processo amministrativo dalla legge n. 208 del 2015 non ha una funzione «puramente dichiarativa», in quanto può portare alla definizione celere del giudizio attraverso l’utilizzo di un «modello procedimentale alternativo», dato, ex art. 71-bis cod. proc. amm., dalla decisione del ricorso in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata. Dunque, tale rimedio, introdotto dal legislatore nel 2015, costituisce uno strumento funzionale al raggiungimento dello scopo di una più rapida definizione del giudizio. Né contrasta con l’effettività del rimedio la circostanza che il suo utilizzo risulti mediato dalla decisione del giudice, chiamato a stabilire, in relazione alle ragioni di urgenza prospettate dall’istante, se ricorrano i presupposti relativi alla completezza del contraddittorio e dell’istruttoria; il che giustifica la possibilità di definire la controversia con sentenza in forma semplificata. Si attua così il giusto punto di equilibrio tra la necessità di garantire alla parte un rimedio effettivo, nei termini indicati anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e l’esigenza di salvaguardare il rispetto delle garanzie previste nel processo amministrativo. L’attribuzione al collegio adìto della scelta sul modello procedimentale alternativo tutela tutte le parti del giudizio e garantisce che la decisione sul rito contemperi le esigenze di sollecita trattazione, poste in risalto dall’istanza, con il pieno dispiegarsi dell’attività difensiva, alla luce della complessità della vicenda controversa. 5.− In conclusione, la sollevata questione di legittimità costituzionale non è fondata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte d’appello di Bologna, sezione terza civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 maggio 2023. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Marco D'ALBERTI, Redattore Igor DI BERNARDINI, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 giugno 2023. Il Cancelliere F.to: Igor DI BERNARDINI

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SERRAO Eugenia - Presidente Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. MARI Attilio - Consigliere Dott. NOCERA Andrea - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica di Caltanissetta; nel procedimento nei confronti di (OMISSIS), nato a (OMISSIS); Avverso l'ordinanza del 02/02/2023 del Tribunale del riesame di Caltanissetta; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Andrea Nocera; letta la requisitoria del Sostituto procuratore generale presso questa Corte di cassazione, Luigi Orsi, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'impugnata ordinanza, in accoglimento del ricorso; Lette le memorie difensive presentate dal difensore di fiducia di (OMISSIS). RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 2 febbraio 2023, il Tribunale di Caltanissetta in sede di riesame cautelare, rigettava l'appello del pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta avverso il provvedimento del Gip del Tribunale di Caltanissetta del 22.12.2022 con la quale veniva rigettata la richiesta di applicazione di misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di (OMISSIS) in relazione al reato di cui all' articolo 110, articolo 603-bis c.p., commi 1, 2, 3 e 4. La contestazione per la quale e' stata formulata richiesta di applicazione della misura cautelare personale nei confronti del (OMISSIS), ha ad oggetto il reato di concorso, in qualita' di titolare e legale rappresentante della omonima ditta individuale operante nel settore della coltivazione di alberi da frutta, nel reato di illecita intermediazione e sfruttamento di lavoratori extracomunitari, con regolari permessi di soggiorno, reclutati da una consorteria criminale organizzata facente capo a (OMISSIS), per essere destinati al lavoro nelle campagne limitrofe a fronte di paghe irrisorie e con orari stremanti, approfittando delle loro condizioni di indigenza, presso aziende agricole del nisseno e dell'agrigentino i cui titolari trattavano direttamente con l'organizzazione criminale il compenso da corrispondere ai lavoratori. 1.1. La condotta concorsuale del (OMISSIS), nel reato contestato si sarebbe sostanziata nell'aver assunto o comunque utilizzato o impiegato la manodopera straniera reclutata attraverso l'attivita' di intermediazione illecita operata dai sodali dell'organizzazione criminale nei fondi di proprieta' e disponibilita', sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittamento del loro stato di bisogno. In particolare, al (OMISSIS), (ed al fratello con il quale gestiva l'attivita' imprenditoriale) veniva contestata la condotta di aver corrisposto ai lavoratori impiegati, per 8 ore di lavoro al giorno, senza pausa (se non una per il pranzo) e spesso senza riposo settimanale un salario di circa 40 Euro giornalieri, da cui veniva decurtata una parte per la intermediazione illecita, in misura inferiore a quello minimo fissato dai contratti collettivi nazionali o territoriali, nel non aver fornito ai lavoratori i dispositivi di protezione individuale, nel non averli formati e informati dei rischi in cui incorrevano nello svolgimento dell'attivita' lavorativa, nell'averli fatti lavorare in precarie condizioni igienico-sanitarie e minacciati, per il tramite degli intermediari, in caso di prestazioni lavorative non soddisfacenti, di non corrispondere loro il compenso o di perdita di future occasioni di impiego. Posto che, come ricostruito dal pubblico ministero, attraverso le dichiarazioni rese da (OMISSIS), fratello dell'imputato, nella gestione dell'impresa familiare era costui che si occupa del reclutamento della manodopera, il compendio indiziario a suo carico si fonderebbe sulla attivita' di intercettazione di conversazioni e sui servizi di geo-localizzazione e controllo, che dimostrerebbero l'impiego dei lavoratori stranieri nell'attivita' di coltivazione. 1.2. Il Tribunale di Caltanissetta, condividendo le valutazioni del Gip, ha escluso la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all'articolo 603-bis c.p. in assenza di prova delle necessarie condizioni dello sfruttamento e di approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori. In particolare, ha valutato insufficiente il contenuto delle conversazioni captate tra (OMISSIS) e (OMISSIS) in ordine alle condizioni economiche di impiego dei lavoratori ed al versamento del prezzo per l'intermediazione distratto dalla paga giornaliera concordata. 2. Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame di Caltanissetta propone ricorso il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, con due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo, dopo avere ricostruito il compendio probatorio posto a base della richiesta cautelare, riportando le conversazioni captate relative a (OMISSIS), il pubblico ministero ricorrente deduce la mancanza o illogicita' della motivazione del provvedimento impugnato, deducendo che il Tribunale si sarebbe limitato a condividere le valutazioni del diniego di applicazione della misura cautelare espresse dal Gip (che originariamente l'aveva erroneamente disposta nei confronti di (OMISSIS)), in ordine alla carenza di prova circa lo sfruttamento della manodopera illecitamente impiegato e la consapevolezza della "trattenuta" da parte degli intermediari sulla paga corrisposta ai lavoratori, "senza addurre alcuna argomentazione a sostegno". 2.2. Con il secondo motivo deduce, ancora, il vizio della contraddittorieta' della motivazione in relazione alla omessa valutazione della continuita' della attivita' di intermediazione svolta dal gruppo facente capo al (OMISSIS), in favore del (OMISSIS), comprovata dai colloqui telefonici intercorsi tra giugno e settembre del 2020 e dalle dichiarazioni rese da alcuni operai che avevano lavorato presso la ditta dei fratelli (OMISSIS). 2.3. Il Procuratore della Repubblica deduce, infine, la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'articolo 274 c.p.p., lettera c), ovvero il pericolo concreto e attuale che l'indagato, se lasciato in liberta' e comunque non sottoposto a limitazioni o controlli possa commettere delitti della stessa specie. CONSIDERATO IN DIRITTO 2. Occorre premettere che, in tema ci' misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di legittimita', in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze gia' esaminate dal giudice di merito (ex plurimis, Sez. 2, n. 27866 del - 17/06/2019. Mazzelli Marco, Rv. 276976 - 01). Il controllo di logicita', peraltro, deve rimanere "all'interno" del provvedimento impugnato, non essendo possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate. In altri termini, l'ordinamento non conferisce alla Corte di cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, ne' alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell'indagato, ivi compreso l'apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui e' stata chiesta l'applicazione della misura, nonche' al tribunale del riesame. Il controllo di legittimita' e', percio', circoscritto all'esclusivo esame dell'atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l'altro negativo, la cui presenza rende l'atto incensurabile in sede di legittimita': 1) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l'assenza di illogicita' evidenti, risultanti cioe' prima facie dal testo del provvedimento impugnato, ossia la congruita' delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. 3. Giova, inoltre, evidenziare che, ai fini della configurabilita' del reato di cui all'articolo 603-bis c.p., la mera condizione di irregolarita' amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non puo' di per se' costituire elemento valevole da solo ad integrare la fattispecie, caratterizzata, al contrario, dallo "sfruttamento" del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio. (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961 - 01, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilita' del "caporale" e del datore di lavoro, essendo lo sfruttamento evincibile dalla penosa situazione personale e abitativa degli extracomunitari, dalla durata oraria della prestazione, svolta senza dotazioni di sicurezza e corsi di formazione e senza fruizione del riposo settimanale, nonche' dall'entita' della retribuzione, decurtata sensibilmente per spese affrontate dal datore di lavoro; Sez. 4, n. 49781 del 9/10/2019, Kuts Olena, Rv. 277424 - 01). 4. Nella ricostruzione del quadro indiziario relativo al concorso dell'imprenditore nel reato di sfruttamento di manodopera offerto dal Procuratore della Repubblica difetta l'emergenza di tale necessaria condizione di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, nei termini sopra descritti, risolvendosi la condotta ascritta al (OMISSIS), nella mera utilizzazione per l'attivita' della sua azienda di manodopera reclutata dal Bonou, senza provvedervi attraverso canali istituzionali. 4.1 La carenza dell'elemento strutturale dello sfruttamento delle condizioni dei lavoratori e' stata rilevata dal Tribunale del riesame e posta a fondamento del rigetto dell'appello del pubblico ministero. Con motivazione congrua ed immune da vizi logici, il Tribunale ha ritenuto che il semplice ricorso all'utilizzazione di manodopera illecitamente reclutata "non e' una condotta sussumibile nel reato di cui all'articolo 603 c.p. ne' integra altra fattispecie penale", non essendo piu' prevista dalla legge come reato la mera somministrazione di manodopera. Inoltre, quanto alle condizioni di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori impiegati, il Tribunale ha valutato insufficiente il compendio intercettivo che vede coinvolto quale interlocutore il (OMISSIS). Dal contenuto dei dialoghi e delle richieste rivolte dall'imprenditore al (OMISSIS), non emergerebbe la prova, secondo i giudici della cautela, "dell'eventuale ritorno di tali somme di denaro all'impresa agricola gestita dai (OMISSIS), ma addirittura mancano elementi indiziari da cui poteri desumere che (OMISSIS), fosse financo a conoscenza della "cresta" operata dal mediatore". In particolare, nei colloqui telefonici analizzati, sinteticamente riportati nell'ordinanza, emerge la semplice preoccupazione del (OMISSIS), circa i controlli di polizia fatti presso la propria azienda agricola e la richiesta di ricercare la documentazione attestante i pagamenti delle giornate espletate dai braccianti agricoli avviati (progr. 58 del 25 giugno 2020), mentre nelle successive conversazioni del 14 settembre 2020 e del 28 settembre 2020 le richieste del LO VULLO riguarda il semplice impiego di manodopera senza riferimenti alle condizioni di lavoro tali da far emergere il loro sfruttamento. 5. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato. P.Q.M. Rigetta il ricorso.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. RICCI A.L.A. - rel. Consigliere Dott. D'ANDREA Alessandro - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 15/09/2022 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; lette le conclusioni del PG in persona del Sostituto Procuratore GIUSEPPINA CASELLA: che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di Appello di Reggio Calabria,, con sentenza del 15 settembre 2022, in parziale riforma della sentenza del Giudice per l'udienza Preliminare del Tribunale di Reggio Calabria di condanna di (OMISSIS), in ordine al reato di cui all'articolo 603 bis c.p., commesso in (OMISSIS), ha concesso le circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante dell'aver reclutato un numero di lavoratori superiore a tre, e ha rideterminato la pena in anni 2 di reclusione. Secondo la descrizione di cui all'imputazione, confermata dalle sentenze di merito conformi, (OMISSIS), (soprannominato Cafu') aveva reclutato una quantita' indefinita di lavoratori extracomunitari, con cadenza pressoche' giornaliera (principalmente dalla ex baraccopoli di (OMISSIS), ove gli stranieri vivevano in baracche di fortuna, in condizioni di assoluto degrado igienico sanitario e privi di qualsivoglia mezzo di sostentamento), allo scopo di destinarla a lavori agricoli per conto di (OMISSIS), titolare di fatto della Impresa Agricola con sede in (OMISSIS), formalmente intestata alla figlia (OMISSIS) e, tramite furgoni nella sua disponibilita', aveva accompagnato i lavoratori reclutati sui luoghi di lavoro e concorso, altresi', nell'utilizzo della manodopera con compiti di vigilanza e direzione. 2.Avverso la sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS), a mezzo del difensore, formulando un unico) articolato motivo con cui ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla affermazione della responsabilita'. Il difensore lamenta che la Corte non avrebbe indicato in che modo l'imputato aveva approfittato dello stato di bisogno dei lavoratori ed in che modo aveva tratto utilita' dal reclutamento di maestranze nell'interesse di (OMISSIS), nelle sentenze di merito non si fa mai cenno ai vantaggi lucrati dal ricorrente dal reclutamento, ma ci si sofferma solo sullo stato di bisogno dei lavoratori avviati, ovvero su una condizione che (OMISSIS), condivideva con gli altri "suoi compagni di sventura". La Corte di Appello sarebbe anche incorsa nel travisamento della prova nella valutazione del requisito della abitualita' della condotta, che sarebbe stato tratto dagli esiti dei controlli effettuati presso le terre di (OMISSIS), il (OMISSIS), occasioni nelle quali (OMISSIS), non era in Calabria, bensi' in Campania alle dipendenze dell'azienda agricola di (OMISSIS), come comprovato dalla documentazione versata in atti. La Corte di Appello, inoltre, avrebbe tratto la prova del ruolo predominante di (OMISSIS), dalla circostanza per cui questi distribuiva ai lavoratori la paga, argomentando in maniera apodittica che tale compito, in realta' meramente esecutivo, implicherebbe un ruolo di intermediazione svolto in maniera professionale, quando invece l'istruttoria aveva chiarito che la permanenza di (OMISSIS), presso l'azienda di Raso era stata circoscritta a pochi giorni; piu' in generale la Corte avrebbe fondato l'affermazione della responsabilita' del ricorrente su alcuni dati di fatto che sarebbero in realta' insufficienti a provare la condotta di reato in contestazione. 3.11 Procuratore Generale, nella persona del sostituto (OMISSIS), ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso. 4.Le parti civili (OMISSIS) e (OMISSIS), hanno presentato conclusioni scritte con cui hanno chiesto la conferma della sentenza impugnata. 5. L'imputato ha presentato una memoria/ in data 27 marzo 2023/ con cui ha insistito per l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 2. Nel caso di specie/ la Corte di Appello, in coerenza con la sentenza di primo grado, ha confermato l'affermazione della responsabilita' dell'imputato in ordine al reato di cui all'articolo 603 bis comma 1 n. 1) per avere egli reclutato manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori. L'articolo 603 bis c.p., a seguito della entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, prevede due distinte fattispecie di reato, ovvero il reclutamento illecito, il cd. "caporalato", e l'utilizzo di manodopera in condizioni di sfruttamento. La prima ipotesi ha come soggetto attivo il reclutatore, la seconda ipotesi ha come soggetto attivo il datore di lavoro. Il legislatore non ha definito la nozione di "sfruttamento", condizione che deve caratterizzare tanto l'attivita' di reclutamento (articolo 603 bis c.p., comma 1, n. 1), quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera (articolo 603 bis, comma 1, n. 2), ma ha preferito indicare alcuni indici di sfruttamento elencati al comma 3 della disposizione e cosi' individuati: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione dei lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Questa Corte ha gia' avuto modo, peraltro, di precisare che l'elencazione contenuta nella norma non e' esaustiva delle condizioni che integrano lo sfruttamento, potendo il giudice individuare anche altre condotte suscettibili di dare luogo al requisito della condotta di abuso del lavoratore (Sez. 4 n. 7857 del 11/11/2021, dep. 2022, Falcone, Rv. 282609). Dallo sfruttamento deve tenersi distinto l'approfittamento dello stato di bisogno, altro presupposto necessario affinche' siano punibili le condotte di reclutamento e di utilizzazione della manodopera. Lo stato di bisogno -ha chiarito la Corte di Cassazione- non si identifica "con uno stato di necessita' tale da annientare in modo assoluto qualunque liberta' di scelta, ma come un impellente assillo e, cioe', una situazione di grave difficolta', anche temporanea, in grado di limitare la volonta' della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose" (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405). Dalla necessaria compresenza della duplice condotta di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno discende che la mera condizione di irregolarita' amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non puo' di per se' costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'articolo 603-bis c.p. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961). Quel che conta, dunque, affinche' sia integrato il delitto di reclutamento illecito, e' che la manodopera sia reclutata e destinata al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento e che cio' avvenga per approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. La fattispecie incriminatrice non prevede, invece, come sembra ipotizzare il ricorrente, che il reclutatore debba agire a fini di lucro. 2.1. Nel caso oggetto del ricorso, l'attivita' di reclutamento da parte di (OMISSIS) di lavoratori extracomunitari da avviare al lavoro nei campi della azienda Agricola gestita da (OMISSIS), non e' in contestazione, avendo censurato il ricorrente solo la sussistenza dei presupposti della sfruttamento e dell'approfittamento dello stato di bisogno. La Corte di Appello, a tale fine, ha evidenziato come fosse emerso che i lavoratori, dimoranti in una baraccopoli e in condizioni di grave difficolta' anche solo per reperire i mezzi di sussistenza primaria, venivano portati dai (OMISSIS), nei fondi di (OMISSIS), e qui lavoravano, con retribuzioni ben al di sotto della soglia minima prevista dalla c:ontrattazione, senza alcun dispositivo di protezione, ed erano sottoposti a condizioni di lavoro e metodi di sorveglianza degradanti. Le operazioni di intercettazione protrattesi per mesi (a dimostrazione del carattere reiterato della condotta, espressamente previsto dalla fattispecie incriminatrice quanto alla corresponsione di retribuzioni inferiori ai minimi previsti e comunque sproporzionate e quanto alla violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro), avevano consentito di accertare che il ricorrente faceva da intermediario fra i lavoratori da lui reclutati e il datore di lavoro; aggiornava (OMISSIS) ed il figlio di questi, (OMISSIS), in merito all'andamento dei lavori nei campi della loro azienda e concordava con loro aspetti 4 atttnenti modalita' esecutive dell'attivita' di raccolta; si occupava della gestione dei pagamenti in favore dei lavoratori e provvedeva egli stesso a consegnare la retribuzione, talora anche in contanti; era alla ricerca di mezzi, ovvero furgoni, da utilizzare per il trasporto della manovalanza sui campi. Tutto cio' nella consapevolezza del carattere illecito della sua opera di intermediazione, comprovato dal fatto che, nel corso di una conversazione, parlando con un soggetto non identificato, lo aveva informato della installazione nel campo da parte delle forze dell'ordine di una telecamera e gli aveva suggerito un percorso da effettuare in modo da non essere ripreso. 2.2.A fronte di tale percorso argomentativo, coerente con i dati di fatti riportati e logico nell'individuare la ricorrenza degli elementi costituivi della fattispecie, i motivi di ricorso sono meramente reiterativi delle doglianze gia' formulate con i motivi di appello e, comunque, nella parte in cui tendono alla rivisitazione del compendio probatorio, ovvero a mettere in dubbio le circostanze di fatto indicate dai giudici di merito a sostegno dell'inquadramento giuridico della condotta dell'imputato, sono inammissibili. 3.All'inammissibilita' del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita', deve essere disposto a suo carico, a norma dell'articolo 616 c.p.p., l'onere di versare la somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma cosi' determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilita'. Il Collegio ritiene di dover aderire all'orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel giudizio di legittimita', quando il ricorso dell'imputato viene rigettato o dichiarato, per qualsiasi causa, inammissibile, la parte civile ha diritto ad ottenere la liquidazione delle spese processuali senza che sia necessaria la sua partecipazione all'udienza, purche' abbia effettivamente esplicato, anche solo attraverso memorie scritte, un'attivita' diretta a contrastare la pretesa avversa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria. Si deve rilevare, tuttavia, che, nel caso in esame, le parti civili si sono limitate chiedere la conferma della sentenza impugnata, senza contrastare specificamente i motivi di impugnazione proposti e non fornendo un contributo effettivo alla decisione. Pertanto, la liquidazione delle spese processali riferibili alla fase di legittimita' in favore delle parti civili non e' dovuta (in tal senso, da ultimo, Sez. U, n. 877 del 14/07/2022 dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della casa delle ammende Nulla per le spese in favore delle parti civili.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9943 del 2020, proposto dal Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...), contro la signora Ma. Ro. Pa., rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Gi. e Um. Ve., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. I bis, 16 marzo 2020, n. 3269, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora Ma. Ro. Pa.; Vista l'ordinanza del 27 gennaio 2021, n. 316; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 febbraio 2023 il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l'avvocato dello Stato Vi. Ma. e gli avvocati Al. Gi. e Um. Ve.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il Ministero della difesa ha impugnato la sentenza segnata in epigrafe, con la quale è stato accolto il ricorso presentato dalla signora Ma. Ro. Pa., ufficiale medico dell'esercito con il grado di tenente colonnello specializzata in ostetricia e ginecologia, ed annullato il decreto direttoriale del 27 luglio 2017, che ne aveva dichiarato la decadenza dal rapporto di impiego per incompatibilità, ai sensi dell'art. 898, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare - C.o.m.), con contestuale cessazione dal servizio permanente effettivo a decorrere dal 28 dicembre 2016, ai sensi dell'art. 923, comma 1, lettera l), del medesimo Codice; con motivi aggiunti era stato impugnato anche il provvedimento in data 28 dicembre 2017, confermativo degli atti già impugnati col ricorso principale. 1.1. L'incompatibilità era stata ricondotta dall'Amministrazione all'accertata stipula di una convenzione con l'Azienda U.S.L. Toscana sud est, che trasformava in a tempo indeterminato un precedente impegno a tempo determinato, nel limite di 15 ore ambulatoriali settimanali da svolgere presso la zona (omissis), cui si aggiungevano ulteriori 4 ore quindicinali presso il consultorio di Gaiole in Chianti. L'attività de qua era stata accertata a seguito di segnalazione da parte del Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel periodo in cui l'appellata prestava servizio presso il 44° battaglione di sostegno telecomunicazioni "Penne" di Roma. 2. A sostegno dell'appello l'Amministrazione ha articolato un unico motivo di ricorso, lamentando violazione degli artt. 894, 896, 898 e 210 del C.o.m.: a suo avviso il primo giudice avrebbe errato nel qualificare come autonomo il rapporto di lavoro in regime di convenzione instaurato dall'ufficiale medico con l'Azienda U.S.L., così escludendo l'operatività del regime delle incompatibilità . Così opinando, il medico militare che svolga altrove la propria attività professionale, sarebbe esente da qualsivoglia forma di controllo preventivo da parte dell'Amministrazione di appartenenza, seppure sfori il limite settimanale delle 48 ore lavorative imposto dal d.lgs. n. 66 del 2003. 3. La signora Ma. Ro. Pa. ha resistito al gravame, chiedendone il rigetto, e con memoria versata in atti il 21 gennaio 2021, dopo aver ricostruito la propria carriera all'interno del Corpo sanitario dell'esercito italiano, ha insistito sulla natura libero professionale dell'attività di specialista ambulatoriale convenzionata con il S.S.N., come tale autorizzata ex lege dall'art. 210 del C.o.m., purché espletata al di fuori dell'orario di servizio, circostanza questa confermata anche dal nucleo ispettivo della Guardia di finanza incaricato delle verifiche. 4. Con l'ordinanza n. 316 del 2021 la Sezione ha respinto l'istanza di sospensione dell'esecutività della sentenza impugnata, avanzata incidentalmente dalla difesa erariale, non ritenendo possibile prima facie "trascendere dalla affermata portata derogatoria del regime delle incompatibilità declinata per i medici militari nell'art. 210 del d.lgs. del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66". 4.1. Con ulteriore memoria del 27 gennaio 2023 l'appellata ha insistito sulla natura ontologicamente disciplinare della decadenza comminatale, anche per tale aspetto illegittima, giusta l'insistenza in motivazione sull'inosservanza del limite orario settimanale di 48 ore complessive stabilito dall'art. 4 del d.lgs. n. 66 del 2003, senza tenere conto che la norma non troverebbe applicazione al caso di specie, a maggior ragione laddove non ne sia stato accertato in concreto l'impatto negativo sul rendimento della dipendente. Ha infine sottolineato i profili discriminatori, asseritamente anche di genere, dell'approccio seguito nei suoi confronti, rispetto ad altre analoghe situazioni, nelle quali si sarebbe tollerato lo svolgimento di attività medico convenzionata da parte del personale militare. 5. La causa, chiamata per la discussione alla pubblica udienza del 28 febbraio 2023, è stata ivi trattenuta in decisione. DIRITTO 6. L'appello è infondato. 7. Prima dell'entrata in vigore del Codice dell'ordinamento militare, l'autorizzazione all'esercizio dell'attività libero-professionale dei medici militari veniva desunta, in via implicita, dal quadro normativo vigente, in considerazione della particolare rilevanza degli interessi che essa mira a soddisfare, identificati nella necessità di non privare la collettività del relativo contributo operativo e nel contempo garantire all'Amministrazione di appartenenza un importante canale di formazione ed arricchimento di competenze da parte dei propri dipendenti. 7.1. Pur in assenza di una disposizione di legge espressamente derogatoria all'obbligo di esclusività del pubblico impiego sancito dall'art. 98 della Costituzione -declinato dapprima nell'art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, indi nell'art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165- la facoltà per gli ufficiali medici di esercitare la libera professione veniva desunta dal r.d. 17 novembre 1932, n. 2544 (Regolamento sul servizio sanitario territoriale militare), e dal regolamento di disciplina, ivi richiamato. 7.2. Nelle more della regolamentazione dei rapporti fra sanità civile e militare, prevista dall'art. 11 della legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale proprio allo scopo di addivenire ad un'effettiva integrazione, anche logistica, fra i due sistemi, consentendo la piena utilizzazione finanche delle strutture sanitarie militari a vantaggio della comunità civile, il d.P.R. 13 agosto 1981 -che ha reso esecutivo l'Accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell'art. 48 della richiamata l. n. 833/1978- ha consentito ai medici militari di iscriversi, con uno specificato massimale, negli elenchi dei medici convenzionati con le Unità sanitarie locali (norma transitoria n. 2, comma 2). 7.3. L'interpretazione del quadro normativo esistente era univoca nel senso del riconoscimento della possibilità di esercizio dell'attività professionale sia libera che convenzionata al medico militare, in quanto si riteneva in tal modo di poter conciliare ragioni di natura deontologica, volte a non sottrarre la preziosa opera di tali professionisti alle esigenze sanitarie civili, con le opportunità di aggiornamento rivenienti dal confronto costante con le stesse. 7.4. Il d.lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell'Ordinamento militare) ha disciplinato autonomamente il profilo dell'esclusività dell'impiego militare, sancendo all'art. 894, comma 1, l'incompatibilità della professione di militare con l'esercizio di ogni altra professione, salvo i casi previsti da legislazioni speciali. Tra le disposizioni speciali derogatorie si inserisce proprio l'art. 210 del medesimo codice che, nella versione conseguita al superamento di stesure intermedie, autorizza in via generale l'esercizio dell'attività libero professionale del medico militare. La ragione della deroga all'obbligo di esclusività dell'impiego prevista a favore dei medici militari viene ancora oggi identificata, analogamente al passato, in esigenze di interesse generale, sia della collettività civile che dell'amministrazione militare: esigenze che il medico militare è in grado di soddisfare per la peculiarità della sua figura, nella quale devono convergere doti professionali specialistiche e le più spiccate virtù militari (art 209 C.o.m.); è stato sottolineato che "Questa duplice dimensione (medica e militare) ha sempre rappresentato e continua a rappresentare, quindi, l'essenza e il fondamento della deroga alla regola dell'incompatibilità a favore degli ufficiali medici al fine di consentire l'osmosi tra esperienza nel contesto civile e professionalità nel settore militare" (Cons. Stato, sez. II, ordinanza del 10 febbraio 2022, n. 969, che ha rimesso alla Corte costituzionale la norma del C.o.m., laddove non contempla fra i professionisti legittimati ad attività extraistituzionale, nella quale ricomprende de plano anche quella convenzionata, gli psicologi). 8. Secondo l'Amministrazione appellante l'attività convenzionata non sarebbe parificabile a quella libero-professionale per i connotati di dipendenza che la contraddistinguono: da qui la ritenuta esclusione dal perimetro di operatività del regime derogatorio di cui all'art. 210 del C.o.m. 9. Tale assunto non è condivisibile, ponendosi in contrasto con la stessa evoluzione storica del quadro ordinamentale appena ricostruito. 10. Il rapporto tra sanitario convenzionato esterno ed Unità sanitaria locale, è disciplinato dall'art. 8 del d.lgs. n. 502 del 1992 e dagli accordi collettivi nazionali siglati ed approvati in attuazione di tale norma. 11. E' stato rilevato che detti rapporti, pur se costituiti in vista dello scopo di soddisfare le finalità istituzionali del Servizio sanitario nazionale, ovvero per la tutela della salute pubblica, corrispondono a rapporti libero-professionali, seppure qualificandoli come "parasubordinati". Essi cioè si svolgono di norma su un piano di parità, non esercitando l'ente pubblico nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, all'infuori di quello di sorveglianza, "né potendo incidere unilateralmente, limitandole o degradandole a interessi legittimi, sulle posizioni di diritto soggettivo nascenti, per il professionista, dal rapporto di lavoro autonomo" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21 marzo 2011, n. 1736). 11.1. Anche la giurisprudenza civile (v. ex multis Cass. SS.UU., 8 aprile 2008, n. 9142; id., 21 ottobre 2005, n. 20344) ha costantemente sostenuto che "i rapporti tra i medici convenzionati esterni e le unità sanitarie locali, disciplinati dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833, art. 48 e dagli accordi collettivi nazionali in attuazione di tale norma, pur se costituiti in vista dello scopo di soddisfare le finalità istituzionali dei servizio sanitario nazionale, dirette a tutela la salute pubblica, corrispondono a rapporti libero professionali parasubordinata che si svolgono di norma su un piano di parità, non esercitando l'ente pubblico nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, all'infuori di quello di sorveglianza, né potendo incidere unilateralmente, limitandole o degradandole a interessi legittimi, sulle posizione di diritto soggettivo nascenti, per il professionista, dal rapporto di lavoro autonomo". Conseguentemente, la presenza di singoli tratti astrattamente tipici del rapporto di lavoro subordinato non è sufficiente a trasformare il rapporto convenzionale in rapporto di pubblico impiego (sul punto, v. già Cons. Stato, sez. V, 16 settembre 1994, n. 1522), tanto più che nella parasubordinazione è implicita proprio la presenza (cfr. ancora Cons. Stato, sez. V, 25 maggio 2009, n. 3239) di alcuni degli elementi che caratterizzano il rapporto di lavoro subordinato, come l'inserimento nella organizzazione dell'ente, l'osservanza di vincoli d'orario ed il pagamento periodico. 12. Ancora di recente la Corte di legittimità ha avuto modo di tornare sull'argomento (v. Cass., sez. lavoro, 5 marzo 2020, nonché i numerosi precedenti ivi richiamati, incluse le pronunce della C.G.U.E. al riguardo): prendendo le mosse proprio dall'originario inquadramento quale "parasubordinazione" dei rapporti de quibus - nozione che comunque li collocava al di fuori del perimetro del rapporto di pubblico impiego - ha più semplicemente affermato che essi sono da ricondurre nell'ambito di quelli libero-professionali, proprio in ragione della mancanza nell'ente pubblico di potere autoritativo nei confronti del medico in convenzione, all'infuori di quello di vigilanza. Il medico convenzionato pertanto è un libero professionista il quale svolge un incarico di pubblico servizio, sulla base di un contratto collettivo stipulato con la P.A. ai sensi del d.lgs. n. 502/92, cui non risultano applicabili quegli istituti e quelle norme che la legge riconduce ai rapporti di lavoro di tipo pubblicistico. 13. Conseguentemente nel caso di specie non poteva trovare applicazione l'art. 898 C.o.m., concernente la decadenza dall'impiego del militare che versa in situazione di incompatibilità . 14. Né la misura adottata può trovare giustificazione nel richiamo al (presunto) mancato rispetto del limite di orario delle 48 ore di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 66 del 2003, vuoi perché la relativa disposizione non è certo sanzionata con l'irrogazione della decadenza dall'impiego, vuoi perché essa si riferisce evidentemente al massimale orario esigibile dall'Amministrazione nei confronti dei propri dipendenti. Per orario di lavoro s'intende infatti qualsiasi periodo durante il quale il lavoratore è al lavoro, appunto, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Rientra nello stesso, cioè, salvo diverse discipline di settore, solo l'arco temporale comunque trascorso all'interno dell'"azienda" - recte, per quanto qui di interesse, l'Amministrazione di appartenenza - anche per l'espletamento di attività prodromiche e accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli. 15. Ciò non implica affatto che l'Amministrazione sia impotente a fronte di un'eccessiva assunzione di impegni lavorativi extraistituzionali da parte dei propri dipendenti, come paventato dalla difesa erariale, a maggior ragione ove la tipologia dell'attività svolta imponga di garantire turni di riposo adeguati a salvaguardia del recupero psico-fisico da parte del professionista chiamato a svolgere attività che richiedono evidentemente soglie di attenzione particolarmente elevate e implicano ex se una forte componente di stress. Ma ciò attiene alla fase del controllo sull'attività extraistituzionale, ovvero, a monte, del suo oggettivo impatto negativo sulla resa di quella istituzionale: circostanze entrambe non emerse nel caso di specie, stante che né è stata rilevata una qualche violazione delle regole sottese al rapporto di impiego dell'appellata, né le è stato contestato un calo di rendimento (addirittura contraddetto dagli atti di causa). 15.1. Deve pertanto convenirsi con le conclusioni del primo giudice che, dopo aver ricordato il contenuto sul punto della relazione del Nucleo speciale anticorruzione della Guardia di finanza, ha affermato chiaramente che "l'attività libero professionale svolta dall'ufficiale medico Ten. Col. (...) rientra in quelle consentite dal sopra citato art. 210 del Codice dell'Ordinamento Militare", purché "sia svolta al di fuori dell'orario di servizio, con modalità tali da non condizionare l'adempimento dei doveri connessi con lo stato di militare e non presenti profili di conflitto di interessi, anche potenziali", ha giustamente concluso che nella vicenda in controversia "non può che rilevarsi la mancanza di dati e/o elementi utili a comprovarne l'avvenuto accertamento da parte dell'Amministrazione o, ancora, l'effettiva sussistenza". 15.2. Quanto detto "tralasciando", opportunamente, l'eventuale violazione dei diversi obblighi informativi o comunque prodromici all'avvio dell'attività extraistituzionale, siccome estranei sia al contenuto dell'atto impugnato, sia, soprattutto, al regime delle incompatibilità cui può essere fatta conseguire la disposta decadenza. 16. In conclusione, l'appello deve essere respinto. 17. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il Ministero della Difesa al pagamento delle spese di lite, che liquida in euro 4.000/00 (quattromila/00), oltre accessori se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli - Presidente Francesco Frigida - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere Maria Stella Boscarino - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2305 del 2019, proposto da Agenzia delle dogane e dei monopoli e Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in Roma, via (...) contro Ba. Ro. di Cu. Mi. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia nei confronti Ma. Vi., Ta. Di Ma. Lu., non costituiti in giudizio per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno n. 1285 del 13 settembre 2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Ba. Ro. di Cu. Mi. s.a.s.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza straordinaria del giorno 3 febbraio 2023, svolta in videoconferenza ai sensi dell'art. 87 comma 4bis c.p.a., il consigliere Ofelia Fratamico; Nessuno presente per le parti; Viste altresì le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue FATTO e DIRITTO Le amministrazioni appellanti hanno chiesto l'annullamento e/o la riforma della sentenza del T.a.r. per la Campania n. 1285 del 13 settembre 2018 di accoglimento del ricorso proposto dalla società appellata contro il diniego di rinnovo del patentino per la rivendita di generi di monopolio emesso in data 3 gennaio 2018. A sostegno della loro impugnazione, le amministrazioni appellanti hanno dedotto i seguenti motivi: violazione e /o falsa applicazione degli artt. 7 e 9 e dell'art. 2 comma 2 del d.m. n. 38/2013, motivazione erronea ed illegittima, erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti, ingiustizia manifesta anche alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale. Si è costituita in giudizio la società appellata, eccependo l'improcedibilità dell'appello, avendo l'Ufficio monopoli per la Campania provveduto ad annullare il diniego del 3 gennaio 2018 e a concedere, con determinazione prot. n. 1424 del 13 febbraio 2019, il rinnovo del patentino richiesto. All'udienza di smaltimento del 3 febbraio 2023 la causa è stata, quindi, trattenuta in decisione. Le amministrazioni appellanti hanno lamentato, in primo luogo, l'erroneità della sentenza impugnata che avrebbe omesso "di considerare uno dei principi cardine della difesa dell'Agenzia e (avrebbe fondato)... l'intero impianto motivazionale sull'art. 7 comma 3 lett. c (del d.m. n. 38 del 2013), ritenendo dirimente il fatto che la rivendita ordinaria più vicina si trova(sse) ad una distanza minima superiore ai 100 metri previsti dalla norma in questione". Così facendo il T.a.r. avrebbe tenuto conto soltanto di una delle circostanze rilevanti nella valutazione di un'istanza di rinnovo del patentino per la vendita di generi di monopolio, trascurando il requisito dell'assenza di una rivendita con distributore automatico installato ad una distanza inferiore a quella di cui all'art. 2 comma 2 del d.m. stesso che, nel caso di specie, per la tipologia di comune in questione, sarebbe stata di 250 metri. L'esistenza presso la rivendita ordinaria n. 27 di (omissis), ubicata in via (omissis) a (omissis) m. dalla sede del Ba. Ro. dell'appellata di un distributore automatico avrebbe, quindi, secondo le amministrazioni appellanti, precluso in ogni caso il rinnovo (soggetto alle stesse condizioni del primo rilascio) del patentino, in applicazione del principio di complementarietà di quest'ultimo rispetto alle rivendite ordinarie. Tali censure, a prescindere dall'esame dell'eccezione di improcedibilità dell'appello formulata dall'appellata per l'avvenuto rilascio, in data 13 febbraio 2019, del rinnovo richiesto (a seguito di integrazione documentale, ma dichiaratamente "in via provvisoria, in conseguenza dell'ordinanza (rectius sentenza) emessa dal T.a.r. Campania sezione staccata di Salerno n. 01285/2018 reg. prov coll") sono infondate e devono essere respinte. Sul punto va certamente confermata la giurisprudenza di questo Consiglio, secondo cui "il rinnovo del patentino, in relazione alla durata biennale del titolo, ha la natura di rinnovato rilascio e pertanto richiede la verifica degli stessi presupposti prescritti per il rilascio alla data in cui il rinnovo è richiesto, ivi compreso il rispetto delle distanze dalla rivendita cui esso è aggregato" (cfr. Cons. Stato sez. IV, 29 marzo 2021 n. 2597). Tale considerazione "trova fondamento nella stessa lettera del d.m. n. 38/2013, laddove, allo scopo della verifica della sussistenza di tali requisiti, l'articolo 9 richiede una dichiarazione sostitutiva che riporti "i dati e le informazioni di cui all'art. 8, comma 3", tra cui anche la presenza di distributori automatici di tabacchi lavorati attivi presso la rivendita più vicina. Il valore medio annuo della quantità minima di prelievo richiesto dal comma 3 dell'articolo 9 costituisce un requisito ulteriore, specifico per la fattispecie del rinnovo (risultando destinato a comprovarne la perdurante utilità sotto il profilo economico e del servizio), ma che non esclude la necessità di quelli richiesti per il rilascio. Inoltre il divieto contenuto nel comma 4 dell'articolo 7 (...) opera anche in sede di rinnovo in quanto funzionale ad assicurare un carattere essenziale del patentino, vale a dire la sua complementarietà al servizio di vendita dei tabacchi lavorati che costituisce mera espansione di una preesistente struttura di vendita" (Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2016 n. 397). Il rilascio del patentino si pone, dunque, come detto, in connessione con la necessità di erogazione del servizio di vendita dei prodotti da fumo in luoghi e tempi in cui lo stesso non può essere svolto dalle rivendite ordinarie. Nella pronuncia appellata, però, il giudice di prime cure ha accolto il ricorso proposto in primo grado proprio a seguito dell'accertamento tramite la disposta verificazione non solo del fatto che la distanza tra il Ba. Ro. dell'odierna appellata e la rivendita ordinaria più vicina (la rivendita n. 6 sita in via Canale) fosse superiore ai 100 metri, ma anche della circostanza per la quale quest'ultima risultava sprovvista di distributore automatico. L'art. 7 del citato d.m. 21 febbraio 2013 n. 38 "Regolamento recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo" è chiaro al riguardo stabilendo quanto ai Criteri per il rilascio di patentini che: "1. Ai fini del rilascio di patentini l'Ufficio competente prende in considerazione il carattere di complementarietà del servizio di vendita dei tabacchi lavorati che costituisce mera espansione di una preesistente struttura di vendita, non sovrapponibile alla stessa e giustificata dalla necessità di erogazione del predetto servizio in luoghi e tempi in cui tale servizio non può essere svolto dalle rivendite ordinarie. 