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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. APRILE Ercole - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Po.Ma., nato ad A. il (Omissis) avverso l'ordinanza del 14.03.2024 emessa dal Tribunale di Rovigo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Fabrizio D'Arcangelo; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale An.Ba., che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni del difensore, avvocato Ma.Pe., che ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata il Tribunale di Rovigo ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell'interesse di Po.Ma. e ha confermato il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta della somma di Euro 147.360,00 o, per equivalente, di beni sino alla concorrenza di tali valore, quale profitto dei reati di cui all'art. 314 cod. pen., disposto dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rovigo in data 16 gennaio 2024 nei confronti del ricorrente. Secondo questo provvedimento Po.Ma., quale pubblico ufficiale, nella qualifica di direttore di stabilimento, nominato dall'Agenzia delle Dogane e di agente contabile per la movimentazione del tabacco, si sarebbe appropriato e avrebbe ceduto a terzi quantitativi di tabacchi lavorati esteri che erano nella sua custodia, in quanto sottoposti a sequestro perché privi del timbro dei Monopoli di Stato. 2. L'avvocato Ma.Pe., difensore dell'imputato, ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento, proponendo quattro motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo, il difensore deduce l'inosservanza dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in relazione all'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe omesso di dichiarare l'inefficacia dell'ordinanza genetica a seguito del decorso del termine di dieci giorni dalla trasmissione completa degli atti dal pubblico ministero. Ad avviso del difensore, infatti, la trasmissione degli atti doveva intendersi avvenuta già in data 1 febbraio 2024 e, dunque, la decisione, essendo intervenuta in data 14 marzo 2024, sarebbe stata pronunciata oltre il termine di dieci giorni previsto a pena di inefficacia della misura cautelare reale. 2.2. Con il secondo motivo, il difensore censura l'inosservanza dell'art. 324 cod. proc. pen., in relazione all'art. 309 cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe deciso il gravame proposto senza aver previamente acquisito le intercettazioni poste a fondamento del fumus commissi delieti. La mancata acquisizione integrale delle intercettazioni avrebbe, dunque, determinato una lesione del diritto di difesa del ricorrente. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso, il difensore eccepisce l'inosservanza dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in relazione all'art. 309, comma 9 e 10, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe omesso di motivare in ordine a specifiche censure proposte dalla difesa nella memoria depositata all'udienza del 14 marzo 2024, sia con riferimento al fumus commissi delieti, che al periculum in mora. Il Tribunale, in particolare, non avrebbe motivato in ordine al fatto che alcuni degli episodi contestati sarebbero stati commessi mentre il Po.Ma. era in ferie (dall'I al 4 ottobre del 2021) o lavorava in smart working. Il Tribunale, inoltre, erroneamente avrebbe ritenuto sussistente il periculum in mora, pur a fronte della capienza del patrimonio del Po.Ma. e avrebbe valorizzato circostanze puramente congetturali. 2.4. Con il quarto motivo di ricorso, il difensore deduce l'inosservanza degli artt. 321 cod. proc. pen. e all'art. 545 cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe illegittimamente rigettato la richiesta di riduzione del sequestro proposta dalla difesa. Il difensore premette che, nei motivi depositati all'udienza del 14 marzo 2024, ha dedotto l'impignorabilità di parte delle somme sequestrate, in quanto il vincolo reale, tra l'altro, ha attinto il conto corrente acceso presso l'istituto di credito Montepaschi, cointestato al ricorrente e alla moglie, St.Ga., e alimentato, in gran parte, dallo stipendio del Po.Ma.; in subordine, il difensore ha richiesto la riduzione del sequestro nei limiti sanciti dall'art. 545 cod. proc. pen. Il Tribunale, tuttavia, ha rigettato la prima richiesta, rilevando che il conto corrente era alimentato esclusivamente dagli emolumenti del Po.Ma. e, di seguito, ha escluso la riduzione del vincolo reale, "ben potendo le ragioni di assicurazione alla confisca del profitto da reato essere utilmente contemperate con la tutela delle condizioni minime di vita attraverso la sostituzione dei beni appresi con altri non oggetto del divieto di cui all'art. 545 cod. proc. pen.". Con questa motivazione, tuttavia, il Tribunale avrebbe violato l'art. 545 cod. proc. pen., che sancisce proprio il carattere recessivo della confisca o del sequestro finalizzato alla stessa rispetto ai proventi indicati da tale disposizione. Il Tribunale, dunque, avrebbe dovuto annullare o ridurre il sequestro in misura corrispondente all'importo delle retribuzioni percepite dal Po.Ma. 3. Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 28 febbraio 2023, il Procuratore generale 18 luglio 2024, il Procuratore generale An.Ba. ha chiesto il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto nei limiti che di seguito si precisano. 2. Con il primo motivo il difensore deduce l'inosservanza dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in relazione all'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe omesso di dichiarare l'inefficacia dell'ordinanza genetica a seguito del decorso del termine di dieci giorni dalla trasmissione completa degli atti dal pubblico ministero. 3. Il motivo è infondato. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il termine perentorio di dieci giorni imposto dal combinato disposto degli artt. 324, comma 7 e 309, commi 9 e 10, cod. proc. pen. per la decisione del Tribunale del riesame, decorre dal giorno della ricezione degli atti processuali e non dalla ricezione della richiesta di riesame (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, Rv. 267593) e, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, dal momento in cui il Tribunale ritenga completa l'acquisizione degli atti mancanti, nei limiti dell'effetto devolutivo dell'impugnazione (Sez. U, n, 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv. 255582 - 01; Sez. 3, n. 31958 del 14/07/2020, Regina, Rv. 280025 - 01; Sez. 3, n. 36814 del 21/06/2017, Orefice, Rv. 270954 - 01). Il Tribunale del riesame ha fatto buon governo di tali consolidati principi, in quanto, a fronte della trasmissione frazionata degli atti dal pubblico ministero, ha congruamente ritenuto che la stessa potesse ritenersi completa a seguito della comunicazione del pubblico ministero del 5 marzo 2024. Essendo stata adottata la decisione del riesame in data 14 marzo 2024, dunque, nessuna violazione del termine di dieci giorni è intervenuta. L'eccezione di inefficacia della misura cautelare è, peraltro, infondata. Le Sezioni unite di questa Corte hanno, infatti, statuito che nel procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro, il rinvio dell'art. 324, comma settimo, cod. proc. pen., alle disposizioni contenute nell'art. 309, comma decimo, cod. proc. pen., deve intendersi tuttora riferito alla formulazione originaria del predetto articolo; ne deriva che sono inapplicabili le disposizioni - introdotte nel predetto comma decimo dalla legge 8 aprile 2015, n. 47 - relative al termine perentorio per il deposito della decisione ed al divieto di rinnovare la misura divenuta inefficace (cfr. Sez. U, n. 18954 del 31/03/2016, Capasso, Rv. 266790). 4. Con il secondo motivo, il difensore censura l'inosservanza dell'art. 324 cod. proc. pen., in relazione all'art. 309 cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe deciso senza aver previamente acquisito le intercettazioni poste a fondamento del fumus commissi delieti. 5. Il motivo è infondato. La mancata trasmissione delle registrazioni e delle relative trascrizioni delle intercettazioni poste a fondamento della decisione non causa la nullità invocata dal ricorrente. In tema di riesame, l'omesso deposito del cosiddetto "brogliaccio" di ascolto e dei files audio delle registrazioni di conversazioni oggetto di intercettazione non è sanzionato da nullità o inutilizzabilità, dovendosi ritenere sufficiente la trasmissione, da parte del pubblico ministero, di una documentazione anche sommaria ed informale, che dia conto sinteticamente del contenuto delle conversazioni riferite negli atti della polizia giudiziaria, fatto salvo l'obbligo del Tribunale di fornire congrua motivazione in ordine alle difformità specificamente indicate dalla parte fra i testi delle conversazioni telefoniche richiamati negli atti e quelli risultanti dall'ascolto in forma privata dei relativi files audio (ex plurimis: Sez. 6., n. 22570 del 11/04/2017, Cassese, Rv. 270036 - 01). Analogo motivo di ricorso è, peraltro, stato ritenuto infondato dalla sentenza n. 32053 del 2024 di questa Corte, relativa al ricorso proposto da Po.Ma. avverso l'ordinanza del Tribunale di Venezia, che ha applicato ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di pubblici uffici e servizi per mesi sei. 6. Con il terzo motivo di ricorso, il difensore eccepisce l'inosservanza dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in relazione all'art. 309, comma 9 e 10, cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe omesso di motivare in ordine a specifiche censure proposte dalla difesa nella memoria depositata all'udienza del 14 marzo 2024, sia con riferimento al fumus commissi delieti, che al periculum in mora. 7. Il motivo è infondato. 7.1. L'art. 325 cod. proc. pen. ammette il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse dal Tribunale del riesame in materia di sequestro preventivo solo per violazione di legge. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tale nozione si devono comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (ex plurimis: Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692 - 01; conf. Sez. 2, n. 49739 del 10/10/2023, Mannolo, Rv. 285608 - 01; Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269656 - 01). 7.2. L'ordinanza impugnata non presenta vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice. Il Tribunale di Rovigo ha congruamente rilevato che il fumus commissi delieti consegue alle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie di Ma.Lo., guardia giurata nel deposito dei Monopoli di Stato ad A., circa l'apprensione e la cessione a terzi dei tabacchi lavorati esteri sottoposti a sequestro in concorso con Po.Ma., che erano risultate riscontrate dalle chat intercorse con il ricorrente, dalla custodia delle chiavi dei magazzini spettante al solo Po.Ma. e dagli accrediti in contanti per 162.000 Euro sul conto corrente del ricorrente dal 2020 al 2022. Il Tribunale non ha omesso di motivare sulle censure difensive relative alle assenze per ferie, ma ha ritenuto che le apprensioni dei tabacchi in sequestro fossero complessivamente dimostrate, nei limiti delibatori propri della sede cautelare, dalla ricostruzione dei fatti operata sulla base della chiamata in correità del Ma.Lo. e dei molteplici riscontri evidenziati e che la verifica delle appropriazioni effettuate nelle singole date sarà devoluta all'istruttoria propria del giudizio di merito. Gli altri argomenti asseritamente pretermessi dal Tribunale fondano censure di travisamento per omissione che sono incompatibili con il sindacato di legittimità sui provvedimenti cautelari reali. E, peraltro, irrilevante il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame ove essa sia disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, posto che non è necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese, ma è sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione, senza lasciare spazio a una valida alternativa (Sez. 3, n. 3239 del 04/10/2022, dep. 25/01/2023, Rv. 284061). Inammissibili, da ultimo, sono le ulteriori censure svolte dal difensore al fine di contestare l'insussistenza del fumus commissi delieti in quanto sono dirette a confutare in fatto i rilievi del Tribunale del riesame, prospettandone una ricostruzione alternativa, non consentita in sede di legittimità. 