Sto cercando nella banca dati...
Risultati di ricerca:
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3549 del 2021, proposto dalla Wi. En. Pr. 2 S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. St. Da., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro la Regione Puglia, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 1636 del 2020 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Bari, Sezione Prima. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe la società Wi. En. Pr. 2 S.p.a. ha impugnato la sentenza del T.a.r. Puglia - Bari n. 1636 del 2020, che ha respinto il ricorso dalla medesima proposto per il risarcimento dei danni derivanti dal provvedimento prot. n. 5374 del 26 giugno 2013 del Servizio Energia della Regione Puglia, recante il diniego dell'autorizzazione unica richiesta dall'anzidetta società per la realizzazione di un impianto eolico nel Comune di (omissis), in località (omissis). 2. La domanda risarcitoria è stata proposta dalla ricorrente, odierna appellante, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, che - in riforma della sentenza del T.a.r. Puglia n. 718 del 12 giugno 2014 - ha accolto il precedente ricorso proposto dalla medesima società per l'annullamento del menzionato diniego di autorizzazione unica del 26 giugno 2013, prot. n. 5374. Dopo questa sentenza del Consiglio di Stato, infatti, l'istanza dell'odierna appellante è stata accolta soltanto in parte e tale accoglimento solo parziale dipenderebbe, nella prospettiva della società, dalla sopravvenuta introduzione di nuovi vincoli per effetto del P.P.T.R. approvato in epoca successiva al provvedimento impugnato, con il conseguente danno derivante dall'impossibilità di conseguire l'autorizzazione in base all'originaria richiesta. 3. In punto di fatto, la vicenda oggetto del presente giudizio può essere sintetizzata nei termini che seguono. 3.1. La società odierna appellante ha presentato in data 20 marzo 2008 l'istanza di autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio di un impianto eolico di potenza pari a 18 MW nel Comune di (omissis), in località (omissis). Tale impianto sarebbe stato costituito, secondo l'originario progetto, da quindici aerogeneratori e da una stazione elettrica di trasformazione da inserire sulla linea RTN "Foggia-Larino" nel Comune di (omissis). 3.2. La Provincia di Foggia, con le note n. 3007/6.15 del 14 settembre 2010 e n. 4172/6.15 del 29 dicembre 2010, ha rilasciato provvedimenti di V.I.A. favorevoli per dieci dei predetti quindici aerogeneratori. 3.3. Successivamente, è stata indetta la conferenza di servizi per la data del 12 dicembre 2011 nel cui ambito le amministrazioni chiamate a pronunciarsi in quella sede hanno espresso parere favorevole. 3.4. Il Commissario ad acta del Servizio Ambiente della Provincia di Foggia, con determinazione n. 2745 del 4 settembre 2012, ha poi espresso positiva valutazione di incidenza (V.INC.A.) in relazione alla stazione elettrica Te., con contestuale riduzione del numero degli aerogeneratori a sei unità . 3.5. La seconda seduta della conferenza di servizi del 26 ottobre 2012, nell'ambito della quale erano emerse talune criticità, si è poi conclusa con una valutazione positiva del progetto e l'Ufficio Energia della Regione Puglia, in quella sede, si è limitato a condizionare il rilascio dell'autorizzazione unica alla conclusione del procedimento di revisione dei primi tre adempimenti del PUTT/p da parte del Comune di (omissis) - realizzati con delibera n. 6 del 9 marzo 2013 - e al conseguente parere favorevole dell'Ufficio assetto del territorio della Regione Puglia intervenuto con nota prot. n. 0002812 del 5 aprile 2013. 3.6. Tuttavia, il medesimo Ufficio Energia della Regione Puglia, con la nota dirigenziale prot. 3278 del 16 aprile 2013, ha altresì richiesto alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia e all'Ufficio parchi regionale se, alla luce degli atti richiamati al punto che precede (ossia la delibera del Comune di (omissis) n. 6 del 9 marzo 2013 e la nota dell'Ufficio assetto del territorio della Regione Puglia, prot. n. 0002812 del 5 aprile 2013), potevano ritenersi superati i profili critici in ordine alla compatibilità paesaggistica e ambientale per la stazione elettrica Terna. 3.7. A seguito di tale richiesta, la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia (con nota del 15 maggio 2013) e l'Ufficio parchi della Regione Puglia (con nota del 14 maggio 2013) hanno evidenziato - senza esprimersi nell'ambito della conferenza di servizi prevista dall'art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003 n. 387 - taluni profili ostativi alla realizzazione della stazione elettrica. 3.8. In ragione dei profili ostativi evidenziati nei pareri testé menzionati, il Servizio Energia regionale ha ritenuto di negare l'autorizzazione unica, adottando il provvedimento di diniego prot. n. 5374 del 26 giugno 2013, poi impugnato dalla società odierna appellante nell'ambito del precedente giudizio sopra richiamato. 4. Con la già citata sentenza n. 4736 del 2015, il Consiglio di Stato, in riforma della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari n. 718 del 2014, ha annullato l'anzidetto diniego rilevando che i due pareri avrebbero dovuto essere acquisiti "nella sede procedimentale tipica di valutazione d'incidenza ambientale" e ha altresì osservato che i medesimi "non integravano un dissenso radicale e insuperabile", respingendo, pertanto, la domanda risarcitoria già avanzata in quella sede. 5. In esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, poi, l'Ufficio Energia della Regione Puglia ha rinnovato la convocazione della conferenza di servizi e, in quella sede, il Segretario regionale Mi.B.A.C.T. della Regione Puglia ha ritenuto di accogliere l'istanza di autorizzazione unica limitatamente alla realizzazione di un solo aerogeneratore tenuto conto della sopravvenuta apposizione di vincoli sull'area in questione per effetto del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale approvato dalla Regione Puglia. 6. Con nota dell'8 aprile 2016, l'odierna appellante ha ribadito che il progetto dell'impianto, nella originaria configurazione con sei aerogeneratori era stato già valutato positivamente da tutti gli enti interessati e ha quindi chiesto alla Regione di provvedere al rilascio dell'autorizzazione unica e, solo in via di mero subordine, ha chiesto la rimessione degli atti al Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della l. n. 241/1990, in considerazione del dissenso espresso dal Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. della Puglia. 7. Con deliberazione del 20 gennaio 2017, il Consiglio dei Ministri ha condiviso il parere del Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. della Puglia, consentendo "la prosecuzione del procedimento, volto alla realizzazione di un solo aerogeneratore, contraddistinto dal numero A1" e con il provvedimento prot. n. 0000672 del 23 febbraio 2017 la Sezione infrastrutture energetiche e digitali della Regione Puglia ha invitato la ricorrente a provvedere alla produzione documentale necessaria al rilascio dell'autorizzazione unica per il "solo aerogeneratore, contraddistinto dal numero A1". 8. L'anzidetto provvedimento del 23 febbraio 2017 che ha autorizzato un solo aerogeneratore non è stato impugnato dall'odierna appellante. 9. Tuttavia, pur non avendo impugnato il predetto provvedimento di autorizzazione relativo a un solo aerogeneratore, la società ha proposto il ricorso introduttivo del presente giudizio formulando la domanda risarcitoria per il cui tramite ha chiesto il ristoro dei danni che ritiene di aver subito in ragione dell'illegittimo operato della Regione. Infatti, secondo la società Wi. En. Pr. 2 S.p.a., qualora la Regione avesse agito ab origine in modo conforme alla legge, pervenendo all'adozione del provvedimento di autorizzazione unica anziché del diniego poi ritenuto illegittimo e annullato dal Consiglio di Stato, non si sarebbero verificati "i notevoli pregiudizi economici causati dall'impossibilità di realizzare il progetto dell'Impianto nella sua configurazione originaria". 10. Il T.a.r. Puglia, con l'impugnata sentenza, ha respinto il ricorso per il risarcimento del danno condividendo il rilievo dell'Amministrazione resistente secondo cui la questione oggetto del presente giudizio risulta sovrapponibile ad altra identica controversia definita dal medesimo T.a.r. con la sentenza n. 852 del 20 giugno 2019, che aveva parimenti respinto la domanda risarcitoria connessa agli effetti della sentenza n. 4732 del 2015 della Sezione IV del Consiglio di Stato che, a sua volta, aveva riformato la sentenza n. 716 del 12 giugno 2014, riguardante l'identico diniego di autorizzazione unica di cui alla nota dirigenziale prot. n. 5374 del 26 giugno 2013 e degli atti a essa presupposti. Nella motivazione della sentenza n. 852 del 2019, tra l'altro, sono stati richiamati alcuni passaggi di un'ulteriore pronuncia, sempre del Consiglio di Stato, Sez. IV, 1 dicembre 2016, n. 5054, per il cui tramite era stato respinto il ricorso per l'ottemperanza alla sentenza n. 4732 del 2015 (di cui la sentenza n. 4736 del 2015 sarebbe pertanto sostanzialmente "gemella"). 11. Per esigenze di chiarezza, dunque, la sequenza delle pronunce rilevanti ai fini del presente giudizio può essere sintetizzata nei termini che seguono: a) sentenza del T.a.r. Puglia n. 718 del 12 giugno 2014 che ha respinto l'originario ricorso per l'annullamento del diniego di autorizzazione unica del 26 giugno 2013, prot. n. 5374, gemella della sentenza del medesimo T.a.r., n. 716 del 12 giugno 2014; b) sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 13 ottobre 2015 che, in riforma della sentenza sub a), ha annullato il provvedimento di diniego ma ha respinto la domanda risarcitoria in quanto, all'epoca, sussisteva ancora la possibilità di conseguire il bene della vita a seguito della rinnovazione del procedimento; c) sentenza del Consiglio di Stato n. 4732 del 13 ottobre 2015, gemella della precedente, che in un caso del tutto ana aveva a sua volta riformato la già citata sentenza del T.a.r. Puglia n. 716 del 12 giugno 2014 (per l'appunto del pari gemella della sentenza, del medesimo T.a.r. Puglia, n. 718 del 12 giugno 2014); d) sentenza del Consiglio di Stato n. 5054 del 2016 che ha respinto il ricorso per l'ottemperanza della sentenza n. 4732 del 2015; e) sentenza del T.a.r. Puglia n. 852 del 20 giugno 2019 che, pronunciandosi sulla vicenda analoga a quella del presente giudizio, ha respinto la domanda risarcitoria connessa agli effetti della già citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4732 del 13 ottobre 2015, gemella della n. 4736 del 2015, che ha riformato la sentenza del T.a.r. Puglia n. 716 del 12 giugno 2014, annullando il diniego di autorizzazione unica; f) sentenza del Consiglio di Stato n. 6353 del 2020 che ha respinto l'appello avverso la sentenza sub e), T.a.r. Puglia n. 852 del 2019. 12. Con la pronuncia qui impugnata, dunque, il T.a.r. Puglia (si tratta della sentenza - lo si precisa per ulteriore chiarezza - n. 1636 del 2020) ha sottolineato l'analogia esistente tra le fattispecie concrete esaminate dalle pronunce del Consiglio di Stato n. 4732 e n. 4736 del 13 ottobre 2015, traendo ulteriori elementi per il rigetto della domanda risarcitoria anche dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 6353 del 2020. Ferme restando le considerazioni che precedono, il T.a.r., con la sentenza impugnata, ha ritenuto che la società ricorrente - dopo aver ottenuto la "rinnovazione del procedimento e la riconvocazione della conferenza di servizi" - avrebbe prestato acquiescenza ai provvedimenti che hanno determinato la possibilità di ottenere l'autorizzazione unica per un impianto costituito da un solo aerogeneratore. Sotto questo profilo, inoltre, il T.a.r. ha precisato che si tratterebbe per l'appunto esclusivamente di una mera possibilità, poiché sulla base degli atti depositati in giudizio non vi sarebbe prova né dell'effettivo rilascio dell'autorizzazione unica né dell'entrata in funzione dell'impianto. Sotto un ulteriore profilo, il T.a.r. ha sottolineato che l'appellante non aveva neppure impugnato gli atti recanti le valutazioni istruttorie sulla base delle quali era stato ridotto il numero degli aerogeneratori, sicché difetterebbe in radice il presupposto dell'illegittimità o erroneità della "non compatibilità paesaggistica" dell'impianto; del resto il parere del Segretariato regionale Mi.B.A.C.T. è poi stato integralmente recepito dal Consiglio dei Ministri, con la conseguenza che "la prova dell'autorizzabilità ab origine dell'impianto basato su sei aerogeneratori è rimasta una mera congettura". 13. Avverso tale pronuncia ha proposto appello la Wi. En. Pr. 2 S.p.a. formulando tre distinti motivi di gravame. 14. Con il primo motivo di appello, la società contesta la sentenza nella parte in cui ha fondato il rigetto della domanda risarcitoria sull'asserita acquiescenza prestata al provvedimento del 23 febbraio 2017 e a quelli ad esso presupposti. A tale proposito, l'appellante evidenzia che, nella sua prospettiva, la domanda di risarcimento del danno si riferisce non già al provvedimento del 23 febbraio 2017, bensì all'illegittimità del diniego di autorizzazione unica opposto dalla Regione Puglia attraverso il precedente provvedimento del 26 giugno 2013, con la conseguenza che i successivi atti adottati dalla Regione Puglia nel 2016 e nel 2017, a seguito della sopravvenienza dei vincoli introdotti dal P.P.T.R., "segnano quindi solo il momento in cui il danno in parola si è prodotto" ma "non ne costituiscono la fonte". Ritiene, inoltre, che ciò sarebbe confermato anche dalla circostanza che la sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015 aveva negato il risarcimento perché il danno era in quel momento "soltanto eventuale" posto che l'appellante avrebbe ancora potuto conseguire l'autorizzazione unica per tutti gli aerogeneratori previsti dal progetto, mentre, a seguito dell'introduzione dei vincoli del P.P.T.R., il danno sarebbe effettivamente divenuto "concreto ed attuale". Sotto un diverso profilo, l'appellante censura l'argomentazione secondo cui dalla mancata impugnazione dei provvedimenti in questione possa desumersi una "mancanza di prova in ordine all'autorizzabilità ab origine dell'Impianto". Del pari ritiene che dalla successiva autorizzazione di un solo impianto a causa dei vincoli sopravvenuti non si possa inferire che il progetto dell'impianto nella sua versione originaria fosse ab origine irrealizzabile. In altri termini, l'appellante sostiene che il fatto che sia stato poi autorizzato un solo impianto non significherebbe di per sé che fosse autorizzabile fin dall'origine un solo impianto, in quanto, attraverso il provvedimento di autorizzazione del 23 febbraio 2017, l'amministrazione avrebbe preso atto delle sopravvenute disposizioni del P.P.T.R. che non consentivano la realizzazione di tutti gli aerogeneratori previsti dal progetto. 15. Con il secondo motivo di gravame, l'appellante censura la decisione del T.a.r. sostenendo che sia stata travisata la portata della sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, dal momento che ad avviso del T.a.r. tale sentenza si sarebbe limitata a disporre, in chiave conformativa, la sola rinnovazione del procedimento senza accertare la spettanza del bene della vita in capo all'odierna ricorrente. Secondo l'appellante, invece, l'anzidetta sentenza non si sarebbe limitata a rilevare che i pareri della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia e dell'Ufficio parchi della Regione Puglia (di cui alle note rispettivamente del 13 e del 14 maggio 2013) erano stati resi fuori dalla sede in cui avrebbero dovuto essere espressi, ossia fuori dalla conferenza di servizi, avendo per contro precisato altresì che i medesimi "non integravano un dissenso radicale e insuperabile" in relazione al progetto. 16. Con il terzo motivo di gravame, l'appellante deduce il vizio di omessa pronuncia o, comunque, la carenza assoluta di motivazione in relazione alle censure articolate in primo grado che conseguentemente "vengono integralmente riproposte". 16.1. Con il primo motivo del ricorso introduttivo aveva prospettato l'illegittimità del diniego di autorizzazione unica adottato dalla Regione Puglia in data 26 giugno per una pluralità di ragioni. In estrema sintesi l'illegittimità del provvedimento - peraltro già accertata dal Consiglio di Stato con la più volte richiamate sentenza n. 4736 del 2015 - deriverebbe dai seguenti vizi: a) il provvedimento di diniego sarebbe stato fondato su pareri resi dalla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici acquisiti al di fuori e dopo la conclusione della conferenza di servizi; b) sarebbe stato travisato il contenuto dei pareri espressi assumendo erroneamente che gli stessi recassero un radicale dissenso alla realizzazione della stazione di trasformazione Te. 380/Kv; c) l'illegittimità deriverebbe dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015. Sempre col primo motivo del ricorso introduttivo (ribadendo, invero, concetti già espressi) insiste sull'illegittimità per violazione dell'art. 14-quater della l. n. 241/1990 e in ragione della circostanza che i pareri erano stati resi in sede diversa da quella in cui dovevano essere espressi, ossia fuori dal procedimento unico deputato al rilascio dell'autorizzazione alla realizzazione degli impianti elettrici alimentati da fonte rinnovabile, mentre l'art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 prescrive espressamente che l'autorizzazione unica debba essere rilasciata all'esito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni coinvolte, per il tramite della conferenza di servizi, con conseguente valutazione contestuale e sincrona di tutti gli interessi che vengono in rilievo. Sotto un ulteriore profilo, ad avviso della ricorrente - come parimenti già prospettato con il secondo motivo di appello - con i richiamati pareri del 13 e 14 maggio 2013 non sarebbe stato espresso un radicale dissenso alla realizzazione della stazione elettrica Terna nel Comune di (omissis), come risulterebbe altresì dimostrato dalla circostanza che nella nota prot. n. 0004445 del 28 maggio 2013, lo stesso Servizio Energia della Regione Puglia aveva espressamente affermato che: "la Soprintendenza ha rilevato alcune criticità ritenute superabili con l'apporto di modifiche al progetto proposto". L'appellante aveva dunque presentato le proprie osservazioni ma era poi intervenuto il provvedimento di diniego senza che venissero prese in considerazione le proposte progettuali alternative. 17. Infine, con riferimento all'elemento della colpa dell'amministrazione, l'appellante ritiene che essa possa essere desunta in via presuntiva dall'illegittimità del provvedimento oltre che dalla circostanza che era stato attribuito rilievo a pareri espressi tardivamente. 18. Non si è costituita in giudizio la Regione Puglia. 19. Il Collegio - trattenuta la causa in decisione all'udienza pubblica del 16 maggio 2024 - reputa che l'appello non possa essere accolto per le ragioni che di seguito si espongono. 20. Anche a prescindere dal profilo già evidenziato dal T.a.r., secondo cui vi sarebbe stata acquiescenza dell'odierna appellante desumibile dall'omessa impugnazione del provvedimento che ha autorizzato un solo impianto, la domanda risarcitoria non può essere accolta per due distinte ragioni, ciascuna delle quali di per sé assorbente. 21. In primo luogo, si deve rilevare che la complessità dell'iter che ha preceduto l'adozione dell'atto annullato può di per sé essere valutata alla stregua di un elemento sintomatico dell'assenza di profili di dolo o colpa dell'amministrazione. Sul punto, la prospettazione dell'appellante si riduce alla mera considerazione che la colpa sia suscettibile di essere desunta in via presuntiva dall'illegittimità del provvedimento. Tuttavia, in tal modo, l'appellante omette del tutto di considerare che l'illegittimità dell'atto amministrativo, poi annullato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, era per contro stata esclusa in primo grado dal T.a.r. Puglia - Bari nell'ambito della sentenza n. 718 del 2014. Inoltre, anche nella pronuncia del Consiglio di Stato appena richiamata vi è un esplicito riconoscimento della complessità della vicenda amministrativa come si desume chiaramente dalla circostanza che già nel primo paragrafo il Collegio ha precisato che il diniego è stato adottato "All'esito di laborioso procedimento". In relazione ai due pareri resi rispettivamente dalla Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici n. 6976 del 15 maggio 2013 e dall'Ufficio parchi della Regione Puglia n. 4298 del 14 maggio 2013, il T.a.r., respingendo il ricorso, aveva rilevato che si trattava di "plurime e non censurabili valutazioni tecniche operate dalla Amministrazione regionale...costituenti espressioni di ampia discrezionalità tecnica, non inficiate da vizi macroscopici, a fronte di una motivazione estremamente dettagliata in ordine ai vari profili ostativi alla installazione del progetto proposto" e il Consiglio di Stato ha altresì riconosciuto che "deve convenirsi che i due pareri non possano considerarsi ex se irrilevanti o nulli". 22. In secondo luogo, pur essendo pacifica l'illegittimità del diniego, come risulta definitivamente accertato dalla più volte citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, l'odierna appellante non ha dimostrato la spettanza del bene della vita. La Wi. En. Pr. 2 S.p.a., infatti, avrebbe dovuto dare prova della circostanza che l'impianto, nella sua originaria versione con sei aerogeneratori, avrebbe dovuto essere autorizzato dall'amministrazione. Al riguardo si deve osservare che nel caso di specie viene in rilievo un'ipotesi riconducibile al risarcimento degli interessi legittimi pretensivi poiché il danno di cui la ricorrente, odierna appellante, chiede il ristoro viene fatto derivare dal mancato conseguimento del provvedimento di autorizzazione secondo l'originaria istanza. Tuttavia, con riferimento al risarcimento del danno derivante dalla lesione degli interessi legittimi pretensivi, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, non risulta sufficiente la mera illegittimità del provvedimento di diniego, dovendo, per contro, sussistere la prova che "l'esercizio illegittimo del relativo potere abbia leso un bene della vita del privato, che quest'ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere"; in questo senso, cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 17 agosto 2023, n. 7793; Cons. Stato, Sez. II, 1 settembre 2021, n. 6163. Questa Sezione, in tempi ancor più recenti, ha avuto modo di ribadire i principi testé richiamati precisando quanto che: "Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, con accertamento in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'agire illegittimo della pubblica amministrazione; ed infatti per danno ingiusto risarcibile ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico" (Cons. Stato, Sez. IV, 12 settembre 2023, n. 8282). Nel caso di specie, la società appellante non ha dato prova degli elementi che precedono, essendosi limitata a sostenere che il provvedimento di autorizzazione per un solo impianto non implicava di per sé che gli altri cinque fossero ex ante non autorizzabili. Tale rilievo - pur essendo condivisibile - non è tuttavia dirimente poiché l'appellante avrebbe dovuto dimostrare non già che gli altri non fossero "non autorizzabili ex ante", in senso negativo, bensì - al contrario e in senso quindi positivo - che sarebbero stati effettivamente autorizzati tutti e sei gli aerogeneratori oggetto della richiesta. In altri termini, la dimostrazione della spettanza del bene della vita doveva essere fornita non già negando che sussistessero elementi sufficienti per ritenere che gli impianti sarebbero stati in ogni caso "non autorizzati", bensì provando in senso positivo che essi dovevano essere effettivamente autorizzati. Il carattere solo ipotetico dell'autorizzabilità ex ante - in epoca quindi antecedente alla modifica del P.P.T.R. - risulta confermato anzitutto proprio dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4736 del 2015, secondo cui i pareri "non integravano un dissenso radicale e insuperabile" e avrebbero pertanto dovuto comportare non già il diretto rilascio dell'autorizzazione unica secondo il progetto presentato dalla società, bensì la riconvocazione della conferenza di servizi. Sul punto, risulta particolarmente significativo il seguente passaggio della motivazione della sentenza: "Nell'alveo della riconvocanda conferenza di servizi, andava ricondotto l'esame dei profili di criticità espressi dai due pareri che, secondo quanto pure esattamente dedotto dall'appellante, non integravano un dissenso radicale e insuperabile, e che in ogni caso, pena l'elusione del principio del "dissenso costruttivo", andavano assoggettati a più puntuale e dialogico esame, al fine consentire sia puntualizzazioni e chiarimenti in ordine alle loro indicazioni, nonché eventuali ulteriori affinamenti progettuali tali da rendere del tutto compatibile con i valori paesistici e naturalistici la realizzazione della stazione elettrica a 380/150 kV collegata alla linea di rete di trasmissione nazionale a 380 kV Foggia-Larino, cui dovevano connettersi i vari parchi eolici". Dalla motivazione della pronuncia risulta, dunque, evidente che la legittima alternativa rispetto al diniego non sarebbe stata di per sé il rilascio dell'autorizzazione, bensì la riconvocazione della conferenza di servizi e un'ulteriore interlocuzione per rendere il progetto compatibile con i valori paesaggistici; del resto la sentenza ha anche precisato che con la nota dirigenziale prot. n. 3278 del 16 aprile 2013, per il cui tramite sono stati richiesti i pareri della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia e dell'Ufficio Parchi regionale, "si è, di fatto, provveduto a colmare una lacuna istruttoria rilevante". Conseguentemente, dalla stessa sentenza del Consiglio di Stato si desume chiaramente che non sussiste la prova della spettanza del bene della vita richiesto dal privato, poiché il rilascio dell'autorizzazione risultava ancora soltanto eventuale, occorrendo per l'appunto un ulteriore approfondimento istruttorio. Nella citata sentenza n. 4736 del 2015, del resto, si esclude espressamente la fondatezza della tesi, sostenuta dalla società, secondo cui la il provvedimento favorevole di V.INC.A. avrebbe assorbito ogni altro profilo; in proposito il Consiglio ha precisato infatti che: "Ne consegue che, almeno per tale aspetto, comunque decisivo, il primo ordine di censure è destituito di fondamento giuridico, non potendosi postulare l'invocato "assorbimento" nel provvedimento di V.INC.A. di valutazioni che non sono state espresse nel relativo subprocedimento". La stessa Soprintendenza, inoltre, aveva rilevato alcune criticità ritenute "superabili con l'apporto di modifiche al progetto proposto". 23. Infine, la prova della spettanza ab origine del bene della vita non può neppure essere desunta, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche, dalla circostanza che ex post sia stato autorizzato un solo aerogeneratore sulla base della valutazione espressa dal Segretario Regionale del Mi.B.A.C.T. e confermata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la deliberazione del 20 gennaio 2017. Tale circostanza, infatti, dimostra per l'appunto soltanto che ex post è stato autorizzato un solo impianto ma non consente di trarre alcun elemento che deponga nel senso che ex ante fossero autorizzabili tutti gli impianti oggetto della richiesta. 24. In definitiva, dunque, come già osservato dal T.a.r., non è dimostrato che l'impianto con sei aerogeneratori avrebbe dovuto essere autorizzato senz'altro ab origine, con la conseguenza che, in difetto della prova della spettanza del bene della vita, la domanda risarcitoria - così come formulata dalla società - deve essere respinta, con integrale rigetto dell'appello. 25. Poiché l'amministrazione appellata non si è costituita in giudizio nulla si dispone in punto spese processuali. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla sulle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore
1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente\\6789 SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 16864/2021 R.G. proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12; – ricorrente – contro DE VIVO ANNA, rappresentata e difesa dagli Avv. Giuseppe Mauriello e Antonio Carrella con procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente domiciliata all’indirizzo PEC dei suddetti difensori iscritti nel REGINDE; – controricorrente– avverso l’ordinanza della Corte di appello di Salerno n. cronol. 6677/2020, depositata il 22 dicembre 2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; R.G.N. 16864/2021 P.U. 11/04/2024 *\ rtyuiop+èytf samZ<A EQUA RIPARAZIONE udito l’Avv. Alberto Giovanni Angelo D’Onofrio, per il ricorrente Ministero della Giustizia. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89/2001, depositato in data 29 maggio 2020 presso la Corte di appello di Salerno, De Vivo Anna chiedeva il riconoscimento dell’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo instaurato a seguito degli eventi franosi verificatisi in Sarno il 5 maggio 1998 e che cagionarono la morte dei suoi genitori e della sorella. A tale proposito la ricorrente faceva presente di essersi costituita parte civile nel relativo processo penale in data 13 aprile 2000, il cui primo grado si concludeva con sentenza del 3 giugno 2004, a cui seguiva quello di appello definito con sentenza del 19 febbraio 2009, che veniva fatta oggetto di ricorso per cassazione, all’esito del cui giudizio questa Corte emetteva sentenza di annullamento con rinvio in data 20 dicembre 2011. Il giudizio di rinvio si concludeva con sentenza di condanna depositata il 16 marzo 2012, confermata all’esito del successivo giudizio di cassazione con sentenza del 7 maggio 2013. Quindi, la ricorrente introduceva giudizio civile, dinanzi al Tribunale di Salerno, per l’ottenimento del risarcimento dei danni con citazione notificata il 5 marzo 2019, la cui domanda veniva accolta con sentenza del 16 maggio 2019. Decidendo sul citato ricorso formulato ai sensi della legge n. 89/2001, il giudice designato della Corte di appello di Salerno, con decreto n. 4218 del 23 giugno 2020, comunicato il 1° luglio 2020, accoglieva, per quanto di ragione, la domanda e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennità di euro 800,00 per un solo anno di ritardo maturato nel corso del giudizio civile, oltre alle spese. 2. Decidendo sull’opposizione ex art. 5-ter della stessa legge n. 89/2001 formulata avverso il citato decreto dalla medesima ricorrente in relazione al ritardo maturato anche nel processo penale, la Corte di appello di Salerno, in composizione collegiale, nella resistenza del Ministero della giustizia, che proponeva anche opposizione incidentale, con ordinanza (in effetti da considerarsi un decreto, ai sensi del citato art. 5-ter, ultimo comma, l. n. 89/2001) n. cronol. 6677 del 2020, accoglieva l’opposizione “principale”, condannando il Ministero al pagamento, in favore della De Vivo, della somma di euro 4.000,00, oltre interessi dalla domanda al soddisfo, nonché al pagamento delle spese del procedimento, compensate solo per un quarto. Più specificamente, per quanto ancora di rilievo in questa sede, la Corte salernitana riteneva fondate le doglianze della De Vivo con riferimento alla prospettata inesattezza del computo operato dal consigliere designato per stabilire la durata del complessivo giudizio presupposto nelle sue varie articolazioni e per gradi, e segnatamente di quelli relativi al giudizio di secondo grado, al primo giudizio di legittimità e a quello di rinvio del giudizio penale, oltre a quello di primo grado del giudizio civile. Pertanto, a seguito della rivalutazione complessiva della durata dei vari giudizi (da considerarsi in un quadro unitario), la Corte distrettuale riteneva indennizzabile un periodo di eccessiva durata di anni quattro e mesi sette, respingendo l’opposizione incidentale del Ministero della Giustizia relativa al mancato esperimento dei rimedi preventivi. 3. Avverso il menzionato decreto collegiale ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo, il Ministero della giustizia, cui ha resistito la De Vivo con controricorso. Formulata proposta di definizione del giudizio ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (come sostituito dall’art. 3, comma 28, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), ritualmente comunicata alle parti, il Ministero ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso con conseguente fissazione dell’adunanza in camera di consiglio ai sensi del terzo comma dello stesso art. 380-bis.1 c.p.c., all’esito della quale il designato collegio, con ordinanza interlocutoria n. 1522/2024 (alla stregua della problematicità della questione, per l’eventualità della conferma della suddetta proposta di definizione anticipata, sull’adottabilità, anche nei confronti delle P.A., delle pronunce previste dall’art. 96, ai commi 3 e 4, c.p.c. come richiamate dall’ultimo comma dell’art. 380-bis c.p.c.), ha disposto rimettersi la trattazione della causa in pubblica udienza, fissata per la data odierna, in prossimità della quale il P.G. ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso e l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. Anche la difesa erariale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico formulato motivo il Ministero della Giustizia denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89/2001 contestando la legittimità del calcolo compiuto dalla Corte salernitana nell’impugnato provvedimento in relazione al computo della durata irragionevole del processo in caso di costituzione di parte civile nel giudizio penale e di successiva instaurazione di giudizio civile per la quantificazione dei danni (nell’ipotesi di accertata responsabilità definitiva dell’imputato). Il ricorrente Ministero deduce che la Corte di merito ha illegittimamente ritenuto l’unitarietà, ai fini dell’equa riparazione, del processo penale e del successivo giudizio civile instaurato per la liquidazione del danno alla De Vivo, costituitasi parte civile nel pregresso processo penale. Si evidenzia che la Corte di appello salernitana ha ritenuto che la ragionevole durata – e, quindi, quella correlativamente eccessiva rispetto agli standard normativi – avrebbe dovuto essere individuata prima fase per fase, per poi essere le stesse complessivamente riconsiderate entro il limite dei sei anni, senza tenere in alcun conto il comportamento concretamente osservato in sede processuale dalla parte civile in sede penale, rendendosi necessario che quest’ultima faccia tutto quanto in suo potere per ottenere la quantificazione del danno direttamente in sede penale, perché solo in siffatta ipotesi appare corretto considerare unitariamente il processo ai fini della ragionevole durata. Di converso – ad avviso del ricorrente Ministero - nella specie la De Vivo si era limitata a richiedere un importo meramente simbolico, senza fornire adeguato supporto alla propria richiesta, per cui il giudice penale era stato costretto a rimettere al giudice civile l’attività di quantificazione e di liquidazione del danno. 2. Il motivo è infondato e deve essere respinto. Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria (Cass. n. 22356/2023; già in questi termini Cass n. 4436/2015). Il ricorrente Ministero invoca l’obiter contenuto nel precedente di cui a Cass. n. 11493/2006 (difforme dall’orientamento successivo a cui ha aderito questa Corte, circostanza che lo stesso ricorrente attesta di non ignorare), secondo il quale nella valutazione complessiva delle vicenda processuale il Giudice dell'equa riparazione dovrà tenere conto della complessità della controversia derivante dalla sua articolazione in giudizi diversi svoltisi l'uno dinnanzi al giudice penale, l'altro dinnanzi al giudice civile, apprezzando altresì se la conclusione del processo penale con sentenza di condanna generica al risarcimento del danno consegua ad una esplicita domanda in tal senso della persona offesa costituita parte civile ovvero se sul punto della quantificazione del danno siano state articolate richieste istruttorie non accolte dal giudice penale. Senonché, il richiamato precedente non ancorava affatto la valutazione unitaria dei due giudizi alla qualitas dell’attività assertiva e probatoria svota dalla parte civile in sede penale, ma al contrario, nel confermare detta “valutazione complessiva della vicenda processuale”, si era limitato a prescrivere la necessità di procedere ad un tale accertamento di fatto, la cui omissione avrebbe dovuto ritenersi censurabile unicamente nei termini e nei limiti di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (nella versione all’epoca vigente) e risultare decisiva, di regola, solo ai fini della determinazione del quantum debeatur, ma non anche dell’an. Nel caso che viene qui in rilievo la persona offesa – costituitasi parte civile - formulò, peraltro, una domanda di risarcimento dei danni non di carattere generico e nemmeno simbolica, mentre non si riesce a comprendere quale particolare attività istruttoria la stessa avrebbe avuto l’onere di svolgere nel processo penale relativo al disastro (al di là delle allegazioni poste a fondamento della costituzione di parte civile), essendo tale attività propriamente demandata alle parti principali di siffatto processo, ovvero al P.M. e all’imputato (solo per completezza va detto che nemmeno le asserzioni del ricorrente sulla inerzia della parte civile a fronte delle sentenze di assoluzione colgono nel segno: v. provvedimento impugnato a pag. 7, lett. b). In conclusione, deve essere riaffermato in questa sede il principio secondo cui, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e quest’ultimo si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria, al conseguente fine di addivenire al computo della durata da considerarsi irragionevole e, quindi, indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001 (come ha fatto correttamente la Corte salernitana nel caso di specie). 