2. I patentini possono essere istituiti presso pubblici esercizi dotati di licenza per la somministrazione di cibi e bevande, nonché presso i seguenti esercizi: a) alberghi; b) stabilimenti balneari; c) sale "Bingo"; d) agenzie di scommesse e punti vendita aventi come attività principale la commercializzazione dei prodotti di gioco pubblico; e) esercizi dediti esclusivamente al gioco con apparecchi di cui all'articolo 110 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, come definiti dall'articolo 9, comma 1, lettera f), del decreto direttoriale 22 febbraio 2010 del Ministero dell'economia e delle finanze-Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 9 febbraio 2010, n. 32; f) bar di rilevante frequentazione, in presenza di comprovati elementi che dimostrano l'elevato flusso di pubblico, la rilevanza dei servizi resi alla clientela, la concreta esigenza di approvvigionamento di prodotti da fumo. 3. Ai fini dell'adozione del provvedimento, gli Uffici competenti in relazione all'esercizio del richiedente, valutano: a) l'orario prolungato dell'esercizio rispetto a quello delle rivendite circostanti; b) il giorno di riposo settimanale praticato dall'esercizio in un giorno diverso da quello delle rivendite ordinarie più vicine; c) la distanza dell'esercizio dalla rivendita più vicina, comunque non inferiore a 100 metri; d) l'ubicazione e la dimensione dell'esercizio; e) la redditività dell'esercizio prodotta negli ultimi ventiquattro mesi, valutata anche mediante verifica del numero di scontrini fiscali ovvero di biglietti di accesso emessi quotidianamente, nonché dalle dichiarazioni dei redditi ed IVA; f) l'eventuale presenza di distributori automatici nella rivendita ordinaria più vicina; g) l'assenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l'Erario o verso l'Agente della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili. 4. In ogni caso il patentino non può essere concesso quando presso la rivendita più vicina risulti installato un distributore automatico di tabacchi lavorati e la stessa rivendita sia a distanza inferiore a quelle di cui all'articolo 2, comma 2". Facendo puntuale applicazione della lettera di tale disposizione normativa, in particolare del comma 4, e anche della ratio del principio di complementarietà del patentino, il T.a.r. ha, dunque, riferito il requisito dell'assenza del distributore automatico non a tutto il territorio di (omissis), bensì alla rivendita ordinaria più vicina, la n. 6, pacificamente priva di tale sistema di vendita. Da qui la correttezza della pronuncia appellata, che risulta immune dalle dedotte doglianze di violazione di legge ed errore e travisamento dei fatti e deve essere confermata. In base alla regola della soccombenza le spese di lite, liquidate come in dispositivo, devono, infine, essere poste a carico delle amministrazioni appellanti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna le amministrazioni appellanti alla rifusione in favore dell'appellata delle spese, liquidate in complessivi Euro 2.000,00 oltre accessori di legge Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FERRANTI Donatella - Presidente Dott. DI SALVO Emanuela - Consigliere Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere Dott. RICCI A.L.A. - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI CALTANISSETTA; nel procedimento a carico di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 13/10/2022 del TRIB. LIBERTA' di CALTANISSETTA; udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; sentite le conclusioni del PG LUIGI ORSI che ha chiesto l'annullamento con rinvio; udito il difensore avvocato (OMISSIS) del foro di PALERMO in difesa di: (OMISSIS) che ha chiesto l'inammissibilita' del ricorso e in via subordinata il rigetto. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale del Riesame di Caltanissetta con ordinanza del 13 ottobre 2022 ha annullato l'ordinanza del Giudice per le indagini Preliminari del Tribunale di Caltanissetta con la quale era stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di (OMISSIS), in ordine al reato di cui all'articolo 603 bis c.p., comma 1 n. 2 commesso in (OMISSIS) con condotta permanente. Secondo l'ipotesi d'accusa l'indagato, nella qualita' di gestore di fatto della azienda agricola " (OMISSIS) srl" operante nel settore delle colture vitivinicole, in concorso con altri soggetti, fra cui l'intermediario (OMISSIS), aveva assunto o comunque utilizzato o impiegato decine di lavoratori di varie etnie, tra cui (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), allo scopo di destinarli alla coltivazione dei terreni, sottoponendoli alla condizione di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle precarie condizioni di vita in cui gli stessi versavano e, in particolare, corrispondendo loro per 8 ore di lavoro al giorno senza pausa (se non per il pranzo), e spesso senza riposo settimanale, un salario di 40 Euro, inferiore a quello minimo fissato dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale. 2.Avverso detta ordinanza il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta ha proposto ricorso, formulando un unico motivo con cui ha dedotto l'erronea applicazione dell'articolo 603 bis c.p., e la contraddittorieta' della motivazione. Il Procuratore, dopo aver dato atto che l'indagine aveva fatto emergere la presenza nella zona di Caltanissetta di una organizzazione composta da alcuni cittadini stranieri con regolare permesso di soggiorno e capeggiata da (OMISSIS), dedita al reclutamento di manodopera soprattutto di origine marocchina da destinare al lavoro nelle campagne limitrofe per paghe irrisorie e orari stremanti, ha richiamato il compendio indiziario in atti nei confronti di (OMISSIS), cosi' come evidenziato nell'ordinanza genetica del Giudice per le indagini preliminari: - (OMISSIS), coniuge di (OMISSIS), socia maggioritaria della (OMISSIS) srl, aveva intrattenuto conversazioni con (OMISSIS), tese a reclutare lavoratori anche stranieri per impiegarli in lavorato agricoli. (OMISSIS), era stato egli stesso assunto da (OMISSIS) srl nell'anno 2020 per un totale di 102 giornate lavorative e cosi' pure, per il tramite di (OMISSIS), erano stati contrattualizzati altri lavoratori tra cui (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS); - le intercettazioni telefoniche avevano evidenziato che (OMISSIS), si era lamentato con (OMISSIS), del comportamento di alcuni operai che non si erano presentati sul fondo per rendere la loro opera (conversazione del 25/06/2020) e che (OMISSIS) e (OMISSIS), avevano interloquito in ordine alla regolarizzazione di alcuni operai per fini di contabilita' dell'azienda (conversazione del 9/7/2020 e dell' 1/8/2020). Dalle conversazioni captate era emerso anche che alcuni degli operai, in particolare quelli di nazionalita' marocchina, nei periodi in cui erano assunti con regolari contratti di lavoro dalla ditta (OMISSIS) srl, provvedevano ad effettuare prelievi di contanti dai propri conti correnti appena dopo avere incassato il salario, per restituirli al datore di lavoro tramite (OMISSIS). Tale circostanza era stata confermata anche dall'analisi delle movimentazioni in entrata e in uscita sulla carta di credito abbinata al conto corrente delle Poste Italiane intestate ai soggetti extracomunitari: era emerso che il (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) avevano effettuato prelievi di contanti nell'ordine di 600 Euro ciascuno, dopo che nella giornata precedente avevano ricevuto un bonifico di 1000 Euro dalla (OMISSIS) srl sui loro conti correnti. Nel corso di una conversazione intercettata il (OMISSIS), (OMISSIS), parlando con (OMISSIS), gli aveva spiegato che le paghe erano maggiorate, che gli avrebbe fatto sapere quale cifra doveva essere restituita e che gli sarebbe stato recapitato un foglio sul quale erano riportate le cifre; (OMISSIS), aveva confermato che anche altri operai avevano ricevuto un foglio sul quale erano annotate le somme da restituir. Allo stesso modo nel corso delle conversazioni del 5/11/2020 e 6/11/ 2020 (OMISSIS) e (OMISSIS), avevano fatto riferimento a somme da restituire "all'azienda" e avevano commentato che i datori di lavoro pretendevano la restituzione di parte degli importi formalmente versati; - lo sfruttamento dei lavoratori attraverso retribuzioni inferiori ai minimi era emerso anche dalle dichiarazioni rese da (OMISSIS) e (OMISSIS), costoro avevano riferito che la paga giornaliera era in realta' di 40 Euro e non di 56 Euro come veniva fatto figurare (per una giornata lavorativa di 6 ore e 30 minuti a fonte delle 8 in realta' lavorate) ed avevano prodotto le buste paga nelle quali era riportato il dato "differenza", pari alla somma che avrebbero dovuto restituire al datore di lavoro. Il Pubblico Ministero ha osservato che sulla base di tali elementi il Tribunale del riesame aveva confermato l'ordinanza genetica in relazione alla posizione di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), per il reato di cui all'articolo 603 bis c.p., mentre aveva annullato la medesima ordinanza in relazione alla posizione di (OMISSIS). I giudici, secondo il ricorrente, avevano ritenuto in maniera irragionevole sussistente la gravita' indiziaria per tale reato nei confronti di (OMISSIS), concretizzatosi nell'opera di intermediazione svolta in favore della azienda (OMISSIS) srl gestita di fatto da (OMISSIS) e non anche nei confronti di (OMISSIS). A tal proposito i giudici avevano rilevato che i lavoratori erano stati assunti regolarmente ricavando il dato dalle buste paga consegnate ai lavoratori escussi, quando in realta' tali documenti erano fittizi; che non vi era prova che i soldi prelevati dai lavoratori il giorno seguente al ricevimento della paga fossero effettivamente arrivati a (OMISSIS), quando invece il teste (OMISSIS) lo aveva precisato in maniera inequivocabile per averlo appreso da (OMISSIS); che nessun rilievo poteva essere attribuito alle buste paga, quando invece tali buste paga erano state ritenute significative con riferimento alla posizione di (OMISSIS), e comunque era (OMISSIS), ad occuparsi insieme a (OMISSIS), della contabilita' dell'azienda, onde solo costoro potevano avere predisposto le tabelle per i lavoratori con i conteggi delle giornate, del compenso formale e del compenso che avrebbe dovuto essere restituito. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto in quanto fondato il motivo. 2. Occorre premettere come nella stessa ordinanza impugnata si dia atto che le indagini relative al presente procedimento hanno fatto emergere l'esistenza di una organizzazione dedita al reclutamento di manodopera da impiegare in lavori agricoli in condizioni di sfruttamento, a capo della quale si trovava (OMISSIS), coadiuvato da (OMISSIS), e della quale facevano parte anche (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e (OMISSIS), con il compito di reclutare i lavoratori e fare loro da autisti. In tale contesto (OMISSIS) ed il figlio, nonche' (OMISSIS), oltre al reclutamento e alla somministrazione della manodopera, provvedevano anche a controllare i lavoratori nell'esercizio della attivita' lavorativa, a riscuotere le paghe e a consegnarle ai lavoratori. (OMISSIS), fra gli altri, aveva fornito manodopera anche all'azienda (OMISSIS) srl della quale (OMISSIS), era gestore di fatto. Il Tribunale del riesame ha ritenuto che dal compendio indiziario raccolto fosse emerso che effettivamente costui si era avvalso della predetta organizzazione per il reclutamento della manodopera impiegata nelle vigne, ma non anche che, come contestato nel capo di imputazione ex articolo 603 bis c.p., comma 1 n. 2, aveva sottoposto i lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno, mediante corresponsione di retribuzione inferiore e sottoposizione a costante controllo. Il Tribunale, in particolare, ha dato atto che il Giudice per le indagini preliminari, in relazione alla posizione di Ferrara, aveva in ultima analisi ritenuto sussistenti le condizioni di sfruttamento sotto l'unico profilo della corresponsione della retribuzione inferiore a quella prevista dalla contrattazione e non adeguata. Anche in ordine a tale profilo, tuttavia,- secondo i giudici- non poteva dirsi sussistente un quadro indiziario sufficiente in quanto: - i lavoratori (OMISSIS) e (OMISSIS) si erano limitati a riferire che era stato (OMISSIS), a dire loro che la paga sarebbe stata di 40 Euro giornaliere; - le buste paga emesse dall'Inali e consegnate da detti lavoratori indicavano una paga giornaliera di 56,04 Euro, conforme alla retribuzione minima di categoria; non era stato accertato a cosa si riferisse la voce "Differenza", pure indicata nella busta paga, ne' da chi dette buste fossero state compilate. - non vi era alcun dato che autorizzasse a ritenere che eventuali restituzioni di somme da parte degli operai avvenissero nelle mani dei (OMISSIS), ben potendo darsi, invece, che tali somme fossero state trattenute dall'intermediario. 3. Il percorso argomentativo adottato dal Tribunale del Riesame appare per alcuni profili contraddittorio e illogico e per altri profili del tutto carente. 3.1. Il reato contestato all'indagato (OMISSIS) e' quello di utilizzazione, nella qualita' di gestore di fatto di un'azienda operante nel settore vitivinicolo, di manodopera, anche mediante attivita' di intermediazione illecita, in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno (articolo 603 bis n. 2 cod. pen). Benche' nella rubrica della incolpazione provvisoria (OMISSIS) sia indicato come concorrente ex articolo 110 c.p., con coloro che hanno agito come intermediari, in realta' nella parte descrittiva la condotta del ricorrente e' descritta come impiego di manodopera con sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno ed e' tenuta distinta da quella dei reclutatori. 3.2. Con l'entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, che ha modificato l'articolo 603 bis c.p., sono state introdotte due distinte fattispecie di reato: il reclutamento illecito, il cd. "caporalato", e lo sfruttamento del lavoro. Tale ultima ipotesi ha come soggetto attivo il datore di lavoro. 3.3. Il legislatore non ha definito la nozione di "sfruttamento", condizione che deve caratterizzare tanto l'attivita' di reclutamento (articolo 603 bis c.p., comma 1, n. 1), quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera (articolo 603 bis, comma 1, n. 2), ma ha preferito indicare alcuni indici di sfruttamento elencati al comma 3 della disposizione e cosi' individuati: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione dei lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Questa Corte ha gia' avuto modo di precisare che l'elencazione contenuta nella norma non sia esaustiva delle condizioni che integrano lo sfruttamento, potendo il giudice individuare anche altre condotte suscettibili di dare luogo al requisito della condotta di abuso del lavoratore (Sez. 4 n. 7857 del 11/11/2021, dep. 2022, Falcone, Rv. 282609). Dallo sfruttamento deve tenersi distinto l'approfittamento dello stato di bisogno, presupposto necessario perche' la condotta di sfruttamento sia punibile: l'uso della congiunzione nella dizione della norma ("..sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno...") implica che alle condizioni di sfruttamento debba accompagnarsi l'approfittamento dello stato di bisogno per la sussistenza del reato. In ordine alla nozione di stato di bisogno questa Corte ha precisato che essa non si identifica "con uno stato di necessita' tale da annientare in modo assoluto qualunque liberta' di scelta, ma come un impellente assillo e, cioe' una situazione di grave difficolta', anche temporanea, in grado di limitare la volonta' della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose" (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405). Dalla necessaria compresenza della duplice condotta di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno discende che la mera condizione di irregolarita' amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non puo' di per se' costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'articolo 603-bis c.p., caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961) 4. Dalla motivazione dell'ordinanza impugnata si evince che il Tribunale del riesame si e' confrontato unicamente con i passaggi argomentativi adottati dal Giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza genetica della misura cautelare, ed ha svilito la portata degli indizi menzionati in detti passaggi. Siffatto percorso argomentativo, tuttavia, si presta ad essere censurato sia sotto il profilo formale, sia sotto il profilo sostanziale. Quanto al primo aspetto si ricorda che il giudizio di riesame e' totalmente devolutivo per espressa disposizione normativa. Ai sensi dell'articolo 309 comma 9 c.p.p., infatti, il Tribunale, se non deve dichiarare l'inammissibilita' della richiesta, puo' annullare, riformare o confermare l'ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza e puo' annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati, ovvero puo' confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso. Ne consegue che il Tribunale non deve limitarsi ad un confronto con il percorso argomentativo dell'ordinanza genetica, ma e' tenuto ad una verifica dell'intero compendio risultante dagli atti trasmessi. Quanto al secondo aspetto si osserva che nel caso in esame la valutazione da parte del Tribunale del riesame del compendio indiziario in ordine alla condotta di sfruttamento, anche a voler considerare il solo profilo della corresponsione della retribuzione sproporzionata rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato, sia contraddittoria e gravemente carente. I giudici, infatti, dato per pacifico che effettivamente a fronte di una retribuzione formale, risultante dalle buste paga, di 56 Euro giornalieri, i lavoratori percepivano solo la somma di 40 Euro giornalieri e restituivano la differenza, non hanno tenuto conto di alcuni dati, quali: - la esibizione da parte degli stessi lavoratori di prospetti paga rilasciati dalla ditta (OMISSIS) srl consegnati loro da (OMISSIS) in cui figurava la dicitura differenza pari alla somma che dovevano restituire; - la circostanza per cui era (OMISSIS) insieme al coindagato (OMISSIS), ad occuparsi all'interno della (OMISSIS) degli aspetti contabili e dei contratti dei lavoratori (in tal senso anche la telefonata n. 1186 dell'1/08/2020 fra (OMISSIS) e (OMISSIS)); -la circostanza per cui nelle telefonate intercettate i lavoratori parlando fra di loro indicavano quale soggetto a cui dovevano essere restituite le somme colui che aveva loro versato la paga (telefonata n. 1253 del 23/10/2020), ovvero il proprietario del fondo agricolo che li aveva pagati tramite bonifico (telefonata n. 1261 del 23/10/2020); - la circostanza per cui (OMISSIS), parlando con il coindagato (OMISSIS), faceva riferimento alle paghe maggiorate e affermava che era in attesa di sapere quale era la cifra che gli operai dovevano restituire (telefonata n. 5545 del 4/11/2020); - la circostanza per cui l'indagato (OMISSIS), parlando con il lavoratore (OMISSIS), faceva riferimento alla parte di paga ricevuta in piu' che doveva essere restituita all'azienda, mentre lo stesso (OMISSIS), si lamentava di dover restituire parte del compenso all'azienda (telefonata del (OMISSIS)); - le dichiarazioni rese da alcuni dipendenti che avevano spiegato di dover restituire al datore di lavoro, per il tramite di (OMISSIS), una parte della somma ricevuta tramite bonifico cosi' come indicato in alcuni prospetti che erano stati loro consegnati; - le dichiarazioni degli stessi dipendenti a proposito dell'orario di lavoro, ben superiore alle 6,30 ore giornaliere e pari ad oltre 8 ore giornaliere. I giudici, inoltre, non hanno valutato che sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato in esame, nel caso di sfruttamento attuato con corresponsione di retribuzione non adeguata, anche nel caso in cui una parte della retribuzione destinata al lavoratore sia trattenuta dall'intermediario, il datore di lavoro puo' rispondere a titolo di dolo eventuale, ovvero per la consapevole accettazione del rischio che solo una parte residuale della retribuzione conferita all'intermediario venga poi effettivamente corrisposta ai lavoratori (in tal senso Sez. 4, n. 45615 del 11/11/2021, Mazzotta, Rv. 282580). Il Tribunale, dunque, ha adottato una motivazione manifestamente carente ed illogica, traendo dal compendio indiziario su indicato inferenze contraddittorie sul piano della logica e non considerando i fatti nella loro concatenazione logica, anche alla luce del contesto complessivo delle indagini. 5. Ne consegue che l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Caltanissetta in funzione di giudice del riesame che nel nuovo esame dovra' attenersi ai principi su indicati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Caltanissetta competente ai sensi dell'articolo 309 c.p.p., comma 7.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FERRANTI Donatella - Presidente Dott. DI SALVO Emanuele - Consigliere Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere Dott. RICCI A.L.A. - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI CALTANISSETTA; nel procedimento a carico di: (OMISSIS) nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 13/10/2022 del TRIB. LIBERTA' di CALTANISSETTA; udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI; sentite le conclusioni del PG LUIGI ORSI che ha chiesto l'annullamento con rinvio; udito il difensore avvocato (OMISSIS) del foro di AGRIGENTO in difesa di: (OMISSIS), che ha chiesto l'inammissibilita' del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale del Riesame di Caltanissetta con ordinanza del 13 ottobre 2022 ha annullato l'ordinanza del Giudice per le indagini Preliminari del Tribunale di Caltanissetta con la quale era stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di (OMISSIS), in ordine al reato di cui all'articolo 603 bis c.p., comma 1 n. 2, commesso in Caltanissetta, (OMISSIS) da epoca anteriore al (OMISSIS) con condotta permanente. Secondo l'ipotesi d'accusa l'indagato nella qualita' di dipendente della ditta individuale rappresentata dalla madre (OMISSIS) e di fatto gestore della stessa, operante nel settore delle colture vitivinicole e agricole, in concorso con altri soggetti, fra cui l'intermediario (OMISSIS), aveva assunto o comunque utilizzato o impiegato decine di lavoratori di varie etnie allo scopo di destinarli alla coltivazione dei terreni, sottoponendoli alla condizione di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle precarie condizioni di vita in cui gli stessi versavano e, in particolare: - corrispondendo loro per 8 ore di lavoro al giorno senza pausa (se non per il pranzo), e spesso senza riposo settimanale, un salario di 40 Euro, inferiore a quello minimo fissato dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale; - sottoponendoli a costante controllo, avanzando rimostranze agli intermediari e in particolare modo a (OMISSIS), e minacciandoli attraverso gli intermediari di non corrispondere loro il compenso o di perdere occasioni future di impiego nel caso in cui non avessero svolto l'attivita' lavorativa in conformita' a quanto preteso. 2.Avverso detta ordinanza il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta ha proposto ricorso formulando un unico motivo con cui ha dedotto la mancanza ed illogicita' della motivazione. Il ricorrente lamenta che il Tribunale, nel ritenere che le condotte di (OMISSIS), cosi' come emerse attraverso le intercettazioni telefoniche, non potessero integrare il delitto di cui all'articolo 603 bis c.p.. avrebbe omesso di valutare adeguatamente le fonti indiziarie singolarmente assunte e complessivamente considerate. A tal fine il ricorrente, premesso che la condotta relativa alla corresponsione delle retribuzioni in misura inferiore non era stata presa in considerazione dal Gip, il quale aveva invece considerato come penalmente rilevanti le condizioni di sfruttamento del lavoro attraverso un sistema degradante di controlli, ha richiamato: - l'attivita' di osservazione della polizia giudiziaria anche tramite sistema gps installato sull'autovettura di (OMISSIS), da cui era emerso che i lavoratori erano impiegati nell'azienda gestita da (OMISSIS) per piu' di sei ore al giorno, non indossavano dispositivi di protezione e che un infortunio occorso al lavoratore (OMISSIS) (ferita al braccio che gli aveva impedito di lavorare per diversi giorni) non era stato denunciato dall'azienda; - le conversazioni del mese di giugno, luglio e agosto fra (OMISSIS) e (OMISSIS) relative all'impiego della manodopera fornita dal secondo e ai relativi pagamenti; - la conversazione del l'(OMISSIS) con cui (OMISSIS), richiedeva a (OMISSIS), manodopera anche per altre aziende vicine alla sua; - le conversazioni della fine di luglio- inizio di agosto del 2020 nelle quali (OMISSIS) si lamentava con (OMISSIS), della non corretta esecuzione dei lavori di copertura di una sua vigna, lo invitava a controllare costantemente i lavoratori e minacciava di non pagarli. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto in quanto fondato il motivo. 2. Occorre premettere che nella stessa ordinanza impugnata si da' atto che le indagini relative al presente procedimento hanno fatto emergere l'esistenza di una organizzazione dedita al reclutamento di manodopera da impiegare in lavori agricoli in condizioni di sfruttamento a capo della quale si trovava (OMISSIS), coadiuvato da (OMISSIS) e della quale facevano parte anche (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) con il compito di reclutare i lavoratori e fare loro da autisti. In tale contesto era emerso che (OMISSIS) ed il figlio, nonche' (OMISSIS), oltre al reclutamento e alla somministrazione della manodopera, provvedevano anche a controllare i lavoratori nell'esercizio della attivita' lavorativa, a riscuotere le paghe dai datori di lavori e a consegnarle ai lavoratori. (OMISSIS), fra gli altri, aveva fornito manodopera anche all'azienda intestata a (OMISSIS), e gestita di fatto dal figlio (OMISSIS). Il Tribunale del riesame ha ritenuto che dal compendio indiziario raccolto fosse emerso che effettivamente costui si era avvalso dell'intermediario (OMISSIS) per il reclutamento della manodopera impiegata nelle vigne, ma non anche che, come contestato nel capo di imputazione ex articolo 603 bis c.p., comma 1, n. 2, aveva sottoposto i lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno, mediante sistemi di controllo degradanti. Il Tribunale, in particolare, ha dato atto che il Giudice per le indagini preliminari, in relazione alla posizione di (OMISSIS), aveva valorizzato unicamente alcune conversazioni da cui sarebbero emersi l'impiego di manodopera e rimproveri in relazione alla non corretta esecuzione di lavori di copertura di una vigna affidati ai lavoratori. Tali elementi- ad avviso dei giudici- non sarebbero sufficienti a delineare una condizione di sfruttamento. 3. Il percorso argomentativo adottato dal Tribunale del Riesame appare per alcuni profili contraddittorio e illogico e per altri profili del tutto carente. 3.1. Il reato contestato all'indagato (OMISSIS) e' quello di utilizzazione, nella qualita' di gestore di fatto di un'azienda operante nel settore vitivinicolo, di manodopera, anche mediante attivita' di intermediazione illecita, in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno (articolo 603 bis n. 2 c. p.). Benche' nella rubrica della incolpazione provvisoria (OMISSIS), sia indicato come concorrente ex articolo 110 c.p., con coloro che hanno agito come intermediari, in realta' nella parte descrittiva la condotta del ricorrente e' indicata come impiego di manodopera con sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno ed e' tenuta distinta da quella dei reclutatori. 3.2. Con l'entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, che ha modificato l'articolo 603 bis c.p., sono state introdotte due distinte fattispecie di reato: il reclutamento illecito, il cd. "caporalato", e lo sfruttamento del lavoro. Tale ultima ipotesi ha come soggetto attivo il datore di lavoro. 3.3. Nella fattispecie in esame, il legislatore non ha definito la nozione di "sfruttamento", condizione che deve caratterizzare tanto l'attivita' di reclutamento (articolo 603 bis c.p., comma 1, n. 1), quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera (articolo 603 bis, comma 1, n. 2), ma ha preferito indicare alcuni indici di sfruttamento elencati al comma 3, della disposizione e cosi' individuati: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione dei lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Questa Corte ha gia' avuto modo di precisare che l'elencazione contenuta nella norma non sia esaustiva delle condizioni che integrano lo sfruttamento, potendo il giudice individuare anche altre condotte suscettibili di dare luogo al requisito della condotta di abuso del lavoratore (Sez. 4 n. 7857 del 11/11/2021, dep. 2022, Falcone, Rv. 282609). Dallo sfruttamento deve tenersi distinto l'approfittamento dello stato di bisogno, presupposto necessario perche' la condotta di sfruttamento sia punibile: l'uso della congiunzione nella dizione della norma ("..sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno...") implica che alle condizioni di sfruttamento debba accompagnarsi l'approfittamento dello stato di bisogno per la sussistenza del reato. In ordine alla nozione di stato di bisogno questa Corte ha precisato che essa non si identifica "con uno stato di necessita' tale da annientare in modo assoluto qualunque liberta' di scelta, ma come un impellente assillo e, cioe' una situazione di grave difficolta', anche temporanea, in grado di limitare la volonta' della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose" (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405). Dalla necessaria compresenza della duplice condotta di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno discende che la mera condizione di irregolarita' amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non puo' di per se' costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'articolo 603-bis c.p. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961). 4.Dal percorso argomentativo adottato nell'ordinanza impugnata si evince che il Tribunale del riesame si e' confrontato unicamente con i passaggi argomentativi adottati dal Giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza genetica della misura cautelare e ha svilito la portata degli indizi menzionati in detti passaggi. Siffatto percorso argomentativo, tuttavia, si presta ad essere censurato sia sotto il profilo formale, sia sotto il profilo sostanziale. Quanto al primo aspetto si ricorda che il giudizio di riesame e' totalmente devolutivo per espressa disposizione normativa. Ai sensi dell'articolo 309 c.p.p., comma 9, infatti, il Tribunale, se non deve dichiarare l'inammissibilita' della richiesta, puo' annullare, riformare o confermare l'ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza e puo' annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati, ovvero puo' confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso. Ne consegue che il Tribunale non deve limitarsi ad un confronto con la motivazione dell'ordinanza genetica, ma e' tenuto ad una verifica dell'intero compendio risultante dagli atti trasmessi. Nel caso di specie i giudici, nel ritenere che la condotta di sfruttamento di (OMISSIS), mediante corresponsione di una retribuzione inferiore al minimo previsto nei contratti di categoria non fosse suffragata da adeguati riscontri, hanno richiamato espressamente i passaggi dell'ordinanza genetica lasciando intendere di aver preso in considerazione solo tali passaggi e non anche le risultanze complessive delle indagini. Quanto al secondo aspetto si osserva che nel caso in esame la valutazione da parte del Tribunale del riesame del compendio indiziario in ordine alla condotta di sfruttamento, anche a voler considerare il solo profilo della sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro e a metodi di sorveglianza degradanti, sia gravemente carente. I giudici, infatti, dato per pacifico che Hassan (OMISSIS) era a capo di una organizzazione dedita al reclutamento di manodopera da impiegare in condizioni di sfruttamento, non hanno adeguatamente esaminato alcune circostanze, quali: - il fatto che (OMISSIS) si fosse rivolto a (OMISSIS) per il reclutamento di manodopera da impiegare non solo nelle proprie vigne, ma anche nei terreni limitrofi ai suoi, evidentemente per conto di altre aziende della zona; - il fatto che nelle telefonate su indicate in piu' occasioni (OMISSIS), nel lamentarsi dei lavori eseguiti da alcuni operai, avesse richiesto a (OMISSIS) una presenza constante ed assidua presso i terreni in cui i lavori dovevano essere eseguiti, in modo da esercitare una sorveglianza continua sul loro operato; - il fatto che, tramite il sistema gps installato sul mezzo in uso a (OMISSIS), si fosse accertata, in piu' occasioni, la presenza del predetto presso i terreni della famiglia (OMISSIS). I giudici, dunque, hanno adottato una motivazione manifestamente carente ed illogica, traendo dal compendio su indicato, inferenze contraddittorie sul piano della logica e non considerando i fatti nella loro concatenazione logica, anche alla luce del contesto complessivo delle indagini. 5. Ne consegue che l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Caltanissetta in funzione di giudice del riesame che nel nuovo esame dovra' attenersi ai principi su indicati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al ribunale di Caltanissetta competente ai sensi dell'articolo 309 c.p.p., comma 7.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI VENEZIA - sezione lavoro - composta dai seguenti magistrati: Luigi PERINA - Presidente Annalisa MULTARI - Consigliere Silvia BURELLI - Consigliere relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa promossa con ricorso in appello da (...) nato a P. di S. (P.) il (...) e residente in P. (P.) vicolo D. L. n.72 - C.F.(...) - rappresentato e difeso dall'avv. Al.Ma. (C.F. (...) del foro di Padova, come da procura in atti, con domicilio eletto pec: (...) presso il difensore con studio in Piove di Sacco (PD), via (...) Parte appellante Contro COMUNE DI TORREGLIA (codice fiscale (...)), con sede in Torreglia (PD), Largo (...), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ez.Bi. ((...) - (...)), elettivamente domiciliato presso il suo Studio in Padova, Piazza (...) (telefax (...)), per procura ad litem in calce alla Memoria difensiva di primo grado Parte appellata OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 410/2021 del Tribunale di Padova -sezione lavoro IN PUNTO: licenziamento per giustificato motivo soggettivo di pubblico dipendente. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.Con la sopra indicata sentenza il giudice di primo grado ha rigettato l'impugnazione proposta da (...) avverso il licenziamento con preavviso intimato dal datore di lavoro Comune di Torreglia, in data 16.3.2020. Il Giudice ha rilevato che: - il licenziamento è stato intimato a seguito di contestazione disciplinare con cui era stato addebitato al (...): di essere stato assente nei giorni 6, 7 e 8 novembre 2019; di avere fatto pervenire un certificato telematico di malattia in data 7 novembre 2019, dal quale risultava che il ricorrente si era sottoposto a visita medica in data 7 novembre 2019 e che la prognosi era limitata solo a tale giorno (7 novembre 2019); il (...) era già stato sanzionato nel biennio anteriore con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per cinque giorni, (provvedimento disciplinare in data 3 dicembre 2018) e con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per trenta giorni (provvedimento disciplinare in data 11.11.19). Tali precedenti erano richiamati ai fini della recidiva nel biennio, ai sensi dell'art. 59, c. 9, lett. b) e c), del CCNL applicato al rapporto. I due precedenti disciplinari riguardavano, rispettivamente, la presenza al lavoro in stato alterato a seguito dell'assunzione di alcolici in data 17 agosto 2018 e l'assenza ingiustificata dal lavoro in data venerdì 20 settembre 2019 e in data lunedì 23 settembre 2019 (in continuità con giornate di riposo settimanale/festive), a fronte di un certificato medico relativo al solo giorno 24 settembre 2019. 1.1. In particolare il giudice di primo grado: - ha rilevato che "L'art. 59 c. 9, lett. C prevede che sia intimato il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo in caso di recidiva, nel biennio, in una mancanza che abbia già comportato l'applicazione della sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione (art. 59 c. 8). Quest'ultima diposizione stabilisce che tale sanzione possa essere applicata nel caso di almeno due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale (è certo che per il ricorrente il sabato non era giorno lavorativo)"; - ha ritenuto che: "Ciò è quanto si è verificato in relazione ai giorni 20 e 23 settembre 2019. Tali assenze non possono essere giustificate quali assenze per malattia sulla base della certificazione cartacea rilasciata in data 24 settembre, perché la certificazione medica non può sanare retroattivamente un'assenza e perché, stando alla lettera della dichiarazione, il medico pur diagnosticando una prognosi di due giorni, non attesta la preesistenza della malattia. La formula utilizzata dal medico nella certificazione ("in base alla visita da me effettuata risulta essere assente dal lavoro dal giorno venerdì 20") è quantomeno ambigua e in definitiva attesta un fatto e non una condizione patologica. Poiché anche l'assenza del giorno 8 novembre non risulta giustificata da certificato medico (quello prodotto limita la prognosi al giorno 7 novembre), si è determinata la situazione prevista dall'art. 59, c. 9, lett. c)". Il giudice ha, dunque, concluso che il licenziamento non è sproporzionato "ma coerente con le previsioni del contratto collettivo applicato". 2. Per la riforma della predetta sentenza ha proposto appello (...) sulla base di 4 motivi. 2.1. Con il primo motivo l'appellante ha sostenuto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il giudice ha ritenuto che l'assenza dei giorni venerdì 20 e lunedì 23 settembre 2019 è ingiustificata e quindi è apprezzabile quale recidiva, presupposto necessario per l'irrogazione del licenziamento in questa sede impugnato. Ha, invero, sostenuto che l'assenza non era ingiustificata e che comunque la tipologia di sanzione è illegittima. L'appellante ha sostenuto che dal certificato medico del 24.9.2019 si desume che la malattia sussisteva anche nei giorni precedenti e quindi l'assenza anche nei giorni 20 e 23 settembre 2019 era giustificata. Ha, inoltre, evidenziato che l'art.59, comma 8, del CCNL prevede la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi per le violazioni di cui alla lettera F, ovvero "fino a due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale". Ha sostenuto che tale previsione si riferisce ai soli lavoratori il cui orario di lavoro comprende anche la giornata del sabato, mentre, nel suo caso, l'orario di lavoro era articolato dal lunedì al venerdì e quindi il sabato doveva essere qualificato come "giornata non lavorativa", secondo i chiarimenti resi dall'ARAN: sicché, in ogni caso, non sussisterebbe il requisito della continuità "con le giornate festive e di riposo settimanale" richiesto dalla norma contrattuale. Ne conseguirebbe che, dovendosi ritenere caducata la sanzione conservativa relativa alle asserite assenze ingiustificate del 20 e 23 settembre 2019, richiamata ai fini della recidiva, verrebbe meno anche la legittimità del licenziamento. 2.2. Con il secondo motivo di appello l'appellante ha sostenuto che il giudice ha errato in quanto ha applicato un automatismo tra precedenti sanzioni disciplinari conservative e licenziamento non previsto dalla legge e non ha operato nessuna valutazione in punto proporzionalità del licenziamento rispetto al fatto oggetto di addebito disciplinare. Il (...) non ha contestato, nella sua materialità, l'assenza nel giorno 8 novembre 2019, ma ha sostenuto che tale assenza era giustificata dalla malattia conseguente all'infiammazione di un dente e trova giustificazione nella certificazione medica relativa al 7 novembre 2019. Ha sostenuto che il non aver presentato un certificato medico anche per l'8 novembre 2019 è un comportamento meramente colposo che rende il licenziamento sproporzionato. 2.3. Con il terzo motivo ha lamentato la mancata ammissione delle prove orali (interrogatorio formale e prova per testi) ritualmente richieste con il ricorso introduttivo del giudizio in primo grado. 2.4. Con il quarto motivo ha sostenuto la nullità della sentenza per difetto di motivazione. 3. Si è costituito il Comune di Torreglia e ha sostenuto la correttezza della sentenza impugnata. Ha ripercorso la vicenda in fatto, evidenziando che il (...) è stato assunto nel 2010 con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in qualità di esecutore di categoria (...) del CCNL Comparto Funzioni locali per essere adibito all'Area Tecnica e svolgere in particolare lavori di ordinaria manutenzione, tra cui la pulizia dei cestini, la pulizia delle strade ed occasionalmente la pulizia dei cimiteri, con orario di lavoro dal lunedì al venerdì. Ha evidenziato che il (...) ha avuto problemi di alcolismo già nel 2014-2015: l'appellante aveva seguito un percorso di recupero, peraltro proprio grazie all'interessamento del Comune di Torreglia, ma, probabilmente, anche a causa dei problemi legati alla dipendenza dall'alcool (come dal (...) stesso ammesso in sede di giustificazioni in alcuni procedimenti disciplinari), si è dimostrato spesso inaffidabile ed inadempiente rispetto ai compiti affidatigli. Ha ribadito che il licenziamento disciplinare del (...) è stato adottato solo in seguito ad una significativa serie di illeciti disciplinari, costituiti principalmente da assenze ingiustificate verificatesi in continuità con giornate festive e di riposo settimanale, oltre che da gravi inadempimenti rispetto alle mansioni assegnate. Ha evidenziato la contraddittorietà del comportamento del (...) che nel ricorso (punto 10, pag.3), si è difeso per l'assenza dei giorni 6-7-8 novembre 2019 adducendo "una forte infiammazione a un dente" mentre, in occasione dell'audizione in sede disciplinare del 20.12.2019, aveva dichiarato che il suo comportamento era dipeso dai problemi di alcoolismo in cui era nuovamente ricaduto a causa di vicende familiari. Inoltre, il Comune ha rilevato che il (...), per dimostrare la presunta "infiammazione al dente", asseritamente verificatasi nei giorni del 6, 7 e 8 novembre 2019, ha prodotto un certificato di uno studio dentistico datato 28.01.2020, in cui si dà semplicemente atto che, nella medesima data, al (...) è stato estratto un dente. Inoltre, il Comune ha puntualizzato che, con riguardo alla sanzione conservativa del 4.08.2017 (che viene in considerazione ai fini della recidiva in sede di comminazione della sanzione conservativa del 3.12.2018), il (...) non ha sollevato specifiche contestazioni. Infine, il Comune ha rilevato che, nel ricorso in appello, il (...) non ha più fatto alcun cenno nemmeno al provvedimento disciplinare del 3.12.2018, rispetto al quale deve ritenersi, dunque, che egli abbia rinunciato a qualsiasi contestazione. Ha ribadito che il licenziamento è pertanto avvenuto nel pieno rispetto delle previsioni del CCNL in materia. 