Sentenze recenti risarcimento danni

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno  Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1180 del 2023, proposto da An.Cu., rappresentato e difeso dall'avvocato Ge.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Omissis, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Co.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero della Cultura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Salerno, domiciliataria ex lege in Salerno, corso Vittorio Emanuele, 58; e con l'intervento di ad opponendum: Vin.Cu., rappresentato e difeso dall'avvocato Luigi Vuolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento del provvedimento del 1° giugno 2023, prot. n. 12303: diniego di fiscalizzazione degli abusi contestati con l’ordinanza di demolizione n. 2091 del 6 agosto 2019. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Omissis e del Ministero della Cultura; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2024 il dott. Olindo Di Popolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Col ricorso in epigrafe, Cu.An. (in appresso, C. A.) impugnava, chiedendone l’annullamento, il provvedimento del 1° giugno 2023, prot. n. 12303, col quale il Responsabile dell’Area Sportello Unico per l’Edilizia, Demanio ed Urbanistica del Comune di Omissis aveva rigettato l’istanza di fiscalizzazione ex art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 prot. n. 18518 del 6 ottobre 2020 ed aveva disposto l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione n. 2091 del 6 agosto 2019. Le opere abusive sottoposte a fiscalizzazione, ex ante contestate con l’ordinanza di demolizione n. 2091 del 6 agosto 2019, resistite alla relativa impugnazione, respinta dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 3204 del 29 marzo 2023 (pronunciata in parziale riforma della sentenza di questa Sezione n. 1934 del 14 dicembre 2020) afferivano alle unità immobiliari in proprietà del ricorrente, ricomprese nell’edificio ubicato in Omissis, via (...), censito in catasto al foglio 24, particella 616, e distribuito su tre livelli fuori terra (piano terraneo, primo e secondo mansardato) ed un livello seminterrato. Si trattava, in particolare, delle seguenti opere, rimaste sine titulo per effetto dell’annullamento del permesso di costruire (PdC) in sanatoria n. 4275 del 17 marzo 2015 e del PdC n. 4279 del 27 marzo 2015, che era stato pronunciato - in accoglimento del ricorso straordinario ex artt. 8 ss. del d.p.r. n. 1199/1971, proposto da Cuono Vincenzo (in appresso, C. V.) e in base al precipuo rilievo dell’illecita prosecuzione degli abusi sottoposti a condono ex artt. 31 ss. della l. n. 47/1985 con istanza del 29 marzo 1986, prot. n. 802 - con decreto del Presidente della Repubblica (d.p.r.) del 27 marzo 2017 (R.S. 2491/P), previo parere conforme del Consiglio di Stato, sez. I, n. 2459 del 29 ottobre 2018: - realizzazione (assentita con l’annullato PdC in sanatoria n. 4275 del 17 marzo 2015) ed ampliamento (assentito con l’annullato PdC n. 4279 del 27 marzo 2015) del piano secondo mansardato; - ampliamento (assentito con l’annullato PdC n. 4279 del 27 marzo 2015) del piano primo, mediante realizzazione sul terrazzo esistente di un corpo di fabbrica sormontato da lastrico solare. Il gravato diniego di fiscalizzazione era essenzialmente motivato in base al rilievo che la natura non già formale, bensì sostanziale dei vizi infirmanti i giurisdizionalmente annullati PdC in sanatoria n. 4275 del 17 marzo 2015 e PdC n. 4279 del 27 marzo 2015 impediva ogni ulteriore valutazione circa la rappresentata impossibilità di ripristino dello status quo ante. Nell’avversare siffatta determinazione, il ricorrente deduceva, in estrema sintesi, che il Comune di Omissis: a) in violazione del dictum giurisdizionale di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3204 del 29 marzo 2023, nonché in difetto di istruttoria e di motivazione, avrebbe omesso di valutare - così come richiestogli con l’istanza del 6 ottobre 2020, prot. n. 18518 - la condizione di fiscalizzazione costituita dall’impossibilità di riduzione in pristino, ai fini dell’applicabilità della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, senza tener conto delle analisi strutturali fornitegli dall’interessato dietro proprio apposito invito; b) in difetto del presupposto, di istruttoria e di motivazione, non avrebbe considerato che - come dimostrato dalla dettagliata documentazione tecnica elargita dall’interessato - la rimozione delle opere abusive avrebbe compromesso l’equilibrio statico delle porzioni legittime dell’intero edificio, anche in proprietà di terzi; c) avrebbe richiamato, in termini del tutto inconferenti, l’ordinanza di demolizione n. 2162 del 29 maggio 2023, inerente ad un manufatto (pergolato) a sé stante rispetto alle opere contestate con l’ordinanza di demolizione n. 2091 del 6 agosto 2019, nonché non sanzionabile in via repressivo-ripristinatoria; d) avrebbe obliterato la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza del 6 ottobre 2020, prot. n. 18518. Costituitosi l’intimato Comune di Omissis eccepiva l’inammissibilità (per carenza di interesse ad agire) e l’infondatezza del gravame esperito ex adverso. Si costituiva, altresì, in giudizio il Ministero della Cultura. Interveniva, infine, ad opponendum C. V., in veste di proprietario confinante col compendio immobiliare in titolarità di C. A., eccependo l’inammissibilità (per omessa notifica nei suoi confronti) e l’infondatezza del ricorso. All’udienza pubblica del 30 aprile 2024, la causa era trattenuta in decisione. Venendo ora a scrutinare il ricorso, esso si rivela infondato per le ragioni illustrate in appresso. Tanto può esimere, quindi, il Collegio dallo scrutinio delle eccezioni in rito sollevate dalle parti resistenti. Innanzitutto, gli ordini di doglianze rubricati retro, sub n. 3.a-b, si infrangono contro il chiaro tenore sia della sentenza di primo grado n. 1934 del 14 dicembre 2020 sia della sentenza di appello n. 3204 del 29 marzo 2023, le quali hanno unanimemente escluso l’applicabilità della fiscalizzazione ex art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 alla fattispecie in esame. 8.1. In particolare, questa Sezione ha statuito che: «A ripudio delle proposizioni attoree, milita, innanzitutto, l’approccio ermeneutico restrittivo suggellato in subiecta materia dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 17 del 7 settembre 2020. “La disposizione in commento - recita la pronuncia richiamata - fa specifico riferimento ai vizi ‘delle proceduré, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall’art. 21 nonies comma 2 della legge generale sul procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura ‘proceduralé, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di ‘rimozione del viziò afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto. Diversamente da quanto sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale “estensivo” del quale si è dato sopra atto, in casi siffatti il sindacato del giudice chiamato a vagliare la legittimità della operata fiscalizzazione dell’abuso deve avere ad oggetto proprio la natura del vizio. La “motivata valutazione” dell’amministrazione infatti afferisce al preliminare vaglio amministrativo circa la rimovibilità (anche) in concreto del vizio, ex art. 21 nonies comma 2, e rileva non già rispetto al binomio fiscalizzazione/demolizione, quanto in relazione al diverso binomio convalida/applicazione dell’art. 38, costituente soglia di accesso per applicazione dell’intero impianto dell’art. 38 (e non solo dell’opzione della fiscalizzazione). La descritta esegesi è confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima, nella sentenza 209/2010 ha avuto modo di chiarire, giudicando della legittimità di una norma di interpretazione autentica di una disposizione provinciale di tenore identico a quella nazionale che qui si discute (interpretazione autentica tesa ad estendere la fiscalizzazione ai vizi sostanziali), che ‘l'espressione ‘vizi delle procedure amministrativé non si presta ad una molteplicità di significati, tale da abbracciare i ‘vizi sostanzialì, che esprimono invece un concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in quest'ultimo potenzialmente contenutò. Del resto depongono in tal senso anche considerazioni di carattere sistematico. La tutela dell’affidamento attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può infatti giungere sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito. A ciò si aggiunge, nei casi in cui l’annullamento del titolo sia intervenuto in sede giurisdizionale su istanza di proprietario limitrofo o associazioni rappresentative di interessi diffusi (giova sottolineare che l’art. 38 non si sofferma sulla natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento), che la tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità, essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario. Il punto di equilibrio sin qui individuato nel delicato bilanciamento fra tutela dell’affidamento, tutela del territorio e tutela del terzo non è, ad avviso di questa Adunanza plenaria, depotenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul carattere fondamentale del diritto di abitazione e sul necessario rispetto del principio di proporzionalità nell’inflizione della sanzione demolitoria (si veda, da ultimo, Corte EDU, 21/4/2016 Ivanova vs. Bulgaria). Nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi a seguito della nota sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 500/99, si è affermato, anche per via legislativa, che il’bene della vità cui il privato aspira è meritevole di protezione piena a prescindere dalla qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo della posizione giuridica al quale esso di correla. E’ quindi ben possibile che, a prescindere dalla qualificazione giuridica della posizione giuridica del costruttore che dinanzi all’annullamento in sede amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire reclami il ristoro dei danni conseguenti al legittimo affidamento dal medesimo riposto circa la legittimità dell’edificazione realizzata (sul punto le Sezioni unite sono ferme nel ritenere che trattasi di diritto soggettivo: SSUU, 24 settembre 2018, n. 22435; 22 giugno 2017, n. 15640; 4 settembre 2015, n. 17586; 23 marzo 2011, n. 6596), l’illecito commesso dall’amministrazione comporti il sorgere di un’obbligazione all’integrale risarcimento, per equivalente, del danno provocato. Obbligazione che interviene a ridare coerenza, ragionevolezza ed effettività al sistema delle tutele, ove la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga in irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e ambientali sopra ricordati. Al quesito posto dall’ordinanza di rimessione deve quindi rispondersi nel senso che ‘i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozioné”. Sulla base di tali premesse, va ribadito l’indirizzo rigoroso invalso anche presso la Sezione. In particolare, come osservato nella sentenza n. 1417 del 10 ottobre 2018 (confermata in appello da Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2019, n. 6852), “la regola immanente all’art. 38, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione reale, la quale, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa. Nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, non ricorrente nella fattispecie in esame, il modello legale tipico di atto consequenziale è, infatti, proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento del permesso di costruire si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela realé privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 21 marzo 2006, n. 3124; sez. VIII, 7 gennaio 2015, n. 34; 10 marzo 2016, n. 1397; 7 aprile 2016, n. 1746; 8 luglio 2016, n. 3490; sez. IV, 4 gennaio 2017, n. 68; TAR Veneto, Venezia, 21 aprile 2016, n. 417)”». 8.2. Nello stesso senso, il Consiglio di Stato, sez. VI, ha statuito che: «La sentenza di prime cure ha fatto piana e corretta applicazione dell’orientamento consolidatosi a seguito della nota pronuncia dell’Adunanza plenaria, n. 17 del 2020, secondo cui l’art. 38 cit. fa specifico riferimento ai vizi "delle procedure", avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l'operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l'an e il quomodo dell'attività edificatoria. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all'amministrazione l'obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un'attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell'esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall'art. 21 nonies, comma 2, della legge generale sul procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un'illegittimità di natura "procedurale", essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest'ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di "rimozione del vizio" afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all'impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto, sarebbe suscettibile di convalida e che, per le motivate valutazioni espressamente fatte dall'amministrazione, non risulta esserlo in concreto. Nel caso di specie, se per un verso (peraltro dirimente, a fini di inapplicabilità della norma evocata) i vizi che hanno portato all’annullamento delle sanatorie non hanno il predetto mero carattere procedurale, riguardando piuttosto la consistenza e la sostanza degli abusi, per un altro verso non appaiono oggetto di adeguata smentita le puntuali considerazioni svolte dalla sentenza appellata in merito alla insussistenza della presunta impossibilità tecnica della demolizione della porzione abusiva (piano secondo mansardato) dell’edificio. In proposito, rispetto alle relazioni tecniche di parte depositate in giudizio dall’odierno appellante, assumono rilievo preminente sia la nota del Responsabile dell’Area Governo del Territorio, Patrimonio e Demanio del Comune di Omissis prot. n. 24008 del 29 novembre 2019 (ove si rileva che “trattasi di opere di sopraelevazione, autonome ed indipendenti, la cui eliminazione anche in base alle progettazioni che versano agli atti non può ritenersi di pregiudizio né alla parte conforme dell’edificio né alle proprietà viciniori”), sia la relazione tecnica di parte prodotta dall’odierno appellato costituito, ove si illustra come il secondo piano mansardato del fabbricato in questione non sia collegato strutturalmente all’adiacente corpo di fabbrica in proprietà di V. C., cosicché la sua rimozione sarebbe insuscettibile di compromettere l’equilibrio statico di quest’ultimo». 8.3. Ciò posto, il Comune di Omissis, nel ripudiare la proposta fiscalizzazione, ha fatto buon governo delle regole applicative dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 declinate in via pretoria nelle pronunce citate sulla scorta dell’indirizzo nomofilattico sancito da Cons. Stato, ad. plen., 7 settembre 2020, n. 17, allorquando ha arrestato ogni valutazione circa la possibilità o meno del ripristino dello status quo ante al rilievo ostativo pregiudiziale della natura sostanziale - e, quindi, non emendabile in via pecuniaria - dei vizi infirmanti i giurisdizionalmente annullati PdC in sanatoria n. 4275 del 17 marzo 2015 e PdC n. 4279 del 27 marzo 2015. 8.4. Né vale a menomare il superiore approdo l’inciso, contenuto nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3204 del 29 marzo 2023, secondo cui «l’ordine di demolizione delle opere edilizie costituisce un atto dovuto, mentre la valutazione di non procedere alla rimozione delle parti abusive, nel caso in cui questa sia pregiudizievole per le parti legittime, è soltanto un'eventualità della fase esecutiva, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione». Tale inciso sta, infatti, a indicare soltanto che la monetizzazione dell’abuso esulava dalla fase di irrogazione della sanzione demolitoria - la quale aveva formato oggetto del giudizio definito con la suindicata pronuncia -, afferendo, invece, alla successiva fase della sua esecuzione. Sta, cioè, a rappresentare la carenza di interesse concreto e attuale a dolersi di una determinazione non ancora assunta né assumibile al momento dell’allora gravata ordinanza di demolizione n. 2091 del 6 agosto 2019. 8.5. Ad ulteriore ripudio delle proposizioni attoree, è appena il caso di rammentare che la Sezione, nella sentenza n. 1934 del 14 dicembre 2020, ha affermato anche che: «... l’invocata fiscalizzazione ex art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 neppure sarebbe configurabile, allorquando a formare oggetto dell’annullamento giurisdizionale sia non già un titolo edilizio rilasciato preventivamente alla realizzazione dell’intervento in progetto, bensì - come, appunto, nella specie - un titolo edilizio rilasciato in sanatoria, posteriormente alla realizzazione di opere abusive, rispetto al cui mantenimento in loco non è ragionevolmente predicabile la generazione di alcun legittimo affidamento in favore del relativo autore o proprietario. In questo senso, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 21 novembre 2016, n. 5364 ha statuito che: “L'art. 38 del d.p.r. n. 380/01, prevedendo una ipotesi di sanatoria mediante pagamento di una sanzione pecuniaria per le ipotesi di annullamento del permesso di costruire, è volto a tutelare l'affidamento del soggetto che abbia edificato in virtù di titolo edilizio solo successivamente annullato. Detto disposto normativo non può trovare applicazione nel caso in cui le opere siano state realizzate ab initio ‘sine titulò, rilasciato solo successivamente a sanatoria e annullato in sede giurisdizionale, in quanto difettano i presupposti per la tutela dell'affidamento dell'istante (Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2014, n. 5261)”». Stante la natura plurimotivata del provvedimento del 1° giugno 2023, prot. n. 12303, l’acclarata legittimità del rilievo di inapplicabilità dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001 ai titoli edilizi infirmati da vizi sostanziali induce a predicare l’inammissibilità del profilo di censura rubricato retro, sub n. 3.c, e rivolto avverso l’ulteriore rilievo di emissione dell’ordinanza di demolizione n. 2162 del 29 maggio 2023: ciò, in quanto, in presenza di un atto sorretto da autonome ragioni giuridico-fattuali, è bastevole l’intangibilità anche di una sola delle argomentazioni poste a suo fondamento, perché l’atto medesimo possa resistere al richiesto sindacato giurisdizionale su di esso, con conseguente assorbimento - per carenza di interesse e per finalità di economia processuale - delle censure dirette a contestare ogni ulteriore nucleo motivazionale del provvedimento gravato. Non riveste, infine, portata invalidante la denunciata obliterazione del preavviso ex art. 10 bis della l. n. 241/1990 (cfr. retro, sub n. 3.d). Al riguardo, giova rammentare che l'ultimo periodo dell'art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, come modificato dall'art. 12, comma 1, lett. i, del d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020, stabilisce che «la disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10 bis». Nei casi di violazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/1990, è, cioè, esclusa l'applicazione del solo secondo periodo dell'art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, a tenore del quale «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Rimane, invece, applicabile la disposizione contenuta nel primo periodo dell’art. 21 octies, comma 2, della l, n. 241/1990, in base alla quale «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». In questo senso, il Cons. Stato, sez. III, 29 luglio 2022, n. 6708 e 23 dicembre 2022, n. 11289 ha precisato che solo in caso di provvedimento discrezionale l'eventuale violazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/1990 determina l'annullamento del provvedimento, così inquadrando la portata dell'art. 21 octies, nella versione successiva alla riforma di cui all'art. 12, comma 1, lett. i, del d.l. n. 76/2020. Ed invero, seppure la centralità del contraddittorio procedimentale consente l'emersione di fatti e circostanze che, sottoposte alla valutazione dell'amministrazione, possono indurre ad una favorevole conclusione del procedimento, questo aspetto diviene recessivo quando, in presenza di specifici presupposti individuati dal legislatore, una sola può essere la scelta legittima dell'amministrazione in conformità con la legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 2 febbraio 2023, n. 752). Nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 22 agosto 2023, n. 4838 ha affermato che: «Le previsioni di cui all'art. 10 bis l. n. 241/1990 devono essere coordinate con quelle di cui all'art. 21 octies, comma 2, l. n. 241/1990. Il primo periodo del comma due del predetto art. 21 octies opera tuttora in relazione alla violazione procedimentale del menzionato art. 10 bis. Ciò anche dopo le modifiche introdotte dall'art. 12, comma 1, lett. i, del d.l. n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 120/2020, le quali incidono propriamente sull'applicazione del secondo periodo del comma due dell'art. 21 octies L. n. 241/1990 in esame, secondo cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato [...]". La lettura coordinata dei menzionati artt. 10 bis e 21 octies, comma 2, l. n. 241/1990, esclude che il provvedimento sia annullabile qualora, per la natura vincolata o comunque per la dimostrata non modificabilità del suo contenuto dispositivo, in sede di riedizione del potere non si potrebbe addivenire ad una decisione differente da quella in concreto adottata. In questi casi, l'attivazione del contraddittorio procedimentale - per il tramite della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza - risulterebbe non utile, in quanto non contribuirebbe in alcun modo a modificare il contenuto sostanziale della decisione. Ne consegue che l'annullamento del provvedimento negativo in relazione esclusivamente al vizio formale della mancata comunicazione del preavviso di rigetto ed una volta accertata l'infondatezza della pretesa sostanziale azionata dal privato, si tradurrebbe in un'antieconomica duplicazione di attività amministrativa, tenuto conto che, dopo la caducazione dell'atto impugnato, nella fase di riedizione del potere, la nuova decisione da assumere non potrebbe avere un contenuto ed un dispositivo diverso da quello proprio della decisione annullata (cfr. Cons. Stato, sez. II, 18 marzo 2020, n. 1925; 12 febbraio 2020, n. 1081; 17 settembre 2019, n. 6209; sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1156; sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 256 e 27 settembre 2018, n. 5562...)». Ebbene, nel caso in esame, alla luce delle considerazioni svolte, il diniego di fiscalizzazione dell'abuso, siccome fondato sul rilievo oggettivo e preclusivo della natura sostanziale dei vizi infirmanti i titoli edilizi giurisdizionalmente annullati, costituiva l'esito vincolato del procedimento, con la conseguenza che il provvedimento in questa sede impugnato non può essere annullato, pur in difetto del preavviso di rigetto (cfr., in termini, TAR Umbria, Perugia, 2 aprile 2024, n. 225). In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso in epigrafe va, nel complesso, respinto. Quanto alle spese di lite, appare equo compensarle interamente tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Nicola Durante - Presidente Olindo Di Popolo - Consigliere, Estensore Laura Zoppo, Referendario L'ESTENSORE IL PRESIDENTE Olindo Di Popolo Nicola Durante IL SEGRETARIO