7.3. Le Sezioni unite di questa Corte, nella sentenza "Eliade", hanno statuito che il provvedimento di sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all'art. 240 cod. pen., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l'anticipazione dell'effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege (Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021, Eliade, Rv. 281848 - 01). La giurisprudenza di legittimità, in seguito alla sentenza Eliade, ha affermato che l'esistenza del periculum in mora quale presupposto di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 240 cod. pen. può essere desunta alternativamente tanto da elementi oggettivi, attinenti alla consistenza quantitativa o alla natura e composizione qualitativa dei beni attinti dal vincolo, quanto da elementi soggettivi, relativi al comportamento dell'onerato, che lascino fondatamente temere il compimento di atti dispositivi comportanti il depauperamento del suo patrimonio (così Sez. 3, n. 44874 del 11/10/2022, Fricano, Rv. 283769). Il Tribunale, in applicazione di questi principi, ha ritenuto sussistente il periculum in mora, evidenziando la scaltrezza con la quale il Po.Ma. e il Ma.Lo. hanno nel tempo occultato i proventi delittuosi e ha rilevato che vi era il rischio che il profitto del reato potesse essere sottratto alla confisca mediante condotte analoghe a quelle già perpetrate. Dalla lettura dell'ordinanza impugnata si evince, pertanto, come sia proprio il rischio di reiterazione di tali comportamenti a generare il pericolo di futura infruttuosità della confisca, e a giustificare la sottoposizione medio tempore dei beni al sequestro. Il Tribunale ha, pertanto, reso una motivazione che non può considerarsi mancante o meramente apparente e, pertanto, non è censurabile in questa sede. 8. Con il quarto motivo di ricorso, il difensore deduce l'inosservanza degli artt. 321 cod. proc. pen. e all'art. 545 cod. proc. pen., in quanto il Tribunale del riesame avrebbe illegittimamente rigettato la richiesta di riduzione del sequestro proposta dalla difesa. 9. Il motivo è fondato. Il Tribunale ha rigettato l'istanza di riduzione del sequestro, rilevando come l'applicazione del principio affermato dalle Sezioni unite Cinaglia "non possa comportare, nel caso di specie, l'effetto del dissequestro tout court delle somme impignorabili, allorquando il patrimonio dell'indagato sia comunque capiente, reagendo, piuttosto sul piano esecutivo, ben potendo le ragioni di assicurazione alla confisca del profitto da reato essere utilmente contemperate con la tutela delle condizioni minime di vita attraverso la sostituzione dei beni appresi con altri non oggetto del divieto di cui all'art. 545 c.p.c.". Queste argomentazioni sono, tuttavia, errate, in quanto, pur riconoscendo formalmente il vincolo di impignorabilità sancito dall'art. 545 cod. civ., hanno rimesso la sua verifica e attuazione alla successiva fase esecutiva. Le Sezioni unite hanno, tuttavia, statuito che i limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall'art. 545 cod. proc. civ., si applicano anche alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato (Sez. U, n. 26252 del 24/02/2022, Cinaglia, Rv. 283245 - 01). Le Sezioni unite hanno sottolineato la necessità che risulti dimostrata la causale dei versamenti e che gli importi da sequestrare siano imputabili con certezza ai titoli considerati dall'art. 545 cod. civ. (Sez. 6, n. 13422 del 13/3/2019, Feriozzi e Sez. 6, n. 8822 del 08/01/2020, Iannuzzo, Rv.278560) e, quanto all'ampiezza di questo vincolo, hanno richiamato i consolidati approdi della giurisprudenza costituzionale e civile sul punto. Le Sezioni unite non hanno chiarito le modalità esecutive del predetto vincolo di impignorabilità in sede penale, ma hanno precisato che lo stesso si applica, pur in difetto di espressa previsione da parte del legislatore, in quanto costituisce espressione del canone di proporzionalità della misura cautelare reale e della necessità di garantire il minimo vitale del soggetto attinto dalla misura cautelare reale. Il canone di proporzionalità sancito, anche in riferimento alle misure cautelari reali, dell'art. 275 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. 2, n. 29687 del 28/05/2019, Frontino, Rv. 276979; Sez. 3., n. 21271 del 07/05/2014, Konovalov, Rv. 261509 -01) e a livello sovranazionale dal diritto dell'Unione (art. 5, par. 3 e 4, TUE, art. 49, par. 3, e art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come interpretata dalla Corte Edu, e che assolve "ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto" (ex plurimis: Sez. 6, n. 34265 del 22/09/2020, Aleotti, Rv. 279949 - 02; Sez. 4, n. 29956 del 14/10/2020, Valentino, Rv. 279716 - 01; Sez. 6, n. 9776 del 12/02/2020, Morfù, non massimata). Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, del resto, hanno recentemente affermato che "ogni misura cautelare, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, dovrebbe richiedere che ogni interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria)" (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548, in motivazione). Il limite di impignorabilità posto dall'art. 545 cod. civ., dunque, in ragione del proprio fondamento costituzionale, opera in ogni fase del procedimento cautelare, anche quella dell'adozione del sequestro preventivo a fine di confisca, e la verifica della sua osservanza non può essere differita alle fasi successive del processo e, tanto meno, alla fase esecutiva. L'ordinanza impugnata deve, dunque, essere annullato con riferimento alla omessa verifica della violazione del limite di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio al ricorrente, immediatamente incompatibili con l'applicazione del vincolo reale nella misura stabilita dall'art. 545 cod. civ. L'eventuale eccedenza dell'ammontare del profitto del reato conseguente al parziale dissequestro potrà eventualmente essere sequestrato su altri beni, in ipotesi disponibili, del patrimonio dell'indagato. Sul punto il Tribunale di Rovigo dovrà nuovamente motivare, uniformandosi ai principi stabiliti da questa Suprema Corte. 10. Alla stregua di tali rilievi l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Rovigo, competente ai sensi dell'art. 324, comma 5, cod. proc. pen. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Rovigo competente ai sensi dell'art. 324, comma 5, cod. proc. pen. Così deciso il 10 settembre 2024. Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2024
TAR Milano
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2193 del 2021, proposto da-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Questura di Varese, non costituita in giudizio; Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege in Milano, via (...); nei confronti -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Be., Sa. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento del provvedimento emesso dal Questore di Varese prot. -OMISSIS- del 9/09/2021 notificato all'interessato con processo verbale di ammonimento in data 10/09/2021, nonché di ogni atto connesso, collegato, presupposto, precedente e conseguente. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 maggio 2024 il dott. Luca Iera e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Il signor -OMISSIS- è stato destinatario del provvedimento prot. -OMISSIS- del 9/09/2021 con il quale la Questura di Varese lo ammoniva, ai sensi dell'art. 8 del d.l. n. 11/2009 conv. in legge n. 38/2009, a tenere una condotta conforme alla legge, atteso che questi si rendeva responsabile di "atti persecutori riconducibili alla fattispecie di cui all'art. 612 bis c.p." nei confronti di una terza persona ingenerando in questi "un perdurante stato di ansia e di preoccupazione nonché un fondato timore per la propria incolumità ". Il signor -OMISSIS- ha quindi impugnato il provvedimento prot. -OMISSIS-/2021 affidando il gravame a due motivi. Con il primo motivo lamenta il difetto di motivazione ai sensi dell'art. 3 della legge n. 241/1990 in quanto fondato sull'istanza di ammonimento, presentata dall'interessata, a sua volta affetta di "contraddizioni intrinseche" ictu oculi e poiché l'amministrazione non prendeva in alcun modo in considerazione le documentali argomentazioni difensive formulate dall'istante nel corso del procedimento. Con il secondo motivo allega la violazione dell'art. 8 del d.l. n. 11/2009 poiché non emergerebbe "un quadro istruttorio" degli elementi che caratterizzano il reato di stalking, recando un vulnus alla riservatezza della vita di relazione o, in senso lato e in forma anche potenziale, all'integrità della persona, secondo il criterio del "più probabile che non". Difatti, dalla corrispondenza via wh. scambiata tra le parti nel periodo dal mese di agosto 2020 al mese di settembre 2020, nonché nel mese di gennaio 2020, si evidenzierebbe "non già i postumi di un'aggressione verbale ma... un atteggiamento di confidenzialità, di rispetto e di quotidiana e piacevole frequentazione che nulla ha a che vedere con l'asserita aggressività a posteriori dichiarata". In questa linea, sarebbe prive di fondamento le affermazioni del terzo in ordine ad "asseriti stati psicotici del -OMISSIS- -OMISSIS-" e sui "pedinamenti" che nella ricostruzione del terzo avrebbero finalità intimidatoria. Con il terzo motivo lamenta la manifesta ingiustizia del provvedimento in quanto esso verrebbe assunto "sulla base di dichiarazioni che vengono nella maggior parte smentite e se correttamente circostanziate, risultano spiegabili dalla frequentazione di luoghi comuni di un piccolo paesino e non già nell'intento persecutorio del ricorrente". Inoltre, non verrebbe ravvisati gli elementi caratteristici del reato di evento ossia non viene indicato "lo stato d'ansia o di timore o il mutamento delle condizioni di vita né, tantomeno il nesso teleologico tra le condotte asseritamente poste in essere e il mutamento di condizioni di vita. Il timore è, pertanto, meramente dichiarato senza alcun riscontro oggettivo in tal senso. Nemmeno vi è alcun riscontro in merito all'asserito stato d'ansia e, soprattutto, al rapporto eziologico" tra lo stesso e la condotta contestata. Il Ministero degli interni e la controinteressata, nel costituirsi in giudizio, hanno puntualmente replicato alle censure sollevate. La Sezione con l'ordinanza n. -OMISSIS-/2021 ha respinto l'istanza cautelare sotto il profilo del fumus boni iuris. All'udienza del 24 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. I motivi di ricorso, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati. I motivi sono tutti volti a contestare la sussistenza dei presupposti per l'adozione dell'ammonimento e a denunciare il difetto di istruttoria e motivazione in cui sarebbe incorsa l'amministrazione. Il presupposto per l'adozione dell'ammonimento ai sensi dell'art. 8 del d.l. n. 11 del 2009 è costituito dalle medesime condotte che integrano la fattispecie di reato introdotta dall'art. 7 dello stesso decreto legge (art. 612 bis c.p.), ossia, fino a che non sia proposta querela per il reato, le "condotte reiterate, minacce o molestie" atte a cagionare un "perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva" o "da costringere ad alterare le proprie abitudini di vita". Difatti, il superamento di una soglia di rispetto della libertà e dignità altrui, comunemente insita nei limiti di un civile disaccordo e confronto nelle relazioni interpersonali, desta un allarme sociale che ha spinto il legislatore a prevedere e a sanzionare con l'ammonimento condotte che potrebbero sfociare in ben più gravi forme di violenza. Ai fini dell'adozione del provvedimento è irrilevante la presentazione della querela per il reato di cui all'art. 612 bis c.p., dal momento che la mancata presentazione della querela costituisce presupposto per la richiesta di ammonimento ai sensi dell'art. 8 d.l. n. 11/2009. La giurisprudenza ha posto in rilievo natura, funzione e presupposti, del provvedimento di ammonimento (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 7486/2023 e n. 748/2023). L'ammonimento ha natura preventiva ed è deputata a svolgere una funzione di dissuasione dei comportamenti sanzionati penalmente dall'art. 612 bis c.p. poiché finalizzato a scoraggiare ogni forma di persecuzione nel contesto delle relazioni affettive/sentimentali ed è preordinato a impedire che gli atti persecutori non siano più ripetuti cagionando esiti irreparabili. La valutazione discrezionale dell'amministrazione è diretta non a stabilire responsabilità, ma a prevenire la commissione di reati, mediante un giudizio prognostico ex ante relativo alla sussistenza di un pericolo. L'accertamento dei fatti sotteso all'adozione dell'ammonimento differisce da quello che caratterizza il giudizio penale, poiché nel primo caso è sufficiente la sussistenza di un quadro indiziario da cui emergano elementi oggettivi da cui poter ragionevolmente desumere una situazione potenzialmente lesiva per l'interessato. Ai fini dell'emissione del provvedimento non occorre pertanto la piena prova della responsabilità dell'ammonito per le condotte previste e punite dal menzionato art. 612 bis c.p. ossia per i comportamenti di cui sia accertato il carattere persecutorio, ma la sussistenza di elementi indiziari dai quali sia possibile desumere, con un adeguato grado di attendibilità, un comportamento reiterato anomalo, minaccioso o semplicemente molesto, come tale avvertito dal destinatario della condotta, che sia atto a determinare uno stato di "ansia e paura" nella vittima. Con riferimento all'elemento soggettivo, per l'adozione dell'ammonimento non è poi necessario l'accertamento del profilo soggettivo del destinatario autore della condotta come avviene secondo i canoni che informano il diritto penale. In relazione al sindacato giurisdizionale in ordine al provvedimento, si è infine osservato come il potere di ammonimento sia caratterizzato da ampia discrezionalità la quale è sindacabile in sede giurisdizionale nei limiti del travisamento dei fatti, dell'irragionevolezza, oltre che ovviamente della