4. La causa è stata discussa all'udienza del giorno 16.2.2023 ed è stata decisa come da dispositivo in atti. MOTIVI DELLA DECISIONE 5. L'appello è infondato e deve essere rigettato per le dirimenti ragioni che seguono. 6. Risulta innanzitutto infondato il primo motivo di appello, con il quale l'appellante ha sostenuto che il certificato medico relativo a martedì 24 settembre 2019 giustifica anche le assenze di venerdì 20 e lunedì 23 settembre 2019 e che le assenze in questi due giorni non possono in ogni caso definirsi "in continuità" con giornate festive o di riposo settimanale, ai fini delle previsioni disciplinari del CCNL applicato al rapporto. Il motivo è infondato, per come formulato. Dalla lettura del certificato medico del 24 settembre 2019 (doc. 2 (...), riportato a pag. 6 dell'appello) emerge che il medico ha dato atto che il (...) ha riferito di essere rimasto assente dal lavoro per malattia dal 20 settembre 2019. Il medico non ha, invero, certificato la sussistenza della malattia dal 20 settembre 2019 ("risulta essere assente dal lavoro dal giorno venerdì 20 settembre"), ma si è limitato a concedere due "ulteriori" giorni di prognosi rispetto al 24 settembre 2019 e non ha indicato alcuna circostanza idonea a fondare una presunzione grave, precisa e concordante sul fatto che lo stato di malattia (non è dato sapere di che natura, ivi si legge "per le cure del caso") sussistesse sin dal 20 settembre 2019 ("Si certifica che il sig. (...) residente ?. in basealla visita da me effettuata risulta essere assente dal lavoro dal giorno venerdì 20 settembre, e, pertanto necessita ulteriori due giorni di prognosi s.c. per le cure del caso, con ripresa lavorativa dal giorno 26 settembre." ). Ne deriva che le assenze nei giorni 20 (venerdì) e 23 (lunedì) settembre 2019 devono ritenersi ingiustificate. Il Collegio ritiene, inoltre, che si tratta di assenze che rientrano nella previsione dell'art. 59, comma 8, lett. F del CCNL, che sanziona le assenze ingiustificate a cavallo del riposo settimanale o di giorni festivi ("8. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi si applica, graduando l'entità della sanzione in relazione ai criteri di cui al comma 1, per: ... f) fino a due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale"). Ed invero, l'orario di lavoro del (...) era pacificamente articolato da lunedì a venerdì, sicché il sabato deve ritenersi, ai sensi della predetta previsione del CCNL, giornata di riposo settimanale. Ne consegue che l'assenza nella giornata di venerdì 20 settembre 2019 deve ritenersi "in continuità" con la giornata di riposo settimanale di sabato 21 settembre 2019. Parimenti, l'assenza ingiustificata di lunedì 23 settembre 2019 deve ritenersi in continuità con la giornata festiva di domenica 22 settembre 2019. In ogni caso, anche a prescindere dalla allegata qualificazione da parte dell'ARAN del sabato come giorno "non lavorativo", il Collegio ritiene dirimente rilevare che la ratio della citata disposizione della contrattazione collettiva è quella di sanzionare in modo "mirato" le assenze ingiustificate a cavallo dei giorni in cui il lavoratore legittimamente non presta attività, per scoraggiare anche in tal modo il fenomeno del c.d. assenteismo. Sicché, tenuto conto della ratio della previsione contrattuale, le assenze ingiustificate in questione (venerdì 20 e lunedì 23 settembre 2019) risultano a cavallo di giornate (il sabato e la domenica) in cui il (...) non è tenuto a prestare attività lavorativa e, quindi, in tale prospettiva, devono ritenersi "in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale" (ovvero, rispettivamente, domenica 22 settembre 2019 e sabato 21 settembre 2019), ai sensi e per gli effetti della previsione dell'art. 59, comma 8, lett. F, sopra riportato. Essendo limitata ai profili che precedono la contestazione svolta dal (...) in ordine alla legittimità della sanzione conservativa della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 30 giorni irrogata il giorno 11.11.2019, il primo motivo di appello deve essere rigettato e deve ritenersi la legittimità della sanzione in esame che correttamente, dunque, è stata richiamata sub specie di recidiva ai fini del licenziamento sub iudice. 7. Il Collegio ritiene che anche il secondo motivo di appello (asserito difetto di proporzionalità del licenziamento e sussistenza di giustificazione per l'assenza dell'8 novembre 2019) è infondato, per come formulato, e deve essere rigettato. 7.1. Innanzitutto il Collegio rileva che l'assenza dell'8 novembre 2019 non può ritenersi giustificata. Il (...), a giustificazione di tale assenza, ha, in prima battuta, pacificamente esibito al datore di lavoro un certificato medico con prognosi limitata al 7 novembre 2019 (tant'è che la sanzione disciplinare è limitata all'assenza dell'8 novembre 2019) e, in questa sede, ha dimesso un certificato di un medico dentista datato 28.1.2020 (quindi di quasi tre mesi successivo) che attesta che in tale giornata (28.1.2020) al (...) è stato estratto un dente (doc. 7 F.). Con tutta evidenza, la circostanza che il 28.1.2020 al (...) sia stato estratto un dente non costituisce circostanza grave, precisa e concordante del fatto che tre mesi prima, e per quanto qui rileva in data 8 novembre 2019, egli abbia sofferto di un mal di denti tale da giustificare la sua astensione dal lavoro, anche in considerazione che il (...) non ha allegato circostanze specifiche in ordine all'assenza del 6, 7 e 8 novembre 2019. In relazione a tale periodo, come detto, risulta giustificata solo l'assenza del 7 novembre 2019 in quanto il (...) ha pacificamente prodotto in sede di procedimento disciplinare un certificato medico di data 7 novembre 2019 con prognosi limitata a tale giornata (7 novembre 2019), certificato che, dunque, non vale a giustificare, per quanto qui rileva, anche l'assenza del successivo giorno 8 novembre 2019, in difetto di allegazione e prova di specifiche circostanze che depongano in tal senso. Del resto, in sede di giustificazioni rese nell'ambito del procedimento disciplinare che ha portato al licenziamento, il (...) ha ammesso che le assenze del 6, 7, 8 novembre 2019 sono imputabili all'abuso di alcool (doc. 17 Comune). Analoga ammissione, giova sin d'ora ricordarlo (v. infra), era stata resa dal (...) in sede di giustificazioni nell'ambito del procedimento disciplinare che ha portato all'irrogazione della sanzione del 3.12.2018 (doc. 8 Comune), anch'essa contestata ai fini della recidiva. 7.2. Il motivo di appello risulta infondato anche nella parte in cui il (...) sostiene che il giudice si sarebbe limitato ad applicare una sorta di "automatismo" sanzionatorio senza valutare la proporzionalità tra il licenziamento e il comportamento contestato. Il Collegio rileva innanzitutto che le previsioni del CCNL sono state rispettate in quanto il licenziamento è stato intimato in relazione all'assenza ingiustificata (quantomeno) dell' 8 novembre 2019 valutata alla luce della contestata recidiva rispetto: - alla sanzione disciplinare della sospensione per 30 giorni dell'11.11.2019 (per le assenze ingiustificate di venerdì 20 e di lunedì 23 settembre 2019) ex 59, comma 8, lett. F (che prevede: "8. La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi si applica, graduando l'entità della sanzione in relazione ai criteri di cui al comma 1, per: ... f) fino a due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale"), per quanto precede da ritenersi legittima e - alla sanzione di 5 giorni del 3.12.2018 (relativa al fatto che il (...) si è presentato in servizio in stato alterato da verosimile abuso di alcool, al punto da non essere in grado di svolgere le mansioni e di dover essere allontanato dal posto di lavoro) ex art. 59, comma 4, lett. A e lett. B (ovvero recidiva/particolare gravità delle mancanze di cui al precedente comma 3 che, a sua volta, contempla la negligenza nell'esecuzione delle mansioni/violazione dei doveri e degli obblighi di comportamento), sanzione non contestata in questa sede sotto alcun profilo. Ed invero il CCNL prevede il licenziamento con preavviso, per quanto qui rileva, nelle ipotesi ex art. 59, comma 9, lett. B e lett. C: "b) recidiva nel biennio nelle violazioni indicate nei commi 5, 6, 7 e 8 (n.d.a. le varie ipotesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione); c) recidiva plurima, in una delle mancanze previste ai commi precedenti anche se di diversa natura, o recidiva, nel biennio, in una mancanza che abbia già comportato l'applicazione della sanzione di sospensione dal servizio e dalla retribuzione". Nel caso di specie, ricorre sia l'ipotesi di licenziamento di cui alla riportata lettera B che quella di cui alla riportata lettera C. Ed invero, quanto alla lettera B, l'assenza ingiustificata di venerdì 8 novembre 2019 (in continuità con giorni festivi/di riposo settimanale) rappresenta una recidiva specifica rispetto al comportamento già sanzionato (con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione) in data 11.11.2019 (assenze ingiustificate di venerdì 20 e di lunedì 23 settembre 2019, in continuità con giorni festivi/di riposo settimanale). Quanto alla fattispecie di cui alla lettera C: prima dell'assenza ingiustificata dell'8 novembre 2019 che ha dato luogo al licenziamento, il (...) aveva già commesso, nel biennio anteriore, due mancanze sanzionate con l'applicazione della sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione con i citati provvedimenti disciplinari del giorno 11.11.2019 e del giorno 3.12.2018. 7.3. In ogni caso, il Collegio rileva che, anche a prescindere dalle previsioni contrattuali, le condotte addebitate al (...) sono effettivamente tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Ed invero, con riferimento ai fatti oggetto della contestazione disciplinare che ha portato al licenziamento (anche sub specie di recidiva), va evidenziato che il (...), a causa dell'abuso di alcool (come da sue ammissioni, v. doc. 8 e doc. 17 Comune cit.) si è presentato al lavoro in stato alterato, con conseguente verosimile aggravio di lavoro a carico dei colleghi che hanno dovuto sopperire alle sue mancanze (come pacificamente avvenuto nell'episodio sanzionato con provvedimento disciplinare del 4.8.2017, v. costituzione del Comune pag. 5), e almeno in due occasioni, anche molto ravvicinate tra loro (20-23 settembre 2019 e quantomeno 8 novembre 2019) è rimasto assente ingiustificato dal lavoro a cavallo del fine settimana (senz'altro l'8 novembre 2019 a causa dell'abuso di alcool, come dal (...) ammesso in sede di procedimento disciplinare). Il (...), dunque, a causa di tale comportamento, ha dimostrato di essere un dipendente non affidabile, potenzialmente causa di criticità nell'organizzazione del lavoro dell'unità di appartenenza. La conclusione che precede (proporzionalità del licenziamento rispetto alla condotta contestata) è confermata da una valutazione complessiva della condotta del (...) negli ultimi anni del rapporto di lavoro, valutazione legittima laddove gli addebiti disciplinari, non oggetto della lettera di licenziamento, vengano apprezzati quali circostanze confermative della significatività degli addebiti contestati (Cass. n. 138/2019 che richiama Cass. n. 22322/2016; Cass. n. 124453/2017; Cass. n. 1145/2011). In tale prospettiva devono essere valutati i precedenti disciplinari del (...) richiamati dal Comune a pag. 4 ss. della memoria di costituzione d'appello e consistenti in ulteriori due ravvicinate assenze ingiustificate dal servizio a cavallo del fine settimana (nelle giornate di lunedì 23.12.2013 e venerdì 31.1.2014). Inoltre, come già emerso, in data 1.6.2017 il (...) si è presentato al lavoro in ritardo e in condizioni psicofisiche alterate, verosimilmente da abuso di alcool, e non in grado di svolgere i compiti assegnatigli, con aggravio di lavoro per i colleghi e rischio di compromettere la riuscita di un evento organizzato dal Comune (v. in particolare pag. 6 della memoria di costituzione del Comune, circostanze non contestate). Tali precedenti episodi, ancorchè non contestati a titolo di recidiva, in quanto anteriori al biennio a tal fine rilevante, sono nondimeno confermativi, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, di un atteggiamento di grave violazione da parte del (...) dei doveri di diligenza nello svolgimento delle mansioni che, per la frequenza degli episodi in cui si è manifestato, è tale da determinare, come detto, il venir meno del legame fiduciario con il datore di lavoro. 8. Il Collegio ritiene infondato anche il terzo motivo di appello relativo alla mancata ammissione delle istanze istruttorie da parte del primo giudice. Trattasi di motivo formulato in modo del tutto generico, in quanto il (...) non ha indicato in modo specifico quali fatti intendeva provare con le istanze istruttorie non ammesse dal primo giudice, né ha argomentato in ordine alla decisività, ai fini dell'accoglimento del proprio ricorso, delle circostanze che egli non è asseritamente riuscito, a causa della predetta mancata ammissione, a provare. Il Collegio, del resto, ritiene che le circostanze di fatto rilevanti ai fini del decidere sono pacifiche o documentali, sicchè correttamente il primo giudice ha ritenuto la causa matura per la decisione senza la necessità di ammissione di prove c.d. costituende. 9. Il Collegio ritiene, infine, infondato il quarto motivo di appello relativo all'asserita omessa/insufficiente motivazione della sentenza di primo grado. Anche la formulazione di questo motivo risulta del tutto generica in quanto non individua i profili/ le questioni in ordine alle quali il primo giudice non avrebbe argomentato adeguatamente. Il Collegio ritiene, in ogni caso, che la sentenza, seppur sintetica, dà conto dei passaggi rilevanti ai fini della ritenuta legittimità dell'impugnato licenziamento. Né, per quanto precede, i motivi di appello, per come formulati, sono risultati idonei a determinare un esito diverso della lite. 10. Per tutto quanto precede, che assorbe ogni ulteriore questione, l'appello deve essere rigettato. 11. Per il principio della soccombenza, parte appellante deve essere condannata alla rifusione in favore di parte appellata delle spese di lite del grado, nella misura liquidata in dispositivo facendo applicazione dei criteri di cui al D.M. n. 55 del 2014 e ss. mod. in un importo pari ai minimi dello scaglione di riferimento per valore della causa, oltre al 15% per rimborso spese forfetario, Iva e Cpa come per legge, in considerazione della particolare situazione personale in cui versa l'appellante. 12. Considerato che l'appello è stato integralmente rigettato ed è stato depositato dopo il 31.01.13 - data di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (cfr. art. 1 comma 17 L. n. 228 del 2012), che ha integrato l'art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002 -deve darsi atto che sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato in capo all'appellante. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, rigettata e/o assorbita ogni diversa istanza, eccezione e domanda, così provvede: 1) rigetta l'appello; 2) condanna parte appellante alla refusione delle spese di lite del grado in favore di parte appellata che liquida in Euro 3.473,00 oltre rimborso forfettario IVA e CPA come per legge; 3) ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali in capo a parte appellante per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello a norma del comma 1 quater dello stesso art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002. Così deciso in Venezia il 16 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO nelle persone dei seguenti Magistrati: Dott.ssa Susanna MANTOVANI - Presidente rel. Dott.ssa Maria Rosaria C. - Consigliere Dott.ssa Laura BERTOLI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 1065/22, est. Dott. Nicola Di Leo, discussa all'udienza collegiale del 22/2/23 e promossa DA (...) (c.f. (...) ), (...) (c.f. (...)), (...) (c.f. (...) ), (...) (c.f. (...) ) e (...) (c.f. (...) ), tutti rappresentati e difesi, per delega in calce al ricorso ex art. 414 c.p.c., dagli Avv.ti La.Si. e Gi.Va. di Milano, C.so di Porta Vittoria n. 32 presso i quali eleggono domicilio APPELLANTI CONTRO (...) S.p.A., alternativamente denominata (...) S.p.A. (c.f. e P.Iva (...)), in persona del Dott. (...), in virtù dei poteri conferiti con atto del (...) Rep. (...), Racc. (...), rappresentata e difesa per delega in calce dagli Avv.ti prof. Ma.Ma. e Do.De., elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv.to An.Qu. sito in Milano, Largo (...) APPELLATA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, con la sentenza n. 1065/22 rigettava il ricorso, compensando le spese di lite, proposto da (...) e da altri otto litisconsorti, tutti dipendenti di (...) s.p.a. con contratto full time o part time, dalle date e con gli inquadramenti rispettivamente indicati, quali operatori telefonici addetti al servizio 119 nel reparto (...), ricorso diretto ad ottenere, previa declaratoria di parziale nullità e/o inefficacia del paragrafo 4 dell'accordo aziendale stipulato il 27/3/13 tra la datrice di lavoro e CGIL, CISL e UIL, in forza del quale con decorrenza dall'1/7/13 l'attestazione di inizio della prestazione non avviene più attraverso "la strisciatura del badge personale di servizio negli appositi marcatempo situati al piano terra all'ingresso dell'edificio aziendale", bensì attraverso "la registrazione on line dei medesimi sui sistemi informatici aziendali, posti presso le proprie postazioni lavorative" - il pagamento delle somme quantificate per ciascuno di essi a titolo di differenze retributive per il lasso temporale intercorrente tra l'ingresso in azienda e l'inserimento delle credenziali di accesso nel pc da considerare quale effettivo tempo lavorato. Il giudice a quo osservava innanzi tutto (A) come nell'accordo impugnato (doc. 1 resistente) fosse previsto (punti 1 e 2) che la convenuta stava provvedendo all'accorpamento di diverse sedi, con conseguente esubero di personale attesa l'esigenza di riduzione dei costi totali, attraverso vari interventi, tra cui (punto 4) la nuova disciplina dell'orario di lavoro per il (...) finalizzata a rimodulare le modalità della prestazione degli addetti al reparto e che era altresì specificato che "il presente accordo costituisce un corpo unico ed inscindibile con gli accordi sottoscritti in pari data". Ciò premesso, riteneva (B) infondata la pretesa azionata, "in virtù del comportamento concludente dei ricorrenti che, non prestando un esplicito dissenso per diversi anni, dal 1/7/13 al deposito del ricorso, nei confronti dell'insieme delle pattuizioni suddette (ossia dei negozi "inscindibili" del 27/3/13) e, in particolare, specificatamente, neppure nei confronti delle clausole relative alle previsioni sull'orario di lavoro menzionate nel negozio in questione, hanno aderito, per acquiescenza, agli stessi. Infatti, giova rammentare come la Suprema Corte abbia precisato che "i contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l'unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo a una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l'esplicito dissenso e potrebbero addirittura essere vincolati da un accordo sindacale separato" (Cass. n. 26509/2020). In questo senso, si deve osservare come le pattuizioni del 27/3/13, in assenza di dissenso esplicito dei lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, siano venute a regolare pienamente il loro rapporto di lavoro. Viene, cioè, essere rilevante come, per oltre sette anni, i ricorrenti non abbiano espresso alcun dissenso (non dimostrato in alcun modo) nei confronti dell'accordo aziendale in questione. Infatti, pur avendo contestato (con dei volantini) l'accordo in parola l'organizzazione a cui aderiscono (doc. 15 ric.), non risulta che, poi, i dipendenti in questione abbiano esternato alcuna adesione al comunicato del proprio sindacato (o a iniziative dello stesso volte a rifiutare i patti in questione, come ad esempio potrebbe essere uno sciopero), ma emerge che, al contrario, per molti anni abbiano beneficiato, non rifiutandola, della piena applicazione di tutta la contrattualistica aziendale, approfittando dei suoi effetti anche favorevoli, incominciando dalla riduzione degli esuberi affrontata con gli stessi dalle parti collettive con gli strumenti delineati. In più, risulta pacifico che tali accordi hanno ricevuto continuativa attuazione: ad esempio, è stata applicata anche alla parte attorea, senza riserve, la disciplina sull'orario di lavoro settimanale per 38 ore e 10 minuti (in luogo di 40 ore di cui al C.C.N.L.). Pertanto, non avendo i lavoratori in questione manifestato alcun dissenso espresso e avendo anzi il loro comportamento concludente mostrato una acquiescenza circa il recepimento degli accordi aziendali del 23 marzo del 2013, che, come anticipato, si debbono considerare inscindibili nelle loro previsioni, sulla base dei principi affermati dalla Suprema Corte, è possibile, allora, affermare che pure il contratto collettivo aziendale impugnato trovi applicazione anche nei confronti dei medesimi". Il Tribunale di Milano ricordava, ad abundantiam (C), come, ai sensi dell'art.1, comma 1, del D.Lgs. n. 66 del 2003, fosse orario di lavoro "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni"; che l'espressione "lavoro effettivo" doveva essere intesa "come sinonimo di prestazione lavorativa, comprendendovi anche i periodi di mera attesa o quelli nei quali non sia richiesta al lavoratore una attività assorbente, bensì soltanto un tenersi costantemente a disposizione del datore di lavoro; restano pertanto esclusi dal "lavoro effettivo" soltanto gli intervalli di tempo dei quali il lavoratore abbia la piena disponibilità" (così Cass. n. 15734/03); e come detta interpretazione fosse conforme alla Direttiva Comunitaria 93/104/CE del Consiglio Europeo del 23 novembre 1993 che, all'art. 2, n. 1 e 2, ha stabilito che si intende per "orario di lavoro" "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali" e per "periodo di riposo" "qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro". Affermava, pertanto, che l'assunto attoreo (illegittima esclusione ai fini della retribuzione del tempo necessario per giungere dai tornelli d'ingresso fino alla postazione davanti al computer ed all'accesso con le credenziali, poiché, quando in cui vi è il passaggio ai tornelli, si realizzerebbe una messa a disposizione delle energie lavorative un assoggettamento del dipendente al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro) non era supportato da adeguata allegazione: "I dipendenti, infatti, si sono limitati ad affermare, genericamente, di essere sottoposti al potere direttivo del datore di lavoro sin dal momento in cui timbrano all'ingresso della struttura in cui svolgono la propria prestazione, senza specificare quale sarebbe la disciplina che vincolerebbe il loro tempo dal passaggio dei tornelli fino alla propria postazione. In particolare, non è stato allegato in alcun modo un divieto per gli stessi, durante il tragitto, di effettuare attività proprie e personali, come, ad esempio, parlare al telefono per fini privati, consultare Internet o colloquiare per ragioni diverse da quelle lavorative. Ugualmente, non è stato dedotto alcun tipo di potere direttivo che venga a conformare la loro prestazione in modo da renderla utile e funzionale per la produzione aziendale, in una modalità che ecceda il normale tragitto che qualunque dipendente deve effettuare per raggiungere il luogo dove effettivamente venga poi assoggettato alle direttive del datore di lavoro, cioè la propria postazione". (...), (...), (...), (...) e (...) denunciano l'erroneità della sentenza n. 1065/22 del Tribunale di Milano, affidandosi a due motivi. Con il primo ordine di censure (pag. 20 e seg.) impugnano per violazione di legge la ratio decidendi fondata sulla asserita inscindibilità degli accordi del 2013 e sulla asserita intervenuta acquiescenza. Rilevano di avere sottolineato (cfr. ricorso 414 c.p.c.) come la c.d. "timbratura in postazione" "vada ad incidere su diritti individuali indisponibili del lavoratori, poiché determina un ampliamento dell'orario di lavoro a parità di retribuzione, aggiungendo all'orario fissato dal ccnl una porzione iniziale e una finale (nonché una intermedia, all'inizio e alla fine nella pausa pranzo) non retribuita, in violazione, oltre che dell'art. 1 comma 2 lett. A D.Lgs. n. 66 del 2003, anche dell'art. 36 Cost.."; e come il sindacato S. cui sono iscritti non avesse sottoscritto detto accordo e si fosse sempre opposto alla sua applicazione, in particolare alla clausola in questione: "Il Giudice di I grado avrebbe dovuto in primo luogo e innanzitutto domandarsi e verificare se la clausola in questione, come dedotto, fosse contraria a norme imperative (art. 1 comma 2 lett. A D.Lgs. n. 66 del 2003, anche dell'art. 36 Cost.) e dunque nulla. Quindi: a) in caso affermativo non avrebbe dovuto nemmeno porsi un problema di "acquiescenza" e/o "esplicito dissenso" - in quanto una clausola "nulla" può essere impugnata in ogni momento e può essere rilevata anche d'ufficio dal Giudice - e avrebbe dovuto affrontare la questione della "inscindibilità" solo ai fini dell'estensione o meno della nullità all'intero accordo e/o all'insieme degli accordi, non potendo per contro inferirne, come ha fatto, il rigetto del ricorso; b) solo in caso negativo, avrebbe potuto porsi il problema dell'applicabilità della stessa e degli accordi agli attuali appellanti e dunque esaminare la questione della asserita inscindibilità e acquiescenza per comportamento concludente e asserito mancato esplicito dissenso all'insieme degli accordi." Ciò chiarito, ribadiscono la tesi articolata in primo grado ovvero che "la clausola impugnata è nulla perché in contrasto con il D.Lgs. n. 66 del 2003 che, nel dare attuazione alle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE (che ai sensi dell'art. 15 della prima Direttiva possono essere derogate dal legislatore nazionale e dalla contrattazione collettiva solo in senso più favorevole al lavoratore), ha dettato disposizioni dirette a regolamentare, nel rispetto dell'autonomia negoziale collettiva, i profili di disciplina del rapporto di lavoro connessi all'organizzazione dell'orario di lavoro, stabilendo all'art. 1, comma II, che deve intendersi per "(?) a) "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni (...) b) "periodo di riposo": qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro (...)" Richiamano giurisprudenza di merito (CA Ancona n. 13/22; CA MI n. 742/22; CA MI n. 782/22) e di legittimità (per tutte Cass. n. 27920/21) "che hanno dichiarato la nullità parziale dell'accordo in relazione alla clausola in questione per violazione di norme inderogabili di legge sull'orario di lavoro e sulla retribuzione (alleg.ti 29/34) e condannato (...) al pagamento delle differenze retributive per il lavoro maturato nel tempo intercorrente dalla strisciatura del badge all'ingresso della sede di lavoro all'accesso alla propria postazione di lavoro con inserimento della password e viceversa per l'uscita dal lavoro". Rilevano che "gli spostamenti dei ricorrenti dall'ingresso dell'edificio (ove vi sono i tornelli) per raggiungere la postazione di lavoro all'interno della sede aziendale e le operazioni propedeutiche di accensione terminale, inserimento password e numero matricola, clic su inizio e fine turno, inizio e fine pausa pranzo, spegnimento del computer, rientrano nell' "orario di lavoro", così come definito dalla normativa sopra richiamata e secondo l'interpretazione data dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria. Gli spostamenti e le operazioni sopra indicate sono infatti funzionali alla prestazione lavorativa che i ricorrenti devono svolgere: sono attività necessarie e imposte dal tipo di prestazione richiesta e, dunque, soggette all'eterodirezione del datore di lavoro con riguardo al tempo e al luogo di esecuzione." Sostengono altresì la erroneità della decisione "in considerazione dell'asserita inscindibilità della clausola rispetto all'insieme degli accordi del 2003 e dell'asserito mancato esplicito dissenso degli attuali appellanti a tutti gli accordi del 2013 sino al deposito del ricorso, circostanze che peraltro sono state contestate e si contestano integralmente. Infatti, la nullità per contrarietà a norma imperativa di un accordo sindacale o di una singola clausola può essere fatta valere in ogni momento dal lavoratore e il Giudice non può esimersi dal dichiararne la nullità (art. 1421 c.c.). L'eventuale rinuncia non potrebbe essere implicita e sarebbe nulla ex art. 2113 c.c.. L'inscindibilità può comportare l'estensione della nullità all'intero accordo, ma giammai può comportare il rigetto del ricorso o la sua inammissibilità (art. 1419 c.c.) ... T. non ha provato l'inscindibilità della clausola impugnata, ossia il fatto storico che le parti non avrebbero concluso il contratto sindacale e le altre intese del 2013 senza quella clausola (né ha invocato la nullità dell'intero contratto, come era suo onere ai sensi dell'art. 1419 c.c.). "L'inscindibilità" non discende affatto dal tenore del contratto e dalle altre intese del 2013 prodotte ex adverso; controparte, e il Giudice di prime cure, hanno confuso la "interconnessione" e/o "interdipendenza" tra le varie clausole di un contratto o di più contratti a latere, che è propria di tutte le clausole del contatto e degli eventuali contratti a latere, con il "carattere essenziale e determinante della clausola nella conclusione del contratto" stesso, che è cosa ben diversa e che deve essere rigorosamente provato dalla parte che lo adduce al fine di ottenere la declaratoria di nullità dell'intero contratto ... Né l'accordo aziendale in questione può ritenersi "accordo di prossimità", difettandone tutti i requisiti. La non opponibilità e/o inapplicabilità parziale dell'accordo, con riferimento alla clausola 4, ai ricorrenti comporta pertanto l'applicazione della normativa generale contenuta nel ccnl (...), secondo la quale l'orario di lavoro inizia e finisce nel momento del passaggio al tornello marcatempo posto in ingresso per il controllo delle presenze (v. art. 45 ccnl (...), alleg. 10), come avveniva per i ricorrenti prima del luglio 2013.." Con il secondo ordine di censure (pag. 35 e seg.) impugnano per omessa valutazione di circostanze decisive la ratio decidendi fondata sulla asserita insufficienza di allegazione e prova. Osservano che il Tribunale di Milano non ha considerato fatti incontroversi ovvero che "a) fino alla sottoscrizione dell'accordo sindacale del 27.3.2013, o meglio fino alla data del 30 giugno 2020 indicata nell'accordo medesimo, il lasso di tempo intercorrente tra la timbratura al tornello in ingresso e il log-on per tutti i lavoratori, compresi quelli addetti al caring service come gli appellanti, è sempre stato pacificamente considerato "orario di lavoro" e come tale retribuito; b) nessun mutamento vi è stato a decorrere dall'1.7.2013 nell'attività espletata dagli addetti al caring services, e così dagli appellanti, nel medesimo spazio temporale ... Tali circostanze ... valgono infatti come prova o quanto meno come presunzione della natura di "tempo lavoro" del periodo intercorrente tra la timbratura in ingresso al tornello e quella in postazione con il log-on, e così in uscita e in pausa pranzo, e delle attività in quell'arco temporale espletate. Ciò che esonera i ricorrenti dall'onere allegatorio e probatorio che invece il Tribunale pone a carico degli stessi. Gli odierni appellanti, infatti, non hanno chiesto che un determinato spazio temporale, con le connesse attività, mai considerato "tempo lavoro" e mai retribuito, da un certo momento in poi sia considerato tale. Al contrario gli odierni appellanti hanno chiesto che uno spazio temporale, con le connesse attività, da sempre considerato "tempo lavoro", continui ad essere considerato tale. Gli odierni appellanti avevano dunque in questa causa solo l'onere di allegare e provare lo spazio temporale e l'attività espletata dall'ingresso al tornello alla timbratura in postazione prima e dopo il luglio 2013, e il fatto che non vi fosse stato alcun mutamento nel concreto svolgersi degli stessi". Si riportando (pag. 48 e seg.) al ricorso ex art. 414 c.p.c. per il quantum deebatur rimasto assorbito, rinviando ai conteggi allegati, elaborati dal consulente del lavoro cui si sono rivolti (doc. n. 13 da A a F). (...) s.p.a. resiste in giudizio difendendo la pronuncia impugnata. Replica ai singoli motivi di appello, riproponendo la difesa formulata in primo grado e citando giurisprudenza di legittimità e di merito favorevole alla propria tesi. All'udienza del 22/2/23, all'esito della discussione orale delle parti, la causa è stata decisa con dispositivo pubblicamente letto. MOTIVI DELLA DECISIONE Non hanno proposto appello (...), (...) e (...) nei confronti dei quali la sentenza n. 1065/22 del Tribunale di Milano è passata pertanto in giudicato. Carenza di allegazione e prova ai fini dell'effettivo orario di lavoro (II motivo) Le doglianze sul punto colgono nel segno. Come correttamente messo in rilievo dalla difesa degli attuali appellanti, è un fatto pacifico che fino all'1/7/13, data di entrata in vigore del nuovo sistema di rilevazione delle presenze, il lasso di tempo intercorrente tra la timbratura in ingresso al tornello e l'accesso alla postazione (e viceversa) fosse considerato effettivo orario di lavoro e come tale retribuito, tanto è vero che è la stessa appellata ad evidenziare come la rimodulazione della prestazione degli addetti al reparto (...) sia stata disposta, insieme ad altri interventi (telelavoro per es.), proprio al fine di ridurre i costi aziendali. Gli attuali appellanti non erano perciò tenuti a dedurre e dimostrare la eterodirezione nell'arco di tempo impiegato per dette operazioni, appunto perché è incontestato che fosse considerato tempo di lavoro e in quanto tale compensato. Contrariamente, dunque, a quanto eccepito da parte appellata ("i ricorrenti non offrano alcuna concreta prova della attività pretesamente svolta tra l'ingresso nella sede di lavoro e l'avvio del proprio terminale con conseguente effettivo avvio della prestazione di lavoro" cfr. memoria ex art. 416 c.p.c.), si poneva a carico della predetta l'onere di dimostrare che gli stessi in quel lasso temporale erano liberi di autodeterminarsi ovvero non erano assoggettati al potere gerarchico, onere che non può ritenersi assolto ("con riguardo al computer, è vero che la disposizione aziendale è di lasciarli accesi, ma spesso, noi che facciamo il turno del pomeriggio in quanto a tempo parziale, li troviamo spenti perché magari quello del turno prima per fare in fretta a lasciare la postazione ha deciso di spegnere il computer. Infatti la procedura per la uscita dalla postazione può comportare del tempo, anche perché a volte computer si blocca e quindi a volte se uno deve prendere un treno può scegliere di spegnere il computer. Quanto, poi, all'arrivo al lavoro, a volte manca il mouse e scegliamo di cercarlo prima di iniziare il lavoro e registrarci. Nel weekend, poi, è un problema trovare la postazione e a volte l'ascensore presenta problemi perché bisogna attenderlo parecchio. Noi a tempo parziale non abbiamo la postazione fissa, a differenza di quelli a tempo pieno"; "i computer di norma dovrebbero essere tutti accesi, ma a volte li troviamo anche spenti. Ad ogni modo si impallano e così occorre spegnerli e poi riaccenderli per mettere le proprie credenziali. Capita anche di trovarli senza mouse o senza tastiera e occorre cercarli prima di iniziare a lavorare", così libero interrogatorio attuali appellanti alla udienza del 10/2/22 e del 22/2/22). *Inscindibilità accordi del 27/3/21 e acquiescenza (I motivo) Questa Corte territoriale si è già pronunciata sulla questione di cui è causa in fattispecie del tutto sovrapponibili alla presente (cfr. CA MI 782/22 rel. (...); CA MI 545/22 rel. (...); CA 524/2021 rel. (...); CA MI n. 560/21 rel. (...)). Il Collegio non ravvisa nuovi e decisivi argomenti che possano indurlo a discostarsi da tale condivisibile orientamento, che intende in questa sede integralmente richiamare ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c. "Come già evidenziato, pacificamente fino al luglio 2013, l'azienda registrava l'orario di entrata e di uscita mediante i tornelli marcatempo posti all'ingresso delle sedi di lavoro, facendo coincidere l'orario di lavoro con gli esiti di tali timbrature, mentre a seguito dell'accordo sindacale del27.3.2013 l'attestazione dell'inizio e della fine della prestazione di lavoro degli operatori e del personale di coordinamento avveniva "sulla propria postazione di lavoro mediante registrazione on line sui sistemi informatici aziendali". Ebbene, detto sistema di rilevazione dell'orario di lavoro contrasta con i principi dettati in materia di orario di lavoro, per come interpretati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria. Ed infatti, come già evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 524/21 che si condivide e si richiama ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., che si è pronunciata su questione analoga e che a sua volta ha condiviso la motivazione della sentenza n. 10/2020 della Corte di appello di Roma, che si è pronunciata su caso analogo, così come la sentenza n. 226/2019 della Corte appello di Ancona: "In ordine alla definizione dell'arco temporale definibile come orario di lavoro rilevante ai fini retributivi e contributivi, con riguardo al tempo che precede e segue la prestazione lavorativa, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, anche in vigore del R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 a norma del quale "è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un'occupazione assidua e continuativa", non era precluso che il tempo necessario a porre in essere attività strettamente prodromiche a tale occupazione fosse da considerarsi lavoro effettivo e che esso dovesse essere, pertanto, retribuito ove tale operazione fosse diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si trattasse di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. 2015 n. 20694; Cass. 2013 n. 20714). Il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, che, in attuazione della direttiva comunitaria 93/104/CE del 23 novembre in materia di orario di lavoro (e successivamente dalla direttiva 2003/88/CE) ha sostituito la precedente disciplina riaffermandone e specificandone i contenuti, stabilisce, sulla base delle indicazioni comunitarie, all'art. 1, comma 2, lett. a): "Agli effetti delle disposizioni del presente decreto si intende per a) orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni". Tale definizione dell'orario di lavoro ricalca l'art. 2 della direttiva 2003/88 (Definizioni) il quale prevede al punto 1: "Ai fini della presente direttiva si intende per "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali". L'attuale nozione di orario di lavoro attribuisce un espresso e alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro e la formulazione è volutamente ampia e tale da includere nella nozione non solo l'attività lavorativa in senso stretto, ma anche le operazioni strettamente funzionali alla prestazione. A questo fine è necessario che il lavoratore sia "a disposizione" del datore di lavoro, cioè soggetto al suo potere direttivo e disciplinare (Cass. 2012 n. 1839; Cass. 2012 n. 1703). Secondo la giurisprudenza comunitaria, per valutare se un certo periodo di servizio rientri nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e di essere a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com. Eur, 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.). Tale orientamento consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l'interesse del datore di lavoro, ed una fase finale preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell'ambito della disciplina di impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria (Cass. 2015 n. 7396). Ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro anche l'arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all'interno dell'azienda nell'espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro nonprovi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico (Cass. 2017 n. 13466, in applicazione di tale principio, la S.C. ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di una acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all'interno di quest'ultimo immediatamente dopo il turno; v. anche Cass. 2015 n. 20694)". Nel caso in esame, i dipendenti ... "dopo la registrazione ai tornelli all'ingresso dei singoli edifici, debbono accedere alla sala nei piani superiori alla quale sono assegnati, (...), raggiungere la postazione individuale o reperire una postazione libera, avviare il computer ed attendere il completamento della operazione, con l'apertura della apposita finestra per l'inserimento della propria password. A fine turno, dopo la chiusura registrata al terminale, sono tenuti (...) a compiere il tragitto inverso per l'uscita dall'edificio, passando attraverso il tornello azionabile con il badge. Vi è, quindi, un tempo di permanenza del lavoratore all'interno dei locali aziendali, sia in entrata che in uscita, considerato neutro in base all'accordo sindacale del 27.3.2013" - così come dal regolamento aziendale- "ai fini della determinazione dell'orario di lavoro, ma caratterizzato da una serie di operazioni ed incombenze ulteriori rispetto alla registrazione on line dalla postazione di lavoro. Tali attività sono da ritenersi accessorie e propedeutiche alla attività lavorativa in senso stretto svolta dagli appellanti, sia per quanto riguarda gli spostamenti all'interno dell'edificio, rispetto al momento della timbratura ai tornelli, (...), che per i tempi necessari per l'avvio del personal computer e accesso alla registrazione on line. Si tratta di un intervallo temporale strettamente collegato alla attività lavorativa che, ad avviso del Collegio, non può ritenersi estraneo alla prestazione e, quanto alla sussistenza della eterodirezione, come già detto "la presenza del dipendente in azienda determina la presunzione della sussistenza nel datore di lavoro del potere di disporre della prestazione lavorativa. Talché è orario di lavoro l'arco temporale comunque trascorso all'interno dell'azienda, a meno che il datore di lavoro non provi che il prestatore d'opera sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico" (Cass. 2017 n. 13465, cit.)". Nel caso in esame, del tutto speculare a quello esaminato con la sentenza richiamata, la società non ha assolto detto onere probatorio. La sussistenza dell'eterodirezione, senz'altro maggiormente evidente in relazione alle attività di registrazione e di disconnessione on line (attività che si svolgono in ambiente di lavoro; utilizzando software e hardware aziendali; seguendo protocolli e istruzioni definiti dall'azienda), si ravvisa anche per il tempo necessario per raggiungere, all'interno dell'edificio, la propria postazione lavorativa, e viceversa per raggiungere l'uscita, tant'è vero che al lavoratore è chiesto di segnalare il proprio ingresso e la propria uscita dall'edificio valendosi della macchina marcatempo. Ritenuta pertanto la nullità parziale del paragrafo 4 dell'Accordo collettivo del 27 marzo 2013 nella parte in cui prevede che "L'attestazione dell'inizio e della fine della prestazione di lavoro degli operatori e del relativo personale di coordinamento di (...) avverrà sulla propria postazione di lavoro mediante registrazione on line sui sistemi informatici aziendali. Tale modalità sarà operativa con decorrenza 1 luglio 2013 per consentire all'Azienda l'adeguamento dei sistemi con la nuova modalità di attestazione stessa", così come delle conformi previsioni del regolamento aziendale, devono essere accolte le domande formulate con il ricorso di primo grado. Sostiene la società che non si possa dichiarare l'inapplicabilità parziale della clausola in esame, essendo essa inscindibilmente correlata con l'intero accordo sindacale, tant'è vero che quest'ultimo non sarebbe stato sottoscritto senza la previsione della clausola sulle modalità della prestazione lavorativa. E' sufficiente osservare, per respingere detta doglianza, come la società non abbia fornito alcuna prova che senza detta clausola non avrebbe sottoscritto l'accordo. Né una simile condizione o previsione risulta specificata nell'accordo sindacale. Quanto alle differenze retributive rivendicate dai lavoratori, il Collegio ritiene corretta la quantificazione del tempo lavoro in oggetto nella misura di 14 minuti (5 minuti in ingresso, 5 minuti in uscita, 2 minuti in pausa pranzo in uscita e 2 minuti in pausa pranzo in ingresso) per ogni giorno lavorativo con riferimento a lavoratori che effettuano la prestazione lavorativa full time e di 10 minuti per ogni giorno lavorativo con riferimento a lavoratori che effettuano la prestazione lavorativa part time al 50% (?). Ed infatti, è la stessa società che ammette che la fase di log on richieda almeno 2 minuti. Conseguentemente detti minuti, ai quali si aggiungono minimo tre minuti che servono per raggiungere la postazione e viceversa l'uscita, portano alla quantificazione effettuata dagli appellati, corretta anche nei conteggi. Con specifico riferimento ai conteggi allegati dai lavoratori, va evidenziato come con la memoria di primo grado la società non abbia effettuato alcuna contestazione specifica, concentrandosi prevalentemente nel contestare la sussistenza del diritto rivendicato. Va poi respinta l'eccezione di prescrizione quinquennale dei crediti maturati anteriormente alla notifica del ricorso di primo grado. Premessa la genericità dell'eccezione formulata dalla società, il Collegio ritiene che la prescrizione non decorra in costanza di rapporto. Ed infatti, aderendo alle precedenti decisioni di questa Corte, richiamate anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art.118 disp. att. c.p.c. (cfr.: Corte Appello Milano n. 379/19, n. 2048/19, n. 188/20, n. 322/20) si osserva "che, ai fini della decorrenza della prescrizione in materia di crediti da lavoro subordinato, la distinzione tra rapporti soggetti a tutela reale e rapporti non soggetti a tutela reale, riveste, anche nelle più recenti pronunce della Cassazione (cfr. Sez. L - Ordinanza n. 22172 del 22/09/2017; Sez. L, Sentenza n. 4351 del 22/02/2018; Sez. L Sentenza n. 19729 del 25/07/2018) un'importanza centrale. Infatti la decorrenza della prescrizione dal momento dell'insorgenza del diritto del lavoratore viene affermata dal Supremo Collegio con esclusivo riferimento ai rapporti assistiti dal diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo. La ragione è nota. Si ritiene che in tali rapporti non vi sia una condizione c.d. di metus del lavoratore nei confronti del datore di lavoro che lo induca, per timore di essere licenziato (senza possibilità di recuperare il posto di lavoro perduto), a non esercitare il proprio diritto. Non appare superfluo, sul punto, ricordare l'assetto normativo, determinato dalle pronunce della Corte Costituzionale n. 63/1966 e n. 174/1972, in forza del quale la prescrizione dei crediti retributivi non decorre durante il rapporto di lavoro, salvo che per i rapporti caratterizzati da c.d. "stabilità reale", ossia ai quali, in considerazione del requisito dimensionale, è applicabile l'art. 18 L. n. 300 del 1970.Con la prima delle citate pronunce, la Corte ha ritenuto che, in un rapporto non dotato della resistenza che caratterizzava invece il rapporto di pubblico impiego, il timore del recesso (cioè del licenziamento), spinge o può spingere il lavoratore a rinunciare ad una parte dei diritti. Secondo la Corte "In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; dimodoché la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall'art. 36 della Costituzione". E' stata quindi considerata determinante la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell'effetto che l'art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione. Con la sentenza n. 174/1972 la Corte Cost. ha poi ritenuto che, in caso di applicabilità dell'art. 18 St. Lav. si ha, come nel pubblico impiego, una vera stabilità; ha infatti al riguardo precisato che "una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si facciaseguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare", situazione di completa reintegrazione che non può essere ravvisata in tutti i casi (come quelli di applicazione della L. n. 604 del 1966) "per i quali le disposizioni sulla giusta causa non trovano applicazione; sicché per essi deve rimanere fermo il principio che vieta di far decorrere il termine di decadenza per le impugnative in materia di crediti da lavoro dipendente nel periodo di durata del rapporto, dovendosi il medesimo spostare alla fine di questo". La successiva giurisprudenza di legittimità si è adeguata, riscontrando il requisito della stabilità del posto di lavoro tutte le volte in cui, sul piano sostanziale, la disciplina del rapporto subordini il licenziamento a circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano della tutela dei diritti, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze con la facoltà di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo (Cass., S.U., 12.4.1976, n. 1268; Cass., 19.8,2011, n. 17399). Rimozione che, secondo la Cassazione, non può esaurirsi nella previsione di un risarcimento del danno ma deve concretizzarsi nell'ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Cass., 23.6.2003, n. 9968; Cass., 20.6.1997, n. 5494; Cass., 13.9.1997, n. 9137). Il quadro normativo, rispetto alle citate pronunce della Consulta, è radicalmente mutato a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, che ha riformato l'art. 18 L. n. 300 del 1970, approntando un articolato sistema sanzionatorio nel quale la reintegrazione è stata fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria. Il testo attualmente vigente dell'art. 18 L. n. 300 del 1970, a differenza di quello originario, prevede infatti la tutela reintegratoria solo per talune ipotesi di illegittimità del licenziamento (commi 1, 4, 7), mentre per altre fattispecie prevede unicamente una tutela indennitaria (commi 5 e 6); ne consegue che, nel corso del rapporto, il prestatore di lavoro si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reintegratoria o indennitaria) applicabile nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post nell'ipotesi di contestazione giudiziale del recesso datoriale. È pertanto ravvisabile la sussistenza di quella condizione di metus che, in base ai consolidati principi dettati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, esclude il decorso del termine prescrizionale in costanza di rapporto di lavoro. A supporto di questa soluzione va richiamato, altresì, l'orientamento giurisprudenziale che valorizza l'effettiva condizione del prestatore di lavoro subordinato, precisando che la decorrenza o meno della prescrizione nel corso del rapporto di lavoro va verificata con riguardo al concreto atteggiarsi del medesimo in relazione all'effettiva esistenza di una situazione psicologica di metus del lavoratore, e non già alla stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto astrattamente regolare il rapporto, ove questo fosse sorto fin dall'inizio con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente ex post, riconosce applicabili (Cass. S.U. 4942/12; Cass. 10 aprile 2000 n. 4520; nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 23 gennaio 2009 n. 1717; Cass. 4 giugno 2014 n. 12553). Il Collegio, alla stregua di tali consolidati e condivisibili principi, ritiene che, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012 all'art. 18 L. n. 300 del 1970, la prescrizione dei crediti retributivi non decorra in costanza di rapporto di lavoro, anche ove a questo sia applicabile l'art. 18 novellato, come nella presente fattispecie". Quest'ultima questione è stata recentemente risolta dalla Suprema Corte che con sentenza 6-9-2022, n. 26246 (seguita subito dopo da Cass., 20/10/2022, n. 30957 di identico tenore) ha statuito che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente la prescrizione dei crediti lavorativi decorre dalla conclusione del rapporto di lavoro anche per quei rapporti in cui trova applicazione l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La Suprema Corte ha in particolare rilevato che "così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all'epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l'essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970 art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro. Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione "contro ogni illegittima risoluzione" nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l'assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d'impiego pubblico. Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, ?, il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (...) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575; Cass. 7 novembre 2018, n. 28453). Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un'immediata e diretta correlazione eziologica tra l'esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa ?) con la possibilità per il lavoratore (...) di ottenere "una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni - veritiere - del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione). Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (...) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell'impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l'insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un'ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell'art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa). Ebbene, esso rivela come l'individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all'esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l'identificazione, o meno, al criterio del "caso per caso", rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema). In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità. Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell'art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012" (così CA MI n. 782/22 citata). Alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, dirimenti ed assorbenti di ogni altra questione, in riforma della sentenza n. 1065/22 del Tribunale di Milano, (...) s.p.a. deve essere condannata a pagare, per i periodi rispettivamente indicati, a (...) la somma lorda di Euro 4.043,51, a (...) la somma lorda di Euro 4.180,82, a (...) la somma lorda di Euro 1.184,36, a (...) la somma lorda di Euro 1.429,54 ed a (...) la somma lorda di Euro 1.715,05, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalle scadenze al saldo su tutte le somme, non essendoci specifiche contestazioni sui conteggi allegati (doc. 13 da A a F). In applicazione del principio secondo cui "il giudice che deve liquidare le spese processuali relative ad un'attività difensiva ormai esaurita (nella specie, con decisione nel merito), deve applicare la normativa vigente al tempo in cui l'attività stessa è stata compiuta, sicché, per l'attività conclusa nella vigenza del D.M. n. 127 del 2004, deve applicare le tariffe da questo previste e non i parametri sopravvenuti ai sensi dell'art. 41 del D.M. n. 140 del 2012" (così Cass. n. 2748/16; conf. Cass. n. 17577/18), le spese processuali vengono determinate ai sensi dei (...) ratione temporis vigenti, in base al valore della controversia, all'assenza della fase di istruttoria, nonché in applicazione della facoltà di riduzione del compenso in ragione delle condizioni soggettive delle parti e di aumentare il compenso per la pluralità degli appellanti. P.Q.M. In riforma della sentenza n. 1065/22 del Tribunale di Milano, condanna (...) s.p.a. a pagare a (...) la somma lorda di Euro 4.043,51, a (...) la somma lorda di Euro 4.180,82, a (...) la somma lorda di Euro 1.184,36, a (...) la somma lorda di Euro 1.429,54 ed a (...) la somma lorda di Euro 1.715,05, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalle scadenze al saldo su tutte le somme. Condanna (...) s.p.a. alle spese processuali, che si liquidano in Euro 2.500,00 per il primo grado ed in Euro 2.700,00 per il secondo grado, oltre a spese generali, oneri ed accessori di legge. Così deciso in Milano il 22 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5036 del 2021, proposto da Pa. Co. di Co. So. - Società Co. So. Im. So., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Sc., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Frosinone, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ce., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Ro. Su. in Roma, piazza (...); nei confronti Co. So. e di La. - Op. Sa. As. - O.S. Soc. Coop. Sociale - Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Re., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, Sezione Prima, n. 00348/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Frosinone e di Co. So. e di La. - Op. Sa. As. - O.S. Soc. Coop. Sociale - Onlus; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2022 il Cons. Diana Caminiti e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con atto notificato in data 31 maggio 2021 e depositato in pari data Pa. Co. di Co. So. - Società Co. So. Im. So. (d'ora in poi per brevità Pa.), ha interposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, Sezione Prima, 27 maggio 2021 n. 348, con cui era stato rigettato il ricorso da essa proposto, in qualità di seconda graduata, per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 522 del 18.2.2021, di aggiudicazione in favore del R.T.I. con O.S. Co. so. mandataria (d'ora in poi per brevità anche RTI OS.) della gara indetta dal Comune di Frosinone, quale capofila del Distretto Sociale B, ai sensi dell'art. 60 del D.lgs. n. 50/2016, per l'affidamento di servizi alla persona per la durata di un anno con possibilità di proroga tecnica, da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 2. Dagli atti di causa e dalle allegazioni di parte appellante risulta quanto di seguito specificato. 2.1 All'esito dello svolgimento delle operazioni di gara l'offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell'art. 95 D.Lgs. 50/2016, è risultata essere quella del Costituendo RTI OS./ DI. Coop., che ha ottenuto il punteggio totale di 96,64. 2.2. Essendo tale offerta risultata "anormalmente bassa" ai sensi dell'art. 97 del D.Lgs., si è proceduto alla verifica dei giustificativi attraverso l'apposita istruttoria, all'esito della quale la Commissione, nella seduta del 16.02.2021, ha ritenuto che l'insieme delle giustificazioni prodotte dal costituendo RTI aggiudicatario fosse "correttamente e soddisfacentemente formulato e sufficiente a dimostrare la non anomalia dell'offerta presentata". 3. L'odierna appellante Pa. con il ricorso di prime cure assumeva in primo luogo in punto di fatto: - di avere indicato quale costo della propria manodopera Euro 3.980.257,50 e quali oneri della sicurezza Euro 62.860,00, mentre la controinteressata aggiudicataria aveva indicato quale costo della manodopera Euro 3.773.770,20 e quali oneri della sicurezza Euro 39.000,00; - che dall'esame della documentazione di gara era emerso che l'aggiudicataria OS.: a) aveva ricompreso gli oneri della sicurezza nei costi della manodopera; b) non aveva ricompreso negli oneri della sicurezza, quantificati separatamente nell'offerta economica, i Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), indicati a parte per il solo servizio SAD-ADE e per soli 95 operatori; c) aveva indicato un numero di ore di personale D2 pari nel totale a 45.842,69 contro le 54.036,01 prescritte dal solo art. 5 dell'allegato 4 al CSA, relativamente al "Segretariato sociale e Servizio Sociale Professionale", cui andavano aggiunte almeno le 11.620 ore prescritte dall'art. 5 dell'allegato 1, relativo al "Servizio di Assistenza Domiciliare Educativa", per il totale complessivo di almeno 65.656,01; d) aveva "ritoccato" la tabella CCNL Lazio - settembre 2020 - riportata nella prima pagina delle "INFORMAZIONI INTEGRATIVE CONGRUITÀ OFFERTA", prot. 6998 del 4.2.2021- sottostimando il costo del livello D1, non calcolando i 5 scatti di anzianità indicati nella stessa e sottostimando la rivalutazione del TFR; e) nel computo del costo del lavoro, aveva sottostimato il costo delle ore non lavorate; f) aveva sottostimato nei giustificativi il costo delle proposte migliorative e omesso il costo del Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona, che, a norma dell'art. 10 del CSA, l'aggiudicatario deve mettere a disposizione a sue spese; g) aveva sottostimato complessivamente il costo della manodopera, modificando la distribuzione delle ore rispetto alle specifiche tecnico-organizzative per i singoli servizi allegate al CSA, aumentando le ore del personale dei livelli più bassi e riducendo quelle del personale dei livelli superiori, e ciò per l'importo di ulteriori Euro 70.290,55. 3.1. Ciò posto articolava i seguenti motivi di ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione ed i relativi atti presupposti: I) Violazione e falsa applicazione degli artt. 95 comma 10, e 83 comma 9, del D.lgs. n. 50/2016: il costo della manodopera e gli oneri della sicurezza, che ai sensi della norma in rubrica, devono essere indicati separatamente, sono stati tutti ricompresi nel costo della prima, indicati come voce del costo del lavoro ed accorpati all'assistenza integrativa. Inoltre, sarebbe stato documentato dallo stesso RTI controinteressato, che l'importo di Euro 39.000,00, indicato, ai sensi dell'art. 95, comma 10, del codice, nell'offerta economica, sarebbe sottostimato rispetto ai reali oneri della sicurezza (per l'omessa inclusione dei dispositivi per la protezione individuale). Il costo della manodopera indicato dal controinteressato nell'offerta economica sarebbe pari a Euro 3.734.770,20, dovendo sottrarsi l'importo di Euro 39.000,00 dal costo complessivo di Euro 3.773.770,20. Tuttavia, negli ultimi giustificativi il RTI OS. aveva indicato quale costo della manodopera Euro 3.755.043,47. Sottraendo a tale importo gli oneri della sicurezza - ancora ricompresi - si otteneva il costo della manodopera indicato in sede di giustificativi in Euro 3.716.043,47, con una riduzione di Euro 18.726,73. Pertanto il controinteressato aveva ridotto sensibilmente in sede di giustificazioni il costo della propria manodopera. II) Violazione della lex specialis di gara (art. 8 del CSA; artt. 5, 6 e 7, allegato n. 4 al CSA; art. 5 allegato 1 al CSA). L'aggiudicatario, in violazione delle specifiche tecnico-organizzative previste per i singoli servizi appaltati, aveva sottostimato il costo della manodopera, aumentando artificiosamente le ore del personale dei livelli più bassi e riducendo quelle del personale dei livelli superiori. In riscontro alla richiesta della stazione appaltante di indicare le ore riferite a ciascun livello professionale, con nota dell'8 febbraio, il controinteressato aveva testualmente affermato che "riguardo al numero di ore previste per ogni profilo professionale, ci rimettiamo a quando indicato nel vs. CSA, ovvero abbiamo considerato il numero di profili, i livelli gli scatti di anzianità, ma non le ore lavorabili, in quanto non indicato nel vs. CSA. Si è considerato, pertanto, il costo orario medio per le ore previste da capitolato". III) Violazione e falsa applicazione dell'art. 97 del d.lgs. n. 50/2016. La verifica dell'anomalia dell'offerta effettuata dalla Stazione Appaltante era viziata anche da difetto di istruttoria e illogicità, contraddittorietà e erroneità del presupposto in ragione di una asserita sottostima di plurime voci di costo. L'offerta della controinteressata, in tesi di parte ricorrente, era infatti palesemente anomala ed andava, pertanto, esclusa. In particolare, la controinteressata: - pur indicando correttamente che la media degli scatti di anzianità degli operatori di livello D1 è pari a 5, non considerava tali scatti nel quantificare il costo orario lordo; - aveva sottostimato la rivalutazione del TFR per il medesimo livello retributivo, giungendo al paradosso di indicare un importo minore del livello inferiore C1, calcolato sulla base di soli 3 scatti; - con la relazione del 27 gennaio, per giustificare il proprio costo della manodopera, aveva indicato ore non lavorate per singolo operatore di molto inferiori a quelle indicate dalla tabella ministeriale e, soprattutto, in aperta violazione del CCNL di ctg.; - i costi per i DPI erano stati stimati solo per i lavoratori del Servizio di Assistenza Domiciliare ed indicati in Euro 11.400,00 per 95 operatori, ma sarebbe di tutta evidenza che i DPI devono essere assicurati a tutti gli operatori e quindi anche ai restanti 97; - non sarebbe stato adeguatamente stimato il costo delle offerte migliorative; - sarebbero stati sottostimati altri costi (spese il Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona; oneri amministrativi per la tenuta del libro unico del lavoro, i diritti di rogito, le spese per assicurazioni, le spese per cauzioni ai sensi dell'art. 103 d.lgs. n. 50/2016, le spese per pubblicazione del bando di gara che l'art. 22 del disciplinare pone a carico dell'aggiudicatario, il costo per l'emissione delle buste paga). IV) Eccesso di potere per carenza di istruttoria, illogicità manifesta, contraddittorietà . In sede di verifica della congruità dell'offerta non era stata data adeguata rilevanza al tema della "ripartizione delle ore per i diversi livelli". In particolare la Commissione non aveva avuto sufficiente tempo di esaminare la nota della ricorrente recante per oggetto "Tabella assegnazione quote ore medie annue per profili professionali previsti nel CSA e relativi costi medi annui totali", in quanto ricevuta appena 19 minuti prima della seduta della Commissione. 4. La sentenza oggetto di appello ha rigettato tutti i motivi, ritenendo in primo luogo che il ricorso contenesse tutte censure volte a contestare in maniera analitica varie componenti del costo della manodopera che, all'esito della giustificazioni fornite dalla controinteressata, la S.A. aveva valutato nel suo complesso sostenibile, laddove secondo la granitica giurisprudenza, il giudizio di non anomalia dell'offerta possiede natura sintetica, dovendo essere rivolto ad accertare l'attendibilità e la serietà dell'offerta, nonché l'effettiva possibilità dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte, non potendo risolversi in una parcellizzazione delle singole voci di costo e in una caccia all'errore nella loro indicazione nel corpo dell'offerta. Ha altresì evidenziato che la difformità del costo del lavoro da quello indicato nelle tabelle ministeriali non era un profilo dirimente per trarne la conclusione dell'incongruità dell'offerta, poiché le tabelle costituiscono un mero parametro di valutazione della congruità, avuto riguardo alla costante giurisprudenza amministrativa. Quanto alle singole censure ha così motivato: I) Con riguardo al primo motivo, l'art. 4, comma 4, del capitolato speciale d'appalto disponeva espressamente che "(...) Data la tipologia dell'appalto, attesa l'assenza di rischi interferenziali (diversi dai costi di sicurezza c.d. aziendali, art. 95, comma 10, D.lgs. 50/2016), non sussistono oneri e costi di sicurezza correlate alle attività oggetto dell'appalto, per cui essi sono pari a zero". L'aggiudicataria, quindi, aveva correttamente indicato nella propria offerta economica, sia i costi della manodopera sia, separatamente, gli oneri aziendali connessi e ricompresi nel costo stesso, con ciò rendendo chiaramente evincibili i distinti importi. In particolare, aveva indicato la cifra complessiva di " Euro 3.773.770,21 ", di cui Euro 39.000,00 erano stati specificati quali costi di sicurezza sul lavoro, leggermente superiore al risultato dato dalla moltiplicazione algebrica dell'importo di Euro 200 (ritenuto congruo da valutazione ministeriale a quantificare gli oneri di sicurezza aziendale riguardo i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario-assistenziale in condizioni "ordinarie" di svolgimento dei servizi) per il numero dei 192 operatori impiegati nei servizi oggetto di appalto (Euro 38.400). Quanto al contestato costo dei dispositivi di protezione, pari a Euro 11.400,00, la controinteressata aveva evidenziato che si trattava di dispositivi ulteriori rispetto a quelli già contemplati negli oneri di sicurezza, evidentemente necessitati dalla attuale situazione di emergenza pandemica, avente carattere di eccezionalità e temporaneità . In ogni caso, ai fini del giudizio di congruità dell'offerta economica, l'importo in argomento sarebbe irrilevante, anche tenuto conto che i costi indicati in offerta consentono alla controinteressata di conseguire un utile di impresa pari a Euro 171.917,66, come illustrato alla Stazione appaltante in sede di verifica della congruità . Anche l'arrotondamento effettuato dai complessivi Euro 3.773.770,21 a Euro 3.755.043,47 sarebbe in proporzione irrilevante. II) Con riguardo al secondo motivo (con cui si lamentava la sottostima del costo complessivo della manodopera) ha evidenziato che in realtà la S.A. aveva affidato alla autonomia organizzativa e gestionale dell'aggiudicatario l'esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto, limitandosi a indicare la dotazione complessiva e i profili professionali richiesti, rinviando per il monte ore destinato ad ogni servizio agli ulteriori allegati, precisando che "dovrà garantire l'utilizzo di personale in numero congruo al loro funzionamento, in ragione delle ore appaltate e nel rispetto della distribuzione prevista per le singole strutture attivate (CDM di (omissis) e (omissis), CDD di (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) e CPA di (omissis))". Pertanto, dalla lex specialis di gara non sarebbe possibile stabilire in modo univoco per ciascuna qualifica professionale e livello di inquadramento lo specifico monte ore, dal momento che - come dedotto dalla controinteressata nelle proprie difese - "una stessa mansione può essere svolta da operatori con qualifiche diverse e, nei casi di mansioni riservate a specifiche professionalità, la stessa mansione può essere svolta da operatori con livello di inquadramento differenti". Ha inoltre fatto riferimento nuovamente alla possibilità di scostamento dalle tabelle ministeriali. III) Con riferimento al terzo (eccesso di potere sotto diversi profili in ragione di una asserita sottostima di plurime voci di costo) ne ha ritenuto del pari l'infondatezza, avendo riguardo alla natura globale e sintetica del giudizio da effettuarsi nell'ambito del subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta. In ogni caso ha osservato che sia l'Amministrazione che la controinteressata (quest'ultima anche con l'ausilio di una perizia giurata del 4 maggio 2021), avevano controdedotto in maniera efficace con riguardo a ciascuna voce di costo oggetto di contestazione da parte della ricorrente. Peraltro, i maggiori oneri non previsti dal RTI aggiudicatario nella propria offerta economica, risulterebbero, alla luce delle contestazioni del perito della ricorrente, essere pari a complessivi Euro 50.097, ampiamente coperti dall'avanzo di gestione pari ad Euro 171.917,66. IV) Quanto all'ultimo motivo ha evidenziato che, come spiegato dall'Amministrazione resistente, la commissione di gara si era riunita non appena ricevuta la mail da parte dell'ATI alle ore 13:30 del 16 febbraio 2021 svolgendo la relativa attività di verifica fino alle ore 14:30. L'aver indicato le 13:30 come orario di chiusura dei lavori (trattandosi dell'orario di inizio), costituiva un evidente errore materiale, così come era evidente che il lavoro portato avanti nelle diverse sedute e in contraddittorio avesse consentito di concludere l'ultima seduta in tempi ragionevolmente brevi. 5. Pa. ha quindi formulato i seguenti motivi avverso la sentenza di prime cure: 1) ERRORES IN PROCEDENDO ET IN IUDICANDO: OMESSA PRONUNCIA E OMESSA E/O INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE SU PUNTI DECISIVI DELLA CONTROVERSIA, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA DEDOTTA VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 95, COMMA 10, E 83, COMMA 9, DEL D.LGS. N. 50/2016 E DEL PRINCIPIO DI IMMODIFICABILITÀ DELL'OFFERTA. TRAVISAMENTO E ILLOGICITÀ MANIFESTA DELLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA. L'appellante lamenta che con il primo motivo del ricorso di prime cure era stata dedotta la violazione degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, del Codice e del principio di immodificabilità dell'offerta: motivo sul quale il TAR non aveva preso alcuna posizione, limitando le proprie considerazioni al riflesso che tale modifica aveva sull'anomalia dell'offerta. 2) ERRORES IN PROCEDENDO ET IN IUDICANDO: OMESSA PRONUNCIA ED OMESSA E/O INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE SU PUNTI DECISIVI DELLA CONTROVERSIA, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELLA LEX SPECIALIS DI GARA (ART. 8 DEL CSA; ARTT. 5, 6 E 7 DELL'ALLEGATO N. 4 AL CSA; ART. 5 DELL'ALLEGATO 1 AL CSA; ART. 5 DELL'ALLEGATO 5 AL CSA). TRAVISAMENTO E ILLOGICITÀ MANIFESTA DELLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA. Con il motivo in esame si lamenta che la sentenza non avrebbe motivato in ordine alla mancata osservanza del capitolato quanto alle ore da assegnare a ciascun profilo professionale. Segnatamente, secondo parte appellante, il primo giudice avrebbe erroneamente affermato che dal capitolato non era evincibile il monte ore da assegnare ai vari profili professionali, in quanto dallo stesso poteva evincersi che la lex specialis prevedeva un numero di ore non inferiore alle oltre 66.000 per assistenti sociali ed educatori professionali. 3) ERROR IN PROCEDENDO ET IN IUDICANDO: OMESSA PRONUNCIA IN ORDINE ALLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ART. 95, COMMA 10, DEL D.LGS. N. 50/2016. Con il terzo motivo del ricorso, Pa. assume di avere documentato che il controinteressato aveva fortemente sottostimato il costo della manodopera per cui lo stesso doveva essere escluso in applicazione del disposto dell'art. 95 comma 10 d.lgs. 50/2016. Pertanto erronea sarebbe sul punto la sentenza che aveva rigettato il relativo motivo di censura. 4) ERROR IN IUDICANDO: INSUFFICIENTE, MANIFESTAMENTE ILLOGICA E CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE IN ORDINE ALLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ART. 97 DEL D.LGS. N. 50/2016 ED AL DEDOTTO ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA, MANIFESTA ILLOGICITÀ, CONTRADDITTORIETÀ ED ERRONEITÀ DEL PRESUPPOSTO. L'appellante assume di avere documentato che il controinteressato aveva fortemente sottostimato il costo della manodopera, calcolando erroneamente il costo del livello D1, quanto agli scatti di anzianità e quanto alla rivalutazione del TFR. Assume inoltre di avere dimostrato che il controinteressato aveva ridotto il proprio costo della manodopera, indicando ore non lavorate per singolo operatore di molto inferiori a quelle indicate dalla tabella ministeriale e, soprattutto, in aperta violazione del CCNL di ctg. Secondo l'appellante la sottostima del costo della manodopera per la sola violazione delle indicate norme del CCNL sarebbe pari a Euro 198.200,20. 4.4) LA SOTTOSTIMA DEL COSTO DEL PERSONALE CONSEGUENTE ALLA RIPARTIZIONE DELLE ORE PER I LIVELLI PROFESSIONALI IN VIOLAZIONE DELLE SPECIFICHE TECNICO-ORGANIZZATIVE. Secondo l'appellante sarebbe sufficiente esaminare gli allegati al CSA per avere contezza della circostanza che il monte ore e l'incidenza dei diversi livelli professionali varia da servizio a servizio, risultando una ulteriore sottostima del costo della manodopera pari ad Euro 70.290,55. Quindi in tesi di parte appellante, in totale, la sottostima del costo della manodopera sarebbe pari ad almeno Euro 268.490,75 (198.200,20 + 70.290,55). 5) ERROR IN IUDICANDO: INSUFFICIENTE, ILLOGICA E CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE IN ORDINE ALLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ART. 97 DEL D.LGS. N. 50/2016 ED AL DEDOTTO ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA, MANIFESTA ILLOGICITÀ, CONTRADDITTORIETÀ ED ERRONEITÀ DEL PRESUPPOSTO. L'odierno appellante aveva documentato che il controinteressato non aveva giustificato numerose e rilevanti voci di costo. Ciò aveva fatto al dichiarato scopo di fornire al Collegio l'evidenza immediata dell'assoluta inattendibilità dell'offerta in particolare quanto: -alla mancata previsione della retribuzione per la figura del Coordinatore generale imposta dall'art. 10 del CSA, il cui costo dovrebbe quantificarsi in euro Euro 13.565,76; -all'incapienza del costo per il notaio di fiducia, dal consulente di parte ritenuto compreso nei costi generali di euro 1.500,00 ed all'incapienza di detta voce di costo anche in relazione alle spese per cauzione che dovrebbero ammontare ad euro 4.000.00; - all'incapienza del costo dell'offerta migliorativa, che faceva riferimento ad aggiuntive 5.672 ore divise tra diverse figure professionali, tutte di livello elevato (direttore di divisione, vice coordinatore generale, responsabile sicurezza, psicologi, assistenti sociali, ect.) che dovrebbe portare ad un costo pari ad euro 80.599,12, laddove la controinteressata, in sede di giustificazioni, aveva addotto un costo complessivo di Euro 45.800,00 che doveva peraltro intendersi comprensivo anche degli ulteriori profili migliorativi di due appartamenti, sette pulmini, due auto aziendali, l'acquisto di due armadi, di un mobile soggiorno e giochi da giardino, DPI, ed altre attrezzature. In relazione a tali profili il Tar, in tesi di parte appellante, avrebbe acriticamente sposato la perizia di parte, senza argomentare in relazione a quanto dedotto da essa ricorrente con la propria perizia. 6. Si sono costituiti il Comune di Frosinone e il RTI OS., insistendo nella reiezione del gravame. In particolare il RTI OS. assume che il proprio perito aveva dimostrato in primo grado che, a volere accogliere le deduzioni della ricorrente, i maggiori costi ammonterebbero a circa euro 50.000,00 e sarebbero pertanto coperti dall'avanzo di gestione. 7. L'istanza cautelare avanzata con l'atto di appello è stata rigettata con ordinanza n. 3638/2021 sulla base dell'assorbente rilievo dell'insussistenza del periculum in mora. 7.1. In vista della trattazione di merito l'appellante e la controinteressata hanno prodotto memoria ex art. 73 c.p.a.. Il RTI OS. peraltro con la memoria di replica ha eccepito la tardività della memoria diretta prodotta da Pa. perché depositata dopo le ore 12 dell'ultimo giorno utile. 8. All'esito dell'udienza pubblica del 27 gennaio 2022, la Sezione, con ordinanza del 7 gennaio 2022 n. 855/2022 ha disposto verificazione sulla base dei seguenti rilievi: "Ritenuto necessario, al fine del decidere, disporre verificazione e, per l'effetto, ai sensi dell'art. 66 cod. proc. amm. disporre quanto segue: - alla verificazione provvederà il dirigente preposto alla Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con facoltà di delega. Il verificatore potrà accedere a tutti gli atti del giudizio ed estrarne copia, nonché richiedere alle parti ogni documentazione ritenuta utile. La stazione appaltante dovrà esibire, a richiesta, gli ulteriori atti in suo possesso utili all'espletamento dell'incombente istruttorio, ivi compresa l'offerta tecnica dell'aggiudicataria; - i quesiti a cui il verificatore dovrà rispondere sono i seguenti: a) accertare, alla luce della documentazione versata in atti di gara e nel successivo procedimento di verifica di anomalia, nonché alla luce delle contrapposte perizie giurate prodotte dalle parti nel giudizio di primo grado, se l'offerta dell'aggiudicataria sia nel complesso congrua, sostenibile e realizzabile, avuto anche riguardo a quanto previsto dall'art. 97 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; b) verificare la congruità del costo del costo del personale del livello D1, quantificando anche l'eventuale discostamento, dovuto in particolare riguardo al costo per gli scatti di anzianità e per l'eventuale rivalutazione del TFR; c) verificare, avuto riguardo all'art. 8 del C.S.A. e agli allegati 1 e 4 del medesimo, la congruità delle ore assegnate dall'aggiudicataria al livello D 2, in particolare riguardo al Servizio di Segretariato Sociale ed alle ore da assegnare agli Assistenti Sociali e al Servizio di Assistenza Sociale Educativa, con riferimento al numero di ore da assegnare agli Educatori Professionali o agli Educatori con titolo equipollente, e l'eventuale impatto, in termini differenziali rispetto alle ore assegnate a livelli retributivi inferiori in relazione ai medesimi servizi, sul costo del lavoro; d) quantificare il costo del lavoro del Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona per l'impiego minimo previsto dal C.C.N.L.; e) verificare la congruità del costo del lavoro in relazione alle ore non lavorate ed il loro discostamento da quanto previsto dal C.C.N.L. e dalle tabelle ministeriali, in particolare con riferimento alle festività e festività soppresse e alle ore per la partecipazione ad assemblee sindacali, quantificando il costo differenziale; f) verificare la congruità del costo relativo alle offerte migliorative, con particolare riferimento alle ore aggiuntive di lavoro rispetto a quelle indicate nella lex specialis di gara; g) verificare l'eventuale impatto degli acclaramenti di cui alle precedenti lettere b), c) e d) e) f) sull'utile risultante dall'offerta". 9. Il soggetto incaricato della verificazione, Direttore Generale pro-tempore dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, coadiuvato per l'espletamento dell'incarico dalla dott.sse An. Cr. e Ma. Gi. e dal dott. St. D'U., funzionari in servizio presso la medesima Direzione Generale, in possesso di elevata esperienza e professionalità sulle materie oggetto di verificazione, ha provveduto al deposito della relazione di verificazione - comprensiva dei chiarimenti resi in risposta alle controdeduzioni dei periti di parte - in data 27 giugno 2022, concludendo per la non sostenibilità dell'offerta dell'aggiudicataria e per la sottostima dei costi della manodopera. 10. In vista della trattazione di merito dell'appello, il RTI OS. ha depositato documentazione attestante la cessazione del servizio di cui al contratto di appalto oggetto dell'odierno contenzioso e lo svolgimento del servizio all'attualità in regime di proroga tecnica. 10.1. Le parti inoltre hanno prodotto memorie difensive dirette (Pa. ed RTI OS.) e di replica (Comune di Frosinone, Pa. ed RTI OS.) insistendo nei rispettivi assunti. In particolare il Comune di Frosinone ha insistito in via preliminare per la declaratoria di improcedibilità dell'appello, essendo stato il contratto eseguito per l'intero e non avendo parte appellante formulato alcuna istanza risarcitoria per equivalente ed in ogni caso per il rigetto del gravame, criticando le conclusioni cui era giunto il verificatore ed assumendo che in ogni caso gli eventuali vizi del procedimento di verifica dell'anomalia comporterebbero esclusivamente la regressione della gara alla fase di avvio del relativo subprocedimento e non l'esclusione dell'offerta dell'aggiudicataria. Il RTI OS. ha insistito del pari per il rigetto dell'appello, evidenziando come la contestazione relativa all'esclusione del RTI aggiudicatario per violazione dei minimi salariali retributivi, ai sensi dell'art. 95, comma 10, del D.lgs. n. 50/2016, non era stata formulata dal Consorzio in primo grado, e, dunque doveva intendersi inammissibile in sede di appello; ciò in disparte dalla circostanza che alcuna violazione dei minimi salariali aveva accertato il verificatore. Parte appellante, pur deducendo che era venuto meno l'interesse all'annullamento degli atti gravati in prime cure, per essere nelle more stato svolto il servizio oggetto di gara, ha insistito per l'accertamento dell'illegittimità degli stessi, stante la persistenza dell'interesse a fini risarcitori, criticando la relazione di verificazione nella parte in cui aveva disatteso i suoi rilievi. 12. La causa è stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza pubblica del 20 ottobre 2022, sulle conclusioni rassegnate dalle parti. DIRITTO 13. In limine litis va affrontata l'eccezione di sopravenuta carenza di interesse alla decisione formulata dal Comune di Frosinone, fondata sul rilievo che il contratto di appalto in contestazione è stato eseguito nelle more del giudizio, con conseguente impossibilità di risarcimento in forma specifica e che alcuna domanda di risarcimento per equivalente è stata formulata nel presente giudizio. 13.1. La stessa va disattesa, nei limiti di seguito precisati. Ed invero, pur dovendo ritenersi non sussistente più l'interesse all'annullamento degli atti gravati in prime cure, avuto riguardo all'intervenuta esecuzione del contratto, residua, come precisato da parte appellante con le memorie ex art. 73 comma 1 c.p.a., un interesse all'accertamento dell'illegittimità degli stessi ai fini risarcitori, ex art. 34 comma 3 c.p.a.. La deduzione di parte appellante contenuta al riguardo nelle memorie di discussione deve intendersi sufficiente ai fini della delibazione del merito dell'appello in vista di una futura proposizione di una domanda di risarcimento dei danni per equivalente, alla stregua di quanto statuito con il recente pronunciamento di cui alla sentenza dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, n. 8/2022, con la quale si sono affermati i seguenti principi di diritto: - "per procedersi all'accertamento dell'illegittimità dell'atto ai sensi dell'art. 34, comma 3, cod. proc. amm., è sufficiente dichiarare di avervi interesse a fini risarcitori; non è pertanto necessario specificare i presupposti dell'eventuale domanda risarcitoria né tanto meno averla proposta nello stesso giudizio di impugnazione; la dichiarazione deve essere resa nelle forme e nei termini previsti dall'art. 73 cod. proc. amm."; - "una volta manifestato l'interesse risarcitorio, il giudice deve limitarsi ad accertare se l'atto impugnato sia o meno legittimo, come avrebbe fatto in caso di permanente procedibilità dell'azione di annullamento, mentre gli è precluso pronunciarsi su una questione in ipotesi assorbente della fattispecie risarcitoria, oggetto di eventuale successiva domanda". 14. Ciò posto, può delibarsi l'eccezione in rito formulata dal RTI OS. relativamente alla tardività del deposito della memoria diretta ex art. 73 comma 1 c.p.a. effettuato, in vista dell'udienza pubblica del 27 gennaio 2022 da parte appellante, dopo le ore 12,00 dell'ultimo giorno utile, ovvero alle ore 12,23 dell'11 gennaio 2022. 14.1. L'eccezione, in disparte dal suo superamento avuto riguardo alla celebrazione di una nuova udienza pubblica all'esito della disposta istruttoria, preceduta dal deposito di nuove memorie ex art. 73 comma 1 c.p.a., è infondata, avuto riguardo all'orientamento giurisprudenziale da ritenersi condivisibile. Ed invero l'art. 4 dell'art. 4 dell'allegato 2 al c.p.a. prevede che "È assicurata la possibilità di depositare con modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo giorno consentito. Il deposito è tempestivo se entro le ore 24:00 del giorno di scadenza è generata la ricevuta di avvenuta accettazione, ove il deposito risulti, anche successivamente, andato a buon fine. Agli effetti dei termini a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12:00 dell'ultimo giorno consentito si considera effettuato il giorno successivo". Tale norma è stata interpretata da una parte della giurisprudenza nel senso che il deposito con il processo amministrativo telematico (PAT) è possibile fino alle ore 24:00; ma, se effettuato l'ultimo giorno utile rispetto ai termini previsti dalla legge (art. 73, comma 1, c.p.a. o art. 84, comma 5, del D.L. n. 18 del 2020), ove avvenga oltre le ore 12:00, si considera - ai soli fini della garanzia dei termini a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche - effettuato il giorno successivo, ed è dunque tardivo (cfr. Consiglio di Stato Sez. VI, 14/03/2022, n. 1772, Sez. VI, 18/05/2020, n. 3149; sez. V, 24 febbraio 2020, n. 1372; Sez. VI, 2/10/2019, n. 6621). Il collegio al riguardo condivide peraltro l'opposto orientamento di questo Consiglio di Stato, secondo il quale, ai sensi della norma da ultimo citata, la possibilità di depositare gli atti in forma telematica è assicurata fino alle ore 24 dell'ultimo giorno consentito: tale soluzione non contrasta con l'ultimo periodo della norma, ove si prevede che il deposito degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12 dell'ultimo giorno si considera eseguito il giorno successivo: la garanzia del diritto di difesa delle controparti può infatti essere salvaguardata facendo decorrere dal giorno successivo i termini per contestare gli atti depositati oltre le ore 12 (cfr. Consiglio di Stato, sez. III - 17/11/2020 n. 7142, il quale ha ammesso che si tratta di soluzione non pacifica, e tuttavia in questo contesto "a favore della ammissibilità della memoria depone, in via residuale, la possibilità di concessione dell'errore scusabile, valutabile positivamente proprio in ragione dell'incertezza interpretativa sulla portata applicativa della disposizione processuale de qua"). Deve dunque ritenersi che, ai sensi dell'evocata disposizione delle norme di attuazione al Cpa, la possibilità di depositare con modalità telematica atti in scadenza è assicurata fino alle ore 24 dell'ultimo giorno consentito secondo i termini perentori (cioè fino allo spirare dell'ultimo giorno): il deposito telematico si considera quindi perfezionato e tempestivo con riferimento al giorno, senza rilevanza preclusiva con riguardo all'ora (ex multis Consiglio di Stato, sez. V 13/11/2020 n. 6987 che richiama Cons. Stato, IV, 15 luglio 2019, n. 4955; V, 28 febbraio 2020, n. 1451; cfr. anche Id., IV, 24 maggio 2019, n. 3419; 1 giugno 2018, n. 3309; V, 2 agosto 2018, n. 4785; III, 6 agosto 2018, n. 4833; Corte cost., 9 aprile 2019, n. 75 in ordine all'illegittimità di un sistema che differisca sic et simpliciter al giorno successivo la notifica eseguita telematicamente oltre un certo orario: si trattava in specie dell'art. 16-septies d.l. n. 179 del 2012 dichiarato incostituzionale). 