2. Per effetto della decisione qui adottata risultante pienamente conforme alla proposta formulata - in data 27 marzo 2023 - ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c., deve trovare applicazione la conseguenza sanzionatoria prevista dall’art. 96, comma 3, c.p.c., come richiamata dall’ultimo comma del medesimo art. 380-bis. Le Sezioni unite di questa Corte (cfr. ordinanze nn. 27433/2023 e 28540/2023) hanno, infatti, stabilito il principio per cui, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l'art. 380-bis, comma 3 c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) - che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell'art. 96 c.p.c. - codifica un'ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione – come quello in questione - delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e anche quarto comma, c.p.c., per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c. nel testo riformato, v. Cass. SU n. 27195/2023). Diversamente da quanto obiettato dal Ministero della Giustizia, l’applicazione delle “sanzioni” previste dal citato art. 96, commi 3 e 4 c.p.c. (per le quali non possono sussistere dubbi che scattino anche nei confronti della soccombente P.A.), le Sezioni unite non hanno – condivisibilmente - avallato una interpretazione predicatrice della sua applicabilità in termini di automatismo, propendendo, invece, per la sua univoca applicabilità – ovvero in modo certo e rispondente alla ratio di garantire l’effettività della sua funzione dissuasiva, senza possibilità, quindi, di procedere ad una valutazione discrezionale - nei casi di piena conformità della decisione presa all’esito della richiesta di giudizio rispetto al contenuto motivazionale e conclusivo della suddetta proposta contemplata dal primo comma del citato art. 380-bis c.p.c. (v. Cass. SU, ord. n. 36039/2023). Nel caso di specie la conformità è integrale: riguarda non solo l’esito del ricorso, inteso come dispositivo o formula terminativa della deliberazione (nel senso della infondatezza), ma anche le ragioni che tale esito hanno sostenuto, che hanno fatto leva, per l’appunto, sulla necessità della valutazione unitaria dei due giudizi - penale e civile - al fine di determinare la durata irragionevole indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001, in favore del soggetto costituitosi parte civile in quello penale (e che abbia dovuto, poi, introdurre la causa civile per vedersi liquidato il danno conseguente all’affermazione, in via definitiva, della responsabilità penale dell’imputato). 3. Quanto all’obbligo di pagamento di una somma a favore della Cassa delle Ammende, di cui al citato comma 4 (pure – di regola – conseguente in caso di piena conformità della decisione alla proposta anticipata), si evidenzia, innanzitutto, che si tratta di un istituto introdotto dall’art. 3, comma 6 d.lgs. 10.10.2022 n. 149. Ritiene il collegio che – ancora in senso contrario a quanto sostenuto dal Ministero della Giustizia nella sua memoria finale - nulla osta alla sua applicazione nella causa in questione, posto che il beneficiario della sanzione, la Cassa delle Ammende, costituisce un Ente di diritto pubblico autonomo, con soggettività distinta da quella del Ministero obbligato (come, del resto, riconosce lo stesso Ministero nella richiamata memoria, laddove si discorre di “alterità soggettiva che si traduce in una reciproca autonomia finanziaria e contabile”), il quale esercita solo una funzione di vigilanza, e non può, quindi, discorrersi di confusione della relativa obbligazione. La Cassa delle Ammende – come opportunamente posto in risalto dal PG nelle sue conclusioni - è dotata di una propria contabilità (art. 4, comma 4, della legge 9 maggio 1932 n. 547) e di un proprio bilancio (art. 7, comma 1 lett. h), Allegato al DPCM del 10 aprile 2017, n. 102), con fondi destinati a funzioni specifiche (art. 2, comma 2 Allegato). Quindi, la Cassa in questione è – a tutti gli effetti - un ente con personalità giuridica di diritto pubblico istituito con la richiamata legge 9 maggio 1932 n. 547, che ha autonomia amministrativa, regolamentare, patrimoniale, contabile e finanziaria, nei limiti stabiliti dallo Statuto, emanato con il citato DPCM 10 Aprile 2017 n. 102. Essa finanzia programmi e progetti finalizzati al reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale e cura la gestione del patrimonio e dei depositi cauzionali. La sua dotazione finanziaria è costituita dal conto depositi e dal conto patrimoniale. Al conto depositi affluiscono tutti i versamenti effettuati a titolo provvisorio o cauzionale. Sul conto patrimoniale sono versate tutte le altre somme ed in particolare quelle devolute alla Cassa per disposizione di legge o per disposizione dell'Autorità Giudiziaria. L’entrata che rileva, in particolare, in questa sede è quella, di carattere corrente, prevista dall’art. 20, comma 2 lett. c), del citato Allegato, destinata a confluire nella gestione separata di cui all’art. 22, comma 1 dello stesso Allegato. 4. In definitiva, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del Ministero ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano come in dispositivo, con attribuzione ai difensori antistatari della controricorrente. Va, inoltre, disposta – non ostandovi impedimenti normativi o di carattere logico-sistematico, come posto in risalto - l’applicazione del terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c, richiamati dal novellato art. 380-bis c.p.c. (all’ultimo comma), nei termini di cui in dispositivo. Trattandosi di ricorso in materia di equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2021, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, in tema di raddoppio del contributo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 2.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge, con distrazione in favore dei difensori della controricorrente. Condanna, altresì, lo stesso Ministero ricorrente al pagamento, a favore della controricorrente ed ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., della somma equitativamente determinata nella misura di euro 1.500,00, nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende ed in applicazione dell’art. 96, comma 4, c.p.c., della somma di euro 500,00. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI PADOVA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, pronunzia la presente SENTENZA nel proc. n. 7663/2021 RG promosso da (...), residente a Padova, (...), residente a Padova, (...), rappresentati e difesi dagli avv.ti (...) con domicilio eletto presso il loro studio del primo in Dolo (VE), (...) e con domicilio digitale eletto ai sensi dell'art. 16 sexies D.L. 179/2012 agli indirizzi pec: (...) contro (...) (...), entrambi residenti in Padova (PD), (...), rappresentati e difesi, per procura in calce al presente atto, dagli avv.ti (...) del Foro di Padova, con domicilio digitale eletto presso gli indirizzi di posta elettronica certificata (...) nonché contro (...) rappresentato e difeso dall'avv. (...), con domicilio eletto presso il di lui studio in Padova (...) con l'avv. (...) con la chiamata in causa di Condominio (...) contumace OGGETTO: risarcimento danni ai sensi dell'art. 2043 c.c. in edificio condominiale - responsabilità dell'amministratore MOTIVAZIONE 1. (...) comproprietari di un appartamento con annesso garage al piano terra sito in Padova, (...) facente parte del complesso di abitazioni denominato "Condominio (...)", amministrato da (...) espongono che il 19 dicembre 2019 si accorgevano dell'improvviso allagamento del loro garage. L'acqua scendeva abbondante a rivoli dal soffitto e si riversava all'interno del box, inzuppando i beni in esso contenuti, quali attrezzi dei figli, vestiti, scarpe ed effetti personali nonché una moto Harley Davidson. (...) cercava di porre al riparo i propri beni e avvertiva l'amministratore del Condominio (...), nonché i proprietari dell'appartamento sovrastante (...) e (...). Dopo alcuni giorni, gli attori scoprivano che le infiltrazioni d'acqua erano state generate dalla rottura di una tubazione idrica (lo scarico della vasca da bagno) dell'appartamento posto al piano superiore di proprietà dei predetti (...) e (...) riparata da una squadra di idraulici inviata dall'amministratore (...). Quest'ultimo li rassicurava, informandoli che avrebbe aperto un sinistro sulla polizza condominiale che presentava garanzia sottoscritta a tutela dei danni da acqua condotta al fabbricato e al contenuto delle singole unità abitative e che quindi nulla vi era da preoccuparsi per quanto concerneva il ristoro dei danni subiti. La Compagnia di assicurazione (...), a seguito della denuncia dell'amministratore del Condominio, apriva il sinistro n. (...) e veniva eseguito il sopralluogo esplorativo da parte del perito incaricato. Tuttavia, la stessa Compagnia, con raccomandata del 2.10.2020, comunicava il diniego dell'indennizzo in quanto la polizza decorreva solo dalle ore 24 del 20.12.2019. Gli attori venivano in tal modo a sapere che l'amministratore non aveva adempiuto a quanto deliberato dall'assemblea del 23.10.2019 di approvazione del bilancio preventivo di gestione ordinaria dall'1.07.2019 al 30.06.2020, ove era stata prevista la voce di spesa per la stipula (rectius rinnovo) dell'assicurazione polizza globale fabbricati. Ciò premesso, (...) e (...) hanno convenuto in giudizio sia (...) e (...) (...) sia (...), per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti, quantificati in complessivi euro 15.000,00. (...) e (...) resistono ed hanno chiesto di essere manlevati da (...) chiedendo anche la sua condanna al pagamento delle spese condominiali poste a loro carico nei bilanci 2019/2020 e 2020/2021 sempre per il ripristino delle parti comuni e private necessitato dalla predetta perdita d'acqua per la complessiva somma di euro 1.595,00, oltre ad euro 697,60 per spese di mediazione, chiedendo che l'accertamento fosse effettuato anche nei confronti del Condominio, che è stato così chiamato in causa, rimanendo contumace. Anche (...) resiste. La causa è stata istruita mediante l'assunzione delle deposizioni dei testi (...), (...) (v. udienza 28.02.2023), e con il deposito di ctu estimativa dei danni del p.i. (...). Precisate le conclusioni e scaduti i termini previsti dall'art. 190 c.p.c., la causa passa ora in decisione. 2. Dalle concordi deposizioni di (...) e di (...) risulta che la perdita d'acqua è stata causata dalla vasca del sovrastante appartamento dei convenuti (...) (...) e (...) Il danno è stato dal ctu quantificato in complessivi euro 5.266,40 (iva compresa). (...) e (...) vanno pertanto condannati in solido a pagare tale somma agli attori (...) e (...). 3. Sussiste anche la responsabilità dell'amministratore (...) poiché è pacifico che egli non ha provveduto a stipulare l'assicurazione deliberata dall'assemblea il 2223.10.2019. Non ha alcuna rilevanza che (...) e (...) fossero morosi nel pagamento delle spese condominiali, né che l'assicurazione fosse destinata a coprire anche parti private dei singoli condomini. Nessuna di tali circostanze esimeva l'amministratore dall'adempiere a quanto deciso dall'assemblea condominiale, come conferma il fatto che il giorno dopo il sinistro l'amministratore ha provveduto a stipulare la polizza richiesta. 4. Lo stesso amministratore (...) deve tenere indenne anche i predetti convenuti, in quanto anche nei loro confronti è inadempiente all'obbligo di stipulare la polizza nascente dalla cit. delibera condominiale. Egli deve anche restituire loro la somma di euro 1.595,00 dagli stessi pagata quali spese condominiali a loro addebitate sempre a causa della predetta perdita d'acqua, senza che rilevi la mancata attivazione della mediazione (v. Cass., sez. un., 7.02.2024, n. 3452), né il fatto che (...) e (...) con abbiano impugnato i bilanci 2019/2020 e 2020/2021 che tali spese hanno approvato, poiché si tratta di res inter alios. 5. Si impongono quindi le declaratorie di cui in dispositivo. Le spese di giudizio, comprese quelle di ctu, seguono la soccombenza. P Q M definitivamente pronunziando, condanna (...) e (...) nonché (...) tutti in solido, a pagare a (...) e (...) la complessiva somma di euro 5.266,40 con interessi legali dalla data odierna al saldo, oltre agli interessi legali sulla stessa somma, devalutata alla data del 19.12.2019 e quindi rivalutata anno per anno sulla base degli indici Istat. Condanna (...) tenere indenne (...) e (...) a quanto saranno costretti a pagare a (...) e (...) per capitale, interessi e spese. Condanna inoltre (...) a pagare a (...) e (...) la complessiva somma di euro 1.595,00 con interessi legali dalla prima messa in mora al saldo. Condanna (...) e (...) e (...) in solido, a rifondere a (...) e (...) le spese di giudizio, liquidate in euro 237,00 per spese ed euro 5.077,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge e spese generali. Condanna (...) a rifondere a (...) e (...) le spese di giudizio (comprensive della fase della mediazione), liquidate in euro 98,00 per spese ed euro 5.077,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge e spese generali. Pone infine le spese di ctu definitivamente a carico di (...). Padova, 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1013 del 2020, proposto da As. S.p.A. in proprio e nella qualità di mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Di Vi. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe. Ca. e Gr. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fe. Ca. in Roma, via (...); contro Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. St. e Ma. Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Sa. De. in Roma, p.zza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Prima, 24 ottobre 2019, n. 795, n. 795, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cip Sassari Consorzio Industriale Provinciale di Sassari; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società As. S.p.a. chiede la riforma della sentenza del T.a.r. per la Sardegna 24 ottobre 2019, n. 795, che ha respinto il suo ricorso per l'accertamento dell'inadempimento, da parte del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, di un contratto relativo all'esecuzione di lavori, con la conseguente risoluzione dello stesso e la condanna del Consorzio al risarcimento del danno da inadempimento o, in via subordinata, a titolo di responsabilità precontrattuale. 1.1. Come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, il Consorzio (già Consorzio per l'Area di Sviluppo Industriale di Sassari - Porto Torres - Alghero) aveva indetto un appalto concorso per la progettazione e costruzione delle infrastrutture relative alla zona di (omissis). Nella lettera di invito si prevedeva che l'importo dei lavori a "forfait globale chiuso" non potesse superare £ 150.000.000.000 (IVA esclusa) e si specificava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso", per cui "soltanto dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessione edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". 1.2. Con delibera n. 3398 del 22 giugno 1989 era stata adottata l'aggiudicazione provvisoria in favore del raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Di. S.p.a. (odierna As. S.p.a.), specificando espressamente che l'aggiudicazione sarebbe diventata definitiva "solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere", le quali sarebbero state divise in stralci da affidare con successivi contratti, in base ai finanziamenti progressivamente ricevuti. Il che si verificò regolarmente almeno fino alla nota del 2 maggio 2006, prot. n. 1550/5/06, con la quale il Consorzio comunicava al raggruppamento As. la propria volontà di ritirarsi dall'appalto concorso "per contrasto con norme imperative inderogabili e, comunque, per non inidoneità a garantire il corretto perseguimento dell'interesse pubblico attuale". 1.3. Avverso la determinazione del Consorzio, il raggruppamento dapprima si rivolse al giudice ordinario e, successivamente (a seguito della sentenza della Corte di Appello di Cagliari, sezione staccata di Sassari, 26 ottobre 2012, n. 319, che - in riforma della sentenza del tribunale ordinario di Sassari - declino la giurisdizione in favore del giudice amministrativo; e a seguito, anche, della pronuncia della Corte di cassazione, SS.UU. civili, 4 luglio 2017, n. 21199, che ha dichiarato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto da As.) ha radicato il giudizio innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, che ha rigettato integralmente le domande risarcitorie proposte dal R.T.I. As.. 1.4. Il primo giudice - trattenuta la giurisdizione in base alla considerazione che l'oggetto del contendere riguardasse il mancato affidamento al RTI As. dei lavori successivi al quarto stralcio, cioè un profilo relativo alla fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale - ha ritenuto infondate tutte le domande della ricorrente sull'essenziale assunto che la lettera di invito, così come le corrispondenti clausole dei contratti relativi ai primi quattro stralci di lavori, e prima ancora la deliberazione del 22 giugno 1989, n. 338 (in cui si precisava che l'aggiudicazione definitiva sarebbe intervenuta solo con il perfezionarsi dei singoli finanziamenti), erano chiare nel considerare "non immediatamente impegnativo" per il Consorzio, rispetto ai singoli lavori in progetto, l'originario rapporto di appalto concorso; e pertanto - come già osservato - non si è mai perfezionato un rapporto contrattuale per la generalità dei progetti facenti parte dell'appalto concorso. Anche la domanda avente ad oggetto la responsabilità precontrattuale è stata rigettata, sia per la genericità della sua formulazione, sia perché - in ragione della loro qualificazione professionale - non sussisterebbe un affidamento incolpevole delle imprese ricorrenti. 2. La società As., rimasta soccombente, ha proposto appello sostanzialmente reiterando i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Consorzio Provinciale di Sassari, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza in quanto il primo giudice avrebbe errato non solo a non rimettere la questione di giurisdizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sollevando conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a., ma anche ad affermare che la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva amministrativa. Ribadisce che la vicenda non riguarda la fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale, come erroneamente asserito nella sentenza, ma attiene alla fase di esecuzione del contratto posto che la procedura di appalto-concorso indetta dal Consorzio si è conclusa con l'aggiudicazione definitiva della intera progettazione ed esecuzione dei lavori, con la sola condizione che l'esecuzione fosse subordinata alla acquisizione dei finanziamenti. 4.1. Il motivo è infondato. 4.. Come meglio emergerà nel corso dell'esame delle domande risarcitorie, l'appalto concorso indetto con bando dell'8 aprile 1989 e contestuale lettera di invito, si è concluso con la sola aggiudicazione provvisoria, sulla scorta di quanto previsto dalla lex specialis la quale espressamente precisava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso"; soltanto "dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessine edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". La deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), ha correttamente dato atto delle conseguenze derivanti dalle predette norme di gara, dichiarando l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", che "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 4.3. Pertanto la controversia instaurata dalla As. ha per oggetto la fase dell'affidamento di un contratto di appalto di lavori (parte del più ampio progetto di lavori), che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, del codice del processo amministrativo. 5. Con il secondo motivo, l'appellante censura la sentenza anche nella parte in cui ha rigettato la domanda di accertamento dell'inadempimento e della conseguente responsabilità contrattuale del Consorzio industriale e risarcimento del danno, sostenendo la inesistenza di un vincolo contrattuale tra le parti. Reitera gli argomenti con i quali ha sostenuto che dall'aggiudicazione dell'appalto concorso discendeva l'affidamento di tutta l'opera oggetto della gara. In particolare, la procedura indetta ed aggiudicata dal Consorzio riguardava la progettazione e la realizzazione dell'intera opera, ferma restando la circostanza che la fase esecutiva sarebbe proseguita per stralci dopo il recepimento dei necessari finanziamenti. La stessa lettera di invito precisava inoltre che l'aggiudicataria "dovrà consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Dunque, la lettera di invito non indicava solo che l'opera era priva di finanziamento e che si sarebbe proceduto per stralci, ma anche che oggetto dell'affidamento era costituito dalla progettazione e che il progetto presentato dal vincitore sarebbe stato utilizzato dal CONSORZIO "come cosa propria" per ottenere i finanziamenti necessari all'attività esecutiva. 5.1. In tale prospettiva chiede la corresponsione anche dello specifico compenso per il progetto divenuto di proprietà del Consorzio, che non sarebbe stato interamente pagato (pagamento che era previsto in occasione dell'affidamento dei diversi stralci). 5.2. Sotto altro profilo, l'appellante richiama anche l'art. 33 del Capitolato speciale di appalto (sul deferimento alla competenza arbitrale per le controversie che dovessero sorgere fra la Direzione dei Lavori e l'Appaltatore), osservando come il fatto che il Consorzio si sia sempre difeso, tra l'altro, richiamando la competenza arbitrale prevista dal richiamato art. 33 del capitolato speciale di appalto, presuppone il perfezionamento del vinculum iuris e quindi si controverta in materia di diritti soggettivi (art. 12 del Codice del processo amministrativo), posto che il collegio arbitrale non potrebbe essere chiamato a definire controversie che attengono a interessi legittimi. In tal modo il Consorzio avrebbe mostrato di essere consapevole della definitività dell'intero affidamento e, dunque, del vinculum iuris tra le parti. 5.3. Col terzo motivo, in via subordinata l'appellante impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto la domanda di condanna del Consorzio alla stipula del contratto, ai sensi dell'art. 2932 del codice civile, che troverebbe la sua base giuridica nella clausola dei contratti stralcio (articolo 5) successivi alla iniziale aggiudicazione dell'appalto concorso, che contempla l'espresso impegno a completare la realizzazione dei restanti lotti, concretizzando l'obbligo a contrarre in capo alla stazione appaltante, condizionato al mero ottenimento dei finanziamenti regionali. Il Consorzio sarebbe venuto meno anche all'obbligo di esecuzione in buona fede (art. 1375 c.c.), omettendo di chiedere i finanziamenti necessari, il che giustifica la domanda di esecuzione in forma specifica, per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non stipulato. L'appellante, peraltro, precisa che con la sentenza ex art. 2932 il giudice dovrebbe, per un verso, accertare l'esistenza del contratto e, per altro verso, successivamente, dichiararlo risolto per inadempimento imputabile al Consorzio, condannando quest'ultimo al risarcimento dei danni da inadempimento subiti dalla società appellante. In alternativa, il giudice potrebbe limitarsi a disporre direttamente il risarcimento per equivalente, per l'impossibilità della realizzazione dell'opera per fatto e colpa del Consorzio. 5.4. In via ulteriormente subordinata, l'appellante ritiene che il primo giudice abbia errato nel rigettare la domanda per l'accertamento della responsabilità precontrattuale del Consorzio, ai sensi dell'art. 1337 del codice civile, i cui principi di correttezza e di buona fede sarebbero stati palesemente violati dall'amministrazione appaltante. 6. Le diverse questioni sollevate con gli articolati motivi sopra esposti si prestano a una trattazione unitaria, considerato che le conseguenze tratte dall'appellante prendono le mosse dall'unico assunto secondo cui dal bando di gara e dalla lettera di invito, o - anche - dai tre contratti stralcio stipulati, sorgesse il vincolo contrattuale definitivo o quantomeno quel vincolo preliminare idoneo a costituire l'obbligo del Consorzio (coercibile ex art. 2932 c.c.) a concludere il contratto definitivo. 6.1. I motivi sono infondati. 6.2. Quanto alla inesistenza di un rapporto contrattuale discendente direttamente dal bando di gara e dalla lettera di invito all'appalto concorso, è sufficiente richiamare le condivisibili argomentazioni spese dal primo giudice, il quale ha correttamente rilevato come le norme di gara escludevano chiaramente ogni impegno contrattuale dell'amministrazione, se non a seguito della acquisizione dei finanziamenti per l'esecuzione dei lavori dei singoli lotti e della stipula dei relativi contratti di appalto (eventualità che si è puntualmente verificata per i tre stralci affidati al raggruppamento As.). 6.3. Conseguenza che era facilmente evincibile anche dalla piana lettura della deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), che ha dichiarato l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", precisando che detta aggiudicazione "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 6.4. Oltre alle argomentazioni di cui in sentenza, milita a favore della inesistenza di un vincolo contrattuale anche la previsione contenuta nella lettera di invito (su cui si sofferma insistentemente l'appellante) secondo cui l'impresa risultata aggiudicataria avrebbe dovuto "consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Al contrario di quanto sostenuto dall'appellante, appare evidente che una clausola del genere non sarebbe stata necessaria in caso di aggiudicazione definitiva, che implica - nel caso di gara di appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori - l'acquisizione (a titolo di proprietà ) della progettazione, oltre che delle opere realizzate in appalto. Anche nel testo del primo contratto stralcio (testo ripreso anche nei successivi contratti stralcio), stipulato sulla base della delibera del Consorzio n. 4485 del 20 marzo 1992 (ove si precisava che "la realizzazione dei lavori relativi all'intero progetto dovrà essere affidata all'aggiudicataria Associazione Temporanea sopra citata, previa aggiudicazione dei singoli futuri stralci quando verranno ammessi a finanziamento") si ribadisce che l'associazione di imprese è (solo) aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso, essendo l'aggiudicazione definitiva (e quindi il contratto) subordinata "all'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto". 6.5. Si osservi, inoltre, che ogni contratto stralcio stipulato è stato preceduto dalla deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio che, preso atto del finanziamento acquisito, ha disposto l'aggiudicazione definitiva al raggruppamento As.. 6.5. Ne deriva, inoltre, che, per via della suddivisione in stralci successivi, anche gli oneri di progettazione venivano compensati nell'ambito del contratto esecutivo (ciò trova conferma anche nella clausola sopra citata in base alla quale il progetto scaturito dall'appalto concorso non diventa per ciò solo di proprietà del Consorzio ma questo può utilizzarlo - con l'espresso consenso dell'impresa - solo per le domande di finanziamento; pertanto non spetta il compenso per l'attività di progettazione preteso dall'appellante). 6.6. Ne deriva come conseguenza che è infondata la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento imputabile al Consorzio. 7. Anche la domanda di esecuzione in forma specifica è infondata, per le medesime ragioni: ossia per l'assenza di una base giuridica dalla quale desumere un obbligo del Consorzio di addivenire alla stipula del contratto definitivo. Anche il riferimento alla violazione degli obblighi di buona fede nell'esecuzione del contratto appare genericamente dedotto, emergendo dalla documentazione in atti l'attività svolta dal Consorzio per reperire i vari finanziamenti regionali necessari. 8. In tale contesto, va esclusa anche la responsabilità del Consorzio a titolo precontrattuale, non riscontrandosi un affidamento incolpevole tutelabile in capo all'appellante, anche in considerazione della elevata qualificazione professionale delle imprese coinvolte, come già rilevato dal primo giudice. 9. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 10. La disciplina delle spese giudiziali segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del presente grado in favore del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BOLOGNA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del giudice Antonio Costanzo, ha pronunciato, dopo discussione orale ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile n. 7918/2023 R.G. promossa da F_M. ((...)) ((...)); - ATTORE contro GS (..) (..); - CONVENUTA Oggetto: obbligazioni. CONCLUSIONI Per l'attore opponente: "NEL MERITO: - REVOCARE il decreto opposto perché infondato in fatto e diritto per le ragioni esposte in narrativa; - DICHIARARE la non esigibilità del credito ex adverso azionato con il monitorio opposto, in quanto, per i motivi esposti in narrativa, inesistente e pertanto non dovuto; - CONDANNARE la convenuta - opposta al risarcimento del danno ex Art. 96 C.P.C. per il tenuto contegno profondamente lesivo dei principi di buona fede contrattuale che devono animare le parti nonché per l'evidente abuso in mala fede e con colpa grave dello strumento processuale; - Con vittoria di spese e compensi di lite dei quali i difensori si dichiarano distrattari. IN VIA ISTRUTTORIA: Previa remissione della causa in istruttoria, chiede ammettersi prova per testi sui capitoli tutti, nessuno escluso, di cui alla narrativa dell'atto di citazione in opposizione da ritenersi qui integralmente riportati in forma positiva - espunti giudizi e valutazioni -preceduti dalla locuzione "vero che". Chiede, inoltre, chiedersi prova testimoniale sui seguenti capitoli di prova: 1) "vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"; 2) "vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."; 3) "vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n.5 di parte opponente"; 4) "vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro". Si indicano come testi i signori: - B. F., Bologna; - D. Gherardi, Bologna; - F. M., Bologna" Per la convenuta opposta: "Il patrocinio dell'opposta G., facendo seguito alle deduzioni già all'udienza del l'08.5.24 precisa le conclusioni come in memoria di replica istruttoria ex art. 183 c. 6 n. 3 c.p.c. ed in comparsa di costituzione, segnalando che è emersa in sede istruttoria la percezione da parte G. di Euro 3.925,70 - a seguito della vendita forzata dell'abitazione familiare di proprietà di controparte F. nella procedura r.g.e. Trib. Bo. 754/17- che va decurtata dalla sorte indicata nelle conclusioni della comparsa di costituzione di parte G., sorte pretesa che, pertanto, da Euro 40.000 originari è ora pari ad Euro 36.074,30. Peraltro, si segnala che alcuna attività di esecuzione si è compiuta in ragione del decreto ingiuntivo opposto che è immediatamente esecutivo. Inoltre, si evidenzia che proceduralmente ed ai fini dell'accoglimento delle domande di parte opposta Sig.ra G., si ritiene - e si conclude - che il decreto opposto da controparte vada revocato da sentenza che accolga le richieste di parte opposta Sig.ra G. recante solo l'importo di Euro 36.074,30 - invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Si richiamano la conclusioni di cui alla comparsa di risposta: "Per l'ingiungente G. (oggi convenuta) si rassegnano, pertanto, le seguenti conclusioni: - rigettare ogni avversa difesa ed istanza, anche con conferma dell'ingiunzione opposta da controparte, subordinatamente con condanna dell'opponente F. (attore nella presente fase di causa) di corrispondere a parte opposta G. (ingiungente nella monizione per cui è il presente giudizio) Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria); - in ogni caso: con ogni più ampia riserva, vinte le spese di lite e con richiesta di liquidazione dell'attività per gratuito patrocinio nella misura ritenuta di legge dal Giudice in favore dell'Avv. P. M. patrocinatore di parte G., nonché con condanna di controparte per responsabilità aggravata, anche per le affermazioni palesemente contraddittorie e la rilettura degli atti non conforme al contenuto degli stessi con rimessione a giustizia circa la relativa misura". MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Richiamati atti e documenti di causa, noti alle parti; rilevato che l'attore non ha fornito prova scritta a sostegno dell'opposizione; esaminate le conclusioni finali in epigrafe trascritte; si osserva quanto segue. 2. L'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 esecutivo ex art. 642 c.p.c. (emesso, su ricorso depositato il 1 dicembre 2022 che non risulta preceduto la richiesta stragiudiziale, per la somma capitale di euro 40.000,00 oltre accessori) proposta da M. F. con citazione notificata via PEC il 30 maggio 2023 all'ex coniuge S. G. (costituitasi il 27 luglio 2023), va respinta per infondatezza dei motivi dedotti dall'opponente, benché il decreto opposto vada revocato come richiesto, da ultimo, dalla stessa convenuta, avendo essa dato atto, esaurita l'istruttoria, che il debito era inferiore a quello oggetto di ricorso (si richiamano in proposito le conclusioni finali della convenuta). 2.1. La domanda monitoria proposta dall'odierna convenuta si fonda sulla scrittura privata 8 giugno 2020, recante riconoscimento di debito da parte dell'odierno attore e nella quale si legge: "(...) PREMESSO IN FATTO - che nell'ambito della separazione consensuale omologata il 7 luglio 2017 tra i coniugi F. e G. gli stessi pattuivano che: - la figlia della coppia, B., sarebbe stata collocata presso la madre nella casa familiare di X, Via ...4; - il sig. F. avrebbe versato un mantenimento per la figlia di Euro 300 mensili; - Nell'ipotesi di trasferimento a Bologna di moglie e figlia il F., alla data del trasferimento dalla casa coniugale si obbliga a trasferire l'usufrutto a S. G. per una durata non inferiore a 5 anni (clausola 11a verb. Sep), con diritto della Signora G. di locare l'appartamento a terzi (clausola 11c verb. Sep) e, a decorrere dal percepimento dei canoni di locazione il F. avrebbe cessato di corrisponderle l'importo di Euro 300,00 mensili, o a versare la differenza tra il canone percepito e l'importo di Euro 300,00 qualora l'importo del canone percepito fosse stato inferiore (clausola 11c verb. Sep); - in esecuzione dei predetti accordi raggiunti in sede di separazione, F. cedeva gratuitamente e trasferiva a S. G. l'usufrutto vitalizio sulla casa familiare per la durata di anni 8 in data 8 agosto 2017; - successivamente il sig. F. subiva il pignoramento immobiliare n. 754/2017 promosso da Intesa San Paolo Group per mancato pagamento delle rate del mutuo contratto per l'acquisto della casa familiare. Nell'ambito della procedura l'immobile è stato venduto mediante asta giudiziaria ed attualmente è fissata udienza, al 26.6.20, per la precisazione del credito e distribuzione delle somme; - a partire dal 2018 il sig. F., assieme alla figlia B. , si trasferiva nella casa locata dalla nonna paterna, in Via ... , provvedendo dunque lo stesso al mantenimento diretto della figlia, presso di lui collocata; - la signora G., nel mese di novembre/dicembre 2019 sporgeva denuncia ai danni del sig. F. per mancato pagamento dell'assegno di mantenimento della figlia B. e notificava al sig. F. atto di precetto per il pagamento, a titolo di mantenimento, della somma di Euro 10.709,38 che non veniva opposto; - successivamente la signora G. interveniva nel pignoramento immobiliare per la predetta somma privilegiata, oltre che alla somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto. Tutto ciò premesso - il signor F. si impegna a non opporsi alla precisazione del credito della moglie; - il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200; - il sig. F. si impegna a versare alla moglie, entro il giorno 5 di ogni mese sul di lei conto corrente, a partire dal corrente mese di giugno - qualora egli non l'abbia già fatto - la somma di Euro 300 mensili a titolo di mantenimento in favore della stessa sino a che la moglie non avrà reperito una attività lavorativa che le consenta l'autosufficienza; - la signora G. si impegna a ritirare immediatamente la querela presentata ai danni del sig. F., rinunciando sin da ora a costituirsi parte civile in un eventuale procedimento penale nei confronti del marito per le circostanze denunciate". 