proporzionalità . Fermo quanto sopra, nel caso di specie va rilevato come l'amministrazione abbia esaminato gli scritti difensivi presentati in seno al procedimento amministrativo. Secondo l'orientamento della giurisprudenza l'amministrazione non è tenuta ad un'analitica confutazione delle ragioni esposte dal destinatario del provvedimento, essendo al contrario sufficiente che esponga sinteticamente i motivi per cui non ne condivide le prospettazioni difensive. L'interessato ha potuto presentare le proprie osservazioni di segno contrario al contenuto del preannunciato provvedimento negativo che l'amministrazione, come risulta dal provvedimento gravato, ha valutato. Nel provvedimento gravato viene espressamente dato atto della presentazione delle memorie e della loro inidoneità a modificare il compendio fattuale sotteso all'ammonimento. L'amministrazione ha quindi assicurato la partecipazione dell'interesse nel procedimento comunicando l'avviso del procedimento in cui si è indicata la ragione per la quale sarebbe stato adottato il provvedimento di diniego. L'amministrazione non era tenuta né a confutare le osservazioni dell'interessato né a confutarle in modo analitico, ma doveva unicamente valutarle. E nel provvedimento finale l'amministrazione, sebbene non abbia preso posizione sui vari punti delle osservazioni dell'interessato, ha valutato quest'ultime ritenendole tuttavia inidonee a sovvertire quanto preannunciato nella comunicazione di avvio del procedimento con una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 1603/2023). In relazione ai profili sostanziali che fondano il provvedimento, dall'istruttoria condotta dall'amministrazione emerge come l'ammonimento è basato su un quadro fattuale ampio ed esaustivo, caratterizzato da una molteplicità di episodi che concordemente depongono per la sussistenza di una situazione di pericolo dovuta a condotte reiterate oggettivamente riconducibili alla fattispecie dello stalking, stante la ricorrenza di tutti i noti tratti caratterizzanti l'ipotesi di reato di cui all'art. 612 bis c.p.. Più in particolare, il quadro fattuale si fonda, sotto il profilo probatorio, non soltanto sulle dichiarazioni della controinteressata, ma anche sui riscontri risultanti dalle sommarie informazioni assunte nel procedimento, dal quale emerge con chiarezza una situazione di pericolo derivante dalle condotte tenuto dal ricorrente del tutto assimilabili a quella di stalking. Sotto il profilo fattuale e probatorio risulta che il rapporto tra il ricorrente e la controinteressata è nato all'interno del gruppo di colleghi dell'-OMISSIS- e che nel corso del tempo è nato tra loro un buon rapporto di amicizia. Nell'estate del 2020 e poi nel mese di ottobre 2020, il ricorrente ha confidato alla controinteressata di essere sentimentalmente interessato a lei. La controinteressata ha subito chiarito di non ricambiare il sentimento sebbene, ritenendo si trattasse di un momento di debolezza, non ha interrotto il rapporto di amicizia. Nel mese di agosto 2020, la controinteressata ha ricevuto una telefonata da parte del ricorrente, che la aggrediva e rimproverava ripetutamente per non avergli, in precedenza, risposto al telefono (come testimonia una vicina, presente al momento dei fatti, ha evidenziato). La controinteressata, nei giorni successivi al Natale del 2020, in seguito al degenerare della situazione, ha deciso di allontanare il ricorrente, facendo intendere di non gradire le sue attenzioni e non ha più risposto né ai suoi messaggi né alle sue telefonate. Nel febbraio 2021, la controinteressata di rientro da una messa a -OMISSIS-, è scesa dalla sua automobile all'interno del cortile della sua abitazione ed è stata avvicinata dal sig. -OMISSIS- che le diceva di averla vista casualmente e di volerla salutare, sebbene durante quel mese la controinteressata si è accorta diverse volte di essere seguita. L'8 marzo 2021, rientrando da una visita medica a -OMISSIS- (VA), la controinteressata ha deciso di fermarsi per una piccola passeggiata con il suo cane nel parcheggio situato dietro il -OMISSIS- "-OMISSIS-" a -OMISSIS- (VA); ritornando all'automobile ha nuovamente visto il ricorrente avvicinarsi a lei chiedendole "perché non vuoi stare con me, perché non sono il tuo tipo? Tu sei una donna libera" e riferendole di essere stato curato in passato da un neuropsichiatra perché soggetto potenzialmente aggressivo. Subito dopo la conversazione, la donna, gravemente turbata, è rientrata in auto e si è l'abitazione di suo fratello. L'11 marzo 2021, il ricorrente ha telefonato alla donna aggredendola verbalmente per non avergli fatto gli auguri di compleanno il giorno prima. A questo punto, la controinteressata ha deciso di attivare una nuova utenza telefonica, mantenendo però anche quella precedente per il timore che il fatto potesse esacerbare gli animi del ricorrente. Il 28 marzo 2021, sabato antecedente la domenica delle Palme, il ricorrente ha telefonato alla donna, con la scusa di averle lasciato il tradizionale ramoscello di ulivo nella cassetta postale, e la ha interrogata con tono aggressivo avendo notato sul campanello di casa un altro nome, oltre a quello della donna. La controinteressata ha inoltre riferito di avere incontrato spesso il ricorrente, sia a piedi sia in automobile, nei pressi della sua abitazione e che questi ha contattato telefonicamente o di persona, con delle scuse infondate, alcuni suoi amici. In data 1 giugno 2021 la donna, verso l'ora di pranzo, ha visto il ricorrente avvicinarsi al cancello della sua abitazione e ha deciso di cambiare strada e pranzare altrove. Al ritorno, ha trovato otto chiamate da parte del ricorrente, effettuate in circa 15 minuti, e ha deciso di chiamarlo, registrando una telefonata di insulti e minacce. Nello stesso giorno, in serata, la controinteressata, mentre si trovava in gastronomia per degli acquisti, ha visto il ricorrente passare più volte. Anche alcuni amici della donna hanno notato la presenza dell'uomo nel parcheggio della gastronomia. Il 26 giugno 2021, il ricorrente si è presentato si presenta presso il -OMISSIS-di -OMISSIS-(VA) e, interrompendo la lezione, ha chiesto alla donna di avvicinarsi alla rete ma, al suo rifiuto si è allontanato gridando "-OMISSIS- sei una pessima persona", il tutto alla presenza dell'addestratrice. Il 25 luglio 2021, la controinteressata è rientrata dalle vacanze e, mentre usciva da casa con la propria autovettura, ha notato un'automobile bianca parcheggiata davanti al suo cancello che all'apertura dello stesso si sposta. A bordo dell'auto (nuova) c'era il ricorrente, che ha iniziato a seguirla e, dopo un breve tragitto, approfittando della colonna di auto in sosta al semaforo, è sceso dalla propria auto e ha bussato al finestrino della controinteressata, dicendo di volerle parlare, al che la donna è ripartita con la propria auto. A seguito della condotta intrusiva nella vita privata dalla controinteressata, tenuta dal ricorrente contro la volontà della prima per quasi un anno, la donna si è vista costretta a cambiare l'utenza telefonica per non essere controllata, a trasferirsi presso i familiari, a fuggire dalle costanti (non casuali) occasioni d'incontro con il ricorrente, ad uscire accompagnata da amiche o dai propri cani, a lavorare in smart working. Il ricorrente, tramite le censure, fornisce interpretazioni differenti dei fatti raccolti dall'amministrazioni e si duole del mancato raggiungimento della prova della commissione del reato alla stregua di criteri penalistici. Si tratta di considerazioni che sono tuttavia irrilevanti ai fini dell'adozione del provvedimento, alla luce della natura giuridica (preventiva) e della funzione (dissuasiva) del provvedimento che è volto a prevenire e scoraggiare, in modo anticipata, ogni forma di persecuzione nel contesto delle relazioni affettive/sentimentali o che gli atti persecutori non siano più ripetuti cagionando esiti irreparabili. In conclusione, il ricorso non è fondato e va pertanto respinto. La soccombenza comporta la condanna al pagamento delle spese di lite ai sensi dell'art. 26 c.p.a. e dell'art. 91 c.p.c. che vengono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore del Ministero dell'interno e della signora -OMISSIS- che si liquidano nella somma di Euro 3.000,00, oltre Iva, Cap, spese generali, per ciascuna parte. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 24 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Antonio Vinciguerra - Presidente Alberto Di Mario - Consigliere Luca Iera - Referendario, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI CATANZARO - Sezione Prima Civile - Settore Lavoro e Previdenza Sociale Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Catanzaro, nella persona del Dott. Paolo Pirruccio, ha pronunciato la seguente SENTENZA CON MOTIVAZIONE CONTESTUALE nella causa iscritta al R.G. Lavoro n. 790/2020 promossa DA CU.Lo. (C.F. (...)) rappresentato e difeso dall'Avv. Da.Co. - RICORRENTE - CONTRO MINISTERO DELLA DIFESA (C.F. 80425650589), in persona del Ministro pro tempore rappresentato e difeso, ai sensi dell'art. 417-bis cod. proc. civ., dai dipendenti dell'Amministrazione Dott.ssa Ma.Mi., Dott. Gu.Mo., Dott.ssa Ma.Pa. Ma. e Dott.ssa Ma.Sa. - RESISTENTE - avente ad oggetto: schede di valutazione della performance individuale relative agli anni 2017, 2018 e 2019. CUI È STATA RIUNITA LA CAUSA ISCRITTA AL R.G. N. 1335/2021 PROMOSSA DA CU.Lo. (C.F. (...)) rappresentato e difeso dall'Avv. Da.Co. - RICORRENTE - CONTRO MINISTERO DELLA DIFESA (C.F. 80425650589), in persona del Ministro pro tempore rappresentato e difeso, ai sensi dell'art. 417-bis cod. proc. civ., dai dipendenti dell'Amministrazione Dott.ssa Ma.Mi., Dott. Gu.Mo., Dott.ssa Ma.Pa.Ma. e Dott.ssa Ma.Vi.Sa. - RESISTENTE - avente ad oggetto: scheda di valutazione della performance individuale relativa all'anno 2020. Conclusioni delle parti: come da atti di causa. Ragioni di fatto e di diritto della decisione 1. Con ricorso depositato in data 25/05/2020 (R.G. Lav. n. 790/2020), CU.Lo., dipendente del Ministero della Difesa, ha chiesto che venga disposto l'annullamento delle schede di valutazione della performance individuale relative agli anni 2017, 2018 e 2019 (tutte con esito negativo, essendo stato attribuito un punteggio inferiore a 50), nonché dell'intero processo di misurazione e valutazione, con conseguente condanna dell'Amministrazione resistente a ripetere il medesimo processo di misurazione e valutazione della performance individuale per gli anni predetti, avuto riguardo alle competenze effettivamente possedute dal ricorrente e alla formazione dallo stesso svolta nel triennio 2017-2019. Ha, altresì, chiesto che venga accertato e dichiarato il diritto ad un percorso di formazione individuale e specifico e che l'Amministrazione datrice di lavoro venga condannata ad adempiere all'obbligo formativo su di essa incombente. 1.1. Si è costituito il Ministero della Difesa che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. 2. Con distinto ricorso depositato in data 27/07/2021 (R.G. Lav. n. 1335/2021), CU.Lo. ha avanzato identiche richieste con riferimento alla scheda di valutazione della performance individuale relativa all'anno 2020 (anch'essa negativa). 2.1. Si è costituito il Ministero della Difesa che, sollecitandone la riunione al precedente giudizio, ha concluso chiedendo il rigetto anche di questo ricorso. 3. Il ricorso da ultimo citato è stato riunito al primo in ragione della connessione soggettiva ed oggettiva (si veda il verbale-ordinanza emesso all'udienza odierna nel fasc. R.G. n. 1335/2021). 4. I ricorsi sono fondati e devono essere accolti. 5. Il ricorrente, nel ricorso iscritto al R.G. n. 790/2020, ha dedotto di essere dipendente del Ministero della Difesa dal 1999. Inizialmente assegnato nei ruoli militari con il grado di Caporal Maggiore capo dell'Esercito Italiano, a far data dal 05/10/2015, a seguito di domanda di transito successiva alla dichiarazione di permanente inidoneità al servizio militare incondizionato, è stato inquadrato nelle aree funzionali del personale civile presso il Comando Militare Esercito Calabria di Catanzaro, con la qualifica di "Assistente tecnico per l'informatica", Area Funzionale, Settore Tecnico, Scientifico e Informatico, fascia retributiva F2 del CCNI del Ministero della Difesa in attuazione del CCNL del Comparto Ministeri 2006-2009. 5.1. Il ricorrente ha poi precisato che, in realtà, prima di transitare nei ruoli civili (allorquando era militare) aveva svolto, per i primi 10 anni, le mansioni di autista di mezzi rotanti e, successivamente, fino al 2015, aveva ricoperto l'incarico di meccanico di mezzi rotanti. Egli aveva pertanto avversato la determinazione dell'Amministrazione di inquadrarlo come "Assistente tecnico per l'informatica", lamentando la totale mancanza di formazione e di competenza necessarie ai fini dell'espletamento dei compiti previsti per il predetto inquadramento. 