15. Sempre in limine litis va vagliata l'eccezione, formulata da parte del RTI OS., secondo cui Pa., nell'ambito del giudizio di prime cure, non aveva formulato la censura relativa al mancato rispetto dei minimi salariali nell'offerta, in violazione della prescrizione dell'art. 95 comma 10 c.p.a, con conseguente inammissibilità del motivo al riguardo formulato solo in sede di appello, in violazione del divieto dei nova (di cui all'art. 104 c.p.a). 15.1. Anche tale eccezione va disattesa in quanto Pa. in prime cure, oltre a dedurre nel primo motivo di ricorso la violazione dell'art. 95 comma 10 d.lgs. 50/2016, avuto riguardo all'indicazione omnicomprensiva dei costi del personale e dei costi aziendali di sicurezza e alla modifica del costo del lavoro in sede di giustificazioni rese nel corso del subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta ha, con il terzo motivo di ricorso, censurato expressis verbis la sottostima dei costi del personale, in violazione dell'art. 97 del d.lgs. 50/2016, sia in relazione al costo del livello D che in relazione alla sottostima delle ore non lavorate rispetto a quanto prescritto dal contratto collettivo di categoria e alla ripartizione delle ore per i livelli professionali. Anche nel presente grado di appello ha lamentato, con il terzo motivo, la sottostima dei costi del lavoro richiamando la prescrizione dell'art. 95 comma 10 del Codice. Tutte le censure articolate da parte ricorrente in prime cure, in tesi di parte ricorrente, avrebbero portata escludente come palesato dalla circostanza che l'annullamento dell'aggiudicazione è stato richiesto non ai fini della ripetizione del giudizio di anomalia ma ai fini dell'aggiudicazione in suo favore. Peraltro il disposto di cui all'art. 97 del d.lgs. 50/2016 di cui parte ricorrente ha lamentato la violazione nel terzo motivo del ricorso di prime cure comporta, con riferimento ai costi del personale, l'esclusione dell'offerta, come evincibile dal comma 5 secondo cui "La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l'offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l'offerta è anormalmente bassa in quanto:... d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all'articolo 23, comma 16. Peraltro la prescrizione dell'art. 97 del Codice cui parte ricorrente ha lamentato la violazione in prime cure - la cui interpretazione, una volta dedotta la relativa violazione, con richiesta dell'esclusione dell'offerta dell'aggiudicataria, non può che competere al giudice in applicazione del principio iura novit curia, va letta in combinato disposto con il precedente art. 95 comma 10 che richiama expressis verbis l'art. 97 comma 5 lett. d), laddove prevede che "Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)". Ciò posto, l'esclusione prevista dal dall'art. 97 comma 5 lett. d) deve invero intendersi riferita all'incongruità complessiva del costo del lavoro, quale risultante all'esito delle giustificazioni prodotte nel corso del subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta - rispetto al quale il riferimento ai costi risultanti dalle tabelle ministeriali di cui all'art. 23 comma 6 del codice costituisce utile parametro di riferimento, secondo quanto di seguito specificato - laddove, per contro, il mancato rispetto dei minimi salariali inderogabili previsti dalla leggi o da fonti autorizzate dalla legge (id est dalla contrattazione collettiva) comporta ex se l'esclusione dalla procedura di gara, non essendo in relazione al mancato rispetto di detti minimi salariali ammesse le giustificazioni, come claris verbis statuito dall'art. art. 95 comma 6 del Codice secondo cui "Non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge...". Peraltro nonostante nel terzo motivo di appello parte appellante abbia fatto riferimento alla violazione dei minimi salariali retribuitivi ha in realtà censurato l'incongruenza complessiva del costo del lavoro, avendo sviluppato detta censura nel successivo motivo di appello ("Con il terzo motivo del ricorso, l'odierno appellante ha documentato che il controinteressato ha fortemente sottostimato il costo della manodopera, così come si illustrerà con il successivo motivo di appello"), ove si fa riferimento tra l'altro alla sottostima del costo del lavoro per il personale di categoria D, quanto agli scatti di anzianità e alla rivalutazione del TFR nonché alla sottostima del costo del lavoro avuto riguardo allo scostamento rispetto ai dati risultanti dalle tabelle ministeriali e dalla contrattazione collettiva quanto alle ore non lavorate. 16. Ciò posto in linea generale deve condividersi la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo la quale il procedimento di verifica dell'anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto; pertanto la relativa valutazione di congruità ha natura globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo (tra tante, III, 29 gennaio 2019, n. 726; V, 23 gennaio 2018, n. 430; 30 ottobre 2017, n. 4978) e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato renda palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta (ex multis, Cons. Stato, V, 17 maggio 2018 n. 2953; 24 agosto 2018 n. 5047; III, 18 settembre 2018 n. 5444; V, 23 gennaio 2018, n. 230). 16.1. Peraltro, avendo parte appellante denunciato con i motivi del ricorso di prime cure, sorretti anche da perizia di parte, la non sostenibilità dell'offerta della controinteressata e la sua incongruità avuto riguardo in particolare ai costi del personale, la cui portata ha una primaria rilevanza, tanto da rendere necessaria una verifica anche laddove non ricorrano i presupposti per l'esperimento del subprocedimento di anomalia dell'offerta, secondo il chiaro dato testuale dell'art. 95 comma 10 del codice, la Sezione, al fine di valutare la ragionevolezza dell'operato della stazione appaltante, ha ritenuto necessario l'esperimento di una verificazione, avendo il giudice di prime cure sposato le conclusioni riportate nella perizia della controinteressata, senza specificatamente prendere posizione sui contrapposti rilievi evidenziati da parte ricorrente supportati del pari da una perizia di parte. 16.1.1. Ed invero la verifica dei costi del personale, che non può che essere riferita alle singole voci che lo compongono, nelle procedure di appalto relative all'affidamenti di servizi come nella specie labour intensive, deve essere particolarmente scrupolosa potendo la sottostima comportare l'erosione completa dell'utile dell'impresa in quanto non adeguatamente compensabile con il risparmio su altri costi. 16.1.2. Ciò in disparte della considerazione che nell'ambito del subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, al di là dell'inammissibilità delle giustificazioni sui trattamenti salariali minimi, quale prescritta dall'art. 97 comma 6 del Codice, non è comunque consentito modificare il costo del lavoro indicato in sede di offerta, la cui indicazione separata, prescritta a pena di esclusione dall'art. 95 comma del Codice, è volta al precipuo scopo della verifica del rispetto delle condizioni di lavoro, oltre che della serietà e sostenibilità dell'offerta per cui deve condividersi sul punto l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale solo ragionevoli, giustificate e proporzionate modificazioni e rimodulazioni possono interessare anche la struttura dei costi per il personale (Cons. Stato Sez. III, Sent19-10-2021, n. 7036). Ciò in quanto l'art. 95, comma 10, D.Lgs. n. 50 del 2016, pone a carico di ogni operatore economico l'onere di indicare espressamente nell'offerta economica "i propri costi della manodopera", anche al fine di consentire lo svolgimento del successivo subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta previsto dal successivo art. 97. La norma prevede, infatti, come innanzi precisato, che la stazione appaltante, "relativamente ai costi della manodopera", proceda, prima dell'aggiudicazione, a "verificare il rispetto di quanto previsto all'art. 97, comma 5, lettera d)", ossia che "il costo del personale" non sia inferiore, salvo idonee salvo idonee spiegazioni, ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle ministeriale ai sensi dell'art. 23, comma 16. Come evidenziato dalla giurisprudenza (ex multis Cons. Stato Sez. III, 19-10-2021, n. 7036 cit.) "la disposizione dell'art. 95, comma 10, del Codice dei contratti pubblici, laddove impone di indicare "i propri costi della manodopera" nell'offerta economica, fissa un obbligo dichiarativo a pena di esclusione che riguarda il singolo "operatore" ed ha ad oggetto i "propri" costi della manodopera, ossia i costi da sostenersi effettivamente da quest'ultimo per garantire l'esecuzione dell'appalto. Le uniche deroghe a tale obbligo sono quelle previste dalla stessa disposizione (forniture senza posa in opera, servizi di natura intellettuale, affidamenti ai sensi dell'art. 36, comma 2, lett. a". La portata escludente dell'inosservanza dell'obbligo in parola da parte del singolo operatore economico, fissato dalla richiamata disposizione nazionale, è stata del resto ritenuta conforme ai principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza - quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE - dalla sentenza della Corte di Giustizia, sez. IX, 2 maggio 2019, in causa C-309/18. Ha affermato il Giudice eurounitario che i predetti principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un'offerta economica presentata nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto, sempreché tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione. In applicazione dei suindicati postulati anche sul versante interno non residuano dubbi sulla piena predicabilità dell'automatismo espulsivo correlato al mancato scorporo nell'offerta economica dei costi inerenti alla manodopera e ciò a prescindere da una espressa previsione, in tal senso, della lex specialis di gara (Cons. Stato, A.P., 2 aprile 2020, nn. 7 e 8; id., sez. V, 8 gennaio 2021, n. 283; id. 10 febbraio 2020, n. 1008; id. 24 gennaio 2020, n. 604). La ratio dell'obbligo dell'indicazione separata dei costi della manodopera è esplicitata nell'ultimo periodo dello stesso art. 95, comma 10, secondo il quale "le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto dall'art. 97, comma 5, lett. d)", vale a dire il rispetto dei minimi salariali retributivi del personale indicati nelle tabelle di cui all'art. 23, comma 16. Si tratta, all'evidenza, della finalità di tutela delle condizioni dei lavoratori cui si accompagna, a determinate condizioni, la finalità di consentire alla stazione appaltante la verifica della serietà dell'offerta economica, in particolare, in presenza di offerte anormalmente basse. La gravità della conseguenza giuridica dell'espulsione dalla gara segnala, sul piano sostanziale, la rilevanza dei beni giuridici tutelati attraverso l'imposizione della prescrizione normativa, che intende garantire la tutela del lavoro sia sotto il profilo della applicazione dei contratti collettivi (e, quindi, della tutela della retribuzione dei lavoratori secondo l'art. 36 Cost.), sia sotto il profilo della salute e della sicurezza dei lavoratori (art. 32 Cost., ma anche secondo e terzo comma dell'art. 36 Cost., in cui si fissano la durata massima della giornata lavorativa ed il diritto al riposo settimanale nonché alle ferie annuali, che individuano altrettante condizioni necessarie e rilevanti anche per la tutela della salute dei lavoratori). L'indicazione del costo della manodopera (così come degli oneri per la sicurezza aziendale) svolge, in realtà, una duplice funzione: non solo ai fini dell'eventuale giudizio di anomalia (che ha come unico scopo la verifica della congruità dell'importo indicato dall'offerente come costo del personale, da effettuare ai sensi dell'art. 97, comma 5, lett. d), del Codice dei contratti, e con i limiti posti dal comma 6 della medesima disposizione), ma, prima ancora, in sede di predisposizione dell'offerta economica per formulare un'offerta consapevole e completa sotto tutti i profili sopra evidenziati (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2020, n. 4140). In coerenza con tali coordinate giurisprudenziali deve pertanto ritenersi che nel corso del giudizio di anomalia, pur essendo possibili marginali rimodulazioni dei costi della manodopera, non possa per contro procedersi ad una incidente modifica di tali costi, essendo altrimenti vulnerata la ratio dell'art. 95 comma 10 del d.lgs. 50/2016. 17. Ciò posto l'appello va accolto, avuto riguardo alla fondatezza, alla luce delle risultanze della disposta verificazione del terzo, da correlarsi in realtà al quarto motivo di appello, nonché di parte del quinto motivo di appello, nei limiti di seguito precisati, di carattere assorbente in quanto relativi all'incongruità dei costi per il personale, rispetto ai quali non appare possibile una reiterazione del subprocedimento di anomalia dell'offerta, avuto riguardo all'entità dello scostamento e alla ritenuta non sostenibilità dell'offerta, nonché in ogni caso all'impossibilità di una diversa ed importante rimodulazione di tali costi. Ed invero con il terzo motivo di appello Pa. lamenta di avere documentato in prime cure che il RTI controinteressato aveva fortemente sottostimato il costo della manodopera, per cui lo stesso doveva essere escluso, in applicazione del disposto dell'art. 95 comma 10 D.LGS. 50/2016. Detta censura viene poi ulteriormente svolta nel quarto motivo di appello con cui si lamenta, che contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il costo del lavoro indicato nell'offerta del RTI aggiudicatario doveva intendersi gravemente sottostimata, essendo stato calcolato erroneamente il costo del livello D1, quanto agli scatti di anzianità e quanto alla rivalutazione del TFR ed essendo stato ridotto il costo della manodopera quanto alle ore non lavorate per singolo operatore, indicate in maniera sensibilmente inferiore a quelle indicate dalla tabella ministeriale e, soprattutto, in aperta violazione del CCNL di ctg. L'appellante al riguardo assume che la riduzione delle ore non lavorate (con conseguente abbassamento del costo orario della manodopera) era stata operata intervenendo su tre voci: (i) la sottostima delle ore di assenza per fruizione di malattie, gravidanza e infortuni, che OS. aveva indicato in 63 annue, contro le 120 della tabella ministeriale; (ii) la sottostima delle ore di festività e festività soppresse per i lavoratori non turnisti, che OS. aveva indicato in 51 rispetto alle 108 previste dalla tabella ministeriale e dagli artt. 59 e 60 del CCNL; (iii) la sottostima delle ore riservate alle assemblee sindacali, che OS. aveva indicato in 6 ore contro le 12 previste dall'art. 20 del CCNL e contemplate nella tabella ministeriale. Quanto alla sottostima delle ore di assenza per fruizione di malattie, gravidanza e infortuni, il controinteressato, in tesi di parte appellante, si sarebbe limitato a vantare apoditticamente il tasso di assenteismo storico aziendale (cfr. relazione di congruità dell'offerta, p. 2), senza fornire di ciò alcuna prova, neanche in sede giudiziale, disattendendo il pacifico insegnamento giurisprudenziale. Inoltre, in palese contrasto con il CCNL, aveva proceduto alla riduzione delle ore non lavorate per festività e festività soppresse e delle ore per partecipazione alle assemblee, senza addure alcuna giustificazione nel subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta. Secondo l'appellante la sottostima del costo della manodopera per la sola violazione delle indicate norme del CCNL sarebbe pari a Euro 198.200,20. Con il quinto motivo di appello deduce l'incapienza dell'offerta avuto riguardo anche ad altre voci di costo (fra cui il costo per l'offerta migliorativa ed il costo per il coordinatore generale) 17.1. Le doglianze formulate al riguardo da parte appellante sono fondate nel senso di seguito specificato, alla luce delle risultanze della disposta verificazione. 17.2. Come acclarato dal verificatore dalla documentazione relativa alla procedura di gara, in particolare dal CSA, articolo 9, comma 5, risulta che l'aggiudicataria è obbligata ad assicurare ai lavoratori, destinati all'esecuzione dei servizi oggetto di affidamento "(...) condizioni contrattuali, normative e retributive non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi nazionali di lavoro e dagli accordi integrativi territoriali sottoscritti dalle organizzazioni imprenditoriali e dei lavoratori maggiormente rappresentative e riconoscerà al personale le maggiorazioni per turnazione e gli altri istituti contrattuali previsti dal C.C.N.L. di categoria, da intendersi ricompresi nella tariffa oraria offerta per il presente appalto". 17.2.1. Nel caso di specie, con riferimento al personale dipendente del RTI O.S., destinato all'esecuzione dell'appalto in favore del Comune di Frosinone, è applicato il CCNL Cooperative sociali 2019, che regola i rapporti di lavoro per le lavoratrici e i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario-assistenziale educativo e di inserimento lavorativo. Tale contratto collettivo, all'articolo 47, relativo all'inquadramento del personale, disciplina la classificazione professionale, articolata in 6 livelli, in ordine decrescente in termini di responsabilità, dall'Area/categoria "F" alla "A", con le rispettive posizioni economiche. In particolare - tenuto conto delle figure professionali prevalentemente richieste dal Capitolato Speciale d'Appalto - ai sensi del richiamato CCNL è previsto che siano inquadrati nell'Area/categoria "C" (Lavoro specializzato, servizi qualificati alla persona in ambito socio-assistenziale, socio-sanitario) i lavoratori "(...) che ricoprono posizioni di lavoro che richiedono capacità manuali e tecniche specifiche riferite alle proprie specializzazioni professionali, conoscenze teoriche e/o specialistiche di base, competenze professionali, capacità e conoscenze idonee al coordinamento e controllo di altri operatori di minore contenuto professionale. L'autonomia e la conseguente responsabilità sono riferite a metodologie definite e a precisi ambiti di intervento operativo nonché nell'attuazione di programmi di lavoro, delle attività direttamente svolte e delle istruzioni emanate nell'attività di coordinamento"; mentre nell'Area/categoria "D" (Lavoro specializzato, professioni sanitarie, servizi di istruzione/formazione e di inserimento lavorativo, servizi socio-educativi, sociosanitari) sono inquadrati i lavoratori in possesso di "(...) conoscenze professionali teoriche specialistiche di base, capacità tecniche elevate per l'espletamento delle attribuzioni, autonomia e responsabilità secondo metodologie definite e precisi ambiti di intervento operativo proprio del profilo, eventuale coordinamento e controllo di altri operatori, con assunzione di responsabilità dei risultati conseguiti. Concorrono alla definizione delle mansioni loro affidate ed alla organizzazione del lavoro proprio e dell'eventuale altro personale coordinato e controllato". Inoltre, con particolare riferimento al costo del lavoro, giova evidenziare che il CCNL applicato fa riferimento alle retribuzioni aggiornate in base all'aumento previsto a decorrere dal 1° novembre 2019 e tiene conto delle tabelle del Ministero del Lavoro per la determinazione del costo medio orario del lavoro. 17.2.2. Ai fini della determinazione della paga oraria lorda si applica l'articolo 75 del CCNL, che individua come elementi essenziali che concorrono a formare la retribuzione globale del lavoratore: 1) il minimo contrattuale conglobato; 2) gli scatti d'anzianità ; 3) ulteriori elementi retributivi corrisposti a vario titolo al personale (inclusi i trattamenti premiali). Nell'articolo 4 del CSA si prevede che "L'importo complessivo a base di gara per tutta la durata del contratto è di max Euro 4.508.720,21, netto IVA all'aliquota vigente. (...) Il predetto importo complessivo, alla tariffa oraria a base di gara stimata in Euro 20,49 (esclusa IVA all'aliquota vigente), produce un monte ore complessivo in appalto di max 220.044,91 ore da ripartire sui singoli servizi secondo quanto specificamente indicato in ciascun allegato tecnico.". Inoltre, il successivo articolo 8 del citato CSA stabilisce che "l'aggiudicatario per la realizzazione delle attività di cui al presente appalto dovrà impiegare complessivamente minimo n. 191 operatori con le qualifiche professionali richieste", assicurando in via prioritaria la prosecuzione del rapporto di lavoro del personale attualmente in servizio, nel rispetto della clausola sociale di cui all'articolo 50 del d.lgs. n. 50/2017. Negli allegati tecnici - organizzativi del CSA sono ulteriormente dettagliati la dotazione del personale necessario, i profili professionali richiesti ed il monte ore destinati a ciascuno dei servizi oggetto dell'affidamento. 17.3. Come innanzi precisato l'art. 97 comma 5 lett. d) del d.lgs. 50/2016 prevede che "La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l'offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l'offerta è anormalmente bassa in quanto:... d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all'articolo 23, comma 16". Il richiamato art. 23 comma 16 a sua volta statuisce che "(...) il costo del lavoro è determinato annualmente, in apposite tabelle, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali.". Ai fini della individuazione del costo del lavoro, occorre peraltro prendere in considerazione sia gli elementi diretti che indiretti. In particolare: a) gli elementi diretti sono quegli elementi retributivi determinati sulla base delle disposizioni contrattuali e i relativi oneri aggiuntivi, sempre derivanti dal contratto; b) gli elementi indiretti corrispondono agli oneri derivanti dalle disposizioni di legge in materia previdenziale e fiscale ed alle ore mediamente non lavorate per le diverse fattispecie istituzionalmente previste. In proposito, giova precisare che nelle ore mediamente non lavorate (elementi indiretti), rientrano sia quelle previste dal contratto, in misura fissa (ferie), o comunque individuabili anno per anno (festività, festività soppresse), sia quelle suscettibili di variazione da lavoratore a lavoratore (assemblee, permessi sindacali, diritto allo studio, formazione professionale, malattia, gravidanza e infortunio). La quantificazione di tali ultimi elementi variabili, come riportata nelle tabelle ministeriali, è concordata con le Parti sociali sottoscrittrici del CCNL di riferimento e stimata sulla base dei dati medi rilevati nel settore. 17.4. Le indicazioni contenute nelle tabelle ministeriali del costo del lavoro sono pertanto volte a fornire all'operatore economico un parametro del costo del lavoro che tiene conto di valori oggettivi e verificabili (elementi diretti) previsti nella parte economica dei rispettivi contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti, nonché di elementi, condivisi con le organizzazioni sindacali firmatarie, ricavati da statistiche ufficiali e/o stime riconducibili allo specifico settore merceologico oggetto di analisi (elementi indiretti). La stima dei costi illustrata nelle predette tabelle si riferisce, oltre alle retribuzioni effettivamente corrisposte ai lavoratori, anche agli ulteriori oneri a carico del datore di lavoro previsti dalla normativa fiscale e previdenziale vigente e dal CCNL di riferimento, e soprattutto al costo implicito dovuto alle assenze a qualsiasi titolo dal lavoro. I valori così determinati esprimono pertanto una valutazione media e sono suscettibili, in fase di presentazione dell'offerta in un appalto pubblico, di oscillazione in relazione a specifici e presumibilmente più favorevoli oneri per l'azienda partecipante rispetto a quelli medi, ferma restando la condizione che l'eventuale esposizione di costi più bassi deve essere accompagnata da idonea e documentata giustificazione da parte dell'operatore economico partecipante alla procedura evidenziale. 17.5. Secondo gli approdi giurisprudenziali sono da considerare pertanto anormalmente basse le offerte che si discostino in modo "evidente" dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del lavoro, atteso che questi ultimi non costituiscono parametri inderogabili ma unicamente indici del giudizio di adeguatezza: di conseguenza, è ammissibile l'offerta che da essi si discosti, purché il divario non sia eccessivo. In particolare, le tabelle assolvono a una funzione di parametro di riferimento del quale è certamente possibile discostarsi, ma in sede di giustificazioni dell'anomalia è richiesta una dimostrazione puntuale e rigorosa, tanto più se si considera che il dato delle ore annue mediamente lavorate dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità ) che non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che quindi necessitano, per definizione, di stima di carattere prudenziale. Quindi, lo scostamento dai minimi tabellari è rivelatore di inattendibilità e anti-economicità se sia consistente e rilevante, riscontrandosi una divergenza quantitativamente significativa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V - 20/2/2017 n. 756 che richiama sez. IV - 23/7/2013 n. 4206; in senso ana Consiglio di Stato, sez. IV - 29/2/2016 n. 854). Per consolidata giurisprudenza dunque, poiché le tabelle di determinazione del costo del lavoro rappresentano "indici di giudizio di adeguatezza dell'offerta, è ammissibile che da esse l'offerta si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva" (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1743/2015). Infatti le tabelle ministeriali stabiliscono il costo medio orario del lavoro, mentre la previsione d'inderogabilità di cui all'articolo 97, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 si riferisce solo al trattamento minimo salariale stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva. In considerazione dei precedenti rilievi eventuali scostamenti che risultino significativi rispetto al valore indicato nelle tabelle ministeriali devono essere dettagliatamente giustificati e documentati, e comunque eventuali riduzioni del costo del lavoro non potrebbero mai portare al di sotto dei valori minimi di trattamento salariale, come tali insopprimibili in quanto inderogabili e non soggetti a variazioni in peius. 17.6. Lo scostamento dalle tabelle ministeriali può pertanto determinare sull'ammissibilità dell'offerta effetti diversi: 1) qualora l'offerta violi la disciplina inderogabile sui minimi retributivi, la stazione appaltante (previo contraddittorio) non può ammettere giustificazioni e procede alla sua esclusione; 2) quando l'offerta si discosti dai valori del costo medio del lavoro fissati nelle tabelle ministeriali, la Stazione Appaltante deve avviare il procedimento di verifica, chiedendo all'impresa offerente le giustificazioni necessarie a livello documentale, e solo all'esito della valutazione (negativa) di tali giustificazioni la stazione procedente può escludere l'offerta. 17.7. Ciò posto, il verificatore ha posto a base del suo accertamento, onde rispondere ai quesiti demandatigli, le tabelle del costo medio orario per "le lavoratrici e i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario assistenziale-educativo e di inserimento lavorativo" - decorrenza settembre 2020 - elaborate dallo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Direzione Generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali, adottate con decreto direttoriale del 17 febbraio 2020, n. 7, nell'ambito delle competenze della medesima Direzione, pervenendo alla conclusione della sottostima del costo per il personale operato dall'aggiudicataria e della non sostenibilità dell'offerta. 17.8 Il RTI O.S., ai fini della determinazione del reale costo orario, ha infatti indicato nella propria offerta economica le seguenti giustificazioni sulle voci di costo che si differenziano rispetto alle voci tabellari: 1) la riduzione della percentuale di incidenza delle aliquote INPS ed INAIL. In particolare, per l'INPS l'aliquota attualmente a carico della Cooperativa OS. è pari al 26,35%, mentre la stessa dichiara un tasso di premio INAIL nella misura del 9,6% che però risulta effettivamente applicato, come da tabelle dalla stessa fornite, nella percentuale del 2.2% (cfr. giustificativi forniti dal RTI in data 27 gennaio 2021); 2) l'azzeramento del costo per la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (TFR), non sopportato dall'azienda per il fatto che il 96% degli attuali lavoratori della Cooperativa OS. impiegati nei servizi oggetto dell'appalto hanno espresso la propria intenzione di lasciare il TFR presso la Cooperativa che mensilmente è obbligata a versarlo presso il Fondo Tesoreria INPS. Inoltre, il contratto d'appalto ha la durata di un anno e, pertanto, il TFR maturato nell'anno non è soggetto a rivalutazione, in quanto essa è dovuta soltanto a decorrere dal secondo anno del rapporto sul TFR maturato nell'anno precedente; 3) l'inserimento della voce "altre indennità " per i profili C3/ D1, in quanto 15 dipendenti per i quali è prevista una voce di costo aggiuntiva usufruiscono di tale indennità per lo svolgimento della loro attività durante la turnistica h 24; 4) la determinazione delle ore annue mediamente lavorate sulla base del più vantaggioso parametro della propria realtà aziendale, che porta tali ore a 1.668 per ciascun dipendente fulltime e a 1.611 per i turnisti (a fronte del dato tabellare ministeriale pari a 1.548), con conseguente riduzione del numero di ore per permessi sindacali, per malattia ed altri istituti. In particolare, per i lavoratori turnisti vengono ridotte anche le festività e le festività soppresse a 51 giornate, rispetto alle 108 giornate previste dalle tabelle ministeriali. 17.9. Ciò posto, aderendo sul punto alle conclusioni cui è giunto il verificatore, in coerenza con la giurisprudenza innanzi citata relativa alla necessità che gli scostamenti dalle tabelle ministeriali siano corredati da comprovata giustificazione e non siano eccessivi, si possono ritenere condivisibili, aderendo alle conclusioni cui è pervenuto il verificatore, quanto alle giustificazioni addotte nel corso del subprocedimento di verifica dell'anomalia: - le aliquote INPS e INAIL effettivamente applicate (26,35% per l'INPS e 2,2% per l'INAIL), in quanto valori oggettivi; - la retribuzione aggiuntiva di cui alle voci "Altre indennità " ed "Indennità di turno" unicamente ai 15 lavoratori C3/D1 che si avvicendano in attività h /24; - la possibilità di escludere la rivalutazione del trattamento del TFR e la quota a carico dell'azienda per la previdenza complementare. 17.9.1. Deve ritenersi per contro non giustificata la rimodulazione delle ore effettivamente lavorate dovuta alla riduzione delle assenze (es. malattie e permessi vari) e la contrazione a 51 ore, riservate ai soli lavoratori turnisti, per assenze dovute a festività e festività soppresse. Infatti nel caso in cui esigenze di servizio impongano l'attività lavorativa in tali giornate queste dovrebbero essere recuperate nell'arco della settimana, come peraltro stabilito dal CCNL di categoria all'articolo 51. Sul punto, come accertato dal verificatore, le ore lavorate vengono ampiamente e impropriamente sovrastimate nell'offerta del RTI O.S., passando da 1.548 a 1.668 (nello specifico 1.611 per i lavoratori turnisti). Né si può condividere l'argomentazione addotta dal medesimo RTI il quale, a conforto della propria stima, fa riferimento a statistiche aziendali pluriennali riguardanti le assenze riscontrate per il personale in forza all'azienda, in quanto non supportate da idonea documentazione. Ed invero, secondo la giurisprudenza eventuali scostamenti nella stima delle ore medie di assenza dai dati di cui alle tabelle ministeriali possono essere sì correlate a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori, ma l'impresa deve comunque rigorosamente dimostrare l'attendibilità delle diverse previsioni svolte, sulla base della sua effettiva pregressa esperienza aziendale nel settore, tenuto conto che, poiché il dato delle ore annue mediamente lavorate dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità ) che non rientrano nella disponibilità dell'impresa, esso necessita di una stima prudenziale, che non può essere rimessa a mere dichiarazioni provenienti dalla società interessata (Cons. Stato Sez. V, 03-05-2021, n. 3473; Cons. Stato, Sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8544; Cons. Stato, Sez. V, 2020, n. 7544, cit.; Cons. Stato, Sez. V, 30 ottobre 2019, n. 741; Cons. Stato, Sez. III, 18 settembre 2018, n. 5444; Cons. Stato, V, 20 febbraio 2017, n. 756; Cons. Stato, Sez. V, 9 aprile 2015, n. 1813). 17.10 Ciò posto, il verificatore ha provveduto a redigere apposite tabelle per la verifica di congruità del costo del lavoro indicato nell'offerta del RTI OS., evidenziando in particolare, nelle tabelle da 1 a 6 gli adattamenti "ammissibili" delle tabelle ufficiali alle voci di costo del personale del RTI, che tengano conto, secondo le indicazioni del capitolato d'appalto, anche delle diverse anzianità di servizio del personale impegnato e da riassumere obbligatoriamente per cambio di gestione, come nel caso di specie e riportando nelle Tabelle 7, 8 e 9 il costo orario medio secondo le tre varabili del livello professionale, delle unità del personale impiegato e dell'anzianità di servizio. 17.11. Alla stregua delle risultanze della verificazione, l'offerta del RTI OS. deve pertanto considerarsi anormalmente bassa, avuto in particolare riguardo al costo del lavoro. Ed invero, sulla base di una scrupolosa ricostruzione dell'offerta e delle previsioni della lex specialis di gara ed in linea con la giurisprudenza innanzi indicata circa l'ammissibilità di scostamenti dalle tabelle ministeriali con riferimento alle ore non lavorate, il verificatore è giunto alle conclusioni di incongruità della quantificazione del costo del lavoro e di non sostenibilità dell'offerta, che risulterebbe in perdita. 17.11.1. In particolare, nel rispondere al quesito "a) accertare, alla luce della documentazione versata in atti di gara e nel successivo procedimento di verifica di anomalia, nonché alla luce delle contrapposte perizie giurate prodotte dalle parti nel giudizio di primo grado, se l'offerta dell'aggiudicataria sia nel complesso congrua, sostenibile e realizzabile, avuto anche riguardo a quanto previsto dall'art. 97 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 ha concluso che "All'esito delle verifiche effettuate dalla Direzione Generale, sia in termini di esame documentale che di analisi tecnica di ogni elemento di valutazione relativo all'offerta del RTI O.S., l'attività di verificazione ha evidenziato che il costo orario per il personale è stimato in euro 17,97. Tale valore risulta superiore di euro 0,82 a quello applicato dal RTI pari ad euro 17,15 - risultato dividendo il costo totale offerto per il personale pari ad euro 3.773.770,21 per il numero di ore previste dall'appalto pari a 220.044,91. Applicando il predetto valore differenziale risulterebbero conseguentemente a carico del RTI O.S. maggiori oneri per complessivi euro 181.141,82 (220.044,91 x 0,8232), che risulterebbero eccedenti rispetto all'utile dichiarato per euro 9.224,16. 17.11.2. Nel rispondere al quesito "b) verificare la congruità del costo del personale del livello D1, quantificando anche l'eventuale discostamento, avuto in particolare riguardo al costo per gli scatti di anzianità e per l'eventuale rivalutazione del TFR" ha precisato "che la verifica è stata condotta - "per maggiore chiarezza - distinguendo i costi per il personale di livello C3/D1 in base alla corresponsione o meno delle indennità previste nell'offerta dell'aggiudicatario, e non sulla base del suo valore medio". Ha quindi concluso che "prendendo a riferimento quanto indicato dal RTI nel documento giustificativo di precisazioni dell'offerta (cfr. nota prot. UGC/41/MP/MC/2021 del 16 febbraio 2021), relativo alla "Tabella di assegnazione quote ore medie annue per profili professionali previsti nel CGA e relativi costi medi annui", si è proceduto a predisporre il prospetto che segue nella Tabella 10 con la necessaria riparametrazione. Secondo tale ricostruzione si ritiene che l'aggiudicatario RTI abbia sottostimato l'onere per il livello D1 per un importo pari ad euro 53.029,38." 17.11.3. La Direzione Generale incaricata della verificazione, nel rispondere al quesito sub d) "quantificare il costo del lavoro del Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona per l'impiego minimo previsto dal C.C.N.L." ha precisato che "il Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona è una figura professionale, in base all'articolo 10 del CSA, dotata di un adeguato livello professionale e di "competenza in materia contabile e di personale". Il suo ruolo, assegnato ad una personalità all'interno dell'organico del RTI, riveste, peraltro, una particolare responsabilità, tenuto anche conto che, in funzione dei compiti ad esso spettanti, la stazione appaltante è in grado di verificare la qualità del servizio erogato. Sulla base di tali presupposti, si ritiene di assegnare a tale figura il costo massimo previsto nelle elaborazioni già effettuate e riportate nella precedente Tabella 6, corrispondente ad un livello E2 con 5 scatti di anzianità, pari ad un costo orario di euro 23,77/ora. Ritenendo ammissibile il monte orario di 25 ore/mese, presentato dal RTI ed accettato in sede di verifica dalla stazione appaltante, si può ritenere che la spesa annuale per l'impiego minimo previsto dal CCNL ammonterebbe ad euro 7.130,62, con un differenziale in aggravio di euro 608,62 rispetto a quanto stimato dal RTI". 17.11.4. Il verificatore nel rispondere al quesito sub e) "verificare la congruità del costo del lavoro in relazione alle ore non lavorate ed il loro discostamento da quanto previsto dal C.C.N.L. e dalle tabelle ministeriali, in particolare con riferimento alle festività e festività soppresse e alle ore per la partecipazione ad assemblee sindacali, quantificando il costo differenziale", il verificatore ha precisato che "le ore mediamente non lavorate si riferiscono in parte alle ferie contrattualmente previste in misura fissa ed alle festività /festività soppresse individuabili annualmente, ed in parte ad ore variabili per ciascun lavoratore, in funzione della fruizione dei corrispondenti istituti, quali ad esempio la malattia, la gravidanza, l'infortunio, la partecipazione ad assemblee, i permessi sindacali, il diritto allo studio e la formazione professionale. La quantificazione delle ore corrispondenti a tali istituti, suscettibili di variazione in base all'effettiva fruizione, è rimessa alle previsioni contrattuali di riferimento ed è stimata sulla base dei dati medi rilevati nel settore. Sul punto si ribadiscono le osservazioni precedentemente esposte riguardanti l'inammissibilità di quelle giustificazioni presentate riguardo alle assenze, che siano suffragate unicamente da realtà aziendali difficilmente verificabili e documentabili e che vadano ad alterare la quantificazione delle ore effettivamente lavorate con la riduzione delle assenze del personale. Ad avviso di questo Ufficio, riduzioni anche minime delle ore di assenza possono comportare significative ed inappropriate riduzioni del costo orario, i cui valori sono stabiliti nelle tabelle ministeriali redatte sulla base di stime valoriali e condivise con le Parti sociali del settore merceologico di riferimento. In altre parole, la quantificazione delle ore non lavorate ha una sua incidenza nella corrispondente determinazione delle ore mediamente lavorate - calcolate detraendo dalle ore contrattuali le predette ore annue non lavorate, - e in definitiva sulla determinazione tabellare del costo medio orario. Nel caso di specie le ore mediamente lavorate, pari a 1.548 sono determinate detraendo dalle ore contrattuali pari a 1.976 le ore annue non lavorate pari a n. 428 (si veda la tabella lett. B di cui al paragrafo 4). Da quanto rappresentato consegue che il costo del lavoro in relazione alle ore non lavorate indicato nell'offerta del RTI O.S. non può ritenersi sostenibile. Si riporta nella sottostante Tabella 12 il dettaglio del costo totale del personale, che secondo i parametri ufficiali non può, ad avviso della scrivente Direzione Generale, essere inferiore ad euro 3.954.912,03. Pertanto, rispetto al valore predetto, il costo indicato nell'offerta del RTI, pari ad euro 3.773.770,21 presenta uno scostamento differenziale di euro 181.141,82". 17.11.5. La Direzione generale incaricata della verificazione con riferimento al quesito sub f) "verificare la congruità del costo relativo alle offerte migliorative, con particolare riferimento alle ore aggiuntive di lavoro rispetto a quelle indicate nella lex specialis di gara" ha precisato che "Le offerte migliorative sono definite nell'articolo 6, lett. A4) "Arricchimento dell'offerta" del CSA: "le proposte relative ad ulteriori attività, interventi, iniziative e risorse umane, finalizzate a migliorare la qualità e la quantità delle prestazioni previste dal Capitolato, da rendersi senza alcun onere aggiuntivo per la stazione appaltante". Nel caso di specie, il RTI O.S. ha quantificato nella propria offerta ulteriori 550 ore per servizi aggiuntivi forniti da personale con la qualifica di assistente sociale (livello D2). A riguardo l'aggiudicatario ha affermato - senza ulteriori specificazioni di dettaglio - di eseguire tale servizio avvalendosi di personale assunto a tempo determinato per l'anno di durata dell'appalto, al fine di poter beneficiare "(...) delle agevolazioni previste dalla regolamentazione della Regione Lazio per le Politiche Attive del Lavoro." Alla luce di tale impostazione, si ritiene di dover applicare il valore di euro 19,08/ora, come indicato nella Tabella 1, previsto per un lavoratore inquadrato al livello D2 senza anzianità e comprensivo di Irap in quanto riferito ad un lavoratore non a tempo indeterminato, cui corrisponde un importo del servizio pari ad euro 10.493,03. Ha dunque concluso che "l'importo del servizio quantificato dall'aggiudicatario in euro 17,82/ora e determinato in complessivi euro 9.800,00 (onere aggiuntivo + euro 693,06), risulta di poco inferiore rispetto a quello dichiarato dal RTI O.S." 17.11.6. Nel rispondere al quesito sub g) verificare l'eventuale impatto degli acclaramenti di cui alle precedenti lettere b), c) e d) e) f) sull'utile risultante dall'offerta il verificatore ha concluso che "Sulla base degli assunti a cui è pervenuta la scrivente Direzione Generale in ordine ai quesiti di cui alle lettere b) sul costo del personale di livello D1, c) sulle ore assegnate al livello D2, d) sul costo del lavoro del Coordinatore Generale dei Servizi alla Persona, e) sul costo del lavoro in relazione alle ore non lavorate, f) sul costo relativo alle offerte migliorative, si è proceduto a predisporre, nella Tabella 13 di seguito riportata, un prospetto riepilogativo dell'offerta del RTI O.S. opportunamente integrata e riformulata tenuto conto anche delle considerazioni già esposte in relazione al quesito di cui alla lett. a), in base alle quali l'offerta così come presentata dall'aggiudicataria difficilmente potrebbe risultare sostenibile, si osserva che i valori sopra indicati evidenziano che la medesima offerta risulterebbe in perdita per un importo pari ad euro 17.047,84". Vi è peraltro da evidenziare che la tabella conclusiva risulta affetta da errore materiale in quanto nell'indicare il costo riferito al coordinatore generale indica l'importo stimato pari ad euro 7130,62, senza considerare l'importo che, nel rispondere al quesito sub d), il verificatore aveva appurato come indicato in sede di offerta, per un differenziale in aggravio di euro 608,62. Nondimeno, pur volendo procedere alla correzione di siffatto errore materiale, l'offerta risulterebbe comunque in perdita per l'ammontare euro 10.525,84. 