2.2. Come pacifico in atti e riscontrato dai documenti acquisiti: a) in attuazione dei patti raggiunti in sede di separazione consensuale (verbale 7 giugno 2017) omologata con decreto 7 luglio 2017, con atto redatto dal notaio P. M. data 3 agosto 2017 denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" l'attore aveva costituito in favore della convenuta "a titolo gratuito" l'usufrutto per la durata di (almeno) otto anni sull'immobile in X già adibito a casa familiare ("(...) F. M., in esecuzione dei predetti accordi in sede di separazione, cede e trasferisce a titolo gratuito a G. S. che accetta ed acquista l'usufrutto per la durata di anni 8 (otto) da oggi o se successivo a detto termine fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della figlia minore F. B., della porzione di villetta trifamiliare (...)"): l'immobile era gravato da ipoteca iscritta il 17 novembre 2003 a garanzia di mutuo concesso all'attore da un istituto bancario di originari euro 120.000 (come si legge nell'atto notarile 3 agosto 2017, "F. M. dichiara che sull'immobile in oggetto grava l'ipoteca (...) che la parte acquirente dichiara di tollerare, ben sapendo che, ai sensi e alle condizioni di cui agli artt. 2858 c.c. e seguenti, in caso di mancato pagamento del debito garantito la Banca può promuovere esecuzione forzata sul bene acquistato col presente atto"); b) nel novembre 2017 su iniziativa del creditore ipotecario l'immobile in X già adibito a casa familiare, e sul quale era stato costituito l'usufrutto in favore di S. G., è stato colpito da pignoramento (doc. 9 di parte convenuta): come riportato anche nella scrittura privata 8 giugno 2020, nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. contro M. F. è intervenuta anche l'odierna convenuta sia quale creditrice di somme a titolo di concorso nel mantenimento della figlia (per tale credito al debitore era stato notificato precetto non opposto) sia quale titolare di diritto di usufrutto sull'immobile pignorato (art. 2812 c.c.; v. anche la proposta di piano di riparto 15 giugno 2020 elaborata dall'esperto contabile ausiliario del giudice dell'esecuzione, doc. 6 di parte attrice); c) la prima udienza per l'autorizzazione alla vendita nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. si è tenuta l'11 marzo 2019; la scrittura privata 8 giugno 2020 è stata sottoscritta dalle parti dopo la vendita forzata dell'immobile pignorato (il decreto di trasferimento era stato il 12 marzo 2020) e prima dell'udienza 26 giugno 2020 fissata per la precisazione dei crediti e la distribuzione del ricavato; con ordinanza 2 luglio 2020 il giudice dell'esecuzione ha dichiarato esaurita l'esecuzione immobiliare e ha ordina il pagamento delle somme come da progetto di distribuzione 15 giugno 2020, progetto che, per quanto qui rileva, prevedeva, una volta soddisfatti i crediti in prededuzione ed il credito assistito da ipoteca, l'attribuzione a S. G. della residua somma di euro 3.925,70 a parziale compensazione della perdita dell'usufrutto il cui valore era stato quantificato nel progetto di distribuzione in euro 72.000,00. Dalla lettura degli atti qui richiamati appare evidente che l'obbligazione assunta dall'attore verso la convenuta con la scrittura privata 8 giugno 2020 era volta a compensare la perdita economica subita da S. F. a seguito dell'estinzione dell'usufrutto costituito in suo favore solo pochi mesi prima del pignoramento (art. 2812, comma 2, c.c.). L'accordo documentato dalla scrittura privata ha natura transattiva in quanto, come si legge nelle premesse del testo, la convenuta era già intervenuta nell'esecuzione immobiliare affermandosi creditrice della "somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto". Più che eloquente il passaggio in cui si afferma che "il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200", mentre l'inadempimento dell'attore ha determinato la decadenza dal beneficio del termine (in tal senso v. il ricorso per decreto ingiuntivo). 3. A sostegno dell'opposizione l'attore deduce la simulazione assoluta dell'accordo di cui alla scrittura privata 8 giugno 2020 perché "attesta un debito totalmente inesistente"; solleva eccezione di inadempimento adombrando una risoluzione per inadempimento della conventa: deduce la nullità dell'accordo sotto vari profili (illiceità della causa; frode alla legge; illiceità del motivo). 4. Così come proposta dall'attore, la prova per testi non può essere accolta, considerati le questioni controverse ed il fondamento della domanda monitoria: il capitolo 1 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"); il capitolo 2 è generico e inammissibile nella parte in cui contrasta col tenore dell'accordo 8 giugno 2020 ("vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."); il cap. 3 è irrilevante e inammissibile nella parte in cui si pone in collegamento col capitolo precedente ("vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n. 5 di parte opponente"); il cap. 4 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro"). 5. Non vi è alcuna prova (l'attore non l'ha fornita, art. 1417 c.c.) dell'accordo simulatorio sottostante alla scrittura privata 8 giugno 2020 posta a base del ricorso per decreto ingiuntivo e che, invero, richiama, ponendosi con essi in relazione, i patti conclusi in sede di separazione consensuale, l'atto attuativo 3 agosto 2017, le vicende relative all'esecuzione forzata sull'immobile già adibito a casa familiare. L'eccezione di simulazione assoluta è infondata. Da un lato, manca la prova dell'accordo simulatorio; dall'altro, sono pacifici i fatti posti a fondamento del credito della convenuta (in sintesi, l'estinzione del diritto di usufrutto per effetto dell'espropriazione immobiliare subita dall'attore, art. 2812 c.c.) il cui ammontare è stato definito dalla parti in via transattiva nella misura di euro 40.000,00. 6. L'opponente non ha provato fatti idonei a giustificare la risoluzione dell'accordo consacrato nella scrittura privata 8 giugno 2020: da un lato, non vi è alcun immediato nesso di corrispettività tra l'obbligazione assunta da M. F., previo riconoscimento del proprio debito nella misura di euro 40.000,00 "a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa (G., n.d.r.) patito", e l'impegno di S. G. a ritirare la querela presentata (pare a fine 2019) nei confronti dell'allora marito, essendo oltretutto pacifico che l'inadempimento di M. F. rispetto alle obbligazioni verso l'istituto bancario e la espropriazione immobiliare n. 754/17 R.G.E. hanno determinato l'estinzione del diritto di usufrutto, inopponibile al creditore ipotecario (Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. n. 3722), che era stato costituito in favore di S. G. per la durata di otto anni con l'atto pubblico 3 agosto 2017 a ministero notaio P. M. denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" (in altri termini, in sede di separazione consensuale, come da verbale 7 giugno 2017 omologato il 7 luglio 2017, M. F. aveva assunto una obbligazione attuata con l'atto pubblico 3 agosto 2017 ma di fatto il suo inadempimento verso l'istituto di credito, poi pignorante in forza di credito garantito da ipoteca iscritta nel 2003, ha precluso all'avente diritto S. G. la possibilità di godere dell'immobile in X già casa familiare); dall'altro, è pacifico che S. G., in conformità all'impegno assunto con la scrittura 8 giugno 2020, non si è costituita parte civile nel processo penale contro M. F., processo (n. 5530/20 R.G.N.R. - n. 1662/22 R.G. dibattimento) definito con sentenza di assoluzione sul presupposto che l'inadempimento di obbligazioni civili non integra di per sé gli estremi del reato di cui all'art. 570-bis c.p. (già art. 12-sex/'es, l. n. 898/1970) in relazione all'art. 570 c.p. (la sentenza Trib. Bologna, 27 febbraio - 28 marzo 2023 n. 965 è irrilevante in questa sede, tanto più che l'oggetto della presente causa non riguarda l'omesso versamento dell'assegno dovuto dal padre a titolo di contributo per il mantenimento della figlia come da accordi di separazione), mentre non vi è ragione di contestare all'odierna convenuta l'omessa rimessione di querela (le premesse della scrittura privata 8 giugno 2020 fanno riferimento ad una denuncia, la sentenza penale n. 965/2023 parla sia di querela presentata l'8 gennaio 2020 che di denuncia querela) perché condotta del tutto ininfluente rispetto all'esercizio dell'azione penale quando, come nel caso di specie, si verta in ipotesi di reato procedibile d'ufficio (cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio - 24 febbraio 2020, n. 7277). 7. La questione relativa al contributo al mantenimento della figlia (nata il 7 maggio 2000, dunque ormai maggiorenne al tempo della scrittura 8 giugno 2020) non ha alcuna attinenza con l'obbligazione dedotta in giudizio, sorretta da una causa del tutto autonoma e meritevole di tutela, inerente al mancato godimento da parte della convenuta del diritto che l'attore le aveva riconosciuto in sede di separazione consensuale e volta appunto alla compensazione di quel mancato godimento mediante il pagamento di una somma di denaro (concordato nella misura di euro 40.000,00) di cui M. F. si è dichiarato debitore (v. supra; v. anche il verbale dell'udienza 2 marzo 2023 nel giudizio divorzile 14033/2022 R.G.). 8. Non vi è alcuna nullità dell'accordo sottostante l'impegno assunto da M. F. con la predetta scrittura 8 giugno 2020, accordo che trae origine dall'avventa estinzione del diritto di usufrutto alla costituzione del quale l'attore si era impegnato già in sede di separazione consensuale. 9. In conclusione, l'opposizione, così come proposta dall'attore, è infondata. 10. In comparsa di costituzione la convenuta ha chiesto la conferma del decreto ingiuntivo opposto o in subordine la condanna dell'attore al pagamento della somma di "Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria)". Nelle conclusioni finali la convenuta ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo e la condanna dell'attore al pagamento di una somma inferiore a quella oggetto di ingiunzione. Nell'esecuzione immobiliare n. 754/17 R.G.E., a seguito della vendita forzata (il decreto di trasferimento è stato emesso il 12 marzo 2020) e dell'approvazione del piano di riparto con ordinanza 7 luglio 2020 del giudice dell'esecuzione, la convenuta aveva ricevuto una somma di denaro (euro 3.925,70) a parziale soddisfacimento del credito da essa vantato in relazione all'estinzione del diritto di usufrutto. Come si legge nelle conclusioni finali, la convenuta chiede la revoca del decreto ingiuntivo con sentenza che condanni l'attore a pagare "solo l'importo di Euro 36.074,30 -invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Ne conseguono, da un lato, la revoca del decreto ingiuntivo limitatamente ai capi relativi all'ingiunzione di pagare "la somma di Euro 40.000,00" (capo 1) e "gli interessi come da domanda" (capo 2) (nel ricorso era chiesto il pagamento della "somma complessiva di Euro 40.000 oltre agli interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione sino al saldo effettivo"), e non anche la condanna alle spese pronunciata in favore dell'erario (la ricorrente era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato), capo rispetto al quale l'odierna convenuta non ha potere dispositivo; dall'altro, attese le conclusioni finali (che quanto agli accessori richiamano le conclusioni di cui alla comparsa di risposta), la condanna dell'attore al pagamento della somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo. 11. Non vi sono i presupposti per la condanna dell'attore ex art. 96 c.p.c., come invece richiesto dalla convenuta in comparsa di risposta. 12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore dell'erario (artt. 133, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115: "Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato"), in quanto la convenuta è ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato (v., fra le altre, Cass., sez. II, 19 gennaio 2021, n. 777). P.Q.M. Il Tribunale di Bologna in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni diversa domanda, istanza ed eccezione respinta: - rigetta l'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 proposta da F. M. contro G. S.; - revoca il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858; - condanna F. M. a pagare a G. S. la somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo; - rigetta la domanda di condanna ai sensi dell'art. 96 c.p.c. proposta da G. S. contro F. M.; - liquida le spese processuali a carico di F. M. in euro 3.809,00 per compenso, oltre rimborso forfettario 15%, oltra CPA e IVA come per legge. Bologna, 15 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9863 del 2023, proposto da -OMISSIS- S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Ro. e An. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero delle Imprese e del Made in Italy, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Me. Ce. - Banca del Me. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ia., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati An. Ma., An. Gr. e La. Ro., in sostituzione dell'avvocato Gi. Ia.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Con bando pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 32 del 7 febbraio 2002, il Ministero delle Attività Produttive ha indetto una gara concernente servizi per la gestione degli interventi di cui all'articolo 1, lettera b, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28.3.2001, relativo allo sviluppo di imprese di recente costituzione. Mediante tali atti sono stati disciplinati gli interventi finalizzati allo sviluppo di imprese di recente costituzione attraverso la concessione a soggetti intermediari di anticipazioni finanziarie per l'acquisizione di partecipazioni temporanee e di minoranza in nuove imprese, a fronte di programmi di sviluppo di prodotti e servizi nel campo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ivi comprese quelle relative alle applicazioni di rete (web applications), al software innovativo, allo sviluppo dei contenuti multimediali e alla formazione interattiva a distanza. 1.1 - In data 31.1.2006, la società -OMISSIS- S.p.A. (successivamente denominata -OMISSIS- S.p.A.) ha presentato a Me. Ce. S.p.A, in qualità di soggetto gestore della procedura, una domanda di concessione di un'anticipazione finanziaria per l'acquisizione, per conto del fondo Principia al quale appartiene, di una partecipazione nel capitale di rischio di -OMISSIS- s.r.l. (poi denominata -OMISSIS- s.r.l.) al fine di capitalizzare tale ultimo soggetto per un programma pluriennale di sviluppo, consistente nella realizzazione di un impianto per il trattamento e il riciclaggio dei residui provenienti dalla frantumazione degli autoveicoli a fine vita, nonché per la lavorazione, triturazione e separazione dei metalli ferrosi e non ferrosi dalle materie plastiche e dalle sostanze non riciclabili, con recupero degli stessi metalli e successiva immissione in mercato sotto forma di sfere. 1.2 - Medio Credito ha erogato due distinte anticipazioni finanziarie di Euro.1.400.000 e di Euro. 600.000, rispettivamente in data 16.2.2006 e 18.7.2008, e -OMISSIS- ha iniziato la capitalizzazione di -OMISSIS- s.r.l. mediante quattro, progressivi, aumenti di Euro. 1.200.000, di Euro. 600.00 e due da Euro. 400.000, a valere a titolo di MC11 (c.d. "prima anticipazione"). Si è, poi, proceduto alla cd. "seconda anticipazione" (MC45), originariamente determinata in Euro600.000, (con la conseguenza che è stato fissato in Euro.300.000, a valere sull'anticipazione MC45, come erogazione parziale al 50% prevista dalla legge 388/2000), ma, in concreto, erogata in misura parziale per interventi legislativi che hanno inciso sulla distribuzione della misura su altri interventi, nonché per verifiche sul progetto oggetto del finanziamento: il che ha determinato una svalutazione del contributo fino ad Euro172.800. In sostanza, -OMISSIS-, per quanto dalla stessa affermato, a partire dal 2006 ha acquisito quote della -OMISSIS- s.r.l. per complessivi euro 3.450.000, di cui euro 1.725.000, provenienti da anticipazioni ex L. 388/2000 somma da rideterminarsi in euro 1.225.500, in quanto, in data 23.1.2008, la -OMISSIS- aveva ceduto il 16,67% della propria partecipazione per euro 1.000.000, destinando euro 500.000,00 al Ministero delle attività produttive a parziale restituzione delle somme anticipate. 2 - Non sono stati corrisposti al Ministero gli importi previsti dal contratto di cessione a partire dalla prima rata in scadenza e l'appellante ha chiesto l'applicazione delle clausole risarcitorie previste nell'ambito della compravendita della -OMISSIS- s.r.l. e relative garanzie, tenuto conto che questa è stata dichiarata fallita con sentenza n. 65/2014 del Tribunale di Milano. 2.1 - Nel 2013 il legale rappresentante di -OMISSIS- s.r.l. è stato coinvolto in un procedimento penale nell'ambito del quale è stata contestata la commissione dei reati di cui agli artt. 640 bis, 640 e 61 n. 7 del c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e truffa, con l'aggravante di aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità ) sul presupposto che lo stesso avesse indotto in errore l'allora Ministero delle Attività produttive il quale, tramite la -OMISSIS-, aveva erogato a favore della -OMISSIS- un finanziamento complessivo di Euro3.400.000, costituito per il 50% da fondi messi a disposizione attraverso anticipazioni finanziarie ai sensi della legge 388/2000, e che il medesimo avrebbe dirottato gli utili della -OMISSIS- a società a sé riconducibili, così sottraendoli alla distribuzione a favore della -OMISSIS-, cui spettavano per patti parasociali e, per essa, al Ministero finanziatore. Il tutto sulla circostanza pacifica che l'impianto industriale, che si sarebbe dovuto realizzare per mezzo dei predetti fondi, non è mai entrato in funzione. La posizione dell'imputato, nel predetto procedimento, è stata definita con una sentenza di applicazione della pena su richiesta (cd. patteggiamento), emessa dal Tribunale di Milano in data 16.3.2015. 2.2 - L'appellante ha inoltre riferito che, nel 2015, ha agito giudizialmente nei confronti del legale rappresentante di -OMISSIS- s.r.l. ex art. 2935 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dagli atti gestori illeciti e distrattivi dallo stesso posti in essere e che tale procedimento si è concluso con la sentenza del Tribunale di Milano n. 11923/2018, con la quale è stata respinta la domanda, accertandosi la legittimazione attiva della -OMISSIS- limitatamente alla porzione di investimento derivante da fondi propri della medesima -OMISSIS-, non in relazione ai fondi erogati dal Ministero. 3 - Il Ministero, con nota del 30.9.2022 di avvio del procedimento di revoca delle anticipazioni finanziarie precedentemente concesse, ha evidenziato che in conseguenza dei "fatti emersi nell'ambito degli accertamenti istruttori del procedimento penale instaurato innanzi il Tribunale di Milano nei confronti dell'impresa beneficiaria "-OMISSIS- s.r.l. in fallimento" e del legale rappresentante della stessa..." si sarebbero concretizzati "in capo all'impresa beneficiaria e al suo legale rappresentante la mancata realizzazione del progetto nei termini in cui è risultato ammesso all'agevolazione con conseguente sviamento del denaro pubblico. La capacità e la professionalità della -OMISSIS-, unita alle circostanze emerse con la sentenza del Tribunale di Milano, n. 11923/2018, pubblicata il 27/11/2018, ove si conferma che la -OMISSIS- entrava fin dal giugno 2006 nel capitale sociale di -OMISSIS- s.r.l. dopo aver condotto una due diligente durata ben nove mesi, e dunque dovendo essere ben consapevole della rispondenza o meno del progetto effettivo, rispetto a quello previsto per la fruizione dell'intervento agevolativo, implicano che la stessa avrebbe dovuto avvedersi già sul piano tecnico delle richiamate difformità ". Ha, quindi, comunicato che "alla luce delle dette risultanze, appaiono concretizzatisi i motivi di revoca dell'anticipazione erogata di cui al punto 16, rubricato "Revoca delle anticipazioni", delle "Condizioni di ammissibilità e disposizioni di carattere generale per gli interventi di concessione di anticipazioni finanziarie per l'acquisizione di partecipazioni temporanee e di minoranza nel capitale di rischio di imprese di cui agli articoli 103, comma 1, e 106 della legge 23 dicembre 2000, n. 388" adottate dal Ministero Delle Attività Produttive con decreto 19 gennaio 2004 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 23 del 29-01-2004); in particolare, appaiono realizzatisi i motivi per procedere alla revoca dell'anticipazione previsti dai punti 16.1.1, 16.1.3 e 16.1.9, del citato decreto del 19 gennaio 2004, quali rispettivamente: percepimento dell'anticipazione, da parte dei soggetti accreditati, sulla base di notizie, dichiarazioni o dati falsi, inesatti o reticenti; mancata destinazione dell'anticipazione agli scopi previsti dalla legge, dalla normativa di attuazione e dalle disposizioni dello stesso decreto 19 gennaio 2004; qualsiasi violazione od omissione degli obblighi derivanti dalle norme di legge, regolamentari e dall'intera normativa di riferimento in genere". 3.1 - Quindi, con il Decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy prot. n. 0001378 del 2 maggio 2023 è stata disposta la revoca delle anticipazioni finanziarie, pari ad Euro928.393,00 (posizione MC 11) ed Euro325.500,00 (posizione MC 45); e si è disposto il "recupero della cifra complessiva di Euro4.326.012,07 corrispondente alla somma dei seguenti importi: a) importo di Euro928.393,00 relativo alla somma erogata alla ditta -OMISSIS--OMISSIS- in data 16 febbraio 2006 (posizione MC 11); b) importo di Euro325.500,00 relativo alla somma erogata alla ditta -OMISSIS--OMISSIS- in data 18 luglio 2008 (posizione MC 45); c) importo di Euro359.631,47 corrispondente alla maggiorazione, a titolo di interessi, da applicarsi all'importo di cui al punto a) sulla base di quanto previsto dal comma 4, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; d) importo di Euro204.701,60 corrispondente alla maggiorazione, a titolo di interessi, da applicarsi all'importo di cui al punto b), sulla base di quanto previsto dal comma 4, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; e) importo di Euro1.856.786,00 riferito alla pozione MC 11, a titolo di sanzione, sulla base di quanto previsto dal comma 2, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123; f) importo di Euro651.000,00 riferito alla pozione MC 45, a titolo di sanzione, sulla base di quanto previsto dal comma 2, articolo 9, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123". 4 - -OMISSIS- S.p.A. ha impugnato avanti il Tar per il Lazio tale provvedimento. Con successivi motivi aggiunti ha esteso l'impugnazione alla nota del 21.3.2023, con cui Me. Ce. S.p.A., nell'ambito del procedimento di revoca dell'anticipazione finanziaria precedentemente erogata, ha trasmesso al Ministero delle imprese le proprie osservazioni conclusive, secondo quanto previsto al punto 16.3 del DM 16.1.2004, nonché alla nota del 2.5.2023, con cui il predetto Ministero ha riscontrato tale nota. 4.1 - Il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti. 5 - La società originariamente ricorrente ha impugnato tale pronuncia per i motivi di seguito esaminati. 5.1 - Con il primo motivo ("Erronea applicazione dell'art. 34 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Erronea applicazione dell'art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241. Erronea applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c.. Erronea applicazione degli artt. 63 e 64 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Erronea applicazione dell'art. 296 del TFUE. Erronea applicazione dell'art. 41 della Carta Fondamentale dei Diritti dell'Uomo. Violazione del divieto di integrazione postuma della motivazione. Violazione del divieto di ultrapetizione. Difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, incongruità della motivazione, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante rileva che la decisione di rigetto del ricorso di primo grado assunta dal Tar poggia sostanzialmente su un unico elemento e, segnatamente, sulla circostanza che, alle vicende criminose che hanno coinvolto il legale rappresentante della -OMISSIS-, avrebbe partecipato anche l'amministratore delegato di -OMISSIS- S.p.A. fino al 23 luglio 2008. 5.2 - L'appellante evidenzia che dagli elementi versati in giudizio, il Giudice di prime cure avrebbe potuto acquisire contezza del fatto che l'amministratore delegato di -OMISSIS- è stato riconosciuto del tutto estraneo alle vicende criminose in questione, come risulta dalla richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero l'8 dicembre 2013 e dal decreto di archiviazione successivamente emesso in data 8 gennaio 2014. 5.3 - La censura è infondata. La questione del coinvolgimento del legale rappresentante dell'appellante ha una rilevanza trascurabile rispetto all'oggetto del giudizio, costituito dalla revoca del finanziamento. Il Tar si è limitato a dare atto del coinvolgimento del legale rappresentante di -OMISSIS-, come in effetti verificatosi all'inizio del procedimento penale, senza trarre automaticamente da tale circostanza il rigetto del ricorso di primo grado. In questa sede deve darsi atto dell'archiviazione della sua posizione come evidenziato dall'appellante. Come anticipato tale aspetto non è, tuttavia, determinante ai fini della decisione, che deve aver riguardo alla sussistenza dei presupposti dell'atto di ritiro del finanziamento a prescindere dalla specifica posizione assunta dal legale rappresentante del procedimento penale. 6 - Con il secondo motivo ("Violazione, falsa applicazione degli artt. 7 e 10 della L. 7 agosto 1990, n. 241. Violazione, falsa applicazione del punto 16 del D.M. del Ministero delle Attività 25 Produttive del 19 gennaio 2004. Violazione, falsa applicazione dell'art. 97 della Costituzione. Violazione, falsa applicazione dell'art. 24 della Costituzione. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento e correttezza dell'azione amministrativa. Eccesso di potere sotto i profili di difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, carenza di motivazione, contraddittorietà manifesta, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante rileva che in base al decreto del Ministero del 19 gennaio 2004, ai fini della revoca dell'anticipazione, il Comitato di Gestione non può limitarsi - in ossequio ai più basilari e minimali principi di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa - a prendere atto delle osservazioni conclusive formulate dal Soggetto Gestore, essendo piuttosto tenuto a vagliare accuratamente siffatte osservazioni, nonché, in sede di adozione del provvedimento conclusivo, a dare espressamente conto delle valutazioni compiute al riguardo e ad esplicitare le ragioni per cui le abbia ritenute eventualmente fondate. Secondo l'appellante, tanto MCC, all'atto della formulazione delle osservazioni conclusive, quanto il Ministero, all'atto della adozione del Provvedimento, avrebbero agito in violazioni di tali principi. Nello specifico, il Soggetto Gestore ha proceduto a segnalare che "la motivazione da porre a fondamento del provvedimento definitivo di revoca è quella evidenziata nell'atto di avvio dello stesso", secondo l'appellante, con ciò dando erroneamente per assunto che il Ministero avrebbe dovuto semplicemente aderire a tale posizione. 6.1 - Sotto altro profilo, l'appellante prospetta che l'avvenuto riscontro da parte di MCC, con la nota prot. n. 0010966 del 22 dicembre 2022, alle deduzioni formulate dalla società non poteva consentire al Ministero di esimersi dall'entrare nel merito delle deduzioni presentate dalla società, ivi comprese quelle relative alla non assimilabilità dell'Anticipazione MC11 rispetto all'Anticipazione MC45 e alla conseguente necessità di differenziare le due posizioni. Secondo la società, il Ministero si sarebbe limitato ad adottare il provvedimento "sulla (sola) base delle informazioni trasmesse con la... nota del 21.03.2023", tralasciando integralmente, come invece avrebbe dovuto, di esaminare e valutare autonomamente l'intero corredo documentale, di prendere puntualmente posizione sulle singole contestazioni mosse da MCC e sulle relative deduzioni della società . 6.2 - La censura è infondata. Il provvedimento impugnato è stato adottato sulla base di una motivazione che richiama espressamente "la nota del 22 dicembre 2022 con cui Me. Cr. Ce. s.p.a. ha puntualmente esposto i motivi per i quali le memorie difensive prodotte non possono ritenersi idonee al fine dell'archiviazione dell'avvio del procedimento di revoca". Tale nota è stata inviata dal MCC, quale Soggetto Gestore, dopo aver ricevuto dalla società ricorrente la nota "del 29 ottobre 2022 con cui la -OMISSIS--OMISSIS- s.p.a. ha trasmesso a Me. Cr. Ce. s.p.a. le proprie memorie difensive all'avvio del procedimento di revoca". Tanto precisato, i rilievi di parte appellante non possono trovare accoglimento, dovendosi ricordare, da un lato, che la motivazione dell'atto può essere anche data "per relationem", nel senso che la motivazione può essere espressa anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo, giacché tale richiamo sottintende l'intenzione dell'autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata (cfr. Consiglio Stat, sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 1156). Da un altro punto di vista, deve in ogni caso ricordarsi che l'onere di spiegare le ragioni per le quali non si è tenuto conto delle osservazioni presentate dai privati non deve essere inteso in senso formalistico, considerato che tale obbligo viene meno qualora le stesse non avrebbero potuto influenzare effettivamente la concreta portata del provvedimento finale (cfr. Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 20 febbraio 2020, n. 1306). 7 - Con il terzo motivo ("Violazione, falsa applicazione del punto 6 del D.M. del Ministero delle Attività Produttive del 19 gennaio 2004. Violazione, falsa applicazione dell'art. 5 della Direttiva del Ministero delle Attività Produttive del 3 febbraio 2003. Violazione, falsa applicazione dell'art. 9 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 123. Violazione, falsa applicazione dell'art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241. Violazione del principio del legittimo affidamento. Eccesso di potere sotto i profili di difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, incongruità della motivazione, illogicità e irragionevolezza, travisamento, sviamento") l'appellante deduce l'illegittimità dell'intervento del Ministero - da cui l'erroneità, anche sotto tale profilo, della sentenza impugnata - stante, da un lato, il decorso del termine di durata della partecipazione, originariamente fissato in un periodo massimo di 7 anni dalla data di acquisizione e poi elevato, per effetto dell'art. 4, comma 11 octies, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, a 10 anni dalla stessa data ovvero, nel caso di -OMISSIS-, alla data di effettiva scadenza (già intervenuta) del fondo mobiliare gestito che ha acquisito la partecipazione - e, dall'altro lato, l'avvenuta cessione definitiva, in data 26 settembre 2012, dell'intera partecipazione residua inerente alle anticipazioni. Nello specifico, posto che la -OMISSIS- ha provveduto il 16 giugno 2006 ad acquisire la partecipazione in -OMISSIS- a valere inizialmente sull'Anticipazione MC11 - poi cedendola parzialmente (con profitto assegnato ritualmente al Ministero) a gennaio 2008 e dismettendola integralmente il 26 settembre 2012 - e tenuto conto, altresì, che in data 21 novembre 2013 è stato dichiarato il fallimento di detta società, secondo l'appellante dovrebbe concludersi che la posizione relativa alle anticipazioni non può che considerarsi definitivamente chiusa, con la conseguenza che il Ministero e MCC non vantavano, né vantano alcun titolo per procedere legittimamente alla revoca delle stesse anticipazioni. Al riguardo, sarebbero privi di pregio l'assunto contenuto nella nota di MCC prot. n. 0010956/22 del 22 dicembre 2022, ove si legge che è solo la sentenza civile ad avere "evidenziato in più punti argomentativi che non potesse evincersi l'assoluta disinformazione della -OMISSIS- nell'effettuazione del suo investimento in -OMISSIS- originata dall'illecito del leg. Rapp.te -OMISSIS-", nonché le argomentazioni secondo cui di tale sentenza le parti appellante avrebbero acquisito conoscenza solo in seguito alla pubblicazione della sentenza della Corte dei Conti. 7.1 - Anche volendo ritenere che l'intervenuto decorso del termine di 7 anni dalla data di acquisizione, da parte della -OMISSIS-, della partecipazione nel capitale di -OMISSIS- o l'intervenuta cessione totale, nel 2012, della partecipazione detenuta dalla stessa -OMISSIS- nella predetta società non consentano di poter ritenere "chiusa" e "definita" la posizione in questione, l'appellante prospetta che il provvedimento sia comunque illegittimo, in quanto assunto ben oltre un termine ragionevole, tanto più a fronte dell'operato, appunto "inerte", della stessa MCC. Invero, l'atto di ritiro si porrebbe in contrasto con l'art. 21 nonies della L. 7 agosto 1990, n. 241 - dovendosi qualificare l'atto in questione quale annullamento d'ufficio e non come erroneamente ritenuto dal Tar alla stregua di una revoca - nonché con la tutela del legittimo affidamento ad esso sottesa. 7.2 - L'appellante evidenzia inoltre il ruolo di mero soggetto intermediario assunto nell'ambito dell'operazione in questione dalla -OMISSIS-, rispetto alla quale, pertanto, MCC e il Ministero non possono fondatamente vantare il diritto alla restituzione delle anticipazioni erogate. L'unico soggetto dal quale il Ministero avrebbe potuto legittimamente pretendere la restituzione delle somme erogate, a risarcimento del danno subito, è -OMISSIS-, non potendo diversamente ipotizzarsi che, in ragione dell'impossibilità di agire in tal senso per l'intervenuta prescrizione di tale azione, a causa dell'inerzia dello stesso Ministero, quest'ultimo possa oggi, nell'ambito di un procedimento di revoca (per di più successivo di oltre 10 anni rispetto alla cessione delle partecipazioni e di 4 anni dalla sentenza civile), fondatamente pretendere la restituzione di tali somme dalla -OMISSIS- che, quale soggetto intermediario, ha ritualmente e correttamente eseguito il suo compito e alla quale, pertanto, non sono ascrivibili responsabilità, come del resto evidenziato anche dalla Corte dei Conti. 8 - La censura deve trovare accoglimento nei termini di seguito esposti. Il Giudice di primo grado ha ritenuto che nella specie non è stato applicato l'art. 21 nonies della legge 241/1990, avendo l'Amministrazione applicato il diverso istituto della cd. revoca - sanzione, stante l'espresso richiamato al d.lgs. 123/1998 ("Disposizioni per la razionalizzazione degli interventi di sostegno pubblico alle imprese"), che all'art. 9, rubricato "revoca dei benefici e sanzioni", prevede che "in caso di revoca degli interventi, disposta ai sensi del comma 1, si applica anche una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l'importo dell'intervento indebitamente fruito" (comma 2). In disparte il fatto che anche la difesa del Ministero invoca l'applicazione dell'art. 21 nonies cit., l'assunto in base al quale il Tar ha rigettato la censura in esame non appare risolutivo, posto che, anche laddove si ritenga che la base legale del potere esercitato non sia rintracciabile nell'art. 21 nonies, che limita temporalmente il potere di annullamento di un precedente provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario, ciò non significa che sia sempre possibile un intervento, sine die, dell'amministrazione su un beneficio in precedenza attribuito. A prescindere dalla questione se il potere esercitato sia riconducibile all'istituto generale di cui all'art. 21 nonies, piuttosto che ad una specifica ipotesi di revoca-decadenza (vedasi al riguardo Cons. St. Ad. Plen n. 18/2020 secondo la quale "la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc (o in alcuni casi ex nunc), di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio), è istituto che, pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell'autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l'espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall'art. 21 nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti; b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall'istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti") deve comunque esigersi che questo vada esercitato entro un termine ragionevole, avuto riguardo alle circostanze del caso. Ciò che emerge dalla vicenda oggetto di causa appare sintomatico di uno svolgersi dell'attività amministrativa secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente. Modello in cui, alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell'interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l'intrapresa di iniziative private, alla quale si collega direttamente la necessità di certezza del quadro giuridico di riferimento che non può, senza una valida giustificazione, essere alterato ad anni di distanza dalla sua originaria stabilizzazione. I princì pi generali di economicità, di efficacia, di buon andamento ed imparzialità, che devono sempre presidiare l'attività amministrativa, impongono che l'amministrazione (pur in assenza della predeterminazione legale del termine massimo per la conclusione del procedimento) deve agire comunque in modo tempestivo, rispettando l'esigenza del cittadino di certezza, nella specifica accezione di prevedibilità temporale, delle conseguenze derivanti dall'esercizio dei pubblici poteri (cfr. Consiglio di Stato, sez. VII, 14.02.2022, n. 1081). Nel caso in esame, l'amministrazione, essendone nelle condizioni, doveva agire in modo tempestivo al fine di preservare la specifica esigenza alla certezza economico-giuridica del soggetto direttamente inciso, nonché, indirettamente, al fine di garantire una condizione generale di stabilità del mercato nel quale lo stesso opera e sul quale possono riflettersi gli effetti dell'atto impugnato. Alla luce dei principi innanzi esposti, deve ritenersi che il provvedimento impugnato, comunque lo si voglia qualificare, sia intervenuto immotivatamente in un tempo eccessivamente lontano dai fatti che lo giustificano, rendendo pertanto il ritardo intollerabile e suscettibile di determinare l'illegittimità dell'atto. 8.1 - In fatto: l'appellante ha terminato di acquisire partecipazioni in -OMISSIS- nel 2008. E' pacifico che le partecipazioni sono stata dismesse nel 2012 ed è altrettanto pacifico che, in data 29/11/2012, era pervenuta al soggetto Gestore comunicazione da parte della -OMISSIS- con cui si informava che era stata conclusa la cessione della residua partecipazione complessiva dalla stessa detenuta. A decorrere da quella data non sussisteva più alcuna partecipazione da gestire da parte dell'appellante, il rapporto di partecipazione societaria che aveva avuto origine dalla concessione dell'anticipazione si era dunque chiuso. Il fatto, allegato dal Ministero, per cui l'intermediario non avrebbe fornito notizie in merito all'effettivo incasso delle somme alle scadenze non rileva ai fini del presente giudizio, ove si consideri che la contestazione mossa all'appellante non attiene a tale aspetto, né tale aspetto, per quel che consta, è mai stato formalmente contestato dal Ministero. Anzi, tale circostanza riferita dall'amministrazione doveva costituire un evidente campanello di allarme per quest'ultima che avrebbe potuto e dovuto attivarsi già allora per tutelare la propria posizione. Tanto precisato, l'avvio del procedimento poi sfociato nel provvedimento impugnato è del 30.9.2022; è quindi intervenuto circa dieci anni dopo che la partecipazione in -OMISSIS- era stata liquidata e definitivamente chiusa; durante tale decennio, la -OMISSIS- non aveva ovviamente più svolto alcuna attività connessa all'originario rapporto che ha dato luogo al provvedimento impugnato. 