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 218 del 2022, integrato da motivi aggiunti, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Sa. Lo. e Gi. Li. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero della Difesa (Brigata Alpina "Julia" - 8° Reggimento Alpini), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Trieste, domiciliataria ex lege in Trieste, piazza (...); Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: per l'annullamento dell'ALLEGATO "B" - foglio prot.-OMISSIS- a firma del Comandante del Reggimento Col. -OMISSIS- notificato al ricorrente a mani in data 04/04/2022; per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del provvedimento sopra citato nonché dell'allegato "D" (a firma del Comandante del Reggimento Col. -OMISSIS- alla comunicazione -OMISSIS- dd. 21/12/2021; ivi compreso l'invito a produrre la documentazione relativa all'obbligo vaccinale; di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale, ove lesivo o allo stato non conosciuto; nonché per l'accertamento del diritto del ricorrente a percepire la retribuzione ed ogni altro compenso o emolumento, comunque denominati, relativamente al periodo di sospensione o, in via gradata, del diritto a percepire la metà degli assegni a carattere fisso e continuativo secondo le disposizioni del Codice dell'Ordinamento Militare e per la relativa condanna dell'Amministrazione a corrispondere tali somme quale risarcimento del danno subito dal ricorrente in conseguenza dei provvedimenti sopra citati; nonché per l'accertamento del diritto del ricorrente a vedersi riconosciuti, per il periodo di sospensione, la maturazione di classi e scatti economici, la maturazione della licenza ordinaria, gli effetti pensionistici, gli accantonamenti contributivi, i trattamenti fissi e continuativi, gli assegni accessori, i compensi indennitari e l'accertamento della validità del periodo di sospensione ai fini dello svolgimento delle attribuzioni specifiche/periodi di comando richiesti per l'avanzamento; nonché per la condanna dell'Amministrazione, ex art. 30 c.p.a., al risarcimento in forma specifica del danno ingiusto subito dal ricorrente derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa in via equitativa ritenuta di giustizia; previa, ove necessario, disapplicazione dell'art. 2 del Decreto Legge n. 172 del 26.11.2021, convertito in Legge n. 3 del 21.01.2022, recante "Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali"; previa, ove necessario, remissione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto legge n. 172 del 26.11.2021, convertito in legge n. 3 del 21.01.2022; Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati dal signor -OMISSIS- il 21/6/2023: per l'annullamento - del decreto di detrazione dell'anzianità di grado -OMISSIS-, notificato l'11/04/2023, emesso dal Ministero della Difesa, Direzione Generale per il Personale Militare, a firma del Dirigente dott. -OMISSIS-; - di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale, ove lesivo o allo stato non conosciuto; nonché per la condanna dell'Amministrazione al pagamento della perdita economica subita dal ricorrente a seguito della detrazione di anzianità decretata e degli effetti derivanti dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa in via equitativa ritenuta di giustizia; Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 marzo 2024 la dott.ssa Manuela Sinigoi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso introduttivo notificato il 19 aprile 2022 e depositato il successivo giorno 18 maggio 2022, il ricorrente, C.le Magg. C.a. dell'Esercito italiano effettivo alla Compagnia Comando Supporto Logistico - 8° Reggimento Alpini di Venzone (UD), ha impugnato l'atto in epigrafe compiutamente indicato, con cui è stata disposta nei suoi confronti la sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa per inosservanza dell'obbligo vaccinale e, conseguentemente, decurtata la sua retribuzione nel periodo di sospensione. Il ricorrente ha dedotto le seguenti censure: 1) Violazione ed errata applicazione degli artt. 885 - 877 - 878 - 893 - 914 -915 - 916 - 917 - 920 - 922 - 936 e 1352 del Codice dell'Ordinamento militare, decreto legislativo n. 66 del 15.03.2010 - incompetenza - violazione ed errata applicazione dell'art. 4 della legge n. 17 del 25.01.1982 e dell'art. 4 della legge n. 97 del 27.03.2001 - violazione del decreto legge 127/2021 - violazione del decreto legge n. 44/2021 - violazione della legge n. 76/2021 - violazione della legge n. 106/2021 - violazione dei principi di imparzialità e proporzionalità - illogicità ed ingiustizia manifesta; 2) Illegittimità costituzionale del decreto legge n. 172 del 26.11.2021, convertito in legge n. 3 del 21.01.2022, per violazione degli artt. 2 - 3 - 4 - 13 - 32 - 35 - 36 - 117 della Costituzione - violazione degli artt. 3, 21 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - violazione dell'art. 14 della Convenzione dei diritti dell'uomo - violazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale n. 12 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali - violazione dell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - violazione del regolamento UE 953/2021 - violazione della dichiarazione di Helsinki - violazione art. 500 del d.lgs. n. 297/1994 (T.U. della scuola) e dell'art. 82 del d.P.R. n. 3/1957. Ha indi chiesto: a) l'annullamento del provvedimento impugnato, previa eventuale rimessione alla Corte Costituzionale delle questioni di legittimità costituzionale prospettate; b) l'accertamento del diritto a percepire la retribuzione ed ogni altro compenso o emolumento relativamente al periodo di sospensione; c) in via gradata, l'accertamento del diritto a percepire la metà degli assegni a carattere fisso e continuativo secondo le disposizioni del d.lgs. n. 66/2010; d) in ogni caso, la condanna dell'Amministrazione al risarcimento in forma specifica del danno ingiusto. 2. L'Amministrazione si è costituita in giudizio in resistenza al ricorso. 3. Con l'ordinanza -OMISSIS-del 23 marzo 2023 questo T.A.R. ha sospeso il giudizio nell'attesa della pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella causa C-765/2021 su questione pregiudiziale. 4. Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 9 giugno 2023 e depositato il successivo 21 giugno 2023, il ricorrente ha gravato, chiedendone l'annullamento, il decreto di detrazione dell'anzianità di grado nel frattempo emesso dall'Amministrazione, denunciandone l'illegittimità per: 1) Violazione dell'art. 4 ter del decreto legge n. 44/2021 convertito in legge n. 76 del 28.05.2021 - eccesso di potere per errore nei presupposti - violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa; 2) Violazione delle disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate - violazione degli articoli 2251 bis, 2251 ter, 2251 quater, 2251 sexies, 2252, 2252 bis, 2252 ter, 2253, 2253 bis, 2253 ter, 2253 quater, 2253 quinquies, 2253 sexsies, 2253 septies, 2254 bis, 2254 ter, 2254 quater, 2255, 2255 bis, 2255 ter, 2256 del d.lgs. n. 66/2010 - violazione del decreto legislativo n. 94 del 29.05.2017 - violazione del decreto legislativo n. 173 del 27.12.2019 - eccesso di potere per errore nei presupposti - violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa. 5. Il 5 settembre 2023 ha presentato apposita istanza di fissazione dell'udienza per la prosecuzione del giudizio e, poi, con atto in data 18 marzo 2024 ha chiesto il passaggio della causa in decisione senza discussione. 6. All'udienza pubblica del giorno 20 marzo 2024 la causa è passata in decisione. 7. Il ricorso è fondato solo in minima parte. Per il resto è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato. 8. Le censure relative all'illegittimità della disposta sospensione dal servizio sono inammissibili. Dall'esame degli atti risulta infatti che con atto -OMISSIS- del 21 dicembre 2021, spedito per la notifica al ricorrente in data 23 dicembre 2021 e da questi ricevuto il successivo 30 dicembre 2021 (doc. 007 - fascicolo Ministero in data 31/05/2024), è stato accertato l'inadempimento dell'obbligo vaccinale ed è stata disposta a carico del medesimo la sospensione dall'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari, con i correlati effetti di legge. Come da preliminare rilievo formulato con l'ordinanza collegiale n. -OMISSIS- e ribadito all'odierna udienza ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 73, comma 3, c.p.a., l'effetto lesivo della sfera giuridica del ricorrente, in ragione della sospensione dal servizio, si era già manifestato il 21 dicembre 2021 (rectius il 30 dicembre 2021); sicché era quell'atto a dover essere immediatamente impugnato, cosa che invece non è avvenuta. Con l'atto del 31 marzo 2022, impugnato con il presente ricorso, l'Amministrazione ha solamente operato una ricognizione del periodo di sospensione, quantificando l'effettiva durata della sospensione dal servizio già in precedenza disposta. Per la parte in cui si ribadisce la già disposta sospensione ed i suoi effetti, l'atto ricognitorio impugnato non presenta alcuna novità ; ne consegue la natura meramente confermativa dell'atto in parte qua (cfr. T.A.R. Piemonte, n. 196/2024). Le censure che in questa sede contestano in sé l'istituto della sospensione sono quindi inammissibili per carenza d'interesse. 9. Quanto alle restanti questioni di merito, in buona parte infondate, questo Collegio condivide in toto le argomentazioni sviluppate dal T.A.R. Lombardia, Brescia, nella sentenza n. 940/2023 che devono qui intendersi richiamate. 9.1. Nello specifico del primo motivo di ricorso, quanto alla censura d'incompetenza del Comandante di Corpo ad adottare l'atto ricognitivo del periodo di sospensione, è sufficiente ribadire che l'art. 4-ter, comma 2, del d.l. 44/2021, prevede che il rispetto dell'obbligo vaccinale sia assicurato, per il personale del comparto difesa e sicurezza, da "i responsabili delle strutture in cui presta servizio il personale", nel senso chiarito dal T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 940/2023 ("La competenza di cui alla disposizione appena citata si riferisce ad " assicurare il rispetto dell'obbligo" di vaccinazione: questo significa, con tutta evidenza, non solo accertare i casi di inosservanza di tale obbligo, ma anche applicare la sospensione dal lavoro che la legge prevede come conseguenza di tale inosservanza, perché il rispetto di un qualsivoglia obbligo viene assicurato anche applicando le conseguenze sfavorevoli che l'ordinamento prevede per il caso di inosservanza. Peraltro la legge prevede che la sospensione sia automatica e contestuale all'accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale: il 3° comma dell'art. 4 ter cit. dispone infatti che " L'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro" . Pertanto il titolare del potere di accertamento può senza dubbio dichiarare l'avvenuta sospensione dal lavoro del pubblico dipendente, con un atto che è meramente ricognitivo dell'effetto prodotto ex lege, e non costitutivo"). 9.2. L'ulteriore censura relativa alla violazione dell'art. 893, comma 2, del d.lgs. n. 66/2010 ("Il rapporto di impiego può essere interrotto, sospeso o cessare solo in base alle disposizioni del presente codice") è inammissibile, perché essa attiene, a ben vedere, ad un vizio che doveva essere dedotto con la tempestiva impugnativa del presupposto decreto di sospensione dal servizio. La censura è comunque manifestamente infondata "perché è nozione istituzionale che un atto avente forza di legge, quale il decreto legge che ha introdotto l'obbligo di vaccinazione anti-Covid per alcune categorie di lavoratori, ben può derogare a una fonte di pari rango, qual è il codice dell'ordinamento militare. Che poi la norma derogatoria, giustificata dall'emergenza pandemica, sia collocata all'interno del medesimo codice oppure in un corpus normativo distinto, non ha nessuna incidenza sulla legittimità e sull'efficacia della norma medesima. Peraltro la scelta di non collocare la norma all'interno del c.o.m. risulta del tutto ragionevole, considerando sia il carattere temporaneo della stessa, collegata alla durata della pandemia, sia il fatto che l'obbligo vaccinale è stato previsto con identica disciplina, in un corpus normativo unitario, anche per altre categorie di dipendenti pubblici estranei all'ordinamento militare" (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 940/2023). 9.3. La censura relativa alla violazione dell'art. 920 del d.lgs. n. 66/2010 ("Al militare durante la sospensione dall'impiego compete la metà degli assegni a carattere fisso e continuativo. Agli effetti della pensione, il tempo trascorso in sospensione dal servizio è computato per metà ") è fuori fuoco atteso che essa non tiene conto né si confronta con quanto previsto dalla norma speciale derogatoria. L'art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall'art. 2 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, dettava precise disposizioni sulle modalità di accertamento della violazione dell'obbligo vaccinale e sulle sue esatte conseguenze, prevedendo al riguardo che "... L'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati". Si osserva, peraltro, che le ipotesi in cui è prevista la corresponsione di emolumenti al personale sospeso dall'impiego (art. 82 del d.P.R. 3/1957, art. 920 del d.lgs. 66/2010) si correlano a vicende (procedimenti penali o disciplinari pendenti) che "procedono in modo autonomo ed insensibile, rispetto alla volontà dell'incolpato o dell'imputato di poterne bloccare lo svolgimento (per l'effetto, dimostrandosi giustificata l'erogazione di alcune provvidenze, quali la corresponsione di parte degli assegni a carattere fisso e continuativo e dell'assegno alimentare); laddove la persistenza della sospensione dal diritto all'erogazione della prestazione lavorativa (e della percezione degli emolumenti a fronte di essa spettanti) consegue a fatto "proprio", volontariamente posto in essere dal dipendente (obbligato a vaccinarsi) e dal medesimo liberamente rimuovibile, in ogni momento, per effetto del mero assolvimento del comportamento doveroso di cui trattasi" (cfr. T.A.R. Lazio, n. 4914/2022). Come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 14/2023 (al paragrafo 13.2) a proposito della norma analoga valevole per il personale sanitario, la sospensione dal lavoro prevista dall'art. 4 ter del d.l. 44/2021 non è una sanzione, ma è "una conseguenza calibrata, in termini di sacrificio dei diritti dell'operatore sanitario, che sia strettamente funzionale rispetto alla finalità perseguita di riduzione della circolazione del virus. E ciò tanto in termini di durata, posto che... il legislatore ha introdotto, sin dall'inizio, una durata predeterminata dell'obbligo vaccinale, modificandola, costantemente, in base all'andamento della situazione sanitaria, giungendo ad anticiparla appena la situazione epidemiologica lo ha consentito; quanto in termini di intensità, trattandosi di una sospensione del rapporto lavorativo, senza alcuna conseguenza di tipo disciplinare, e non di una sua risoluzione". Del tutto generica è poi la deduzione che "alle categorie di soggetti obbligati per legge alla somministrazione del vaccino in oggetto avrebbe dovuto essere rilasciata una apposita prescrizione medica che, invece, come noto, non viene rilasciata da alcun medico curante derivandone anche da tale circostanza l'illegittimità del provvedimento di sospensione oggi impugnato", atteso che l'obbligo di vaccinazione discendeva direttamente dalla legge, senza necessità di ulteriori intermediazioni. In ogni caso il vizio attiene all'originario provvedimento sospensivo. 10. Il secondo motivo è in buona parte inammissibile e precisamente nella parte in cui con esso la parte ricorrente ha dedotto l'illegittimità della disposta sospensione per la violazione di parametri costituzionali e internazionali; censure che, tuttavia, andavano rivolte al provvedimento col quale la sospensione era stata disposta. 10.1. Quanto alle conseguenze patrimoniali, connesse in effetti agli specifici provvedimenti qui gravati, si rileva quanto segue. 10.1.1. Quanto agli aspetti concernenti il riconoscimento di un assegno alimentare, sotto il profilo della legittimità costituzionale dell'art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, la Corte Costituzionale ha già esaminato la questione, ritenendola infondata, anche sotto il profilo della proporzionalità e ragionevolezza (cfr. par. 14 della sentenza n. 15/2023). 10.1.2. Fatto salvo quanto si osserverà in seguito (pt. 10.1.4), anche la dedotta violazione dell'art. 36 Cost. risulta manifestamente infondata atteso che "la situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa in cui si viene a trovare il dipendente che non abbia adempiuto all'obbligo vaccinale deriva pur sempre da una scelta individuale di quest'ultimo e non da un fatto oggettivo. Nondimeno il legislatore, proprio nel rispetto della eventuale scelta del lavoratore di non attenersi all'obbligo vaccinale, si è limitato a prevedere la sospensione del rapporto di lavoro, disciplinando la fattispecie alla stregua di una impossibilità temporanea non imputabile. Di conseguenza, poiché la prestazione offerta dal lavoratore che non si è sottoposto all'obbligo vaccinale non è conforme al contratto, come integrato dalla legge, è certamente giustificato il rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro e lo stato di quiescenza in cui entra l'intero rapporto è semplicemente un mezzo per la conservazione dell'equilibrio giuridico-economico del contratto" (così la richiamata sentenza n. 15/2023). 10.1.3. Le altre censure proposte (violazione dell'obbligo vaccinale in oggetto rispetto all'art. 32 della Costituzione e le questioni relative al consenso libero e informato della persona interessata) erano da dedursi con l'impugnativa del provvedimento del dicembre 2021, ormai consolidatosi. Non giova alla ricorrente nemmeno il richiamo alla sentenza della Corte di Giustizia C-765/2021 che ha giudicato irricevibile il rinvio pregiudiziale sottopostole dal Tribunale di Padova. La ricorrente, nella sua memoria depositata in giudizio il 16 febbraio 2024, enfatizza un unico passaggio motivazionale della pronuncia del giudice europeo ("il rilascio di dette autorizzazioni condizionate non comporta, in quanto tale, alcun obbligo, in capo ai destinatari potenziali di tali vaccini, di farsi somministrare questi ultimi, tanto più che il giudice del rinvio non ha esplicitamente posto l'interrogativo se le persone assoggettate all'obbligo vaccinale previsto all'articolo 4 del decreto-legge n. 44/2021 fossero obbligate ad assumere unicamente i vaccini oggetto delle suddette autorizzazioni condizionate" (punto 36) senza cogliere che l'argomento è stato speso per rilevare che non era stata adeguatamente chiarita dal giudice rimettente la rilevanza del parametro del diritto Ue invocato. D'altra parte la stessa pronuncia sul punto chiarisce senza equivoci che "Di conseguenza, in assenza di qualsiasi spiegazione da parte del giudice del rinvio circa i motivi per cui esso mette in discussione la validità delle autorizzazioni all'immissione in commercio condizionate nonché circa quelli relativi all'eventuale nesso tra, da un lato, la validità di tali autorizzazioni e, dall'altro, l'obbligo vaccinale contro la COVID-19 previsto all'articolo 4 del decreto legge n. 44/2021, si deve giudicare che la presente domanda di pronuncia pregiudiziale non soddisfa i requisiti ricordati al punto 31 della presente sentenza per quanto riguarda la prima questione" (punto 37). 10.1.4. L'impugnazione merita, invece, di essere accolta, laddove rivolta alle conseguenze pregiudizievoli ulteriori rispetto alla privazione della retribuzione o di altro compenso o emolumento, fatte derivare dal Ministero intimato e compendiate nel provvedimento del 31 marzo 2022 e, poi, in quello del 22 giugno 2022, gravato col ricorso per motivi aggiunti. L'art. 4-ter, comma 3, del d.l. 1 aprile 2021, n. 44 legittima, invero, durante la sospensione dal servizio, unicamente la privazione della retribuzione o compenso o emolumento (in termini T.A.R. Lombardia - Milano, sez. I, 2 gennaio 2023, n. 16; T.A.R. FVG, sez. I, 27 febbraio 2023, n. 74; T.A.R. Sicilia - Palermo, sez. III, 6 giugno 2023, n. 1877; T.A.R. Lombardia - Milano, sez. V, 21 novembre 2023, n. 2750). Depone, invero, in tal senso, oltre al pacifico dato testuale, la circostanza, correttamente evidenziata dal ricorrente, che il legislatore, con riguardo ai casi di sospensione dal servizio per motivi penali e disciplinari, si è preoccupato di disciplinare specificamente le conseguenze che ne derivano sotto il profilo economico e giuridico, nel mentre, nel caso specifico, nulla ha disposto sul punto, essendosi limitato a stabilire che "L'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati". In parte qua, il ricorso va, pertanto, accolto e, per l'effetto, annullati i provvedimenti gravati laddove viziati. Ne deriva l'obbligo per l'Amministrazione intimata di conformarsi sul punto alla presente decisione e di disporre in merito, adottando ogni necessario atto e/o provvedimento. 11. Le domande di accertamento (i trattamenti fissi e continuativi, gli assegni accessori, i compensi indennitari) e di condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno sono del tutto generiche e, pur proposte, non sono state adeguatamente e analiticamente dedotte nel corpo del ricorso. 12. In conclusione, alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso e il ricorso per motivi aggiunti vanno accolti nei sensi e limiti dianzi evidenziati. Il ricorso introduttivo, per il resto, deve essere, in parte, dichiarato inammissibile e, in parte, rigettato. 13. Le spese di lite, per la novità di alcune delle questioni esaminate, possono essere compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso e sul ricorso per motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, li accoglie nei sensi e limiti evidenziati in motivazione e, per l'effetto, annulla il provvedimento prot.-OMISSIS- (in parte qua) e il provvedimento n. -OMISSIS- 22/06/2022. Per il resto, dichiara il ricorso introduttivo in parte inammissibile e in parte lo respinge. Compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Trieste nella camera di consiglio del giorno 20 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Carlo Modica de Mohac - Presidente Manuela Sinigoi - Consigliere, Estensore Daniele Busico - Primo Referendario

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Trasporto spedizione GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. LINA RUBINO Consigliere PAOLO SPAZIANI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 GIOVANNI FANTICINIConsigliere Ud.3/5/2024 PU Cron. R.G.N. 2304/2022 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 2304/2022 R.G. proposto da: AEROFLOT RUSSIAN AIRLINES, elettivamente domiciliato in Roma Giunio Bazzoni n. 3, presso lo studio dell’avvocato DELLA MARRA TATIANA (DLLTTN65L52A326W) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro LANZA SALVATORE -intimato- 2 avverso SENTENZA di TRIBUNALE CATANIA n. 4561/2021 depositata il 09/11/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 maggio 2024 dal consigliere ENRICO SCODITTI Fatti di causa 1. Salvatore Lanza convenne in giudizio innanzi al Giudice di Pace di Catania Aeroflot Russian Airlines s.p.a. chiedendo il risarcimento del danno perché in data 28 aprile 2019, munito del biglietto aereo Pechino – Mosca - Milano, a causa del ritardo di un’ora nella prima tratta, aveva perso la connessione con il volo per Milano, con conseguente riprotezione su volo successivo ed arrivo con ritardo prolungato (di circa nove ore) alla destinazione finale. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il giudice adito accolse la domanda, con condanna al pagamento della somma di Euro 600,00, a titolo di compensazione pecuniaria, ed Euro 100,00, a titolo di danno morale per l’omessa assistenza. 3. Avverso detta sentenza propose appello la convenuta. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 9 novembre 2011 il Tribunale di Catania, in parziale accoglimento dell’appello, condannò l’appellante al pagamento del solo importo di Euro 600,00. Osservò il Tribunale, premessa l’inapplicabilità sia della Convenzione di Montreal del 1999, mai ratificata dalla Federazione Russa, che del Regolamento Ce n. 261/04, non facendo parte la detta Federazione dell’UE, che trovava applicazione la Convenzione di Varsavia del 1929 (e successive integrazioni), la quale prevedeva la responsabilità del vettore per il caso del ritardo, ma non prevedeva alcuna quantificazione al pari della compensazione economica pecuniaria di cui al Regolamento Ce n. 261/04, e che pertanto, 3 mancando specificazioni nella Convenzione circa il ritardo rilevante, poteva farsi riferimento alla giurisprudenza unionale sul Regolamento, il quale prevedeva una compensazione pecuniaria – una sorta di penale legale analoga a quella di fonte convenzionale - e l’eventuale risarcimento supplementare (art. 12). Aggiunse che, sulla base di quest’ultimo quadro di riferimento, ricorreva l’inadempimento contrattuale rilevante ai sensi anche della Convenzione di Varsavia e che, stante l’inadempimento imputabile, doveva essere riconosciuto il diritto di ottenere la compensazione pecuniaria nella misura liquidata dal Giudice di Pace, anche in applicazione analogica dell’art. 7 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, mentre non spettava l’ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto a quelli coperti dalla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. 5. Ha proposto ricorso per cassazione Aeroflot Russian Airlines s.p.a. sulla base di quattro motivi. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 7 regolamento CE 261/04, 1223 cod. civ., 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, 12 prel., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale ha erroneamente applicato l’art. 7 del regolamento CE fuori dei casi contemplati dall’art. 3 del medesimo regolamento, in luogo dell’art. 1223 c.c., applicabile in base all’art. 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, né, in presenza di altra disposizione applicabile, può farsi applicazione del regolamento CE. 2. Con il secondo motivo si denuncia falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale, riconoscendo il diritto alla compensazione pecuniaria anche in applicazione analogica dell’art. 7 4 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, senza esplicitare il significato di “anche”, non ha applicato l’art. 1223, poiché il danno risarcito risulta estraneo ai concetti di danno emergente e lucro cessante. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., 115 e 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che nella decisione impugnata vi è soltanto il riferimento all’inadempimento, ma non anche al danno che ne sarebbe derivato, con violazione delle norme sull’onere della prova, e che la motivazione è pertanto assolutamente carente. 4. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 2002, 1678, 1681 e 1341 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di valutare l’art. 10 delle condizioni generali di contratto, che prevede quanto segue: «il vettore farà tutto il possibile per portare a termine il trasporto del passeggero e dei suoi bagagli in tempi ragionevoli. Le tempistiche indicate negli orari e altri documenti non sono garantite e non fanno parte del presente documento». 5. I primi tre motivi, da trattare congiuntamente, sono fondati. Il Collegio, condividendone integralmente la motivazione, dà continuità a Cass. n. 9474 del 2021 (cui sono conformi Cass. n. 27051 del 2021 e n. 34776 del 2023), la quale, in una fattispecie perfettamente sovrapponibile alla presente, anche per ciò che concerneva la motivazione della decisione impugnata, ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di trasporto aereo internazionale, gli artt. 5 e 7 del Regolamento CE n. 261 del 2004, nel prevedere a favore dei passeggeri un ristoro indennitario per il caso di cancellazione del volo (nonché, secondo la giurisprudenza europea, per il caso di ritardo superiore a tre ore), indipendentemente dall'esistenza di un effettivo pregiudizio, configurano una disciplina speciale che si applica, ai sensi dell'art. 3, par. 1, del regolamento medesimo, ai passeggeri in partenza da un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro e a quelli in 5 partenza da un aeroporto situato in un paese terzo con destinazione in un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro, se il vettore aereo operativo è un vettore dell'Unione; pertanto, la suddetta disciplina non è analogicamente estensibile oltre i predetti casi, al di fuori dei quali resta applicabile il principio generale di cui agli artt.1223 e 2697 c.c., secondo cui il debitore inadempiente risponde (solo) dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, mentre il creditore è onerato della prova tanto delle conseguenze dannose quanto del loro collegamento causale con la condotta del debitore, secondo il nesso di cd. causalità giuridica. (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, in accoglimento della domanda risarcitoria di due passeggeri, aveva ritenuto analogicamente applicabile la disciplina euro-unitaria in un caso in cui il vettore aereo, responsabile del ritardo, proveniva da un paese non facente parte dell'Unione europea). 6. L’accoglimento dei primi tre motivi determina l’assorbimento del quarto motivo. 7. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito. Il giudice del merito ha accertato che non spetta ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto alla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Poiché il ristoro indennitario non spetta, per quanto sopra osservato, resta il giudizio di fatto di inesistenza di danni risarcibili, a parte la detta compensazione. Consegue a tale accertamento il rigetto della domanda. 8. Il consolidarsi della giurisprudenza determinante nel corso dei vari gradi processuali costituisce ragione di compensazione delle spese, sia per i gradi di merito che per il giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie i primi tre motivi del ricorso, con assorbimento dell’ultimo motivo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo la 6 causa nel merito, rigetta domanda, disponendo la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 3 maggio 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino

  • IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI PADOVA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, pronunzia la presente SENTENZA nel proc. n. 7663/2021 RG promosso da (...), residente a Padova, (...), residente a Padova, (...), rappresentati e difesi dagli avv.ti (...) con domicilio eletto presso il loro studio del primo in Dolo (VE), (...) e con domicilio digitale eletto ai sensi dell'art. 16 sexies D.L. 179/2012 agli indirizzi pec: (...) contro (...) (...), entrambi residenti in Padova (PD), (...), rappresentati e difesi, per procura in calce al presente atto, dagli avv.ti (...) del Foro di Padova, con domicilio digitale eletto presso gli indirizzi di posta elettronica certificata (...) nonché contro (...) rappresentato e difeso dall'avv. (...), con domicilio eletto presso il di lui studio in Padova (...) con l'avv. (...) con la chiamata in causa di Condominio (...) contumace OGGETTO: risarcimento danni ai sensi dell'art. 2043 c.c. in edificio condominiale - responsabilità dell'amministratore MOTIVAZIONE 1. (...) comproprietari di un appartamento con annesso garage al piano terra sito in Padova, (...) facente parte del complesso di abitazioni denominato "Condominio (...)", amministrato da (...) espongono che il 19 dicembre 2019 si accorgevano dell'improvviso allagamento del loro garage. L'acqua scendeva abbondante a rivoli dal soffitto e si riversava all'interno del box, inzuppando i beni in esso contenuti, quali attrezzi dei figli, vestiti, scarpe ed effetti personali nonché una moto Harley Davidson. (...) cercava di porre al riparo i propri beni e avvertiva l'amministratore del Condominio (...), nonché i proprietari dell'appartamento sovrastante (...) e (...). Dopo alcuni giorni, gli attori scoprivano che le infiltrazioni d'acqua erano state generate dalla rottura di una tubazione idrica (lo scarico della vasca da bagno) dell'appartamento posto al piano superiore di proprietà dei predetti (...) e (...) riparata da una squadra di idraulici inviata dall'amministratore (...). Quest'ultimo li rassicurava, informandoli che avrebbe aperto un sinistro sulla polizza condominiale che presentava garanzia sottoscritta a tutela dei danni da acqua condotta al fabbricato e al contenuto delle singole unità abitative e che quindi nulla vi era da preoccuparsi per quanto concerneva il ristoro dei danni subiti. La Compagnia di assicurazione (...), a seguito della denuncia dell'amministratore del Condominio, apriva il sinistro n. (...) e veniva eseguito il sopralluogo esplorativo da parte del perito incaricato. Tuttavia, la stessa Compagnia, con raccomandata del 2.10.2020, comunicava il diniego dell'indennizzo in quanto la polizza decorreva solo dalle ore 24 del 20.12.2019. Gli attori venivano in tal modo a sapere che l'amministratore non aveva adempiuto a quanto deliberato dall'assemblea del 23.10.2019 di approvazione del bilancio preventivo di gestione ordinaria dall'1.07.2019 al 30.06.2020, ove era stata prevista la voce di spesa per la stipula (rectius rinnovo) dell'assicurazione polizza globale fabbricati. Ciò premesso, (...) e (...) hanno convenuto in giudizio sia (...) e (...) (...) sia (...), per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti, quantificati in complessivi euro 15.000,00. (...) e (...) resistono ed hanno chiesto di essere manlevati da (...) chiedendo anche la sua condanna al pagamento delle spese condominiali poste a loro carico nei bilanci 2019/2020 e 2020/2021 sempre per il ripristino delle parti comuni e private necessitato dalla predetta perdita d'acqua per la complessiva somma di euro 1.595,00, oltre ad euro 697,60 per spese di mediazione, chiedendo che l'accertamento fosse effettuato anche nei confronti del Condominio, che è stato così chiamato in causa, rimanendo contumace. Anche (...) resiste. La causa è stata istruita mediante l'assunzione delle deposizioni dei testi (...), (...) (v. udienza 28.02.2023), e con il deposito di ctu estimativa dei danni del p.i. (...). Precisate le conclusioni e scaduti i termini previsti dall'art. 190 c.p.c., la causa passa ora in decisione. 2. Dalle concordi deposizioni di (...) e di (...) risulta che la perdita d'acqua è stata causata dalla vasca del sovrastante appartamento dei convenuti (...) (...) e (...) Il danno è stato dal ctu quantificato in complessivi euro 5.266,40 (iva compresa). (...) e (...) vanno pertanto condannati in solido a pagare tale somma agli attori (...) e (...). 3. Sussiste anche la responsabilità dell'amministratore (...) poiché è pacifico che egli non ha provveduto a stipulare l'assicurazione deliberata dall'assemblea il 2223.10.2019. Non ha alcuna rilevanza che (...) e (...) fossero morosi nel pagamento delle spese condominiali, né che l'assicurazione fosse destinata a coprire anche parti private dei singoli condomini. Nessuna di tali circostanze esimeva l'amministratore dall'adempiere a quanto deciso dall'assemblea condominiale, come conferma il fatto che il giorno dopo il sinistro l'amministratore ha provveduto a stipulare la polizza richiesta. 4. Lo stesso amministratore (...) deve tenere indenne anche i predetti convenuti, in quanto anche nei loro confronti è inadempiente all'obbligo di stipulare la polizza nascente dalla cit. delibera condominiale. Egli deve anche restituire loro la somma di euro 1.595,00 dagli stessi pagata quali spese condominiali a loro addebitate sempre a causa della predetta perdita d'acqua, senza che rilevi la mancata attivazione della mediazione (v. Cass., sez. un., 7.02.2024, n. 3452), né il fatto che (...) e (...) con abbiano impugnato i bilanci 2019/2020 e 2020/2021 che tali spese hanno approvato, poiché si tratta di res inter alios. 5. Si impongono quindi le declaratorie di cui in dispositivo. Le spese di giudizio, comprese quelle di ctu, seguono la soccombenza. P Q M definitivamente pronunziando, condanna (...) e (...) nonché (...) tutti in solido, a pagare a (...) e (...) la complessiva somma di euro 5.266,40 con interessi legali dalla data odierna al saldo, oltre agli interessi legali sulla stessa somma, devalutata alla data del 19.12.2019 e quindi rivalutata anno per anno sulla base degli indici Istat. Condanna (...) tenere indenne (...) e (...) a quanto saranno costretti a pagare a (...) e (...) per capitale, interessi e spese. Condanna inoltre (...) a pagare a (...) e (...) la complessiva somma di euro 1.595,00 con interessi legali dalla prima messa in mora al saldo. Condanna (...) e (...) e (...) in solido, a rifondere a (...) e (...) le spese di giudizio, liquidate in euro 237,00 per spese ed euro 5.077,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge e spese generali. Condanna (...) a rifondere a (...) e (...) le spese di giudizio (comprensive della fase della mediazione), liquidate in euro 98,00 per spese ed euro 5.077,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge e spese generali. Pone infine le spese di ctu definitivamente a carico di (...). Padova, 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3549 del 2021, proposto dalla Wi. En. Pr. 2 S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. St. Da., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro la Regione Puglia, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 1636 del 2020 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Bari, Sezione Prima. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe la società Wi. En. Pr. 2 S.p.a. ha impugnato la sentenza del T.a.r. Puglia - Bari n. 1636 del 2020, che ha respinto il ricorso dalla medesima proposto per il risarcimento dei danni derivanti dal provvedimento prot. n. 5374 del 26 giugno 2013 del Servizio Energia della Regione Puglia, recante il diniego dell'autorizzazione unica richiesta dall'anzidetta società per la realizzazione di un impianto eolico nel Comune di (omissis), in località (omissis). 2. La domanda risarcitoria è stata proposta dalla ricorrente, odierna appellante, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, che - in riforma della sentenza del T.a.r. Puglia n. 718 del 12 giugno 2014 - ha accolto il precedente ricorso proposto dalla medesima società per l'annullamento del menzionato diniego di autorizzazione unica del 26 giugno 2013, prot. n. 5374. Dopo questa sentenza del Consiglio di Stato, infatti, l'istanza dell'odierna appellante è stata accolta soltanto in parte e tale accoglimento solo parziale dipenderebbe, nella prospettiva della società, dalla sopravvenuta introduzione di nuovi vincoli per effetto del P.P.T.R. approvato in epoca successiva al provvedimento impugnato, con il conseguente danno derivante dall'impossibilità di conseguire l'autorizzazione in base all'originaria richiesta. 3. In punto di fatto, la vicenda oggetto del presente giudizio può essere sintetizzata nei termini che seguono. 3.1. La società odierna appellante ha presentato in data 20 marzo 2008 l'istanza di autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio di un impianto eolico di potenza pari a 18 MW nel Comune di (omissis), in località (omissis). Tale impianto sarebbe stato costituito, secondo l'originario progetto, da quindici aerogeneratori e da una stazione elettrica di trasformazione da inserire sulla linea RTN "Foggia-Larino" nel Comune di (omissis). 3.2. La Provincia di Foggia, con le note n. 3007/6.15 del 14 settembre 2010 e n. 4172/6.15 del 29 dicembre 2010, ha rilasciato provvedimenti di V.I.A. favorevoli per dieci dei predetti quindici aerogeneratori. 3.3. Successivamente, è stata indetta la conferenza di servizi per la data del 12 dicembre 2011 nel cui ambito le amministrazioni chiamate a pronunciarsi in quella sede hanno espresso parere favorevole. 3.4. Il Commissario ad acta del Servizio Ambiente della Provincia di Foggia, con determinazione n. 2745 del 4 settembre 2012, ha poi espresso positiva valutazione di incidenza (V.INC.A.) in relazione alla stazione elettrica Te., con contestuale riduzione del numero degli aerogeneratori a sei unità . 3.5. La seconda seduta della conferenza di servizi del 26 ottobre 2012, nell'ambito della quale erano emerse talune criticità, si è poi conclusa con una valutazione positiva del progetto e l'Ufficio Energia della Regione Puglia, in quella sede, si è limitato a condizionare il rilascio dell'autorizzazione unica alla conclusione del procedimento di revisione dei primi tre adempimenti del PUTT/p da parte del Comune di (omissis) - realizzati con delibera n. 6 del 9 marzo 2013 - e al conseguente parere favorevole dell'Ufficio assetto del territorio della Regione Puglia intervenuto con nota prot. n. 0002812 del 5 aprile 2013. 3.6. Tuttavia, il medesimo Ufficio Energia della Regione Puglia, con la nota dirigenziale prot. 3278 del 16 aprile 2013, ha altresì richiesto alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia e all'Ufficio parchi regionale se, alla luce degli atti richiamati al punto che precede (ossia la delibera del Comune di (omissis) n. 6 del 9 marzo 2013 e la nota dell'Ufficio assetto del territorio della Regione Puglia, prot. n. 0002812 del 5 aprile 2013), potevano ritenersi superati i profili critici in ordine alla compatibilità paesaggistica e ambientale per la stazione elettrica Terna. 3.7. A seguito di tale richiesta, la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia (con nota del 15 maggio 2013) e l'Ufficio parchi della Regione Puglia (con nota del 14 maggio 2013) hanno evidenziato - senza esprimersi nell'ambito della conferenza di servizi prevista dall'art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003 n. 387 - taluni profili ostativi alla realizzazione della stazione elettrica. 3.8. In ragione dei profili ostativi evidenziati nei pareri testé menzionati, il Servizio Energia regionale ha ritenuto di negare l'autorizzazione unica, adottando il provvedimento di diniego prot. n. 5374 del 26 giugno 2013, poi impugnato dalla società odierna appellante nell'ambito del precedente giudizio sopra richiamato. 4. Con la già citata sentenza n. 4736 del 2015, il Consiglio di Stato, in riforma della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari n. 718 del 2014, ha annullato l'anzidetto diniego rilevando che i due pareri avrebbero dovuto essere acquisiti "nella sede procedimentale tipica di valutazione d'incidenza ambientale" e ha altresì osservato che i medesimi "non integravano un dissenso radicale e insuperabile", respingendo, pertanto, la domanda risarcitoria già avanzata in quella sede. 5. In esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, poi, l'Ufficio Energia della Regione Puglia ha rinnovato la convocazione della conferenza di servizi e, in quella sede, il Segretario regionale Mi.B.A.C.T. della Regione Puglia ha ritenuto di accogliere l'istanza di autorizzazione unica limitatamente alla realizzazione di un solo aerogeneratore tenuto conto della sopravvenuta apposizione di vincoli sull'area in questione per effetto del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale approvato dalla Regione Puglia. 6. Con nota dell'8 aprile 2016, l'odierna appellante ha ribadito che il progetto dell'impianto, nella originaria configurazione con sei aerogeneratori era stato già valutato positivamente da tutti gli enti interessati e ha quindi chiesto alla Regione di provvedere al rilascio dell'autorizzazione unica e, solo in via di mero subordine, ha chiesto la rimessione degli atti al Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della l. n. 241/1990, in considerazione del dissenso espresso dal Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. della Puglia. 7. Con deliberazione del 20 gennaio 2017, il Consiglio dei Ministri ha condiviso il parere del Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. della Puglia, consentendo "la prosecuzione del procedimento, volto alla realizzazione di un solo aerogeneratore, contraddistinto dal numero A1" e con il provvedimento prot. n. 0000672 del 23 febbraio 2017 la Sezione infrastrutture energetiche e digitali della Regione Puglia ha invitato la ricorrente a provvedere alla produzione documentale necessaria al rilascio dell'autorizzazione unica per il "solo aerogeneratore, contraddistinto dal numero A1". 8. L'anzidetto provvedimento del 23 febbraio 2017 che ha autorizzato un solo aerogeneratore non è stato impugnato dall'odierna appellante. 9. Tuttavia, pur non avendo impugnato il predetto provvedimento di autorizzazione relativo a un solo aerogeneratore, la società ha proposto il ricorso introduttivo del presente giudizio formulando la domanda risarcitoria per il cui tramite ha chiesto il ristoro dei danni che ritiene di aver subito in ragione dell'illegittimo operato della Regione. Infatti, secondo la società Wi. En. Pr. 2 S.p.a., qualora la Regione avesse agito ab origine in modo conforme alla legge, pervenendo all'adozione del provvedimento di autorizzazione unica anziché del diniego poi ritenuto illegittimo e annullato dal Consiglio di Stato, non si sarebbero verificati "i notevoli pregiudizi economici causati dall'impossibilità di realizzare il progetto dell'Impianto nella sua configurazione originaria". 10. Il T.a.r. Puglia, con l'impugnata sentenza, ha respinto il ricorso per il risarcimento del danno condividendo il rilievo dell'Amministrazione resistente secondo cui la questione oggetto del presente giudizio risulta sovrapponibile ad altra identica controversia definita dal medesimo T.a.r. con la sentenza n. 852 del 20 giugno 2019, che aveva parimenti respinto la domanda risarcitoria connessa agli effetti della sentenza n. 4732 del 2015 della Sezione IV del Consiglio di Stato che, a sua volta, aveva riformato la sentenza n. 716 del 12 giugno 2014, riguardante l'identico diniego di autorizzazione unica di cui alla nota dirigenziale prot. n. 5374 del 26 giugno 2013 e degli atti a essa presupposti. Nella motivazione della sentenza n. 852 del 2019, tra l'altro, sono stati richiamati alcuni passaggi di un'ulteriore pronuncia, sempre del Consiglio di Stato, Sez. IV, 1 dicembre 2016, n. 5054, per il cui tramite era stato respinto il ricorso per l'ottemperanza alla sentenza n. 4732 del 2015 (di cui la sentenza n. 4736 del 2015 sarebbe pertanto sostanzialmente "gemella"). 11. Per esigenze di chiarezza, dunque, la sequenza delle pronunce rilevanti ai fini del presente giudizio può essere sintetizzata nei termini che seguono: a) sentenza del T.a.r. Puglia n. 718 del 12 giugno 2014 che ha respinto l'originario ricorso per l'annullamento del diniego di autorizzazione unica del 26 giugno 2013, prot. n. 5374, gemella della sentenza del medesimo T.a.r., n. 716 del 12 giugno 2014; b) sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 13 ottobre 2015 che, in riforma della sentenza sub a), ha annullato il provvedimento di diniego ma ha respinto la domanda risarcitoria in quanto, all'epoca, sussisteva ancora la possibilità di conseguire il bene della vita a seguito della rinnovazione del procedimento; c) sentenza del Consiglio di Stato n. 4732 del 13 ottobre 2015, gemella della precedente, che in un caso del tutto ana aveva a sua volta riformato la già citata sentenza del T.a.r. Puglia n. 716 del 12 giugno 2014 (per l'appunto del pari gemella della sentenza, del medesimo T.a.r. Puglia, n. 718 del 12 giugno 2014); d) sentenza del Consiglio di Stato n. 5054 del 2016 che ha respinto il ricorso per l'ottemperanza della sentenza n. 4732 del 2015; e) sentenza del T.a.r. Puglia n. 852 del 20 giugno 2019 che, pronunciandosi sulla vicenda analoga a quella del presente giudizio, ha respinto la domanda risarcitoria connessa agli effetti della già citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4732 del 13 ottobre 2015, gemella della n. 4736 del 2015, che ha riformato la sentenza del T.a.r. Puglia n. 716 del 12 giugno 2014, annullando il diniego di autorizzazione unica; f) sentenza del Consiglio di Stato n. 6353 del 2020 che ha respinto l'appello avverso la sentenza sub e), T.a.r. Puglia n. 852 del 2019. 12. Con la pronuncia qui impugnata, dunque, il T.a.r. Puglia (si tratta della sentenza - lo si precisa per ulteriore chiarezza - n. 1636 del 2020) ha sottolineato l'analogia esistente tra le fattispecie concrete esaminate dalle pronunce del Consiglio di Stato n. 4732 e n. 4736 del 13 ottobre 2015, traendo ulteriori elementi per il rigetto della domanda risarcitoria anche dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 6353 del 2020. Ferme restando le considerazioni che precedono, il T.a.r., con la sentenza impugnata, ha ritenuto che la società ricorrente - dopo aver ottenuto la "rinnovazione del procedimento e la riconvocazione della conferenza di servizi" - avrebbe prestato acquiescenza ai provvedimenti che hanno determinato la possibilità di ottenere l'autorizzazione unica per un impianto costituito da un solo aerogeneratore. Sotto questo profilo, inoltre, il T.a.r. ha precisato che si tratterebbe per l'appunto esclusivamente di una mera possibilità, poiché sulla base degli atti depositati in giudizio non vi sarebbe prova né dell'effettivo rilascio dell'autorizzazione unica né dell'entrata in funzione dell'impianto. Sotto un ulteriore profilo, il T.a.r. ha sottolineato che l'appellante non aveva neppure impugnato gli atti recanti le valutazioni istruttorie sulla base delle quali era stato ridotto il numero degli aerogeneratori, sicché difetterebbe in radice il presupposto dell'illegittimità o erroneità della "non compatibilità paesaggistica" dell'impianto; del resto il parere del Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. è poi stato integralmente recepito dal Consiglio dei Ministri, con la conseguenza che "la prova dell'autorizzabilità ab origine dell'impianto basato su sei aerogeneratori è rimasta una mera congettura". 13. Avverso tale pronuncia ha proposto appello la Wi. En. Pr. 2 S.p.a. formulando tre distinti motivi di gravame. 14. Con il primo motivo di appello, la società contesta la sentenza nella parte in cui ha fondato il rigetto della domanda risarcitoria sull'asserita acquiescenza prestata al provvedimento del 23 febbraio 2017 e a quelli ad esso presupposti. A tale proposito, l'appellante evidenzia che, nella sua prospettiva, la domanda di risarcimento del danno si riferisce non già al provvedimento del 23 febbraio 2017, bensì all'illegittimità del diniego di autorizzazione unica opposto dalla Regione Puglia attraverso il precedente provvedimento del 26 giugno 2013, con la conseguenza che i successivi atti adottati dalla Regione Puglia nel 2016 e nel 2017, a seguito della sopravvenienza dei vincoli introdotti dal P.P.T.R., "segnano quindi solo il momento in cui il danno in parola si è prodotto" ma "non ne costituiscono la fonte". Ritiene, inoltre, che ciò sarebbe confermato anche dalla circostanza che la sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015 aveva negato il risarcimento perché il danno era in quel momento "soltanto eventuale" posto che l'appellante avrebbe ancora potuto conseguire l'autorizzazione unica per tutti gli aerogeneratori previsti dal progetto, mentre, a seguito dell'introduzione dei vincoli del P.P.T.R., il danno sarebbe effettivamente divenuto "concreto ed attuale". Sotto un diverso profilo, l'appellante censura l'argomentazione secondo cui dalla mancata impugnazione dei provvedimenti in questione possa desumersi una "mancanza di prova in ordine all'autorizzabilità ab origine dell'Impianto". Del pari ritiene che dalla successiva autorizzazione di un solo impianto a causa dei vincoli sopravvenuti non si possa inferire che il progetto dell'impianto nella sua versione originaria fosse ab origine irrealizzabile. In altri termini, l'appellante sostiene che il fatto che sia stato poi autorizzato un solo impianto non significherebbe di per sé che fosse autorizzabile fin dall'origine un solo impianto, in quanto, attraverso il provvedimento di autorizzazione del 23 febbraio 2017, l'amministrazione avrebbe preso atto delle sopravvenute disposizioni del P.P.T.R. che non consentivano la realizzazione di tutti gli aerogeneratori previsti dal progetto. 15. Con il secondo motivo di gravame, l'appellante censura la decisione del T.a.r. sostenendo che sia stata travisata la portata della sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, dal momento che ad avviso del T.a.r. tale sentenza si sarebbe limitata a disporre, in chiave conformativa, la sola rinnovazione del procedimento senza accertare la spettanza del bene della vita in capo all'odierna ricorrente. Secondo l'appellante, invece, l'anzidetta sentenza non si sarebbe limitata a rilevare che i pareri della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia e dell'Ufficio parchi della Regione Puglia (di cui alle note rispettivamente del 13 e del 14 maggio 2013) erano stati resi fuori dalla sede in cui avrebbero dovuto essere espressi, ossia fuori dalla conferenza di servizi, avendo per contro precisato altresì che i medesimi "non integravano un dissenso radicale e insuperabile" in relazione al progetto. 16. Con il terzo motivo di gravame, l'appellante deduce il vizio di omessa pronuncia o, comunque, la carenza assoluta di motivazione in relazione alle censure articolate in primo grado che conseguentemente "vengono integralmente riproposte". 16.1. Con il primo motivo del ricorso introduttivo aveva prospettato l'illegittimità del diniego di autorizzazione unica adottato dalla Regione Puglia in data 26 giugno per una pluralità di ragioni. In estrema sintesi l'illegittimità del provvedimento - peraltro già accertata dal Consiglio di Stato con la più volte richiamate sentenza n. 4736 del 2015 - deriverebbe dai seguenti vizi: a) il provvedimento di diniego sarebbe stato fondato su pareri resi dalla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici acquisiti al di fuori e dopo la conclusione della conferenza di servizi; b) sarebbe stato travisato il contenuto dei pareri espressi assumendo erroneamente che gli stessi recassero un radicale dissenso alla realizzazione della stazione di trasformazione Te. 380/Kv; c) l'illegittimità deriverebbe dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015. Sempre col primo motivo del ricorso introduttivo (ribadendo, invero, concetti già espressi) insiste sull'illegittimità per violazione dell'art. 14-quater della l. n. 241/1990 e in ragione della circostanza che i pareri erano stati resi in sede diversa da quella in cui dovevano essere espressi, ossia fuori dal procedimento unico deputato al rilascio dell'autorizzazione alla realizzazione degli impianti elettrici alimentati da fonte rinnovabile, mentre l'art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 prescrive espressamente che l'autorizzazione unica debba essere rilasciata all'esito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni coinvolte, per il tramite della conferenza di servizi, con conseguente valutazione contestuale e sincrona di tutti gli interessi che vengono in rilievo. Sotto un ulteriore profilo, ad avviso della ricorrente - come parimenti già prospettato con il secondo motivo di appello - con i richiamati pareri del 13 e 14 maggio 2013 non sarebbe stato espresso un radicale dissenso alla realizzazione della stazione elettrica Terna nel Comune di (omissis), come risulterebbe altresì dimostrato dalla circostanza che nella nota prot. n. 0004445 del 28 maggio 2013, lo stesso Servizio Energia della Regione Puglia aveva espressamente affermato che: "la Soprintendenza ha rilevato alcune criticità ritenute superabili con l'apporto di modifiche al progetto proposto". L'appellante aveva dunque presentato le proprie osservazioni ma era poi intervenuto il provvedimento di diniego senza che venissero prese in considerazione le proposte progettuali alternative. 17. Infine, con riferimento all'elemento della colpa dell'amministrazione, l'appellante ritiene che essa possa essere desunta in via presuntiva dall'illegittimità del provvedimento oltre che dalla circostanza che era stato attribuito rilievo a pareri espressi tardivamente. 18. Non si è costituita in giudizio la Regione Puglia. 19. Il Collegio - trattenuta la causa in decisione all'udienza pubblica del 16 maggio 2024 - reputa che l'appello non possa essere accolto per le ragioni che di seguito si espongono. 20. Anche a prescindere dal profilo già evidenziato dal T.a.r., secondo cui vi sarebbe stata acquiescenza dell'odierna appellante desumibile dall'omessa impugnazione del provvedimento che ha autorizzato un solo impianto, la domanda risarcitoria non può essere accolta per due distinte ragioni, ciascuna delle quali di per sé assorbente. 