18. Le risultanze della verificazione, ferma questa correzione, sono ampiamente condivisibili in quanto eseguite sulla base di un'attenta disamina degli atti di gara e nel rispetto degli indispensabili requisiti di prudenza e ragionevolezza e, correlativamente, salvaguardando con la maggiore elasticità possibile le stime dell'impresa aggiudicataria. In tal senso il verificatore ha ritenuto opportuno, da un lato, assicurare il riconoscimento di quelle voci di costo da considerare ascrivibili alla capacità organizzativa aziendale, come anche di azzerare, in quanto ammissibili, gli oneri relativi alla rivalutazione del TFR ed alla previdenza complementare; dall'altro, procedendo peraltro alle necessarie rimodulazione delle valutazioni del RTI relative alle voci di costo del personale e delle ore effettivamente lavorate risultate superiori a quelle determinate a livello contrattuale e normativo a tutela dei diritti dei lavoratori. 18.1. Il verificatore peraltro nella relazione depositata ha provveduto anche a controdedurre in maniera sintetica ma esaustiva, alle deduzioni dei periti di parte. 18.2. In particolare, quanto all'osservazione avanzata dal Comune di Frosinone secondo cui la tabella B) riferita alle ore lavorate nell'anno, l'orario settimanale da applicare a base di calcolo ai fini della determinazione delle ore annue lavorabili e del conseguente costo complessivo della manodopera, doveva essere di 40 ore, e non di 38, ha correttamente osservato che "Sul punto appare opportuno richiamare quanto espressamente stabilito dall'articolo 51 del CCNL Cooperative sociali, secondo il quale "L'orario settimanale ordinario di lavoro è stabilito in 38 ore settimanali". Pertanto, la base di calcolo per la determinazione delle ore lavorate nell'anno, di cui alla tabella B del paragrafo 4, non può che essere quello contrattuale, al quale fanno riferimento anche le tabelle ministeriali concordate e condivise dalle Parti sociali del settore merceologico di riferimento". 19. Alla stregua delle condivisibili conclusione cui è giunto il verificatore l'offerta del RTI aggiudicatario andava esclusa in quanto anormalmente bassa. 19.1. Infatti interessando l'incongruità accertata dal verificatore il costo del lavoro ed avendo il verificatore accertato un discostamento rilevante e non giustificato dei valori indicati dalle tabelle ministeriali - non compensabile peraltro neppure con la compressione con ulteriori voci di costo, avendo il verificatore accertato che l'offerta sarebbe finanche in perdita - non sarebbe stata ammissibile la riedizione del procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta. 19.2. Ciò in disparte dalla considerazione che nel corso del suddetto subprocedimento potrebbe procedersi a variazioni meramente marginali in relazione ai costi del lavoro, secondo quanto in precedenza precisato, non potendo procedersi ad una modifica sostanziale del costo del lavoro. Ed invero, come precisato dalla sentenza di questa Sezione, (Consiglio di Stato - SEZ. V n. 05455/2021) riferita proprio all'annullamento dell'aggiudicazione per incongrua determinazione del costo medio orario "Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)" - riconosce a detta voce di costo il ruolo di elemento intrinseco essenziale proprio per la valutazione di affidabilità dell'offerta (ex multis, Cons. Stato, V, 25 marzo 2021, n. 2528), di talché un radicale scostamento come quello in esame - in assenza dei presupposti del mero lapsus calami, che come già detto qui non ricorrono - non può che denotare l'oggettiva inattendibilità dell'offerta. O, per meglio dire, l'obiettiva indeterminabilità della stessa. Va dunque ribadito il consolidato principio, dal quale non vi è ragione di discostarsi, nel caso di specie, per cui in sede di giudizio di anomalia sono consentiti aggiustamenti e spostamenti di costi tra le varie componenti del prezzo, potendosi tenere conto anche di eventuali sopravvenienze (normative o di fatto), a condizione che ciò non comporti una modificazione dell'offerta stessa (ex multis, Cons. Stato, V, 24 marzo 2020, n. 2056; III, 2 marzo 2017, n. 974) In effetti, se il giudizio sull'anomalia postula un apprezzamento globale e sintetico sull'affidabilità dell'offerta nel suo complesso, tant'è che nel contraddittorio procedimentale proprio del giudizio di anomalia sono consentite compensazioni tra sottostime e sovrastime di talune voci dell'offerta economica, va da un lato ribadita la sua strutturale immodificabilità (Cons. Stato, VI, 10 novembre 2015, n. 5102), così come il divieto di una radicale modificazione della composizione dell'offerta che ne alteri l'equilibrio economico, allocando diversamente rilevanti voci di costo nella fase delle giustificazioni. Diversamente opinando, infatti, "si perverrebbe all'inaccettabile conseguenza di consentire un'indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell'offerta economica (nella fase del controllo dell'anomalia), con il solo limite del rispetto del saldo complessivo, il che si porrebbe in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della sua struttura di costi, e, segnatamente, degli interessi sottesi alla specifica individuazione degli oneri di sicurezza aziendale (...), che resterebbero in tal modo irrimediabilmente vanificati. Si finirebbe, in tal modo, per snaturare completamente la funzione e i caratteri del subprocedimento di anomalia, trasformando inammissibilmente le giustificazioni, che, nella disciplina legislativa di riferimento, servono a chiarire le ragioni della serietà e della congruità dell'offerta economica, in occasione, secundum eventum, per una sua libera rimodulazione, per mezzo di una scomposizione e di una diversa ricomposizione delle sue voci di costo (...) che implicherebbe, peraltro (oltre ad una evidente lesione delle esigenze di stabilità ed affidabilità dell'offerta), anche una violazione della par condicio tra i concorrenti" (Cons. Stato, III, 10 marzo 2016, n. 962). L'accoglimento del primo motivo di appello ha carattere decisivo ai fini della definizione del giudizio, risultando quindi assorbente degli ulteriori profili di censura dedotti in sede di gravame...". 20. L'appello va pertanto accolto, nel senso innanzi precisato, con accertamento dell'illegittimità degli atti gravati in prime cure e segnatamente del provvedimento di aggiudicazione in favore del RTI OS. e degli atti presupposti, attinenti al subprocedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, persistendo l'interesse dell'appellante a fini risarcitori, ex art. 34 comam 3 c.p.a.. 21. Pertanto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di prime cure, sia pure ai soli fini di detto accertamento. 22. Sussistono nondimeno eccezionali e gravi ragioni, avuto riguardo alla complessità delle questioni sottese che ha reso necessario il ricorso ad una complessa verificazione, per compensare integralmente fra le parti le spese di lite. 23. Le spese della disposta verificazione, da quantificarsi come in dispositivo, avuto riguardo alla nota predisposta dal Ministero per la liquidazione del compenso, da ritenersi congrua avuto riguardo ai parametri fissati dall'art. 2 - DM 182/2002 e alla complessità delle questioni demandate al verificatore, in grado di giustificare l'aumento sino al 50%, ai sensi dell'art. 52 del DPR 115/2002, vanno poste a carico del Comune di Frosinone cui deve imputarsi l'illegittimità degli atti gravati in prime cure. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in parte motiva e per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado ai fini della declaratoria dell'illegittimità degli atti gravati, avuto riguardo alla persistenza dell'interesse a fini risarcitori, ex art. 34 comma 3 c.p.a. Compensa le spese di lite fra le parti. Pone le spese della disposta verificazione, liquidate in complessivi euro 15.384,00 a carico del Comune di Frosinone. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2022 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Anna Bottiglieri - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7533 del 2020, proposto da Al. La. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato Ug. Sc., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ad. Di Ma. in Roma, via (...); contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, Guardia di Finanza Comando Generale, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione Prima, n. 163/2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze e della Guardia di Finanza Comando Generale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2023 il Cons. Ugo De Carlo e uditi per gli appellanti l'avvocato Ug. Sc. ; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Gli appellanti hanno impugnato la sentenza indicata in epigrafe che aveva respinto il ricorso per il riconoscimento del diritto alla corresponsione del compenso per le ore di straordinario prestate oltre le 36 ore d'orario settimanali e non retribuite e la condanna dell'Amministrazione alla corresponsione delle relative somme maggiorate di interessi e rivalutazione. 2. Gli appellanti, tutti militari della Guardia di Finanza, avevano chiesto il riconoscimento del diritto a vedersi corrispondere la retribuzione per le ore di servizio prestate oltre le 36 previste dall'ordinamento vigente in occasione di lavoro prestato nei giorni festivi. 3. La sentenza impugnata aveva respinto il ricorso sulla scorta di un consolidato orientamento che ritiene come, ai fini dell'individuazione della categoria delle "ore di straordinario", non deve applicarsi il criterio di calcolo su base "orizzontale" cioè settimanale ma il diverso criterio "verticale" che considera le ore lavorate in eccedenza rispetto all'orario giornaliero. Lo svolgimento di attività lavorativa in giorni festivi fa sorgere solo il diritto al riposo compensativo e non fonda una pretesa di carattere patrimoniale a titolo di compenso per lavoro straordinario. 4. L'appello si fonda su cinque motivi 4.1. Il primo eccepisce la violazione dell'art. 112 c.p.c. poiché la domanda non era tesa solo ad ottenere il pagamento dello straordinario maturato con il servizio nei giorni festivi, ma a vedersi riconoscere lo straordinario comunque maturato svolgendo ogni tipo di servizio. 4.2. Il secondo motivo contesta il mancato utilizzo da parte del primo giudice della facoltà di acquisire gli elementi di prova presso l'amministrazione in virtù del metodo acquisitivo della prova. 4.3. Il terzo censura la condanna alle spese per assenza di motivazione. 4.4. Il quarto motivo riguarda la riproposizione di motivi non esaminati in primo grado. Innanzitutto viene richiamato il diritto a percepire l'indennità di 5 euro per la prestazione di servizio festivo che viene ritenuta insufficiente a compensare la prestazione lavorativa ai sensi dell'art. 36 Cost. 5. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. 6. L'appello non è fondato. 6.1. Partendo dal quarto motivo, che è quello che ripropone la questione affrontata in primo grado, va affermato preliminarmente che non vi è alcuna ragione di sollevare una questione di costituzionalità ai sensi dell'art. 36 Cost. Coloro che si arruolano in una forza di polizia, oltretutto ad ordinamento militare, sanno che il tipo di servizio da svolgere richiederà in alcune occasioni di prestare servizio in giornate festive. Il legislatore ha stabilito che l'effettuazione del servizio in tali occasioni da diritto ad un'indennità giornaliera di 5 euro con una misura che rientra nella sua discrezionalità normativa che non è stata esercitata in modo palesemente irragionevole tanto da essere in contrasto con i parametri costituzionali che vengono indicati in casi del genere. Non bisogna dimenticare che la retribuzione delle forze di polizia è mediamente più elevata rispetto a coloro che svolgono compiti amministrativi e che sono equiparabili come inquadramento giuridico, proprio perché lo svolgimento delle funzioni di polizia presenta maggiori disagi rispetto a funzioni amministrative che raramente vedono un impegno lavorativo nei giorni festivi. Quanto al resto la sentenza di primo grado ha illustrato in modo sufficientemente chiaro perché lo svolgimento del lavoro nei giorni festivi dia diritto solo all'indennità di cui sopra salvo che il servizio si sia protratto oltre le sei ore. 6.2. Passando, invece, ad esaminare l'ulteriore richiesta, cioè quella di verificare se l'Amministrazione ha corrisposto sempre lo straordinario in relazione alle ore di servizio prestate, va innanzitutto premesso che il metodo acquisitivo della prova che il giudice amministrativo può utilizzare quando la documentazione rilevante non è nella disponibilità della parte che richiede un bene della vita, non significa che l'interessato si debba limitare ad allegare la circostanza affidando al giudice l'acquisizione di tutta documentazione che potrebbe provare la spettanza di quanto richiesto. Peraltro in tema di retribuzione siamo in tema di diritti soggettivi nel quale il principio acquisitivo della prova ha una rilevanza del tutto marginale. Ed allora i ricorrenti non possono limitarsi ad allegare un prospetto nel quale sono riportate le ore di straordinario cui ritengono di aver diritto. In relazione ad ognuno dei mesi per i quali c'è la richiesta del pagamento degli straordinari, a suo tempo gli appellanti hanno ricevuto la busta paga che evidenziava anche quante ore venivano loro retribuite; laddove il pagamento dello straordinario non fosse stato integrale sarebbe stato opportuno annotarsi i servizi che non erano ricompresi nelle ore pagate e magari farne oggetto di un'apposita istanza al Comando che, anche se non fosse stata esaudita, avrebbe costituito una fonte di prova dello scostamento denunciato. Al contrario un'indicazione così generica, come quella offerta dagli appellanti, comporterebbe la richiesta all'Amministrazione del pagamento dello straordinario effettuato in relazione a tutti gli anni non incisi dalla prescrizione e la documentazione dei servizi svolti da ciascuno dei militari in quel periodo per poter riscontrare quante ore di straordinario erano state concretamente effettuate e quante tra esse erano state pagate. Non è possibile utilizzare in modo così ampio, con mera finalità esplorativa, il potere di acquisizione della prova, tenuto conto oltretutto che gli appellanti avrebbero potuto richiedere l'accesso ad alcuni atti per poter poi dare alla loro richiesta una maggiore solidità . Il primo ed il secondo motivo non possono, per tali ragioni trovare accoglimento. 7. Vi sono ragioni di equità sostanziale per compensare le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Francesco Frigida - Consigliere Maria Stella Boscarino - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ACIERNO Maria - Presidente Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. - Consigliere Dott. VANNUCCI Marco - Consigliere Dott. PARISE Clotilde - rel. Consigliere Dott. VALENTINO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 208 del 2021 R.G. proposto da: (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS) ( (OMISSIS)) che lo rappresenta e difende per procura speciale allegata al ricorso; - ricorrente - contro MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che lo rappresenta e difende ope legis; - resistente - avverso il DECRETO del TRIBUNALE di NAPOLI R.G. n. 29726 del 2018 depositato il 04/12/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/11/2022 dal Consigliere Dott.ssa Clotilde Parise; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rita San Lorenzo, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. FATTI DI CAUSA 1. Con decreto del 4-12-2020 il Tribunale di Napoli ha respinto il ricorso di (OMISSIS), cittadino del (OMISSIS), all'esito del rigetto della sua nuova domanda di protezione internazionale da parte della competente Commissione Territoriale con provvedimento notificato il 3-10-2018. Il richiedente riferiva di essere fuggito dal suo Paese a seguito di dissidi insorti nella comunita' dove viveva e per le minacce ricevute dal padre dopo che si era convertito alla religione cristiana pentecostale. Il Tribunale ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione generale del (OMISSIS), descritta nel decreto impugnato con indicazione delle fonti di conoscenza, rilevando che i motivi a sostegno della domanda reiterata erano gli stessi gia' allegati con la prima domanda e che il ricorrente non aveva dedotto alcun elemento nuovo, neppure potendosi rinvenire profili di vulnerabilita' dalla documentata presentazione di un esposto-denuncia. 2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell'Interno, che si e' costituito tardivamente al solo fine dell'eventuale partecipazione alla discussione. 3. Con ordinanza interlocutoria n. 15514 del 2022 della Sesta Sezione civile di questa Corte la causa e' stata rimessa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile in considerazione della rilevanza della questione posta dai motivi di ricorso e relativa allo sfruttamento lavorativo del ricorrente nel Paese di accoglienza. 4. Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica e' stato applicato lo speciale rito "cartolare" previsto dal Decreto Legge 137 del 28-10-2020, articolo 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 18-12-2020 n. 176 e prorogato a tutto il 2022 dal Decreto Legge 30-12-2021 n. 228, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15. La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. I motivi di ricorso sono cosi' rubricati:" L. Violazione e/o mancata applicazione del Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articoli 5, comma 6 e 19, comma 2 e s.m.i., ante riforma di cui al Decreto Legge n. 113/28, convertito in L. n. 132/18 in riferimento all'articolo 19, comma 2, del Decreto Legislativo n. nr 251/07, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3; II. Violazione e/o la falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articoli 5, comma 6, e articoli 18 e 19, nonche' del Decreto Legislativo n. 25 del 2008, articolo 32 ante riforma di cui al Decreto Legge n. 113/28, convertito in L. n. 132/18 ex articolo 360 c.p.c., n. 5". Con il primo motivo il ricorrente censura la statuizione di rigetto della protezione umanitaria, per non avere il Tribunale adeguatamente considerato ne' i profili di vulnerabilita' del ricorrente connessi allo sfruttamento lavorativo denunciato, ne' le condizioni del (OMISSIS) con particolare riferimento al giudizio comparativo ai fini della protezione umanitaria, nonche' alla luce della condizione di vulnerabilita' del ricorrente. Con il secondo motivo e' denunciato il vizio di motivazione apparente e arbitraria del decreto in merito alla domanda di protezione umanitaria, in quanto incentrata sull'irrilevanza di allegazioni, argomentazioni e statuizioni. Il ricorrente deduce, in particolare, di avere allegato alle note di trattazione scritta in primo grado la denuncia alla Guardia di Finanza di (OMISSIS), presentata unitamente ad altri braccianti agricoli, nell'ambito del progetto "SIPLA - Servizio integrato protezione lavoratori agricoli" (oggetto di una piu' ampia azione delle locali istituzioni volta al contrasto del fenomeno del caporalato nel casertano) e la relazione della (OMISSIS), presso la quale il ricorrente svolge attivita' di volontariato. Deduce, altresi', che il decreto impugnato non contiene alcuna compiuta menzione della documentazione che il ricorrente riporta di aver allegato, con particolare riferimento alle condizioni di sfruttamento lavorativo che lo stesso ha denunciato. Al contrario il Tribunale si e' limitato a statuire che non sussiste alcuna condizione di grave deprivazione e quindi vulnerabilita' in relazione al Paese di origine e che nulla era stato allegato dal ricorrente in merito al suo percorso di integrazione. 2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono fondati nei termini che si vanno ad illustrare. 2.1. Occorre premettere che il Decreto Legislativo n.286 del 1998, articolo 22, comma 12 quater, inserito dal Decreto Legislativo n. 16.7.2012, n. 109, articolo 1, comma 1, lettera b), , nel testo vigente ratione temporis applicabile nella specie (ossia anteriore alla modifica disposta dal Decreto Legge 4.10.2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla L. 1.12.2018, n. 132), prevede: "Nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo di cui al comma 12-bis, e' rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6". Il richiamato articolo 12 bis, lettera c), fa riferimento al fatto che i lavoratori occupati siano sottoposti alle condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al comma 3 dell'articolo 603-bis del codice penale, e cioe': 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difforme da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali piu' rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato;2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Come piu' volte rimarcato nelle pronunce di questa Corte, il titolo di cui si tratta, dunque, e' una speciale forma di permesso di soggiorno per motivi umanitari introdotta nel nostro ordinamento dal Decreto Legislativo n. 109 del 2012, emanato in attuazione della direttiva Europea n. 52 del 2009, e concesso in favore del cittadino straniero che, trovandosi in una situazione di particolare sfruttamento lavorativo, abbia presentato denuncia contro il proprio datore di lavoro e cooperi nel procedimento penale instaurato a suo carico. Lo sfruttamento sussiste in presenza di "condizioni lavorative, incluse quelle risultanti da discriminazione di genere e di altro tipo, in cui vi e' una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed e' contraria alla dignita' umana" (articolo 2, lettera i), direttiva n. 52 cit.). Per quanto occorra, va ribadito che la situazione giuridica soggettiva dello straniero che domandi il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, non degradabile ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo (Cass., sez. un., n. 5059 del 2017). Il comma 12 quater, nella formulazione vigente ratione temporis che si applica nella specie (ante D.L.n. 113 del 2018), prevede che venga rilasciato un permesso di soggiorno "ai sensi dell'articolo 5, comma 6", sicche' tra le due norme sussiste un rapporto di specie a genere, essendo la condizione di sfruttamento lavorativo uno dei possibili "motivi umanitari", benche' si aggiunga l'ulteriore requisito della denuncia e della cooperazione nel procedimento penale, rispondente alla finalita' anche premiale di tale misura (Cass.n. 10291 del 2018). Inoltre, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l'opposizione avverso il provvedimento del questore di diniego del permesso di soggiorno in favore del cittadino straniero vittima di sfruttamento lavorativo, previsto dal citato Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 22, comma 12-quater, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, al quale e' devoluta la piena cognizione in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti, atteso che il parere espresso dal procuratore della Repubblica, cui e' condizionato il rilascio del permesso da parte del questore, costituisce esercizio di discrezionalita' tecnica ed esaurisce la propria rilevanza all'interno del procedimento amministrativo, non vincolando l'autorita' giurisdizionale (Cass. Sez. Unite, n. 30757 del 2018 e n. 32044 del 2018; Cass.n. 10291 del 2018). E' stato, infatti, chiarito che il parere positivo della Procura della Repubblica non costituisce un presupposto necessario e vincolante, nel senso che il giudice, in regime di cognizione piena, puo' accertare il presupposto per il rilascio del permesso in questione, che e' la presentazione della denuncia e la collaborazione nel processo instaurato contro il datore di lavoro autore dello sfruttamento. Occorre ulteriormente precisare che i due suindicati requisiti, ossia la presentazione della denuncia e la collaborazione processuale, sono alternativi, e non cumulativi, e cio' in base all'interpretazione logica delle disposizioni in esame, nonche' conforme alla sua ratio, finalizzata ad assicurare un regime protettivo allo straniero vittima di sfruttamento lavorativo, in quanto tale soggetto di particolare vulnerabilita'. Nello specifico, va osservato, per un verso, che la presentazione della denuncia costituisce gia' di per se' una forma, anche assai significativa e rischiosa, di collaborazione e, per altro verso, che la presentazione della denuncia da parte di un altro soggetto produrrebbe paradossalmente l'effetto di privare lo straniero dei benefici di una sua successiva e positiva collaborazione alle indagini (cfr. in tal senso Cass. n. 18288 del 2022), sicche' solo l'interpretazione della norma nel senso dell'alternativita' dei citati requisiti consente di evitare conseguenze contrarie alla sua ratio. 2.2. Va aggiunto, infine, in estrema sintesi, che in un contesto di sfruttamento lavorativo, potranno trovare applicazione, nella ricorrenza dei presupposti di legge, gli articoli 18 del T.U.I. e 27 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 394/99, ai sensi dei quali il permesso di soggiorno puo' essere rilasciato dal questore anche su proposta dei servizi sociali degli enti locali, o dalle associazioni, enti e altri organismi iscritti nella seconda sezione del registro delle associazioni e degli enti che svolgono attivita' a favore degli immigrati. Si tratta dell'istituto della "protezione sociale", volto a consentire alle persone straniere vittime di situazioni di grave sfruttamento riconducibili a determinate fattispecie di reato (articolo 600 e 601 c.p.) di ottenere uno speciale permesso di soggiorno e di accedere a specifici programmi di protezione e assistenza. Il permesso di soggiorno previsto dal Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 18 puo' essere rilasciato non soltanto in seguito alla denuncia della vittima, ma anche in quei casi in cui quest'ultima non possa o non voglia rivolgersi all'Autorita' Giudiziaria. Si parla di "doppio binario" in quanto, in forza di quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 18, in combinato disposto con l'articolo 27 del regolamento di attuazione del Testo Unico Immigrazione, il permesso di soggiorno puo' essere rilasciato tanto nel caso in cui sia stato avviato un procedimento penale relativamente ai fatti di violenza o grave sfruttamento, in seguito alla denuncia della vittima (c.d. percorso giudiziario), quanto nel caso in cui la persona non denunci ma aderisca ad un programma di assistenza e integrazione sociale, affidandosi ad un ente specificamente preposto all'assistenza delle vittime di grave sfruttamento, che puo' essere un ente locale o un associazione o organismo privato purche' iscritto alla seconda sezione del registro delle associazioni, enti e che svolgono attivita' a favore degli immigrati (c.d. percorso sociale). 2.3. Cosi' sinteticamente ricostruito il quadro normativo di riferimento e l'orientamento di questa Corte sul tema, nel caso di specie il Tribunale, pur dando atto che il ricorrente aveva documentato la presentazione di un "esposto-denuncia" (pag.10 del decreto impugnato), ne ha escluso la rilevanza, sotto il profilo della vulnerabilita' del richiedente, in modo apodittico e senza che sia possibile ricostruire il percorso argomentativo posto a fondamento del ragionamento decisorio. Per contro il ricorrente, con sufficiente specificita', afferma di avere prodotto la denuncia alla Guardia di Finanza di (OMISSIS), presentata unitamente ad altri braccianti agricoli, nell'ambito del progetto "SIPLA - Servizio integrato protezione lavoratori agricoli" (oggetto di una piu' ampia azione delle locali istituzioni volta al contrasto del fenomeno del caporalato nel casertano), e la relazione della (OMISSIS), nonche' deduce che da detti documenti si evince la situazione di sfruttamento lavorativo in atto anche in pregiudizio dell'odierno ricorrente, per avere anch'egli fornito alle associazioni le necessarie informazioni. Nella descritta e documentata situazione, alla stregua del regime protettivo a tutela dello straniero vittima di sfruttamento lavorativo di cui si e' detto, il giudice del merito, con piena cognizione, e' tenuto ad accertare la sussistenza o meno dei presupposti stabiliti dalle norme citate, ed in particolare di quelli del comma 12 quater cit., vale a dire la condizione di particolare sfruttamento lavorativo, la denuncia o la cooperazione nel procedimento penale a carico del datore di lavoro, alla luce delle acquisizioni istruttorie fornite dalla parte, inclusi gli accertamenti eseguiti in sede penale. Nel caso di specie, e' stata, invece, del tutto omessa l'indagine fattuale e l'accertamento in concreto dei requisiti prescritti dalle citate norme, interpretate secondo i principi di diritto suesposti, si' da poter assumere, eventualmente, decisiva rilevanza nello scrutinio del caso concreto quali elementi nuovi fondanti la domanda reiterata di protezione umanitaria. 3. In conclusione, il ricorso merita accoglimento nei termini precisati, il decreto impugnato va cassato, e la causa va rinviata al Tribunale di Napoli, in diversa composizione, che dovra' attenersi al seguente principio di diritto: "In tema di protezione umanitaria, nel regime vigente "ratione temporis", anteriore all'entrata in vigore del Decreto Legge 4.10.2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla L. 1.12.2018, n. 132, ove sia allegata e documentata una situazione di sfruttamento lavorativo di cui sia stato vittima il cittadino straniero, il giudice del merito, con piena cognizione, e' tenuto ad accertare la sussistenza o meno dei presupposti stabiliti dal Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 18, in combinato disposto con l'articolo 27 del regolamento di attuazione del Testo Unico Immigrazione, nonche' di quelli previsti dal Decreto Legislativo n.286 del 1998, articolo 22, comma 12 quater, inserito dal Decreto Legislativo n. 16.7.2012, n. 109, articolo 1, comma 1, lettera b), , nel testo vigente "ratione temporis" applicabile nella specie, alla luce delle acquisizioni istruttorie fornite dalla parte, inclusi gli accertamenti eseguiti in sede penale, in particolare, quanto al regime protettivo dettato dal comma 12 quater cit., dovendosi richiedere, oltre alla condizione di particolare sfruttamento lavorativo, solo in via alternativa, e non cumulativa, la denuncia del cittadino straniero e la sua cooperazione nel procedimento penale a carico del datore di lavoro". Il giudice del rinvio provvedera' anche alla regolazione delle spese del giudizio di legittimita'. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Napoli, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimita'.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI BARI - SEZIONE LAVORO - La Corte di appello di Bari - Sezione per le controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza - composta dai Magistrati: dr.ssa ELVIRA PALMA - Presidente dr. LUCA ARIOLA - Consigliere - relatore dr.ssa VALERIA SPAGNOLETTI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 1575 del Ruolo Generale dell'anno 2021 vertente tra (...), nato il (...), e (...) s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi rappresentati e difesi dagli avv.ti Ma.Bi. e Mo.Po., giusta procura depositata nel fascicolo telematico; appellanti e Ispettorato Territoriale del Lavoro di Bari, in persona del dirigente pro tempore, difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Bari; appellato SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con sentenza del 12 ottobre 2021 il Tribunale del lavoro di Bari, pronunciando nel contraddittorio con il locale Ispettorato del Lavoro, ha rigettato l'opposizione proposta da (...) e la s.r.l. "(...)" avverso due ordinanze-ingiunzioni emesse dal citato Ispettorato e notificate il 24 settembre 2019, ossia: a) ordinanza n. 25430, con cui era stato intimato il pagamento della somma di 12.710,50 Euro a titolo di sanzione amministrativa per aver impiegato, nel mese di settembre del 2014, tre lavoratori senza aver preventivamente denunciato l'assunzione agli organi competenti; b) ordinanza n. 25430-1, con cui era stato intimato il pagamento della sanzione di 335,50 Euro per non aver indicato nel libro unico del lavoro le ore di lavoro svolte dal lavoratore (...) nella giornata del 5 settembre 2914. In sintesi, a fondamento della decisione il Tribunale ha posto le seguenti considerazioni: - era infondata l'eccezione di tardività per inosservanza del termine di 90 giorni stabilito dall'art. 14 della L. n. 689 del 1981 per la contestazione dell'illecito, posto che l'Ispettorato, ascoltati i lavoratori durante l'accesso ispettivo del 5 settembre 2014, aveva concluso l'accertamento relativo all'impiego "in nero" di tre lavoratori ((...), (...) e (...)) notificando al trasgressore ed al responsabile in solido i verbali di accertamento in data 26 novembre 2014; l'ITL aveva quindi proseguito l'accertamento medesimo allo scopo di verificare l'esistenza di altre irregolarità per poi concluderlo, dopo il tardivo invio da parte dell'azienda della documentazione richiesta, mediante notifica di altri due verbali di accertamento in data 28 gennaio 2015, ossia nel rispetto del termine prescritto; - non era fondata neppure l'eccezione di prescrizione, perché le ordinanze opposte erano state notificate il 24 settembre 2019, ossia entro il termine di cinque anni dalla notifica dei verbali di accertamento, e il disconoscimento degli avvisi di ricevimento prodotti in copia dalla controparte era generico; - nel merito, i tre lavoratori trovati dagli ispettori intenti al lavoro avevano dichiarato di essere stati assunti mediante voucher, ma gli ispettori avevano appurato che la loro assunzione non era stata comunicata agli organi competenti, né erano stati attivati i voucher, ma erano stati regolarizzati solo l'8 settembre 2014, con decorrenza dal primo giorno dello stesso mese; - non sussisteva neppure il denunciato vizio di motivazione, come dimostrato dal fatto che la parte si era difesa nel merito. 2. Avverso detta sentenza hanno proposto appello (...) e la (...). L'ITL ha resistito depositando memoria. Acquisiti i documenti prodotti dalle parti ed il fascicolo relativo al primo grado di giudizio, in data 19 gennaio 2023 la causa è stata discussa e decisa come da dispositivo in calce trascritto. 3. Con il primo motivo gli appellanti denunciano "omessa ed erronea motivazione sul punto della decadenza ed estinzione dell'obbligazione di pagamento per violazione del termine perentorio di notifica della contestazione di addebito". Essi si dolgono del fatto che il Giudice di prime cure, rigettando l'eccezione preliminare di decadenza per superamento del termine di 90 giorni per la contestazione dell'illecito, abbia ritenuto legittima la parcellizzazione dell'attività ispettiva e sanzionatoria mediante l'emissione, da parte dell'ITL, di due distinte ordinanze-ingiunzioni, sì da permettere al trasgressore di conoscere l'addebito a suo carico soltanto a seguito della seconda, notificata ben oltre il termine stabilito dall'art. 14, comma 2, della L. n. 689 del 1981; evidenziano, inoltre, che tale comportamento si poneva in contrasto con quanto affermato nella circolare del Ministero del Lavoro n. 41 del 9 dicembre 2010, in cui si precisava che la funzione del verbale unico era proprio quella di racchiudere in un unico atto la contestazione di tutti gli illeciti evitando la redazione di una molteplicità di provvedimenti; deducono, infine, che non poteva riconoscersi alcun rilievo ai verbali interlocutori, posto che in realtà la dilatazione dei tempi del procedimento era dipesa dall'inerzia dell'autorità procedente e non certo dalla mancata collaborazione dell'azienda. 3.1. Il motivo non è fondato, posto che - a giudizio della Corte - è pienamente condivisibile la decisione assunta dal Tribunale del lavoro di Bari. Il Giudice di prime cure ha giustamente osservato che, mentre in relazione al primo illecito (ossia l'assunzione di personale dipendente senza procedere alle prescritte comunicazioni) a seguito dell'audizione dei lavoratori trovati sul posto l'Ispettorato era già in possesso di tutti gli elementi essenziali per contestare l'infrazione (ed infatti il verbale di accertamento e notificazione è stato notificato il 26 novembre 2014, ossia nel pieno rispetto del termine di cui all'art. 14, secondo comma, della L. n. 689 del 1981), in relazione al secondo illecito (consistente nell'omessa annotazione sul LUL delle ore di lavoro svolte da (...) il 5 settembre 2014) la contestazione non poteva che essere sollevata se non dopo l'acquisizione della documentazione in possesso della società, la cui condotta inerte - nonostante i plurimi verbali interlocutori debitamente notificati - ha determinato la dilatazione dei tempi del procedimento, comunque conclusosi nel rispetto del termine prescritto decorrente dal 24 novembre 2014, cioè dal giorno nel quale la (...) ha trasmesso la documentazione richiesta dall'ITL (v. doc. 24 del fascicolo dell'Ispettorato) e, in particolare, il LUL relativo al mese di settembre 2014, la cui disamina era evidentemente indispensabile allo scopo di verificare se le ore di lavoro espletate dai dipendenti fossero state effettivamente registrate. Ed infatti, durante l'accesso ispettivo presso i locali aziendali svoltosi nella giornata del 5 settembre 2014 gli ispettori hanno potuto constatare l'impiego di tre lavoratori (B. e (...) come cameriere, (...) come operaio) senza che la loro assunzione fosse preventivamente comunicata, dal momento che non risultavano attivati voucher a decorrere dal 1 settembre 2014; di conseguenza, gli ispettori hanno potuto accertare l'esistenza dell'illecito contestato (irregolare assunzione di manodopera) già a seguito dell'accesso e del controllo della documentazione in quella sede esaminata, sicché in effetti non v'era necessità di procedere ad ulteriori verifiche. Quanto al secondo illecito, invece, è fin troppo evidente che lo stesso non poteva essere materialmente riscontrato se non dopo l'esame del libro unico del lavoro relativo al mese di settembre, per cui è indubitabile che il ritardo con cui esso è stato trasmesso dall'azienda ha inciso sulla possibilità dell'Ispettorato di formulare la contestazione. Altrettanto condivisibile è, quindi, il richiamo - anch'esso contenuto nella sentenza gravata - al consolidato indirizzo interpretativo secondo cui "in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata della violazione, il momento dell'accertamento - in relazione al quale collocare il dies a quo del termine previsto dall'art. 14, comma 2, della L. n. 689 del 1981, per la notifica degli estremi di tale violazione - non coincide con quello in cui viene acquisito il "fatto" nella sua materialità da parte dell'autorità cui è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato nel momento in cui detta autorità abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell'esistenza della violazione segnalata, ovvero in quello in cui il tempo decorso non risulti ulteriormente giustificato dalla necessità di tale acquisizione e valutazione; il compito di individuare, secondo le caratteristiche e la complessità della situazione concreta, il momento in cui ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento e da cui deve farsi decorrere il termine per la contestazione spetta al giudice del merito, la cui valutazione non è sindacabile nel giudizio di legittimità, ove congruamente motivata" (così tra le tante Cass. n. 27702 del 2019; cfr. altresì, solo per citare le più recenti, Cass. n. 29404 del 2022 e Cass. n. 28273 del 2022). 3.2. Non può condividersi, invece, la tesi di parte appellante secondo cui gli ispettori avrebbero "... suddiviso un'unica indagine in due fasi distinte, di cui essi stessi hanno stabilito una tempistica atta ad eludere il termine di 90 giorni, emettendo due ordinanze ingiunzioni e consentendo a (...) di conoscere definitivamente l'addebito a suo carico solo con la seconda ordinanza ingiunzione, notificata ben oltre il predetto termine dall'inizio delle operazioni di accertamento" (v. pag. 5 del gravame), dal momento che il denunciato "sdoppiamento" non si è verificato certamente a causa della condotta inerte dell'Ispettorato. Vi è da osservare, piuttosto, che proprio la solerte condotta della ITL - che ha proceduto a due distinte contestazioni notificando già il 26 novembre 2014 il verbale di accertamento relativo alla prima violazione riscontrata - ha permesso il rispetto del termine fissato dall'14 L. n. 689 del 1981 cit. ed ha quindi consentito al trasgressore ed all'obbligato di conoscere entro il lasso di tempo prescritto l'infrazione accertata (ossia, come detto, l'assunzione irregolare di tre lavoratori). Non giova alla tesi sostenuta nel gravame il richiamo alla sentenza della Suprema Corte n. 1614 del 2021, relativa ad una peculiare fattispecie in cui gli accertatori (si trattava dei militari dell'arma dei Carabinieri) erano in possesso sin dalla data dell'accesso di elementi che avrebbero dovuto indurli a individuare esattamente il responsabile della violazione (esercizio abusivo di una cava), mentre la p.a. era rimasta inerte per lungo tempo ed aveva proceduto alla contestazione della violazione dopo quasi diciotto mesi dall'accertamento. Si tratta evidentemente di ipotesi ben diversa da quella in scrutinio, nella quale - molto più semplicemente - la p.a. ha potuto constatare l'infedele registrazione sul LUL soltanto dopo che l'azienda glielo ha trasmesso. Né appare utile alla prospettazione degli appellanti il richiamo alla circolare del Ministero del Lavoro n. 41 del 9 dicembre 2010, posto che - com'è reso evidente dalla sua lettura integrale - in essa non è presa in considerazione l'ipotesi (che si è verificata nel caso di specie) in cui mentre per un illecito erano già state acquisite le necessarie fonti di prova, per l'altro tali fonti non erano state ancora esaminate e non certo per colpevole inerzia del personale ispettivo. Dalla circolare in esame, quindi, non può trarsi la conclusione auspicata dagli appellanti. 4. Con il secondo motivo si lamenta la "erronea motivazione sull'eccezione di prescrizione dell'ordinanza ingiunzione e sulla tardività della notificazione". Si deduce che il verbale unico di accertamento e notificazione non era mai stato ricevuto e che nessuna prova poteva desumersi dalla documentazione offerta dalla controparte, la quale aveva prodotto delle mere copie fotostatiche dei verbali e degli avvisi di ricevimento, che peraltro erano state puntualmente contestate dalla difesa degli intimati nel corso dell'udienza del 28 gennaio 2020. 