8.2 - Il dato per cui nel 2012 il rapporto doveva ritenersi ormai chiuso si desume dalle seguenti disposizioni del Decreto 19 gennaio 2004 che regola lo specifico finanziamento per cui è causa: - il punto 6 del Decreto prevede che le partecipazioni devono, tra l'altro, "avere una durata massima di sette anni a decorrere dalla data di acquisizione della partecipazione risultante dall'estratto notarile del libro soci"; - il punto 13 prevede che, "Dismessa la partecipazione, il soggetto accreditato deve restituire al Gestore un importo pari al valore di cui al punto 12.2.2 ridotto della commissione di gestione di cui al punto 12.1 e del premio di cui al punto 12.2 con valuta di accredito al Gestore entro un mese dalla data di dismissione risultante dall'estratto notarile del libro soci"; - il punto 14 (Mancata dismissione delle partecipazioni) prevede che: "qualora i soggetti accreditati non abbiano dismesso la partecipazione nel termine di sette anni a decorrere dalla data di acquisizione della partecipazione, risultante dall'estratto notarile del libro soci, sono tenuti a restituire al Gestore l'importo della anticipazione calcolato alla data di scadenza. La restituzione dell'anticipazione deve avvenire con le modalità di cui al punto 13.1. entro il termine di un mese dalla data di scadenza del periodo massimo di detenzione della partecipazione". Dalle disposizioni innanzi richiamate emerge, in primo luogo, come la durata della partecipazione avesse un termine massimo di durata di sette anni (poi elevato, per effetto dell'art. 4, comma 11 octies, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, a 10 anni); emerge inoltre che, una volta dismessa la partecipazione, scattano gli adempimenti restitutori in favore del Ministero da parte della -OMISSIS- "entro un mese dalla data di dismissione risultante dall'estratto notarile del libro soci" o "entro il termine di un mese dalla data di scadenza del periodo massimo di detenzione della partecipazione". Alla luce delle scansioni temporali predeterminate dal Decreto che regola il finanziamento in questione, siccome l'ingresso in -OMISSIS- risale al 2006, non è dato comprendere per quale ragione il Ministero abbia atteso sino al 2022 per revocare il finanziamento a suo tempo concesso, ovvero dieci anni dopo la dismissione della partecipazione e ben diciotto anni dopo l'iniziale concessione del finanziamento. Seppure a rigore la prospettazione del Ministero - secondo il quale il termine di 7 anni regolerebbe la detenzione della partecipazione e non l'esercizio del potere di revoca - appaia condivisibile, resta il fatto che, siccome nel caso di specie la posizione era stata incontestabilmente liquidata sin dal 2012, da tale data, in base alle disposizioni citate, avrebbero comunque dovuto aprirsi le procedure di chiusura anche dei rapporti tra la -OMISSIS- e il Ministero (entro il termine di un mese) ed in tale frangente avrebbero verosimilmente potuto emergere i fatti poi oggetto degli addebiti di cui al provvedimento impugnato emesso nel 2022. 8.3 - La giustificazione addotta dal Ministero per cui avrebbe acquisito conoscenza dei motivi di revoca solo in seguito alla pubblicazione della sentenza della Corte dei Conti n. 220/2022 non appare sostenibile per le ragioni di seguito spiegate: - lo stesso Ministero ha affermato di avere trasmesso al Gestore, a settembre 2013, l'informativa riservata pervenuta dalla Guardia di Finanza il 24 settembre 2013, recante gli esiti delle indagini condotte nell'ambito del procedimento penale; tale circostanza è valorizzata anche nella sentenza della Corte dei Conti cit.; - nel 2013 la -OMISSIS-, società beneficiaria dell'anticipazione, è stata dichiarata fallita; - la sentenza penale con la quale il legale rappresentante di -OMISSIS- ha patteggiato la pena risale al 15 marzo 2015 e il Mise era stato indicato tra le parti offese nella richiesta di rinvio a giudizio, che risale al 7 maggio 2014; - la sentenza del Tribunale civile di Milano relativa all'azione di responsabilità promossa nei confronti dello stesso risale al 27 novembre 2018. In definitiva: le vicende relative al procedimento penale, i cui fatti sono sostanzialmente i medesimi di quelli portati a giustificazione del provvedimento impugnato, sono emerse ben prima della sentenza della Corte dei Conti e della sentenza del Tribunale civile di Milano (che comunque risale al 2018), dovendosi per l'effetto ragionevolmente ritenere che il Ministero ne dovesse essere consapevole, se non dalla trasmissione della relazione della Guardia di Finanza, quanto meno dall'intervenuta sentenza in sede penale che risale al 2015, rendendo ingiustificato ed intollerabile il ritardo con il quale è stato avviato, solo nel 2022, il successivo procedimento di revoca. 8.4 - Alla luce delle circostanze innanzi evidenziate non risulta risolutivo il richiamo del Ministero al secondo comma dell'art. 21 nonies della L. n. 241 del 1990, che regola l'annullamento del provvedimento illegittimo conseguito sulla base di false rappresentazioni dei fatti (o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci). Tale richiamo non appare pertinente ove si consideri che: - da un lato, il legale rappresentate dell'appellante è stato completamente scagionato dall'iniziale imputazione penale, non potendosi pertanto ritenere che l'appellante abbia posto in essere un'attività insidiosa atta a giustificare la dilazione del potere di autotutela, dovendosi anzi evidenziare che l'appellante, in qualità di danneggiata, si è costituita parte civile nel procedimento penale ed ha ivi ricevuto parziale ristoro; - in ogni caso, come già osservato, il Ministero già nel 2013 era stato notiziato dalla Giardia di Finanza dei fatti penalmente rilevanti e nel 2015 è intervenuta la sentenza penale di patteggiamento, non essendo dato comprendere le ragioni dell'attesa, sino al 2022, per l'avvio del procedimento di revoca. 9 - L'accoglimento dell'appello nei termini che precedono è idoneo ad esaurire la materia del contendere, non residuando alcun interesse all'esame degli ulteriori motivi di appello con i quali la società contesta la sussistenza di una sua responsabilità per la mancata attuazione del progetto al quale era funzionale l'erogazione dell'anticipazione poi revocata. In ogni caso, si osserva che non era la società di gestione la beneficiaria ultima del finanziamento di cui trattasi. La -OMISSIS-, infatti, ha ricevuto il denaro pubblico non per un vantaggio proprio, ma per investirlo, quale intermediario, in conformità ai modi stabiliti dall'amministrazione in un progetto che quest'ultima ha approvato (ai sensi del punto 8.5 del Decreto, la valutazione dei programmi di sviluppo è effettuata dal Comitato di Gestione). Al riguardo, la Corte dei Conti ha precisato che "l'unico legittimato ad interrompere la prescrizione dell'azione di responsabilità era il titolare del diritto, ossia l'ente danneggiato MISE, per la quota di sua competenza", concludendo nel senso che "L'inerzia del Ministero ha, quindi, causato un danno erariale costituito dalla prescrizione dell'azione di responsabilità esercitata dalla Procura nei confronti di -OMISSIS- e del fall. -OMISSIS- srl" (sentenza n. 220/2022). 10 - Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2019, n. 3110). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 10.1 - Le spese di lite del doppio grado di giudizio, ad una valutazione complessiva della controversia, possono essere compensate. 11 - Deve infine disporsi la trasmissione della presenta sentenza, unitamente agli atti della causa, alla competente Procura della Corte dei Conti, per ogni eventuale valutazione in riferimento ai fatti emersi nel corso del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta accoglie l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla l'atto impugnato. Spese di lite compensate. Dispone la trasmissione a cura della Segreteria della presente sentenza e degli atti di causa alla competente Procura della Corte dei Conti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone fisiche citate nel provvedimento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto nell'interesse di: Pa.Em., nato a N il (omissis), contro la sentenza della Corte d'appello di Roma del 4.12.2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pierluigi Cianfrocca; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Pasquale Luigi Orsi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito l'Avv. Ni.Pe., in difesa del ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Roma ha confermato la sentenza con cui, il 17.3.2023, il Tribunale di Tivoli aveva riconosciuto Pa.Em. responsabile dei delitti di rapina pluriaggravata e lesioni personali aggravate e, esclusa la pur contestata recidiva, con le ritenute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione e la finale riduzione per la scelta del rito, lo aveva condannato alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione ed euro 1.600 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere; aveva applicato le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale e condannato l'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili; aveva da ultimo revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena concessa all'imputato con la sentenza del 4.10.2019 del Tribunale di Salerno, irrevocabile il 22.10.2019; 2. ricorre per cassazione Pa.Em. a mezzo del difensore che deduce: 2.1 inosservanza dell'art. 628, comma secondo, cod. pen., con riguardo al requisito della violenza e contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine al narrato offerto dai dichiaranti, omessa risposta alle censure articolate con l'atto di appello anche sotto il profilo del travisamento: rileva che la Corte d'appello, disattendendo le censure articolate dalla difesa, ha confermato la responsabilità del ricorrente ritenendo credibili ed attendibili le dichiarazioni dei testi in ordine alla violenza che sarebbe stata esercitata dal ricorrente dopo l'impossessamento dei preziosi; osserva che la Corte territoriale ha superato in termini semplicistici la doglianza relativa alla distanza temporale tra la data del fatto, e della prima denuncia, e quello in cui la persona offesa, per la prima volta, aveva riferito del gesto violento dell'autore del fatto, senza essersi sottoposta ad alcun controllo medico nemmeno successivamente al superamento dello stato di agitazione e shock emotivo che, secondo la Corte, aveva giustificato la tardiva dichiarazione; denunzia, inoltre, il travisamento delle parole dell'odierno ricorrente avendo costui riferito che l'intervento del Ta.Ro. era avvenuto quando la De.Ma. era ormai alle sue spalle sicché, una volta vistosi scoperto, si era allontanato senza entrare in contatto con la donna e che le parole del teste erano coerenti con la versione fornita dal ricorrente mentre del tutto confuse quanto alla presunta colluttazione che sarebbe scaturita dal tentativo del predetto di trattenerlo impedendogli di allontanarsi; aggiunge che la versione del Ta.Ro. era in ogni caso difforme sia rispetto a quanto riferito dalla anziana donna sul come egli si fosse procurato le lesioni che con quelle propinata dal di lei fratello; 2.2 inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 61 n. 5 cod. pen., 125, comma terzo e 546, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., in ordine alla aggravante della minorata difesa correlata erroneamente con il diverso reato di truffa; rileva che la Corte d'appello ha riferito la aggravante della minorata difesa alla condotta di truffa e non ha motivato in ordine alle circostanze di tempo, luogo o persona di cui il ricorrente avrebbe profittato per commettere la rapina; richiama il motivo di appello articolato sul punto dove, anche alla luce del recente chiarimento offerto dalle SS. UU. in ordine alle condizioni per ritenere l'aggravante della minorata difesa, si era evidenziato che l'azione si era svolta alla presenza del genero della persona offesa, sovrintendente della Polizia di Stato in quiescenza e segnala che la Corte d'appello ha fornito, sul punto, una risposta incongrua concentrando la propria attenzione sulla condotta inizialmente programmata dal ricorrente e non su quella in cui l'episodio era infine sfociato successivamente all'impossessamento del denaro e dei preziosi; rileva, a tal proposito, che l'azione si era svolta in pieno giorno ed all'interno di un immobile situato in zona non periferica dove, peraltro, il fratello della donna era riuscito prontamente ad accorrere sul posto in aiuto della sorella utilizzando lo spray urticante ed immobilizzando il ricorrente insieme al genero; segnala che, oltre al dato dell'età, non vi erano altre situazioni di decadimento fisico e psichico della donna di cui il ricorrente avrebbe profittato; 3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, del D.L. 137 del 2020 concludendo per l'inammissibilità del ricorso: rileva, quanto al primo motivo, che la decisione, conforme nei due gradi di merito, si basa sul minuzioso e diffuso scrutinio di attendibilità della narrativa offerta dalle persone offese e dal teste De.Mi.; quanto al secondo motivo, rileva che il giudice di merito ha chiarito come l'imputato abbia operato una scelta mirata della vittima che per la sua condizione ha effettivamente dato credito alla storia inventata dal Pa.Em. per farsi consegnare i valori, precisando che la condizione della donna è poi confermata siccome critica dagli sviluppi dell'azione criminosa, quando l'imputato si è valso di un falso interlocutore telefonico. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché articolato con censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede. L'odierno ricorrente era stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, ed all'esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di rapina impropria aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 5 cod. pen. ed ai sensi del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. e di quello di lesioni personali in quanto "... per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e per procurarsi l'impunità, usava violenza immediatamente dopo aver sottratto fraudolentemente denaro in contanti per circa 9.000 euro ed oggetti in oro per un valore di circa 10.000 euro a De.Ma., di anni 76; in particolare, dopo aver indotto l'anziana donna, con artifizi e raggiri, a consegnargli la somma di denaro e gli oggetti in oro sopra indicati, paventando un pericolo imminente ma inesistente per il figlio, scoperto dal genero della donna Ta.Ro., sopraggiunto in casa, al fine di garantirsi il bottino e la fuga colpiva dapprima la De.Ma. con una forte spinta dandosi alla fuga e, successivamente, inseguito e raggiunto dal Ta.Ro., impegnava quest'ultimo in una violenta colluttazione in conseguenza della quale il Ta.Ro. riportava le lesioni descritte nel capo 2)". 2. Il Tribunale aveva ricostruito l'episodio alla luce delle dichiarazioni dei testi escussi nel corso del dibattimento: era emerso che De.Ma., il giorno 20.9.2022, aveva ricevuto una telefonata da un tale che si era qualificato come suo figlio Ro. il quale le aveva fatto presente di avere mal di gola e di dover fare un tampone per il COVID; contemporaneamente, la donna aveva ricevuto una chiamata sul telefono fisso da una persona che le aveva preavvertita che sarebbe passato da lei a prelevare una somma di denaro da portare all'ufficio postale onde scongiurare la denuncia che altrimenti sarebbe stata inoltrata nei confronti del figlio; nel contempo, il predetto aveva invitato la donna ad inviare il marito presso l'ufficio postale per ritirare la ricevuta che sarebbe stata consegnata non appena recapitato il denaro. Una volta uscito di casa il marito, lo sconosciuto - pacificamente identificato nel Pa.Em. - si era presentava in casa dell'anziana dove si era fatto consegnare denaro contante per 9.000 euro e monili in oro per 10.000 euro che la persona offesa conservava nello sgabuzzino situato sul terrazzo. In quel frangente, tuttavia, era giunto sul posto il genero della donna, Ta.Ro., ex poliziotto, al quale il Pa.Em. si era qualificato come carabiniere passandogli il telefono per parlare con il "maresciallo"; il Ta.Ro. tuttavia non gli aveva creduto sicché il ricorrente aveva cercato di fuggire spintonando la donna ed allontanarsi venendo tuttavia sgambettato dal Ta.Ro. e cadendo a terra con la scatola dei gioielli che aveva tuttavia prontamente raccolto per riprendere la fuga; il giovane era stato tuttavia nuovamente raggiunto dal Ta.Ro. che, dopo aver ingaggiato una breve colluttazione, questa volta era riuscito a bloccarlo anche con l'aiuto del fratello della De.Ma. giunto sul posto e munito di una bomboletta di spray urticante. 3. Con l'atto di appello la difesa aveva chiesto la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale della De.Ma. e del Ta.Ro. che avrebbero fornito una versione dei fatti confusa e non lineare avendo in particolare la donna riferito della spinta subita dall'imputato solo dopo due giorni e senza mai essersi recata in ospedale; quanto al Ta.Ro., per aver reso dichiarazioni non in linea con quelle del fratello della persona offesa. Aveva poi insistito nella riqualificazione del fatto nella ipotesi delittuosa delineata dall'art. 640, comma 2, n. 2-bis cod. pen. ovvero, in subordine, nel delitto di rapina impropria (solo) tentata; da ultimo, nell'esclusione dell'aggravante della "minorata difesa" come di quella di cui al comma 3-quinques del comma terzo dell'art. 628 cod. pen. 4. Rileva il collegio che la Corte territoriale è pervenuta alla conferma della sentenza di primo grado disattendendo le doglianze difensive con argomentazioni puntuali in fatto e corrette in diritto, non giustificandosi, perciò, le censure articolate in questa sede. 4.1 Quanto alla ricostruzione dell'episodio ed alla sua corretta qualificazione in termini di rapina impropria consumata, la Corte d'appello ha fatto presente che l'imputato aveva ammesso di essersi fraudolentemente introdotto nella abitazione della donna per farsi consegnare denaro e beni preziosi: ha inoltre puntualmente "risolto" la presunta incertezza nella deposizione della donna circa la spinta che costei avrebbe ricevuto nel tentativo del giovane di darsi alla fuga e che, indipendentemente dai "tempi" in cui la persona offesa l'avrebbe fatta presente agli investigatori, era stata comunque riferita dal genero, circostanza su cui il ricorso è del tutto silente. Quanto, poi, al tentativo di darsi alla fuga, la Corte d'appello ha sottolineato la convergenza delle dichiarazioni del Ta.Ro. rispetto a quelle di De.Mi. ma anche della stessa persona offesa, giudicata assolutamente attendibile sull'intera dinamica dell'episodio. 4.2 Ed è proprio sulla scorta della ricostruzione in tal modo operata che i giudici di merito hanno potuto correttamente ribadire la qualificazione della condotta del ricorrente in termini di rapina impropria consumata che, come è noto, si articola nella sottrazione della "res" (nel caso di specie acquisita dal ricorrente in maniera truffaldina) seguita dalla violenza e/o dalla minaccia poste in essere per mantenerne la disponibilità e realizzare il definitivo impossessamento della refurtiva o darsi alla fuga. (cfr., in tal senso, tra le tante, Sez. 2 - , n. 15584 del 12/02/2021, Bevilacqua, Rv. 281117 - 01; conf., Sez. 2, n. 11135 del 22/02/2017, Tagaswill, Rv. 269858 - 01, in cui la Corte ha spiegato che, ai fini della configurazione della rapina impropria consumata, è sufficiente che l'agente, dopo aver compiuto la sottrazione della cosa mobile altrui, adoperi violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della "res", mentre non è necessario che ne consegua l'impossessamento, non costituendo quest'ultimo l'evento del reato ma un elemento che riguarda, invece, 91 dolo specifico). È pacifico, poi, che nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche nei confronti di persona diversa dal derubato e che, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l'unitarietà dell'azione volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l'impunità (cfr., così, ad esempio, Sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013, Mitrovic, Rv. 257310 - 01; conf., Sez. 7, Ord. n. 34056 del 29/05/201, Belergouh, Rv. 273617 - 01). 4.3 Quanto all'aggravante di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., la Corte ha puntualmente motivato sottolineando che, nel caso di specie, essa non era stata ritenuta esclusivamente in considerazione dell'età della vittima ma del rilievo secondo cui l'imputato aveva attentamente mirato ad una persona anziana, di settantasette anni, che avrebbe potuto dar credito alla storia da lui inventata per farsi consegnare denaro e gioielli come, infatti, era accaduto avendo la donna consegnato una somma di gran lunga superiore alla richiesta iniziale accompagnata, inoltre, da quella di gioielli la cui destinazione a saldare un debito era quantomeno discutibile e, tuttavia, non era stata colta dalla vittima, turbata anche dalla previa telefonata del "figlio". Per altro verso, i giudici di secondo grado hanno spiegato che il ricorrente aveva anche avuto la "accortezza" di far in modo che l'anziana donna fosse sola in casa, invitando il di lei marito a recarsi preso l'ufficio postale per ritirare la fantomatica ricevuta. In tal modo, quindi, la Corte ha fatto corretta applicazione del principio ormai autorevolmente ribadito in questa sede di legittimità, secondo cui, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante della minorata difesa, prevista dall'art. 61, primo comma, n. 5, cod. pen., le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l'agente abbia profittato, devono tradursi, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato, non essendo sufficiente l'idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione dello stesso (cfr., così, infatti, Sez. U., n. 40275 del 15/07/2021, Cardellini, Rv. 282095 - 02). Ed è proprio la struttura del delitto di rapina impropria, come in precedenza ribadita, che consente di ritenere la aggravante anche laddove le condizioni previste dall'art. 61 n. 5 cod. pen. abbiano agevolato la sottrazione della "res" alla vittima indipendentemente dal fatto che, nella fase successiva, la violenza e/o la minaccia siano state esercitate nei confronti di soggetti o in contesti che non avevano comportato alcuna concreta "agevolazione". Si è anche chiarito che la circostanza aggravante speciale, prevista, per il delitto di rapina, dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies, cod. pen., è correlata al dato del superamento dell'età di sessantacinque anni da parte della persona offesa, e non alla presunzione relativa di maggior vulnerabilità della vittima in ragione dell'età, cui fa, invece, riferimento la circostanza aggravante comune prevista dall'art. 61, n. 5, cod. pen. (cfr., in tal senso, Sez. 2 - , n. 17320 del 09/12/2022, dep. 26/04/2023, Cantimir, Rv. 284527 - 01, in cui la Corte ha precisato che ricorre l'aggravante dell'età della vittima di cui all'art. 628, terzo comma, n. 3-quinquies, cod. pen. nel caso di rapina commessa in danno di persona ultrasessantacinquenne, senza che sia necessaria una specifica indagine sull'effettiva incidenza dell'età della parte lesa sulla consumazione della condotta criminosa, ovvero senza possibilità di dimostrare l'irrilevanza, nel caso specifico, del dato anagrafico). È vero che l'aggravante speciale dell'età della vittima eccedente i sessantacinque anni, prevista dall'art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies cod. pen., esclude l'applicazione concorrente dell'aggravante comune, determinativa di un minore incremento sanzionatorio, di cui all'art. 61 n. 5, cod. pen., ove contestata in riferimento all'età senile della persona offesa e alla sua ritenuta minore capacità di resistenza, vietando l'art. 68 cod. pen., in tema di componenti accessorie del reato, l'addebito plurimo di un medesimo elemento fattuale (cfr., in tal senso, Sez. 2 -, n. 3496 del 02/11/2022, dep. 27/01/2023, Pannone, Rv. 284193 - 01; Sez. 2 - , n. 14489 del 06/12/2022, dep. 05/04/2023, Borrelli, Rv. 284479 - 01). E, tuttavia, se per un verso non è questo il profilo su cui è incentrato il motivo di ricorso, va pur detto che nel caso di specie l'aggravante di cui all'art. 61 n. 5 cod. pen. non ha avuto alcun riflesso sul piano del trattamento sanzionatorio che è stato determinato partendo dal minimo edittale stabilito dal comma quinti dell'art. 628 cod. pen. per il caso di più aggravanti concorrenti (nel caso di specie, quelle di cui al n. 3-bis - non bilanciabile - ed al n. 3-quinquies su cui, invero, non c'è ricorso), su cui è stata operata la riduzione massima per le riconosciute circostanze attenuanti generiche, l'aumento per la continuazione con il capo B) e la finale riduzione per il rito. 5. L'inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle somma - che si stima equa - di euro tremila, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di PAVIA SEZIONE TERZA CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice Cameli Renato ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. r.g. 999/2023 promossa da: (...) elettivamente domiciliato in Vigevano (...) presso lo studio degli avv.ti (...) che lo rappresentano e difendono unitamente e disgiuntamente, giusta delega allegata i quali hanno dichiarato di voler ricevere comunicazioni come in atti PARTE ATTRICE contro (...) PARTE CONVENUTA CONCLUSIONI DELLE PARTI Parte attrice ha formulato le proprie conclusioni come da udienza del 19.3.2024 svoltasi in forma scritta, mediante deposito di note e, segnatamente, "Piaccia all'Ill.mo Tribunale adito, contrariis reiectis, così giudicare, Nel merito: previo ogni opportuno accertamento e declaratoria, - Accertare e dichiarare l'abuso dell'esercizio del diritto sul bene comune da parte del Sig. (...), in qualità di condomino del (...) (...), e l'occupazione illegittima del suolo antistante l'accesso al cortile/giardino privato della proprietà (...), per i motivi ampiamente esposti in atti, qui richiamati in toto. - Conseguentemente ordinare al Sig. (...), in qualità di condomino del (...), di lasciare libero di cose - con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...) il cortile comune condominiale, nel rispetto del regolamento di condominio e dell'uso delle parti comuni e, per l'effetto, condannare il Sig. (...) al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi (nessuno escluso) dall'attore (...), nella misura che sarà ritenuta di giustizia, occorrendo con determinazione in via equitativa. In ogni caso: con il favore delle spese e compensi professionali di causa ex D.M. 147/22 del presente giudizio e del procedimento di mediazione rubricato al n. 285/22 R.G" SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato, il sig. (...) evocava in giudizio il sig. (...) al fine di ottenere, previo accertamento di abuso del diritto sulla cosa comune, condanna nei confronti del convenuto a lasciare libero da cose, con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...), il cortile comune condominiale, e, conseguentemente disporre condanna di risarcimento dei danni nei confronti del convenuto stesso. A supporto della propria domanda l'attore deduceva che: il sig. (...) era proprietario di un'unità immobiliare facente parte del condominio (...) sito in Vigevano (...); malgrado espressa previsione del regolamento condominiale, il sig. (...) era solito parcheggiare la propria autovettura nel cortile comune, ostacolando l'accesso all'attore e ai suoi famigliari; l'amministratore era stato avvisato della situazione e aveva provveduto a diffidare il (...) malgrado plurime diffide la condotta era proseguita; il (...), pur consapevole dell'uso improprio del cortile, aveva deciso di non intraprendere nessuna azione stante le plurime cause già in corso; pur ritualmente invitato il sig. (...) non aveva partecipato alla mediazione; il comportamento del (...) oltre che in contrasto con il regolamento condominiale, contrastava altresì anche con l'art. 1102 c.c. ; secondo la giurisprudenza costituiva abuso anche l'occupazione per pochi minuti del cortile comune; il sig. (...) doveva comunque lasciare la possibilità di accedere e retrocedere presso l'immobile. Pur ritualmente evocato in giudizio, il sig. (...) non si costituiva restando contumace. Assegnati i termini ex art. 183 sesto comma c.p.c. la causa era istruita mediante documentazione acquisita dalla parte attrice ed esame testimoniale. All'udienza del 19.3.2024, svoltasi in forma scritta, parte attrice precisava le conclusioni come da foglio depositato in via telematica CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1.La ricostruzione della fattispecie 2.La violazione degli obblighi gravanti sul CP_2 3.La domanda risarcitoria 4.Le spese del giudizio 1. La ricostruzione della fattispecie In punto di fatto l'attore, su cui incombeva l'onus probandi ex art. 2697 c.c., ha puntualmente dedotto e comprovato sia la qualifica di condomino del complesso condominiale sito in Vigevano (...), attraverso produzione di visura catastale (cfr doc. 1) nonché verbale di assemblea (doc.6), sia l'occupazione del cortile comune del citato condominio da parte di altro condomino, odierno convenuto, sig. (...) (...) mediante automobile all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...) sia la conseguente difficoltà, rectius quasi impossibilità nell'accesso o uscita dal cortile. In particolare, in ordine a quest'ultimo profilo, è stata prodotta rilevante e significativa documentazione, costituita dalle fotografie del cortile e da video attestanti univocamente il posizionamento del citato SUV, dedotto di proprietà del convenuto, parcheggiato in modo ostativo e comunque impeditivo il passaggio di altra vettura (cfr. doc. 3 e 3.1 nonché 9 e 10) A quest'ultimo proposito, segnatamente, in ossequio al maggioritario e preferibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, "le fotografie costituiscono prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sì che la controparte che voglia inficiarne l'efficacia probatoria, non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l'ha prodotta intende con essa provare, ma ha l'onere di disconoscere tale conformità (in termini Cass. 9.4.2009 n.8682; Cass. 13.2.2004, n. 2780; Cass. 26.6.1998, n. 6322) Ad analoghe conclusioni è pervenuta la giurisprudenza in relazione ai video, desumendo tale principio direttamente dall'art. 2712 c.c. in relazione alla disciplina delle riproduzioni meccaniche (Cass. 28.01.2011, n.2117; Cass. 3.7.2001 n. 8998 e Cass. 22.4. 2010 n. 9526). Orbene nel presente giudizio, stante la contumacia del convenuto (su cui amplius infra), le fotografie e i video non sono stati disconosciuti né contestati specificatamente, risultando quindi idonei ad assumere valore probatorio in ordine alla specifica situazione di fatto sussistente nel cortile; dalle foto e dai video depositati si evince quindi l'ostacolo oggettivo alla possibilità di movimentazione dell'auto dell'attore in ragione della presenza del citato SUV di proprietà o comunque condotto dal convenuto (...) stabilmente posteggiato all'interno del cortile, in prossimità del garage dell'altro condomino; parimenti, stante la pluralità della documentazione acquisita in diverse fasi temporali si desume altresì una condizione di occupazione permanente e continuata. In secondo luogo, parimenti rilevante, a supporto della tesi attorea, il verbale di assemblea condominiale del 29.7.2022 in cui viene riportato come tutti i condomini si dichiaravano espressamente "consapevoli che il sig. (...) parcheggia in modo fisso e abituale la sua autovettura in parte comune" (doc.6): tale affermazione configura una dichiarazione di scienza, sebbene stragiudiziale, ma particolarmente qualificata sia in considerazione dei soggetti che la rendevano sia del contesto in cui avveniva. In terzo luogo, rilevano, sempre sul piano documentale, le plurime diffide depositate, inviate anche da soggetto qualificato e terzo rispetto alle parti, come l'amministratore condominiale (doc. 3 e 4). In quarto luogo, l'esito dell'istruttoria testimoniale ha ulteriormente confermato la tesi della parte attrice; anzitutto è risultato comprovato che il cortile condominiale del (...) sito in Vigevano (PV), (...), viene utilizzato dal condomino Sig. (...) quale parcheggio, sia nelle ore diurne che notturne, per il proprio Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targato (...), di colore nero utilizzando segnatamente, nello spazio prospiciente l'ingresso del cortile privato del condomino (...) ((...) " 2. Confermo che vedo parcheggiata l'auto citato e confermo le fotografie come mostrate. 3. Confermo il parcheggio nello spazio indicato; (...) "2. Confermo la circostanza e le foto; frequento il condominio una o due volte al mese da circa quattro anni e mezzo; quando mi reco in loco resto a lì dormire 3. Confermo lo spazio ove ho sempre visto la vettura" (...) "2. Confermo le foto e la circostanza; 3. Confermo" (...) "2. Confermo e riconosco le foto; io mi reco circa una volta la settimana; mi reco perché mi sono affezionata alla famiglia del sig. (...) in quanto ho cresciuto le sue bambine 3. Confermo; io vedo questa macchina). Parimenti confermato che lo spazio di cortile comune antistante la proprietà del condomino Sig. (...) è stato realizzato con la funzione di consentire le manovre di svolta in entrata/uscita dal cortile comune condominiale delle auto dei (...) (...) "4. Confermo la circostanza e il regolamento") Risulta altresì confermato che il condomino Sig. (...), parcheggiando il proprio Suv nel cortile comune del (...), nello spazio prospiciente l'ingresso del cortile privato del condomino (...), da un lato rende gravosa e/o difficoltosa l'entrata e l'uscita delle autovetture dei Condomini e dall'altro impedisce di fatto l'entrata e l'uscita dell'autovettura del condomino Sig. (...) dal cortile privato di proprietà (...) ((...) " 5. Confermo la difficoltà nel parcheggio; confermo i video e le foto 6. Non so se impedisce del tutto, comunque è un ostacolo e crea disagio" (...) " 5. Confermo 6. Confermo l'impedimento anche oggettivo " (...) " 5.Confermo il video e le foto 6.Confermo" (...)" 5. Confermo la circostanza e il video 6. Confermo") Conseguentemente i testi hanno affermato, in modo concorde ed univoco, che il Sig. (...) è stato costretto, in più di un'occasione, a parcheggiare la propria autovettura sulla pubblica via per tutta la notte e che il medesimo condomino Sig. (...). (...) e i suoi famigliari si sono trovati, in più di un'occasione, impossibilitati ad uscire con l'auto di famiglia dal cortile di proprietà (...) e, quindi ad utilizzarla, dovendo disdire impegni lavorativi e personali ((...)" 