21. In primo luogo, si deve rilevare che la complessità dell'iter che ha preceduto l'adozione dell'atto annullato può di per sé essere valutata alla stregua di un elemento sintomatico dell'assenza di profili di dolo o colpa dell'amministrazione. Sul punto, la prospettazione dell'appellante si riduce alla mera considerazione che la colpa sia suscettibile di essere desunta in via presuntiva dall'illegittimità del provvedimento. Tuttavia, in tal modo, l'appellante omette del tutto di considerare che l'illegittimità dell'atto amministrativo, poi annullato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, era per contro stata esclusa in primo grado dal T.a.r. Puglia - Bari nell'ambito della sentenza n. 718 del 2014. Inoltre, anche nella pronuncia del Consiglio di Stato appena richiamata vi è un esplicito riconoscimento della complessità della vicenda amministrativa come si desume chiaramente dalla circostanza che già nel primo paragrafo il Collegio ha precisato che il diniego è stato adottato "All'esito di laborioso procedimento". In relazione ai due pareri resi rispettivamente dalla Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici n. 6976 del 15 maggio 2013 e dall'Ufficio parchi della Regione Puglia n. 4298 del 14 maggio 2013, il T.a.r., respingendo il ricorso, aveva rilevato che si trattava di "plurime e non censurabili valutazioni tecniche operate dalla Amministrazione regionale...costituenti espressioni di ampia discrezionalità tecnica, non inficiate da vizi macroscopici, a fronte di una motivazione estremamente dettagliata in ordine ai vari profili ostativi alla installazione del progetto proposto" e il Consiglio di Stato ha altresì riconosciuto che "deve convenirsi che i due pareri non possano considerarsi ex se irrilevanti o nulli". 22. In secondo luogo, pur essendo pacifica l'illegittimità del diniego, come risulta definitivamente accertato dalla più volte citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, l'odierna appellante non ha dimostrato la spettanza del bene della vita. La Wi. En. Pr. 2 S.p.a., infatti, avrebbe dovuto dare prova della circostanza che l'impianto, nella sua originaria versione con sei aerogeneratori, avrebbe dovuto essere autorizzato dall'amministrazione. Al riguardo si deve osservare che nel caso di specie viene in rilievo un'ipotesi riconducibile al risarcimento degli interessi legittimi pretensivi poiché il danno di cui la ricorrente, odierna appellante, chiede il ristoro viene fatto derivare dal mancato conseguimento del provvedimento di autorizzazione secondo l'originaria istanza. Tuttavia, con riferimento al risarcimento del danno derivante dalla lesione degli interessi legittimi pretensivi, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, non risulta sufficiente la mera illegittimità del provvedimento di diniego, dovendo, per contro, sussistere la prova che "l'esercizio illegittimo del relativo potere abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere"; in questo senso, cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 17 agosto 2023, n. 7793; Cons. Stato, Sez. II, 1 settembre 2021, n. 6163. Questa Sezione, in tempi ancor più recenti, ha avuto modo di ribadire i principi testé richiamati precisando quanto che: "Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, con accertamento in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'agire illegittimo della pubblica amministrazione; ed infatti per danno ingiusto risarcibile ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico" (Cons. Stato, Sez. IV, 12 settembre 2023, n. 8282). Nel caso di specie, la società appellante non ha dato prova degli elementi che precedono, essendosi limitata a sostenere che il provvedimento di autorizzazione per un solo impianto non implicava di per sé che gli altri cinque fossero ex ante non autorizzabili. Tale rilievo - pur essendo condivisibile - non è tuttavia dirimente poiché l'appellante avrebbe dovuto dimostrare non già che gli altri non fossero "non autorizzabili ex ante", in senso negativo, bensì - al contrario e in senso quindi positivo - che sarebbero stati effettivamente autorizzati tutti e sei gli aerogeneratori oggetto della richiesta. In altri termini, la dimostrazione della spettanza del bene della vita doveva essere fornita non già negando che sussistessero elementi sufficienti per ritenere che gli impianti sarebbero stati in ogni caso "non autorizzati", bensì provando in senso positivo che essi dovevano essere effettivamente autorizzati. Il carattere solo ipotetico dell'autorizzabilità ex ante - in epoca quindi antecedente alla modifica del P.P.T.R. - risulta confermato anzitutto proprio dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, secondo cui i pareri "non integravano un dissenso radicale e insuperabile" e avrebbero pertanto dovuto comportare non già il diretto rilascio dell'autorizzazione unica secondo il progetto presentato dalla società, bensì la riconvocazione della conferenza di servizi. Sul punto, risulta particolarmente significativo il seguente passaggio della motivazione della sentenza: "Nell'alveo della riconvocanda conferenza di servizi, andava ricondotto l'esame dei profili di criticità espressi dai due pareri che, secondo quanto pure esattamente dedotto dall'appellante, non integravano un dissenso radicale e insuperabile, e che in ogni caso, pena l'elusione del principio del "dissenso costruttivo", andavano assoggettati a più puntuale e dialogico esame, al fine consentire sia puntualizzazioni e chiarimenti in ordine alle loro indicazioni, nonché eventuali ulteriori affinamenti progettuali tali da rendere del tutto compatibile con i valori paesistici e naturalistici la realizzazione della stazione elettrica a 380/150 kV collegata alla linea di rete di trasmissione nazionale a 380 kV Foggia-Larino, cui dovevano connettersi i vari parchi eolici". Dalla motivazione della pronuncia risulta, dunque, evidente che la legittima alternativa rispetto al diniego non sarebbe stata di per sé il rilascio dell'autorizzazione, bensì la riconvocazione della conferenza di servizi e un'ulteriore interlocuzione per rendere il progetto compatibile con i valori paesaggistici; del resto la sentenza ha anche precisato che con la nota dirigenziale prot. n. 3278 del 16 aprile 2013, per il cui tramite sono stati richiesti i pareri della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia e dell'Ufficio Parchi regionale, "si è, di fatto, provveduto a colmare una lacuna istruttoria rilevante". Conseguentemente, dalla stessa sentenza del Consiglio di Stato si desume chiaramente che non sussiste la prova della spettanza del bene della vita richiesto dal privato, poiché il rilascio dell'autorizzazione risultava ancora soltanto eventuale, occorrendo per l'appunto un ulteriore approfondimento istruttorio. Nella citata sentenza n. 4736 del 2015, del resto, si esclude espressamente la fondatezza della tesi, sostenuta dalla società, secondo cui la il provvedimento favorevole di V.INC.A. avrebbe assorbito ogni altro profilo; in proposito il Consiglio ha precisato infatti che: "Ne consegue che, almeno per tale aspetto, comunque decisivo, il primo ordine di censure è destituito di fondamento giuridico, non potendosi postulare l'invocato "assorbimento" nel provvedimento di V.INC.A. di valutazioni che non sono state espresse nel relativo subprocedimento". La stessa Soprintendenza, inoltre, aveva rilevato alcune criticità ritenute "superabili con l'apporto di modifiche al progetto proposto". 23. Infine, la prova della spettanza ab origine del bene della vita non può neppure essere desunta, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche, dalla circostanza che ex post sia stato autorizzato un solo aerogeneratore sulla base della valutazione espressa dal Segretario Regionale del Mi.B.A.C.T. e confermata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la deliberazione del 20 gennaio 2017. Tale circostanza, infatti, dimostra per l'appunto soltanto che ex post è stato autorizzato un solo impianto ma non consente di trarre alcun elemento che deponga nel senso che ex ante fossero autorizzabili tutti gli impianti oggetto della richiesta. 24. In definitiva, dunque, come già osservato dal T.a.r., non è dimostrato che l'impianto con sei aerogeneratori avrebbe dovuto essere autorizzato senz'altro ab origine, con la conseguenza che, in difetto della prova della spettanza del bene della vita, la domanda risarcitoria - così come formulata dalla società - deve essere respinta, con integrale rigetto dell'appello. 25. Poiché l'amministrazione appellata non si è costituita in giudizio nulla si dispone in punto spese processuali. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente\\6789 SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 16864/2021 R.G. proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12; – ricorrente – contro DE VIVO ANNA, rappresentata e difesa dagli Avv. Giuseppe Mauriello e Antonio Carrella con procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente domiciliata all’indirizzo PEC dei suddetti difensori iscritti nel REGINDE; – controricorrente– avverso l’ordinanza della Corte di appello di Salerno n. cronol. 6677/2020, depositata il 22 dicembre 2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; R.G.N. 16864/2021 P.U. 11/04/2024 *\ rtyuiop+èytf samZ<A EQUA RIPARAZIONE udito l’Avv. Alberto Giovanni Angelo D’Onofrio, per il ricorrente Ministero della Giustizia. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89/2001, depositato in data 29 maggio 2020 presso la Corte di appello di Salerno, De Vivo Anna chiedeva il riconoscimento dell’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo instaurato a seguito degli eventi franosi verificatisi in Sarno il 5 maggio 1998 e che cagionarono la morte dei suoi genitori e della sorella. A tale proposito la ricorrente faceva presente di essersi costituita parte civile nel relativo processo penale in data 13 aprile 2000, il cui primo grado si concludeva con sentenza del 3 giugno 2004, a cui seguiva quello di appello definito con sentenza del 19 febbraio 2009, che veniva fatta oggetto di ricorso per cassazione, all’esito del cui giudizio questa Corte emetteva sentenza di annullamento con rinvio in data 20 dicembre 2011. Il giudizio di rinvio si concludeva con sentenza di condanna depositata il 16 marzo 2012, confermata all’esito del successivo giudizio di cassazione con sentenza del 7 maggio 2013. Quindi, la ricorrente introduceva giudizio civile, dinanzi al Tribunale di Salerno, per l’ottenimento del risarcimento dei danni con citazione notificata il 5 marzo 2019, la cui domanda veniva accolta con sentenza del 16 maggio 2019. Decidendo sul citato ricorso formulato ai sensi della legge n. 89/2001, il giudice designato della Corte di appello di Salerno, con decreto n. 4218 del 23 giugno 2020, comunicato il 1° luglio 2020, accoglieva, per quanto di ragione, la domanda e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennità di euro 800,00 per un solo anno di ritardo maturato nel corso del giudizio civile, oltre alle spese. 2. Decidendo sull’opposizione ex art. 5-ter della stessa legge n. 89/2001 formulata avverso il citato decreto dalla medesima ricorrente in relazione al ritardo maturato anche nel processo penale, la Corte di appello di Salerno, in composizione collegiale, nella resistenza del Ministero della giustizia, che proponeva anche opposizione incidentale, con ordinanza (in effetti da considerarsi un decreto, ai sensi del citato art. 5-ter, ultimo comma, l. n. 89/2001) n. cronol. 6677 del 2020, accoglieva l’opposizione “principale”, condannando il Ministero al pagamento, in favore della De Vivo, della somma di euro 4.000,00, oltre interessi dalla domanda al soddisfo, nonché al pagamento delle spese del procedimento, compensate solo per un quarto. Più specificamente, per quanto ancora di rilievo in questa sede, la Corte salernitana riteneva fondate le doglianze della De Vivo con riferimento alla prospettata inesattezza del computo operato dal consigliere designato per stabilire la durata del complessivo giudizio presupposto nelle sue varie articolazioni e per gradi, e segnatamente di quelli relativi al giudizio di secondo grado, al primo giudizio di legittimità e a quello di rinvio del giudizio penale, oltre a quello di primo grado del giudizio civile. Pertanto, a seguito della rivalutazione complessiva della durata dei vari giudizi (da considerarsi in un quadro unitario), la Corte distrettuale riteneva indennizzabile un periodo di eccessiva durata di anni quattro e mesi sette, respingendo l’opposizione incidentale del Ministero della Giustizia relativa al mancato esperimento dei rimedi preventivi. 3. Avverso il menzionato decreto collegiale ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo, il Ministero della giustizia, cui ha resistito la De Vivo con controricorso. Formulata proposta di definizione del giudizio ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (come sostituito dall’art. 3, comma 28, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), ritualmente comunicata alle parti, il Ministero ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso con conseguente fissazione dell’adunanza in camera di consiglio ai sensi del terzo comma dello stesso art. 380-bis.1 c.p.c., all’esito della quale il designato collegio, con ordinanza interlocutoria n. 1522/2024 (alla stregua della problematicità della questione, per l’eventualità della conferma della suddetta proposta di definizione anticipata, sull’adottabilità, anche nei confronti delle P.A., delle pronunce previste dall’art. 96, ai commi 3 e 4, c.p.c. come richiamate dall’ultimo comma dell’art. 380-bis c.p.c.), ha disposto rimettersi la trattazione della causa in pubblica udienza, fissata per la data odierna, in prossimità della quale il P.G. ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso e l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. Anche la difesa erariale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico formulato motivo il Ministero della Giustizia denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89/2001 contestando la legittimità del calcolo compiuto dalla Corte salernitana nell’impugnato provvedimento in relazione al computo della durata irragionevole del processo in caso di costituzione di parte civile nel giudizio penale e di successiva instaurazione di giudizio civile per la quantificazione dei danni (nell’ipotesi di accertata responsabilità definitiva dell’imputato). Il ricorrente Ministero deduce che la Corte di merito ha illegittimamente ritenuto l’unitarietà, ai fini dell’equa riparazione, del processo penale e del successivo giudizio civile instaurato per la liquidazione del danno alla De Vivo, costituitasi parte civile nel pregresso processo penale. Si evidenzia che la Corte di appello salernitana ha ritenuto che la ragionevole durata – e, quindi, quella correlativamente eccessiva rispetto agli standard normativi – avrebbe dovuto essere individuata prima fase per fase, per poi essere le stesse complessivamente riconsiderate entro il limite dei sei anni, senza tenere in alcun conto il comportamento concretamente osservato in sede processuale dalla parte civile in sede penale, rendendosi necessario che quest’ultima faccia tutto quanto in suo potere per ottenere la quantificazione del danno direttamente in sede penale, perché solo in siffatta ipotesi appare corretto considerare unitariamente il processo ai fini della ragionevole durata. Di converso – ad avviso del ricorrente Ministero - nella specie la De Vivo si era limitata a richiedere un importo meramente simbolico, senza fornire adeguato supporto alla propria richiesta, per cui il giudice penale era stato costretto a rimettere al giudice civile l’attività di quantificazione e di liquidazione del danno. 2. Il motivo è infondato e deve essere respinto. Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria (Cass. n. 22356/2023; già in questi termini Cass n. 4436/2015). Il ricorrente Ministero invoca l’obiter contenuto nel precedente di cui a Cass. n. 11493/2006 (difforme dall’orientamento successivo a cui ha aderito questa Corte, circostanza che lo stesso ricorrente attesta di non ignorare), secondo il quale nella valutazione complessiva delle vicenda processuale il Giudice dell'equa riparazione dovrà tenere conto della complessità della controversia derivante dalla sua articolazione in giudizi diversi svoltisi l'uno dinnanzi al giudice penale, l'altro dinnanzi al giudice civile, apprezzando altresì se la conclusione del processo penale con sentenza di condanna generica al risarcimento del danno consegua ad una esplicita domanda in tal senso della persona offesa costituita parte civile ovvero se sul punto della quantificazione del danno siano state articolate richieste istruttorie non accolte dal giudice penale. Senonché, il richiamato precedente non ancorava affatto la valutazione unitaria dei due giudizi alla qualitas dell’attività assertiva e probatoria svota dalla parte civile in sede penale, ma al contrario, nel confermare detta “valutazione complessiva della vicenda processuale”, si era limitato a prescrivere la necessità di procedere ad un tale accertamento di fatto, la cui omissione avrebbe dovuto ritenersi censurabile unicamente nei termini e nei limiti di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (nella versione all’epoca vigente) e risultare decisiva, di regola, solo ai fini della determinazione del quantum debeatur, ma non anche dell’an. Nel caso che viene qui in rilievo la persona offesa – costituitasi parte civile - formulò, peraltro, una domanda di risarcimento dei danni non di carattere generico e nemmeno simbolica, mentre non si riesce a comprendere quale particolare attività istruttoria la stessa avrebbe avuto l’onere di svolgere nel processo penale relativo al disastro (al di là delle allegazioni poste a fondamento della costituzione di parte civile), essendo tale attività propriamente demandata alle parti principali di siffatto processo, ovvero al P.M. e all’imputato (solo per completezza va detto che nemmeno le asserzioni del ricorrente sulla inerzia della parte civile a fronte delle sentenze di assoluzione colgono nel segno: v. provvedimento impugnato a pag. 7, lett. b). In conclusione, deve essere riaffermato in questa sede il principio secondo cui, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e quest’ultimo si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria, al conseguente fine di addivenire al computo della durata da considerarsi irragionevole e, quindi, indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001 (come ha fatto correttamente la Corte salernitana nel caso di specie). 2. Per effetto della decisione qui adottata risultante pienamente conforme alla proposta formulata - in data 27 marzo 2023 - ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c., deve trovare applicazione la conseguenza sanzionatoria prevista dall’art. 96, comma 3, c.p.c., come richiamata dall’ultimo comma del medesimo art. 380-bis. Le Sezioni unite di questa Corte (cfr. ordinanze nn. 27433/2023 e 28540/2023) hanno, infatti, stabilito il principio per cui, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l'art. 380-bis, comma 3 c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) - che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell'art. 96 c.p.c. - codifica un'ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione – come quello in questione - delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e anche quarto comma, c.p.c., per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c. nel testo riformato, v. Cass. SU n. 27195/2023). Diversamente da quanto obiettato dal Ministero della Giustizia, l’applicazione delle “sanzioni” previste dal citato art. 96, commi 3 e 4 c.p.c. (per le quali non possono sussistere dubbi che scattino anche nei confronti della soccombente P.A.), le Sezioni unite non hanno – condivisibilmente - avallato una interpretazione predicatrice della sua applicabilità in termini di automatismo, propendendo, invece, per la sua univoca applicabilità – ovvero in modo certo e rispondente alla ratio di garantire l’effettività della sua funzione dissuasiva, senza possibilità, quindi, di procedere ad una valutazione discrezionale - nei casi di piena conformità della decisione presa all’esito della richiesta di giudizio rispetto al contenuto motivazionale e conclusivo della suddetta proposta contemplata dal primo comma del citato art. 380-bis c.p.c. (v. Cass. SU, ord. n. 36039/2023). Nel caso di specie la conformità è integrale: riguarda non solo l’esito del ricorso, inteso come dispositivo o formula terminativa della deliberazione (nel senso della infondatezza), ma anche le ragioni che tale esito hanno sostenuto, che hanno fatto leva, per l’appunto, sulla necessità della valutazione unitaria dei due giudizi - penale e civile - al fine di determinare la durata irragionevole indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001, in favore del soggetto costituitosi parte civile in quello penale (e che abbia dovuto, poi, introdurre la causa civile per vedersi liquidato il danno conseguente all’affermazione, in via definitiva, della responsabilità penale dell’imputato). 3. Quanto all’obbligo di pagamento di una somma a favore della Cassa delle Ammende, di cui al citato comma 4 (pure – di regola – conseguente in caso di piena conformità della decisione alla proposta anticipata), si evidenzia, innanzitutto, che si tratta di un istituto introdotto dall’art. 3, comma 6 d.lgs. 10.10.2022 n. 149. Ritiene il collegio che – ancora in senso contrario a quanto sostenuto dal Ministero della Giustizia nella sua memoria finale - nulla osta alla sua applicazione nella causa in questione, posto che il beneficiario della sanzione, la Cassa delle Ammende, costituisce un Ente di diritto pubblico autonomo, con soggettività distinta da quella del Ministero obbligato (come, del resto, riconosce lo stesso Ministero nella richiamata memoria, laddove si discorre di “alterità soggettiva che si traduce in una reciproca autonomia finanziaria e contabile”), il quale esercita solo una funzione di vigilanza, e non può, quindi, discorrersi di confusione della relativa obbligazione. La Cassa delle Ammende – come opportunamente posto in risalto dal PG nelle sue conclusioni - è dotata di una propria contabilità (art. 4, comma 4, della legge 9 maggio 1932 n. 547) e di un proprio bilancio (art. 7, comma 1 lett. h), Allegato al DPCM del 10 aprile 2017, n. 102), con fondi destinati a funzioni specifiche (art. 2, comma 2 Allegato). Quindi, la Cassa in questione è – a tutti gli effetti - un ente con personalità giuridica di diritto pubblico istituito con la richiamata legge 9 maggio 1932 n. 547, che ha autonomia amministrativa, regolamentare, patrimoniale, contabile e finanziaria, nei limiti stabiliti dallo Statuto, emanato con il citato DPCM 10 Aprile 2017 n. 102. Essa finanzia programmi e progetti finalizzati al reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale e cura la gestione del patrimonio e dei depositi cauzionali. La sua dotazione finanziaria è costituita dal conto depositi e dal conto patrimoniale. Al conto depositi affluiscono tutti i versamenti effettuati a titolo provvisorio o cauzionale. Sul conto patrimoniale sono versate tutte le altre somme ed in particolare quelle devolute alla Cassa per disposizione di legge o per disposizione dell'Autorità Giudiziaria. L’entrata che rileva, in particolare, in questa sede è quella, di carattere corrente, prevista dall’art. 20, comma 2 lett. c), del citato Allegato, destinata a confluire nella gestione separata di cui all’art. 22, comma 1 dello stesso Allegato. 4. In definitiva, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del Ministero ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano come in dispositivo, con attribuzione ai difensori antistatari della controricorrente. Va, inoltre, disposta – non ostandovi impedimenti normativi o di carattere logico-sistematico, come posto in risalto - l’applicazione del terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c, richiamati dal novellato art. 380-bis c.p.c. (all’ultimo comma), nei termini di cui in dispositivo. Trattandosi di ricorso in materia di equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2021, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, in tema di raddoppio del contributo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 2.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge, con distrazione in favore dei difensori della controricorrente. Condanna, altresì, lo stesso Ministero ricorrente al pagamento, a favore della controricorrente ed ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., della somma equitativamente determinata nella misura di euro 1.500,00, nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende ed in applicazione dell’art. 96, comma 4, c.p.c., della somma di euro 500,00. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. SESSA Renata - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pa.Si. nato a C il Omissis avverso la sentenza del 05/07/2023 del TRIBUNALE di BOLOGNA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale ALDO CENICCOLA, che ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza. RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con sentenza del 5 luglio 2023, il Giudice di pace di Porretta Terme aveva assolto Pa.Si. dal reato di lesioni personali, che, secondo l'ipotesi accusatoria, avrebbe commesso in danno di Di.Ve. A seguito dell'appello proposto dal pubblico ministero e dalla parte civile, il Tribunale di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto l'imputato colpevole del reato e l'ha condannato alla pena di mesi due di reclusione nonché al risarcimento dei danni. 2. Contro la sentenza del Tribunale di Bologna, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore di fiducia. 2.1 Con un primo motivo, deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 533 e 603 cod. proc. pen. Rappresenta che, mentre il giudice di primo grado aveva assolto l'imputato, ritenendo non attendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa e dal teste Di.Co., il giudice d'appello aveva deciso in senso diametralmente opposto, basandosi su quelle stesse testimonianze, da lui ritenute attendibili. Il Tribunale di Bologna avrebbe "ribaltato" il giudizio di assoluzione, mediante una diversa valutazione delle medesime prove dichiarative, senza preventivamente rinnovarne l'assunzione in dibattimento. Palese, pertanto, a parere del ricorrente, sarebbe la violazione dei principi affermati in materia dalla costante giurisprudenza e riconosciuti dall'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. 2.2 Con un secondo motivo, deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 572 e 581 cod. proc. pen. Sostiene che l'atto di appello presentato dal pubblico ministero sarebbe stato inammissibile, in quanto "consistente in un acritico accoglimento dell'istanza proposta ex art. 572 cod. proc. pen. dalla parte civile". 2.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 582 cod. pen. Contesta la sentenza impugnata, sostenendo che il Tribunale avrebbe ritenuto sussistente il reato di lesioni, nonostante l'assenza della prova di un'effettiva alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, quale conseguenza della condotta dell'imputato. 2.4. Con un quarto motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 52, 59 e 582 cod. pen. Sostiene che il Tribunale non avrebbe valutato la possibilità di ritenere applicabile la scriminante della legittima difesa putativa. 