4.1. Il motivo è infondato. Come si rileva dalla lettura del verbale di udienza del 28 gennaio 2020, invero, la contestazione formulata in primo grado dalla parte odierna appellante è del tutto generica, perché la parte medesima si limita a disconoscere in relazione a plurimi profili (forma, contenuto, sottoscrizione) la portata probatoria di buona parte della documentazione prodotta dall'Ispettorato, ma senza indicare in maniera specifica sotto quali aspetti la copia esibita sarebbe difforme dall'originale ("L'avv. D.F. disconosce specificamente il contenuto e la sottoscrizione, nonché la verità intrinseca degli allegati di cui ai nn. 8), 9), 10) dell'avversa costituzione, atteso che non si evince dalle suddette documentazioni chi l'organo accertatore sia e che le abbia acquisite; si disconoscono altresì il contenuto, la forma e la sottoscrizione degli allegati n. 17), 18), 23), 26), 27) dell'avversa produzione documentale poiché prodotti in fotocopia, priva di attestazione di conformità all'originale, non avendo la società, né il Sig. (...), ricevuto alcun atto interruttivo della prescrizione; vieppiù si disconoscono gli allegati nn. 21) e 22) della avversa produzione documentale perché non riferibili all'atto asseritamente notificato, privi di attestazione di conformità, dunque inidonei ad attestare la efficace ricezione dell'atto dal contribuente"). Mette conto sottolineare, peraltro, l'estrema eterogeneità della documentazione contestata, circostanza che rende quanto mai difficoltoso comprendere, in relazione a ciascuno di esso, quale sarebbe il profilo la cui genuinità è negata dalla parte contro cui esso è prodotto (segnatamente: doc. n. 17: verbale accertamento e notificazione notificato a (...) il 1 dicembre 2014 mediante consegna nelle mani della moglie (...); doc. n. 18: verbale accertamento e notificazione notificato a (...) il 28 novembre 2014 mediante consegna nelle mani dell'addetto (...); doc. n. 23: sollecito al verbale interlocutorio notificato il 18 novembre 2014 alla (...) mediante raccomandata A/R; doc. n. 26: verbale unico di accertamento e notificazione notificato a (...) il 2 febbraio 2015 mediante consegna nelle mani del destinatario; doc. n. 27: verbale unico di accertamento e notificazione notificato a (...) il 30 gennaio 2015 mediante consegna a persona addetta come da attestazione contenuta nell'avviso di ricevimento relativo alla raccomandata con cui l'atto è stato spedito). Al riguardo giova rammentare che, in tema di prova documentale, il disconoscimento delle copie fotostatiche di scritture prodotte in giudizio, ai sensi dell'art. 2719 c.c., impone che, pur senza vincoli di forma, la contestazione della conformità delle stesse all'originale venga compiuta, a pena di inefficacia, mediante una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco sia il documento che si intende contestare, sia gli aspetti differenziali di quello prodotto rispetto all'originale, non essendo invece sufficienti né il ricorso a clausole di stile, né generiche asserzioni. L'onere di disconoscere la conformità tra l'originale di una scrittura e la copia fotostatica della stessa prodotta in giudizio, pur non implicando necessariamente l'uso di formule sacramentali, va assolto mediante una dichiarazione di chiaro e specifico contenuto che consenta di desumere da essa in modo inequivoco gli estremi della negazione della genuinità della copia, senza che possano considerarsi sufficienti, ai fini del ridimensionamento dell'efficacia probatoria, contestazioni generiche o onnicomprensive (così Cass. n. 28096 del 2009, n. 14416 del 2013, n. 7175 del 2014, n. 7105 2016, n. 12730 del 2016, n. 23902 del 2017 e n. 24323 del 2018). Il principio è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza anche in tema di notifica dell'avviso di addebito per crediti previdenziali di cui è titolare l'Inps, in ipotesi di generico disconoscimento di copie delle raccomandate con ricevuta di ritorno. Né, d'altro canto, trova applicazione il disposto dell'art. 215, secondo comma, c.p.c., che, in mancanza di richiesta di verificazione con esito positivo, preclude l'utilizzabilità della scrittura. Il disconoscimento della conformità di copia fotostatica dell'originale, infatti, non impedisce che il giudice possa accertarne la conformità all'originale anche attraverso diversi mezzi di prova, incluse le presunzioni (cfr. Cass. n. 16557 del 2019, Cass. n. 4053 del 2018, Cass. n. 23369 del 2017, Cass. n. 13425 del 2014, Cass. n. 4476 del 2009, Cass. n. 11419 del 2004). Ciò, peraltro, sempre che il disconoscimento formale avvenga attraverso una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco sia il documento che si intende contestare sia gli aspetti differenziali di quello prodotto rispetto all'originale, dovendo la dichiarazione medesima essere - oltre che tempestiva - specifica, esplicita ed univoca, così da non lasciar margine alcuno di dubbio ed incertezza (v. Cass. n. 4053 del 2018, Cass. n. 3474 del 2008, Cass. n. 24456 del 2011 e Cass. n. 18042 del 2014). Come anticipato, si tratta di requisiti che non assistono la dichiarazione di disconoscimento resa all'udienza del 28 gennaio 2020, posto che - come detto - in tale udienza la parte si è limitata a negare la conformità di una serie di documenti (fra l'altro del tutto diversi tra loro) rispetto all'originale sul piano "della forma, del contenuto e della sottoscrizione", senza tuttavia indicare in modo specifico per quale ragione ciascun documento non corrisponderebbe all'originale. Né può attribuirsi rilievo alcuno alla generica negazione della sottoscrizione apposta sull'avviso, dal momento che anche nell'ipotesi di applicazione delle norme sulla consegna dei plichi raccomandati le questioni inerenti alla riferibilità della firma al destinatario vanno fatte valere mediante querela di falso (v. Cass. n. 29022 del 2017, in tema di riscossione delle imposte dirette: "qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi dell'art. 26, comma 1, seconda parte, del D.P.R. n. 602 del 1973, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982, potendosi far valere solo a mezzo querela di falso le questioni circa la riferibilità della firma al destinatario della notifica"). 5. Nel terzo motivo si deduce la "Erronea, insufficiente ed omissiva motivazione in punto di merito, sulla presunta mancata comunicazione del rapporto di lavoro dei Sigg.ri (...), (...) e (...) e sulla presunta mancata indicazione nel Lul delle ore di lavoro svolte dal Sig. (...) il 5.9.2014". Gli appellanti osservano che - contrariamente a quanto affermato dal Giudice di prime cure - in sede di prova testimoniale i lavoratori avevano asserito di essere stati presenti nel (...) non in quanto dipendenti dello stesso, ma come lavoratori della società (...), impiegati del tutto occasionalmente per lavori di ristrutturazione, sicché anche la mancata attivazione dei voucher era irrilevante. 5.1. Anche questo motivo non è fondato. Va innanzitutto rilevato che soltanto il teste (...) ha riferito di aver lavorato alle dipendenze della (...) in quanto incaricato di eseguire interventi manutentivi (v. verbale di udienza del 17 novembre 2020: "Io ho lavorato all'interno della struttura di Bisceglie ma non come dipendente di (...) ma della società (...) per interventi di manutenzione ? io non ero dipendente della (...) ma sono stato chiamato in alcune occasioni tramite la mia società (...) per dei lavori presso la struttura della (...), non ricordo in che periodo ma ero presente in occasione della visita ispettiva ... confermo come mia la firma apposta sulla dichiarazione rilasciata il 5/9/2014 agli ispettori del lavoro, confermo il contenuto e preciso che per la data del 5/9/2014 non era stato comunicato il voucher, nulla ricordo per i giorni precedenti"). Dichiarazione di diverso contenuto è stata resa dal teste (...), il quale ha asserito di non ricordare chi fosse il datore di lavoro (v. verbale del 17 novembre 2020: "Ho lavorato per la (...), o meglio non soper la (...) ma comunque presso l'albergo di Bisceglie circa tre settimane tra fine agosto e settembre come cameriere"), mentre il teste (...) non è stato proprio ascoltato in sede giudiziale, in quanto la difesa degli odierni appellanti ha rinunciato alla sua escussione (v. verbale dell'11 maggio 2021). Va anche osservato che nel corso dell'ispezione i tre lavoratori in questione hanno riferito di prestare la loro attività presso il (...), senza fare alcun accenno ad altra azienda; anzi, (...) ha asserito di lavorare alle dipendenze della (...), senza nominare affatto la (...) ovvero un'altra ditta (v. dichiarazione di (...) agli ispettori: "da lunedì 1/09/2014 sono assunto con voucher per togliere il parquet. Lavoro per tre ore al giorno"; dichiarazione di (...): "lavoro dal 25.8.2014 alle dipendenze della ditta (...) s.p.a. Sono retribuito con voucher. Sino a oggi ho lavorato per n. 8 giorni per n. 4 ore al giorno con mansioni di cameriere"; dichiarazione di (...): "Lavoro nel (...) dal 1/7/2014 con la qualifica di cameriere con i voucher. Ho lavorato tutti i giorni tranne il riposo settimanale. Lavoro dalle quattro ore al giorno fino alle 8 ore al giorno se c'è molto lavoro. Questa settimana otto ore"). È ampiamente risaputo che i verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza o da loro compiuti, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato (ad esempio, per le dichiarazioni provenienti da terzi, quali i lavoratori, rese agli ispettori) il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti (cfr. ex multis Cass. n. 9251 del 2010; fra le più recente cfr. altresì Cass. n. 28693 del 2022 e Cass. n. 18989 del 2022). Nella specie, appaiono alla Corte maggiormente attendibili - in quanto immuni dal sospetto di possibili condizionamenti a posteriori - le dichiarazioni rese agli ispettori nell'immediatezza dell'accertamento, non potendo ragionevolmente ipotizzarsi che in quella occasione i lavoratori, interrogati in merito alle modalità di svolgimento della loro prestazione, abbiano omesso di riferire un dato di primaria importanza quale la reale identità del loro datore di lavoro. A ciò si aggiunga il dirimente rilievo per cui in data 8 settembre 2014 (quindi a distanza di pochi giorni dal primo accesso) la (...) ha spontaneamente denunciato l'assunzione dei tre lavoratori in questione con decorrenza dal 1 settembre (doc. 14, 15 e 16 del fascicolo dell'ITL), così tenendo una condotta oggettivamente incompatibile con la negazione dell'esistenza dei rapporti di lavoro accertati. È inevitabile concludere, quindi, che le dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso dell'ispezione, lette unitamente al comportamento concludente tenuto dall'azienda a breve distanza dall'accertamento, permettono di ritenere raggiunta una prova dell'esistenza dell'infrazione così solida da non poter essere in alcun modo scalfita dalla deposizione resa del solo teste (...), sicché anche sotto questo aspetto il gravame non può trovare ingresso. 6. Il quarto motivo critica la decisione appellata addebitando alla stessa "Erronea, insufficiente ed omissiva motivazione in punto di merito, sul difetto di motivazione delle ordinanze ingiunzioni". Nella censura ci si duole del fatto che nella specie sia stata ritenuta adeguata la motivazione delle ordinanze-ingiunzioni, sebbene essa fosse stata effettuata per relationem con rinvio a precedenti atti di contestazione che, in realtà, non erano mai stati notificati. 6.1. Il motivo è destituito di fondamento. In primo luogo, il provvedimento con cui la competente p.a., disattendendo le deduzioni del trasgressore, irroghi a quest'ultimo una sanzione amministrativa è censurabile, da parte del giudice dell'opposizione, sotto il profilo del vizio motivazionale, nel solo caso in cui l'ordinanza-ingiunzione risulti del tutto priva di motivazione (ovvero corredata di motivazione soltanto apparente), e non anche nell'ipotesi in cui la stessa risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale si collega ad una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, essendo oggetto dell'opposizione non il provvedimento della p.a., ma il rapporto sanzionatorio ad esso sotteso (v. Cass. n. 11280 del 2010). Con specifico riguardo al tema della motivazione per relationem, poi, si è anche precisato che "l'obbligo di motivare l'atto applicativo della sanzione amministrativa deve considerarsi soddisfatto quando dall'ingiunzione risulti la violazione addebitata, in modo che l'ingiunto possa far valere le sue ragioni e il giudice esercitare il controllo giurisdizionale. Ne consegue che è ammissibile la motivazione per relationem mediante il richiamo di altri atti del procedimento amministrativo, purché tale richiamo consenta l'instaurazione del giudizio di merito sull'esistenza e sulla consistenza del rapporto obbligatorio" (così Cass. n. 17104 del 2009; nello stesso senso cfr. altresì la più recente Cass. n. 31864 del 2022). Nella specie, risultano correttamente notificati alle parti odierne appellanti i verbali di accertamento e notificazione relativi ad entrambi gli illeciti sanzionati, sicché le medesime parti sono state ampiamente messe nelle condizioni di conoscere le violazioni loro addebitate e di dispiegare le proprie difese, con la conseguenza che alcun vizio di motivazione dei provvedimenti punitivi è in concreto ravvisabile. 7. Nel quinto ed ultimo motivo si contesta la liquidazione delle spese operata dal Tribunale in quanto si asserisce che - come affermato dalla giurisprudenza - se l'amministrazione è difesa da un funzionario delegato (come accaduto nella specie) possono essere liquidate solo le spese concretamente affrontate e indicate in apposita nota. 7.1. Anche quest'ultimo motivo non è fondato. Ed infatti, nel presente giudizio trova applicazione ratione temporis l'art. 9, comma 2, del D.Lgs. n. 149 del 2015, secondo cui "L'Ispettorato può farsi rappresentare e difendere, nel primo e secondo grado di giudizio, da propri funzionari nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione, nei giudizi di opposizione a cartella esattoriale nelle materie di cui all'articolo 6, comma 4, lettera a), del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, nonché negli altri casi in cui la legislazione vigente consente alle amministrazioni pubbliche di stare in giudizio avvalendosi di propri dipendenti. Nel secondo grado di giudizio, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, è fatta salva la possibilità per l'Avvocatura dello Stato di assumere direttamente la trattazione della causa secondo le modalità stabilite al fine dai decreti di cui all'articolo 5, comma 1. In caso di esito favorevole della lite all'Ispettorato sono riconosciute dal giudice le spese, i diritti e gli onorari di lite, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. Per la quantificazione dei relativi importi si applica il decreto adottato ai sensi dell'articolo 9, comma 2, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati. Le entrate derivanti dall'applicazione del presente comma confluiscono in un apposito capitolo di bilancio dell'Ispettorato e ne integrano le dotazioni finanziarie". Pertanto, correttamente il primo Giudice ha condannato parte opponente alla refusione delle spese in favore di parte opposta applicando la riduzione del 20%, dal momento che l'ITL era difeso a mezzo di un proprio funzionario amministrativo. 8. Alla luce delle esposte considerazioni, in definitiva, l'appello dev'essere rigettato e, per l'effetto, la sentenza impugnata merita di essere integralmente confermata. Resta assorbita ogni altra questione. 9. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vanno poste, quindi, a carico degli appellanti in solido fra loro. La liquidazione è affidata al dispositivo che segue. Essa è effettuata sulla scorta dei parametri di cui alla tabella allegata al D.M. n. 55 del 2014 tenuto conto del valore della causa, della sua complessità e dell'attività processuale in concreto espletata. Deve infine darsi atto della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 13, comma 1quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012. Spetta peraltro all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo per l'inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (v. Cass. sez. un. n. 4315 del 2020). P.Q.M. La Corte di appello di Bari, sezione lavoro, definitivamente pronunciando sull'appello proposto con ricorso depositato il 5.11.2021 da (...) e dalla (...) s.r.l. nei confronti dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Bari avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Bari, sezione lavoro, in data 12.10.2021, così provvede: rigetta l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza appellata; condanna gli appellanti, in solido fra loro, al pagamento in favore dell'Ispettorato del Lavoro delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in Euro 3.000,00, oltre rimborso forfetario per spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 13, comma 1quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, in materia di versamento dell'ulteriore importo del contributo unificato nella misura ivi specificata, se dovuto. Così deciso in Bari il 19 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Brescia, Sezione Lavoro, composta dai Sigg.: Dott. Antonio MATANO - Presidente rel. Dott. Giuseppina FINAZZI - Consigliere Dott. Silvia MOSSI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile promossa in grado d'appello con ricorso depositato in Cancelleria il 20.07.2022 iscritta al n. 156/2022 R.G. Sezione Lavoro e posta in discussione all'udienza collegiale del 26.01.2023 da (...) S.P.A. in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Pi.Bu. del foro di Siena, An.So. del foro di Varese, Ma.Gi. ed An.Ne. del foro di Milano, questi ultimi domiciliatari giusta delega in atti. RICORRENTE APPELLANTE contro (...), (...), (...), (...), tutti rappresentati e difesi dall'avv. Riccardo Bolognesi del foro di Roma, domiciliatario giusta delega in atti. RESISTENTI APPELLATI In punto: appello a sentenza n. 18 del 2022 del Tribunale di Mantova. FATTO E DIRITTO Con sentenza n. 18/22 il Tribunale di Mantova ha accertato che gli odierni appellati hanno diritto ad ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza 13.9.2016 dello stesso Tribunale (confermata in appello), che aveva dichiarato inefficace la cessione di ramo d'azienda intervenuta tra (...) di (...) S.p.A. (in proseguo (...)) e (...) s.r.l. e ordinato a (...) di ripristinare i rapporti di lavoro. I lavoratori, che avevano messo in mora (...) chiedendo il ripristino del rapporto in data 14.10.2016 (e anche successivamente alla sentenza d'appello), avevano ottenuto decreti ingiuntivi per il pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla suddetta data (il rapporto per tutti è stato ripristinato a decorrere dall'1.4.2020, anche se con distacco alla (...)). Con riferimento al quantum, il primo giudice ha accolto le contestazioni della Banca relative alla non debenza di alcune voci retributive, tra cui, in particolare, l'(...). Pertanto, la sentenza ha revocato i decreti ingiuntivi e, sulla base dei conteggi depositati da (...), ha condannato la stessa al pagamento delle somme dovute. La sentenza oggi appellata ha aderito al più recente orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 17784/19), ormai consolidato per effetto di numerose pronunce successive, secondo cui, una volta dichiarato illegittimo il trasferimento di ramo d'azienda, il lavoratore, che pure ha proseguito di fatto a lavorare ed essere retribuito dal cessionario, può chiedere al cedente, non il risarcimento del danno (come ritenuto dal precedente orientamento), ma la retribuzione dovuta, senza dunque possibilità di detrarre da quest'ultima quanto medio tempore percepito dal cessionario in dipendenza dal rapporto di lavoro con quest'ultimo. Con ricorso d'appello (...) ha proposto impugnazione chiedendo la riforma della sentenza. I lavoratori si sono costituiti chiedendo il rigetto degli appelli e con appello incidentale hanno chiesto la riforma della sentenza nella parte in cui ha rideterminato gli importi spettanti in misura inferiore a quelli ingiunti in sede monitoria e nella parte in cui ha compensato tre le parti le spese di lite. Su concorde richiesta delle parti, l'udienza si è svolta mediante collegamento da remoto, ai sensi dell'art. 127-bis c.p.c. e all'esito della discussione la causa è stata decisa come da dispositivo letto in udienza e comunicato alle parti. E' opportuno precisare che il Tribunale (sia pure dichiarando di nutrire "non poche perplessità" circa la "giustizia sostanziale" della soluzione) ha aderito in ossequio alla funzione di nomofilachia della Corte di Cassazione al nuovo orientamento della S.C., riassumendo, punto per punto, i passaggi logici della motivazione, in particolare, di Cass. 17784/19. Ne consegue, che la maggior parte delle censure mosse da (...), sebbene formalmente dirette contro la sentenza oggi appellata, consistono in realtà in critiche al nuovo orientamento della Corte di Cassazione (formulate anche riportando brani di qualche sentenza, invero isolata, di merito) e, in pratica, si risolvono nella riproposizione di questioni già disattese dalla Suprema Corte. Per completezza, si precisa che l'inefficacia della cessione di ramo d'azienda da (...) a (...) è nel frattempo divenuta questione incontrovertibile per effetto di Cass. 18949/21 che ha confermato la sentenza di appello di questa Corte. Con il primo motivo (...) afferma che l'interpretazione relativa alla "doppia retribuzione" abbracciata dalla Corte di Cassazione non è costituzionalmente orientata, ponendosi in contrasto specialmente con l'art. 36 Cost. In particolare, sostiene che la sentenza n. 29/19 della Corte costituzionale, cui il nuovo orientamento giurisprudenziale ha fatto riferimento, non ha mai affermato che vi sia l'obbligo di pagare la retribuzione a fronte di una prestazione lavorativa non resa. Sottolinea che la prestazione di lavoro resa nel ramo di azienda illegittimamente ceduto è l'unica espletata dal lavoratore, cosicché il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituisce un pagamento effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione e si configura, quindi, come un pagamento di terzo ex art. 1180 cod. civ.. Con il secondo motivo critica l'"ottica sanzionatoria" che è alla base del nuovo orientamento e sottolinea che le controversie di lavoro sono escluse dal campo di applicazione dell'art. 614-bis c.p.c. e che non esiste alcuna norma che imponga una sanzione in caso di inottemperanza all'ordine di ripristino del datore di lavoro. A dire dell'appellante, la soluzione interpretativa adottata dalla Corte di Cassazione introduce surrettiziamente la sanzione indiretta della "doppia retribuzione", così violando l'art. 25 Cost. Aggiunge che all'epoca delle sentenze di primo e secondo grado che hanno dichiarato l'illegittimità della cessione l'orientamento giurisprudenziale riconosceva la natura risarcitoria dell'obbligazione e l'effetto liberatorio del pagamento effettuato dal cessionario, cosicché la Banca aveva fatto affidamento sul precedente "diritto vivente". Con il terzo motivo sostiene che anche in caso di inefficacia della cessione il rapporto di lavoro rimane unico l'adempimento del cessionario libera il cedente dal pagamento della "doppia retribuzione": infatti, la prestazione di lavoro è ontologicamente unica, cosicché il pagamento del cessionario estingue l'obbligazione. Con il quarto motivo sostiene che non esiste una valida messa in mora, presupposto indispensabile per far luogo alla "doppia retribuzione": infatti, poiché i lavoratori hanno offerto a (...) l'identica e unica prestazione che avevano già reso a (...), ne consegue che la prestazione non poteva essere validamente resa anche a (...). Con il quinto motivo sostiene la non corretta applicazione dell'istituto della mora del creditore nel rapporto di lavoro. In particolare, osserva che la prestazione di lavoro, che deve essere eseguita in dati giorni e in dati orari, una volta offerta, non può più essere eseguita in quei giorni e in quegli orari e, dunque, si estingue. E poiché in base all'art. 1207 cod. civ. il rischio di tale estinzione è carico del creditore, ne consegue per il lavoratore solo il diritto al risarcimento del danno e non quello alla retribuzione. Con il sesto motivo sostiene che il Tribunale ha errato a considerare irrilevante l'appalto stipulato tra (...) e (...) per la fornitura dei servizi prodotti dal ramo d'azienda ceduto. In particolare, invoca la disposizione dell'art. 2112, ult. comma, cod. civ. che prevede l'applicabilità del regime di solidarietà tra l'appaltante cedente e l'appaltatore cessionario previsto dall'art. 29, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003. Ne conseguirebbe, a dire di (...), l'effetto liberatorio dei pagamenti effettuati da F.. In ogni caso, l'effetto liberatorio dovrebbe conseguire alla possibilità di applicare la norma dell'art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003, non ostandovi il dato testuale della norma che si riferisce ai pagamenti effettuati dal somministratore nei casi di somministrazione irregolare. Opinare diversamente, comporterebbe l'incostituzionalità della norma (oggi confluita nell'art. 38, co. 3, D.Lgs. n. 81 del 2015). Rinnova comunque l'assunto della configurabilità del pagamento di terzo ex art. 1180 c.c.. Con il settimo e ultimo motivo lamenta che il Tribunale non abbia accolto le contestazioni sollevate in merito ai conteggi. I motivi, che per loro evidente connessione conviene esaminare congiuntamente, non sono fondati. Come anticipato, essi in massima parte ripropongono questioni e censure già respinte dal nuovo orientamento giurisprudenziale introdotto da Cass. 17784/19 e consolidatosi con una lunga serie di sentenze (v., tra le tante, Cass. 16710/20, 23930/20, 23145/21, 26262/21, 33256/21, 34419/21, 5413/22), orientamento che questa Corte ha già condiviso in propri precedenti e che non ha motivo di disattendere. Ai fini di una più agevole comprensione della questione, è opportuno riassumere, brevemente e per sommi capi, le ragioni hanno portato la Corte di Cassazione a modificare il proprio orientamento. Il problema di causa è stabilire, in primo luogo, la natura dell'obbligazione che grava sul cedente, il quale dopo la sentenza di inefficacia della cessione del ramo d'azienda non adempie l'obbligo di ripristinare il rapporto di lavoro dei lavoratori ceduti. In particolare, si tratta di stabilire se tale obbligazione sia risarcitoria o retributiva, in quanto, nel primo caso il lavoratore ceduto dovrà provare la sussistenza del danno e il datore di lavoro cedente potrà eccepire l'aliunde perceptum, costituito innanzitutto dalle retribuzioni corrisposte dal cessionario durante il periodo di violazione dell'obbligo di ripristino. In secondo luogo e in ogni caso, anche ritenendo la natura retributiva dell'obbligazione, si tratta di stabilire se il pagamento della retribuzione da parte del cessionario estingua l'obbligazione del cedente, effetto che presuppone l'affermazione che l'obbligazione resta unica, ancorché adempiuta dal cessionario che non è il vero debitore. La giurisprudenza precedente (Cass. 19740/08, ma anche Cass. 18955/14 e Cass. 24817/16) affermava la natura risarcitoria dell'obbligazione, facendo leva sul fatto che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l'erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce un'eccezione che deve essere oggetto di espressa previsione di legge o di contratto (es. riposo settimanale e ferie (artt. 2108 e 2019 cod. civ.). Peraltro, il rigore del principio della corrispettività tra le reciproche obbligazioni di eseguire la prestazione e pagare la retribuzione era stato superato dalla Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sull'indennità risarcitoria onnicomprensiva introdotta dall'art. 32, co. 5, L. n. 183 del 2010 per i casi di conversione del contratto a termine ("Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva ..."). Con sentenza n. 303/11 la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità, premesso che la stabilizzazione del rapporto costituisce la "sanzione più incisiva" per il datore di lavoro, ha affermato che il risarcimento del danno forfettizzato copre solo il periodo intermedio che va dalla cessazione del termine illegittimo al giorno della sentenza. Con la conseguenza che per il periodo successivo alla sentenza spettano al lavoratore, in base a un'interpretazione costituzionalmente orientata della novella introdotta dall'art. 32, co. 5, L. n. 183 del 2010, le retribuzioni dovute, altrimenti la tutela offerta dall'ordinamento al lavoratore sarebbe completamente svuotata con vanificazione della statuizione giudiziale. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale non si dubita più che il datore di lavoro, il quale non ripristini la funzionalità del rapporto dopo la sentenza che ha dichiarato la nullità del termine apposto al contatto di lavoro, sia tenuto nei confronti del lavoratore che abbia offerto la propria prestazione al pagamento delle retribuzioni. Né si dubita che il datore di lavoro possa eccepire l'aliunde perceptum in riferimento alle retribuzioni medio tempore percepite dal lavoratore che, nell'attesa della stabilizzazione formalmente richiesta con la messa a disposizione, abbia reperito un'altra occupazione. In materia di inadempimento del datore di lavoro all'obbligo giudiziale di ripristino del rapporto, il principio di corrispettività tra le reciproche obbligazioni ha poi subìto una vera e propria rivisitazione di carattere generale ad opera della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 2990/18, resa a Sezioni unite, si è occupata del caso in cui il committente, dopo la sentenza che accerti l'illiceità dell'appalto e quindi l'intermediazione illecita, non ripristini il rapporto di lavoro. In estrema sintesi, le Sezioni unite hanno individuato in Corte cost. 303/11 l'affermazione di principi tendenzialmente di carattere generale che impongono di superare l'orientamento circa il nesso sinallagmatico tra prestazione di lavoro e retribuzione affermato dalla precedente giurisprudenza proprio in tema di illegittima cessione di azienda. In particolare, le Sez. unite hanno affermato che esigenze di effettività della tutela giurisdizionale e di piena attuazione dei diritti del lavoratore, portano a una soluzione interpretativa rispettosa degliartt. 3, 36 e 41 Cost. in forza della quale il datore di lavoro il quale,nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisca il rapporto di lavoro senza alcun giustificato motivo,dovrà pagare le retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa offerta dal lavoratore. Le Sez. unite hanno avuto cura di precisare che tale soluzione interpretativa è l'espressione di una regola generale che non è contraddetta dalla disciplina risarcitoria propria dell'indennità prevista dall'art. 18 Stat. lav., dato che questa integra una fattispecie diversa e costituisce una deroga alla regola generale. Occorre poi ricordare che successivamente la Corte costituzionale con sentenza 29/19 si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme sulla mora del creditore (artt. 1206, 1207, 1217 cod. civ.) che, proprio nei casi di illegittime cessioni d'azienda, non consentivano, secondo l'orientamento tradizionale della Corte di Cassazione, di riconoscere la natura retributiva dell'obbligazione del cedente che non adempie l'obbligo giudiziale di ripristinare il rapporto di lavoro (l'ordinanza di rimessione era anteriore alla sentenza delle Sezioni unite). La Corte Costituzionale, considerato che le Sezioni unite della Corte di Cassazione avevano superato il precedente indirizzo, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità, invitando il giudice rimettente a decidere in base al nuovo "diritto vivente" la questione circa il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente. A livello di legittimità tale questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17784/19, cui, come detto, hanno fatto seguito numerose pronunce che hanno consolidato il nuovo orientamento. La Corte di Cassazione, in primo luogo, ha ribadito che, in base del principio stabilito dalle Sezioni unite, l'obbligazione gravante sul cedente ha natura retributiva; in secondo luogo, che il cedente non può detrarre i compensi che il lavoratore ha percepito dal cessionario. Orbene, circa la natura retributiva dell'obbligazione, l'autorevolezza della decisione di Cass., Sez. un., 2990/18, riscontrata dalla stessa Corte costituzionale, sia con la sentenza n. 303/11, che con la sentenza n. 29/19, unita alla mancanza di diverse norme speciali (es. art. 18 Stat. lav.), non consente di rimettere in discussione la questione: ed invero, una volta messa nel nulla con la dichiarazione di inefficacia la cessione di azienda e una volta che il lavoratore abbia offerto la propria prestazione, sorge per il lavoratore ceduto il diritto alla retribuzione, allo stesso modo di quanto avviene in caso di conversione del contratto a termine e in caso di interposizione illecita di manodopera (ed invero, la Corte di Cassazione già prima del nuovo orientamento introdotto da Cass. 17784/19 aveva abbandonato la tesi della natura risarcitoria, anche se ammetteva l'effetto estintivo dei pagamenti effettuati dal cessionario, v. Cass. 14136/18 e Cass. 16694/18). Peraltro, anche con riferimento alla questione circa il diritto del lavoratore già retribuito dal cessionario di rivendicare la retribuzione pure nei confronti del cedente, non vi sono ragioni per discostarsi dall'orientamento inaugurato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17784/19 (della quale si riportano qui solo alcuni tra i passi più significativi). In primo luogo, non può essere messa in dubbio l'affermazione che "soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrono i presupposti di cui all'articolo 2112 c.c. che, in deroga all'articolo 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto". Ed invero, è in tanto "il rapporto di lavoro continua con il cessionario", in quanto il trasferimento d'azienda sia legittimo ai sensi dell'art. 2112 c.c.. Ne consegue, che in caso di illegittimità del trasferimento si ha necessariamente l'instaurazione di un secondo rapporto con il cessionario alle cui dipendenze di fatto il lavoratore abbia lavorato dopo la cessione. E peraltro questo secondo rapporto è di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente, sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale. Se dunque in caso di invalidità della cessione, il rapporto il rapporto di lavoro non si trasferisce al cessionario, si capisce come i rapporti di lavoro sino due: uno de jure in capo al cedente, l'altro de facto in capo al cessionario. (...) sostiene che, anche volendo ammettere la duplicità dei rapporti, la prestazione di lavoro resa dal lavoratore resta ontologicamente unica, dal che conseguirebbe che il pagamento della retribuzione da parte del cessionario nei cui confronti la prestazione è stata resa estingue il credito del lavoratore. L'assunto, per quanto suggestivo, non considera che, pacificamente, al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, tanto se, versando il datore di lavoro in una situazione di mora accipiendi, la prestazione non sia stata resa. Secondo le parole di Cass. 17784/19, "una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la "sospensione unilaterale" del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il medesimo datore dall'obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso" (in tal senso, tra le tante, Cass. 24886/06, 23316/08). Se così è, ne consegue che la costruzione teorica offerta dalla Corte di Cassazione risulta pienamente condivisibile: accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, c'è un'altra prestazione giuridicamente resa in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del datore) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto. Neppure possono condividersi le affermazioni di (...) in ordine all'asserita invalidità della messa in mora. Come chiarito dalla Corte di Cassazione, nelle obbligazioni di fare, là dove l'adempimento della prestazione deve essere preceduto da atti preparatori che devono essere compiuti dal creditore, è sufficiente per la liberazione deldebitore che questi provveda all'intimazione del debitore prevista pertali obbligazioni dall'art. 1217 c.c. Ed invero, con l'offerta della propria prestazione il lavoratore ha fatto tutto quanto era in suo potere per poter adempiere la propria obbligazione, cosicché la prestazione rifiutata è equiparata alla prestazione effettivamente resa. Come affermato da Cass. 17789/19, dal momento in cui il datore di lavoro rifiuta senza giustificazione, l'offerta del lavoratore, "l'attività lavorativa resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall'azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato". Nello stesso senso, è utile il paragone con il lavoratore che veda non adempiuto l'obbligo di ripristino dopo la sentenza di conversione del contratto a termine: se egli avesse percepito retribuzioni per effetto di altro rapporto nel frattempo instaurato, non per questo perderebbe il diritto alle retribuzioni dovute grazie all'intervenuta conversione del rapporto; o con il dipendente unilateralmente sospeso che durante l'illegittima sospensione percepisca retribuzioni da altro datore di lavoro: in questi casi non si dubita che il rifiuto dell'offerta fatta dal lavoratore comporti, ai fini del diritto alla retribuzione, l'equiparazione della prestazione rifiutata alla prestazione effettiva, senza che il datore di lavoro inadempiente possa eccepire il pagamento del terzo. Non hanno fondamento neppure gli assunti di (...) circa l'effetto estintivo che comunque dovrebbe riconoscersi al pagamento fatto dal cessionario, in applicazione dell'art. 1180 c.c. o degli artt. 29, co. 2, e 27, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003. Come affermato dalla Cass. 17778/19, una volta acclarata la natura retributiva che grava sul cedente, "non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell'impresa originaria destinataria della cessione". In particolare, avuto riguardo alla duplicità di rapporti che sorgono da una cessione d'azienda illegittima, va sottolineato che il cessionario nuovo datore di lavoro è l'utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle diverse fattispecie di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell'attività del lavoratore cui corrisponde la retribuzione dovuta e così egli adempie ad un'obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie). Sicché l'esistenza di un debito proprio esclude la possibilità di configurare un adempimento ex art. 1180 c.c. in qualità di terzo da parte del destinatario dell'originaria cessione, atteso che il cessionario compensa un'attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell'impresa di cui è titolare. Non è pertinente il richiamo all'art. 2112, ult. co., cod. civ., che nei casi di appalto tra cedente e cessionario stabilisce la regola della solidarietà di cui all'art. 29, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003. E' infatti evidente che tale disposizione si applica solo in caso di cessioni di ramo d'azienda legittime, a tutela dei lavoratori utilizzati nell'appalto i quali potranno far valere anche contro il cedente appaltante i crediti retributivi maturati nei confronti del proprio datore di lavoro cessionario appaltatore. Ed invero, la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 2112 cod. civ. non introduce una nuova disciplina, ma si limita a chiarire che il regime della solidarietà previsto in via generale dall'art. 29, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003 a favore dei lavoratori dipendenti dell'appaltatore si applica anche nel caso particolare di appalto stipulato tra cedente e cessionario del ramo d'azienda. Insomma: la disposizione serve solo a chiarire che, se in base al comma 2 dell'art. 2112 il cedente è obbligato in solido con il cessionario per tutti i crediti che il lavoratore aveva al momento della cessione, qualora tra cedente e cessionario intervenga un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo ceduto, il cedente sarà obbligato in solido con il cessionario anche per i crediti retributivi successivi alla cessione, purché il lavoratore sia utilizzato nell'esecuzione dell'appalto. Neppure sono applicabili le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003 laddove all'art. 27, co. 2, secondo comma (previsto in materia di somministrazione irregolare, ma richiamato anche dall'art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, "valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata". Orbene, l'efficacia dei pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ne ha utilizzato effettivamente la prestazione, impedisce che nella fattispecie possa applicarsi il meccanismo previsto dall'art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276 del 2003. Come già affermato dalla Corte di Cassazione, il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell'appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda. Infatti, "il dato testuale che connette l'effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che "ha effettivamente utilizzatola prestazione" esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l'applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l'impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto". La Corte di Cassazione ha avuto cura di sottolineate che somministrazione irregolare o appalto illecito sono fenomeni strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d'azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto: infatti, nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell'unico rapporto, mentre nel secondo caso l'impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d'impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio. Le considerazioni sino a qui svolte rendono ragione della manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 76 del 2003 (oggi art. 38, co. 3, D.Lgs. n. 81 del 2015). (...) sostiene che, mentre in caso di appalto illecito il committente è liberato dai pagamenti effettuati dall'appaltatore, "nel caso di appalto lecito tale efficacia è del tutto esclusa", con ciò creando una ingiustificata disparità di trattamento. A prescindere da ogni considerazione sulla fondatezza dell'assunto circa l'esistenza di una disparità di trattamento tra il committente di appalto illecito e quello di appalto lecito, occorre ribadire che i fenomeni di interposizione illecita di manodopera sono strutturalmente diversi da quello oggetto di causa: in essi vi è un solo rapporto di lavoro che intercorre con il datore di lavoro reale effettivo utilizzatore della prestazione, mentre nella fattispecie i rapporti sono due. Neppure ha fondamento l'assunto dell'appellante secondo cui il nuovo orientamento della Corte di Cassazione avrebbe surrettiziamente introdotto una sanzione indiretta per il datore di lavoro, in violazione dell'art. 614-bis c.p.c. e dell'art. 25 Cost. La soluzione adottata dal nuovo orientamento non introduce alcuna sanzione a carico del cedente, ma si limita a offrire un'interpretazione dell'obbligo che grava sul datore di lavoro che non ripristina il rapporto di lavoro conforme a quanto già affermato da Corte costituzionale 303/11 e da Cass., Sez. un., 2990/18. In tutti i casi in cui non adempie all'obbligo giudiziale di rispristinare il rapporto di lavoro, il datore di lavoro è indefettibilmente tenuto al pagamento delle retribuzioni, perché diversamente opinando, la tutela giurisdizionale ottenuta dal lavoratore sarebbe di fatto svuotata, effetto che l'ordinamento non può ammettere. L'assunto di (...) secondo cui il nuovo orientamento della Suprema Corte sarebbe viziato da un'"ottica sanzionatoria", non considera che ciò costituisce il naturale portato del principio di effettività della giurisdizione, che si pone come un valore costituzionale tutelato dall'art. 24 Cost., e del principio del giusto processo ex art. 111 Cost. Infatti, il giusto processo, attraverso l'art. 117 Cost. e l'art. 6 della CEDU, si deve concretizzare in un processo che garantisca al titolare di una sentenza favorevole di ottenere l'utilità concreta che il diritto sostanziale gli riconosce. Vero è, che l'interpretazione contraria sostenuta da (...) finisce per legittimare la completa vanificazione della tutela giudiziale, posto che il cedente, contando sul fatto che la retribuzione è pagata dal cessionario, potrebbe liberamente scegliere di non adempiere alla sentenza, visto che non gliene deriverebbe alcun danno. Essa trascura di considerare che in tal modo viene frustrata la ragione stessa della domanda avanzata dal lavoratore, che è quella di tornare a lavorare alle dipendenze della cedente. Ed invero, questa è la vera ragione della domanda: il lavoratore sa che, attraverso il meccanismo del 2112 c.c., egli non subirà alcun danno economico perché percepirà dal cessionario il medesimo trattamento retributivo che percepiva dal cedente e quando impugna la cessione è mosso da altre ragioni, legate alla natura della nuova azienda datrice di lavoro, al confronto tra le condizioni del vecchio e del nuovo datore di lavoro ossia, a valutazioni di carattere personale che non riguardano la misura della retribuzione, ma che hanno ad oggetto interessi di altra natura: riposta fiducia in prospettive di carriera all'interno dell'azienda cedente, soddisfazione personale legata al maggior prestigio e importanza della cedente rispetto alla cessionaria, convinzione di poter un domani far valere sul mercato del lavoro, come aspetto qualificante la propria professionalità, l'esperienza lavorativa maturata presso l'azienda cedente. Egli ricorre al giudice perché è convinto che la cessione illegittima danneggi la sua aspirazione a sviluppare la propria professionalità secondo il proprio originario progetto lavorativo e l'utilità della pronuncia favorevole è unicamente quella di tornare a lavorare alle dipendenze dell'azienda cedente, visto che il trattamento retributivo presso la cessionaria è il medesimo. Detto diversamente: sono in gioco, non l'ammontare della retribuzione, ma valori attinenti la personalità e la professionalità del lavoratore. Orbene, se si abbraccia la tesi oggi sostenuta da (...), è evidente che, da un lato, si lascia libero il datore di lavoro di non adempiere alla sentenza, visto che non sopporta alcuna conseguenza dannosa, dall'altro, si ammette che la sentenza ottenuta dal lavoratore sia completamente inutile, almeno tutte le volte in cui, come nella fattispecie, il lavoratore ceduto non lamenta di ricevere un trattamento retributivo inferiore. Insomma, sembra di poter dire che l'interpretazione sostenuta da (...) non coglie le specificità proprie della tutela del rapporto di lavoro: non si fa