8. Confermo; due volte mi hanno chiamato il sig. (...) o la sua famiglia per contattarlo perché l'auto ostruiva l'uscita; a volte la parcheggia indietro e quindi si fa fatica a uscire " (...) "7. Tutt'ora, è capitato più di una volta che la macchina del sig. (...) sia stata parcheggiata sulla via perché non poteva entrare 8. Confermo; quando sono andato a casa loro è capitato più di una volta che non potessero uscire" (...) "8. Confermo; ho assistito personalmente agli episodi" (...) "8. Confermo; si sono trovati impossibilitati ad entrare e uscire; ho assistito personalmente alla situazione). Parimenti confermato che il condomino Sig. (...) denunciava all'Amministratore del Condominio "(...)", Sig.ra (...) la condotta del condomino (...) e che, nonostante le diffide il condomino Sig. (...) (...) ha continuato e continua tuttora a parcheggiare il proprio Suv, nel cortile comune condominiale ((...)" 9. Confermo 11. Confermo; ADR lui ha due proprietà e potrebbe entrare con la macchina nella sua proprietà senza ostacolare nessuno; lo fa "per dispetto" (...) "Confermo; ad oggi il sig. (...) continua a parcheggiare in quel modo ADR io mi reco in macchina ma non parcheggio mai all'interno" (...) "Confermo; io vedo la vettura tutte le mattine aprendo la finestra. ADR io sono inquilina e non proprietaria" (...) "Confermo"). Le dichiarazioni testimoniali sopra riportate sono univoche e coerenti in ordine al contenuto e, inoltre, sono state rese da soggetti qualificati (amministratrice di condominio sig.ra (...) ovvero comunque da persone terze rispetto alle parti e che hanno una assidua frequentazione dei luoghi risultando quindi attendibili. Pur ritualmente evocato in giudizio il sig. (...) non si è costituito nel presente giudizio restando contumace: la contumacia impedisce una ricostruzione alternativa delle circostanze alternativa a quella sopra esposta. In particolare, il preferibile orientamento, in giurisprudenza, pur escludendo effetti automatici, precisa come la contumacia "possa concorrere, insieme con altri elementi, a formare il convincimento del giudice (desumendo tale principio dall'art. 116 c.p.c., comma 2). (In termini Cass. 29.03.2007, n. 7739 Cass., 20.02.2006, n. 3601 secondo cui "la contumacia del convenuto se non equivale ad ammissione della esistenza dei fatti dedotti dall'attore a fondamento della propria domanda...tale condotta processuale costituisce tuttavia un elemento liberamente valutabile ex art. 116 c.p.c. (nel contesto di ogni altro acquisito) dallo stesso giudice ai fini della decisione (cfr. tra le altre: Cass. 7 marzo 1987 n. 2427; Cass. 20 luglio 1985 n. 4301)". Nello stesso senso Cass. 6 .2. 1998 n. 1293) In ragione di quanto esposto, coerentemente con la preferibile e recente giurisprudenza di merito, se è pur vero che la contumacia non può essere equiparata ad una generale non contestazione dei fatti costitutivi dedotti dalla controparte, purtuttavia la scelta processuale non collaborativa da parte della resistente, costituisce elemento idoneo a rafforzare le emergenze istruttorie ricavabili dall'esame dei documenti prodotti dalla stessa parte attrice, allorquando, in particolare, come nel caso di specie, l'atto di citazione già conteneva nel suo corpo un'analitica elencazione dei documenti offerti a corredo probatorio: in definitiva, la contumacia del convenuto è elemento rafforzativo delle circostanze dedotte dall'attore (Trib. Bari, 15.07.2015, n. 3275 Trib. Roma, 04.10.2017, n. 8040 Trib. Roma, 04.04.2017, n. 3223; Trib. Roma, 28.05.2016, n. 10898 Trib. Genova 20.1.2016 n. 209 Tribunale Napoli, 05.11.2012, n. 27275) In adesione a tale orientamento, la contumacia si configura quale ulteriore elemento, sia pure indiziario, a supporto della tesi del ricorrente, già comunque ampiamente supportata dalla documentazione sopra riportata e dall'istruttoria testimoniale espletata, a fortiori considerando le plurime comunicazioni intervenute in fase precedente al giudizio e diffide, nonché l'assenza in fase di mediazione. 2. La violazione degli obblighi gravanti condomino In via generale e in punto di diritto ai sensi dell'art. 1102 c.c. "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto... Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso". Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, in relazione proprio all'utilizzo del cortile comune quale parcheggio, "l'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto. Pertanto, deve ritenersi che la condotta del (...), consistente nella stabile occupazione - mediante il parcheggio per lunghi periodi di tempo della propria autovettura - di una porzione del cortile comune, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l'equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà (Cass. Sez. 2, 24/02/2004, n. 3640).... l'art. 1102 c.c., sull'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante alla comunione, non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l'operatività delle limitazioni del predetto uso, sicché può costituire abuso anche l'occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass. Sez. 2, 07/07/1978, n. 340" (in termini recentemente con giurisprudenza citata Cass. 18.03.2019, n.7618) La condotta del (...) come descritta nel precedente paragrafo si pone quindi in contrasto con il principio generale stabilito ex art. 1102 c.c. come interpretato dalla giurisprudenza sopra riportata. A fortiori, sul punto ai sensi dell'art. 7 del Regolamento del plesso condominiale è stabilito l'espresso divieto ai Condomini di "parcheggiare automobili o mezzi di qualsiasi genere nel cortile comune o negli spazi comuni non idonei a tale uso" (cfr. doc. 2, art. 7); pertanto la condotta del convenuto si pone altresì in contrasto con le disposizioni regolamentari pacificamente vigenti tra i condomini. Risulta quindi fondata la domanda di parte attrice, essendo dimostrati i presupposti, in fatto e in diritto alla base della stessa e, segnatamente, la condotta contra legem del (...) consistente nell'occupazione di spazio condominiale (cortile) determinante l'impossibilità o estrema difficoltà per il (...) al parcheggio; il sig. (...) è quindi obbligato a lasciare immediatamente libero da cose e, in particolare, dalla sua vettura, il cortile condominiale, a partire dalla comunicazione della presente sentenza: non si accorda alcun termine a beneficio del convenuto stante la concotta reiterata ormai da più anni e la possibilità per questi di parcheggiare altrove 3. La domanda risarcitoria Parte attrice ha formulato domanda risarcitoria in relazione a tutti i danni patiti in conseguenza della condotta illecita del sig. (...) Orbene, in linea generale e in punto di diritto, in ossequio al preferibile orientamento della giurisprudenza di legittimità a cui il Tribunale presta adesione, la compressione del diritto di proprietà determina un pregiudizio economico risarcibile a beneficio di chi ha subito la privazione; segnatamente; "nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta...nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato"; "nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell'occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato".(in termini Cass. sez. un., 15.11.2022, n.33645) Tanto premesso in punto di diritto, nel presente giudizio parte attrice ha puntualmente dedotto e comprovato la lesione del diritto di proprietà su immobile - garage, subita dall'attore, sig. (...) in conseguenza della condotta del convenuto, sig. (...) che, attraverso il proprio parcheggio ne impedisce o, comunque ostacola gravemente l'utilizzo; sul piano temporale, parimenti comprovato che la citata condotta risulta perpetrata, almeno, a far data dal giugno 2021 , considerando che il 23.7.2021 era trasmessa la prima pec rivolta al (...) e in cui si contestava il reiterato posteggio già da qualche tempo, fissando quindi nell'inizio del mese precedente (1.6.2021) il dies a quo dell'arco temporale della violazione (cfr. doc. 5). Circa il pregiudizio economico effettivo le allegazioni attoree risultano tuttavia generiche non essendo in alcun modo dedotto e comprovato il valore locativo medio del parcheggio, il cui utilizzo è risultato essere, se non impedito, quanto meno compromesso dalla (...) A riguardo, non risulta allegata la Tabella O.M.I. del Comune di riferimento, né indicato altrimenti (contratti di locazione, annunci immobiliari etc.) un valore locativo presuntivo di mercato del box: unico dato certo è costituito dalla rendita catastale individuata in Euro 52,06 mensili come desumibile da estratto in relazione a immobile c/6 (doc. 1 pag. 5) Orbene, assumendo tale parametro come base di calcolo per una stima in via equitativa, il valore locativo del parcheggio, risulta pari a Euro 1.874,16 (52,06x 36, considerando il mese di giugno 2021 fino a maggio 2024). Considerando, in via equitativa, un pregiudizio al godimento dell'immobile non assoluto ma comunque significativo e maggioritario e, quindi, assumendo una lesione al diritto di proprietà di cui è titolare l'attore nella misura del 70%, il danno concretamente subito in termini economici risulta pari a Euro 1311,91. Trattandosi di posta risarcitoria, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la somma indicata deve essere preliminarmente devalutata al momento della risoluzione, in quanto a quel momento del fatto illecito (che convenzionalmente è assunto in data 1.6.2021); l'importo ottenuto all'esito della devalutazione (1141,78) deve essere oggetto di rivalutazione, unitamente a maturazione di interessi, fino al momento dell'attualità, in quanto oggetto di risarcimento e quindi costituente debito di valore: a quest'ultimo proposito, come rilevato da giurisprudenza di Cassazione è necessario reintegrare pienamente "il valore del bene perduto (danno emergente) da un lato, ed il corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene predetto" (cfr. Cass. n. 1712 del 17.02.1995 e, successivamente, Cass. 21.06.2012 n. 10300 secondo cui "in virtù del divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione, gli interessi legali devono essere riconosciuti sull'intera somma devalutata alla data dell'infortunio ed anno per anno rivalutata sino alla data della pronuncia impugnata" (Cass. n. 18445 del 19.09.2005). In ragione di quanto esposto, l'importo dovuto a titolo risarcitorio risulta pari a Euro 1404,23 oltre interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo; inoltre, a partire dal mese di giugno, è comunque dovuta la somma di Euro 36,44 (pari al 70% di 52,06) per ogni mese in cui si verificheranno le occupazioni. 4. Le spese di giudizio Le spese di giudizio sono addebitate su parte convenuta in quanto soccombente ex art. 91 c.p.c. I compensi sono liquidati ex Dm 55/2014 per cause di valore indeterminabile complessità bassa applicando il parametro medio per le fasi di studio, introduttiva e istruttoria, minimo per la decisionale, prevalentemente ripetitiva di questioni già affrontate e stante la contumacia della convenuta risultando quindi pari a Euro 6164,00 oltre spese generali al 15% iva e cpa. nonché spese di marca e contributo; parimenti sono dovuti a carico del convenuto nonché le spese della fase di mediazione, i cui compensi, limitati alla fase di attivazione, si liquidano nel minimo e sono pari a Euro 268,00, oltre spese generali al 15% iva e cpa ed Euro 48,8 per spese di avvio. P.Q.M. Il Tribunale, ogni diversa istanza o eccezione disattesa o assorbita, definitivamente pronunciando, così dispone: - I) accoglie, per le ragioni di cui in motivazione, la domanda di parte attrice (...) e, per l'effetto: a) ordina Sig. (...), di lasciare immediatamente libero di cose con particolare riferimento all'auto/Suv, Marca Hyundai, Modello Tucson, Targa (...), il cortile comune condominiale, del (...), in Vigevano; b) ordina al sig. (...) di pagare la somma di Euro 1404,23 nei confronti del sig. (...) oltre interessi nella misura legale dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo; c) ordina al sig. v di pagare la somma di Euro 36,44 nei confronti del sig. (...) per ogni mese a partire da giugno 2024 in cui si protrae l'occupazione; - II) condanna altresì parte convenuta (...) a rimborsare alla parte attrice (...) le spese di lite, che si liquidano in Euro 545,00 per spese ed Euro 6164,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% dei compensi, c.p.a., nonché i.v.a., se prevista, secondo le aliquote di legge; III) condanna altresì parte convenuta (...) a rimborsare alla parte attrice (...) le spese della fase di mediazione, che si liquidano in Euro 48,80 per spese ed Euro 268,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% dei compensi, c.p.a., nonché i.v.a., se prevista, secondo le aliquote di legge. Pavia, 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto SOCIETA’ DI CAPITALI. AZIONE EX ARTT. 2467, 2497-QUINQUIES E 2033 C. C. O ARTT. 2497 E 2043 C.C. Dott. Carlo De Chiara Presidente Dott. Massimo Falabella Consigliere Dott. Eduardo Campese Consigliere - rel. Dott. Luigi D’Orazio Consigliere Ud. 09/04/2024 PU Cron. R.G.N. 32864/2019 Dott. Paolo Fraulini Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso n. 32864/2019 r.g. proposto da: FALLIMENTO METAL CHAIN S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del curatore dott. Massimo di Luzio, rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dagli Avvocati Marco De Rosa ed Alfredo Irti, con cui elettivamente domicilia presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla Via Andrea Vasalio n. 22. -ricorrente - contro TRAFILERIE VENETE S.A.S. DI ZANETTI PAOLO & C., con sede in Santa Lucia di Piave (TV), alla via Trieste n. 10, in persona del legale rappresentante pro tempore, e ZANETTI PAOLO, entrambi rappresentati e difesi, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Marco Francescon, con cui elettivamente domiciliano in Roma, al Viale Liegi n. 58, presso lo studio dell’Avvocato Vincenzo Cancrini. - controricorrenti - avverso la sentenza n. 3412/2019 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA, pubblicata il 29/08/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 09/04/2024 dal Consigliere dott. Eduardo Campese; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso; udito, per il ricorrente, l’Avv. Marco De Rosa, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso; udito, per la controricorrente, l’Avv. Marco Francescon, che ha concluso chiedendo il rigetto dell’avversa impugnazione; letta la memoria ex art. 378 cod. proc. civ. depositata dalla parte ricorrente. FATTI DI CAUSA 1.Il 13 aprile 2005, Metal Chain s.r.l. ricevette da Trafilerie Venete (all’epoca s.p.a.) un finanziamento di € 2.000.000,00. Le due società non erano collegate, ma il socio di maggioranza, nonché amministratore, era in entrambe Paolo Zanetti. Il denaro fu parzialmente (€ 500.000,00) utilizzato per restituire un precedente finanziamento dalla prima ottenuto da Weissenfels s.p.a. 1.1. Il 12 gennaio 2006, Metal Chain s.r.l. ricevette da quest’ultima un ulteriore finanziamento di € 2.200.000,00, subito utilizzato per rimborsare quello precedentemente concessole da Trafilerie Venete. Successivamente, il 2 ottobre 2007, fu messa in liquidazione e, nel 2011, lo Zanetti ne divenne socio unico, vendendo poi, nel 2012, le quote alla madre, che fu nominata liquidatrice. Il 31 gennaio 2013, la medesima società fu dichiarata fallita. 1.2. Il Fallimento Metal Chain s.r.l., pertanto, agì in giudizio, innanzi al Tribunale di Venezia, Sezione Impresa, chiedendo la condanna di Trafilerie Venete s.a.s. e del socio accomandatario Paolo Zanetti a restituirgli la somma di € 2.000.000,00, invocando l’applicazione del combinato disposto degli artt. 2467, 2497-quinquies e 2033 cod. civ. e, in subordine, la loro responsabilità per fatto illecito ex artt. 2497 e 2043 cod. civ. 1.3. Costituitisi i convenuti, che contestarono integralmente le avverse pretese, l’adito tribunale, con sentenza del 26 luglio /19 settembre 2017, n. 2044, disattese l’eccezione di incompetenza da essi formulata e rigettò le domande attoree. 1.3.1. In particolare, ravvisò la legittimazione del curatore fallimentare ad agire ex art. 2497 cod. civ. “solo con riferimento all’azione dei creditori” ed escluse l’applicabilità dell’art. 2467 cod. civ., poiché Trafilerie Venete s.a.s. non era socia di Metal Chain s.r.l. ed il rimborso era avvenuto molti anni prima della dichiarazione di fallimento. Negò, inoltre, l’applicabilità dell’art. 2497- quinquies cod. civ., atteso che la direzione sarebbe stata svolta da persona fisica, cioè dal socio amministratore della prima, e non da una società capogruppo. 2. Pronunciando sul gravame promosso dal menzionato Fallimento contro detta decisione, l’adita Corte di appello di Venezia lo respinse con sentenza del 25 luglio/29 agosto 2019, n. 3412, resa nel contraddittorio con Paolo Zanetti e Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. 2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte: i) considerò corretto l’assunto del tribunale che aveva negato al curatore fallimentare la legittimazione ad agire, in rappresentanza della fallita, per la responsabilità del soggetto che avrebbe esercitato poteri di direzione e coordinamento e riconosciuto al medesimo curatore soltanto la legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità spettante ai creditori; ii) rimarcò, comunque, che, in base all’art. 2497 cod. civ., è il legislatore a prevedere che al curatore spetti l’esercizio dell’azione dei creditori e non anche quella dei soci, i quali mantengono la legittimazione ad agire nei confronti dell’ente che esercita la direzione anche in caso di fallimento della società eterodiretta; iii) ritenne che correttamente il tribunale aveva escluso la ripetizione della restituzione del finanziamento anomalo erogato da Trafilerie Venete (all’epoca s.p.a.) a Metal Chain s.r.l. nell’aprile del 2005, poiché avvenuta oltre un anno prima del fallimento della società finanziata. Opinò, infatti, che la restituzione del finanziamento non costituiva un indebito oggettivo ma un atto di adempimento; iv) negò l’applicabilità dell’art. 2497-quinquies cod. civ. a Paolo Zanetti, che era stato amministratore di entrambe le società e che, in forza dei poteri gestori derivatigli di tali funzioni, aveva deciso ed attuato le operazioni di finanziamento e di rimborso in oggetto; v) osservò che, non trovando applicazione, per quanto si è detto, l’art 2467 cod. civ., era priva di rilevanza, per la decisione del giudizio, la questione dell’utilizzazione dell’art. 2497-quinquies cod. civ. in relazione a persone fisiche; vi) evidenziò, quanto al preteso esercizio, da parte dello Zanetti, di poteri di direzione e coordinamento della società di cui era socio di maggioranza e, quindi, dell’ipotizzata esistenza di una holding individuale, che la presenza di un socio dominante non era sufficiente per affermare l’esistenza di una holding di fatto; vii) con riguardo, infine, alla richiesta, formulata in via subordinata, di condanna di Trafilerie Venete s.a.s. e di Paolo Zanetti al risarcimento dei danni subiti da Metal Chain s.r.l., negò la sussistenza dei relativi presupposti per la mancanza di un illecito in quanto la restituzione del finanziamento aveva costituito l’adempimento di una obbligazione, sicché neppure era ipotizzabile qualsivoglia danno. 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione, affidandosi a quattro motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ.. Hanno resistito, con unico controricorso, Paolo Zanetti e Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. 3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria del 21 aprile/19 giugno 2023, n. 17531, ha ritenuto «che le tematiche introdotte con questo giudizio, specie con riferimento alla questione della legittimazione attiva del curatore riconosciuta unicamente per l’azione dei creditori (art. 2497 c.c.) e non anche nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’abusiva attività di eterodirezione nonché alla questione relativa al rimborso del finanziamento senza postergazione meritino un approfondimento ad una pubblica udienza per il rilievo nomofilattico ed in ragione dell’assenza di precedenti specifici». Pertanto, ha rinviato la causa a nuovo ruolo, disponendone la trattazione in pubblica udienza, in occasione della quale il Fallimento ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso denuncia la «Violazione degli artt. 2497, 2043 c.c. e 24 Cost. per la negata legittimazione attiva della società (per essa: del curatore fallimentare) a chiedere il risarcimento del danno da abuso dei poteri di eterodirezione. Omesso esame di un fatto che ha formato oggetto della discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.››. Viene censurata l’affermazione della corte distrettuale secondo cui non sarebbe stato indicato l’interesse del curatore fallimentare ad agire, per conto della società, al fine di ottenere un risarcimento per i danni conseguenti all’abuso dei poteri di eterodirezione stante l’azione riconosciuta ai creditori. Si sostiene di aver fatto riferimento ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2497 cod. civ., richiamando esplicitamente l’ordinanza emessa in sede cautelare dal Tribunale di Venezia che aveva respinto l’eccezione di carenza di legittimazione nonché le ordinanze emesse con riguardo al caso Ligresti ed alla vigenza attuale dell’interpretazione autentica della menzionata disposizione imposta dal d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009. Si critica, inoltre, l’assunto della medesima corte secondo cui costituirebbe una inammissibile duplicazione di risarcimento riconoscere direttamente ai soci il ristoro della perdita di valore della partecipazione sociale e, poi, anche alla società il diritto alla reintegrazione del patrimonio da cui dipende quello stesso valore delle partecipazioni la cui perdita è già stata autonomamente risarcita. Si osserva, in linea generale, che l’azione risarcitoria promossa dai soci di minoranza nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’abusiva attività di eterodirezione deve ritenersi inammissibile quando la società si è già attivata eventualmente anche in sede giudiziale nei confronti della propria controllante al fine di ottenere un risarcimento conseguente a detta attività. 1.1. Tale doglianza si rivela in parte inammissibile ed in parte infondata. 1.2. È inammissibile laddove denuncia un vizio motivazionale, atteso che: i) l'attuale testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (come modificato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012 e qui applicabile, ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 29 agosto 2019), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest'ultimo profilo (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 6127 del 2024; Cass. nn. 28390, 27505, 4528 e 2413 del 2023; Cass. n. 31999 del 2022; Cass., SU, n. 23650 del 2022; Cass. nn. 9351, 2195 e 595 del 2022; Cass. nn. 4477 e 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) come ancora recentemente ricordato, in motivazione, da Cass. n. 2607 del 2024, «giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per la conformità della sentenza al modello di cui all'art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., non è indispensabile che la motivazione prenda in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti al fine di condividerle o confutarle, essendo necessario e sufficiente, invece, che il giudice abbia comunque indicato le ragioni del proprio convincimento in modo tale da rendere evidente che tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse siano state implicitamente rigettate (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 13408 del 2023; Cass. n. 9021 del 2023; Cass. n. 6073 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 956 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 29860 del 2022; Cass. n. 3126 del 2021; Cass. n. 25509 del 2014; Cass. n. 5586 del 2011; Cass. n. 17145 del 2006; Cass. n. 12121 del 2004; Cass. n. 1374 del 2002; Cass. n. 13359 del 1999)». 1.3. La censura è infondata, invece, laddove insiste nell’affermare la riconoscibilità della legittimazione ad agire del curatore fallimentare, in rappresentanza della società fallita, al fine di ottenere il risarcimento dei danni cagionati alla società medesima dall’attività di eterodirezione e coordinamento su di essa esercitata. 1.3.1. Invero, l’art. 2497 cod. civ., – inserito nel Capo IX (come sostituito dal d.lgs. n. 6 del 2003, con decorrenza dall’1 gennaio 2004), intitolato “Direzione e coordinamento di società”, del Titolo V, del Libro Quinto del codice civile – rubricato “Responsabilità”, così testualmente dispone (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportata al suo comma 3, dal d.lgs. n. 14 del 2019): “1. Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. 2. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. 3. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento. 4. Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di società soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori di questa è esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario”. Va ricordato, inoltre che ai sensi dell'art. 19 del d.l. n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, il riportato comma 1 si interpreta nel senso che «per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria». 1.4. Tanto premesso, rileva, innanzitutto, il Collegio che l’appena riportata disposizione codicistica – chiara nel suo tenore letterale – attribuisce la legittimazione all’esercizio dell’azione ivi prevista ai soci ed ai creditori della società soggetta all'altrui attività di direzione e coordinamento. 1.4.1. Più precisamente, la norma disciplina espressamente la responsabilità, nei confronti dei soci della società eterodiretta, “per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale” e, verso i creditori sociali, “per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società”. 1.4.2. Con riguardo alla posizione del socio, la dottrina ha evidenziato che trattasi di un’ipotesi di risarcibilità del danno meramente riflesso da lui subito, in deroga, quindi, al principio di generale irrisarcibilità di tale tipo di danno. 1.4.2.1. Infatti, il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale altro non è che il riflesso del danno subito (direttamente) dalla società eterodiretta, che importa una riduzione del valore del patrimonio sociale e, dunque, una riduzione del valore delle partecipazioni dei soci. 1.4.2.2. L'azione di responsabilità riconosciuta ai soci dall'art. 2497 cod. civ. consente al socio della società soggetta ad altrui direzione e coordinamento di agire nei confronti dell'ente che tale direzione e coordinamento abbia malamente esercitato, al fine di ottenere, in proprio favore, il risarcimento di danni incidenti sostanzialmente sul patrimonio della società e, così, per conseguenza solo indiretta, su quello suo personale, avendo il legislatore richiamato il concetto di pregiudizio arrecato al valore o alla redditività della partecipazione sociale. 1.4.3. Quanto alla posizione dei creditori sociali, invece, perché possa essere affermata la responsabilità derivante dall’illecito esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di società, occorre che il patrimonio della società eterodiretta sia stato danneggiato. In altri termini, deve esserne stata lesa l’integrità, con conseguente annientamento o riduzione della generica garanzia patrimoniale (art. 2740 cod. civ.). 1.4.3.1. Pertanto, il pregiudizio ai creditori, ai sensi dell’art. 2497, comma 1, cod. civ., è quello all’interesse, che loro pertiene, strumentale alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale della loro debitrice, quale presupposto per favorire il buon esito del proprio credito. 1.4.4. La norma non prevede, per contro, la legittimazione ad agire della società sottoposta all'attività di direzione e coordinamento, titolare del patrimonio direttamente danneggiato dalle condotte abusive della controllante. Essa, inoltre, attribuisce al curatore fallimentare la legittimazione all’esercizio della sola azione dei creditori sociali, non anche di quella sociale, né di quella dei soci, quest’ultimi mantenendo, come si è già riferito, la legittimazione ad agire nei confronti dell’ente che esercita la direzione anche in caso di fallimento della società eterodiretta. 1.5. La mancata previsione di detta società tra i soggetti titolari dell’azione di cui all’art. 2497 cod. civ. non appare in contrasto con l’art. 24 Cost., atteso che, come affatto condivisibilmente opinato dalla corte lagunare, «la fattispecie tutela beni che fanno capo direttamente ai soci: la redditività ed il valore della partecipazione sociale. La tutela, invece, dell’integrità del patrimonio è riconosciuta nell’interesse dei creditori sociali e – come si è detto – il curatore è legittimato ad agire in rappresentanza della collettività. Nell’insieme, la tutela apprestata dal legislatore è completa, poiché, riconoscendosi il diritto sia dei soci sia dei creditori ad ottenere il risarcimento dal soggetto esercitante l’attività di direzione e coordinamento, non rimangono esclusi soggetti danneggiati. Rappresenterebbe, invece, una inammissibile duplicazione di risarcimento riconoscere direttamente ai soci il ristoro della perdita di valore della partecipazione sociale e poi anche alla società il diritto alla reintegrazione del patrimonio, da cui dipende quel medesimo valore delle partecipazioni la cui perdita è già stata (o può essere) autonomamente risarcita» (cfr. pag. 8-9 della sentenza impugnata). 1.5.1. Anche i lavori preparatori, del resto, depongono nel senso che il curatore è legittimato a proporre unicamente l’azione spettante ai creditori sociali. Da essi, infatti, – come opportunamente rimarcato anche dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta – si desume agevolmente la piena consapevolezza del legislatore delegato del 2003 nella propria scelta definitiva: basti pensare, da un lato, alla cancellazione del terzo comma dello schema, con conseguente soppressione della legittimazione della società eterodiretta a promuovere l’azione di responsabilità contro la società dominante, già concessa ad azionisti “esterni” e creditori della società abusata; dall’altro, alla riconduzione di tale azione (degli azionisti “esterni” e dei creditori) alla violazione di una regola di condotta stabilita dal legislatore in funzione di una tutela diretta degli interessi che ad essi fanno capo (rispettivamente, redditività e valore della partecipazione, e solvibilità della società). 1.5.2. In altri termini, il dato letterale dell’art. 2497, comma 4, cod. civ., che espressamente si riferisce alla sola azione dei creditori sociali (la quale, effettivamente, con il fallimento o l’amministrazione straordinaria della società eterodiretta, diviene azione di massa, al pari dell’azione ex art. 2394 cod. civ.), nemmeno è superabile alla luce dei criteri interpretativi di cui all’art. 12 delle Preleggi. Esso, invero, è collocato all’interno della norma che disciplina, ai commi precedenti, la responsabilità della società che esercita illegittimamente attività di direzione e coordinamento verso la controllata per i pregiudizi arrecati sia ai soci, sia ai creditori sociali dell’ente eterodiretto, sicché l’attribuzione della legittimazione al curatore o al commissario straordinario della sola azione dei creditori, manifesta, come ritiene anche la dottrina maggioritaria, una precisa scelta del legislatore e non la si può ritenere una mera omissione. 1.6. Neppure persuade, infine, la tesi secondo cui le critiche derivanti dalla mancata previsione della legittimazione dell’organo della procedura nella fattispecie in esame avrebbero trovato riscontro nella formulazione dell’art. 291 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14): formulazione, che, data l’omnicomprensività, potrebbe essere interpretato nel senso dell’ampliamento della legittimazione del curatore. 1.6.1. Invero, proprio la nuova normativa del CCII si presta a diverse ed opposte interpretazioni, sollecitate dalla più attenta dottrina. 1.6.1.1. Infatti, l’art. 255 di detto Codice, rubricato “Azioni di responsabilità” (“1. Il curatore, autorizzato ai sensi dell’articolo 128, comma 2, può promuovere o proseguire, anche separatamente: a] l’azione sociale di responsabilità; b] l’azione dei creditori sociali prevista dall’articolo 2394 e dall’articolo 2476, sesto comma, del codice civile; c] l’azione prevista dall’articolo 2476, ottavo comma, del codice civile; d] l’azione prevista dall’articolo 2497, quarto comma, del codice civile; e] tutte le altre azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge”) detta le disposizioni per la legittimazione generale alle azioni di responsabilità da parte del curatore della liquidazione giudiziale, analogamente a quanto previsto dall’art. 307 CCII per il commissario della liquidazione coatta amministrativa (“L’azione di responsabilità contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo dell’impresa o dell’ente in liquidazione, a norma degli articoli 2393, 2394, 2476, primo, sesto e ottavo comma, 2497 del codice civile, è esercitata dal commissario liquidatore, previa autorizzazione dell’autorità che vigila sulla liquidazione”). 1.6.1.2. Non si rinviene, dunque, come è evidente, la previsione di una legittimazione generale ed indistinta, ma, come sottolineato dalla più accorta dottrina, un’enunciazione puntuale delle azioni di responsabilità esperibili. Invero, anche la norma di chiusura di cui alla lett. e) dell’art. 255 ha una finalità volta a circoscrivere le azioni risarcitorie spettanti alla curatela alle sole ipotesi espressamente previste dalla legge, così superandosi la legittimazione del curatore ad esercitare le azioni di responsabilità senza ulteriori precisazioni. 1.6.2. In definitiva, è delineata un’impostazione più rigorosa che non riconosce al curatore un generalizzato potere di rappresentanza. Con la conseguenza che le disposizioni che attribuiscano tale potere al curatore debbono considerarsi quali norme eccezionali, al di fuori delle quali la legittimazione della curatela quale organo rappresentativo della massa dei creditori deve essere esclusa. 2. Il secondo motivo di ricorso lamenta la «Violazione di legge per interpretazione ed applicazione errate degli artt. 2033, 2467 e 2497- quinquies c.c.››. Si deduce che l’art. 2033 cod. civ. deve trovare applicazione non solo laddove la causa manchi totalmente ma anche allorquando il pagamento indebito sia riferibile ad una ragione genetica nulla ed inefficace. Si sostiene che, nel caso della restituzione di finanziamento “anomalo”, non viene in essere un pagamento prima della scadenza, bensì l’assenza di un elemento sostanziale (il mancato avverarsi della condizione legale dell’assenza di sovraindebitamento o di tensione finanziaria della società) perché possa configurarsi l’attualità del debito stesso di restituzione. Si precisa, altresì, che la postergazione legale dei finanziamenti “anomali” riguarda tutti i finanziamenti del genere, non solo quelli restituiti entro l’anno anteriore al fallimento, e deve essere assistita da una normativa che la salvaguardi. Si puntualizza pure che, «In realtà, il Fallimento attore non ha esercitato l’azione prevista dal primo comma, parte seconda, dell’art. 2467 c.c. per la retroversione “automatica” di finanziamenti “anomali” rimborsati nell’anno anteriore al fallimento: ha esercitato domanda di ripetizione per un rimborso avvenuto anteriormente». 2.1. Tale doglianza si rivela infondata. 2.2. Invero, il Fallimento ricorrente, come si è appena riferito, ha sottolineato di non aver esercitato l’azione prevista dall’art. 2467, comma 1, seconda parte, cod. civ. (per la retroversione automatica di finanziamenti anomali rimborsati nell’anno anteriore al fallimento), ma di aver promosso, in via concorrente con l’azione ex art. 2497 cod. civ., la domanda di ripetizione ex art. 2033 cod. civ. in relazione ad un “finanziamento anomalo” rimborsato anteriormente all’anno predetto. 2.3. Giova premettere, allora, che: i) l’art. 2467, comma 1, cod. civ. nel testo, qui applicabile ratione temporis, risalente al d.lgs. n. 6/2003, prevede che il diritto dei soci al rimborso di un finanziamento concesso alla società in una situazione di squilibrio finanziario, o in un contesto che avrebbe richiesto un aumento di capitale, è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e deve essere restituito alla massa qualora effettuato nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; ii) giusta l’art. 2497-quinquies cod. civ., le regole relative ai finanziamenti dei soci nell’ambito della società a responsabilità limitata sono richiamate nel caso di finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti (finanziamenti discendenti o orizzontali). Da tale previsione consegue, allora, che la disciplina in esame si applica ai finanziamenti effettuati non solo a favore della società a responsabilità limitata, ma anche di società di altro tipo; inoltre, le medesime regole assumono rilievo non soltanto nel caso in cui il finanziamento sia effettuato dal socio, ma anche da terzi, purché si tratti o della società che esercita attività di direzione e coordinamento nei confronti della società finanziata o da altri soggetti comunque sottoposti a tale società; iii) nel caso di specie, la corte territoriale ha accertato che Trafilerie Venete s.a.s. di Zanetti Paolo & C. aveva concesso un finanziamento alla Metal Chain s.r.l., poi fallita, senza esserne socia (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). La stessa corte, inoltre, ha ritenuto che correttamente il tribunale aveva escluso la ripetizione della restituzione di detto finanziamento, erogato nell’aprile del 2005, poiché avvenuta oltre un anno prima del fallimento della società finanziata e considerato, altresì, che la restituzione del finanziamento non costituiva un indebito oggettivo ma un atto di adempimento. 