2.5. Con un quinto motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 52 D.Lgs. n. 274 del 2000. Sostiene che la pena inflitta all'imputato sarebbe illegale, in quanto il Tribunale, in palese violazione dell'art. 52 D.Lgs. n. 274 del 2000, avrebbe applicato una pena detentiva (mesi quattro di reclusione) per un reato di competenza del giudice di pace. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza. 4. L'avv. Al.St., per la parte civile, ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di rigettare il ricorso. 5. L'avv. An.Vo., per l'imputato, ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di accogliere il ricorso. 6. Il ricorso deve essere accolto. 6.1. Il primo motivo di ricorso è fondato. Il Tribunale di Bologna, invero, ha "ribaltato" la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di pace, senza procedere alla rinnovazione dell'istruttoria. Al riguardo, deve essere ricordato che "il giudice di appello che riformi ... la sentenza assolutoria di primo grado, sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è tenuto, anche d'ufficio, a rinnovare l'istruzione dibattimentale anche successivamente all'introduzione del comma 3-bis dell'art. 603 cod. proc. pen., ad opera dalla legge 23 giugno 2017, n. 103" (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228). La prova dichiarativa deve avere le seguenti caratteristiche: a) può trattarsi di prova che abbia a oggetto sia dichiarazioni percettive che valutative; b) dev'essere espletata a mezzo del linguaggio orale (testimonianza; esame delle parti; confronti; ricognizioni); c) dev'essere decisiva essendo stata posta dal giudice di primo grado a fondamento dell'assoluzione; d) di essa il giudice di appello deve dare una diversa valutazione. Solo ove sussistano, congiuntamente, tutte le suddette condizioni, il giudice di appello ha l'obbligo di rinnovare l'istruttoria e se non adempie all'obbligo incorre in una "violazione di legge". Ebbene, nel caso in esame, le prove dichiarative (le testimonianze della persona offesa e del teste Di.Co.) hanno tutte le evidenziate caratteristiche, posto che: si tratta di dichiarazioni percettive; sono state raccolte a mezzo di testimonianza; sono decisive, in quanto su di esse si fondano sia la sentenza di assoluzione di primo grado che quella di condanna in appello; di esse, il Tribunale ha dato una diversa valutazione. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bologna. 6.2. Il secondo motivo è inammissibile, atteso che, con esso, il ricorrente si limita a dedurre l'inammissibilità dell'appello del pubblico ministero, sulla base di generiche asserzioni. I restanti motivi risultano assorbiti dall'accoglimento del primo motivo di ricorso. 6.3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bologna. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. Così deciso, il 6 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1013 del 2020, proposto da As. S.p.A. in proprio e nella qualità di mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Di Vi. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe. Ca. e Gr. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fe. Ca. in Roma, via (...); contro Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. St. e Ma. Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Sa. De. in Roma, p.zza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Prima, 24 ottobre 2019, n. 795, n. 795, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cip Sassari Consorzio Industriale Provinciale di Sassari; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società As. S.p.a. chiede la riforma della sentenza del T.a.r. per la Sardegna 24 ottobre 2019, n. 795, che ha respinto il suo ricorso per l'accertamento dell'inadempimento, da parte del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, di un contratto relativo all'esecuzione di lavori, con la conseguente risoluzione dello stesso e la condanna del Consorzio al risarcimento del danno da inadempimento o, in via subordinata, a titolo di responsabilità precontrattuale. 1.1. Come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, il Consorzio (già Consorzio per l'Area di Sviluppo Industriale di Sassari - Porto Torres - Alghero) aveva indetto un appalto concorso per la progettazione e costruzione delle infrastrutture relative alla zona di (omissis). Nella lettera di invito si prevedeva che l'importo dei lavori a "forfait globale chiuso" non potesse superare £ 150.000.000.000 (IVA esclusa) e si specificava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso", per cui "soltanto dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessione edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". 1.2. Con delibera n. 3398 del 22 giugno 1989 era stata adottata l'aggiudicazione provvisoria in favore del raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Di. S.p.a. (odierna As. S.p.a.), specificando espressamente che l'aggiudicazione sarebbe diventata definitiva "solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere", le quali sarebbero state divise in stralci da affidare con successivi contratti, in base ai finanziamenti progressivamente ricevuti. Il che si verificò regolarmente almeno fino alla nota del 2 maggio 2006, prot. n. 1550/5/06, con la quale il Consorzio comunicava al raggruppamento As. la propria volontà di ritirarsi dall'appalto concorso "per contrasto con norme imperative inderogabili e, comunque, per non inidoneità a garantire il corretto perseguimento dell'interesse pubblico attuale". 1.3. Avverso la determinazione del Consorzio, il raggruppamento dapprima si rivolse al giudice ordinario e, successivamente (a seguito della sentenza della Corte di Appello di Cagliari, sezione staccata di Sassari, 26 ottobre 2012, n. 319, che - in riforma della sentenza del tribunale ordinario di Sassari - declino la giurisdizione in favore del giudice amministrativo; e a seguito, anche, della pronuncia della Corte di cassazione, SS.UU. civili, 4 luglio 2017, n. 21199, che ha dichiarato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto da As.) ha radicato il giudizio innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, che ha rigettato integralmente le domande risarcitorie proposte dal R.T.I. As.. 1.4. Il primo giudice - trattenuta la giurisdizione in base alla considerazione che l'oggetto del contendere riguardasse il mancato affidamento al RTI As. dei lavori successivi al quarto stralcio, cioè un profilo relativo alla fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale - ha ritenuto infondate tutte le domande della ricorrente sull'essenziale assunto che la lettera di invito, così come le corrispondenti clausole dei contratti relativi ai primi quattro stralci di lavori, e prima ancora la deliberazione del 22 giugno 1989, n. 338 (in cui si precisava che l'aggiudicazione definitiva sarebbe intervenuta solo con il perfezionarsi dei singoli finanziamenti), erano chiare nel considerare "non immediatamente impegnativo" per il Consorzio, rispetto ai singoli lavori in progetto, l'originario rapporto di appalto concorso; e pertanto - come già osservato - non si è mai perfezionato un rapporto contrattuale per la generalità dei progetti facenti parte dell'appalto concorso. Anche la domanda avente ad oggetto la responsabilità precontrattuale è stata rigettata, sia per la genericità della sua formulazione, sia perché - in ragione della loro qualificazione professionale - non sussisterebbe un affidamento incolpevole delle imprese ricorrenti. 2. La società As., rimasta soccombente, ha proposto appello sostanzialmente reiterando i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Consorzio Provinciale di Sassari, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza in quanto il primo giudice avrebbe errato non solo a non rimettere la questione di giurisdizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sollevando conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a., ma anche ad affermare che la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva amministrativa. Ribadisce che la vicenda non riguarda la fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale, come erroneamente asserito nella sentenza, ma attiene alla fase di esecuzione del contratto posto che la procedura di appalto-concorso indetta dal Consorzio si è conclusa con l'aggiudicazione definitiva della intera progettazione ed esecuzione dei lavori, con la sola condizione che l'esecuzione fosse subordinata alla acquisizione dei finanziamenti. 4.1. Il motivo è infondato. 4.. Come meglio emergerà nel corso dell'esame delle domande risarcitorie, l'appalto concorso indetto con bando dell'8 aprile 1989 e contestuale lettera di invito, si è concluso con la sola aggiudicazione provvisoria, sulla scorta di quanto previsto dalla lex specialis la quale espressamente precisava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso"; soltanto "dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessine edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". La deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), ha correttamente dato atto delle conseguenze derivanti dalle predette norme di gara, dichiarando l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", che "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 4.3. Pertanto la controversia instaurata dalla As. ha per oggetto la fase dell'affidamento di un contratto di appalto di lavori (parte del più ampio progetto di lavori), che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, del codice del processo amministrativo. 5. Con il secondo motivo, l'appellante censura la sentenza anche nella parte in cui ha rigettato la domanda di accertamento dell'inadempimento e della conseguente responsabilità contrattuale del Consorzio industriale e risarcimento del danno, sostenendo la inesistenza di un vincolo contrattuale tra le parti. Reitera gli argomenti con i quali ha sostenuto che dall'aggiudicazione dell'appalto concorso discendeva l'affidamento di tutta l'opera oggetto della gara. In particolare, la procedura indetta ed aggiudicata dal Consorzio riguardava la progettazione e la realizzazione dell'intera opera, ferma restando la circostanza che la fase esecutiva sarebbe proseguita per stralci dopo il recepimento dei necessari finanziamenti. La stessa lettera di invito precisava inoltre che l'aggiudicataria "dovrà consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Dunque, la lettera di invito non indicava solo che l'opera era priva di finanziamento e che si sarebbe proceduto per stralci, ma anche che oggetto dell'affidamento era costituito dalla progettazione e che il progetto presentato dal vincitore sarebbe stato utilizzato dal CONSORZIO "come cosa propria" per ottenere i finanziamenti necessari all'attività esecutiva. 5.1. In tale prospettiva chiede la corresponsione anche dello specifico compenso per il progetto divenuto di proprietà del Consorzio, che non sarebbe stato interamente pagato (pagamento che era previsto in occasione dell'affidamento dei diversi stralci). 5.2. Sotto altro profilo, l'appellante richiama anche l'art. 33 del Capitolato speciale di appalto (sul deferimento alla competenza arbitrale per le controversie che dovessero sorgere fra la Direzione dei Lavori e l'Appaltatore), osservando come il fatto che il Consorzio si sia sempre difeso, tra l'altro, richiamando la competenza arbitrale prevista dal richiamato art. 33 del capitolato speciale di appalto, presuppone il perfezionamento del vinculum iuris e quindi si controverta in materia di diritti soggettivi (art. 12 del Codice del processo amministrativo), posto che il collegio arbitrale non potrebbe essere chiamato a definire controversie che attengono a interessi legittimi. In tal modo il Consorzio avrebbe mostrato di essere consapevole della definitività dell'intero affidamento e, dunque, del vinculum iuris tra le parti. 5.3. Col terzo motivo, in via subordinata l'appellante impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto la domanda di condanna del Consorzio alla stipula del contratto, ai sensi dell'art. 2932 del codice civile, che troverebbe la sua base giuridica nella clausola dei contratti stralcio (articolo 5) successivi alla iniziale aggiudicazione dell'appalto concorso, che contempla l'espresso impegno a completare la realizzazione dei restanti lotti, concretizzando l'obbligo a contrarre in capo alla stazione appaltante, condizionato al mero ottenimento dei finanziamenti regionali. Il Consorzio sarebbe venuto meno anche all'obbligo di esecuzione in buona fede (art. 1375 c.c.), omettendo di chiedere i finanziamenti necessari, il che giustifica la domanda di esecuzione in forma specifica, per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non stipulato. L'appellante, peraltro, precisa che con la sentenza ex art. 2932 il giudice dovrebbe, per un verso, accertare l'esistenza del contratto e, per altro verso, successivamente, dichiararlo risolto per inadempimento imputabile al Consorzio, condannando quest'ultimo al risarcimento dei danni da inadempimento subiti dalla società appellante. In alternativa, il giudice potrebbe limitarsi a disporre direttamente il risarcimento per equivalente, per l'impossibilità della realizzazione dell'opera per fatto e colpa del Consorzio. 5.4. In via ulteriormente subordinata, l'appellante ritiene che il primo giudice abbia errato nel rigettare la domanda per l'accertamento della responsabilità precontrattuale del Consorzio, ai sensi dell'art. 1337 del codice civile, i cui principi di correttezza e di buona fede sarebbero stati palesemente violati dall'amministrazione appaltante. 6. Le diverse questioni sollevate con gli articolati motivi sopra esposti si prestano a una trattazione unitaria, considerato che le conseguenze tratte dall'appellante prendono le mosse dall'unico assunto secondo cui dal bando di gara e dalla lettera di invito, o - anche - dai tre contratti stralcio stipulati, sorgesse il vincolo contrattuale definitivo o quantomeno quel vincolo preliminare idoneo a costituire l'obbligo del Consorzio (coercibile ex art. 2932 c.c.) a concludere il contratto definitivo. 6.1. I motivi sono infondati. 6.2. Quanto alla inesistenza di un rapporto contrattuale discendente direttamente dal bando di gara e dalla lettera di invito all'appalto concorso, è sufficiente richiamare le condivisibili argomentazioni spese dal primo giudice, il quale ha correttamente rilevato come le norme di gara escludevano chiaramente ogni impegno contrattuale dell'amministrazione, se non a seguito della acquisizione dei finanziamenti per l'esecuzione dei lavori dei singoli lotti e della stipula dei relativi contratti di appalto (eventualità che si è puntualmente verificata per i tre stralci affidati al raggruppamento As.). 6.3. Conseguenza che era facilmente evincibile anche dalla piana lettura della deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), che ha dichiarato l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", precisando che detta aggiudicazione "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 6.4. Oltre alle argomentazioni di cui in sentenza, milita a favore della inesistenza di un vincolo contrattuale anche la previsione contenuta nella lettera di invito (su cui si sofferma insistentemente l'appellante) secondo cui l'impresa risultata aggiudicataria avrebbe dovuto "consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Al contrario di quanto sostenuto dall'appellante, appare evidente che una clausola del genere non sarebbe stata necessaria in caso di aggiudicazione definitiva, che implica - nel caso di gara di appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori - l'acquisizione (a titolo di proprietà ) della progettazione, oltre che delle opere realizzate in appalto. Anche nel testo del primo contratto stralcio (testo ripreso anche nei successivi contratti stralcio), stipulato sulla base della delibera del Consorzio n. 4485 del 20 marzo 1992 (ove si precisava che "la realizzazione dei lavori relativi all'intero progetto dovrà essere affidata all'aggiudicataria Associazione Temporanea sopra citata, previa aggiudicazione dei singoli futuri stralci quando verranno ammessi a finanziamento") si ribadisce che l'associazione di imprese è (solo) aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso, essendo l'aggiudicazione definitiva (e quindi il contratto) subordinata "all'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto". 6.5. Si osservi, inoltre, che ogni contratto stralcio stipulato è stato preceduto dalla deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio che, preso atto del finanziamento acquisito, ha disposto l'aggiudicazione definitiva al raggruppamento As.. 6.5. Ne deriva, inoltre, che, per via della suddivisione in stralci successivi, anche gli oneri di progettazione venivano compensati nell'ambito del contratto esecutivo (ciò trova conferma anche nella clausola sopra citata in base alla quale il progetto scaturito dall'appalto concorso non diventa per ciò solo di proprietà del Consorzio ma questo può utilizzarlo - con l'espresso consenso dell'impresa - solo per le domande di finanziamento; pertanto non spetta il compenso per l'attività di progettazione preteso dall'appellante). 6.6. Ne deriva come conseguenza che è infondata la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento imputabile al Consorzio. 7. Anche la domanda di esecuzione in forma specifica è infondata, per le medesime ragioni: ossia per l'assenza di una base giuridica dalla quale desumere un obbligo del Consorzio di addivenire alla stipula del contratto definitivo. Anche il riferimento alla violazione degli obblighi di buona fede nell'esecuzione del contratto appare genericamente dedotto, emergendo dalla documentazione in atti l'attività svolta dal Consorzio per reperire i vari finanziamenti regionali necessari. 8. In tale contesto, va esclusa anche la responsabilità del Consorzio a titolo precontrattuale, non riscontrandosi un affidamento incolpevole tutelabile in capo all'appellante, anche in considerazione della elevata qualificazione professionale delle imprese coinvolte, come già rilevato dal primo giudice. 9. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 10. La disciplina delle spese giudiziali segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del presente grado in favore del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BOLOGNA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del giudice Antonio Costanzo, ha pronunciato, dopo discussione orale ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile n. 7918/2023 R.G. promossa da F_M. ((...)) ((...)); - ATTORE contro GS (..) (..); - CONVENUTA Oggetto: obbligazioni. CONCLUSIONI Per l'attore opponente: "NEL MERITO: - REVOCARE il decreto opposto perché infondato in fatto e diritto per le ragioni esposte in narrativa; - DICHIARARE la non esigibilità del credito ex adverso azionato con il monitorio opposto, in quanto, per i motivi esposti in narrativa, inesistente e pertanto non dovuto; - CONDANNARE la convenuta - opposta al risarcimento del danno ex Art. 96 C.P.C. per il tenuto contegno profondamente lesivo dei principi di buona fede contrattuale che devono animare le parti nonché per l'evidente abuso in mala fede e con colpa grave dello strumento processuale; - Con vittoria di spese e compensi di lite dei quali i difensori si dichiarano distrattari. IN VIA ISTRUTTORIA: Previa remissione della causa in istruttoria, chiede ammettersi prova per testi sui capitoli tutti, nessuno escluso, di cui alla narrativa dell'atto di citazione in opposizione da ritenersi qui integralmente riportati in forma positiva - espunti giudizi e valutazioni -preceduti dalla locuzione "vero che". Chiede, inoltre, chiedersi prova testimoniale sui seguenti capitoli di prova: 1) "vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"; 2) "vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."; 3) "vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n.5 di parte opponente"; 4) "vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro". Si indicano come testi i signori: - B. F., Bologna; - D. Gherardi, Bologna; - F. M., Bologna" Per la convenuta opposta: "Il patrocinio dell'opposta G., facendo seguito alle deduzioni già all'udienza del l'08.5.24 precisa le conclusioni come in memoria di replica istruttoria ex art. 183 c. 6 n. 3 c.p.c. ed in comparsa di costituzione, segnalando che è emersa in sede istruttoria la percezione da parte G. di Euro 3.925,70 - a seguito della vendita forzata dell'abitazione familiare di proprietà di controparte F. nella procedura r.g.e. Trib. Bo. 754/17- che va decurtata dalla sorte indicata nelle conclusioni della comparsa di costituzione di parte G., sorte pretesa che, pertanto, da Euro 40.000 originari è ora pari ad Euro 36.074,30. Peraltro, si segnala che alcuna attività di esecuzione si è compiuta in ragione del decreto ingiuntivo opposto che è immediatamente esecutivo. Inoltre, si evidenzia che proceduralmente ed ai fini dell'accoglimento delle domande di parte opposta Sig.ra G., si ritiene - e si conclude - che il decreto opposto da controparte vada revocato da sentenza che accolga le richieste di parte opposta Sig.ra G. recante solo l'importo di Euro 36.074,30 - invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Si richiamano la conclusioni di cui alla comparsa di risposta: "Per l'ingiungente G. (oggi convenuta) si rassegnano, pertanto, le seguenti conclusioni: - rigettare ogni avversa difesa ed istanza, anche con conferma dell'ingiunzione opposta da controparte, subordinatamente con condanna dell'opponente F. (attore nella presente fase di causa) di corrispondere a parte opposta G. (ingiungente nella monizione per cui è il presente giudizio) Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria); - in ogni caso: con ogni più ampia riserva, vinte le spese di lite e con richiesta di liquidazione dell'attività per gratuito patrocinio nella misura ritenuta di legge dal Giudice in favore dell'Avv. P. M. patrocinatore di parte G., nonché con condanna di controparte per responsabilità aggravata, anche per le affermazioni palesemente contraddittorie e la rilettura degli atti non conforme al contenuto degli stessi con rimessione a giustizia circa la relativa misura". MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Richiamati atti e documenti di causa, noti alle parti; rilevato che l'attore non ha fornito prova scritta a sostegno dell'opposizione; esaminate le conclusioni finali in epigrafe trascritte; si osserva quanto segue. 2. L'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 esecutivo ex art. 642 c.p.c. (emesso, su ricorso depositato il 1 dicembre 2022 che non risulta preceduto la richiesta stragiudiziale, per la somma capitale di euro 40.000,00 oltre accessori) proposta da M. F. con citazione notificata via PEC il 30 maggio 2023 all'ex coniuge S. G. (costituitasi il 27 luglio 2023), va respinta per infondatezza dei motivi dedotti dall'opponente, benché il decreto opposto vada revocato come richiesto, da ultimo, dalla stessa convenuta, avendo essa dato atto, esaurita l'istruttoria, che il debito era inferiore a quello oggetto di ricorso (si richiamano in proposito le conclusioni finali della convenuta). 2.1. La domanda monitoria proposta dall'odierna convenuta si fonda sulla scrittura privata 8 giugno 2020, recante riconoscimento di debito da parte dell'odierno attore e nella quale si legge: "(...) PREMESSO IN FATTO - che nell'ambito della separazione consensuale omologata il 7 luglio 2017 tra i coniugi F. e G. gli stessi pattuivano che: - la figlia della coppia, B., sarebbe stata collocata presso la madre nella casa familiare di X, Via ...4; - il sig. F. avrebbe versato un mantenimento per la figlia di Euro 300 mensili; - Nell'ipotesi di trasferimento a Bologna di moglie e figlia il F., alla data del trasferimento dalla casa coniugale si obbliga a trasferire l'usufrutto a S. G. per una durata non inferiore a 5 anni (clausola 11a verb. Sep), con diritto della Signora G. di locare l'appartamento a terzi (clausola 11c verb. Sep) e, a decorrere dal percepimento dei canoni di locazione il F. avrebbe cessato di corrisponderle l'importo di Euro 300,00 mensili, o a versare la differenza tra il canone percepito e l'importo di Euro 300,00 qualora l'importo del canone percepito fosse stato inferiore (clausola 11c verb. Sep); - in esecuzione dei predetti accordi raggiunti in sede di separazione, F. cedeva gratuitamente e trasferiva a S. G. l'usufrutto vitalizio sulla casa familiare per la durata di anni 8 in data 8 agosto 2017; - successivamente il sig. F. subiva il pignoramento immobiliare n. 754/2017 promosso da Intesa San Paolo Group per mancato pagamento delle rate del mutuo contratto per l'acquisto della casa familiare. Nell'ambito della procedura l'immobile è stato venduto mediante asta giudiziaria ed attualmente è fissata udienza, al 26.6.20, per la precisazione del credito e distribuzione delle somme; - a partire dal 2018 il sig. F., assieme alla figlia B. , si trasferiva nella casa locata dalla nonna paterna, in Via ... , provvedendo dunque lo stesso al mantenimento diretto della figlia, presso di lui collocata; - la signora G., nel mese di novembre/dicembre 2019 sporgeva denuncia ai danni del sig. F. per mancato pagamento dell'assegno di mantenimento della figlia B. e notificava al sig. F. atto di precetto per il pagamento, a titolo di mantenimento, della somma di Euro 10.709,38 che non veniva opposto; - successivamente la signora G. interveniva nel pignoramento immobiliare per la predetta somma privilegiata, oltre che alla somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto. Tutto ciò premesso - il signor F. si impegna a non opporsi alla precisazione del credito della moglie; - il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200; - il sig. F. si impegna a versare alla moglie, entro il giorno 5 di ogni mese sul di lei conto corrente, a partire dal corrente mese di giugno - qualora egli non l'abbia già fatto - la somma di Euro 300 mensili a titolo di mantenimento in favore della stessa sino a che la moglie non avrà reperito una attività lavorativa che le consenta l'autosufficienza; - la signora G. si impegna a ritirare immediatamente la querela presentata ai danni del sig. F., rinunciando sin da ora a costituirsi parte civile in un eventuale procedimento penale nei confronti del marito per le circostanze denunciate". 