5.2. Ciononostante, il Ministero della Difesa disponeva che il ricorrente venisse assunto con la qualifica di "Assistente tecnico per l'informatica", in quanto risultava agli atti del fascicolo personale che, nell'anno 2013, lo stesso avesse frequentato il corso di formazione professionale di "Operatore Turistico Alberghiero e della Gestione Aziendale" nel cui programma erano previste 76 ore di informatica. Tuttavia, il software che egli aveva imparato a utilizzare non aveva alcuna affinità con le mansioni che avrebbe dovuto svolgere nell'Amministrazione della Difesa, poiché riguardava la gestione della prenotazione dei clienti e delle fatture con i fornitori. 5.3. Il ricorrente lamenta, poi, che non aveva avuto alcuna formazione iniziale prima di iniziare a svolgere le nuove mansioni nei ruoli civili e ciò spiegava le valutazioni insufficienti riportate nelle schede di performance per gli anni 2017, 2018 e 2019 (in quanto in esse aveva conseguito un punteggio inferiore a 50/100). 6. Le censure sollevate dal ricorrente sono fondate. 6.1. Invero, l'art. 25 del CCNL 2006-2009 del Comparto Ministeri (doc. n. 30 allegato al ricorso), applicabile ratione temporis, prevedeva che: "1. L'attività formativa si realizza attraverso programmi di addestramento, aggiornamento e qualificazione, secondo percorsi formativi definiti in conformità delle linee di indirizzo concordate nell'ambito della contrattazione integrativa di cui all'art. 4, comma 3, lett. A, del CCNL 16 febbraio 1999, anche al fine della riqualificazione del personale nell'ambito dei processi di mobilità. 2. La formazione del personale di nuova assunzione viene effettuata mediante corsi teorico-pratici di intensità e durata coerente con le attività da svolgere, in base a programmi definiti dall'Amministrazione ai sensi del comma precedente". Ne consegue che l'attività formativa non è lasciata alla libera scelta dell'Amministrazione, ma è un vero e proprio obbligo cui essa non può sottrarsi. 6.2. Nel caso di specie era perfettamente noto all'Amministrazione che il ricorrente non avesse le competenze informatiche necessarie per svolgere le complesse attività oggetto di valutazione, tra le quali rientravano, a titolo meramente esemplificativo: controllare le postazioni informatiche dell'Ufficio Documentale (computers, stampanti, scanners) al fine di verificarne il corretto funzionamento ed eliminare il 100% degli inconvenienti riscontrati; limitatamente agli inconvenienti non risolti, formulare, tramite posta elettronica, specifica richiesta di assistenza al Nucleo informatico; effettuare giornalmente il controllo degli apparati informatici compilando un apposito file riepilogativo della situazione degli apparati stessi (si vedano le schede di valutazione della performance allegate al ricorso - docc. nn. 7, 12 e 22). È di tutta evidenza che il ricorrente non poteva giammai, non avendo le competenze tecniche, raggiungere quegli obiettivi e quei risultati attesi (c.d. performance introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2009), non essendo certamente utile a tal fine il corso di informatica che aveva seguito nell'ambito del corso di operatore turistico-alberghiero seguito nel 2013. 6.3. Che l'Amministrazione fosse a perfetta conoscenza delle reali competenze del ricorrente è anche documentato: il Comandante dell'Ufficio del personale di Catanzaro dell'epoca, con nota prot. n. 5806 del 22/05/2017 (allegata al deposito del 16/05/2022), rappresentava, infatti, al Comando Forze Operative Sud di Napoli "l'urgenza di formare il dipendente ... transitato nei ruoli civili con la qualifica di Assistente Tecnico per l'Informatica, al fine di impiegarlo nel profilo professionale assegnatogli". 6.4. Tuttavia, non solo il ricorrente non fu sottoposto a quella formazione iniziale che avrebbe consentito, da subito, di assolvere, con la dovuta adeguatezza, alle nuove mansioni, ma non veniva, neppure nel corso degli anni successivi, messo nelle condizioni di seguire corsi di formazione in materia informatica, se si esclude il solo corso frequentato dal 15 al 18 gennaio 2018 (SINF/15) che aveva come obiettivo formativo quello di "fornire un quadro di conoscenze e competenze necessario al supporto di Comandi/Enti che trattino di problematiche di sicurezza delle informazioni nei contesti operativi, di programma e di acquisizioni, avendo acquisito i fondamenti tecnici e una conoscenza introduttiva della normativa nazionale e NATO e dell'organizzazione di sicurezza nazionale e NATO" (si veda il doc. n. 15 allegato al ricorso, recante il Catalogo generale dei corsi di formazione per l'anno 2018), manifestamente inconferente con i compiti e gli obiettivi di performance assegnati al ricorrente. 6.5. Risulta, inoltre, documentalmente provato che il ricorrente sia stato sanzionato disciplinarmente in quanto avrebbe arbitrariamente e ingiustificatamente rifiutato di partecipare ad un corso di formazione, al quale, in realtà, non aveva potuto prendere parte solo a causa del mancato anticipo delle spese da parte dell'Amministrazione (la sanzione disciplinare è stata annullata da questo Tribunale, in diversa composizione, con sentenza n. 100 del 26 giugno 2020, prodotta dal ricorrente: si veda il deposito del 17/03/2021). 6.6. A ciò si aggiunga che il ricorrente ha anche dedotto che non gli era mai stato fornito alcun account di posta elettronica (né certificata né ordinaria) e neppure un personal computer per poter comunicare con i propri superiori. Il Ministero ha contestato tali deduzioni, ma non ha offerto alcuna prova che al ricorrente fossero stati forniti gli strumenti informatici minimi per poter espletare i suoi compiti (richieste di intervento tecnico via mail, trasmissione quotidiana dei file riepilogativi dei controlli effettuati). Anzi, risulta documentalmente provato che solo in data 21/05/2021, quindi successivamente alla introduzione del primo dei due giudizi riuniti, al ricorrente veniva fatto sottoscrivere un "modulo di assunzione di responsabilità" circa l'uso del PC affidatogli e della posta elettronica assegnata con le relative credenziali (username e password) (si veda il documento allegato alla nota di deposito del 16/05/2022). Il che conferma inoppugnabilmente che il ricorrente, fino al mese di maggio 2021, era addirittura del tutto privo di un account di posta elettronica. Alla luce di ciò non è dato comprendere come il ricorrente potesse svolgere i compiti assegnatigli senza neppure avere a disposizione gli strumenti informatici basilari e indispensabili, che era dovere dell'Amministrazione fornire. 7. È poi principio generale che "In tema di note di qualifica dei dipendenti, le valutazioni del datore di lavoro non sono insindacabili in giudizio, poiché il datore di lavoro è soggetto ai limiti posti da eventuali criteri obiettivi previsti dal contratto collettivo ed agli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.; inoltre, l'indagine giudiziale sulla correttezza di tali valutazioni costituisce accertamento di fatto riservato al giudice soggetto unicamente al controllo di idoneità della motivazione da parte della Cassazione" (Cass. n. 3227/2008). 7.1. Nel caso di specie, non si può affatto ritenere che nell'attività di valutazione il datore di lavoro pubblico si sia attenuto ai criteri di buona fede e di correttezza richiesti dalla legge, non avendo mai fornito al dipendente non solo quella formazione (iniziale e continua) che è imposta dalla contrattazione collettiva, ma neppure gli strumenti informatici di base e indispensabili. 8. Anche il ricorso iscritto al R.G. n. 1335/2021 è fondato per le medesime ragioni sopra illustrate, non essendo intervenute novità sul tema della formazione del dipendente. Tale ricorso si riferisce, infatti, alla scheda di valutazione dell'anno 2020, anch'essa attributiva di un punteggio non sufficiente. 8.1. A quanto sopra già osservato con riferimento alle schede di performance relative agli anni 2017-2019, si deve aggiungere, con riguardo all'anno 2020, che il ricorrente dal 12/03/2020 al 31/12/2020 ha svolto la sua attività lavorativa in modalità agile (c.d. smart working), con assegnazione di un progetto consistente nell'approfondimento della normativa relativa all'accesso agli atti di cui alla legge n. 241/1990 (doc. n. 3 allegato al ricorso). A tale progetto, tuttavia, non seguiva un adeguamento della scheda di performance individuale, sicché il dipendente è stato valutato su compiti che non poteva materialmente svolgere (nella scheda si leggono, infatti, nella Sezione II relativa al "rendimento sui compiti assegnati", le attività sopra descritte ovvero quelle inerenti al controllo del funzionamento delle postazioni e degli apparati informatici dell'Ufficio che il ricorrente non poteva, ovviamente, espletare dalla propria abitazione - doc. n. 5 allegato al ricorso). 9. Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti in epigrafe indicati, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa: - accoglie entrambi i ricorsi riuniti e per l'effetto: i) annulla le schede di valutazione della performance individuale del ricorrente CU.Lo. relative agli anni 2017, 2018, 2019 e 2020 nonché l'intero processo di misurazione e valutazione della performance individuale per ciascuna scheda; ii) ordina all'Amministrazione resistente di ripetere l'intero processo di misurazione e valutazione della performance individuale del ricorrente per gli anni 2017, 2018, 2019 e 2020, avuto riguardo alle competenze effettivamente possedute dal ricorrente e alla formazione dallo stesso svolta nel quadriennio 2017-2020 nonché al progetto di lavoro agile (smart working) svolto dal 12/03/2020 al 31/12/2020; iii) accerta e dichiara il diritto del ricorrente ad un percorso di formazione individuale e specifico ed ordina all'Amministrazione resistente di adempiere all'obbligo formativo gravante sulla stessa; - condanna il Ministero della Difesa al pagamento delle spese di lite che si liquidano nella somma di euro 6.000,00 per soli compensi professionali di avvocato in relazione al giudizio iscritto al R.G. n. 790/2020 ed euro 4.000,00 per soli compensi professionali di avvocato in relazione al giudizio iscritto al R.G. n. 1335/2021, oltre rimborso spese forfettarie (15% ex art. 2 d.m. n. 55/2014), C.P.A. ed I.V.A. (se dovuta), come per legge, con clausola di distrazione, ex art. 93 cod. proc. civ., in favore dell'Avv. Da.Co.. Così deciso in Catanzaro, in data 23 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. IMPERIALI Luciano - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. DE SANTIS Annamari - rel. Consigliere Dott. AIELLI Lucia - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il TRIBUNALE DI NAPOLI NORD; avverso l'ordinanza resa dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere il 16/9/2022; dato atto che si e' proceduto a trattazione con contraddittorio cartolare ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8, e Decreto Legge n. 198 del 2022, articolo 8; visti gli atti, l'ordinanza impugnata e il ricorso; udita la relazione del Cons. Anna Maria De Santis; letta la requisitoria del Sost. Proc. Gen., Dott. Vincenzo Senatore, che ha concluso per l'inammissibilita' del ricorso; lette le conclusioni scritte del difensore di (OMISSIS), Avv. (OMISSIS). RITENUTO IN FATTO 1.Con l'impugnata ordinanza il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, accogliendo l'istanza di riesame proposta nell'interesse di (OMISSIS), annullava il decreto del Gip del Tribunale di Napoli Nord che, in data 19/7/2022, aveva disposto ai sensi dell'articolo 640 quater c.p. il sequestro preventivo diretto e per equivalente del profitto del reato di truffa aggravata nei limiti della somma di Euro 6.414,00. In particolare, il collegio cautelare riteneva insussistente il fumus dell'ipotizzato reato ex articolo 640 c.p., comma 2, in relazione alla ipotizzata illecita percezione da parte dell'indagato di somme di danaro per integrazione oraria quale lavoratore socialmente utile operante presso il Comune di Casal di Principe. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Napoli Nord, deducendo: 2.1 la illogicita' e contraddittorieta' della motivazione dell'ordinanza impugnata per aver omesso di considerare alcuni fondamentali elementi indiziari confluiti nel fascicolo processuale. In particolare secondo il P.m. impugnante il collegio cautelare ha trascurato le plurime note indirizzate ai responsabili di area, Sindaco e giunta comunale dal Segretario Generale, destinatari che, a distanza di due anni, non avevano provveduto a porre rimedio alle criticita' segnalate nella gestione dei LL.SS.UU., proseguendo nelle condotte intese ad avvantaggiare i dipendenti infedeli e tentando, altresi', di coprire le condotte illecite risultanti dai primi accertamenti di P.g.. L'ordinanza impugnata ha omesso di considerare la massiva cancellazione delle informazioni dai data base del Comune e non ha considerato che la confusione e l'approssimazione esistente nell'ente costituiva una strategia di comodo adottata dai dirigenti per precostituirsi un alibi in caso di indagini amministrative, contabili e penali, come emerge dall'analisi delle chat scaricate dal cellulare di (OMISSIS), responsabile del Settore Personale e Finanziario del Comune. Il Tribunale ha ritenuto in maniera illogica ed apodittica che le omissioni dei preposti ai controlli fossero meramente colpose e non espressione di una strategia mistificatrice intesa a celare le condotte illecite, consistite nell'attestazione della sussistenza dei requisiti per l'ottenimento dell'integrazione oraria mediante semplici comunicazioni, talora anche orali, in luogo della preventiva adozione di delibere di giunta con predeterminazione degli obiettivi da raggiungere ed individuazione della somme messe a disposizione a tal fine. Secondo il ricorrente, inoltre, l'ordinanza impugnata nell'escludere il fumus ha omesso di considerare che dall'analisi dei cartellini di presenza consta che l'indagato (OMISSIS) si e' visto riconoscere un corrispettivo per integrazione oraria superiore a quello dovuto anche in periodi antecedenti e successivi all'emergenza covid, con sistematica eccedenza tra quanto artificiosamente rappresentato e le prestazioni lavorative effettivamente svolte. Ne' il collegio cautelare ha tenuto conto che le ore integrative non erano dovute perche' non previste da alcuna delibera di giunta; l'indennita' non risultava richiesta ne' approvata da parte del responsabile di settore e, poiche' l'indagato era addetto al Settore demografico, non e' ipotizzabile l'espletamento dei servizi in modalita' smart working. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' inammissibile in quanto proposto per motivi non consentiti. Infatti, a norma dell'articolo 325 c.p.p., comma 1, contro le ordinanze emesse in sede di riesame delle misure cautelari reali il ricorso per cassazione e' ammesso esclusivamente per violazione di legge. La giurisprudenza di legittimita' con orientamento del tutto unanime e consolidato ritiene che nella nozione di violazione di legge devono ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione cosi' radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692-01; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, dep. 2017, Rv. 269296 - 01; Sez. 2, n. 18951 del 14/3/2017, Rv. 269656-01). 1.1 I P.m. ricorrente deduce il difetto e l'illogicita' della motivazione, censurando la svalutazione della prospettazione accusatoria e degli elementi offerti a sostegno della domanda cautelare, profili che esulano dal sindacato di legittimita' demandato alla Corte adita in materia di cautela reale, tenuto conto della trama giustificativa ampiamente argomentata spiegata dai giudici cautelari a sostegno dell'ordinanza impugnata. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. COSCIONI Giusepp - rel. Consigliere Dott. TURTUR M. Marzia - Consigliere Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE; nei confronti di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 16/09/2022 del TRIB. LIBERTA' di SANTA MARIA CAPUA VETERE; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE COSCIONI; lette le conclusioni del PG ALESSANDRO CIMMINO, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; lette le conclusioni del difensore di (OMISSIS), Avv. (OMISSIS), che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1 II Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con ordinanza del 16 settembre 2022 annullava il provvedimento del giudice per le indagini preliminari con il quale era stato disposto il sequestro preventivo diretto e per equivalente nei confronti di (OMISSIS), indagato per il reato di cui all'articolo 640-bis c.p.; il capo di incolpazione si riferiva al fatto che l'indagato, quale lavoratore socialmente utile del Comune di Casal di Principe, aveva percepito l'assegno ASU a seguito della condotta omissiva dei responsabili dell'ente che non avevano certificato le giornate di effettiva presenza e la corrispondenza tra le ore contrattuali e quelle effettivamente svolte da parte dell'indagato. 1.1 Avverso l'ordinanza ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, premettendo che la motivazione del provvedimento impugnato forniva una interpretazione errata circa la qualifica del fatto contestato all'indagato (articolo 606 comma lettera b, ed e c.p.p.), oltre ad essere illogica e contraddittoria e ad avere omesso di considerare alcuni fondamentali elementi indiziari; in particolare, dalle note del Segretario Comunale Dott.ssa (OMISSIS) si ricavava che la condotta dei lavoratori socialmente utili, dei preposti al controllo, dell'intera amministrazione comunale, piu' volte richiamata a rispettare i principi di buon andamento ed imparzialita' della pubblica amministrazione, era consapevolmente orientata a garantire ai dipendenti di introitare indebitamente somme di denaro in danno dell'INPS; nonostante i richiami del Segretario Comunale, il Comune non aveva provveduto a quanto denunciato, ma anzi, oltre a provvedere ad avvantaggiare i dipendenti infedeli, aveva cercato di coprire le condotte illecite gia' risultanti dai primi accertamenti svolti dalla PG procedente; il Tribunale del Riesame non avrebbe potuto non fornire un'unica interpretazione logica possibile, e cioe' che nel Comune di Casal di Principe la disorganizzazione costituiva l'alibi per mascherare l'esistenza di un vero e proprio sistema truffaldino per favorire i lavoratori socialmente utili. Il Pubblico Ministero rileva che era stato omesso di considerare la paradigmatica vicenda inerente la massiva cancellazione dei dati dal data base del Comune di Casal di Principe, intervenuta quanto talune figure dell'amministrazione comunale erano gia' al corrente del fatto che erano in corso investigazioni da parte della Polizia Giudiziaria; neppure era stato considerato che la confusione e l'approssimazione esistente nel Comune di Casal di Principe costituiva una strategia di comodo adottata dai dirigenti per precostituirsi un alibi, come emergeva dalle chat scaricate dal cellulare di (OMISSIS) (responsabile del settore Personale e Finanziario del Comune) e, in particolare, da quella intercorsa con (OMISSIS) l'(OMISSIS); si poteva poi ricordare come prima delle indagini (ma anche successivamente) alcun indagato avesse mai rappresentato anomalie e discordanze in ordine alle erogazioni percepite a fronte delle reiterate e ingiustificate assenze, ponendo in tal modo in essere una condotta fraudolenta idonea ad indurre in errore l'ente preposto all'erogazione delle somme: il Tribunale non aveva infatti riguardo fornito alcuna spiegazione circa il fatto che, a fronte della corresponsione indebita di somme da parte dell'Inps, nessuno dei beneficiari avesse segnalato l'errore, di fatto serbando quel malizioso comportamento, dolosamente orientato a consumare la truffa. Il Pubblico Ministero osserva inoltre che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, le investigazioni svolte avevano permesso di appurare dall'analisi dei cartellini presenza che a (OMISSIS), era stato riconosciuto puntualmente un corrispettivo per ore di integrazione oraria superiore a quello dovuto anche in periodi antecedenti e successivi alla emergenza covid, quindi con sistematica eccedenza tra quanto artificiosamente rappresentato e quanto verificatosi in concreto in termini di prestazione lavorativa; inoltre: il conteggio delle ore eccedenti per le quali non sarebbe stata corrisposta l'integrazione oraria era il risultato di mere comunicazioni fatte dall'LSU al preposto, come risultava pacificamente e come riportava lo stesso Tribunale; le ore integrative non erano dovute in quanto non previste da alcuna delibera di giunta; (OMISSIS), aveva usufruito della integrazione oraria nonostante tale indennita' supplementare non fosse stata richiesta o approvata da parte del responsabile del settore; il profilo di impiego, quale addetto al settore Affari Generali, non si prestava alla modalita' di smart-working, ne' tale forma di lavoro risultava dai cartellini presenza; non risultavano segnalazioni da parte del lavoratore di anomalie nel funzionamento dei sistemi di registrazione presenze. CONSIDERATO IN DIRITTO 1 II ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 1.1 Deve innanzi tutto essere ricordato che in tema di provvedimenti cautelari reali il ricorso per cassazione e' consentito solo per violazione di legge ex articolo 325 c.p.p. e che tale vizio ricomprende, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, sia gli âEuro˜errores in iudicando' o âEuro˜in procedendo', sia quei vizi della motivazione cosi' radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U. n. 25932 del 29/05/2008, Rv. 239692). Nello specificare tale presupposto si e' chiarito che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, e' ammissibile quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perche' sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'"iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 6, Sentenza n. 6589 del 10/01/2013 Cc. (dep. 11/02/2013) Rv. 254893). Deve pertanto essere escluso nel caso in esameo' che, a fronte della approfondita valutazione contenuta alle pagine 2 e seguenti dell'ordinanza impugnata, nelle quali vengono evidenziati la mancanza di indizi in merito ad un complesso meccanismo truffaldino e il fatto che l'indagato - che in alcune occasioni ha avuto pagamenti superiori rispetto alle ore prestate, ma in altre pagamenti inferiori- dovrebbe rispondere di una mera omissione di informazioni, in sede di ricorso per cassazione si possa sollevare il profilo dell'omessa o mancante motivazione, posto che il giudice del riesame ha comunque compiuto una valutazione priva dei requisiti di totale arbitrarieta' o incompletezza; il Pubblico Ministero non chiarisce sulla base di quali elementi si possa affermare che l'indagato fosse a conoscenza della comunicazione delle ore effettuate la cui incombenza spettava ad altri soggetti (i responsabili del servizio); si deve quindi concludere per la manifesta infondatezza delle censure del Pubblico Ministero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8506 del 2022, proposto dal signor Ma. Ab., rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Sa. e Fa. Vi., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia, contro il Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Lu. D’Ot., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…), per l’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato, sez. II, 9 giugno 2020, n. 3667, resa tra le parti, avente ad oggetto il diniego di condono per cambio di destinazione d’uso e gli atti conseguenti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma Capitale; Visto l’art. 114 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2023 il Cons. Antonella Manzione e udito per il ricorrente l’avvocato Fa. Vi., avendo la difesa di Roma Capitale avanzato istanza di passaggio in decisione senza previa discussione; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con ricorso proposto dinanzi al T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, il signor Ma. Ab. ha impugnato la disposizione dirigenziale n. 68, prot. n. 16857 del 26 marzo 2008, con la quale il Comune di Roma Capitale ne ha rigettato l’istanza di condono ai sensi dell’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326, convertito con modificazioni, dalla l. 24 novembre 2003, n. 326 e della l.r. 8 novembre 2004, n. 12, presentata il 10 dicembre 2004 (prot. n. 562465) in relazione al parziale cambio di destinazione d’uso, da magazzino a negozio, di un locale ubicato alla via Boccea, n. 307/A. Ha impugnato altresì l’ingiunzione a demolire e l’intimazione a non proseguire le attività commerciali esercitate in loco. Il Tribunale adito, con sentenza n. 33082/2010, ha respinto il ricorso, sull’assunto che non sarebbe stata provata l’avvenuta realizzazione dell’intervento in epoca antecedente al 31 marzo 2003 (termine ultimo per la fruizione dell’invocato “terzo condono edilizio” di cui alla legge n. 326/2003), giusta l’avvenuto acquisto dell’immobile da parte dei genitori dell’appellante in data successiva (3 aprile 2003), la richiesta di preventivi di spesa riferiti all’impianto elettrico in epoca ritenuta troppo prossima al termine finale indicato dal legislatore (18 marzo 2003), nonché l’inoltro delle comunicazioni finalizzate all’avvio dell’attività di vendita al dettaglio e di laboratorio addirittura rispettivamente nel gennaio e nell’ottobre del 2005. Con la sentenza n. 3667 del 2020, segnata in epigrafe, la Sezione è addivenuta a conclusioni diametralmente opposte, accogliendo l’appello e annullando gli atti avversati. In maggior dettaglio, effettuata un’analitica ricostruzione del quadro normativo avuto riguardo in particolare al paradigma definitorio di riferimento (modifica di destinazione d’uso senza opere) e alla applicabilità allo stesso del regime delle sanatorie, ne ha sancito la convenienza, piuttosto che la doverosità, ben potendo l’interessato adibire l’immobile ad esercizio commerciale, giusta la sua insistenza in una zona omogenea che ammette la presenza tanto di negozi, quanto di magazzini. «Se così è, quindi, le sole necessità per la proprietà, ovvero per il caso dell’appellante Signor Ab., dell’utilizzatore qualificato del relativo immobile, era[no] costituito[e], oltreché dal dovuto aggiornamento della categoria catastale da C2 (magazzini e depositi) a C1 (negozi e botteghe, nella specie assorbente anche della categoria C3, a sua volta costituita da laboratori per arti e mestieri) con conseguente mutamento della relativa rendita, anche dal parimenti dovuto mutamento sotto il profilo urbanistico della categoria di destinazione d’uso, a’ sensi del combinato disposto dell’art. 7 della l.r. 2 luglio 1987, n. 36 e degli artt. 14 e 15 della l.r. 12 settembre 1977, n. 35, definendola - per l’appunto – nel nuovo assetto dell’immobile come “commerciale”». La mancanza di “opere”, inoltre, comportava ex se che di esse non si facesse menzione nell’apposito modulo prestampato utilizzato per la presentazione dell’istanza, senza che l’omissione integri in alcun modo una dichiarazione falsa o comunque non veritiera e senza che la medesima circostanza abbia potuto inficiare, a monte, l’atto di acquisto dell’immobile. Al contrario, essendo la parte entrata nella disponibilità del bene anticipatamente, mediante traditio clavium, rispetto alla formalizzazione della compravendita effettuata dai propri genitori (ovvero nel febbraio 2003), ben ha potuto attivarsi per rendere funzionale da subito il locale all’attività di vendita. L’adeguamento dell’impianto elettrico, d’altro canto, evidentemente effettuato a ridosso della scadenza del termine per l’ultimazione dell’intervento (preventivi del 18 marzo 2003), non costituisce certo un’“opera” rilevante sotto il profilo edilizio, sì da cambiare l’inquadramento del presunto abuso, né pertanto poteva essere oggetto di ingiunzione demolitoria. La documentazione contabile riferita alle forniture di materiale versata in atti è idonea a dimostrare l’avvenuta ultimazione della modifica entro il 31 marzo 2003, mentre nessun rilievo in senso contrario può essere attribuito alla presentazione delle comunicazioni riferite all’esercizio dell’attività a distanza di anni, «anche e soprattutto in considerazione della circostanza che, in ordine a quanto previsto dal predetto art. 7, comma 2, lett. c) [del d.lgs. n. 114 del 1998, n.d.r.] l’attuale appellante, con riguardo all’obbligatoria indicazione dell’“ubicazione” e della “superficie di vendita dell’esercizio”, solo a quel momento aveva potuto allegare la copia della propria domanda di condono edilizio per documentare che erano già state adempiute le incombenze per rendere l’esercizio medesimo effettivamente “commerciale” al fine di praticare ivi anche l’attività di vendita a quel momento comunicata». Con nota del 22 settembre 2020, reiterata in data 27 luglio 2022, a fronte della perdurante inerzia degli uffici, il signor Ma. Ab. ha diffidato il Comune di Roma Capitale ad avviare e concludere il procedimento di rilascio del condono. Con l’odierno ricorso, depositato l’8 novembre 2022, lo stesso ha quindi chiesto l’ottemperanza della ridetta pronuncia del Consiglio di Stato. Più nel dettaglio, richiamati i passaggi salienti della sentenza ottemperanda, ivi compreso il riferimento alla sostanziale ultroneità dell’istanza avanzata a fronte della sottesa situazione di fatto dell’immobile, ne ha richiesto l’esecuzione se del caso mediante la nomina di un Commissario ad acta. Si è costituito in giudizio il Comune di Roma Capitale per chiedere il rigetto del ricorso, nonché, in ogni caso, eccepire la prescrizione di quanto eventualmente preteso a titolo indennitario, risarcitorio e/o di ristoro di qualsiasi natura. 7.1. In data 20 dicembre 2022 ha prodotto relazione dell’ufficio competente in materia di condoni nella quale, a giustificazione del ritardo nell’avvio della riedizione del potere, si invocano le problematiche organizzative connesse alla pandemia da COVID 19, nonché, più di recente, la riferita impossibilità di accedere ai locali-archivio delle pratiche protrattasi dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022, giusta una non meglio precisata comunicazione al riguardo da parte della Società affidataria del servizio “Risorse per Roma”. 7.1.2. Ha versato in atti la nota del 5 gennaio 2023 della responsabile dell’unità “Supporto legale” della medesima Società, nella quale si dà finalmente notizia del “riavvio” dell’iter istruttorio, ribadendo tuttavia l’incertezza degli esiti, sull’assunto che la sentenza ottemperanda non avrebbe attinto al contenuto della propria futura valutazione. 7.1.3. Infine, in data 22 marzo 2023, a riprova del preannunciato riavvio della pratica, ha prodotto la comunicazione inoltrata al ricorrente via PEC il 20 gennaio 2023 di richiesta di copiosa documentazione integrativa, atta anche a dimostrare l’epoca di realizzazione e la consistenza dell’abuso, significando la necessità della sua produzione esclusivamente tramite il sistema informatico dedicato accessibile dall’apposita piattaforma. La causa è stata trattenuta in decisione nella camera di consiglio dell’8 maggio 2023. Il Collegio ritiene la domanda di ottemperanza fondata per le ragioni di seguito esplicitate. Va premesso che l’Amministrazione è sempre tenuta ad eseguire il giudicato e per nessuna ragione di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica può sottrarsi a tale obbligo, non avendo, in proposito, alcuna discrezionalità per quanto concerne l’an ed il quando, ma esclusivamente in ordine al quomodo. Tale ultima precisazione va tuttavia mediata attraverso il filtro del contenuto concreto della sentenza da ottemperare. Pur tenendo evidentemente fermo il limite invalicabile del giudicato, che rende ontologicamente estraneo all’alveo dei giudizi de quibus il riesame di questioni già compiutamente definite, è evidente infatti che gli stessi implicano un margine di cognizione intrinseco condizionato dallo sviluppo motivazionale della pronuncia ad essi sottesa. 10.1. La disamina delle domande astrattamente proponibili con il ricorso ex art. 114 c.p.a., che possono addirittura risolversi in una richiesta interpretativa (comma 5), ha fatto emergere dunque da tempo la natura (anche) di cognizione, e non di sola mera esecuzione, del giudizio di ottemperanza. Poiché la sentenza del giudice amministrativo si inserisce nel complesso rapporto che intercorre tra la pubblica amministrazione e il privato, si è pertanto coniato il concetto di “giudicato a formazione progressiva”, ad indicare la complementarietà tra le due sentenze integrate tra di loro -quella da ottemperare e quella che ne definisce l’esecuzione - seppure conseguano a distinti processi, evidentemente coordinati. 10.1.2. Costituisce dunque principio ormai consolidato in giurisprudenza quello in forza del quale il giudice dell’ottemperanza può arricchire, integrare e dettagliare le argomentazioni rese in sede di cognizione dagli organi della giustizia amministrativa. In altri termini, il contenuto conformativo del dictum giudiziale può essere precisato in termini non di sola “esecuzione”, ma più propriamente di “attuazione” in senso stretto, purché evidentemente se ne ravvisi la necessità anche in funzione propulsiva del corretto operato della P.A., dando così effettività alle tutele esperite, senza nel contempo né stravolgere, ovvero semplicemente modificare, il giudicato originario, né, men che meno, invadere competenze riservate alla discrezionalità amministrativa. 10.1.3. Sul punto, superando i dubbi interpretativi avanzati dalla Sezione rimettente circa la compatibilità eurounitaria del richiamato modello di graduale costruzione del giudicato amministrativo, si è pronunciata anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 9 giugno 2016, n. 11), ricordando come proprio l’integrazione giurisdizionale delle pronunce conformative rese in sede di cognizione consente pure di “recuperare” eventuali difformità della stessa rispetto al diritto europeo. Si legge dunque in motivazione che «la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva - non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni 'integrative', ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale». La prima operazione ermeneutica dunque che il giudice dell’ottemperanza è chiamato ad effettuare attiene all’esatta perimetrazione del contenuto della sentenza da eseguire, che ha, come noto, effetti sia ripristinatori, consistenti nell’obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto, sia conformativi in senso stretto. E’ innanzi tutto alla luce di questi ultimi che va valutata la sussistenza del presupposto dell’inottemperanza, individuabile non tanto e non solo nella totale inerzia dell’amministrazione, bensì anche in quei comportamenti che in quanto parzialmente esecutivi del giudicato, ovvero solo formalmente tali, ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione. Nel caso di specie, cioè, il Collegio è chiamato a valutare se la richiesta di produzioni documentali avanzata dal Comune di Roma Capitale nel gennaio 2023, a distanza di anni dalla prima diffida del ricorrente, abbia fatto venir meno il precedente inadempimento, ovvero, più in generale, se il mero “riavvio” dell’istruttoria sia sufficiente a configurare la riedizione del potere che gli era stata demandata. Il Collegio ritiene che in generale il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, come quello di cui è causa, mediante nuova richiesta di documentazione, senza chiarire le tempistiche finali di definizione dello stesso, ovvero senza specificare le sopravvenienze che ne hanno reso necessaria l’acquisizione anche in riferimento a situazioni, di fatto e di diritto, ormai cristallizzate nel giudicato, non possa essere equiparato alla doverosa ottemperanza allo stesso. Afferma la sentenza da ottemperare che il ricorrente per la legittimazione postuma del proprio intervento avrebbe potuto attingere anche al paradigma dell’accertamento di conformità di cui agli artt. 7 della l.r. n. 36 del 1987 e 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché, come ha fatto con l’istanza del 10 dicembre 2004, alla disciplina del condono di cui all’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326. La scelta effettuata viene in qualche modo giustificata, seppure in via presuntiva, in termini di convenienza, stante che «fermo comunque restando l’obbligo di corrispondere in entrambi i casi la somma dovuta a titolo di incremento degli oneri di urbanizzazione, il pagamento dell’oblazione prevista per il condono di cui all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003 presumibilmente risultava più vantaggioso per l’attuale appellante rispetto al pagamento della sanzione contemplata dagli anzidetti art. 36 del t.u. approvato con d.p.r. n. 380 del 2001 e art. 22 della l.r. n. 15 del 2008». L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda. 14.1. Per contro il “condono” -termine che non figura in realtà in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare una parola evidentemente evocativa della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite- produce l’effetto di estinguere anche l’illecito penale per il tramite del previo pagamento di una sanzione pecuniaria. In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono, delle quali viene qui in evidenza la terza (art. 32 della più volte ricordata l. 24 novembre 2003, n. 326, di conversione del d.l. 30 settembre 2003, n. 269), che ha esteso la disciplina dell’istituto, quale risultante dai capi IV e V della l. n. 47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003, seppure ponendo l’ulteriore limite che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30 % della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi. 14.2. La riconosciuta sussistenza dei requisiti per avanzare sia un’istanza di sanatoria ordinaria che di condono, implica l’affermazione che nel caso di specie sussiste anche il requisito della doppia conformità, seppure non necessario in relazione al percorso seguito. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30 novembre 1985, il 31 marzo 1995 e, per quanto qui di interesse, il 10 dicembre 2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di vaglio delle sanatorie edilizie. Il signor Ab. ha presentato la propria istanza di condono senza fare riferimento agli interventi sull’impiantistica elettrica. A ciò il Consiglio di Stato, tuttavia, non ha inteso attribuire alcuna rilevanza omissiva, giusta la ritenuta inconsistenza degli stessi sotto il profilo edilizio. Peraltro solo stralciando dalla nozione di “opere” ridetta tipologia di interventi, ha potuto connotare come meramente funzionale il cambio di destinazione d’uso effettuato dal ricorrente. 16.1. Ciò rende non del tutto intellegibili, se non incoerenti, talune delle richieste integrative avanzate dalla Società “Risorse per Roma” alla parte nel gennaio del 2003, in quanto apparentemente riferite proprio alla necessità di qualificare l’abuso, quantificandone la consistenza, pur identificandosi essa necessariamente con la mera indicazione della superficie del negozio e del laboratorio, agevolmente desumibili, oltre che dalla istanza di condono del 2004, dai contenuti della comunicazione di avvio dell’attività commerciale resa ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 114 del 1998. Come la sentenza n. 3667/2020 ha diffusamente chiarito, la modifica di destinazione d’uso non costituisce una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto il suo effetto giuridico. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma compare nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (come per la manutenzione straordinaria, limitatamente ai cambi urbanisticamente rilevanti), ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) del medesimo art.3, che comprende anche il cambio delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare). 