2.4. Fermo quanto precede, opina il Collegio che, tra le differenti ricostruzioni interpretative che hanno interessato l’art. 2467 cod. civ. nel testo in precedenza indicato (quella che, privilegiando il dato letterale, qualifica l’azione attribuita al curatore come ripetizione dell’indebito e quella che, in una differente prospettiva, riconduce la regola ai principi del diritto concorsuale, configurandola alla stregua di un’azione revocatoria di carattere speciale, trattandosi di un’inefficacia ex lege del rimborso, supportata da una presunzione assoluta della scientia decotionis), è senz’altro preferibile quella che riconduce il rimedio ivi disciplinato ad una fattispecie di revocatoria speciale. 2.4.1. Ciò non soltanto perché lo stesso art. 70, comma 2, l.fall. sancisce un obbligo di restituzione da revocatoria allorché si riferisce a “colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto”, ma anche, e soprattutto, perché opinare diversamente (qualificando, cioè, il rimedio de quo come azione di ripetizione dell’indebito) risulterebbe in chiaro contrasto proprio con quanto previsto dallo stesso art. 2467 cod. civ., laddove, al comma 1, seconda parte, limita l’obbligo di restituzione al rimborso percepito nell’anno anteriore al fallimento: previsione, questa, che si rivelerebbe assolutamente inutile se la ricostruzione del rimedio in termini di azione ex art. 2033 cod. civ. fosse fondata, giacché quest’ultima dovrebbe portare, di per sé, ad ammettere che anche i rimborsi effettuati oltre l’anno prima dall’apertura del fallimento siano oggetto di ripetizione, sulla base, appunto, della disposizione indiscriminata di cui all’articolo 2033 cod. civ. 2.4.2. In altri termini, come condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta, è proprio «la limitazione temporale dell’obbligo di restituzione al solo rimborso percepito nel periodo sospetto di un anno anteriore al fallimento, insieme con la complessiva destinazione della disciplina contenuta nell’art. 2467 alla tutela dei creditori, a far piuttosto propendere per la tesi che vede nel suddetto obbligo l’espressione di una vera e propria revocatoria fallimentare ex lege del tutto simile, quanto a meccanismo operativo (inefficacia automatica), a quella dei pagamenti di cui all’art. 65 l.fall.». 2.5. Resta solo da ricordare, a conferma della correttezza della soluzione ermeneutica qui prescelta, che il CCII ha abrogato, all’interno dell’art. 2467 cod. civ. (e, quindi, anche dell’art. 2497-quinquies cod. civ.), la regola di diritto concorsuale, ponendola nell’ambito dell’art. 164 CCII, rubricato “Pagamenti di crediti non scaduti e postergati”, che, ai commi 2 e 3, sancisce che “2. Sono privi di effetto rispetto ai creditori i rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società se sono stati eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della procedura concorsuale o nell’anno anteriore. Si applica l’art. 2467 secondo comma, codice civile. 3. La disposizione di cui al comma secondo si applica anche al rimborso dei finanziamenti effettuato a favore della società assoggettata alla liquidazione giudiziale da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti”. 2.5.1. Il legislatore, dunque, non colloca più la norma, chiaramente di diritto concorsuale, all’interno del codice civile, ma la inserisce nell’ambito della disciplina dell’azione revocatoria, equiparandola a quella relativa ai pagamenti di crediti non scaduti. Viene confermata, così, l’inefficacia del pagamento, rectius del rimborso dei finanziamenti, ampliandosi il periodo preso in considerazione, che decorre non più dall’apertura della procedura, ma dal deposito della domanda e, quindi, ricomprende l’anno anteriore a quest’ultimo nonché il periodo intercorrente tra il deposito della domanda e l’apertura della procedura concorsuale. 3. Il terzo motivo di ricorso prospetta la «Violazione di legge per falsa interpretazione ed applicazione degli artt. 2497, 2467 e 2497-quinquies c.c. e per disapplicazione dell’art. 1218 c.c. - Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.». Si contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il soggetto eterodirigente debba essere necessariamente una società o un ente e non una persona fisica, sicché, in assenza di tale organismo, non si potrebbe invocare l’art. 2497, comma 2, cod. civ. Si ascrive alla corte lagunare di non aver fatto corretta applicazione dei principi affermati da Cass. n. 26785 del 2016, secondo cui, nel caso di eterodirezione su base personale, i requisiti della spendita del nome e della struttura organizzativa vanno valutati con “minor rigore” perché, in tali casi, ben vi può essere una “organizzazione coincidente con quella delle tre società coordinate”. Quanto, poi, alla spendita del nome, si critica la medesima corte per avere omesso di considerare che Paolo Zanetti aveva esplicitamente speso il suo nome nell’operazione Weissenfels, prima di una assunzione di cariche amministrative nella newco che ne sarebbe stata protagonista. 3.1. Questa doglianza risulta complessivamente inammissibile. 3.2. Lo è, innanzitutto, laddove lamenta un vizio motivazionale, potendosi ragionevolmente richiamare, in proposito, le stesse considerazioni esposte nel precedente § 1.2. per disattendere la medesima tipologia di vizio di cui al primo motivo. 3.3. Lo è anche, però, nella parte in cui denuncia la pretesa violazione di legge, atteso che, in realtà, la censura si rivela chiaramente volta ad ottenere l’applicazione di quanto sancito dall’art. 2467 cod. civ. sul presupposto che, nella specie, si sia al cospetto di finanziamenti effettuati, in favore della società poi fallita (Metal Chain s.r.l.), da chi (Paolo Zanetti o Trafilerie Venete s.a.s., società di cui quest’ultimo era amministratore), asseritamente, esercitava attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti (art. 2497-quinquies cod. civ.). 3.3.1. La sentenza impugnata, tuttavia (cfr. pag. 11) ha escluso che lo Zanetti avesse deciso ed attuato le operazioni di rimborso e finanziamento per cui è causa in forza dell’esistenza di un vincolo di sottoposizione. Secondo la corte veneziana, infatti, «Zanetti era amministratore di entrambe le società (oltre che socio di maggioranza), ed in forza dei poteri gestori che gli derivavano dalla funzione di amministratore (e non certo per l’esistenza di un vincolo di “sottoposizione”, quale può sussistere tra una società capogruppo e le partecipate), egli ha deciso ed attuato le operazioni di finanziamento e di rimborso di cui è causa». 3.3.2. Trattasi, come è palese, di un accertamento di evidente natura fattuale, non ulteriormente sindacabile in questa sede. Non resta, dunque, che prenderne atto e rilevare che, rispetto ad esso, le argomentazioni del motivo appaiono, sul punto, sostanzialmente volte ad ottenerne un inammissibile riesame. Il giudizio di legittimità, invero, non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043 e 6257 del 2024). 3.4. A tanto deve aggiungersi soltanto che è lo stesso Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione ad aver puntualizzato (cfr. pag. 23 del suo ricorso) di non aver esercitato l’azione prevista dall’art. 2467, comma 1, seconda parte, cod. civ. (bensì quella di ripetizione di indebito ex art. 2033 cod. civ., in relazione ad un rimborso avvenuto anteriormente all’anno di cui al menzionato art. 2467 cod. civ.), sicché la questione concretamente posta dal motivo, come già condivisibilmente rilevato dalla corte di appello (cfr. pag. 11-12 della sentenza impugnata.) – oltre che dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta – diviene assolutamente irrilevante. 4. Il quarto motivo di ricorso, infine, è così rubricato: «Violazione di legge per errata interpretazione ed applicazione degli articoli 2467, 2497, 2497- quinquies, 2043 ovvero 1218 c.c. e 216 l.f.». Assume il ricorrente che l’art. 2467 cod. civ., nel prevedere la postergazione necessaria del “finanziamento anomalo”, introduce un divieto di rimborso fintantoché permanga la situazione di sovraindebitamento della società finanziata e che la violazione di tale divieto costituisce un comportamento antigiuridico che, se accompagnato dall’esercizio di poteri di direzione e coordinamento di società, costituisce abuso della società eterodiretta fonte di responsabilità ex art. 2497 cod. civ. ed anche 2497-quinquies cod. civ., inquadrabile come responsabilità contrattuale ex art 1218 cod. civ. o come responsabilità ex art. 2043 cod. civ. 4.1. Questa doglianza si rivela complessivamente insuscettibile di accoglimento. 4.2. Invero, la corte territoriale ha escluso la configurabilità dell’illecito sia per mancanza del profilo dell’antigiuridicità, essendosi al cospetto, a suo dire, di un adempimento di obbligazione (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata), sia, in concreto, per insussistenza di danno, trattandosi di operazione cd. a “saldo invariato” (cfr. pag. 14 della medesima sentenza). 4.3. Tanto premesso, rileva il Collegio che il verificarsi delle ipotesi di cui all’art. 2467, comma 2, cod. civ. produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata, che diviene inesigibile quand’anche sia spirato il termine previsto per l’adempimento ex art. 1813 c.c. 4.3.1. Come significativamente sancito da Cass. n. 12994 del 2019, «la postergazione disposta dall'art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma; ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento, ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell'organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi». 4.3.2. Posto, allora, che la disciplina della postergazione dei finanziamenti dei soci è volta a tutelare le aspettative dei creditori terzi e della società, a fronte di richieste di rimborso relative a crediti non ancora esigibili, la violazione della regola di cui all’art. 2467 cod. civ. può dar luogo a plurime forme di tutela, tra le quali, senz’altro, – come rimarcatosi anche nella requisitoria scritta del sostituto procuratore generale – la responsabilità (per violazione di doveri tipicamente previsti dalla legge), nei confronti dei creditori (e, dunque, del fallimento), degli amministratori di una società fallita che abbiano restituito ai soci somme in violazione della norma predetta 4.3.3. Nella specie, tuttavia, il fallimento ricorrente, lungi dall’invocare la responsabilità ex art. 2394 cod. civ. e 146 l.fall., ha inteso agire, dichiaratamente, nei confronti di Paolo Zanetti, ex art. 2497 cod. civ. (cfr. pag. 6 del ricorso). 4.3.4. La corte di merito, però, ha escluso l’esistenza di attività di direzione e coordinamento da parte di quest’ultimo, sicché la censura si rivela sostanzialmente diretta ad ottenere una rivisitazione di quello stesso accertamento fattuale – non ulteriormente sindacabile, invece, in questa sede – già descritto nel precedente § 3.3.1. Non resta resta che ribadire, allora, quanto si è osservato, in proposito, nel successivo § 3.3.2., da intendersi qui richiamato. 4.4. Nemmeno può essere invocata, infine, la violazione delle norme di cui agli artt. 1218 o 2043 cod. civ., perché, come ancora una volta condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria scritta, solo se l’atto illecito (nei confronti della società o dei creditori sociali) costituisce violazione di doveri diversi da quelli tipicamente previsti dalla legge o dallo statuto in funzione dell’amministrazione della società (ma questo non è il caso di specie, integrando il rimborso di un credito inesigibile una tipica violazione dell’art. 2467 cod. civ. che concorre a conformare lo statuto dell’amministratore), ed è compiuto, quindi, al di fuori ed indipendentemente dall’esistenza e dal collegamento con il rapporto di amministrazione, gli amministratori rispondono dei danni conseguentemente arrecati alla società in sede contrattuale o extracontrattuale secondo le norme ordinarie del diritto comune. 5. In definitiva, quindi, l’odierno ricorso promosso dal Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione deve essererespinto, restando a suo carico le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, rimarcandosi, in proposito, che il patrocinio a spese dello Stato (spettante exlege al Fallimento che agisca munito del decreto del giudice delegato ex art. 144 del d.P.R. n. 115 del 2002. Cfr., in motivazione, Cass. n. 27310 del 2020), non vale ad addossare all'Erario anche le spese che la parte ammessa sia condannata a pagare all'altra risultata vittoriosa (cfr. Cass. n. 25653 del 2020; Cass. n. 8388 del 2017). 5.1. Infine, deve darsi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del medesimo ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento». PER QUESTI MOTIVI La Corte rigetta il ricorso proposto dal Fallimento Metal Chain s.r.l. in liquidazione e lo condanna al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, liquidate in complessivi € 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera del medesimo ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 aprile 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Dott. Eduardo Campese Dott. Carlo De Chiara
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CASAFELICE Barbara - Consigliere Dott. POSCIA Giorgio - Relatore Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere Dott. FILOCAMO Fulvio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Gi. nato a F il (Omissis); avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce del 04/05/2022; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIORGIO POSCIA; udita la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al calcolo della pena ed il rigetto del ricorso per il resto; sentito l'avv. AN.BO., quale sostituto processuale dell'avv. LU.NA., in rappresentanza del Comune di Mesagne, che ha insistito per il rigetto del ricorso riportandosi alle conclusioni scritte depositate unitamente alla nota spese; sentito il difensore avv. MI.FI., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Lecce, decidendo sull'appello proposto dall'imputato Ca.Gi., ha confermato quella pronunciata dal Tribunale di Brindisi in data 30 marzo 2016 con la quale il predetto era stato dichiarato colpevole dei reati di detenzione, acquisto e porto di armi ed ordigni esplosivi commessi nel 2011 (di cui ai capi nn. 1, 2, 3, 4 - in quest'ultimo assorbito di cui al capo n. 5 perché contestato in fatto - e 6 della rubrica) e ritenuti gli stessi avvinti dal vincolo della continuazione tra loro e con quelli giudicati con la sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012, considerata altresì la contestata recidiva, lo aveva condannato alla pena di anni quattro di reclusione in aumento rispetto alla pena di anni otto di reclusione, irrogata con la predetta sentenza del Tribunale di Brindisi, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite. In particolare, l'imputato è stato ritenuto responsabile di avere commesso i reati contestatigli per conto della associazione mafiosa denominata "Sacra Corona Unita", quale referente per la città di F dell'ala di Mesagne del predetto sodalizio mafioso. 2. Avverso la predetta sentenza Ca.Gi., per mezzo dell'avv. Mi.Fi., ha proposto ricorso per cassazione affidato ad otto motivi, di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc:. pen., insistendo per l'annullamento della stessa. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. ed il relativo vizio di motivazione; sostiene l'avvenuta violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza ed osserva che la contestazione di cui ai capi nn. 1, 2, 3 e 4 è in totale contrasto con la motivazione della sentenza impugnata. 2.2. Con il secondo denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 125 e 192 del codice di rito rispetto al mancato rilevamento della totale inattendibilità dei collaboratori di giustizia che hanno accusato il Ca., stante l'assenza di riscontri oggettivi rispetto alle loro dichiarazioni. 2.3. Con il terzo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 125 e 192 del codice di rito ed il relativo vizio di motivazione con riferimento ai capi di imputazione nn. 3, 4 e 5 per travisamento della prova. 2.4. Con il quarto deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 157, 161, 99, comma 4, e 648 cod. pen. ed osserva che il delitto di ricettazione era già prescritto al momento della celebrazione del processo di primo grado poiché il termine prescrizionale doveva farsi decorrere al momento prossimo alla consumazione del delitto presupposto (26 maggio 2007) e che a tale data non poteva configurarsi la contestata recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale. 2.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 192 cod. proc. pen., 1,2 e 4 l. 895/67 ed il relativo vizio di motivazione stante l'assenza di prova della sua responsabilità per il reato sub 1) in ordine alla cessione delle armi contestatagli. 2.6. Con il sesto deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 99, 133, 62 - bis e 81 cod. pen. e dell'art. 7 d.l. 152/1991. Al riguardo evidenzia che la recidiva specifica non poteva essere contestata senza una precedente dichiarazione in tal senso in una sentenza e che la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine alla consapevolezza dell'imputato di agevolare con le propria condotta il sodalizio criminale; inoltre, il ricorrente osserva che la Corte di appello non ha indicato gli aumenti di pena per i singoli reati satellite ed ha negato le circostanze attenuanti generiche limitandosi a richiamare i precedenti penali del Ca.. 2.7. Con il settimo motivo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), d) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 603 e 197 - bis cod. proc. pen. per non avere disposto un nuovo esame dei coimputati Gi.De., Ma.Pa. e Vi.Sp. che si erano avvalsi della facoltà di non rispondere ai sensi degli artt. 210 e 503 del codice di rito. 2.8. Con l'ultimo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 185 cod. pen., 74, 528 e 541 cod. proc. pen. per carenza di motivazione in merito al riconoscimento del risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite con particolare riferimento al Comune di Mesagne che non era coinvolto in nessun modo nelle attività contestate al Ca.. Il difensore del ricorrente ha depositato articolata memoria difensiva contenente motivi nuovi con cui si articolano le censure già dedotte con il ricorso principale, tra cui quella afferente la sussistenza al momento del tempus commissi delicti della condizione di recidivo nella forma aggravata ai fini del computo prescrizionale e la circostanza per cui la condizione di recidivo si evincerebbe dal casellario giudiziario per fatti successivi a quello oggetto di contestazione nella sentenza impugnata. 3. Il procedimento, originariamente fissato per l'udienza dell'11 ottobre 2023, è stato rinviato per legittimo impedimento del difensore. 4. Il Comune di Mesagne, costituito parte civile, ha depositato memoria con le proprie conclusioni ed allegata nota spese. 5. Alla udienza di discussione le parti hanno concluso nei termini sopra indicati. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti appresso indicati. 2. In particolare l'impugnazione va accolta limitatamente alla lamentata mancata indicazione dell'aumento di pena per i singoli reati satellite (oggetto del sesto motivo) in quanto, effettivamente, la Corte territoriale - nel confermare la decisione di primo grado rispetto alla responsabilità dell'odierno ricorrente per i reati di detenzione, acquisto e porto di armi ed ordigni esplosivi commessi nel 2011 e ritenuti gli stessi avvinti dal vincolo della continuazione tra loro e con quelli giudicati con la sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012 - ha condannato Ca.Gi. alla pena complessiva di anni quattro di reclusione in aumento rispetto alla pena di anni otto di reclusione (irrogata con la predetta sentenza del Tribunale di Brindisi) senza, però, indicare gli aumenti per i singoli reati satellite. Al riguardo va ricordato che in tema di reato continuato, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell'ambito quantitativo previsto dalla legge - pari al triplo della pena base - dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell'esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell'aumento di pena per i singoli reati satellite. (Sez. U, Sentenza n. 22471 del 26/02/2015, Rv. 263716 - 01, Stabile; Sez. 4, Sentenza n. 28139 del 23/06/2015, Rv. 264101 - 01). 3. Risulta invece inammissibile, per carenza di un concreto interesse, la censura (contenuta nel sesto motivo) riguardante la recidiva atteso che la Corte territoriale ha determinato la pena in continuazione rispetto alla sopra indicata sentenza del Tribunale di Brindisi del 14 dicembre 2012, senza tenere conto della contestata recidiva nel suddetto calcolo. 4. Quanto alle altre censure (compresi i motivi aggiunti) deve evidenziarsi che con l'impugnazione in sostanza vengono riproposte quelle contenute nell'appello senza, però, che il ricorrente si confronti in modo specifico con il ragionamento logico e giuridico svolto dalla Corte territoriale per respingerle. 4.1. Invero, rispetto al primo motivo, la Corte di appello di Lecce ha escluso la lamentata violazione dell'art.521 del codice di rito osservando - con motivazione adeguata e non manifestamente illogica - che il primo giudice non aveva affermato che fosse stato Ca.Na. (genero del Ca.) a consegnare le armi, ma che invece egli le aveva conservate per conto dell'odierno ricorrente; pertanto, non vi era stata alcuna contraddizione rispetto all'imputazione sub 4) nella quale era indicato che il Na. conservava le armi e che le stesse erano state consegnate dal coimputato Co.Ro. - per il tramite di altri - a Pa.Ma., Gi.Re. e Gi.Pa.. 4.2. Con riferimento al secondo, terzo e quinto motivo, deve ricordarsi che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta "doppia conforme" (come nel caso di specie, fatta eccezione per il riconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62 - bis cod. pen.) e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758). Orbene, come chiarito in seguito, le critiche esposte dal ricorrente - pur lamentando il vizio della motivazione apparente ed illogica - riguardano profili in fatto, coerentemente scrutinati nel corpo della decisione impugnata e la cui riproposizione è tesa - in tutta evidenza - ad una rivalutazione del peso dimostrativo degli elementi di prova. In tal senso, quindi il ricorso finisce con il proporre argomenti di merito la cui rivalutazione è preclusa in sede di legittimità. E' costante, infatti, l'insegnamento di questa Corte per cui il sindacato sulla motivazione del provvedimento impugnato va compiuto attraverso l'analisi dello sviluppo motivazionale espresso nell'atto e della sua interna coerenza logico - giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità "nuove" attribuzioni di significato o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa (si veda, ex multis, Sez. VI n. 11194 del 08/03/2012, Lupo, Rv. 252178). Così come va ribadito che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999 Rv. 214794; Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074). 4.3. In particolare la Corte di appello, con motivazione adeguata e non contraddittoria, ha confermato il giudizio di penale responsabilità del Ca. escludendo anzitutto il lamentato contrasto tra quanto dichiarato da Er.Pe. ed altri collaboratori di giustizia (in particolare Al.Pe.), poiché le armi delle quali aveva parlato il Pe. non erano le stesse di cui avevano riferito gli altri collaboratori, come dimostrato dalla circostanza obiettiva che esse afferiscono a due diversi capi di imputazione. Inoltre, la Corte distrettuale ha evidenziato che le dichiarazioni del Pe. coincidevano con quelle rese da Cosimo Gu., il quale aveva confermato che il Ca. era il referente per Francavilla Fontana del gruppo mesagnese della Sacra Corona Unita (con a capo Er.Pe.) e che il suo compito era quello di procurare le armi al sodalizio. Fr.Gr., dal canto suo, aveva riferito che l'odierno ricorrente, nell'ottobre 2010, gli aveva consegnato un kalashnikov con due caricatori e cinque bombe a mano che, assieme ad una mitraglietta Skorpion, una pistola calibro 7,65 ed a una calibro 9 parabellum, erano custoditi da Vi.St.. Pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pe., Gu. e Gr. erano coincidenti tra loro avendo ad oggetto le medesime armi sub 2), mentre Pe. aveva riferito in ordine alle armi di cui al capo 1) della rubrica. 4.4. E' stata quindi esclusa, in modo coerente, una contraddizione tra le dichiarazioni di Pe. e di Gr. poiché relative a diverse armi che entrambi avevano ricevuto dall'odierno ricorrente. Dunque il fatto che i collaboratori di giustizia abbiano tutti dichiarato di avere ricevuto, in momenti e luoghi diversi, armi da parte di Ca. non evidenziava una contraddittorietà, ma al contrario è stato ritenuto - in modo non illogico - idoneo a dimostrare come il ricorrente procurasse armi alla cosca con una certa continuità e fosse dunque stabilmente inserito nel sodalizio, al fine di agevolarne la realizzazione dei fini criminali. Deve aggiungersi che la Corte d'Appello ha evidenziato che dalle intercettazioni tra Sp. e De. si evinceva che le armi erano state dagli stessi rinvenute presso la masseria che loro stessi avevano riscontrato essere nella disponibilità di Ca., tanto che De. aveva raccomandato a Sp. di non rivelare dove erano custodite al fine di evitare ripercussioni e reazioni proprio da parte di Ca.. Inoltre, i marescialli dell'Arma dei Carabinieri Gi. e Gu. hanno deposto che Sp., al momento del suo arresto, aveva indicato la masseria in contrada (Omissis) come luogo in cui le armi erano state rinvenute e solo, in un secondo momento, spostate in Contrada (Omissis) e poi in contrada (Omissis), a seguito della loro cessione in favore di Ma.Pa.. La Corte territoriale, inoltre, ha valutato come irrilevante la circostanza (dedotta dall'odierno ricorrente) secondo cui la masseria in contrada San Teodoro, dove erano nascoste le armi, sarebbe stata all'epoca dei fatti oggetto di espropriazione essendo stata acquistata da An.De. e che, quindi, essa non era nella sua disponibilità. Infatti, è stato accertato che l'acquisto da parte del De. era avvenuto nel settembre 2011, mentre i fatti oggetto di imputazione risalgono al gennaio - febbraio 2011 e perciò quando la masseria era ancora nella disponibilità dell'imputato, tanto che era stato il genero Ca.Na. a fare accedere i Carabinieri all'interno di essa essendo in possesso delle relative chiavi. 4.5. La Corte di appello, sempre in modo non manifestamente illogico, ha dato risalto anche alla conversazione intercettata tra Na. ed il suocero (odierno ricorrente) in cui il primo ammetteva di avere nascosto le "cose" nell'attesa che si calmassero le acque; inoltre anche il ritrovamento nella masseria, da parte dei Carabinieri, di attrezzature da supermercato (compatibili con l'attività lavorativa di Ca.Gi.) è stato considerato dato rilevante ai fini della prova che la masseria fosse nella sua disponibilità all'epoca dei fatti. 4.6. Pertanto, non sussiste il lamentato travisamento della prova e il ricorrente, pur lamentando la violazione di legge ed il vizio di motivazione, suggerisce una non consentita lettura alternativa del materiale probatorio, già coerentemente valutato da entrambi i giudici per confermare il giudizio di penale responsabilità rispetto ai reati in contestazione. 5. Passando all'esame del quarto motivo (riguardante l'aggravante ex art. 7 1.203/91) si rileva che la Corte di appello aveva dichiarato inammissibili, per assoluta genericità, le censure relative alla citata aggravante e che, in ogni caso, tutti i collaboratori avevano confermato che il Ca. procurava armi ed esplosivi alla cosca mafiosa per il raggiungimento degli scopi del sodalizio; rispetto a tale compiuto e logico ragionamento contenuto nella sentenza impugnata il ricorrente non si confronta in modo specifico, sostenendo genericamente che egli avrebbe inteso agevolare i singoli sodali e non già l'associazione mafiosa, senza però tenere conto delle concordi dichiarazioni dei vari propalanti a suo carico. 6. Manifestamente infondate sono anche le censure riguardanti il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche; come noto, in materia di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è parimenti insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899). Orbene, la sentenza impugnata ineccepibilmente argomenta, mediante puntuale richiamo a specifici indici ostativi, oggettivi (la gravità delle condotte oggetto del presente procedimento caratterizzate dall'aggravante sopra indicata) e soggettivi (precedenti penali tra cui una condanna per associazione di stampo mafioso), e al carattere al cospetto recessivo di ogni altro pur prospettato elemento. 7. Con riferimento alla mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale (settimo motivo di ricorso) da parte della Corte territoriale, è opportuno ribadire che, nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende comunque inammissibile la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che si risolva in una attività "esplorativa" di indagine, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente, non sussistendo pertanto, rispetto ad essa, alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame (Sez. 3 - , Sentenza n. 47293 del 28/10/2021, Rv. 282633 - 01). La sentenza impugnata, senza incorrere in vizi logici, ha ritenuto di non esaminare nuovamente i coimputati Gi.De., Ma.Pa. e Vi.Sp. con riferimento al luogo in cui le armi erano state rinvenute e custodite, osservando che gli stessi si erano già avvalsi della facoltà di non rispondere e che, a norma dell'art. 197 - bis, comma 4, cod. proc. pen., non potevano essere obbligati a deporre su fatti dai quali potrebbero emergere la loro responsabilità. La Corte territoriale, inoltre, ha ritenuto comunque sufficienti gli elementi a disposizione per la decisione; anche rispetto a tale profilo il ricorrente non si confronta in modo specifico e non deduce per quali precise ragioni le deposizioni da lui richieste risulterebbero decisive ai fini della decisione. 8. Infine, quanto all'ultimo motivo, va ricordato che la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine è ammissibile anche in riferimento ad un reato commesso da privati, purché tale tipologia di danno sia in concreto configurabile (Sez. 2, Sentenza n. 13244 del 07/03/2014, Rv. 259560 - 01). Ciò posto, la Corte di appello (facendo proprie le argomentazioni del Tribunale) ha ritenuto che il Comune di Mesagne, quello di Francavilla Fontana ed il Ministero dell'Interno fossero legittimati a costituirsi parte civile in considerazione del danno all'immagine ed alla loro credibilità istituzionale a causa delle condotte illecite serbate dal Ca.; anche rispetto a tale coerente motivazione il ricorrente omette di confrontarsi in modo specifico così come anche con riferimento alle argomentazioni con le quali è stata liquidata una provvisionale di trentamila Euro in favore del Comune di Mesagne in ragione del pregiudizio di carattere patrimoniale (e non) arrecato alla immagine del medesimo ente. 9. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, mentre va respinto nel resto. Il ricorrente deve, infine, essere condannato al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio in favore del Comune di Mesagne, costituitosi parte civile, nella misura indicata nel dispositivo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Lecce. Rigetta nel resto il ricorso. Condanna l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Comune di Mesagne che liquida in complessivi Euro 3.868, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma il 19 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti: dal PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ANCONA; da Me.Eg. nato a S il (Omissis); nel procedimento a carico di quest'ultimo avverso la sentenza del 19/06/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO VALERIO LANNA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto l'annullamento con rinvio limitatamente alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 16/09/2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Fermo ha ritenuto Me.Eg. colpevole dei reati: - di tentato omicidio aggravato, che assorbiva anche il contestato reato di minaccia grave, commesso in danno di An.Fi. (che l'imputato colpiva alla testa con un martello, cagionandogli un "trauma cranico commotivo complicato da esa, frattura pluriframmentaria del parietale di dx, crisi comiziale subentrante da subite lesioni violente", da cui derivava una malattia con prognosi superiore ai novanta giorni, non riuscendo nell'intento per il tempestivo intervento di altro soggetto presente sul luogo, nonché grazie al sopraggiungere dei soccorsi ed al pronto trasporto in ospedale); - di porto senza giustificato motivo di due coltelli da cucina, nonché di una chiave "a pappagallo" e di un martello; - di maltrattamenti in danno della compagna convivente Ma.Th.; - di atti persecutori, parimenti commessi in danno della medesima Ma.Th., alla quale cagionava un perdurante e grave stato d'ansia, ingenerandole un fondato timore per la propria incolumità e per quella della figlia An.Me., costringendola a modificare le proprie abitudini di vita e per l'effetto - ritenuto più grave il reato di tentato omicidio, nonché ritenuta la continuazione fra tutti i reati, ritenuta l'aggravante della premeditazione in ordine al reato in relazione al quale viene individuata la pena base e, infine, tenuto conto della diminuente del rito - lo ha condannato alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare; con condanna al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili, la liquidazione dei quali è stata demandata al giudice civile, oltre che alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza sostenute dalle parti civili medesime; con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre; con confisca e distruzione, infine, di quanto in sequestro. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Ancona - in parziale riforma della suddetta sentenza gravata - ha riconosciuto all'imputato le circostanze attenuanti generiche, computandole con il criterio della equivalenza rispetto alle contestate e ritenute aggravanti, cosi rideterminando la pena complessiva in anni otto di reclusione e applicando all'imputato la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, revocando la misura di sicurezza della libertà vigilata e, infine, condannando il Me. alla rifusione delle spese sostenute nel grado di giudizio dalle costituite parti civili. 3. Ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, deducendo vizio rilevante ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., sotto il profilo della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche, laddove in motivazione viene mosso un appunto a Ma.Th., persona offesa dei reati di maltrattamenti e atti persecutori, per aver contribuito a esacerbare l'animo dell'imputato, alimentandone le già forti tensioni psicofisiche e per non essersi relazionata con il suo aggressore, in vista dell'opportunità di fare chiarezza. Il primo profilo di illogicità si annida nella presunzione della possibilità, per la vittima, di instaurare un confronto con l'aggressore nei termini sopra indicati. Parimenti illogico è qualificare come rimproverabile la riservatezza della Th., intesa alla stregua di una violazione di un legittimo interesse dell'imputato, ad onta della pericolosità e dell'indole violenta da quest'ultimo inequivocabilmente manifestata. Tali considerazioni, ancora una volta seguendo un percorso concettuale illogico, vengono poste a fondamento di una benevola considerazione, circa la volontà di vendetta che animava il Me.. Contraddittorio è, del resto, ipotizzare la sussistenza di tale obbligo comunicativo e, correlativamente, di un legittimo interesse in capo all'imputato, a fronte di condotte che la Corte stessa ha definito tese al controllo ossessivo, alle minacce di morte, alla umiliazione della compagna. 4. Ricorre per cassazione Me.Eg., a mezzo del difensore avv. Gi.Ga., deducendo undici motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp att. cod. proc. pen.. 4.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione al difetto di imputabilità, censurandosi il mancato esperimento del richiesto supplemento istruttorio. L'imputato, al momento del fatto, non era compos sui, a causa della grave psicopatologia depressiva che lo affliggeva, secondo quanto diagnosticato dalla psicologa nella consulenza di parte. In conseguenza di una condizione di "scissione transitoria acuta", la difesa aveva domandato l'espletamento di un supplemento istruttorio, volto a verificare la capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto. Tali rilievi, unitamente alla stranezza dell'azione sussunta in contestazione (posta in essere per mano di un dottore commercialista di sessantatré anni incensurato) avrebbe dovuto determinare la Corte di appello ad accogliere la richiesta difensiva e, in conseguenza, a disporre l'ulteriore accertamento richiesto. 4.