2.2. Come pacifico in atti e riscontrato dai documenti acquisiti: a) in attuazione dei patti raggiunti in sede di separazione consensuale (verbale 7 giugno 2017) omologata con decreto 7 luglio 2017, con atto redatto dal notaio P. M. data 3 agosto 2017 denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" l'attore aveva costituito in favore della convenuta "a titolo gratuito" l'usufrutto per la durata di (almeno) otto anni sull'immobile in X già adibito a casa familiare ("(...) F. M., in esecuzione dei predetti accordi in sede di separazione, cede e trasferisce a titolo gratuito a G. S. che accetta ed acquista l'usufrutto per la durata di anni 8 (otto) da oggi o se successivo a detto termine fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della figlia minore F. B., della porzione di villetta trifamiliare (...)"): l'immobile era gravato da ipoteca iscritta il 17 novembre 2003 a garanzia di mutuo concesso all'attore da un istituto bancario di originari euro 120.000 (come si legge nell'atto notarile 3 agosto 2017, "F. M. dichiara che sull'immobile in oggetto grava l'ipoteca (...) che la parte acquirente dichiara di tollerare, ben sapendo che, ai sensi e alle condizioni di cui agli artt. 2858 c.c. e seguenti, in caso di mancato pagamento del debito garantito la Banca può promuovere esecuzione forzata sul bene acquistato col presente atto"); b) nel novembre 2017 su iniziativa del creditore ipotecario l'immobile in X già adibito a casa familiare, e sul quale era stato costituito l'usufrutto in favore di S. G., è stato colpito da pignoramento (doc. 9 di parte convenuta): come riportato anche nella scrittura privata 8 giugno 2020, nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. contro M. F. è intervenuta anche l'odierna convenuta sia quale creditrice di somme a titolo di concorso nel mantenimento della figlia (per tale credito al debitore era stato notificato precetto non opposto) sia quale titolare di diritto di usufrutto sull'immobile pignorato (art. 2812 c.c.; v. anche la proposta di piano di riparto 15 giugno 2020 elaborata dall'esperto contabile ausiliario del giudice dell'esecuzione, doc. 6 di parte attrice); c) la prima udienza per l'autorizzazione alla vendita nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. si è tenuta l'11 marzo 2019; la scrittura privata 8 giugno 2020 è stata sottoscritta dalle parti dopo la vendita forzata dell'immobile pignorato (il decreto di trasferimento era stato il 12 marzo 2020) e prima dell'udienza 26 giugno 2020 fissata per la precisazione dei crediti e la distribuzione del ricavato; con ordinanza 2 luglio 2020 il giudice dell'esecuzione ha dichiarato esaurita l'esecuzione immobiliare e ha ordina il pagamento delle somme come da progetto di distribuzione 15 giugno 2020, progetto che, per quanto qui rileva, prevedeva, una volta soddisfatti i crediti in prededuzione ed il credito assistito da ipoteca, l'attribuzione a S. G. della residua somma di euro 3.925,70 a parziale compensazione della perdita dell'usufrutto il cui valore era stato quantificato nel progetto di distribuzione in euro 72.000,00. Dalla lettura degli atti qui richiamati appare evidente che l'obbligazione assunta dall'attore verso la convenuta con la scrittura privata 8 giugno 2020 era volta a compensare la perdita economica subita da S. F. a seguito dell'estinzione dell'usufrutto costituito in suo favore solo pochi mesi prima del pignoramento (art. 2812, comma 2, c.c.). L'accordo documentato dalla scrittura privata ha natura transattiva in quanto, come si legge nelle premesse del testo, la convenuta era già intervenuta nell'esecuzione immobiliare affermandosi creditrice della "somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto". Più che eloquente il passaggio in cui si afferma che "il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200", mentre l'inadempimento dell'attore ha determinato la decadenza dal beneficio del termine (in tal senso v. il ricorso per decreto ingiuntivo). 3. A sostegno dell'opposizione l'attore deduce la simulazione assoluta dell'accordo di cui alla scrittura privata 8 giugno 2020 perché "attesta un debito totalmente inesistente"; solleva eccezione di inadempimento adombrando una risoluzione per inadempimento della conventa: deduce la nullità dell'accordo sotto vari profili (illiceità della causa; frode alla legge; illiceità del motivo). 4. Così come proposta dall'attore, la prova per testi non può essere accolta, considerati le questioni controverse ed il fondamento della domanda monitoria: il capitolo 1 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"); il capitolo 2 è generico e inammissibile nella parte in cui contrasta col tenore dell'accordo 8 giugno 2020 ("vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."); il cap. 3 è irrilevante e inammissibile nella parte in cui si pone in collegamento col capitolo precedente ("vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n. 5 di parte opponente"); il cap. 4 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro"). 5. Non vi è alcuna prova (l'attore non l'ha fornita, art. 1417 c.c.) dell'accordo simulatorio sottostante alla scrittura privata 8 giugno 2020 posta a base del ricorso per decreto ingiuntivo e che, invero, richiama, ponendosi con essi in relazione, i patti conclusi in sede di separazione consensuale, l'atto attuativo 3 agosto 2017, le vicende relative all'esecuzione forzata sull'immobile già adibito a casa familiare. L'eccezione di simulazione assoluta è infondata. Da un lato, manca la prova dell'accordo simulatorio; dall'altro, sono pacifici i fatti posti a fondamento del credito della convenuta (in sintesi, l'estinzione del diritto di usufrutto per effetto dell'espropriazione immobiliare subita dall'attore, art. 2812 c.c.) il cui ammontare è stato definito dalla parti in via transattiva nella misura di euro 40.000,00. 6. L'opponente non ha provato fatti idonei a giustificare la risoluzione dell'accordo consacrato nella scrittura privata 8 giugno 2020: da un lato, non vi è alcun immediato nesso di corrispettività tra l'obbligazione assunta da M. F., previo riconoscimento del proprio debito nella misura di euro 40.000,00 "a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa (G., n.d.r.) patito", e l'impegno di S. G. a ritirare la querela presentata (pare a fine 2019) nei confronti dell'allora marito, essendo oltretutto pacifico che l'inadempimento di M. F. rispetto alle obbligazioni verso l'istituto bancario e la espropriazione immobiliare n. 754/17 R.G.E. hanno determinato l'estinzione del diritto di usufrutto, inopponibile al creditore ipotecario (Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. n. 3722), che era stato costituito in favore di S. G. per la durata di otto anni con l'atto pubblico 3 agosto 2017 a ministero notaio P. M. denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" (in altri termini, in sede di separazione consensuale, come da verbale 7 giugno 2017 omologato il 7 luglio 2017, M. F. aveva assunto una obbligazione attuata con l'atto pubblico 3 agosto 2017 ma di fatto il suo inadempimento verso l'istituto di credito, poi pignorante in forza di credito garantito da ipoteca iscritta nel 2003, ha precluso all'avente diritto S. G. la possibilità di godere dell'immobile in X già casa familiare); dall'altro, è pacifico che S. G., in conformità all'impegno assunto con la scrittura 8 giugno 2020, non si è costituita parte civile nel processo penale contro M. F., processo (n. 5530/20 R.G.N.R. - n. 1662/22 R.G. dibattimento) definito con sentenza di assoluzione sul presupposto che l'inadempimento di obbligazioni civili non integra di per sé gli estremi del reato di cui all'art. 570-bis c.p. (già art. 12-sex/'es, l. n. 898/1970) in relazione all'art. 570 c.p. (la sentenza Trib. Bologna, 27 febbraio - 28 marzo 2023 n. 965 è irrilevante in questa sede, tanto più che l'oggetto della presente causa non riguarda l'omesso versamento dell'assegno dovuto dal padre a titolo di contributo per il mantenimento della figlia come da accordi di separazione), mentre non vi è ragione di contestare all'odierna convenuta l'omessa rimessione di querela (le premesse della scrittura privata 8 giugno 2020 fanno riferimento ad una denuncia, la sentenza penale n. 965/2023 parla sia di querela presentata l'8 gennaio 2020 che di denuncia querela) perché condotta del tutto ininfluente rispetto all'esercizio dell'azione penale quando, come nel caso di specie, si verta in ipotesi di reato procedibile d'ufficio (cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio - 24 febbraio 2020, n. 7277). 7. La questione relativa al contributo al mantenimento della figlia (nata il 7 maggio 2000, dunque ormai maggiorenne al tempo della scrittura 8 giugno 2020) non ha alcuna attinenza con l'obbligazione dedotta in giudizio, sorretta da una causa del tutto autonoma e meritevole di tutela, inerente al mancato godimento da parte della convenuta del diritto che l'attore le aveva riconosciuto in sede di separazione consensuale e volta appunto alla compensazione di quel mancato godimento mediante il pagamento di una somma di denaro (concordato nella misura di euro 40.000,00) di cui M. F. si è dichiarato debitore (v. supra; v. anche il verbale dell'udienza 2 marzo 2023 nel giudizio divorzile 14033/2022 R.G.). 8. Non vi è alcuna nullità dell'accordo sottostante l'impegno assunto da M. F. con la predetta scrittura 8 giugno 2020, accordo che trae origine dall'avventa estinzione del diritto di usufrutto alla costituzione del quale l'attore si era impegnato già in sede di separazione consensuale. 9. In conclusione, l'opposizione, così come proposta dall'attore, è infondata. 10. In comparsa di costituzione la convenuta ha chiesto la conferma del decreto ingiuntivo opposto o in subordine la condanna dell'attore al pagamento della somma di "Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria)". Nelle conclusioni finali la convenuta ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo e la condanna dell'attore al pagamento di una somma inferiore a quella oggetto di ingiunzione. Nell'esecuzione immobiliare n. 754/17 R.G.E., a seguito della vendita forzata (il decreto di trasferimento è stato emesso il 12 marzo 2020) e dell'approvazione del piano di riparto con ordinanza 7 luglio 2020 del giudice dell'esecuzione, la convenuta aveva ricevuto una somma di denaro (euro 3.925,70) a parziale soddisfacimento del credito da essa vantato in relazione all'estinzione del diritto di usufrutto. Come si legge nelle conclusioni finali, la convenuta chiede la revoca del decreto ingiuntivo con sentenza che condanni l'attore a pagare "solo l'importo di Euro 36.074,30 -invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Ne conseguono, da un lato, la revoca del decreto ingiuntivo limitatamente ai capi relativi all'ingiunzione di pagare "la somma di Euro 40.000,00" (capo 1) e "gli interessi come da domanda" (capo 2) (nel ricorso era chiesto il pagamento della "somma complessiva di Euro 40.000 oltre agli interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione sino al saldo effettivo"), e non anche la condanna alle spese pronunciata in favore dell'erario (la ricorrente era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato), capo rispetto al quale l'odierna convenuta non ha potere dispositivo; dall'altro, attese le conclusioni finali (che quanto agli accessori richiamano le conclusioni di cui alla comparsa di risposta), la condanna dell'attore al pagamento della somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo. 11. Non vi sono i presupposti per la condanna dell'attore ex art. 96 c.p.c., come invece richiesto dalla convenuta in comparsa di risposta. 12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore dell'erario (artt. 133, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115: "Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato"), in quanto la convenuta è ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato (v., fra le altre, Cass., sez. II, 19 gennaio 2021, n. 777). P.Q.M. Il Tribunale di Bologna in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni diversa domanda, istanza ed eccezione respinta: - rigetta l'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 proposta da F. M. contro G. S.; - revoca il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858; - condanna F. M. a pagare a G. S. la somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo; - rigetta la domanda di condanna ai sensi dell'art. 96 c.p.c. proposta da G. S. contro F. M.; - liquida le spese processuali a carico di F. M. in euro 3.809,00 per compenso, oltre rimborso forfettario 15%, oltra CPA e IVA come per legge. Bologna, 15 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8334 del 2023, proposto da: Ca. Eu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Pe. e Cr. Be., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ni. Za., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Tu. Fu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co. e Gi. Gi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; Ni. Co., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sezione staccata di Pescara, n. 96/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e di Tu. Fu. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Nessuno presente per le parti nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del 20 febbraio 2023, n. 96 con cui il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 25216 del 2 maggio 2019, di revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, e per la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti. Il Comune di (omissis) si è costituito con atto formale. La controinteressata, Tu. Fu. s.r.l. si è costituita depositando memoria difensiva e documentazione ed ha chiesto la reiezione dell'appello. In vista della trattazione, il comune e la controinteressata hanno depositato memorie conclusive, alle quali l'appellante ha replicato con memoria del 7 maggio 2024. Con separati atti tutte le parti costituite hanno chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. L'appellante, gestore di un campeggio in (omissis), lungo la SS (omissis), ha impugnato in primo grado il suindicato provvedimento censurandolo per violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, dell'art. 3 della legge n. 287 del 1991, della legge regionale n. 16 del 2003, dei principi di buon andamento, di imparzialità, di affidamento incolpevole, di proporzionalità e ragionevolezza nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto di presupposti, di istruttoria e di motivazione, dello sviamento. In particolare ha fatto presente che i procedimenti di condono non erano ancora definiti; che il primo riguardava n. 8 bungalows più il bar, il secondo n. 3 bungalows, la guardiola, la centrale idrica, la pista da ballo, la bocciofila, il terzo la superficie abusiva di mq. 270 di cui alla particella (omissis), il quarto la superficie abusiva di mq. 240 di cui alla particella (omissis); che in ogni caso i bungalows e la bocciofila erano stati rimossi; che i rimanenti abusi attenevano unicamente ai profili di ubicazione e sagoma di scarso rilievo; che vi era comunque stato l'accatastamento dei locali nello stato di fatto attuale; che si era ingenerato un affidamento incolpevole discendente dalla risalenza dei lavori a circa 44 anni prima, eseguiti poi dal precedente gestore. La società ha sostenuto inoltre che sarebbe improprio in ogni caso definire le opere abusive, in pendenza del procedimento di condono; che non sarebbero motivate nè la misura afflittiva né il rigetto della richiesta di proroga, tenuto conto poi che la struttura è dotata del titolo di agibilità ; che una ridotta porzione del campeggio era stata restituita alla proprietaria Tu. e Fu. s.r.l., tuttavia non rilevante e incidente sulla conformazione complessiva del campeggio medesimo; che in definitiva la misura assunta sarebbe sproporzionata. La società ha anche chiesto la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni: di quello economico, essendo già state raccolte le prenotazioni per la stagione estiva, e di quello non patrimoniale, per la campagna denigratoria della stampa. 3. Il Tar ha respinto il ricorso osservando in sintesi: che l'ordinanza impugnata risulta emessa a seguito di articolata, approfondita e dettagliata fase istruttoria e nel pieno rispetto del contraddittorio procedimentale; che numerosi risultano gli abusi realizzati, con occupazione di aree di soggetti terzi, private e pubbliche demaniali, sottoposte a vari vincoli di tutela (fasce di rispetto, vincoli ambientali); che un ridotto numero degli abusi era oggetto di domande di condono, in parte già respinte, in parte ancora non definite per la mancata produzione della documentazione necessaria per il loro riscontro, con altri abusi già oggetto di ordinanze di demolizione o di procedimenti avviati per l'assunzione di analoghe misure repressive; che, a fronte di ciò, non può assumere rilievo l'asserita rimozione di alcune opere; che gli abusi consistenti in differente ubicazione e sagoma non possono comunque essere considerati di minore impatto nel contesto surriportato; che l'accatastamento dei locali abusivi non può valere per ciò solo e in ogni caso a sanare i profili abusivi degli stessi, consistendo lo stesso in una mera registrazione e catalogazione degli immobili, a fini preminentemente fiscali; che nessun affidamento incolpevole poteva essere maturato in capo alla ricorrente, ben consapevole almeno di parte degli abusi, avendo presentato per gli stessi domanda di condono; che l'atto impugnato risulta corredato di congrua e adeguata motivazione; che non è irragionevole il mancato accoglimento della richiesta di proroga, proprio perché le domande di condono pendenti riguardavano una minima parte degli abusi; che, a fronte degli accertati abusi, non poteva rilevare un precedente titolo di agibilità ; che l'asserita restituzione di una ridotta parte del campeggio al legittimo terzo proprietario non poteva valere a rendere conforme alla disciplina vigente il complesso della struttura; che la misura assunta, alla luce delle plurime illegittimità riscontrate e di varia matrice, anche in tema di sicurezza, non appare all'evidenza sproporzionata. 4. L'appello è affidato ai seguenti motivi. 1) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della Legge 7.8.1990, n. 241". Diversamente da quanto affermato in sentenza, l'intero procedimento sarebbe affetto da difetto di istruttoria, infatti l'amministrazione si sarebbe espressa, in plurimi passaggi, in termini dubitativi circa le circostanze fattuali che hanno condotto a qualificare come "interamente abusivo" il campeggio in questione e, di conseguenza, revocare l'autorizzazione amministrativa rilasciata in favore della s.r.l. Ca. Eu.. Inoltre nella stessa ordinanza impugnata sarebbe rinvenibile l'incertezza degli accadimenti laddove, a proposito delle iniziative promosse da un proprietario di una parte dei terreni per ottenerne il rilascio, si rileva che la sua restituzione determinerebbe un mutamento dello stato di fatto del campeggio "tanto da porre dubbi circa il fatto che la sua conformazione - dopo la restituzione di una parte del terreno - attualmente rispetti la normativa regionale che regola tale comparto delle strutture ricettive", ciò senza che: sia indicata la specifica porzione immobiliare che dovrebbe essere rilasciata; siano indicate le norme violate; sia precisata la ragione per la quale l'eventuale restituzione dell'area al legittimo proprietario possa incidere sul rispetto dei parametri urbanistici. Inoltre l'amministrazione avrebbe ignorato un fatto, il rilascio di parte dell'area al legittimo proprietario, che era stato già introdotto in sede procedimentale, in tal modo vanificando l'apporto partecipativo della società : da ciò emergerebbe anche la violazione dell'obbligo motivazionale. 2) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione degli artt. 30 e ss. del d.P.R. 6.6.2001, n. 380. Violazione e falsa applicazione dell'art. 21 della L.R. Abruzzo 23.10.2003, n. 16". L'appellante contesta il capo della sentenza in cui il campeggio viene definito interamente abusivo e osserva che, nel provvedimento impugnato, è lo stesso comune che, dopo aver qualificato il campeggio come "interamente abusivo", soggiunge: "fatta salva la presentazione di alcune istanze di condono ancora in fase di istruttoria", affermazioni contenute anche nella relazione del 19 novembre 2018, a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente, integralmente richiamata e recepita dall'ordinanza impugnata, nella quale ogni condono presentato dalla società appellante viene qualificato come "non definito in corso di istruttoria". Quindi lo stigma di "abusività ", che l'amministrazione ha assegnato all'intero insediamento, non sarebbe connotato da carattere di definitività . Osserva, inoltre, che laddove sia stata presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in pendenza del relativo procedimento, gli eventuali provvedimenti repressivi devono considerarsi sospesi e, se adottati in presenza di condono, sono da considerarsi illegittimi, quindi il comune non potrebbe revocare l'autorizzazione commerciale senza preventivamente pronunciarsi in senso negativo sull'istanza di sanatoria. Obietta che, se fosse vero che la società richiedente non abbia ottemperato alle richieste di integrazione documentale, sarebbe stato agevole per l'amministrazione definire negativamente i procedimenti in questione, ma così non è stato. In ogni caso, al netto delle opere interessate dalle richieste di condono, gli unici abusi che vengono in rilievo riguarderebbero le difformità dalla licenza edilizia del 1975 (4 bungalow, un fabbricato, il deposito servizi) e il bocciodromo costruito nella fascia demaniale. Si tratterebbe, tuttavia, di interventi di modesta rilevanza, considerato che i due bungalow sono successivamente stati rimossi, mentre le ulteriori difformità edilizie riguardano la diversa ubicazione e la diversità di sagoma, sicchè non vi sarebbero variazioni essenziali. Anche alla luce di tali considerazioni il sacrificio imposto alla società con il provvedimento impugnato sarebbe in contrasto con i principi di proporzionalità, buon andamento e ragionevolezza dell'azione amministrativa. 3) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione del principio di buona fede di cui all'art. 1, comma 2bis, della Legge 7.8.1990, n. 241 e di cui all'art. 1375 c.c.". L'appellante contesta la sentenza nella parte in cui ha escluso la sussistenza del legittimo affidamento osservando che le opere asseritamente abusive sarebbero state eseguite da parte di terzi, la realizzazione del campeggio risale al 1975 mentre l'appellante ne amministra l'attività a partire dal 1993 e deduce la sua ignoranza incolpevole in quanto sia le ordinanze di demolizione, sia i provvedimenti con cui sono state respinte le istanze di condono non sarebbero state prodotte nel giudizio di primo grado ovvero sarebbero state prodotte senza fornire la prova dell'avvenuta notificazione ai rispettivi destinatari. 5. Il Comune di (omissis) ha innanzitutto eccepito l'inammissibilità del primo motivo di appello, in quanto sostanzialmente "rimaneggiato" rispetto a quanto dedotto in primo grado e, perciò, formulato in violazione del divieto di nova in appello; in ogni caso ne ha dedotto l'infondatezza, al pari degli altri motivi. La controinteressata Tu. Fu. s.r.l. - proprietaria del complesso alberghiero denominato "Hotel Ex." confinante con il campeggio - ha ribadito l'eccezione, già sollevata in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa notifica alle altre amministrazioni interessate, coinvolte nell'accertamento che ha condotto all'emanazione dell'ordinanza impugnata nonché per altri profili; in ogni caso ha dedotto l'infondatezza dell'appello e del ricorso introduttivo osservando che le censure dell'appellante non sarebbero idonee a incidere sulla correttezza della 6. Si può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari, essendo l'appello infondato. I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente seguendo un unico ordine logico. Come rilevato dal Tar non è ravvisabile il dedotto difetto di istruttoria che l'appellante ascrive all'operato dell'amministrazione in conseguenza di una lettura "atomistica" degli atti che nell'insieme hanno condotto all'emanazione del provvedimento comunale impugnato. A ben vedere, nella vicenda per cui è causa le diverse amministrazioni coinvolte hanno rilevato una serie di abusi edilizi che non risultano sconfessati né dalle deduzioni dell'appellante né dalla pendenza di istanze di condono, tanto che in ordine alla reiezione di alcune di esse l'appellante si spinge a sostenere di averle ignorate incolpevolmente in quanto l'amministrazione non avrebbe accluso la prova della avvenuta notifica. Ciò posto, le censure riguardanti la presunta doverosità di sospendere il procedimento in attesa della definizione delle istanze di condono esulano dal perimetro del presente giudizio il quale ha ad oggetto non già l'ordinanza di demolizione bensì la revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, la quale si fonda sull'intervenuto accertamento di plurime violazioni, tra le quali quelle edilizie. Il procedimento è stato avviato a seguito di una serie di accertamenti in cui sono stati rilevati due profili di illegittimità : ossia una serie di irregolarità edilizie e l'occupazione di aree demaniali e private. Sono seguite, dunque, due attività provvedimentali: l'una diretta allo sgombero dell'area demaniale illegittimamente occupata e alla rimozione delle opere edilizie abusive ivi insistenti e una diretta alla revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio. Il presente giudizio riguarda la seconda delle indicate attività che, al pari della prima, risulta ben esplicata nella relazione tecnica a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente del comune in cui, dopo aver elencato i titoli rilasciati e le richieste di sanatoria, si conclude che "Dall'esame delle pratiche sopra richiamate si evince che, ad oggi, il Campeggio non dispone di alcun titolo autorizzatorio, ed è, pertanto interamente abusivo, fatta salva la definizione dei condoni richiesti". Nella relazione si dà atto che non è stato possibile effettuare un rilievo puntuale dei manufatti esistenti e non autorizzati, a causa dell'assenza dei titolari delle aree. All'esito di tali verifiche è emerso anche che "Alcune delle opere abusive (bocciodromo e suo ampliamento) insistono sulla proprietà Demanio dello Stato ramo Strade, mentre le stesse strutture abusive descritte al punto 3°, ricadono, in parte nella fascia di rispetto della Strada Statale SS 16 (30 metri)...". A ciò è conseguita da una parte la diffida alla demolizione delle opere abusive, inviata a tutti i soggetti proprietari del camping, e le successive ordinanze di demolizione e di ripristino (nn. 120, 121, 144, 145, 213, 214 del 21 maggio 2019) e, dall'altra, l'ordinanza di sgombero dell'area demaniale occupata, inviata al sig. Ma. Ni., quale legale rappresentante della ditta Ca. Eu., nonché l'ordinanza di revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, impugnata nel presente giudizio. Tale ultima ordinanza è stata adottata all'esito dell'unica complessa attività istruttoria, riguardante i due evidenziati profili di illegittimità . L'amministrazione ha segnalato nell'ordinanza che alcuni terreni sono in proprietà della società e altri condotti in locazione; che sono state realizzate opere abusive anche su area demaniale illegittimamente occupata; che è stato avviato il procedimento per la demolizione delle opere abusive con nota n. 67112 del 18 dicembre 2018; che risultavano presentate dal privato alcune domande di condono edilizio, ancora in fase istruttoria, non essendo stata prodotta tutta la documentazione a corredo, necessaria per un loro riscontro; che alcuni fabbricati insistono sulla fascia di rispetto stradale, altri sono localizzati su suolo demaniale, altri ancora sono stati oggetto di diniego di condono, perché in contrasto con la destinazione a parcheggio del PRG dell'epoca, ulteriori risultano difformi dai titoli autorizzatori per ubicazione e sagoma; che in data 22 marzo 2019 è stato avviato il procedimento di revoca dell'autorizzazione nei confronti sia di Ca. Eu. s.r.l. sia di Ne. Vi. Eu. s.a.s., palesatasi in un dato momento come gestore senza titolo; che in definitiva gli abusi sono tanti e tali da incidere sulla conformazione complessiva del campeggio, da considerarsi dunque in toto abusivo; che Ca. Eu. s.r.l., in sede di osservazioni controdeduttive, ha chiesto una proroga dei termini di revoca, in attesa della definizione delle domande di condono edilizio pendenti; che le domande di condono riguardano tuttavia una minima parte degli abusi e che per gli altri o sono già state emesse ordinanze di demolizione o comunque sono stati avviati i procedimenti per la loro rimozione; che inoltre è stata anche emessa ordinanza n. 150 del 18 aprile 2019 di sgombero di un'area di mq. 460 di demanio marittimo, occupata abusivamente, con obbligo di ripristino dello stato dei luoghi; che il 20 aprile 2019 si è proceduto a sopralluogo di verifica unitamente al personale del Commissariato di pubblica sicurezza di (omissis), con accertamento di plurime infrazioni in materia di disciplina sulla sicurezza; che Ne. Vi. Eu. s.a.s. si è dichiarata estranea alla gestione del campeggio, pur esercitando attività ricettiva di campeggio nella struttura. Dunque, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, l'ordinanza impugnata risulta emessa a seguito di articolata, approfondita e dettagliata fase istruttoria, come risulta dalle relazioni comunali n. 16906 del 21 marzo 2019 e n. 23629 del 23 aprile 2019, dalla relazione Commissariato di pubblica sicurezza del 24 aprile 2019. Quelle rilevate sono plurime irregolarità, riconducibili a diversi aspetti, illegittima occupazione di aree pubbliche e private, gravi mancanze in tema di sicurezza e svariati abusi edilizi, alcuni dei quali anche su area demaniale abusivamente occupata. Il profilo dei plurimi abusi edilizi rappresenta soltanto una delle motivazioni poste alla base dell'ordinanza impugnata, con la conseguenza che, per inciso, appare fondata l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controinteressata, laddove osserva che gli altri capi del provvedimento plurimotivato non sono stati censurati. Ciò posto, il Collegio rileva che le violazioni riscontrate sono talmente tante e di tale gravità da rendere pienamente legittimo l'atto di revoca dell'autorizzazione amministrativa allo svolgimento dell'attività di campeggio. Perde di rilievo, pertanto, la censura secondo cui la pendenza dei procedimenti di sanatoria non avrebbe potuto consentire al comune l'adozione del provvedimento impugnato dal momento che, come rilevato, il profilo degli abusi edilizi è soltanto uno dei motivi posti alla base dello stesso né può assumere rilievo l'asserita rimozione di alcune opere o la circostanza che alcuni abusi consistano in differente ubicazione e sagoma non possono comunque essere considerati di minore impatto nel contesto surriportato, né che i locali abusivi siano stati accatastati, dal momento che l'accatastamento, che è una mera dichiarazione di parte, non può sopperire alla mancanza del titolo edilizio. A fronte di una tale e composita situazione di illegittimità non è configurabile alcun affidamento del privato che possa qualificarsi come "legittimo", segnatamente con riferimento agli aspetti edilizi. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 17 ottobre 2017 n. 9, ha affermato il seguente principio di diritto "il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino". La sentenza inoltre conferma che la demolizione di opere edilizie abusive può essere disposta nei confronti del proprietario attuale dell'opera (o di chi ne abbia la disponibilità ), anche se non abbia avuto alcuna parte della commissione dell'abuso (orientamento già espresso da Cons. Stato, sez. VI, 26 luglio 2017, n. 3694). D'altra parte è stato condivisibilmente osservato che la mera presentazione dell'istanza di condono non può ritenersi inidonea e sufficiente a consentire l'esercizio dell'attività nei locali oggetto dell'istanza stessa. Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, nel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con l'ovvia conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi senz'altro legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività dei locali nei quali l'attività commerciale viene svolta (cfr., tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 8 maggio 2012, n. 5590; id. sez. IV, 14 ottobre 2011 n. 5537). Il legittimo esercizio dell'attività commerciale è pertanto ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per la intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell'autorità amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l'abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un'attività commerciale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 4880). La regolarità urbanistico edilizia dell'opera, pertanto, condiziona l'esercizio dell'attività commerciale al suo interno anche perché ritenere il contrario comporterebbe elusione delle sanzioni previste per gli illeciti edilizi. La stretta connessione tra materie del commercio e dell'urbanistica ha indotto il legislatore a indicare il medesimo fatto quale presupposto per l'esercizio di poteri propri sia della materia dell'urbanistica, sia di quella del commercio, con la conseguente inibizione, per l'autorità amministrativa, di assentire l'attività nel caso di non conformità della stessa alla disciplina urbanistico - edilizia (cfr. Cons. Stato, V, 17 ottobre 2002, n. 5656 e 28 giugno 2000, n. 3639). E' stato così superato il precedente indirizzo giurisprudenziale che affermava l'illegittimità del diniego di autorizzazione commerciale (o di ampliamento o di trasferimento dell'esercizio) per ragioni di ordine urbanistico, sul presupposto che l'interesse pubblico nella materia del commercio fosse di diversa natura ed implicasse perciò criteri valutativi differenti (cfr. Cons. Stato, V, 21 aprile 1997, n. 380): il revirement giurisprudenziale si fonda su un criterio di ragionevolezza e sul principio costituzionale di buona amministrazione per cui non è tollerabile l'esercizio dissociato, addirittura contrastante, dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la tutela di interessi pubblici distinti, specie quando tra questi interessi sussista un obiettivo collegamento, come è per le materie dell'urbanistica e del commercio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2018, n. 3212). Conclusivamente, per quanto precede, esaminate tutte le censure pertinenti, che esauriscono il tema dedotto in giudizio, l'appello deve essere respinto. 7. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, nella misura di Euro 2.000,00 (duemila) in favore di ciascuna parte costituita, oltre oneri di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Trasporto spedizione GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. LINA RUBINO Consigliere PAOLO SPAZIANI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 GIOVANNI FANTICINIConsigliere Ud.3/5/2024 PU Cron. R.G.N.38394/2019 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 38394/2019 R.G. proposto da: AEROFLOT RUSSIAN AIRLINES, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIULIO BAZZONI 3, presso lo studio dell’avvocato DELLA MARRA TATIANA (DLLTTN65L52A326W) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro DI CARLO FRANCESCO -intimato- 2 avverso SENTENZA di TRIBUNALE PESCARA n. 1650/2019 depositata il 08/11/2019. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 maggio 2024 dal consigliere ENRICO SCODITTI Fatti di causa 1. Francesco Di Carlo convenne in giudizio innanzi al Giudice di Pace di Pescara Aeroflot Russian Airlines s.p.a. chiedendo il risarcimento del danno, nella misura di Euro 600,00, per lo «stato di rabbia, frustrazione, stress psico-fisico ed impotenza» cagionato dal ritardo di cinque ore del volo che da Mosca lo aveva condotto a Roma. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il giudice adito accolse parzialmente la domanda, condannando la convenuta al pagamento di euro 200,00. 3. Avverso detta sentenza propose appello Aeroflot Russian Airlines s.p.a.. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 8 novembre 2019 il Tribunale di Pescara rigettò l’appello. Osservò il Tribunale, per quanto qui rileva, che, in base alla Convenzione di Montreal del 1999, «il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia il vettore non è responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri dipendenti e incaricati hanno adottato tutte le misure necessarie e possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno oppure che era loro impossibile adottarle» (art. 19) e che «nel trasporto di persone, in caso di danno da ritardo, così come specificato all’articolo 19, la responsabilità del vettore è limitata alla somma di 4150 diritti speciali di prelievo per passeggero». Aggiunse quanto segue: «un ritardo aereo – peraltro prolungato come può essere quello 3 di cinque ore patito dall’odierno appellato – è sicuramente fonte di disagio che va necessariamente compensato in via pecuniaria. D’altronde, la Convenzione di Montreal è chiara nello statuire che in caso di ritardo, la responsabilità del vettore è limitata a 4150 DSP. Ciò significa che la responsabilità del vettore, in caso di ritardo, è in re ipsa, non abbisognando essa di alcuna prova specifica». Osservò infine che congrua era l’entità del risarcimento nella misura di Euro 200,00, «in considerazione della durata del ritardo e della gravità del disagio». 5. Ha proposto ricorso per cassazione Aeroflot Russian Airlines s.p.a. sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte. Con ordinanza interlocutoria la causa è stata rimessa alla pubblica udienza. Il Procuratore generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata ulteriore memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2059 e 2697 cod. civ., 113, comma 2, cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che l’inadempimento contrattuale non può dare luogo a danni non patrimoniali se non nel caso di lesione di diritti fondamentali indisponibili e che l’art. 1226 presuppone l’accertamento dell’esistenza di un danno, che non può ritenersi in re ipsa. 2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione 132 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la “necessarietà” del compenso per il disagio arrecato dal ritardo aereo costituisce affermazione apodittica, priva di valenza esplicativa ai fini della distinzione dall’evento ritardo dalla sua eventuale conseguenza dannosa. 4 3. Il primo motivo è fondato. Va premesso che non è oggetto di impugnativa l’applicazione alla fattispecie in esame, da parte del giudice del merito, della Convenzione di Montreal del 1999. Il giudice del merito, affermando che il ritardo aereo è sicuramente una fonte di disagio risarcibile, quale forma di responsabilità risarcitoria esistente in re ipsa, e richiamando il parametro del disagio in sede di apprezzamento della congruità della somma liquidata, ha commesso tre errori di diritto. In primo luogo, il giudice del merito ha confuso evento di danno e danno conseguenza. Il ritardo aereo non è un danno conseguenza risarcibile, è l’evento di danno, corrispondente all’inadempimento della compagnia aerea, rispetto al quale, secondo il nesso di causalità giuridica ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., deve valutarsi la sussistenza di una conseguenza pregiudizievole, suscettibile di risarcimento. L’accertamento del ritardo aereo non è ancora quindi l’accertamento del danno risarcibile. Una volta accertato l’inadempimento, deve apprezzarsi se sussista un pregiudizio risarcibile. In secondo luogo, il danno risarcibile è stato riconosciuto come in re ipsa, il che vuol dire pretermetterela necessaria distinzione fra danno evento e danno conseguenza, appena richiamata. Riconoscere l’esistenza di un danno in re ipsa significa, infatti, affermare che l’evento di danno di per sé è meritevole di risarcimento, senza apprezzare se quell’evento abbia prodotto conseguenze pregiudizievoli, e dunque ignorando il nesso di causalità giuridica. In terzo luogo, stimando risarcibile il mero disagio, il giudice del merito ha violato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona è risarcibile a condizione che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell'interesse sia grave (nel senso che l'offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale), che il danno non sia futile (e, cioè, non consista in 5 meri disagi o fastidi) e che, infine, vi sia specifica allegazione del pregiudizio, non potendo assumersi la sussistenza del danno in re ipsa (Cass. n. 33276 del 2023, la quale ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, nel riconoscere a un passeggero la compensazione pecuniaria di cui al Regolamento CE n. 261 del 2004, gli aveva negato il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente all'impossibilità di partecipare alle esequie del padre, a causa della cancellazione del volo). Questa Corte ha pur dato rilievo alla circostanza del gravissimo ritardo. Si è, infatti, affermato che in caso di viaggio ferroviario con gravissimo ritardo e in pessime condizioni, spetta al passeggero il risarcimento, per inadempimento contrattuale, dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione - purché seria, grave e tale da non tradursi in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e generiche insoddisfazioni - delle libertà costituzionali di autodeterminazione e di movimento, senza che la specifica previsione normativa di un indennizzo correlato alla cancellazione o all'interruzione o al ritardo del servizio ferroviario valga di per sé ad escludere la risarcibilità di ulteriori pregiudizi subiti dal viaggiatore (Cass. n. 28244 del 2023, la quale. ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto il danno non patrimoniale subito dalla passeggera del treno regionale Roma Termini-Cassino, sia per il ritardo di quasi 24 ore nell'arrivo a destinazione, sia per l'omissione di ogni adeguata assistenza ai viaggiatori). Ma, come si evince da tale principio di diritto, il danno non patrimoniale risarcibile non può essere ravvisato nel mero disagio, come ha invece fatto il giudice del merito. Più in generale, deve darsi continuità all’indirizzo di questa Corte, secondo cui, ai sensi della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 in materia di trasporto aereo internazionale, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 12 del 2004, ove il vettore aereo internazionale si renda responsabile del ritardo nella consegna al passeggero del 6 proprio bagaglio (art. 19 della Convenzione), la limitazione della responsabilità risarcitoria dello stesso vettore, fissata dall'art. 22, n. 2, della Convenzione nella misura di mille diritti speciali di prelievo per passeggero, opera in riferimento al danno di qualsiasi natura patito dal passeggero medesimo e, dunque, non solo nella sua componente meramente patrimoniale, ma anche in quella non patrimoniale, da risarcire, ove trovi applicazione il diritto interno, ai sensi dell'art. 2059 c.c., quale conseguenza seria della lesione grave di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati (Cass. n. 14667 del 2015; n. 4996 del 2019). Come in particolare affermato da Cass. n. 14667 del 2015, va salvaguardato «il principio della necessaria sussistenza, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., (ove, come nella specie, non venga in rilievo un'ipotesi di reato, né, in particolare, una specifica fattispecie risarcitoria tipizzata ex lege), di una lesione di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati, il quale, a sua volta, si innesta sul paradigma strutturale dell'illecito aquiliano, i cui elementi costitutivi, in base all’art. 2043 c.c., (e alle altre norme che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), "consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue" (c.d. "danno- conseguenza"; cfr., tra le altre, la citata Cass., sez. un., n. 26972 del 2008)». In dottrina si è criticamente osservato che tale indirizzo interpretativo non considera che la fattispecie tipizzata risarcitoria ex lege è presente (da cui la non necessità di attingere alla fonte costituzionale) ed è l’art. 22 della Convenzione di Montreal che, secondo la Corte di giustizia (Corte giust. 6 maggio 2010, C-63/09 ed altre), contempla non solo il danno patrimoniale, ma anche il «danno morale». Di contro, va obiettato che l’art. 22 («nel trasporto di 7 persone, in caso di danno da ritardo, così come specificato all’articolo 19, la responsabilità del vettore è limitata alla somma di 4150 diritti speciali di prelievo per passeggero») fissa esclusivamente il limite della responsabilità risarcitoria. Tale limite, per la Corte di giustizia, sussiste anche per il danno morale, il che presuppone che, secondo il giudice euro-unitario, sia riconoscibile anche il danno morale ma, dato che l’art. 22 non indica gli elementi costitutivi della relativa fattispecie, limitandosi a presupporne l’esistenza nell’ordinamento, inevitabilmente deve farsi capo ai diritti nazionali, cui deve intendersi la disposizione convenzionale rinvii, per l’identificazione delle condizioni di risarcibilità del danno non patrimoniale. 4. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo motivo. 5. Poiché non sono necessari ulteriori accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito. Il fatto accertato dal giudice del merito è quello del mero disagio. Per quanto sopra osservato, non corrisponde al mero disagio un danno risarcibile, per cui la domanda va rigettata. 6. Il consolidarsi della giurisprudenza determinante nel corso dei vari gradi processuali costituisce ragione di compensazione delle spese, sia per i gradi di merito che per il giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda, disponendo la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 3 maggio 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 8

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 664 del 2019, proposto da -OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentate e difese dagli avvocati An. Si. Ed. Ba. e Gi. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia; contro Ente di Diritto Pubblico Parco Regionale della Valle del Lambro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pi. Fe. ed En. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. En. Ro. in Milano, Piazza (...); nei confronti del Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Milano, Corso di (...); sul ricorso numero di registro generale 1984 del 2019, proposto da -OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentate e difese dagli avvocati An. Si. Ed. Ba. e Gi. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia; contro Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Milano, Corso di (...); nei confronti del Parco Regionale della Valle del Lambro, non costituito in giudizio; per l'annullamento - quanto al ricorso n. 664 del 2019: del provvedimento (prot. -OMISSIS-) recante parere ai sensi dell'art. 32 del decreto legge n. 269/2003, reso dal Parco Regionale della Valle del Lambro in data 26.02.2010 sulla istanza presentata dal dante causa delle ricorrenti per la sanatoria di opere eseguite sul fabbricato di proprietà, sito in -OMISSIS- (MB), meglio descritto in atti, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale; - quanto al ricorso n. 1984 del 2019: del provvedimento ("Protocollo: -OMISSIS-") - avente ad oggetto "Domanda, ai sensi dell'art. 32 del D.L. 269/2003, di definizione degli illeciti edilizi N.-OMISSIS- per l'intervento in sanatoria di eliminazione locale caldaia, chiusura parziale porticato esistente per formazione taverna, realizzazione bagno di servizio in strada della -OMISSIS- n. -OMISSIS- fg. -OMISSIS- mapp. -OMISSIS-.. Diniego definitivo", emesso dal Comune di -OMISSIS- in data 25.07.2019 e notificato in pari data, sulla istanza presentata dal dante causa delle ricorrenti per la sanatoria di opere eseguite sul fabbricato di proprietà, sito in -OMISSIS- (MB), meglio descritto in atti, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale, ivi incluso il preavviso di diniego; nonché per la condanna del Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore e dei suoi Responsabili, anche in solido tra loro, al risarcimento del danno ingiusto cagionato alle ricorrenti. Visti i ricorsi e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di -OMISSIS- e dell'Ente di Diritto Pubblico Parco Regionale della Valle del Lambro; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 maggio 2024 la dott.ssa Silvia Torraca e uditi i difensori della parte ricorrente e del Comune, come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il ricorso iscritto al N. R.G. 664/2019 -OMISSIS- e -OMISSIS-, quali proprietarie - in forza di successione mortis causa di -OMISSIS- - del fabbricato sito in -OMISSIS-, Strada delle -OMISSIS-, meglio descritto in atti, hanno impugnato il parere negativo reso in data 26.02.2010 dall'Ente Parco Regionale della Valle del Lambro ai sensi dell'art. 32 D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (conv. in L. 24 novembre 2003, n. 326) sulla istanza presentata in data 09.01.2004 dal loro dante causa ai fini del condono di opere abusive realizzate nel predetto immobile. Hanno esposto che il Comune era rimasto inerte in relazione alla suddetta istanza e che, solo a seguito di accesso agli atti dalle stesse richiesto dopo il decesso del de cuius, avevano appreso del parere negativo espresso dall'Ente Parco sin dal 2010 e mai comunicato al richiedente. Con il primo motivo di gravame le ricorrenti hanno censurato il suddetto parere in ragione: dell'asserita contraddittorietà rispetto all'autorizzazione edilizia e paesaggistica rilasciata in favore del dante causa per le opere realizzate nel medesimo immobile nel 1997 (di cui quelle successive costituivano mero ampliamento/completamento); della violazione e falsa applicazione dell'art. 32 D.L. 269/2003, non potendo le opere oggetto dell'istanza di sanatoria essere qualificate come "nuova costruzione"; del difetto di istruttoria e del travisamento dei fatti. Con il secondo motivo di ricorso sono state dedotte violazioni di natura procedimentale in relazione all'art. 32, co. 43 D.L. 269/2003 e agli artt. 2, 2-bis e 10-bis l. 241/1990. Si sono costituiti in giudizio il Parco Regionale della Valle del Lambro e il Comune di -OMISSIS-, entrambi deducendo l'inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, appuntandosi lo stesso avverso un atto endoprocedimentale, e l'infondatezza nel merito delle censure ex adverso articolate. 2. Con autonomo gravame (iscritto al N. R.G. 1984/2019) le ricorrenti hanno impugnato il successivo diniego emesso dal Comune di -OMISSIS- sull'istanza di condono edilizio sopra richiamata, chiedendone l'annullamento per i medesimi motivi già articolati avverso il parere negativo del Parco Regionale, oltre alla condanna del Comune, in persona del Sindaco e dei suoi Responsabili, anche in solido tra loro, al risarcimento dei danni cagionati. Si è costituito il solo Comune di -OMISSIS-, richiamando le difese già svolte nel giudizio contraddistinto al N. R.G. 664/2019 e deducendo l'infondatezza della domanda risarcitoria. 3. In vista dell'udienza di discussione le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 73 c.p.a. All'udienza pubblica del 29 maggio 2024 entrambi i ricorsi sono stati trattenuti in decisione. DIRITTO 1. In via preliminare il Collegio dispone d'ufficio la riunione dei ricorsi ex art. 70 c.p.a., in quanto soggettivamente ed oggettivamente connessi, poiché pendenti tra le stesse parti e vertenti, rispettivamente, su un atto endoprocedimentale e sul provvedimento conclusivo del medesimo procedimento, dei quali è stato chiesto l'annullamento per identici motivi. 2. Ciò premesso, deve in primo luogo essere dichiarata l'inammissibilità per carenza di interesse del ricorso iscritto al N. R.G. 664/2019, avendo lo stesso ad oggetto un atto di natura endoprocedimentale, come tale privo di efficacia lesiva. Come ben evidenziato da Cons. Stato, Sez. V, Sent., 10/02/2004, n. 480, infatti, "la determinazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico trova comunque origine nell'avvio di un procedimento edilizio partitamene disciplinato, anche nelle sue diverse scansioni temporali. L'atto assume una valenza esterna nella parte in cui esprime la valutazione compiuta dell'amministrazione in ordine agli interessi affidati alla sua cura. Ma la concreta lesività del provvedimento si manifesta solo nel momento in cui esso è trasposto o richiamato nell'atto finale che definisce la domanda di sanatoria edilizia (Cons. Stato, V Sez. 20 marzo 2000, n. 1511; Cons. Stato, VI Sez., 28 gennaio 1998, n. 114). In tal senso si pone anche una generale esigenza di tutela dell'affidamento del privato, considerando che l'atto dell'autorità titolare del potere di tutela del vincolo è denominato parere e che l'assetto di interessi complessivo riguardante la richiesta di sanatoria è sintetizzato e delineato compiutamente solo dal provvedimento dell'autorità comunale". Nel caso di specie, parte ricorrente ha impugnato il parere negativo reso dall'Ente Parco in un momento in cui il Comune non aveva ancora concluso il procedimento relativo all'istanza di sanatoria; una volta che tale procedimento è stato definito mediante l'emanazione del provvedimento di diniego dell'istanza - adottato dal Comune in data 25.07.2019 - le odierne ricorrenti hanno tempestivamente proposto autonomo ricorso avverso quest'ultimo, il quale costituisce l'unico provvedimento lesivo della loro situazione giuridica. 3. Passando all'esame del ricorso contraddistinto al N. R.G. 1984/2019, va osservato quanto segue. 3.1. Con il primo motivo si contesta la qualificazione di "nuova costruzione" assegnata alle opere oggetto della richiesta di sanatoria, con conseguente violazione dell'art. 3 D.P.R. 380/2001, e si deduce il difetto motivazionale del provvedimento impugnato, atteso che "non solo il porticato esterno dell'immobile di Via della -OMISSIS- era già stato parzialmente chiuso per ricavare dei vani tecnici (e detto intervento assentito, pur in costanza del vincolo paesaggistico), ma detta circostanza era altresì già nota alla P.A., la quale disponeva della documentazione comprovante lo stato di fatto autorizzato ed assentito". 3.2. La censura è infondata. 