17.1. La rilevanza sotto il profilo urbanistico del cambio di destinazione d’uso eleva ad intervento assentibile anche quello non accompagnato da alcuna opera edilizia, ancorché minima, denominato appunto “funzionale”, per enfatizzarne il riferimento al mero utilizzo dell’immobile, a prescindere dagli adattamenti che si siano resi necessari allo scopo. Ad oggi ridetta rilevanza è agevolmente individuabile in ragione della categorizzazione declinata nell’art. 23 ter, inserito nel T.u.e. col c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164), inapplicabile ratione temporis al caso di specie. Le cinque categorie ivi contemplate, che le leggi regionali possono solo precisare, ma non derogare, rispondono al preciso intento di omogeneizzare su tali aspetti le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni, finanche terminologiche, sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti. 17.2. La sentenza ottemperanda, premessa una lunga digressione sulla storia giuridica della fattispecie, anche antecedente alla legge n. 47 del 1985, ha alla fine convenuto sulla opportunità di “sanare” lo stato di fatto dell’avvenuto passaggio da magazzino a deposito «quale legittimazione all’inserimento nel locale tessuto urbanistico di un abuso consumato con riguardo ad un utilizzo dell’immobile comunque conforme alla strumentazione urbanistica vigente». Allo scopo, si è preoccupata di giustificare la ritenuta assentibilità postuma tramite condono sulla base di una lettura costituzionalmente orientata della norma, che non può che applicarsi anche «a coloro che hanno perpetrato abusi ben meno gravi rispetto a coloro che hanno agito in dispregio alle norme di legge non richiedendo al tempo dovuto il rilascio del titolo edilizio ovvero, in dispregio alle norme urbanistiche, realizzando opere dalle stesse vietate ovvero adibendo immobili ad utilizzi dalle norme medesime parimenti inibiti». Va ora ricordato che il regime procedurale per la definizione delle pratiche di condono è contenuto nell’art. 35, comma 17, della l. n. 47/1985, il quale prevede che « Fermo il disposto del primo comma dell’articolo 40 [rappresentazione dolosamente infedele]e con l’esclusione dei casi di cui all’articolo 33 [contrasto con vincoli nominativamente indicati ], decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento». Per quanto nel caso di specie il ricorrente non invochi l’avvenuta formazione del silenzio assenso successivamente al giudicato, la circostanza che il legislatore abbia previsto tale modalità di acquisizione del titolo – contrariamente, peraltro, a quanto accade per l’accertamento di conformità – non può essere priva di conseguenze. Il Collegio ritiene infatti che l’efficacia delle scelte di semplificazione dei regimi di accesso a determinate attività, che il legislatore ha tentato via via di rafforzare introducendo ulteriori rimedi ed accentuando gli elementi di garanzia della certezza delle situazioni giuridiche, si giochi preliminarmente sul piano delle prassi distorte degli uffici, che si collocano astrattamente a monte dello stesso avvio dei procedimenti. La presunta incompletezza di una pratica, infatti, finisce per diventare il grimaldello per uno stillicidio di richieste aggiuntive, spesso ammantate dall’egida della consultazione collaborativa, tali comunque da procrastinare sine die il perfezionamento dei procedimenti ad istanza di parte. 20.1. In altre parole, una lettura degli istituti di semplificazione, tra i quali sicuramente rientra anche il silenzio assenso, che sia conforme ai principi generali dell’attività amministrativa impone che il comportamento dell’Amministrazione, al pari di quello del privato, sia improntato alla correttezza e alla buona fede, come peraltro oggi espressamente codificato dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990 (comma 2-bis, inserito dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, che ha positivizzato principi comunque ritenuti immanenti al sistema). Un’ingiustificata attesa nell’avvio dell’istruttoria di una pratica, laddove la stessa non sia prima facie del tutto priva dei requisiti minimi di esaminabilità in concreto, non solo non può impedire la decorrenza del termine di maturazione del silenzio assenso, ove previsto, ma a maggior ragione impone la successiva compressione dei tempi di chiusura della stessa, “rimediando” per quanto possibile al pregresso colpevole ritardo nei confronti della legittima aspettativa del cittadino a conoscere il contenuto e le ragioni, qualunque esse siano, delle scelte dell’amministrazione. Diversamente opinando egli si ritroverebbe anacronisticamente relegato in un ruolo di suddito, continuamente esposto al rischio di vedersi procrastinare il dies a quo per consolidare la propria situazione, in sostanziale dispregio di qualsivoglia tentativo alleggerimento degli oneri e in totale antitesi con la stessa nozione di semplificazione o liberalizzazione delle attività economiche. Il meccanismo del “silenzio-assenso” risponde infatti ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia equivale a provvedimento di accoglimento, nel senso che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Con il corollario che, ove ne sussistano i requisiti di formazione, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge. Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746) reputare che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi al regime della annullabilità, per contro espressamente prevista. L’art. 21 novies della l. n. 241 del 1990, infatti, nel disciplinare in generale l’istituto dell’annullamento d’ufficio, ne individua l’oggetto (anche) nel «provvedimento [che] si sia formato ai sensi dell’art. 20», con ciò presupponendo evidentemente che la violazione di legge non incida sul perfezionamento della fattispecie, bensì rilevi (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell’atto. Da qui il rimedio postumo che l’ordinamento appronta per l’Amministrazione che si ravveda e ravvisi la necessità di rimediare agli effetti del proprio indebito comportamento inerte. 21.2. Indicazioni ancora più chiare nel senso della finalità acceleratoria dell’agire amministrativo dell’istituto sono rinvenibili nella recente -e non aliena da criticità- disciplina della c.d. “certificazione del silenzio”, nonché della sanzione di inefficacia delle decisioni tardive rispetto alla significatività attribuita al decorso del tempo dal legislatore. La formulazione del comma 8, dell’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, avente ad oggetto il procedimento di rilascio del permesso di costruire “ordinario”, è stata infatti integrata con la previsione che «Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti» (l’intero periodo è stato inserito dal medesimo d.l. n. 76 del 2020, sopra richiamato). 22.1. Vero è che analoga indicazione non è stata inserita (comprensibilmente, trattandosi, come chiarito, di istituto “ad esaurimento”, seppure ancora ben lontano dall’essere “esaurito”) con riferimento ai procedimenti di condono. E’ tuttavia emblematico delle criticità gestionali diffuse in ambito urbanistico-edilizio il fatto che la previsione dell’art. 20 del T.u.e. sia un’anticipazione di quanto successivamente esteso a tutti i provvedimenti per silentium. Il comma 2 bis dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, infatti, inserito dal successivo d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108, prevede ora, in maniera peraltro neppure del tutto sovrapponibile, che: « Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo […]» La disposizione si completa addirittura con la facoltà riconosciuta al privato, decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, di sostituire l’attestazione con una propria dichiarazione resa ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. E’ ancora una volta evidente lo sforzo del legislatore per recuperare efficacia e conseguente attrattività all’istituto, giusta la riscontrata comprensibile riluttanza del privato-cittadino all’utilizzo di un titolo tacito e non alla sua “materializzazione” sul piano formale, a torto o a ragione percepita come più cautelante a fronte di un eventuale controllo. Il tutto, ovviamente, lasciando inevitabilmente immutata la struttura essenziale del provvedimento tacito, comprensiva delle scansioni temporali che ne determinano la formazione. 22.2. L’art. 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (pure introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), come anticipato al § 21, afferma a sua volta che: «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, […] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni», confermando che, decorso il termine, all’Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela. Né nel caso di specie un maggior rigore dell’istruttoria -che comunque non può non tenere conto del lungo periodo di precedente inerzia- può trovare fondamento nella natura di illecito sostanziale dell’abuso perpetrato, sia in quanto il modello procedimentale non lo consente, avendo già fissato un termine sufficientemente lungo per l’evasione delle pratiche; sia soprattutto perché il Consiglio di Stato ha ampiamente argomentato sulla portata meramente formale dello stesso, che in quanto in possesso del requisito della doppia conformità ben avrebbe consentito anche l’accesso al regime della sanatoria ordinaria. In ogni caso, se si eccettua il caso di “inconfigurabilità” della domanda, la inadeguatezza della documentazione a corredo presuppone un primo screening dell’istanza originariamente presentata, che nel caso di specie pare essere stata invece totalmente ignorata dal Comune di Roma Capitale, che ha nuovamente preteso la documentazione, anche fotografica, del cambio d’uso illo tempore effettuato. 24.1. Va infatti ricordato che con il calzante neologismo giuridico della “inconfigurabilità” la giurisprudenza ha inteso richiamare tutte le situazioni di non rispondenza della richiesta neppure al “modello normativo astratto” prefigurato dal legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746), cui possono essere ricondotte anche le ipotesi di totale inconsistenza della stessa, sì da rendere impossibile l’individuazione a priori dello stesso oggetto dell’istanza. In materia di condono, ad esempio, costituisce requisito condizionante la “consistenza” della domanda per esplicita indicazione del legislatore l’attestazione del versamento della somma dovuta a titolo di oblazione, sicché solo ove la sua presentazione nel termine perentorio previsto ne sia corredata si produce l’effetto sospensivo del procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative (art. 38, comma 1, della legge n. 47 del 1985). 24.2. L’“inconfigurabilità”, dunque, include, senza esaurirli, i casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza delle istanze, che tuttavia non sarebbero esenti dall’obbligo di provvedere (sia pure redatto in forma semplificata), giusta la chiara previsione in tal senso dell’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990. 24.3. Ad ogni buon fine, nel caso di specie neppure può ipotizzarsi una qualche “inconfigurabilità” della domanda, atteso che i contenuti della stessa sono stati definitivamente “interpretati” dalla sentenza n. 3667/2020, sia con riferimento all’inquadramento tipologico dell’intervento (modifica di destinazione d’uso senza opere), sia in relazione alla adeguatezza della documentazione probatoria della data di ultimazione (entro il 31 marzo 2003). Il silenzio-assenso non può essere ritenuto la modalità “ordinaria” di svolgimento dell’azione amministrativa. Così come, pertanto, al cittadino che lo invoca o che comunque può beneficiarne, va richiesto un comportamento responsabile e collaborativo, evitando l’inoltro di istanze-scatole vuote, ovvero, peggio ancora, del tutto eterogenee rispetto al paradigma procedimentale invocato (si pensi, a mero titolo di esempio, all’utilizzo palesemente improprio di procedimenti dichiarativi, quali in particolare la CIL o la CILA); in egual misura l’Amministrazione è tenuta al rispetto delle scansioni procedurali previste e, ancor prima e a prescindere, ad un comportamento che non si palesi come inutilmente e immotivatamente dilatorio, seppure formalmente e astrattamente corretto. Va da sé, dunque, che tutto si sposta sul piano delle responsabilità, giusta la previsione di cui all’articolo 2 della l.n. 241 del 1990 secondo cui «la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente» (comma 9). In tale cornice, si colloca anche l’annosa questione dell’ampiezza del potere amministrativo in sede di sua riedizione a seguito di un pregresso giudicato, da sempre al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Per conferire effettività ai rimedi giurisdizionali, è stata perfino elaborata la (discussa) teoria del cosiddetto “one shot temperato” o della “doppia chance”, in forza della quale l’amministrazione pubblica che abbia subito l’annullamento di un proprio atto potrebbe rinnovarlo una sola volta e, quindi, dovrebbe riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, ogni questione che ritenga rilevante, senza tornare in seguito a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. Stato, sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; id., 4 agosto 2022, n. 6829). 