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 56 comma 3, 575, 577 comma 3, 582 e 583 cod. pen., per assenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, in merito all'elemento soggettivo e oggettivo del delitto di tentato omicidio e quanto alla mancata derubricazione del reato di tentato omicidio aggravato in quello di lesioni personali gravi o gravissime, nonché per mancata configurazione dell'ipotesi della desistenza. La Corte territoriale omette di considerare l'atteggiamento evidentemente desistente serbato dall'imputato; questi infatti, piuttosto che continuare a infierire sulla vittima, si è soffermato a discorrere con la terza persona presente, circa le ragioni del gesto. Il tutto avrebbe dovuto determinare la Corte a escludere la sussistenza del dolo omicidiario. Sull'analisi dell'elemento soggettivo del reato avrebbero dovuto avere un peso determinante, peraltro, gli avvenimenti prodromici al fatto, che mostrano come l'imputato sia stato sottoposto a un crescendo di tensioni emotive, in modo particolare dopo che moglie e figlia si erano allontanate da casa, lasciandolo in preda alla collera. L'azione del Me. era, in realtà, solo un gesto dimostrativo, che mirava a produrre esclusivamente lesioni. Tanto vero che Fi. è stato colpito una sola volta, sfortunatamente alla testa e l'imputato gli ha permesso di allontanarsi autonomamente, senza cercare di attingerlo ulteriormente. L'azione delittuosa non è stata interrotta da fattori esterni sopravvenuti, bensì dalla volontà del soggetto attivo, per cui è configurabile la desistenza volontaria. Su tale ultimo punto, la motivazione della sentenza impugnata risulta oltremodo carente. A suffragio della sussistenza di una desistenza volontaria, militano inoltre le dichiarazioni rese da An.Ma., che descrivono compiutamente la condotta tenuta dall'imputato subito dopo il fatto. La descrizione dei fatti resa da tale teste delinea tanto lo scopo puramente dimostrativo dell'azione, quanto l'assenza di una reale intenzione omicida - atteso che Me., ove davvero fosse stato questo il suo intento, avrebbe certo potuto superare qualsivoglia tentativo esterno di interrompere l'azione. 4.3. Con il terzo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'art. 530 cod. proc. pen., relativamente al delitto ascritto sub 3) della rubrica, per mancanza di motivazione, censurandosi in particolare la mancata assoluzione del prevenuto con l'adozione della formula di rito "perché il fatto non sussiste". Non vi è motivazione, né in ordine alla richiesta di assoluzione per il reato ascritto sub b), né per ciò che inerisce alla ricorrenza delle circostanze aggravanti ivi contestate. 4.4. Con il quarto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 572 secondo comma, 81, 609 - bis, 609 - ter primo comma n. 5 - quater cod. pen., oltre che violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per difetto di motivazione in ordine alla determinazione della pena e per violazione dell'art:. 132 cod. pen., oltre che per errata valutazione degli elementi probatori raccolti. La vicenda per la quale è processo deve essere inquadrata, più correttamente, nel contesto di una forte conflittualità fra i coniugi, nella gestione dei rapporti personali e familiari. Pacifico è poi che, nel periodo successivo all'inizio della relazione della madre con Fi., il rendimento scolastico della minore sia calato notevolmente. L'imputato, comunque, non ha mai adottato condotte violente nei confronti della figlia adolescente, limitandosi a tentare di correggerne l'indole ribelle, sicuramente dimostrata dall'uso di droghe leggere. L'imputato era un soggetto in buono stato di salute mentale, per cui il fatto che fosse ossessivo è una affermazione priva di riscontri e frutto di un pregiudizio. La Th., inoltre, non è attendibile quanto alle contestate violenze sessuali, che vengono da lei denunciate al solo fine di radicare la sua posizione all'interno della struttura protetta che la ospitava. Nella sentenza impugnata si compie un vero e proprio atto di fede, in punto di attendibilità del narrato della persona offesa. Con riferimento alla credibilità della donna, basta ricordare come ella abbia, in un primo tempo, negato la relazione sentimentale con Fi., da questi invece affermata. 4.5. Con il quinto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla violenza sessuale e al delitto di atti persecutori. L'unico elemento militante a carico del ricorrente è costituito dalle dichiarazioni rese dalla Th., che non sono state però sottoposte a una previa verifica di attendibilità intrinseca; trattasi, peraltro, di una persona offesa costituita parte civile e che era portatrice, per quanto inerisce alla nascita del presente procedimento, di uno spiccato interesse utilitaristico, originato anche dalla nuova relazione da ella intrapresa. Medesime considerazioni possono esser fatte con riferimento al reato di atti persecutori, essendosi verificato, in realtà, un semplice stato di forte tensione fra ex conviventi, che ha trovato scaturigine anche nella relazione intessuta dalla Th. con Fi.. 4.6. Con il sesto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen. e 133 cod. pen., deducendosi nullità della sentenza impugnata, per difetto di motivazione in ordine ai criteri che presiedono alla dosimetria della pena, in violazione dell'art. 133 cod. pen. La Corte anconetana non chiarisce, infatti, in base a quali criteri sia giunta a determinare la quantificazione sanzionatoria. 4.7. Con il settimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, censurandosi il fatto che esse non siano state ritenute prevalenti, in sede di bilanciamento con le contestate aggravanti. 4.8. Con l'ottavo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla disciplina relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il tentativo, rispetto alla fattispecie consumata, nonché dolendosi del difetto di motivazione relativamente al diniego della relativa riduzione di pena non concessa. 4.9. Con il nono motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per quanto attiene alla disciplina della circostanza attenuante della provocazione, ex art. 62 n. 5) cod. pen. È stato trascurato lo stato d'ira nel quale è sprofondato l'imputato, una volta scoperta la relazione, protratta nel tempo, fra la Th. e Fi.. La natura clandestina di tale relazione e quindi, correlativamente, la sussistenza di un inganno prolungato nel tempo, rappresentano un fatto connotato da ingiustizia, conforme a quanto postulato dalla norma per la integrazione della suddetta circostanza. Me. ha scoperto, ad aprile 2021, che la moglie aveva una relazione con Fi. e, nel corso del successivo mese di giugno, è stato da questi affrontato verbalmente; nel settembre 2021, la Th. e la figlia si sono allontanate da casa senza fornire spiegazione alcuna. Esiste, pertanto, un chiaro legame psicologico, fra tale fatto ingiusto (da intendere quale inosservanza di norme sociali e morali comunemente accettate, volte a regolare l'ordinaria convivenza civile) e il gesto successivamente posto in essere. 4.10. Con il decimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'aggravante della premeditazione. Il giorno dei fatti non vi era alcun appuntamento, fra l'imputato e la vittima, né si evidenzia alcuno studio dei luoghi o delle abitudini di quest'ultima, ad opera del Me.; i due, in realtà, si sono imbattuti per caso. Lo stesso antefatto dimostra l'assenza dell'elemento cronologico, necessario per la configurabilità della premeditazione, dato che tutti gli eventi si sono succeduti freneticamente, nello spazio di poche ore. L'azione di Me. è stata improvvisata, costituendo essa una reazione istintiva dettata dall'ira e assunta di mero impeto, maturata all'esito di una convulsa successione temporale. 4.11. Con l'undicesimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per mancanza di motivazione. La Corte non esplicita in base a quali criteri sia pervenuta a quantificare la pena inflitta. 5. La parte civile An.Fi., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha condiviso le osservazioni e le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore Generale di Ancona, sottolineando l'errore motivazionale compiuto dalla Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche La Corte distrettuale, peraltro, ha trascurato di considerare come la violenta e pericolosa condotta familiare tenuta da Me. escluda in radice ogni obbligo -in capo alla ex compagna - di pretesa trasparenza. Già tre mesi prima del tentato omicidio, il Me. si era reso protagonista di condotte violente in danno della Th.. Quanto al ricorso della difesa, la eccepita incapacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto sollecita niente altro che una rilettura degli atti, a fronte di due sentenze tra loro integrate, che motivano sulla chiara assenza dei presupposti necessari per ritenere sussistente l'asserito deficit psichiatrico. Circa la richiesta di derubricazione, si tratta di un motivo interamente versato in fatto, dunque inammissibile in sede di legittimità. L'impugnazione difensiva, oltre ad essere infondata sotto ogni punto, è costellata di valutazioni incentrate sul merito della vicenda processuale. Si chiede, in definitiva, di annullare la sentenza con rinvio, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale e di respingere il ricorso della difesa dell'imputato, confermando la condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e condannando l'imputato, altresì, alla liquidazione delle spese di giudizio relative al grado. 6. La parte civile Ma.Th., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha parimenti presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha fatto proprie le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore generale, segnalando l'errore motivazionale nel quale sarebbe incorsa la Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Se si parte dal principio che Me. sia un soggetto estremamente pericoloso, risulta poi contraddittorio reputare legittimo il suo diritto a conoscere di una eventuale relazione extraconiugale della Th., dato che questa - in tal caso - avrebbe dovuto esporsi a un serio rischio per la propria incolumità. Quanto all'impugnazione della difesa dell'imputato, i motivi dal quarto al decimo sono inammissibili, in quanto imperniati su valutazioni di merito e, comunque, da disattendere, al cospetto di una motivazione logica e precisa. Tanto premesso, si chiede di accertare la penale responsabilità dell'imputato, di accogliere il ricorso della Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona e di respingere - o di dichiarare inammissibile - il ricorso dell'imputato; il tutto con conferma della condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e con condanna alla liquidazione delle spese di giudizio del grado, in favore della difesa di parte civile, secondo quanto sussunto in separata nota. 7. Il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento con rinvio, quanto alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto. Per ciò che concerne il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, si afferma in sede di requisitoria che la motivazione del provvedimento impugnato è palesemente illogica e deriva da una inaccettabile impostazione culturale. Appare illogico, sempre stando a quanto espresso in requisitoria, ritenere l'imputato colpevole di tutti i reati contestati, per avere serbato un contegno che la stessa Corte definisce come una "sistematica condotta oppressiva verso la compagna" e, parimenti, attribuire alla donna la "colpa" di avere con il suo comportamento "inevitabilmente acuito la rabbia e la sete di vendetta" dell'imputato, che avrebbe avuto "un legittimo interesse" a conoscere le intenzioni della sua compagna. La colpa ascrivibile alla donna consisterebbe, pertanto, nella decisione di troncare la relazione con un uomo "ossessivo, geloso, violento che per anni l'aveva considerata e trattata come una "cosa" di sua proprietà". Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è invece manifestamente inammissibile, in quanto le doglianze prospettate hanno già ricevuto congrua e logica risposta, attraverso una doppia conforme affermazione di responsabilità. Il primo motivo è inammissibile, per essere la relativa doglianza inconciliabile con la scelta operata dal prevenuto, di essere giudicato secondo le forme del rito abbreviato. Parimente inammissibile è il secondo motivo contenuto nell'atto di impugnazione, a fronte di una motivazione corretta e basata sugli esiti della consulenza medico legale. Meramente contestativa e fattuale è la censura relativa alla configurabilità della desistenza. Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per genericità. Quanto al quinto e al sesto motivo essi sono manifestamente infondati, avendo la Corte territoriale congruamente motivato in ordine alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. In ordine al trattamento sanzionatorio, i motivi sono manifestamente infondati, alla luce di quanto affermato in merito alla fondatezza del ricorso del Procuratore generale. 8. La difesa dell'imputato ha presentato memoria di replica alla requisitoria scritta inoltrata dal Procuratore generale, a mezzo della quale ha anzitutto ribadito la infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale, per avere la Corte di Appello di Ancona correttamente concesso le circostanze attenuanti generiche, computate con il criterio della equivalenza, a fronte delle aggravanti contestate. La Corte territoriale, sul punto, ha legittimamente tratto precisi elementi di valutazione, da circostanze del fatto e da elementi circostanziali, espressivi della complessiva condotta realizzata dal soggetto attivo. Il ricorso del Procuratore generale di Ancona, condiviso dal Procuratore generale della Cassazione, appare generico, non investendo esso, con la necessaria attitudine disarticolante, le argomentazioni della Corte di merito, in ordine al trattamento sanzionatorio. I motivi di ricorso promossi dalla difesa, al contrario, sono fondati e meritevoli di accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è infondato; da accogliere, invece, è il ricorso del Procuratore generale, inerente al tema delle circostanze attenuanti generiche. 2. La prima doglianza contenuta nel ricorso difensivo attiene al tema della imputabilità e censura, in particolare, la mancata effettuazione di una perizia psichiatrica; la Corte di appello avrebbe errato, in sostanza, nel ritenere l'imputato - pur affetto da una grave psicopatologia depressiva - capace di intendere e di volere (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.1.). Trattasi di censura reiterativa e generica, che si risolve nella mera riproposizione di deduzioni già prospettate in sede di gravame e, in tal sede, adeguatamente affrontate dai Giudici di secondo grado. La Corte distrettuale, infatti, si è compiutamente confrontata con le obiezioni difensive formulate sul punto specifico, offrendo una risposta puntuale e coerente, ossia spiegando come la invocata perizia avrebbe presentato un carattere meramente esplorativo, andando incongruamente a confliggere con il principio generale di presunzione di completezza del giudizio, oltre che con il connotato di eccezionalità dell'istituto della rinnovazione della stessa (così la sentenza di appello, pag. 13). Del resto, vengono addotti - a fondamento dell'istanza - gli esiti di una relazione psicopatologica a firma della dott.ssa Vitelli, nella quale veniva diagnosticata nel Me. la sussistenza della succitata grave psicopatologia depressiva; la Corte, però, ha ritenuto trattarsi di una valutazione del tutto priva di qualsivoglia ancoraggio ad una preesistente documentazione di tipo sanitario, oltre che redatta in assenza di previa valutazione clinica delle condizioni di salute mentale dell'imputato. La stessa condotta - sia processuale, sia in sede di commissione del fatto - è stata giudicata evocativa di una soddisfacente progettualità e di una sicura lucidità, in tal modo risultando sconfessata ogni possibilità di ipotizzare l'esistenza della asserita minorata capacità. In tale contesto, quindi, andare a sondare la capacità mentale del soggetto si risolverebbe nell'espletamento di una perizia esplorativa, fondata su basi esclusivamente congetturali ed ipotetiche. 3. Il secondo profilo di critica formulato dalla difesa attiene - secondo argomentazioni cumulative e, tra loro, strettamente connesse - alla ritenuta sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi del reato di tentato omicidio, oltre che alla mancata derubricazione del fatto nell'ipotesi di lesioni personali volontarie gravi o gravissime; si invoca l'applicazione, infine, dell'istituto della desistenza (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.2.). 3.1. Va evidenziato come tali censure si sviluppino sul piano del fatto e siano essenzialmente finalizzate a sovrapporre una nuova interpretazione delle risultanze probatorie, diversa da quella recepita nell'impugriato provvedimento, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati dall'art. 606 cod. proc. pen.. Tale operazione, con tutta evidenza, fuoriesce dal perimetro del sindacato rimesso al giudice di legittimità. Secondo la linea interpretativa da tempo tracciata da questa Corte regolatrice, infatti, l'epilogo decisorio non può essere invalidato sulla base di prospettazioni alternative, che sostanzialmente si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e differenti canoni ricostruttivi e valutativi dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148). 3.2. Analizzando partitamente i singoli profili di doglianza sussunti nel motivo unitario, può precisarsi quanto segue. La critica incentrata sulla qualificazione giuridica del fatto, che la difesa auspica possa essere ricondotta sotto l'egida normativa del delitto di lesioni personali aggravate, non merita accoglimento. I giudici di merito, infatti, hanno desunto la sussistenza del dolo omicidiario - nel comportamento tenuto dal ricorrente, nei confronti della vittima - attraverso una ponderazione del tutto corretta, in ordine alle concrete modalità esecutive che hanno connotato la condotta incriminata. La Corte ha sottolineato, dunque, la sussistenza del dolo omicidiario, ricavandolo - in via deduttiva - dal ferreo collegamento logico esistente fra i seguenti elementi oggettivi: - la sicura potenzialità lesiva dello strumento adoperato (un martello, che i Giudici di appello hanno - del tutto correttamente - sottolineato esser stato violentemente indirizzato, con la punta, sulla teca cranica, segnatamente contro la regione parietale destra) dell'avversario, così provocando a questi un trauma cranico commotivo e una frattura pluriframmentaria, con una seria possibilità di giungere allo sfondamento del cranio e, quindi, al decesso; - la parte stessa del corpo della vittima, attinta dal colpo; - la violenza stessa del colpo, fattore evocativo di una sicura voluntas necandi. La Corte territoriale, nell'individuare la sussistenza del dolo alternativo di omicidio e lesioni, ha evidenziato inoltre due ulteriori elementi oggettivi, entrambi dimostrativi della ricorrenza di una sicura volontà omicida, ossia: - il fatto che l'imputato, alla presenza dei militari dell'Arma intervenuti in loco, brandisse non più un martello, bensì un coltello a lama larga e gesticolasse in modo esagitato verso la vittima; - la ulteriore minaccia, riferita dal teste Ma., portata da Me. nei confronti di Fi., allorquando il primo aveva minacciato di uccidere quest'ultimo con una pistola. Questo Collegio, quindi, può limitarsi a sottolineare come il convincimento raggiunto dalla Corte distrettuale - in tema di sussistenza del fatto e di qualificazione giuridica dello stesso, in termini di tentato omicidio - sia stato esposto attraverso una struttura motivazionale rigorosamente coerente, oltre che ampia ed esaustiva e, infine, del tutto priva di vuoti narrativi o vizi di contraddittorietà, sia intratestuale che logica. La sentenza impugnata, sul punto, merita di rimanere al riparo da qualsivoglia stigma in sede di legittimità. 3.3. Parimenti inconcludente si rivela l'ulteriore prospettazione difensiva, incentrata sull'inflizione - da parte dell'imputato - di un solo colpo al capo della vittima, a dimostrazione del mancato utilizzo dell'intera gamma di potenzialità offensive che, al momento, l'uomo aveva a disposizione (fatto asseritamente militante nel senso dell'assenza, in capo al Me., di uria concreta e stabile intenzione di carattere genuinamente omicida). La Corte territoriale, sul punto, osserva correttamente come sia irrilevante il dato - di tenore meramente empirico - rappresentato dalla mancata reiterazione dei colpi, a fronte di un gesto di inequivocabile direzione omicidiaria, quale quello di colpire violentemente la vittima alla testa con un pesante martello. In ordine alla specifica tematica, pare utile ricordare il principio di diritto -concordemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità - in forza del quale "In tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'animus necandi assume valore determinante l'idoneità dell'azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata "ex post" ma con riferimento alla situazione che si presentava "ex ante" all'imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso" (Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012). La Corte distrettuale, dunque, ha giustamente valorizzato la micidialità del mezzo adoperato (ossia, il martello), nonché l'uso concreto che - di tale strumento - il soggetto attivo ha fatto, nella fase prettamente attuativa del delitto (attingendo al capo la vittima). L'apparato argomentativo sotteso alla pronunzia impugnata appare, anche sul punto specifico - oltre che frutto del lineare vaglio delle evidenze disponibili - senz'altro ossequioso dei canoni ermeneutici che disciplinano la materia. Il mancato utilizzo, nella loro interezza, delle risorse eteroaggressive al momento disponibili, in definitiva, non si riverbera certo sulla sussistenza della volontà omicidiaria e, consequenzialmente, sulla piena configurabilità del paradigma normativo del tentato omicidio (sul punto si potrà vedere, trattandosi di concetti sovrapponibili, sebbene espressi in tema di tentato omicidio posto in essere mediante accoltellamento, il dictum di Sez. 1, n. 45332 del 02/07/2019, Pesce, Rv. 277151, la quale ha così statuito: "La mancata inflizione di più coltellate non esclude la sussistenza della volontà omicida, qualora sia accertato che, per le modalità operative e per l'arma impiegata, l'azione sia stata idonea a causare la morte della vittima e tale evento non si sia verificato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente"). 3.4. Con riferimento all'ulteriore tema posto dalla difesa, concernente la auspicata ipotizzabilità dell'istituto della desistenza, pare bastevole rammentare come - nella categoria dei reati di danno a forma libera - una volta che risulti oltrepassata la soglia del tentativo compiuto, non possa più discorrersi di desistenza, potendosi al più ravvisare il diverso istituto del recesso attivo. La desistenza può aver luogo, infatti, esclusivamente nella fase del tentativo incompiuto, non risultando essa configurabile allorquando siano stati ormai posti in essere gli antecedenti, da cui origina il meccanismo causale atto a produrre l'evento. La diminuente conseguente al ed. recesso attivo, a sua volta, postula che il soggetto agente tenga una condotta attiva, che valga a scongiurare l'evento (fra tante, si veda Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, Supino, Rv. 264226). 3.5. Questa Corte, in conclusione, ritiene che il motivo di ricorso sia da disattendere, in quanto meramente reiterativo di deduzioni già svolte durante il giudizio di secondo grado e confutate dalla Corte di appello, con motivazione adeguata e coerente. 4. Con il terzo motivo (enumerato in parte narrativa sub 4.3), la difesa si duole della pretesa carenza motivatoria, con riferimento al reato ascritto sub 3) della rubrica, contestando la mancata assoluzione dell'imputato e la ritenuta sussistente - in relazione a tale ipotesi di reato - dell'aggravante teleologica. Il motivo presenta, però, una marcata connotazione di aspecificità, risolvendosi esso nel muovere una critica solo assertiva alla decisione avversata, attraverso l'utilizzo di argomentazioni del tutto generiche, nonché prive di un concreto ancoraggio all'apparato argomentativo aggredito. Circa il punto focale della questione, ossia relativamente al fatto, ritenuto accertato da doppia affermazione conforme in sede di merito, che Me. circolasse nella pubblica via munito degli strumenti indicati in rubrica (martello e coltelli), la difesa non riesce a spendere critiche dotate di un apprezzabile contenuto, in tal modo finendo per arrestarsi allo stadio della mera enunciazione oppositiva. La Corte territoriale, richiamando la ricostruzione offerta dalla Th., ha ricordato come l'imputato fosse solito condurre sempre con sé - anche quale forma di costante intimidazione e controllo, nei confronti della donna - strumenti quali una chiave inglese o un coltello, con l'intenzione di adoperarli nei confronti di Fi., nel caso lo avesse incontrato. In ordine a questo aspetto puntuale, la difesa ricorrente non riesce ad addurre difformi lumi, trincerandosi, come detto, dietro l'usbergo della critica di carattere esclusivamente confutativo. 5. Con il quarto e il quinto motivo, la difesa si duole della affermazione di penale responsabilità a carico dell'imputato, con riferimento ai delitti di maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, commessi in danno di Ma.Th. (motivi rispettivamente enumerati in parte narrativa sub 4.4. e 4.5.). Trattasi anzitutto di doglianze che presentano una connotazione unitaria e che ben si prestano, pertanto, a una trattazione congiunta. Tali motivi si imperniano - in via esclusiva - sulla asserita inattendibilità della persona offesa, in tal modo rivelandosi non autosufficienti e finendo per disinteressarsi della motivazione della sentenza avversata; in quest'ultima sono richiamati, peraltro, anche i riscontri, provenienti da fonti dichiarative e documentali, emersi rispetto alle affermazioni di accusa mosse dalla vittima. 5.1. Stando alla consolidata giurisprudenza di legittimità in punto di vaglio della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato costituisce questione di fatto; tale profilo, pertanto, non può ordinariamente essere censurato ad opera della Corte di cassazione. Le uniche eccezioni, rispetto a tale impostazione ermeneutica di valenza generale, sono costituite dal caso in cui la motivazione della sentenza impugnata risulti viziata da manifeste contraddizioni, oppure si sia rifugiata in mere congetture, che vadano a compendiarsi in ipotesi non fondate sul principio dell'id quod plerumque accidit e che non siano suscettibili di esser sottoposte a verifica empirica, oppure che si affidino ad una regola interpretativa che appaia priva dei requisiti minimi di plausibilità. Soprattutto nel caso in cui la testimonianza della persona offesa rappresenti la principale - pur se non proprio la esclusiva - fonte del convincimento del giudice, diviene dunque essenziale la valutazione da compiere, in ordine alla credibilità della stessa. Come sopra accennato, tale giudizio è evidentemente inerente al merito, in quanto di chiara matrice fattuale e riguardante il modo di essere e la condotta della persona escussa; una valutazione di tal fatta, allora, trova la propria sede di elezione nella dialettica dibattimentale e di merito in genere, mentre è preclusa in sede di legittimità, specialmente nel caso in cui il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile, circa le modalità di svolgimento della sua analisi probatoria (Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609; Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578). Invero, la questione attinente alla attendibilità di un teste rinviene la sua chiave di lettura nel quadro di insieme, di una struttura motivazionale logica, destinata quindi a restare immune da rivisitazioni in sede di legittimità, a meno che essa sia affetta da manifeste contraddizioni. 5.2. La parola della persona offesa, quindi, può assurgere alla dignità di prova, a patto che superi positivamente il vaglio relativo alla sua attendibilità. Infatti, pur non applicandosi alle dichiarazioni rese dalla persona offesa le regole di giudizio dettate dall'art. 192 cod. proc. pen. per la sola chiamata di correo, che postulano la presenza di riscontri esterni, deve comunque sottoporsi la voce della persona offesa ad una rigorosa indagine di credibilità. Ciò, evidentemente, in ragione dell'indubbio interesse, del quale spesso la persona offesa è portatrice e che obbliga il giudicante alla massima cautela, al severo controllo della attendibilità e, possibilmente, alla ricerca di elementi di suffragio (si veda Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 - 01, che ha così statuito: "Le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato che, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi)"; nello stesso senso, si veda Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, Ciotti, Rv. 279070 - 01, a mente della quale: "La deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi"; conforme anche Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 - 01, che ha indicato le caratteristiche che devono presentare gli eventuali elementi di riscontro, atti a supportare la saldezza del racconto della persona offesa dal reato, esprimendosi in questi termini: "In tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione"). 5.3. Esprimendo dunque un giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità, i Giudici di merito si sono adeguatamente soffermati sul profilo attinente alla intima credibilità della narrazione di Ma.Th., desumibile dalla saldezza logica del resoconto offerto e dall'assenza di fratture narrative, così desumendone la tranquillizzante affidabilità della ricostruzione da ella resa. Ha precisato la Corte distrettuale, altresì, come non residui alcun fondato dubbio, circa la piena credibilità della versione dei fatti riportata dalla persona offesa, le cui dichiarazioni sono state giudicate analitiche e particolareggiate, nonché pienamente coerenti sotto l'aspetto diacronico, prive di incertezze dichiarative e, infine, congrue rispetto al tenore delle ulteriori fonti dichiarative. 5.4. La Corte territoriale non ha mancato di sottolineare, inoltre, come la narrazione operata dalla Th. collimi alla perfezione con le ulteriori fonti sia documentali, sia testimoniali, dalle quali ha ricevuto ampio e decisivo suffragio. Vengono valorizzate, in particolare, le dichiarazioni rese da amiche della Th., oltre che da vicini di casa e dalla figlia An. (vengono richiamate le s.i.t. di Mu., Co. e Vi.). Tali dichiaranti riferiscono o de relato, ovvero in quanto portatori di scienza propria, per avere direttamente assistito a episodi rilevanti. 6. Il sesto, l'ottavo e l'undicesimo motivo muovono censure quoad poenam (tali motivi sono enumerati in parte narrativa sub 4.6., 4.8. e 4.11). Più nello specifico, il sesto motivo denuncia la mancata esplicitazione dei criteri posti dalla Corte territoriale a fondamento della decisione assunta, in punto di dosimetria sanzionatoria; l'ottavo motivo critica l'entità della riduzione operata in forza dell'applicazione dell'art. 56 cod. pen., mentre l'undicesimo motivo contiene una generica doglianza rivolta alla quantificazione della pena. 6.1. Tali motivi devono essere dichiarati inammissibili, in quanto i Giudici di merito non hanno affatto omesso di motivare sui punti sopra indicati, avendo adeguatamente valorizzato - in base ai parametri dettati dall'art. 133 cod. pen. - le gravi caratteristiche del fatto e la allarmante personalità del soggetto. Dal complesso della motivazione, in ogni caso, emergono argomentate e analitiche valutazioni negative, circa la personalità dell'imputato. Le valutazioni in punto di quantificazione sanzionatoria risultano sorrette da una struttura motivazionale ampia, congruente, logica e non contraddittoria, mediante la quale sono stati esaustivamente esposti gli elementi in forza dei quali la Corte stessa ha esercitato i propri poteri, in punto di quantificazione della pena. 6.2. Le doglianze difensive, al contrario, risultano inammissibili, perché risolventesi in censure su valutazioni di merito, insuscettibili - come tali - di aver seguito nel presente giudizio di legittimità. Non vi è chi non rilevi, ad ogni modo, come la diminuzione per il tentativo sia stata espressamente calcolata, così come ben determinati risultano gli aumenti di pena operati, in relazione ai reati satellite. 7. Il settimo motivo lamenta l'avvenuto bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche secondo il criterio della equivalenza, piuttosto che della prevalenza, rispetto alle ritenute aggravanti; tale doglianza resta assorbita dall'accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale (il settimo motivo è enumerato in parte narrativa sub 4.7.). Giova sul punto ricordare come la Corte di cassazione possa ritenere assorbite determinate eccezioni, in sede di annullamento con rinvio, allorquando esse appaiano secondarie rispetto ad un macroscopico ed assorbente vizio logico della motivazione, atto a travolgerne la validità, rendendo superfluo l'esame degli aspetti secondari. Si concretizza, in tal caso, una decisione di tenore difforme, rispetto al mero rigetto delle medesime doglianze; verificandosi ciò, il giudice del rinvio sarà comunque tenuto a prendere in considerazione anche il motivo ritenuto assorbito, essendo vincolato - ai sensi dell'art. 546, comma 1, cod. proc. pen. - alla decisione della Corte di cassazione, limitatamente a ciò che concerne le questioni di diritto decise, ma non in ordine a questioni che la Corte non ha deciso, dichiarando i relativi motivi assorbiti in quello accolto con la pronunzia di annullamento (Sez. 5, n. 5509 del 08/01/2019, Castello, Rv, 275344; Sez. 5, n. 39786 del 11/07/2019, Zordan, Rv. 271074; Sez. 2, n. 2812 del 25/10/1991 -dep. 1992, Mastroleo, Rv. 189311). Alla dichiarazione di assorbimento del motivo deve, pertanto, attribuirsi il significato che la questione - formante oggetto del motivo - non è stata decisa ma demandata, senza alcun vincolo, all'esame del giudice di rinvio, il quale è tenuto a pronunciarsi sulla stessa, sempre che abbia formato oggetto anche dei motivi di appello. 8. Con il nono motivo si censura la ritenuta inconfigurabilità della circostanza attenuante della provocazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.9.) - Anche su questo tema, le doglianze difensive si rivelano inconsistenti, avendo la Corte di appello adottato una motivazione adeguata e convincente. Sarebbe stata impropriamente depotenziata - in ipotesi difensiva - la valenza dello stato d'ira, determinato dal disvelamento della relazione, già protrattasi entro un ragguardevole arco temporale, fra la Th. e Fi.; il tratto di ingiustizia di tale situazione, atto a integrare la invocata circostanza, si anniderebbe, in particolare, nel carattere clandestino della relazione stessa, così concretizzandosi un vero e proprio inganno protratto nel tempo, a scapito del prevenuto. 8.1. Questa Corte ha ripetutamente chiarito come - ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione - sia necessaria la ricorrenza dei seguenti elementi: - uno "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; - un fatto ingiusto altrui, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, da intendersi secondo la accezione di effettiva contrarietà rispetto a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività e in un dato momento storico, piuttosto che con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; - un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità, che leghi tra loro l'offesa e la reazione (Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894; Sez. 5, n. 55741 del 25/09/2017, R., Rv. 272044; Sez. 5, n. 49569 del 18/06/2014, Mouflih, Rv. 261816). 8.2. Così inquadrata la questione dedotta, occorre domandarsi se la decisione assunta dalla Corte distrettuale presenti vizi argomentativi, ovvero errori nella interpretazione di norme, nel punto in cui ha escluso la concedibilità dell'invocata attenuante della provocazione. Ma contrariamente agli auspici difensivi, la Corte ha fatto corretta applicazione delle regole esegetiche più volte enunciate da questa Corte, laddove ha ritenuto che la condotta della Th., consistita nell'intrecciare una relazione con un altro uomo, non possa costituire - in ottica penalistica - un contegno ingiusto sul versante giuridico, morale o sociale, idoneo a legittimare una mitigazione sanzionatoria, a fronte della azione marcatamente eteroaggressiva per la quale è processo. L'esistenza di tale relazione, le connesse valutazioni e le dinamiche interpersonali collegate a contegni appartenenti a tale tipologia, in sostanza, non possono in alcun modo assurgere alla valenza di fattore provocatorio, essendo temi che esulano dal novero delle condizioni atte a condurre all'applicazione della suddetta circostanza. Si è in presenza, infatti, di dinamiche di natura squisitamente affettiva e interpersonale, inevitabilmente percorse da una corrente invisibile di forte opinabilità e caratterizzate da una percezione strettamente soggettiva, che peraltro non collimano con regole - nemmeno di ordine etico o sociale - generalmente riconosciute e stabili, né sufficientemente cristallizzate e che, pertanto, non possono valere ai fini dell'attenuazione della pretesa punitiva dell'ordinamento (per una fattispecie analoga, si veda Sez. 5, n. 2725 del 13/12/2019, R., Rv. 278556). 