3.3. È pacifico che le opere abusivamente realizzate consistessero nella eliminazione del locale caldaia, nella (ulteriore) chiusura parziale del porticato (da un lato con muratura, dall'altro con basculante) ai fini della formazione di una taverna e nella realizzazione di un bagno di servizio interno. Ciò posto, non può condividersi la tesi di parte ricorrente secondo cui le suddette opere non integrerebbero una nuova costruzione, esaurendosi in un mero "ampliamento/completamento" di quelle assentite nel 1997: e ciò, in primo luogo, perché l'autorizzazione alla realizzazione di determinate opere non ne legittima automaticamente il relativo ampliamento (tanto più ove si consideri la consistenza dell'intervento de quo, che ha comportato la creazione di nuova volumetria - 38 mq - e superficie utile, ossia una trasformazione urbanisticamente rilevante dell'assetto edilizio preesistente, necessitante del previo rilascio del permesso di costruire) e, in secondo luogo -e per quanto qui maggiormente interessa- perché tale conclusione risulta inficiata nei presupposti, posto che all'epoca del rilascio della autorizzazione relativa alle prime opere (1997) non sussisteva il vincolo del Piano Territoriale di Coordinamento del Parco, approvato con deliberazione di Giunta Regionale n. 7/601 del 28 luglio 2000, rettificata con D.G.R. n. 7/6757 del 9 novembre 2001. Dirimente risulta, dunque, la circostanza che le opere di cui è controversia - essendo state ultimate in data 29 marzo 2003 - fossero assoggettate all'imposizione del predetto vincolo. Come è noto, infatti, l'art. 32, co. 27 D.L. 269/2003 cit. stabilisce che "...le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora:... d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici". 3.4. Ad avviso di parte ricorrente, "la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo se si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta (divieti di edificazione o prescrizioni di inedificabilità ex art. 33 legge n. 47 del 1985) e non anche nella diversa ipotesi di vincolo di inedificabilità relativa, ovvero di vincolo di tutela suscettibile di essere rimosso mediante un giudizio ex post di compatibilità delle opere da sanare da parte della competente autorità (ad es. cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 696 del 4.5.1995). Sul punto, si ribadisce che l'area in questione è edificata, ad esempio con l'immobile delle ricorrenti, dunque non può discutersi di inedificabilità assoluta". 3.5. Tale tesi non merita condivisione. Secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (v., da ultimo, Sez. VI, 12/12/2023, n. 10697), "ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. 30 settembre 2003 n. 269, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli sono sanabili solo se, oltre al ricorrere delle ulteriori condizioni - e cioè che le opere siano realizzate prima dell'imposizione del vincolo, che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche e che vi sia il previo parere dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo - siano opere minori senza aumento di superficie e volume (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria). Pertanto, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo, indipendentemente dal fatto che il vincolo non sia di carattere assoluto, non può essere sanato (Cons. Stato, sez. VI, 15/11/2022, n. 9986)". Ne deriva che, a prescindere dalla natura relativa o assoluta del vincolo paesaggistico insistente sull'area, l'opera in concreto realizzata (come visto, tamponatura del porticato esistente e creazione di un bagno di servizio interno, con aumento di superficie di circa 38 mq) non era sanabile, non essendo riconducibile alle c.d. opere minori di cui ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 al D.L. 269/2003 (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria). 3.6. Del pari privo di pregio è l'assunto di parte ricorrente secondo cui l'intervento di cui è causa non potrebbe qualificarsi in termini di "nuova costruzione" neppure ai sensi dell'art. 3, co. 1, lett. e.6) D.P.R. 380/2001 "atteso il modesto aumento volumetrico ricavato dalla parziale chiusura del porticato (38 mq) e quindi ben inferiore al limite del 20% condonabile". Nel caso di specie, l'intervento effettuato è consistito nella tamponatura di un originario portico, di fatto trasformandolo in un vano chiuso. Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato (v. da ultimo, sez. II, 1 settembre 2021, n. 6186) "l'installazione di pannelli in vetro atti a chiudere integralmente un porticato che si presenti aperto su tre lati, determina, senz'altro, la realizzazione di un nuovo locale autonomamente utilizzabile, con conseguente incremento della preesistente volumetria" (v. ex multis Cons. Stato, sez. II, 27 giugno 2019, n. 4437; sez. V, 5 maggio 2016, n. 1822). L'intervento, cioè, va riguardato dall'ottica del risultato finale, ovvero il rilevato aumento di superficie e di volumetria, sia che ciò consegua alla chiusura su tutti i lati, sia che ne implichi anche la copertura, pure con superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili. La avvenuta realizzazione di un vano aggiuntivo mediante tamponatura di un portico non può neppure qualificarsi come pertinenza in senso urbanistico, in quanto integra un nuovo locale autonomamente utilizzabile il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie". 4. Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente ha censurato la violazione delle garanzie procedimentali previste dalla l. 241/1990, attesa la tardiva conclusione del procedimento (avvenuta a distanza di quindici anni dalla presentazione dell'istanza di condono) nonché l'omessa tempestiva comunicazione, da parte del Comune, del parere negativo reso ai sensi dell'art. 32 D.L. 269/2003 dal Parco Regionale della Valle del Lambro (conosciuto dalle ricorrenti solo nove anni più tardi e a seguito di istanza di accesso agli atti dalle stesse avanzata), con conseguente lesione del legittimo affidamento ingenerato nel privato. 4.1. Il motivo non è suscettibile di favorevole apprezzamento. Soccorrono sul punto le conclusioni formulate da Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9, secondo cui "la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata". Secondo la giurisprudenza consolidata, in particolare, i provvedimenti che sanzionano l'attività edilizia abusiva - ivi compresi i dinieghi di sanatoria - sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né ancora alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare, e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi; "sicché è legittima e doverosa l'adozione del provvedimento di diniego del condono anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo dalla presentazione dell'istanza, senza necessità di una specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, ulteriori rispetto a quelle inerenti al ripristino della legittimità violata" (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 3 aprile 2023, n. 1103, richiamata da T.A.R. Sicilia, Catania, 30 ottobre 2023, n. 3222). Pertanto, la circostanza che il diniego del Comune sia stato emesso a distanza di ben quindici anni dalla presentazione dell'istanza di condono, non permette di radicare alcun affidamento tutelabile, né per quanto riguarda l'estensione delle categorie della sanatoria, né relativamente alla persistenza del potere di intimare la rimessione in pristino (in tal senso, T.A.R. Brescia, sez. II, 10 luglio 2023, n. 577). 5. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il diniego di condono risulta quindi legittimamente adottato. 6. Dalla reiezione della domanda caducatoria discende, quale logico corollario, l'infondatezza della domanda risarcitoria proposta dalle ricorrenti. 7. In conclusione, il ricorso contraddistinto al N. R.G. 1984/2019 deve essere respinto. 8. Tenuto conto della risalenza della controversia nonché della peculiarità della vicenda sotto il profilo procedimentale, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i giudizi. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, previa riunione dei ricorsi indicati in epigrafe, dichiara l'inammissibilità del ricorso N. R.G. 664/2019 e respinge il ricorso N. R.G. 1984/2019. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le ricorrenti. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Gabriele Nunziata - Presidente Silvia Cattaneo - Consigliere Silvia Torraca - Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3652 del 2020, proposto da R. Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Me., In. Pu., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (...); nei confronti Sindaco del Comune di (omissis) in Qualità di Ufficiale di Governo, non costituito in giudizio; Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima n. 451/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis) e di Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 8 maggio 2024 il Cons. Davide Ponte e nessuno è comparso per le parti costituite in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l'utilizzo della piattaforma "Mi. Te.". Viste le conclusioni delle parti come da verbale.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. R. Ca. S.r.l. appella la sentenza del Tar per il Friuli Venezia Giulia n. 451 del 2019, recante il rigetto del suo ricorso per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'adozione dell'ordinanza sindacale contingibile e urgente n. 73/2017, annullata dallo stesso TAR con sentenza n. 26/2018, con la quale è stato ordinato, da un lato, l'immediata adozione degli accorgimenti utili a limitare le emissioni sonore inquinanti rilevate dall'ARPA FVG e, dall'altro, la predisposizione di un piano di bonifica finalizzato al contenimento e abbattimenti delle emissioni sonore. 2. Parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione degli artt. 30, c.p.a., 1223, 2043 c.c. e 40 e 41 c.p. per l'erronea ritenuta insussistenza del nesso causale - Travisamento di fatto; - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell'art. 63, commi 3 e 4 c.p.a. Mancata assunzione delle prove richieste - Omissione di pronuncia e difetto di motivazione; - Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c. e dell'art. 30, comma 3, c.p.a. - Travisamento di fatto - Carente e contraddittoria motivazione. 3. Si è costituito in resistenza all'appello il Comune di (omissis). 4. All'udienza di smaltimento dell'8 maggio 2024 la causa passava in decisione. 5. Il ricorso non è fondato nei termini che seguono. Preliminarmente occorre osservare che gli elementi costitutivi della fattispecie aquiliana sono così individuabili: a) il fatto illecito; b) l'evento dannoso ingiusto ed il danno patrimoniale conseguente; c) il nesso di causalità tra il fatto illecito ed il danno subito; d) la colpa dell'apparato amministrativo. Nel caso di specie nulla quaestio con riferimento al piano soggettivo. 5.1 Con riferimento al nesso di causalità, per mezzo della prima censura parte appellante deduce che il TAR si sarebbe affidato agli atti della difesa comunale che non ha offerto alcun riscontro tecnico idoneo a dimostrare l'inefficacia delle misure assunte dall'azienda in ottemperanza dell'ordinanza sindacale, né ha chiesto di darne dimostrazione, nel corso del giudizio, offrendo mezzi di prova. 5.2 Sotto tale profilo si deve rilevare che correttamente parte appellante dimostra il nesso di causalità alla luce dell'ordinanza che riconduce i livelli di inquinamento acustico precipuamente allo scarico dei materiali e alla movimentazione degli stessi sullo spazio esterno posto sul retro della proprietà, su via (omissis). Ritiene infatti parte appellante che l'unica misura che avrebbe potuto e dovuto adottare l'azienda in recepimento dell'ordinanza sindacale era solamente la cessazione completa dell'attività nell'area nord e la sua allocazione, in quell'area disponibile più lontana dal lamentato punto di impatto, nell'area sud. Né il Tar né la difesa comunale di contro hanno offerto alcun riscontro tecnico idoneo a dimostrare l'inefficacia delle misure assunte. 6. Guardando al piano del danno subito, con il secondo motivo di appello parte appellante ritiene la sentenza erronea per non aver accolto l'istanza di istruttoria volta a dimostrare le spese e i costi sostenuto per dar luogo all'esecuzione dell'ordinanza. 6.1 Il motivo non è fondato. Preliminarmente occorre ricordare come è noto il principio per cui l'onere della prova dei presupposti del risarcimento del danno (salve talune ipotesi speciali di responsabilità ) incombe sul danneggiato e non sul supposto danneggiante. L'azione risarcitoria innanzi al giudice amministrativo, infatti, non è retta dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, tipico del processo impugnatorio, bensì dal generale principio dell'onere della prova ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., per cui sul ricorrente grava l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti della domanda al fine di ottenere il riconoscimento di una responsabilità dell'amministrazione per danni derivanti dall'illegittimo od omesso svolgimento dell'attività amministrativa, da ricondurre al modello della responsabilità per fatto illecito delineata dall'art. 2043 c.c. (Consiglio di Stato, Sez. IV, 08/02/2016, n. 486; Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/01/2016, n. 327). 6.1 Nel caso di specie, parte appellante non assolve tale onere probatorio con riferimento al danno patrimoniale subito e oggetto di richiesta di risarcimento. Sotto un primo profilo, si deve rilevare che la stessa produce voci di spesa sostenute che tuttavia non hanno una valenza probatoria sufficiente in quanto dalla stessa parte predisposte. Sotto ulteriore profilo, la difesa comunale contesta puntualmente la rilevanza probatoria dei documenti su cui si basa la richiesta in quanto facenti capo a spese non riferibili all'esecuzione dell'ordinanza. A dimostrazione di quanto oggetto di contestazione vi è la reiterata istanza istruttoria volta a colmare l'onere probatorio incombente sulla parte appellante. Al riguardo assume rilievo preminente il principio per cui non si può liquidare il danno con una valutazione equitativa, poiché l'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. non può essere assolto mediante consulenza tecnica d'ufficio, che non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione delle prove già fornite dalle parti (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. III, 15/10/2021, n. 6949). 7. Parimenti infondato è il terzo motivo di appello. La sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi in termini di imputabilità del danno al presunto danneggiato. In generale, l'art. 30, comma 3, c.p.a., che prevede la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, è ricognitivo di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione del comma 2 dell'art. 1227 c.c.: detto articolo, infatti, operando sui criteri di determinazione del danno conseguenza ex art. 1223 c.c., regola la c.d. causalità giuridica, relativa al nesso tra danno evento e conseguenze dannose da esso derivanti ed introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in base al quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse tenuto il comportamento collaborativo cui deve attenersi. Nel caso di specie il Tar ha evidenziato la carenza nella diligente e tempestiva tutela dei propri interessi, in termini coerenti ai principi predetti. 8. Per le ragioni esposte, deve rigettarsi l'appello. Sussistono giusti motivi per compensare le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2024, svoltasi in collegamento da remoto, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere, Estensore Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6841 del 2021, proposto da Gi. Eu. Ga., rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fe. Te. in Roma, largo (...); contro Comune di (omissis), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00023/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e preso atto della richiesta di passaggio in decisione, senza preventiva discussione, depositata in atti di parte dell'Avvocato Gr.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha respinto il ricorso proposto da Gi. Eu. Ga. contro il Comune di (omissis) per ottenere il risarcimento dei danni provocati dal provvedimento comunale n. 3557 del 29 ottobre 2002, che gli aveva intimato di rimuovere una serie di ostacoli installati sulla strada vicinale (omissis). Il provvedimento era stato ritenuto illegittimo e perciò annullato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3292 del 22 maggio 2019 che, in riforma della sentenza del T.a.r. n. 799 del 19 maggio 2011, aveva accolto l'originario ricorso introduttivo. 1.1.Il "danno emergente" era indicato come consistente nelle spese sostenute per le prestazioni dei geometri incaricati di redigere le perizie di parte prodotte nel giudizio di annullamento e negli onorari degli avvocati che avevano assicurato assistenza e rappresentanza in tale giudizio. Il tribunale ha statuito, in base al criterio della "regolarità causale", che "non è possibile riconoscere, quale danno cagionato da un provvedimento, le spese che il privato ha sostenuto per impugnarlo in giudizio, in quanto esse non rientrano tra le conseguenze abituali e probabili dell'atto, ma dipendono direttamente dalla strategia difensiva scelta dalla parte (come tali, questa avrebbe se mai potuto chiederne il rimborso nel giudizio annullatorio)". 1.2. Il "lucro cessante" era indicato come derivante dal non aver potuto escludere dal proprio fondo i terzi, che lo utilizzavano come parcheggio. Il tribunale ha ritenuto non dimostrato l'assunto, "sia perché assolutamente generico - oltre che non provato - il riferimento all'uso del terreno da parte di terzi quale parcheggio, sia perché non viene specificato quale guadagno egli avrebbe ottenuto se avesse potuto impedirne l'accesso". 1.3. Respinto il ricorso, le spese sono state dichiarate irripetibili, data la soccombenza del ricorrente e la mancata costituzione del Comune. 2. Il signor Gi. Eu. Ga. ha proposto appello con un unico, articolato, motivo. Il Comune di (omissis) non si è costituito. 2.1. All'udienza del 4 aprile 2024 la causa è stata assegnata a sentenza, senza discussione, su richiesta dell'appellante. 3. Con l'unico motivo di appello, relativamente al "danno emergente" si sostiene quanto segue: - il signor Ga. ha ottenuto la sentenza favorevole del Consiglio di Stato grazie a tutte le relazioni tecniche che aveva commissionato ai vari professionisti al fine di dimostrare in giudizio le proprie ragioni, pur essendo queste palesi; - con tale attività istruttoria si è sostituito al Comune di (omissis) che, invece, aveva emesso il provvedimento senza svolgere alcuna istruttoria, assumendo perciò un atteggiamento "a dir poco non collaborativo"; - data l'acclarata negligenza dell'amministrazione comunale sarebbe irrazionale ritenere che le spese sostenute dal ricorrente per tutelare i propri interessi non siano state conseguenza del provvedimento amministrativo; - si tratta di spese ammontanti complessivamente all'importo di Euro 26.378,10, indicate nel dettaglio e documentate con le fatture prodotte in atti, rilasciate sia da tecnici che da avvocati. 3.1. Quanto al "lucro cessante", l'appellante ribadisce che, a causa del provvedimento adottato, non ha potuto recingere il proprio fondo, tutelandolo dall'ingresso di estranei, i quali, addirittura, lo avrebbero usato come parcheggio. La circostanza sarebbe dimostrata dalle denunce presentate alle autorità e prodotte nel giudizio di primo grado. L'appellante chiede comunque disporsi la consulenza d'ufficio "tecnico contabile" già richiesta, e non accordata, in primo grado, che quantifichi il danno economico subito dal mancato utilizzo del fondo di proprietà . 4. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili. Va premesso che con il provvedimento in data 29 ottobre 2002 prot. n. 3557 il Comune di (omissis) ha contestato al signor Ga. di avere "arbitrariamente chiuso con catena" la strada vicinale (omissis) e di avere realizzato, proseguendo per detta strada all'altezza della propria casa, una "pavimentazione in piastrelle di cemento invadenti la sede stradale" e, per il successivo tratto di sentiero, di avere determinato la "chiusura di una strada interpoderale con una cancellata in legno di colore verde"; perciò il Comune aveva intimato al ricorrente di "rimuovere tutti gli ostacoli descritti" entro dieci giorni. La sentenza del Consiglio di Stato, valorizzando la produzione documentale del ricorrente, ha annullato il provvedimento comunale, compensando le spese processuali. 4.1. Lo stesso appellante deduce che le spese indicate come "danno emergente" sono state affrontate per "per dimostrare l'illegittimità dell'operato dell'Amministrazione e riconosciuto dall'Ecc.mo Consiglio di Stato". Ne risulta confermata la natura di spese processuali, tali dovendosi intendere tutte quelle sostenute dalla parte per difendersi in giudizio, come ritenuto già in sentenza. Il dato è riscontrato dal contenuto dello stesso atto di appello che, al fine di dimostrare l'utilità delle difese spiegate nella controversia conclusa con la detta sentenza di annullamento, torna a trattare questioni, sulle caratteristiche oggettive del sentiero vicinale e sulle emergenze delle perizie versate in atti, attinenti al merito di quella controversia, ma estranee al presente contenzioso risarcitorio. Né può indurre a diversa conclusione la circostanza - sulla quale molto insiste l'appellante - che l'attività istruttoria e difensiva del medesimo sia servita a colmare le lacune istruttorie dell'attività amministrativa comunale, dal momento che l'Amministrazione avrebbe dovuto valutare se vi erano i presupposti per intervenire, mediante lo svolgimento di un'adeguata istruttoria precedente l'adozione del provvedimento. Orbene il difetto di istruttoria, posto a base dell'annullamento del provvedimento impugnato, ne costituisce un vizio e, nella prospettiva della fattispecie risarcitoria dei danni c.d. da atto amministrativo illegittimo che fonda l'azione di condanna ex art. 30 c.p.a., integra il fatto che, se doloso o colposo (come il ricorrente assume essere stato nel caso di specie), è uno degli elementi costitutivi di detta fattispecie. Essendo il danno ingiusto, cioè il c.d. danno evento, costituito dalla lesione della posizione soggettiva del privato proprietario, le spese affrontate per difendere tale posizione in giudizio non rientrano nelle serie causali contemplate dall'art. 1223 cod. civ. al fine di individuare le conseguenze patrimoniali pregiudizievoli risarcibili perché legate all'evento lesivo da un nesso di causalità immediata e diretta. Esse trovano infatti la loro fonte immediata e diretta -come già ritenuto dal giudice di primo grado - nella "strategia difensiva della parte" e vanno rimborsate nel giudizio annullatorio, secondo le regole dell'art. 26 c.p.a. In proposito rileva la distinzione, dovuta ad un indirizzo della Corte di Cassazione oramai consolidato (cfr. già Cass. n. 997 del 2010 e Cass. n. 6422 del 2017), tra spese di assistenza stragiudiziale che hanno natura di danno emergente, consistente nel costo sostenuto per l'attività svolta dai periti e dai legali nella fase precontenziosa, e spese di assistenza giudiziale, che invece trovano collocazione nella sede processuale. Pertanto, mentre le spese stragiudiziali, pur dovendo essere liquidate (per gli avvocati) secondo le tariffe forensi, restano soggette ai normali oneri di domanda, allegazione e prova secondo l'ordinaria scansione processuale, al pari delle altre voci di danno emergente (Cass. n. 9548 del 2017, nonché Cass. n. 30732 del 2019, nel senso che "La richiesta di rimborso delle spese di assistenza legale stragiudiziale non è compresa né nella generica domanda di risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali né nella nota spese e, ove venga formulata per la prima volta in appello, costituisce domanda nuova"), le spese invece dovute dal danneggiato/cliente al proprio avvocato in relazione all'attività giudiziale sono soggette al regime delle spese processuali di cui agli artt. 91 e seg. (così Cass. S.U. n. 16990 del 2017, che ha dichiarato di superare definitivamente il contrario indirizzo sulle spese stragiudiziali di cui a Cass. n. 14594 del 2005; cfr., nello stesso senso anche Cass. ord. n. 2644 del 2018 e n. 24481 del 2020). Va precisato che rientrano tra le spese processuali anche quelle sostenute dalla parte per le allegazioni difensive tecniche, quali sono le consulenze di parte; la relativa disciplina si rinviene negli artt. 91 e seg. c.p.c., sicché vanno rimborsate alla parte vittoriosa, a meno che il giudice non si avvalga della facoltà di escluderle dalla ripetizione perché eccessive o superflue (Cass. n. 84 del 2013 e n. 3380 del 2015 e, più recentemente, Cass. n. 21402 del 2022 e n. 30293 del 2023) ovvero di compensarle. Si tratta di principi applicabili al processo amministrativo, anche in forza del richiamo degli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., di cui all'art. 26 c.p.a. Nel caso di specie, il ricorrente ha chiesto il rimborso a titolo di danno emergente delle spese per assistenza tecnica e legale, non solo senza distinguere tra spese giudiziali e spese stragiudiziali, ma anzi imputando espressamente tutti gli esborsi sostenuti alla vicenda processuale. Pertanto, il relativo rimborso era di competenza del giudice del processo annullatorio. Dal momento che, con la sentenza n. 3292/2019 del Consiglio di Stato le spese processuali sono state compensate per entrambi i gradi di quel giudizio, va confermata la statuizione di rigetto di cui alla sentenza appellata. 4.2. Quest'ultima va confermata anche per quanto riguarda la richiesta di risarcimento del lucro cessante. L'uso del terreno da parte di terzi quale parcheggio, per essere idoneo a provocare il danno lamentato - consistente secondo l'allegazione del danneggiato nell'impedimento assoluto ad un uso proprio - avrebbe dovuto essere continuativo ed abituale, laddove una sola delle denunce in atti appare riferibile a tale arbitraria condotta di terzi, che si configura perciò come occasionale. In ogni caso, non è stato fornito dal ricorrente nemmeno un principio di prova in merito ai possibili usi alternativi, né ai potenziali guadagni. La corrispondente affermazione della sentenza non è stata puntualmente censurata in appello, se non ribadendo la richiesta istruttoria di consulenza tecnico-contabile. La richiesta non può essere accolta, dovendo in proposito essere ribadito che le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti (così Cons. Stato, Ad. Plen. 12 maggio 2017, n. 2 e numerose altre). 5. L'appello va quindi respinto. 5.1. Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali, attesa la mancata costituzione del Comune di (omissis). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere

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