questione di un danno legato alla misura della retribuzione, danno che, come dimostra la fattispecie, può non sussistere neppure in minima parte, ma di altri beni e valori che il lavoratore estromesso dalla illegittima cessione di ramo d'azienda si vedrebbe definitivamente pregiudicati, nonostante la sentenza favorevole. E questa è una conseguenza che l'ordinamento non può tollerare. E' in questa situazione che, in stretta conformità ai principi di Corte Cost. 303/11 circa il diritto del lavoratore alla stabilizzazione e alle retribuzioni spettanti dopo la sentenza, si innesta il nuovo orientamento della Corte di Cassazione. Il fatto che in tal modo il lavoratore percepisca due volte la stessa retribuzione è esattamente uguale a quello del lavoratore a termine che dopo la sentenza di conversione del rapporto vada a lavorare presso terzi in attesa che il datore di lavoro adempia alla stabilizzazione: anche tale lavoratore può non subire alcun danno patrimoniale (ad es. perché assunto con il medesimo inquadramento), ma tuttavia egli vede frustrata la sua aspirazione a tornare a lavorare nell'azienda che lo aveva assunto a termine illegittimamente e presso la quale, per ragioni personali e professionali, aspira a lavorare in conformità al dictum giudiziale. Il fatto che nella cessione di ramo d'azienda il lavoratore continui a svolgere le stesse mansioni di prima e a percepire la medesima retribuzione non costituisce una valida ragione per una soluzione diversa, perché ciò non toglie che il lavoratore veda frustrato il suo interesse a rientrare presso l'organizzazione imprenditoriale del cedente, unico interesse che lo ha mosso al giudizio. Senza contare che, una volta transitato al cessionario, egli non potrà opporsi al legittimo esercizio dello jus variandi del datore di lavoro e ad essere eventualmente adibito anche a mansioni e professionalità del tutto diverse dalle precedenti, purché equivalenti (si osservi che nel caso di specie i lavoratori sono transitati da un istituito bancario a un'azienda di servizi informatici). La particolarità della fattispecie concreta, costituita dal fatto che la situazione lavorativa goduta dagli odierni appellati presso (...) risulta essere in tutto e per tutto uguale a quella goduta presso (...), non può indurre a modificare l'affermazione di principi che inevitabilmente sono validi per tutti i casi di violazione dell'obbligo di ripristino da parte del cessionario. La Corte non ignora che in alcuni casi i crediti vantati oggi dai lavoratori sono molto importanti e che, in pratica, tutti i lavoratori vengono a percepire due volte la retribuzione in relazione a un medesimo periodo lavorativo; ma ciò dipende unicamente dalla condotta di (...) che ha scelto di non adempiere alla sentenza di inefficacia della cessione di ramo d'azienda (si osservi che mai è stata allegata una qualche ragione atta a giustificare un ritardo o un ostacolo nel ripristino dei rapporti) e di perpetuare l'inadempimento per anni. In proposito, è opportuno osservare che l'esistenza del precedente orientamento giurisprudenziale non può fondare alcun legittimo affidamento: (...) aveva comunque l'obbligo di ripristinare i rapporti e, avendolo violato, nessun legittimo affidamento può sorgere (che, infatti, sarebbe un affidamento contra jus). Insomma, il fatto che la giurisprudenza abbia mutato avviso circa le conseguenze che derivano dalla violazione dell'obbligo di ripristino non può fondare alcun legittimo affidamento, perché se (...) avesse adempiuto l'ordine giudiziale nessun effetto pregiudizievole avrebbe subito: quindi, è solo la sua condotta la causa delle gravose conseguenze che oggi lamenta (è appena il caso di osservare che non vi è spazio alcuno per ipotizzare l'esistenza di un c.d. overruling che riguarda solo i mutamenti giurisprudenziali di norme processuali, v. Cass. 552/21 in tema di mutamento di orientamento circa l'obbligo di repêchage). Da ultimo, non è fondato neppure il motivo circa i conteggi delle spettanze. Il quantum debeatur si ricava aritmeticamente dalla busta paga emessa da (...) per ciascun lavoratore, la quale prova la retribuzione in godimento al momento della cessione; sulla base di tale busta paga è stata poi indicata nel conteggio la retribuzione tabellare, aggiornata in base al CCNL di categoria, spettante per ciascun mese rientrante nel periodo di causa. Quindi, i conteggi sviluppati sulla base delle buste paga risultano dettagliati e precisi, mentre le contestazioni sono formulate richiamando l'esistenza di accordi stipulati con le rappresentanze sindacali, ma senza deduzioni precise in ordine a quale sarebbe l'erroneità della quantificazione. Con riferimento all'E., unica voce contestata e il cui emolumento, a dire di (...), sarebbe spettato solo sino a dicembre 2014, è sufficiente osservare che, trattandosi di emolumento fisso della retribuzione, esso spetta agli odierni appellati in forza del principio di irriducibilità della stessa. In conclusione, l'appello è infondato. E' infondato anche l'appello incidentale. In primo luogo, i lavoratori hanno contestato la sentenza nella parte in cui ha rideterminato gli importi dovuti in misura inferiore (invero solo leggermente) rispetto a quella portata dai decreti ingiuntivi. Non vi è motivo di riformare la sentenza sul punto. Quanto all'E., va osservato che in data 6.10.2014 è stato sottoscritto l'accordo sindacale con il quale l'E. è stato conglobato nella voce di stipendio con decorrenza dall'1.1.2015. Come osservato in maniera condivisibile dal primo giudice, tale accordo vincola anche gli odierni appellati, i quali, per le considerazioni sino a qui svolte, alla data di sottoscrizione dell'accordo erano da considerarsi a tutti gli effetti dipendenti di (...). Per lo stesso motivo i lavoratori sono vincolati anche dagli altri accordi sindacali per il contenimento dei costi stipulati da (...) con le rappresentanze sindacali, accordi depositati in atti da (...). In secondo luogo, I lavoratori censurano la motivazione del Tribunale che ha compensato le spese di lite facendo leva sul il revirement della Corte di Cassazione e sull'esistenza di decisioni di merito favorevoli a (...). In particolare, i lavoratori sottolineano che al momento della sentenza i principi affermati da Cass. 17784/19 erano stati ribaditi dalla Corte di Cassazione già nelle numerose sentenze emesse nel 2020 e nel 2021. La censura non merita accoglimento. E' noto che l'art. 92 c.p.c. (come da ultimo modificato dall'art.13 D.L. n. 132 del 2014, conv. nella L. n. 162 del 2014, e come recentemente interpretato dalla Corte Costituzionale, prevede che la compensazione delle spese di lite è permessa nel caso di reciproca soccombenza, ovvero, in alternativa, quando ricorra una delle due ipotesi tassative previste dalla stessa norma, dell'assoluta novità della questione trattata o del mutamento di giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, ovvero ancora, quando ricorra l'ipotesi a queste assimilabile, elaborata in sede di interpretazione della norma in conformità alla Costituzione, dei gravi ed eccezionali motivi (cfr. Corte Cost. 77/2018, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 92, co. 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, potendo queste ultime rivenirsi anche in situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, dovendo estendersi, in simmetria, l'ipotesi prevista dalla disposizione censurata dell'assoluta novità della questione - che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza - anche ad altre analoghe situazioni, appunto, di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a "gravi ed eccezionali ragioni"). Ora, nella fattispecie occorre in primo luogo considerare che numerosi decreti ingiuntivi sono stati emessi subito dopo Cass. 17784/19 e sulla scorta solo di questa sentenza (e delle altre due analoghe 17785/19 e 17786/19 emesse in pari data). Quindi, sebbene si tratti di una sentenza che autorevolmente muta orientamento, al momento della proposizione da parte di (...) di molte opposizioni a decreto ingiuntivo il nuovo orientamento, per quanto autorevole, non era ancora consolidato, il che giustificava la decisione di (...) di resistere in giudizio. Ed è chiaro che una volta opposti i primi decreti ingiuntivi emessi sulla scorta della sola Cass. 17784/19, dovevano giocoforza essere opposti anche i successivi, non potendo (...) comportarsi diversamente nei confronti dei vari lavoratori. In secondo luogo, è ragionevole che ragioni di prudenza legate alla particolarità della fattispecie concreta (alto numero dei lavoratori coinvolti, rilevante importanza economica della complessiva vicenda, particolare situazione dei lavoratori transitati in una società solida come F.) inducessero comunque la Banca, tenuto anche conto della brevità dei termini per proporre opposizione, ad una difesa giudiziale volta a cercare di dimostrare la persistente validità dell'orientamento giurisprudenziale precedente. In definitiva, ricorrono dunque motivi, analoghi a quelli gravi ed eccezionali previsti dall'art. 92 c.p.c. interpretato in conformità a Costituzione, che giustificavano l'integrale compensazione delle spese. L' appello incidentale va quindi rigettato. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese del grado. Il Collegio dà atto, ai fini del pagamento del contributo previsto dall'art. 1, co. 17, L. n. 228 del 2012, che sia l'appello principale che l'appello incidentale, sono stati integralmente rigettati. P.Q.M. respinge l'appello avverso la sentenza n. 18/22 del Tribunale di Mantova; respinge l'appello incidentale; compensa le spese del grado Così deciso in Brescia il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ROMA SEZIONE LAVORO E PREVIDENZA composto dai Sigg. Magistrati: dott.ssa Vittoria Di Sario - Presidente dott. Vincenzo Selmi - Consigliere rel. dott. Vito Riccardo Cervelli - Consigliere all'esito dell'udienza del 12.1.2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2518 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2020 vertente TRA (...), rappresentato e difeso, giusta procura in atti, dagli avvocati Gi.D'A., Ma.Ci. e Ba.Di. ed elettivamente domiciliato presso lo studio D'A., sito in Roma, viale (...) -APPELLANTE - E (...) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in atti, dagli avvocati Ro.Pe. e Ma.Sa. ed elettivamente domiciliata presso il loro studio sito in Roma, Via (...) E (...) S.P.A. (già (...) s.r.l.), in persona del suo rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in atti, dagli avvocati Ro.Pe. e Ma.Sa., ed elettivamente domiciliata presso il loro studio sito in Roma, Via (...); - APPELLATI E APPELLANTI INCIDENTALI - OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 1050/2020 pubblicata in data 30/1/2020. RAGIONI DELLA DECISIONE Con la sentenza impugnata il Tribunale Roma, in funzione di giudice del lavoro, rigettava il ricorso presentato da (...) al fine di: - fare accertare e dichiarare il proprio diritto, ai sensi dell'art. 1 delle Norme Transitorie e di attuazione del Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (CNLG), all'incidenza delle maggiorazioni corrisposte per lavoro domenicale e mancato riposo settimanale sui seguenti istituti: 13esima mensilità, indennità redazionale e relativa aggiunta, TFR, retribuzione dovute periodo di ferie o relativa indennità compensative, retribuzione dovuta per le festività infrasettimanali e per permessi straordinari con conseguente condanna delle società (...) spa e (...) spa, in solido, al pagamento in suo favore, per il periodo dal 1/1/2007 al 31/12/2007 degli importi di Euro 42.815 a titolo di incidenze delle maggiorazioni corrisposte per lavoro domenicale nonché, per il periodo dal 1/6/2011 al 31/12/2017 dell'importo di Euro 8.793,24 a titolo di incidenze delle maggiorazioni corrisposte per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta; - fare accertare e dichiarare il proprio diritto al ricalcolo dell'indennità televisiva sulla base dei parametri fissati dall'art. 3 del Contratto Integrativo Aziendale (CIA) del 11/5/1992 con conseguente condanna delle suddette società convenute al pagamento in suo favore, a titolo di differenze retributive maturate per indennità televisiva e conseguenti incidenze su lavoro straordinario, scatti di anzianità, lavoro esterno, festività, lavoro notturno e indennità 10% e su ogni altra altra voce prevista dal CCNG e dagli accordi integrativi aziendali, dell'importo di Euro 8.771,58 oltre interessi e rivalutazione monetaria; - ottenere la condanna delle società (...) s.p.a. e (...) spa ad effettuare gli accantonamenti per TFR sui maggiori importi dovuti e al risarcimento del danno per incompleto versamento di contributi previdenziali in misura da determinarsi in separato giudizio. Avverso tale sentenza (...) presentava appello fondato su più motivi. (...) S.p.A. e (...) spa si costituivano in giudizio resistendo all'accoglimento del gravame e presentando appello incidentale condizionato, nel caso di accoglimento dell'impugnazione, in ordine all'eccezione di prescrizione per i crediti antecedenti al quinquennio decorrente a ritroso dalla data di notifica del ricorso o, in via subordinata, dalla data di ricezione della raccomandata del 3/10/2014. All'odierna udienza, la causa è stata decisa come da separato dispositivo. (...), premesso di essere giornalista professionista e di lavorare alle dipendenze della (...) s.p.a. (già (...) srl) dal 4/2/1987 (già dipendente di (...) s.p.a.,, poi divenuta (...) spa, passato alle dipendenze di (...) srl, a decorrere dal 1/9/2012, ai sensi dell'art. 2112 c.c., a seguito di conferimento di ramo d'azienda) allegava di avere lavorato, negli anni dal 2007 al 2017, presso la Redazione Sport della testata "Tg (...)", venendo inserito nei relativi turni di lavoro, di domenica, percependo le relative maggiorazioni dal gennaio 2007 al 31/12/2017 per un totale di 460 domeniche nonchè, dal 1/6/2011 al 31/12/2017, nel giorno destinato al riposo compensativo settimanale, percependo le relative maggiorazioni, per un totale di 86 giornate, in entrambi i casi secondo quanto indicato nel ricorso e nella documentazione ivi allegata. Rivendicava pertanto il suo diritto, in base a quanto stabilito nelle note a verbale dall'art. 1 delle Norme transitorie di attuazione del CNLG, al pagamento in suo favore delle incidenze delle maggiorazioni corrisposte per tali giornate lavorative su 13esima mensilità, indennità redazionale e relativa aggiunta, TFR, retribuzione dovute periodo di ferie o relativa indennità compensative, retribuzione dovuta per le festività infrasettimanali e per permessi straordinari, da calcolarsi secondo i criteri indicati in ricorso. Rivendicava inoltre il proprio diritto all'indennità prevista dall'art. 9 del C.I.A. del 11/5/1992, pari al 15% del minimo tabellare della categoria di appartenenza, considerando quale "minimo di stipendio" ai sensi dell'art. 3 del suddetto C.I.A. l'importo stabilito dal CNLG maggiorato del 10% (anziché del solo minimo di stipendio dal CNLG) e al conseguente ricalcolo, in ragione delle maggiori somme dovute a tale titolo, di quanto dovuto a titolo di lavoro straordinario, lavoro domenicale, festività, mancato riposo, indennità compensative, uscita, trasferte e per ogni altra voce prevista dal CNLG e dagli accordi integrativi aziendali. Rivendicava conseguentemente proprio diritto all'adeguamento degli importi dovuti a titolo di TFR e al risarcimento del danno subito per omesso versamento dei contributi previdenziali. Il Tribunale rigettava integralmente tali domande. Respingeva le rivendicazioni relative alle incidenze delle maggiorazioni per lavoro prestato di domenica o nel giorno destinato al riposo compensativo settimanale rilevando come quanto disposto nelle note a verbale dell'art. 1 delle Norme transitorie di attuazione del CNLG, dovesse interpretarsi, sulla base dei canoni interpretativi di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., e in particolare in ragione del comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto e del complessivo contenuto delle varie clausole contrattuali, nel senso di richiedere a tale scopo il requisito della continuità tanto con riferimento al lavoro domenicale che a quello prestato nel giorno di riposo compensativo. Respingeva altresì anche la domanda relativa al riconoscimento del diritto al ricalcolo dell'indennità televisiva evidenziando come il tenore dell'art. 9 del C.I.A. non consentisse dubbi interpretativi e come non potesse condividersi quanto sostenuto dal lavoratore in ordine all'essere il minimo di stipendio, ai sensi di tale disposizione contrattuale, pari all'importo stabilito dal CNLG maggiorato del 10% dovendosi prendere a riferimento esclusivamente quello previsto dal suddetto contratto collettivo senza maggiorazioni. Con i primi cinque motivi l'appellante contesta la gravata sentenza nella parte in cui aveva affermato l'insussistenza del suo diritto all'inclusione, nel trattamento retributivo dovuto, delle incidenze determinate dalle maggiorazioni corrispostegli per lavoro domenicale e per il lavoro prestato durante il riposo compensativo settimanale (capi A e B delle conclusioni del ricorso). Contesta a tale proposito, con i primi tre motivi, l'erroneità da parte del Tribunale dell'interpretazione delle note a verbale dell'art. 1 delle Norme transitorie di attuazione del CNLG nella parte in cui aveva ravvisato il requisito della continuità della prestazione anche con riferimento al lavoro domenicale (anziché al solo lavoro durante il riposo compensativo settimanale) lamentando in particolare l'erronea applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c. e l'erroneità del riferimento, a fondamento di tale decisione, al comportamento delle parti contraenti. Con i successivi quarto e quinto motivo contesta la sentenza gravata nella parte in cui aveva omesso di ravvisare tanto con riferimento al lavoro domenicale che a quello durante il riposo settimanale il requisito della continuità nonostante le allegazioni effettuate dal lavoratore e la documentazione prodotta a loro supporto. Con il sesto motivo l'appellante ribadisce la correttezza della quantificazione degli emolumenti richiesti a tale titolo così come effettuata nella precedente fase del giudizio affermando l'infondatezza e la genericità delle contestazioni effettuate dalle società appellante. Tali motivi, che si ritiene opportuno esaminare congiuntamente in ragione della loro reciproca connessione, risultano fondati. Si intende dare continuità a quanto già affermato da questo stesso Collegio con riferimento a fattispecie analoghe (in tal senso in particolare CdA n. 2116/2021 del 18/06/2021. Nello stesso senso anche CdA Roma n. 3338 del 16/9/2022). Secondo quanto disposto dall'art. 1 delle Norme Transitorie e di Attuazione del CNLG "Per "retribuzione" si intende quanto percepito dal giornalista quale corrispettivo per la sua prestazione, in forza di qualsiasi norma legislativa o contrattuale". Nelle note a verbale di tale articolo si precisa quanto segue: "1) In particolare fanno parte integrante della retribuzione, agli effetti previsti, le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato in domenica, e - ove esistano dette maggiorazioni con carattere continuativo - per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta, nonché, nel caso che siano state convenute a forfait, le maggiorazioni per il lavoro prestato con carattere di continuità oltre l'orario; di tali maggiorazioni va pertanto tenuto conto nella tredicesima mensilità, nell'indennità redazionale e relativa aggiunta, nel trattamento di fine rapporto e nell'indennità di mancato preavviso, nella retribuzione dovuta in periodo di ferie o - nel caso di mancato godimento - nell'indennità compensativa, nella retribuzione dovuta per le festività infrasettimanali, nonché in quella dovuta per permessi straordinari. Il pagamento delle incidenze delle suddette maggiorazioni dovrà essere effettuato entro la fine di febbraio dell'anno successivo a quello al quale si riferiscono secondo modalità concordate tra l'azienda e il comitato di redazione. 2) In considerazione delle caratteristiche della prestazione richiesta al giornalista in domenica, nelle festività infrasettimanali e, nei casi previsti, nel giorno di riposo derivante dalla settimana corta, le parti convengono che ove intervenissero modificazioni tali da escludere le prestazioni anzidette esamineranno preventivamente con l'azienda e con il corpo redazionale interessati gli effetti sul piano retributivo che potranno insorgere". L'art. 1 delle Norme transitorie di attuazione del CNLG sancisce quindi che per "retribuzione" si intende quanto percepito dal giornalista quale corrispettivo per la sua prestazione, in forza di qualsiasi norma legislativa o contrattuale e puntualizza (nelle note a verbale) che fanno parte integrante della retribuzione, agli effetti previsti, le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato in domenica, e - ove esistano dette maggiorazioni con carattere continuativo - per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta, nonché, nel caso che siano state convenute a forfait, le maggiorazioni per il lavoro prestato con carattere di continuità oltre l'orario. Ciò premesso il percorso motivazionale della sentenza appellata non appare condivisibile. L'affermazione del Tribunale, per cui la locuzione "dette maggiorazioni" legittimerebbe la lettura della clausola nel senso che, riferendosi detta espressione alle maggiorazioni per il lavoro domenicale, queste ultime concorrerebbero al calcolo degli istituti retribuitivi indiretti solo se corrisposte con continuità, al pari delle maggiorazioni per il giorno di riposo derivate dalla settimana corta, contrasta in primo luogo con la struttura sintattica della frase, nella quale l'impiego della virgola palesa la netta separazione tra il sostantivo a destra della stessa (le maggiorazioni per il lavoro domenicale) e quello alla sua sinistra (le maggiorazioni). L'erroneità di tale esegesi, peraltro, emerge in maniera più chiara ove l'elemento sintattico, che secondo il Tribunale sarebbe richiamato, sia inserito nella frase al posto della locuzione "dette maggiorazioni". In tal modo, infatti, il periodo avrebbe il seguente tenore letterale: "fanno parte integrante della retribuzione, agli effetti previsti, le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato in domenica, e - ove esistano le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato di domenica con carattere continuativo - per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta". Appare, infatti, evidente che in tal modo la clausola negoziale non si limiterebbe a contenere una mera ripetizione di un termine sintattico, che appunto l'utilizzo della proposizione "dette maggiorazioni" dovrebbe evitare, ma assumerebbe un senso intrinsecamente contraddittorio, posto che non si comprende in che modo possa sciogliersi l'aporia tra l'affermazione precedente, per cui le maggiorazioni corrisposte per il lavoro di domenica "fanno parte integrante della retribuzione", e quella successiva, in forza della quale le maggiorazioni per il lavoro prestato di domenica fanno parte integrante della retribuzione solo se corrisposte con carattere continuativo, senza contare che una tale lettura finisce in sostanza per separare irrimediabilmente la locuzione "lavoro prestato" dall'altro termine al quale dovrebbe riferirsi, ossia " per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta". Il senso della clausola in esame, invece, diviene più chiaro ove l'espressione "dette maggiorazioni" sia riferita soltanto alla precedente espressione "corrisposte per il lavoro prestato", perché in tal caso il precetto contrattuale assumerebbe il diverso senso per cui "fanno parte integrante della retribuzione, agli effetti previsti, le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato in domenica, e - ove esistano le maggiorazioni per il lavoro prestato con carattere continuativo - per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta"; la formulazione letterale del periodo non può certo dirsi impeccabile da un punto di vista sintattico e grammaticale, palese essendo l'errore di punteggiatura, ma almeno il suo significato è sufficientemente chiaro (le maggiorazioni per il lavoro domenicale fanno sempre parte della retribuzione, mentre quelle per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta ne fanno parte solo se erogate con carattere continuativo). L'uso della locuzione "ove esistano", inoltre, conforta da un punto di vista letterale la qui accolta esegesi della pattuizione, atteso che il postulato della "inesistenza" può ragionevolmente predicarsi unicamente in relazione al lavoro prestato nel giorno di riposo conseguente alla settimana corta e non certo per il lavoro prestato di domenica; tale ultima festività, infatti, è sempre esistente (non può non esistere), sicché ogni volta che il prestatore d'opera sia chiamato a lavorare in tale giorno sussiste il diritto alla maggiorazione, ma così non è in relazione alla settimana corta, che potrebbe anche non essere adottata dalle singole redazioni (si ricordi che il CNLG si applica a tutte le tipologie di lavoro giornalistico), con conseguente inesistenza del relativo giorno di riposo e quindi della relativa maggiorazione. Tali considerazioni, per quanto portino ad un risultato esegetico conforme al canone interpretativo di cui all'art. 1367 c.c., attribuendo significato a tutte le "parole" (per usare l'espressione di cui all'art. 1362 c.c.) della clausola, non esimono dall'esaminare le ulteriori considerazioni spese dal Tribunale al fine di ricostruire la "comune intenzione delle parti", perché le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 cod. civ., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d'essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico. Si ritiene a tale proposito, in particolare, che non sia persuasivo (e merita le censure rivoltegli) l'ulteriore argomento speso dal Tribunale al fine di corroborare l'interpretazione qui avversata, ossia che "Il comportamento tenuto dalle parti tutto l'arco di tempo di applicazione della disposizione contrattuale in esame e la circostanza che per un consistente arco di tempo le modalità di interpretazione d'applicazione effettuate dei datori di lavoro non siano mai state contestate porta un ulteriore elemento a favore dell'interpretazione contestata dalla parte ricorrente". Il primo giudice, infatti, in primo luogo ha attribuito rilevanza alla condotta serbata nel tempo dai singoli lavoratori e dalla datrice di lavoro, che tuttavia è irrilevante ai fini dell'art. 1362, comma 2 c.c., per non essere imputabile a nessuna della parti stipulanti il contratto collettivo e trattandosi di condotta non soltanto non serbata da tutte le parti stipulanti il CNLG, ma soprattutto di contenuto non univoco, astrattamente giustificabile anche alla luce della non chiara percezione dell'inadempimento contrattuale perpetrato dalla controparte. La sentenza appellata ha inoltre ritenuto che il punto 2) delle note a verbale costituissero conferma della necessità che anche il lavoro domenicale fosse prestato con carattere continuativo. Il ragionamento del primo giudice, tuttavia, non persuade. L'obbligo di esaminare preventivamente con l'azienda e con il corpo redazionale interessati gli effetti sul piano retributivo conseguenti alle modificazioni tali da escludere il lavoro domenicale, previsto dal punto 2) delle note a verbale, trova evidente giustificazione nell'impossibilità delle parti contraenti di determinare a priori la specifica modalità (se con carattere episodico o continuativo) con le quali i singoli datori di lavoro andranno ad organizzare il lavoro prestato nel giorno di domenica; di qui la necessità di prevedere l'obbligo di preventivo confronto in ogni ipotesi di sua modificazione, non essendo determinabile a priori in che modo la nuova organizzazione lavorativa inciderà sulla retribuzione del giornalista. Tale pattuizione, dunque, non giustifica in alcun modo la lettura offertane dal Tribunale, in punto di necessaria natura continuativa del lavoro domenicale, poiché è una mera petizione di principio l'affermazione del primo giudice, per cui le maggiorazioni in questione dovessero dar diritto alle incidenze sugli altri istituti contrattuali anche se corrisposte a fronte di prestazioni non continuative, ma occasionali o sporadiche, non avrebbe senso la previsione della necessità di un riesame dei possibili effetti derivati "sul piano retributivo" "nel caso in cui dovesse essere esclusa la futura esecuzione delle predette prestazioni. La modificazione delle modalità organizzative del lavoro domenicale, infatti, impone il confronto sulle sue conseguenze retributive, che potranno essere insignificanti ove il lavoro sia prestato in maniera discontinua e invece saranno di maggior rilievo, se prestato con continuità. In conclusione, in accoglimento dei motivi di appello in esame, deve affermarsi che l'art. 1 delle Norme Transitorie di Attuazione del CNLG deve essere interpretato nel senso che le maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato in domenica, anche se erogate in maniera non continuativa, debbono essere computate nella tredicesima mensilità, nell'indennità redazionale e relativa aggiunta, nel trattamento di fine rapporto e nell'indennità di mancato preavviso, nella retribuzione dovuta in periodo di ferie o - nel caso di mancato godimento - nell'indennità compensativa, nella retribuzione dovuta per le festività infrasettimanali nonché in quella dovuta per permessi straordinari. L'appello risulta fondato anche nella parte in cui lamenta il mancato accertamento da parte del giudice di prime cure del requisito della continuità non solo con riferimento al lavoro nel giorno di riposo compensativo ma anche con riferimento al lavoro domenicale. Deve osservarsi in proposito che il carattere della continuità deve essere valutato in relazione alla particolare natura di ciascun compenso ed alla sua correlazione alla prestazione lavorativa ordinaria, nel senso che tale compenso, seppur erogato nelle sole giornate di effettiva presenza, è comunque correlato all'ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 31/1/2014 n. 2133; Cass. 29/9/2011 n. 19917), attraverso un'indagine volta ad accertare, oggettivamente e in concreto, i requisiti dell'obbligatorietà, della continuatività e della determinatezza (o determinabilità) del compenso stesso (Cass. 23/3/2009 n. 6963), fermo restando che la continuità non può essere confusa con la quotidianità della prestazione, in quanto al detto fine è sufficiente l'abituale ripetitività, non essendo incompatibile, ai fini predetti, neppure una certa variabilità del compenso (Cass. 6/6/1998 n. 5592). Tanto premesso in punto di diritto, in punto di fatto vi è da osservare che, alla luce delle prodotte buste paga e dei conteggi contenuti nel ricorso, l'appellante risulta avere prestato la propria attività lavorativa nella giornata di domenica quasi ogni mese di ogni singolo anno, con una frequenza media superiore alle tre domeniche al mese, sicché appare veramente arduo escludere il requisito della continuità della prestazione lavorativa domenicale, tenuto anche conto dell'evidente obbligatorietà e determinabilità di detto emolumento, peraltro diretto a compensare una prestazione lavorativa ordinaria, seppur resa in un giorno festivo. Identiche considerazioni, poi, debbono svolgersi, ad onta del minor numero di giornate lavorate, in relazione alle prestazioni lavorative rese nei giorni di riposo derivanti dalla settimana corta, il cui numero e distribuzione nell'arco dell'anno lavorativo se valutati complessivamente con riferimento al pluriennale arco temporale oggetto di allegazione (che comprende gli anni dal 2011 al 2017), palesano la natura tutt'altro che occasionale o meramente sporadica della prestazione lavorativa resa nel giorno di riposo compensativo, che appare al contrario, soprattutto se letta alla luce della rilevante frequenza del ricorso al lavoro domenicale, espressione non di esigenze meramente contingenti o sporadiche, ma ordinaria modalità di organizzazione dell'attività lavorativa. Quanto dovuto a tale titolo all'appellante dovrà pertanto essere determinato negli importi, rispettivamente, di Euro 42.670,13 a titolo di incidenza delle maggiorazioni per il lavoro domenicale e di Euro 8.793,13 a titolo di incidenza per mancato riposo settimanale. Ciò sulla base dei conteggi effettuati da parte ricorrente contenuti in ricorso, così come emendati, per quanto riguarda specificamente le incidenze sulle maggiorazioni per il lavoro domenicale, con conteggi depositati in data 14/1/2020 (considerando le domeniche effettivamente lavorate nel mese di luglio 2016, pari queste ultime a 2 anziché a 4), conteggi da reputarsi correttamente formulati sulla base delle risultanze dei prospetti paga prodotti in atti. Devono a tale proposito reputarsi generiche o comunque infondate le contestazioni effettuate sotto il profilo contabile da parte delle società appellante. Risulta a tale proposito corretto, in particolare, l'inserimento in tali conteggi dell'EDR, in quanto inserito fra gli elementi retributivi mentre deve reputarsi irrilevante che l'indennità c.d. redazionale sia stata già corrisposta in misura massima, poiché qui non si tratta di erogarla in misura maggiore bensì di tenere conto dell'efficacia riflessa delle maggiorazioni corrisposte ad altro titolo. Non coglie nel segno quanto sostenuto dalle appellate laddove ricordano che TFR e indennità sostitutiva delle ferie non godute possono essere corrisposte solo alla fine del rapporto, essendo l'appellante tuttora in servizio: obliterando che, non a caso, in ricorso è stato richiesto solo che si statuisse il diritto ai maggiori accantonamenti per TFR come per legge e che nessuno dei due istituti è oggetto dei conteggi né ha concorso a formare la somma complessiva richiesta (si ribadisce a tale proposito quanto già affermato da questa Corte, con riferimento a fattispecie analoga, con la citata sentenza n. 3338/2022). Per tali importi, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione del credito sino al saldo, dovrà pertanto, in parziale riforma della gravata sentenza, essere emessa pronuncia di condanna a carico di entrambe le società appellante in solido, limitatamente per la società (...) ai crediti retributivi maturati antecedentemente alla cessione del ramo di azienda. Risulta infondata l'eccezione di parziale prescrizione del credito sollevata da entrambe le società appellate con riferimento ai crediti maturati anteriormente al quinquennio precedente la notifica del ricorso introduttivo (o in subordine alla ricezione della lettera di diffida del 3/10/2014). Trattasi di eccezione non esaminata dal giudice in quanto evidentemente ritenuta assorbita dall'accertamento dell'infondatezza delle rivendicazioni dell'appellante, e oggetto dell'unico motivo di appello incidentale presentato dalle appellate, appello incidentale che dovrà pertanto essere respinto. Il termine quinquennale applicabile ai crediti retributivi oggetto di rivendicazione (riferibili a partire dall'anno 2008) risulta infatti essere stato tempestivamente interrotto dalla lettera raccomandata del 9/7/2012, avente ad oggetto tra le altre anche le rivendicazioni retributive in questione, lettera inviata dall'appellante a (...) (all'epoca titolare del rapporto di lavoro oggetto di controversia) e da quest'ultima ricevuta in data 11/7/2012 (all. 6 del ricorso di primo grado). Non può infatti condividersi quanto sostenuto a tale proposito dalle società appellate in ordine alla impossibilità di attribuire valore interruttivo alla suddetta raccomandata per carenza di specificità, requisito quest'ultimo che deve invece ritenersi ravvisabile nel caso di specie. Con la lettera in questione il S. lamenta infatti che l'art. 1 delle Norme transitorie e di attuazione del CNLG risulta violato fra l'altro "anche in relazione alle maggiorazioni corrisposte per il lavoro prestato di domenica e per il giorno di riposo derivante dalla settimana corta? non correttamente considerati ai fini del calcolo degli altri istituti indiretti", dichiarando di rivendicare "il pagamento delle incidenze delle suddette maggiorazioni (art. 1 norme transitorie e di attuazione CNLG)" e chiedendo inoltre "il pagamento delle differenze retributive dovute in virtù della erronea applicazione dell'art. 9 della contrattazione integrativa aziendale, in relazione a quanto previsto dall'art. 3 del predetto contratto integrativo". Pertanto si fa riferimento con esattezza alle pretese oggetto dell'odierno appello, con specifico riferimento, quanto alle incidenze del lavoro domenicale e nel riposo compensativo, all'incidenza sugli istituti indiretti (citando nel dettaglio i titoli e le norme del CCNL costitutive dei medesimi diritti) con l'esplicita richiesta di pagamento delle differenze retributive senza che possa attribuirsi rilievo ostativo, di per sé alla mancata esatta quantificazione dei crediti. Si ribadiscono a tale proposito i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità alla cui stregua al fine di produrre effetti interruttivi della prescrizione un atto deve contenere l'esplicitazione di una pretesa e l'intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto, con l'effetto sostanziale di costituire in mora il soggetto indicato (elemento oggettivo). Quest'ultimo requisito, pur richiedendo la forma scritta, non postula l'uso di formule solenni, né l'osservanza di particolari adempimenti essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente, con un qualsiasi scritto diretto al debitore e portato comunque a sua conoscenza, la volontà di ottenere dal medesimo il soddisfacimento del proprio diritto (In ordine a tali principi cfr. Cass. n. 15140 del 31/05/2021 e Cass. n. 15714 del 14/06/2018. In ordine al non essere necessaria la quantificazione del credito cfr. Cass. n. 5681 del 15/03/2006). Dette maggiorazioni incidono anche sul TFR, sicché l'attuale datrice di lavoro, (...) S.p.A., deve essere anche condannata a provvedere al suo ricalcolo. Deve, infine, essere accolta la domanda di condanna generica al risarcimento del danno da omissione contributiva (conseguente al mancato versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali in relazione alle maggiori somme corrisposte per effetto della presente decisione), sussiste l'interesse del lavoratore ad agire per il risarcimento del danno ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l'erogazione delle prestazioni previdenziali, avvalendosi della domanda di condanna generica, ammissibile anche nel rito del lavoro, per accertare la potenzialità dell'omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell'evento dannoso (coincidente, in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali, con il raggiungimento dell'età pensionabile), l'azione risarcitoria ex art. 2116, secondo comma, cod. civ., oppure quella diversa, in forma specifica, ex art. 13 della L. 12 agosto 1962, n. 1338 (risultano pertanto fondati anche l'ottavo ed il nono motivo di appello con cui viene reiterata la domanda avanzata tale proposito nella precedente fase del giudizio). Risultano infondati il settimo e l'ottavo motivo con cui l'appellante contesta l'errata interpretazione dell'art. 9 C.I.A. del 1992, in punto di base di calcolo della c.d. indennità televisiva, escludendo che la maggiorazione del 15% prevista con riferimento a tale emolumento retributivo a decorrere dal 1/1/1994 dovesse applicarsi sulla retribuzione base come già aumentata al 10% ai sensi dell'art. 3 dello stesso contratto integrativo. Sostiene l'appellante che il minimo tabellare da prendere a riferimento a tale scopo sia invece quello previsto dal CNLG, ribadendo la fondatezza della pretesa anche relativamente all'incidenza dell'erronea applicazione da parte delle società datrici delle norme contrattuali in materia sul calcolo delle ulteriori voci contrattuali indicate in ricorso (lavoro straordinario, lavoro domenicale, festività, mancato riposo, indennità compensativa, uscita, trasferte e di ogni altra voce prevista dal CNLG e dagli accordi integrativi aziendali). La disposizione contrattuale citata dispone che "Tenuto conto del ruolo specifico del giornalista televisivo e in considerazione il riconoscimento di una indennità televisiva pari al 10% del minimo tabellare della categoria di appartenenza (Acc. del 12 ottobre 1990) si concorda di aumentare detta indennità di un ulteriore 2% a decorrere dal 01/01/93 e di un 3% a decorrere dal 01/01/94. A partire dal 01/01/94 detta indennità sarà, pertanto, del 15%". Il giudice di prime cure, richiamando un precedente giurisprudenziale di questa Corte, ha in particolare, sulla base del tenore letterale della disposizione contrattuale citata, escluso la fondatezza delle rivendicazioni avanzate a tale proposito dall'appellante. Rilevava in particolare quanto disposto all'art. 9 in ordine al doversi calcolare l'indennità televisiva sulla base del "minimo tabellare della categoria di appartenenza", espressione quest'ultima tale da richiamare necessariamente le tabelle dei minimi previsti per le categorie del contratto collettivo e non contenente alcun riferimento all'art. 3 dello stesso C.I.A., disposizione quest'ultima che necessariamente, avrebbe dovuto, nell'ipotesi propugnata dall'appellante, essere richiamata. Ritiene il Collegio che tali conclusioni siano meritevoli di conferma dovendosi ribadire, anche a tale proposito, quanto affermato con la citata pronuncia n. 2116 del 18/6/2022. L'infondatezza della tesi dell'appellante emerge infatti già sulla base dell'interpretazione sistematica degli artt. 3 e 9 CIA 1992. L'aumento stipendiale dettato dall'art. 3 CIA 1992 è infatti applicabile ai soli giornalisti e praticanti (allora) dipendenti dalla G.N.I. s.r.l., essendo stato introdotto appunto in forza di accordo aziendale, sicché non vi è dubbio che la locuzione "minimo tabellare della categoria di appartenenza" contenuta nell'art. 9 CIA 1992 rimandi immediatamente ai minimi retributivi di cui al contratto nazionale, come peraltro confermato dal rilevo che l'art. 9 in esame, pur essendo contenuto nello stesso accordo integrativo, non rinvia in alcun modo all'art. 3, così palesando l'assoluta autonomia delle due disposizioni. In definitiva dovrà quindi, in parziale accoglimento dell'appello principale e in parziale riforma della gravata sentenza nel resto confermata, disporsi la condanna di (...) s.p.a. e in solido (...) s.p.a., quest'ultima limitatamente ai crediti retributivi maturati antecedentemente alla cessione del ramo di azienda, a pagare all'appellante le somma di Euro 42.670,13 per l'incidenza delle maggiorazioni per il lavoro domenicale e di Euro 8.793,24 per l'incidenza per il mancato riposo settimanale. In entrambi i casi oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ex art. 429 c.p.c. dalla maturazione del credito sino al saldo. Dovrà inoltre emettersi pronuncia di condanna della società (...) al conseguente ricalcolo del Tfr accantonato e di entrambe le società appellate al risarcimento del danno da omissione contributiva. Dovranno invece essere respinti entrambi gli appelli incidentali. Tali i motivi della presente decisione. Le spese del doppio grado di giudizio debbono interamente compensarsi tra le parti alla luce della reciproca soccombenza, della novità della questione e dell'esistenza di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di merito. Stante il tenore della decisione deve trovare applicazione nei confronti delle appellanti incidentali l'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte definitivamente pronunciando, così provvede: in parziale accoglimento dell'appello principale e, in parziale riforma della gravata sentenza nel resto confermata, condanna (...) s.p.a. e in solido (...) s.p.a., quest'ultima limitatamente ai crediti retributivi maturati antecedentemente alla cessione del ramo di azienda, a pagare all'appellante S. la somma di Euro 42.670,13 per l'incidenza delle maggiorazioni per il lavoro domenicale e di Euro 8.793,24 per l'incidenza per il mancato riposo settimanale. In entrambi i casi oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ex art. 429 c.p.c. dalla maturazione del credito sino al saldo. Condanna (...) S.p.A. al conseguente ricalcolo del Tfr accantonato. Condanna le società appellate al risarcimento del danno da omissione contributiva. Rigetta gli appelli incidentali. Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Dà atto che sussistono, nei confronti delle appellanti incidentali le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. Così deciso in Roma il 12 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2023.

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