9. Con il decimo motivo, la difesa censura la scelta operata in sede di merito, consistita nel reputare integrata la circostanza aggravante della premeditazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.10). Trattasi di censura di carattere rivalutativo e generico, da giudicare quindi inammissibile. 9.1. Questa Corte di legittimità ha, per il vero, più volte espresso principi in diritto tesi a creare una netta linea di demarcazione, tra la semplice preordinazione (di un reato doloso come l'omicidio volontario, consumato o tentato) e la circostanza aggravante della premeditazione. Tale linea interpretativa - cui il Collegio presta adesione - è stata espressa con particolare chiarezza da Sez. 1 n. 47250 del 9.11.2011, Livadia, rv 251503 (che ha chiarito come - in tema dì omicidio volontario - non rappresenti sicuro indice rivelatore della premeditazione, che si sostanzia in una deliberazione criminosa coltivata nel tempo e mai abbandonata, il mero intervallo riscontrabile tra la preparazione e l'esecuzione, sì come non possono trarsi elementi di certezza dalla predisposizione di un agguato, in quanto ciò attiene alla realizzazione del delitto e non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di quel processo psicologico di intensa riflessione e di fredda determinazione, che connota la indicata circostanza aggravante), nonché da Sez. 1 n. 5147 del 14.7.2015, Scanni, rv 266205 (secondo la quale, la mera preordinazione del delitto - intesa come apprestamento dei mezzi minimi necessari all'esecuzione, nella fase a questa ultima immediatamente precedente - non è sufficiente ad integrare l'aggravante della premeditazione, che postula invece il radicamento e la persistenza costante, per apprezzabile lasso di tempo, nella psiche del reo del proposito omicida, del quale sono sintomi il previo studio delle occasioni ed opportunità per l'attuazione, un'adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive). In effetti, come osservato, tra le altre, da Sez. 5 n. 26406 del 11.3.2014, Morfei, rv 260219, spetta al giudice dì merito cogliere ed apprezzare tutte le peculiarità della fattispecie concreta, posto che anche una sorta di "agguato" può essere frutto di una iniziativa estemporanea accompagnata da dolo, ma non inquadrabile nei caratteri della circostanza aggravante. 9.2. La Corte distrettuale, raccogliendo tali indicazioni dell'organo nomofilattico, ha realizzato, come si è detto, una logica attribuzione di peso ai numerosi elementi di valutazione e conoscenza emersi. Con motivazione logica, dettagliata e puntuale, i Giudici di secondo grado hanno desunto la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, da una variegata congerie di dati probatori, di eterogenea genesi, ma tra loro collimanti alla perfezione. Si è così sottolineata l'insorgenza del proposito criminoso in tempo di gran lunga antecedente, rispetto alla materiale attuazione dello stesso, collocandosi l'origine dell'odio di Me. nei confronti di Fi. a prima del 6 settembre 2021, epoca in cui la Th. e la figlia uscirono dal domicilio domestico, per trovare rifugio presso una struttura protetta. Ed è la stessa donna che delinea plasticamente l'esistenza di una ideazione aggressiva profondamente radicatasi nell'animo dell'imputato, allorquando riferisce come questi fosse solito condurre con sé strumenti eventualmente adoperabili per l'offesa, destinati a diventargli utili in tal senso, nel caso di incontro - pur casuale - con Fi.. La stessa dichiarante ricorda le frasi spesso rivoltegli dall'imputato, il quale ripetutamente manifestava propositi violenti, nei confronti di colui che considerava il proprio "avversario". Una intenzione di rivalsa che, già lungamente covata e ormai ben sedimentata nella mente dell'uomo, assume i connotati ossessivi della ferma e irrevocabile determinazione - secondo quanto giustamente evidenziato dalla Corte territoriale - all'indomani della scoperta, da parte di Me., dell'esistenza di una relazione della Th. con Fi. (scoperta avvenuta attraverso accesso ai profili social di quest'ultima, come da produzione documentale versata nell'incarto processuale). La sentenza impugnata, pertanto, individua la sussistenza tanto dell'elemento cronologico, quanto del requisito ideologico, idonei a integrare la ritenuta circostanza aggravante. Coglie quindi nel segno, la Corte territoriale, quando sottolinea la singolare permanenza nel tempo del proposito, restato immune ad ogni occasione di ripensamento e combaciante con l'esistenza di una poderosa causale, da lungo tempo covata dall'imputato e nutrita di un crescente rancore. La prova conclusiva del fatto che il tentato omicidio altro non sia stato, se non l'epilogo di un inarrestabile climax di livore e ostilità, che si erano ormai definitivamente impossessati dell'imputato, viene tratta dalla Corte territoriale dal messaggio telefonico inviato da Me. alla Th. il 3 novembre 2021, una volta perpetrata l'aggressione in danno di Fi., allorquando l'uomo le scrive, tra l'altro, la frase "io sono un uomo di parola: quello che dico faccio". 9.3. Il ricorso, del resto, è decentrato rispetto alla motivazione della sentenza e, in tal modo, finisce per non tenere conto nemmeno della possibilità di ipotizzare una "premeditazione condizionata". Tale figura, invece, ha sempre trovato piena cittadinanza presso la giurisprudenza di legittimità (si veda il dictum di Sez. 1, n. 32746 del 17/06/2020, Gambettola, Rv. 279933 - 01, a mente della quale: "In tema di premeditazione, non osta alla configurabilità dell'aggravante il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"; nello stesso senso si era espressa Sez. 1, n. 19974 del 12/02/2013, Zuica, Rv. 256180 - 01, secondo la quale: "Non osta alla configurabilità dell'aggravante della premeditazione il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"). La figura della premeditazione condizionata combacia in modo millimetrico, del resto, proprio con la ricostruzione prospettata anche dalla difesa nell'atto di impugnazione. La stessa difesa ricorrente, infatti, afferma come - nella concreta fattispecie - la decisione di uccidere sia insorta nella mente del Me. dopo l'allontanamento volontario della convivente e della figlia e a seguito del convincimento, formatosi nel prevenuto, che esse si trovassero da Fi.. Il proposito criminoso, ormai irrevocabilmente formato, ha determinato Me. a muoversi in strada munito di strumenti alla bisogna adoperabili per l'offesa, appunto in attesa di imbattersi eventualmente nel Fi., come poi avvenuto. 9.4. Sul punto, insomma, pare a questo Collegio che vi sia stata - ad opera della Corte distrettuale - ampia e doviziosa risposta, rispetto ad ogni censura formulata dalla difesa in sede di gravame. 10. Il ricorso del Procuratore generale aggredisce la scelta effettuata dalla Corte territoriale, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche (motivo enumerato in parte narrativa sub 3). L'impugnazione merita accoglimento. 10.1. Giova brevemente premettere, ai fini dell'inquadramento ermeneutico, come l'istituto delle circostanze attenuanti generiche sia improntato alla valutazione complessiva della personalità dell'autore del delitto, letta nei prisma delle circostanze di realizzazione della condotta, con la finalità di meglio individualizzare la misura concreta della pena inflitta. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62 - bis cod. pen., inoltre, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa o ritenuta dal giudice, con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, tanto che la stessa motivazione, a patto che si riveli congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione. 10.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha reputato concedibile tale attenuazione sanzionatoria, in forza di considerazioni, di seguito sintetizzate, che risultano prive della necessaria coerenza logica e argomentativa. In primo luogo, la Corte territoriale aveva precedentemente escluso - in sede di diniego della auspicata attenuante della provocazione - il fatto che la relazione intrapresa dalla Th. con Fi. rappresentasse un fatto ingiusto; aveva dettagliatamente descritto la condotta dell'imputato, anzi, come la continua e irrefrenabile manifestazione di indole violenta, possessiva, gelosa e minacciosa. Ponendosi in tale prospettiva, dunque, Me. era stato delineato come un soggetto aduso a contegni tesi alla sopraffazione, alla brutale prevaricazione nei confronti della compagna, che veniva da lui continuamente sottoposta ad angherie e vessazioni. Così delineato il quadro delle relazioni al tempo esistenti fra i due, davvero distonico e sfornito di aggancio alla logica, poi, è pensare che la Th. potesse intavolare un franco e pacato confronto con Me. e pretendere che potesse a questi rivelare, apertamente e serenamente, le proprie scelte relazionali. Opzioni che sono, peraltro, di tipo personalissimo e che, rientrando nell'alveo della insindacabile sfera intima di ciascuno, non possono giustificare alcuna forma di "legittimo interesse" in capo a terzi. La motivazione che la Corte territoriale ha posto a fondamento della decisione di riconoscere le circostanze attenuanti generiche, in pratica, opera una sorta di incongruo ribaltamento dei ruoli, quasi invertendo i termini della reciproca interazione instauratasi fra i protagonisti della vicenda; il tutto, si colloca in una prospettiva di insanabile contrasto, rispetto alla ricostruzione sposata - dalla stessa Corte di appello - nel corso dell'intera trama motivazionale. Contraddittorio è poi discorrere di un interesse legittimo (concetto che appare di vaga significazione, oltre che privo di un concreto substrato contenutistico) che sarebbe stato vantato dal Me., peraltro descritto dalla stessa Corte territoriale, invece, quale soggetto collerico, brutale e vendicativo. In linea generale, infine, è illogico far assurgere sentimenti quali la rabbia e la sete di vendetta ad elementi valutabili - se non positivamente - quantomeno in termini di attenuata negatività, tanto da farne discendere la concessione di benefici, trattandosi, al contrario, di stati d'animo comunque riprovevoli e affatto inevitabili. 11. Alla luce delle considerazioni che precedono, viene disposto l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale, limitatamente al punto concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche e con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Perugia; viene disatteso, invece, il ricorso presentato nell'interesse di Me.Eg.. La liquidazione delle spese spettanti alle costituite parti civili è rimessa alle statuizioni definitive. Ricorrendone le condizioni, infine, deve essere disposta l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente alle attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Rigetta il ricorso dell'imputato e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Rimette la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili al definitivo. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 58 del 2020, proposto da Em. Am., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Seconda n. 667/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Sergio Zeuli Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante per l'annullamento dell'ordinanza n. 19 del 18 settembre 2014 con cui il comune di (omissis) ha disposto la sospensione dell'autorizzazione rilasciatale di noleggio vettura con conducente - NCC. La parte deduce i seguenti motivi di appello avverso la decisione: I)Errore in iudicando. Errata applicazione e interpretazione della legge 21/1992, in particolare 3 e 11, motivazione apparente, errata e/o contraddittoria, mancata e/o errata valutazione dei fatti di causa. II) Mancato pronuncia sul primo motivo di ricorso proposto in primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di ncc del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), genericità delle contestazioni, difetto di istruttoria, errata valutazione dei presupposti, mancata valutazione delle giustificazione, difetto di motivazione, motivazione apparente, violazione del principio di corrispondenza fra contestazione e sanzione, contraddittorietà, violazione degli autovincoli (art. 29 del regolamento comunale servizi ncc) eccesso di potere, illegittimità degli atti impugnati." III) Mancata pronuncia sul II motivo di ricorso di primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale dei servizi di NCC del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), illegittimità degli atti impugnati." IV) Richiesta di risarcimento danni. 2. Si è costituito in giudizio il comune di (omissis), contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. Come detto in premessa, la parte appellante era in possesso di autorizzazione per lo svolgimento del servizio di noleggio auto, rilasciatagli dal comune di (omissis) che aveva ritenuto di ricorrere a questi provvedimenti per sopperire alla carenza del servizio di trasporto nel suo territorio e, più in generale, nella zona della (omissis). La sospensione della parte appellante è stata disposta proprio adducendo quale ragione che, nonostante la sua autorizzazione fosse stata rilasciata al fine di migliorare il servizio di trasporto nell'area, risultava che il licenziatario non aveva svolto alcun servizio di trasporto e/o di noleggio auto con conducente, in detto comune, che non aveva mai condotto passeggeri in partenza da, o in arrivo in quel territorio; che, in sostanza, aveva svolto le sue prestazioni professionali in a servizio di utenti e di aree che non avevano alcun collegamento con il comune che le aveva rilasciato la licenza. Di conseguenza, stante la mancanza di qualsivoglia collegamento territoriale tra la sua attività ed il suddetto territorio, è stata contestata alla parte la violazione di quanto previsto dagli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso ritenendo che fossero fondate le ragioni poste a fondamento del provvedimento di sospensione. 4. Il motivo di appello deduce l'erroneità della decisione che avrebbe sottovalutato l'efficacia territoriale extra-comunale che era implicita nel provvedimento di autorizzazione di cui si parla. 4.1. Il motivo è infondato. Gli articoli 3 e 11 della L. 21 del 1992 - che regolano la disciplina de qua - contengono, in modo inconfutabile, il principio cd. di afferenza territoriale del servizio di noleggio con autista di un veicolo. Ed infatti entrambe sottolineano la necessità che vi sia un perdurante collegamento tra la prestazione resa e l'area territoriale di riferimento il cui ente esponenziale ha rilasciato l'autorizzazione. In particolare, la prima delle due disposizioni citate prevede che il servizio di noleggio sia rivolto all'utenza specifica esistente presso la sede del vettore, che, nel nostro caso, è evidentemente il comune appellato. La seconda, al comma 2, ancor più inequivocabilmente, stabilisce espressamente che prelevamento dell'utente o inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza. Nel caso di specie, il detto collegamento era anche materialmente rappresentato dall'esistenza di uno stazionamento, messo a disposizione dei licenziatari da parte dell'ente locale, che aveva destinato a costoro un'apposita area all'interno del territorio comunale e che non risulta essere stata mai utilizzata da nessuno dei licenziatari, tra essi compresa l'attuale parte appellante. Stando così le cose in diritto, la rivendicata efficacia extra-comunale dell'autorizzazione è del tutto irrilevante. E' infatti ovvio che un servizio di trasporto passeggeri, dipendendo dalla richiesta del cliente/trasportato, non possa e non debba avere aprioristici limiti di efficacia, ma ciò non toglie la necessità del ridetto collegamento territoriale che deve sussistere o in partenza, o in arrivo, pena la totale pretermissione dell'interesse pubblico che rappresenta il fondamento attributivo del potere autorizzatorio. Se così non fosse, a parte il frontale contrasto con le disposizioni appena ricordate, non sarebbe spiegabile perché detta autorizzazione possa essere rilasciata dal comune, ossia da un ente espressione di autonomia locale. Infatti la relativa competenza sarebbe stata piuttosto attribuita ad un organo periferico dell'amministrazione statale, meno connesso, da tutti i punti di vista, al territorio in cui opera. D'altro canto poiché è incontestato che - come accertato dalle verifiche disposte tramite i carabinieri e la polizia municipale - la parte appellante non abbia rispettato la predetta prescrizione, si devono ritenere legittimi i provvedimenti impugnati, che, anche in applicazione di quanto previsto dall'articolo 25 del regolamento comunale, hanno disposto la sospensione dell'autorizzazione. 5. Il secondo e terzo motivo d'appello - che possono essere congiuntamente trattati - denuncia, sotto diverse prospettive, l'esistenza di illegittimità procedimentali e sostanziali nei provvedimenti impugnati. La parte appellante contesta altresì il difetto di proporzionalità tra la sanzione irrogata ed il fatto contestato, oltre che la violazione dell'art. 23 del regolamento comunale in materia. 5.1. Entrambi i motivi sono infondati. Il provvedimento di sospensione è stato infatti preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento all'interessato che ha dunque potuto partecipare al procedimento ed è congruamente motivato, indicando le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione. Infine la sanzione impugnata è proporzionata al fatto e funzionale ad una corretta cura dell'interesse pubblico causa attributiva del potere, che consiste, come detto, nel miglioramento del trasporto pubblico in ambito comunale. Si tratta invero di una sospensione, per lo più disposta per soli quindici giorni, che ha valore di monito. 5.2. Quanto alla violazione dell'art. 23 del regolamento comunale - che avrebbe permesso, nel caso di siffatta tipologia di violazioni, la sola diffida e non la sospensione dell'autorizzazione - si osserva che, come si evince dallo stesso provvedimento impugnato, la parte aveva già ricevuto una prima diffida, alla quale non aveva ottemperato, dunque si giustifica il ricorso ad una misura più severa che si fonda sull'articolo 25 di detto regolamento, puntualmente richiamato dall'atto impugnato. 5.3. Quanto alla consistenza degli addebiti, a fronte delle generiche proteste della parte appellante, fanno fede quelli emergenti dalle ricordate verifiche di polizia e carabinieri, che palesano l'inadempimento degli obblighi connessi al collegamento territoriale. 6. Stante l'accertata legittimità del provvedimento impugnato, va ritenuta parimenti infondata la domanda di risarcimento formulata dalla parte. 7. Conclusivamente l'appello va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, che si liquidano in complessivi euro 3000,00 (eurotremila,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio celebrata da remoto del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3329 del 2019, proposto da Ma. S.p.A., No. Soc. Coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Co. Or., Ma. El. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Ma. Gr. in Roma, corso (...); contro Comune di Bologna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Tr., Na. Za., Ca. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ca. Si. in Bologna, piazza (...); nei confronti Es. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Ru., Gi. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Co. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Seconda n. 1003/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Bologna e di Es. S.p.A.; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 novembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e uditi per le parti gli avvocati Or., Si., Ru. e Co.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Espongono le appellanti che la pretesa da esse azionata in primo grado attiene il ristoro del pregiudizio ingiusto subito per avere il Comune di Bologna illegittimamente consentito l'ingresso dell'operatore Es. s.p.a. (già Es. Em. s.p.a.) nella medesima quota di mercato occupata dagli esercizi commerciali, di cui sono titolari il Gruppo No., No. soc. coop. e Ma. S.p.A. nella zona Est di Bologna, e di conseguenza per avere causato lo storno di clientela derivato. 2. Ciò sarebbe avvenuto mediante il rilascio da parte del Comune di Bologna in capo a Es. Em. s.p.a. (oggi Es. s.p.a.) di provvedimenti di autorizzazione per il commercio al minuto in sede fissa n. 155309 e n. 155391 del 19 novembre 1997 per complessivi mq. 2.835, riguardanti la struttura di vendita sita in Bologna, via (omissis), la cui illegittimità è stata definitivamente accertata all'esito del contenzioso avanti al Giudice Amministrativo (cfr. sentenze del TAR di Bologna n. 407/1999 e n. 409/1999 in data 17 settembre 1999, confermate dal Consiglio di Stato con sentenze n. 5655/2011 e n. 5656/2011 in data 21 ottobre 2011). 3. Con sentenza n. 1003 in data 20 dicembre 2018 il TAR di Bologna ha respinto, per ritenuto difetto dei necessari presupposti, la domanda risarcitoria. 4. Di tale sentenza Ma. S.p.A. e No. Soc. Coop. hanno chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello affidato alle seguenti censure: "Errore nel giudizio per erronea valutazione in fatto e diritto, contraddittorietà, ingiustizia della pronuncia, contrasto e contraddittorietà con precedente giudicato, omessa valutazione". 5. Hanno resistito al gravame il Comune di Bologna e Es. S.p.A. chiedendone il rigetto. 6. Alla udienza pubblica del 30 novembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 7. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da Ma. S.p.A. e No. Soc. Coop avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna n. 1003/2018 con la quale il medesimo TAR ha respinto il ricorso proposto per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dai provvedimenti di autorizzazione per il commercio al minuto in sede fissa n. 155309 e n. 155391 del 19 novembre 1997 per complessivi mq. 2.835, rilasciati dal Comune di Bologna in capo ad Es. Em. S.p.A. (oggi Es. S.p.A.) con riferimento alla struttura di vendita sita in Bologna, via (omissis). 8. L'appellante contesta le conclusioni cui è giunto il TAR, in sintesi, sulla base dei seguenti argomenti: a) il contenuto annullatorio e ripristinatorio delle sentenze di annullamento dei titoli autorizzatori in capo a Es. S.p.A. non è valso nel caso concreto, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, a produrre effetti satisfattivi dell'interesse sostanziale delle ricorrenti; ciò in quanto Es. S.p.A. ha continuato a esercitare la propria attività, per cui le ricorrenti si sono trovate a subire per anni la concorrenza illegittima della stessa; a.1.) solo in data 13 febbraio 2012 il Comune di Bologna ha adottato l'ordinanza prot. n. 34113, recante ordine in capo a Es. S.p.A. di cessazione dell'attività di vendita nel termine di 90 giorni, espressamente dichiarando tuttavia che la medesima non sarebbe stata portata ad esecuzione, stante l'imminente rilascio della nuova autorizzazione (effettivamente rilasciata in data 18 maggio 2012); a.2.) il TAR avrebbe omesso di considerare che, quantomeno dal 2010, il Comune sarebbe stato tenuto a ordinare la cessazione o sospensione dell'attività ; a.3.) in merito all'ordinanza di cessazione dell'attività di vendita, adottata in data 13 febbraio 2012, il TAR avrebbe omesso di considerare che tale ordinanza recava il termine di 90 giorni, laddove le previsioni di legge (art. 22 "Sanzioni e revoca", comma 6, del d.lgs. n. 114/1998) impongono l'immediata cessazione; il che ha consentito a Es. di presentare nel frattempo una nuova domanda, definita con il rilascio del nuovo titolo, e di non eseguire l'ordine di cessazione; b) in ordine alla illegittimità dei titoli autorizzatori, sarebbe non scusabile la condotta dell'amministrazione nell'adozione dei provvedimenti che hanno illegittimamente consentito l'ingresso di Es. nel bacino d'utenza delle ricorrenti; b.1.) la violazione delle norme sarebbe da considerarsi con ogni evidenza grave, in quanto commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici che paleserebbero la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato, non sussistendo contrasti giuridici o incertezza del quadro normativo di riferimento; b.2.) quanto all'influenza determinante che possano avere avuto Es. S.p.A. (già Es. Em. S.p.A.) e la controllata Or. s.r.l., così contribuendo all'illegittimo rilascio dei titoli richiesti, tale circostanza avrebbe dovuto indurre il Giudice di prime cure semmai a individuare una responsabilità solidale dell'operatore concorrente, non certo a scusare l'amministrazione, dal momento che la pretestuosità delle richieste - come accertato dal Giudice in sede di annullamento - era di tutta evidenza e non potrebbe ritenersi sussistente l'esimente di una rappresentazione ingannevole della realtà prospettata dai soggetti richiedenti; c) sussisterebbe il nesso causale tra l'evento dannoso e la condotta dell'Amministrazione; c.1.) sarebbero errate le considerazioni svolte dal TAR, laddove ha ritenuto non provata la certa riconducibilità causale del danno alle autorizzazioni rilasciate a Es. e all'attività commerciale da quest'ultima; d) le appellanti hanno poi argomentato con ampi svolgimenti in ordine alla quantificazione del danno. 9. La ricostruzione delle appellanti non merita condivisione e la sentenza impugnata, peraltro basata su ormai costante giurisprudenza amministrativa, deve essere integralmente confermata. 10. Come noto, l'illegittimità del provvedimento amministrativo costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione. Con specifico riferimento all'elemento psicologico, la colpa della Pubblica amministrazione è individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'Amministrazione. Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo, ma postula la verifica di tutti i requisiti dell'illecito (tra le tante, Consiglio di Stato sez. III, 17 novembre 2023, n. 9862). 11. Il primo Giudice ha correttamente inquadrato la vicenda, in particolare, laddove ha affermato: "sotto il profilo della condotta e del relativo elemento psicologico, non si ravvisa alcun comportamento illegittimo del Comune di Bologna sulla base del quale ritenere l'Ente responsabile dei danni lamentati dalle società ricorrenti, essendosi l'Amministrazione comunale correttamente attivata nei confronti della Es. nelle varie fasi dei procedimenti che ne hanno interessato le autorizzazioni e proroghe per l'esercizio dell'attività commerciale, arrestandosi di fronte all'ordinanza del Consiglio di Stato di sospensione della sentenza di primo grado di annullamento e ordinando invece la cessazione dell'attività una volta confermate tali pronunce nel merito, concretamente mai portata ad esecuzione, avendo Es., da un lato, impugnato tale ordine chiedendone la sospensione cautelare e, dall'altro, chiesto in data 26/4/2012 (e quindi entro il termine di 90 giorni concesso per cessare l'attività ), l'autorizzazione commerciale relativa a una media struttura, ubicata in Bologna Via (omissis), autorizzata con provvedimento P.G. n. 120716 del 18/5/2012". 12. Ugualmente corretta è la statuizione del TAR laddove viene rilevato il difetto della prova del danno lamentato dalle società ricorrenti e la dimostrazione della certa riconducibilità causale di esso alle autorizzazioni rilasciate a Es. e all'attività commerciale da quest'ultima posta in essere nel periodo di pendenza dei giudizi avverso i predetti atti. 13. Per stabilire la responsabilità dell'amministrazione non è sufficiente considerare solo l'illegittimità di un provvedimento amministrativo, ma è necessario che il Giudice conduca un'indagine approfondita, includendo la valutazione dell'elemento soggettivo dell'amministrazione come apparato. Occorre dimostrare che l'amministrazione abbia agito almeno con colpa, violando i principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa sanciti dall'art. 97 Cost. Tale indagine è stata condotta in modo approfondito dal TAR che ha vagliato tutti gli elementi della lunga vicenda contenziosa anche mediante una puntuale ricostruzione in fatto, correttamente escludendo i presupposti dell'azione risarcitoria. 14. Non è superfluo osservare che, nella lunga vicenda controversa, si inserisce il rilascio di una nuova autorizzazione per una media struttura di vendita rilasciata coerentemente con la destinazione d'uso dei locali di Via (omissis). 15. Per le ragioni sopra esposte l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna n. 1003/2018. Condanna le appellanti al pagamento delle spese del presente grado del giudizio, che liquida come di seguito: a) Euro 4.000/00 (quattromila) oltre accessori e spese di legge in favore del Comune di Bologna; b) Euro 4.000/00 (quattromila) oltre accessori e spese di legge in favore di Es. S.p.A. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore Diana Caminiti - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 59 del 2020, proposto da Um. Do., rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Seconda n. 666/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Sergio Zeuli Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante per l'annullamento dell'ordinanza n. 42 del 24 settembre del 2014 con cui il comune di (omissis) ha disposto la sospensione dell'autorizzazione rilasciatale di noleggio vettura con conducente - NCC - n. 10/2008 per quindici giorni. La parte deduce i seguenti motivi di appello avverso la decisione: I)Errore in iudicando. Errata applicazione e interpretazione della legge 21/1992, in particolare 3 e 11, motivazione apparente, errata e/o contraddittoria, mancata e/o errata valutazione dei fatti di causa. II) Mancato pronuncia sul primo motivo di ricorso proposto in primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di ncc del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), genericità delle contestazioni, difetto di istruttoria, errata valutazione dei presupposti, mancata valutazione delle giustificazione, difetto di motivazione, motivazione apparente, violazione del principio di corrispondenza fra contestazione e sanzione, contraddittorietà, violazione degli autovincoli (art. 29 del regolamento comunale servizi ncc) eccesso di potere, illegittimità degli atti impugnati." III) Mancata pronuncia sul II motivo di ricorso di primo grado. "Violazione e falsa applicazione della legge 15 gennaio 1992 n. 21, della legge regionale della Toscana del 06/09/1993 n. 67, del regolamento comunale del servizi di NCC del Comune di (omissis) approvato con deliberazione di C.C. n. 2 del 4/02/2012, della legge 689/1981, delle norme sul giusto procedimento (L. 241/1990), illegittimità degli atti impugnati." IV) Richiesta di risarcimento danni. 2. Si è costituito in giudizio il comune di (omissis), contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. Come detto in premessa, la parte appellante era in possesso di autorizzazione per lo svolgimento del servizio di noleggio auto, rilasciatagli dal comune di (omissis) che aveva ritenuto di ricorrere a questi provvedimenti, rilasciati anche ad altri richiedenti, per sopperire alla carenza del servizio di trasporto nel suo territorio e, più in generale, nella zona della (omissis). La sospensione della parte appellante è stata disposta proprio adducendo quale ragione che, nonostante la sua autorizzazione fosse stata rilasciata al fine di migliorare il servizio di trasporto nell'area, risultava che il licenziatario non aveva svolto alcun servizio di trasporto e/o di noleggio auto con conducente, in detto comune, che non aveva mai condotto passeggeri in partenza da, o in arrivo in quel territorio; che, in sostanza, aveva svolto le sue prestazioni professionali in a servizio di utenti e di aree che non avevano alcun collegamento con il comune che le aveva rilasciato la licenza. Di conseguenza, stante la mancanza di qualsivoglia collegamento territoriale tra la sua attività ed il suddetto territorio, è stata contestata alla parte la violazione di quanto previsto dagli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso ritenendo che fossero fondate le ragioni poste a fondamento del provvedimento di sospensione. 4. Il motivo di appello deduce l'erroneità della decisione che avrebbe sottovalutato l'efficacia territoriale extra-comunale che era implicita nel provvedimento di autorizzazione di cui si parla. 4.1. Il motivo è infondato. Gli articoli 3 e 11 della L. 21 del 1992 - che regolano la disciplina de qua - contengono, in modo inconfutabile, il principio cd. di afferenza territoriale del servizio di noleggio con autista di un veicolo. Ed infatti entrambe sottolineano la necessità che vi sia un perdurante collegamento tra la prestazione resa e l'area territoriale di riferimento il cui ente esponenziale ha rilasciato l'autorizzazione. In particolare, la prima delle due disposizioni citate prevede che il servizio di noleggio sia rivolto all'utenza specifica esistente presso la sede del vettore, che, nel nostro caso, è evidentemente il comune appellato. La seconda, al comma 2, ancor più inequivocabilmente, stabilisce espressamente che prelevamento dell'utente o inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza. Nel caso di specie, il detto collegamento era anche materialmente rappresentato dall'esistenza di uno stazionamento, messo a disposizione dei licenziatari da parte dell'ente locale, che aveva destinato a costoro un'apposita area all'interno del territorio comunale e che non risulta essere stata mai utilizzata da nessuno dei licenziatari, tra essi compresa l'attuale parte appellante. Stando così le cose in diritto, la rivendicata efficacia extra-comunale dell'autorizzazione è del tutto irrilevante. E' infatti ovvio che un servizio di trasporto passeggeri, dipendendo dalla richiesta del cliente/trasportato, non possa e non debba avere aprioristici limiti di efficacia, ma ciò non toglie la necessità del ridetto collegamento territoriale che deve sussistere o in partenza, o in arrivo, del servizio di trasporto, pena la totale pretermissione dell'interesse pubblico che rappresenta il fondamento attributivo del potere autorizzatorio. Se così non fosse, a parte il frontale contrasto con le disposizioni appena ricordate, non sarebbe spiegabile perché detta autorizzazione possa essere rilasciata dal comune, ossia da un ente espressione di autonomia locale. Infatti la relativa competenza sarebbe stata piuttosto attribuita ad un organo periferico dell'amministrazione statale, meno connesso, da tutti i punti di vista, al territorio in cui opera. D'altro canto poiché è incontestato che - come accertato dalle verifiche disposte tramite i carabinieri e la polizia municipale - la parte appellante non abbia rispettato la predetta prescrizione, si devono ritenere legittimi i provvedimenti impugnati, che, anche in applicazione di quanto previsto dall'articolo 25 del regolamento comunale, hanno disposto la sospensione dell'autorizzazione. 5. Il secondo e terzo motivo d'appello - che possono essere congiuntamente trattati - denuncia, sotto diverse prospettive, l'esistenza di illegittimità procedimentali e sostanziali nei provedimenti impugnati. La parte appellante contesta altresì il difetto di proporzionalità tra la sanzione irrogata ed il fatto contestato, oltre che la violazione dell'art. 23 del regolamento comunale in materia. 5.1. Entrambi i motivi sono infondati. Il provvedimento di sospensione è stato infatti preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento all'interessato che ha dunque potuto partecipare al procedimento ed è congruamente motivato, indicando le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione. Infine la sanzione impugnata è proporzionata al fatto e funzionale ad una corretta cura dell'interesse pubblico causa attributiva del potere, che consiste, come detto, nel miglioramento del trasporto pubblico in ambito comunale. Si tratta invero di una sospensione, per lo più disposta per soli quindici giorni, che ha valore di monito. 5.2. Quanto alla violazione dell'art. 23 del regolamento comunale - che avrebbe permesso, nel caso di siffatta tipologia di violazioni, la sola diffida e non la sospensione dell'autorizzazione - si osserva che, come si evince dallo stesso provvedimento impugnato, la parte aveva già ricevuto una prima diffida, alla quale non aveva ottemperato, dunque si giustifica il ricorso ad una misura più severa che si fonda sull'articolo 25 di detto regolamento, puntualmente richiamato dall'atto impugnato. 5.3. Quanto alla consistenza degli addebiti, a fronte delle generiche proteste della parte appellante, fanno fede quelli emergenti dalle ricordate verifiche di polizia e carabinieri, che palesano l'inadempimento degli obblighi connessi al collegamento territoriale. 6. Stante l'accertata legittimità del provvedimento impugnato, va ritenuta parimenti infondata la domanda di risarcimento formulata dalla parte. 7. Conclusivamente l'appello va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, che si liquidano in complessivi euro 3000,00 (eurotremila,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio celebrata da remoto del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere
Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.