28.1. Sul piano normativo, la medesima esigenza di concentrazione ed effettività di tutela ha ispirato le modifiche apportate dall’art. 12 del più volte richiamato d.l. 16 luglio 2020, n. 76 all’art. 10 bis della l. n. 241 del 1990. La natura sostanziale o processuale della disposizione (il c.d. processualprocedimento) e il conseguente impatto della novella sulla validità del provvedimento elusivo comunque adottato, secondo la (nuova) disciplina dell’art. 21 octies, ha dato adito a pronunce contrastanti. 28.2. Senza attingere a tale problematica di diritto transitorio, il Collegio ritiene comunque importante, quale strumento interpretativo del contesto, richiamare l’ulteriore meccanismo che il legislatore ha inteso affiancare alla limitazione infraprocedimentale della capacità di determinarsi per la p.a. in relazione all’istituto del preavviso di rigetto. La norma contempla oggi infatti anche un limite allo jus variandi dell’amministrazione proprio per il caso di riesercizio del potere in conseguenza di un giudicato di annullamento, prevedendo espressamente che «In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l'amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall'istruttoria del provvedimento annullato» (c.d. principio once only). A tal proposito, è ancora illuminante il precedente della sezione (Cons. Stato, sez. II, n. 6829/2022) ove si afferma che anche tale regola troverebbe applicazione solo ai procedimenti successivi all’entrata in vigore della novella, avuto riguardo peraltro al loro “incardinamento” originario e non alla data in cui viene riesercitato, ora per allora, il relativo potere. Nel caso di specie, dunque, i contenuti dell’originario preavviso di rigetto, risalente all’8 ottobre 2007, prot. n. 166770, assumono rilievo solo in quanto è in riscontro dello stesso che l’interessato ha fornito la documentazione (fatture, preventivi e altro) che il Consiglio di Stato ha ritenuto probanti dell’avvenuta realizzazione della modifica prima del termine finale previsto dalla legge. Salvo dunque il Comune di Roma Capitale disponga di elementi sopravvenuti idonei a confutare ridette risultanze, il ricorrente ha ormai compiutamente adempiuto all’onere probatorio che gli incombeva al riguardo, sicché qualsivoglia ulteriore richiesta documentale relativa a tale circostanza costituisce un aggravio procedimentale inammissibile finanche nella più ampia prospettiva di un’ipotetica violazione del principio eurounitario di divieto di gold plating. L’art. 2, comma 7, della l. n. 241, d’altro canto, consente l’interruzione dei termini per la conclusione di un procedimento «per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni». 30.1. Con riferimento al procedimento di rilascio del permesso di costruire l’art. 20 del T.u.e., che costituisce spesso il banco di prova delle difficoltà applicative degli istituti di semplificazione/liberalizzazione, giusta l’esigenza di garantire il perenne controllo sull’assetto del territorio da parte degli Enti territoriali, in maniera analoga consente al responsabile del procedimento di interrompere il termine per il completamento dell’istruttoria una sola volta «entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente» (comma 5). In sintesi, la doverosità dell’azione amministrativa e dei suoi tempi rappresenta una peculiare declinazione del principio di legalità, intesa non più solo come limite negativo all’esercizio del potere, ma anche e soprattutto come affermazione in positivo dell’obbligo che ciò avvenga e che avvenga in un tempo utile (o, se si vuole, ragionevole). Così interpretata, essa si raccorda intimamente al principio di buon andamento o, per usare la più moderna terminologia del diritto europeo, del dovere di buona amministrazione. Ed è in tale contesto che si colloca anche il potere conformativo del giudice amministrativo, in sede di cognizione e, ancor più, in sede di ottemperanza, nella direzione della effettività delle tutele a presidio, appunto, delle legalità e quindi del buon andamento e della efficienza dell’agire pubblico. Una lettura armonica dei principi sottesi alle scelte di semplificazione e liberalizzazione via via rafforzate e ribadite dal legislatore, che si pone a monte dell’esegesi puntuale delle singole norme, pur traendo ragione dal complesso delle stesse, rappresenta la prima cartina di tornasole dell’efficacia di qualsiasi riforma intervenuta al riguardo. Alla luce di tutto quanto sopra è evidente che il comportamento del Comune di Roma Capitale, pure dopo il formale (ri)avvio dell’istruttoria del procedimento, senza peraltro indicare alcuna tempistica di chiusura dello stesso, integra il presupposto dell’inottemperanza al giudicato riveniente dalla sentenza n. 3667/2020. Nessun rilievo scusante del pregresso ritardo, giusta la consistenza dello stesso, può infatti essere attribuita alle invocate criticità conseguite alla pandemia. Il legislatore ha da subito fornito alla pubblica amministrazione un idoneo strumentario giuridico finalizzato a contemperare le esigenze di tutela della salute del lavoratore con quelle di continuità dei servizi, proprio allo scopo di scongiurarne la totale paralisi. L’utilizzo di modalità alternative alla presenza fisica, infatti, quali lo smart working ovvero le analoghe forme di lavoro c.d. “agile” o da remoto, non si sono risolte in un continuativo, inderogabile e generalizzato divieto di accesso presso le sedi di servizio, ma hanno richiesto da parte datoriale una doverosa analisi dei contenuti delle proprie attività, approntando, ove necessario in relazione alla concreta tipologia delle stesse, sistemi di turnazione rispettosi del distanziamento sociale. La circostanza poi che la problematica si sia riproposta giusta la comunicazione del CdA della Società Risorse per Roma, che ha vietato l’accesso fisico all’archivio dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022, rende addirittura paradossale la mancanza di interlocuzioni documentate con i cittadini, evidentemente del tutto ignari del disservizio. In tale contesto tutt’affatto encomiabile, il richiamo all’ «inevitabile» (ulteriore) ritardo nella definizione delle pratiche suona del tutto incomprensibile, a maggior ragione ove rapportato ad una «normale tempistica», auspicabilmente non da ravvisare in quella che ha connotato fino ad oggi lo sviluppo del procedimento di cui è causa. D’altro canto, a tutto concedere alla tesi del Comune di Roma Capitale, con riferimento alle pratiche di condono parrebbe essersi verificata, in conseguenza del mancato accesso finanche del singolo dipendente ai locali archivio, protrattosi senza soluzione di continuità dall’inizio della pandemia, un’autentica paralisi del servizio, a fronte della quale la ripresa non può che imporre un doveroso sforzo acceleratorio, ottimizzando al massimo le risultanze procedurali già acquisite. Quanto detto pretermettendo i dubbi in ordine alla possibilità nel lungo lasso di tempo trascorso di approntare quanto meno una interlocuzione “di cortesia” con i cittadini in senso informativo-tranquillizzante circa la ipotizzata tempistica di risoluzione delle problematiche ovvero la ricerca in atto di soluzioni alternative (ad esempio richiedendo, in questo caso motivatamente, ai diretti interessati di fornire copia di quanto già a suo tempo prodotto agli uffici per valutarne da subito la completezza). Attività effettuabile evidentemente anche da remoto, e che fugherebbe ogni dubbio in ordine all’utilità del servizio durante il periodo di rappresentata interdizione all’accesso. La circostanza, infine, che all’esito di tale trascorso l’Amministrazione rivendichi la propria totale libertà di azione, non solo costituisce una esplicita ammissione di non avere valutato l’effetto conformativo del giudicato, ma, con riferimento alla tempistica, ne rappresenta sin da ora una protratta elusione. Ne consegue la condanna del Comune di Roma Capitale ad eseguire la sentenza n. 3667 del 2020 tenendo conto delle precise statuizione riportate nella stessa (qualificazione e consistenza, nonché epoca di ultimazione, dell’abuso), alla luce delle quali rieditare il proprio potere entro sessanta giorni dal deposito delle integrazioni documentali richieste, ove il ricorrente non ne evidenzi la riconducibilità a dati di fatto già definitivamente acclarati. Solo in caso di protratta inerzia oltre tale termine, all’istruttoria procederà quale commissario ad acta il Prefetto di Roma, con facoltà di delega in favore di un funzionario dell’Ufficio U.T.G. di Roma, il quale, entro l’ulteriore termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’inottemperanza (a cura di parte ricorrente), darà corso al procedimento valutando l’effettiva necessità delle richieste ed eventualmente residue integrazioni istruttorie, nonché all’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento. 34.1. Le spese per l’attività commissariale, da liquidarsi con separato decreto al termine della stessa e su istanza del commissario ad acta, vanno poste a carico dell’inadempiente Amministrazione. La peculiarità della vicenda consente invece la compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto dichiara l’obbligo del Comune di Roma Capitale di dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato - Sez. II, n. 3667/2020, in epigrafe indicata, definendo il procedimento di condono nei tempi indicati in motivazione. In caso di protratta inerzia oltre tale termine, nomina sin d’ora quale commissario ad acta il Prefetto di Roma, con facoltà di delega in favore di un funzionario dell’Ufficio U.T.G. di Roma, il quale procederà entro l’ulteriore termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’inottemperanza a cura di parte ricorrente. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Francesco Frigida, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Carmelina Addesso, Consigliere Alessandro Enrico Basilico, Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA SEZIONE III - LAVORO Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Valentina Cacace, ha pronunciato, mediante lettura contestuale delle ragioni di fatto e di diritto, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al numero 33573 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi dell'anno 2021, discussa e decisa all'udienza del giorno 3.5.2023 e vertente TRA (...) elettivamente domiciliato in Roma via (...), n. 368 presso lo studio dell'avv. Ro.Sa., da cui è rappresentato e difeso unitamente all'avv. Gi.So. per delega in atti RICORRENTE E (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Fr.Fo. e Ma.Cr. in virtù di procura in atti ed elettivamente domiciliata presso l'Ufficio Legale in Roma, Via (...) RESISTENTE OGGETTO: riconoscimento mansioni e inquadramento superiore. FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato il 10.12.2021 (...), premettendo di lavorare alle dipendenze di (...) s.p.a. (d'ora innanzi anche (...)) dal 12.7.1994 con mansioni di autista di mezzi pesanti "AUT. (...)" e che a seguito di giudizio di inidoneità permanente a svolgere la mansione specifica era stato assegnato a diversa mansione, esponeva che il 17.7.2019 con verbale di conciliazione sindacale era stato trasferito presso lo stabilimento Ponte Malnome e demansionato dal livello 4A del CCNL per i lavoratori dipendenti delle imprese pubbliche di igiene ambientale (Federambiente) al livello 3A con mansione di "ADD PESA" con conservazione ad personam della differenza tra la retribuzione precedentemente percepita in ragione dell'inquadramento superiore e lamentava di non avere svolto le mansioni del livello 3 di addetto alla pesa dei mezzi d'opera conferenti presso gli impianti di smaltimento, bensì, in via continuativa, prevalente ed esclusiva quelle proprie del livello 4B, ovvero di "addetto alla pesa ed alla registrazione del carico/scarico dei rifiuti su appositi registri e/o modulistica previsti dalle normative in vigore". Chiedeva al Tribunale di: "1. accertare e dichiarare che il Ricorrente ha prestato e tutt'ora presta, su disposizione della Società (...) S.p.A., mansioni superiori a quelle attribuite con verbale di conciliazione sindacale del 17.07.2019 e, specificamente, di addetto alla pesa ed alla registrazione carico/scarico dei rifiuti, inquadrabili al livello 4B, del CCNL di categoria, con assegnazione, nell'Area Impianti e Laboratori e, per l'effetto, disporre che il Ricorrente sia inquadrato nel Livello Professionale 4B, Area Impianti e Laboratori, ai sensi del combinato disposto dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 15 del CCNL del 30.06.2008, a far data dal 17.10.2019 (ovvero dal 90 giorno di prestazione di tali mansioni) o dalla data ritenuta di giustizia e che lo stesso sia mantenuto, ovvero sia riassegnato, alle mansioni proprie del Livello Professionale 4, Area Impianti e Laboratori, ovvero a mansioni equivalenti, con riserva di agire in separato giudizio per la determinazione dell'ammontare delle eventuali differenze retributive maturate e maturande a seguito dell'attribuzione del livello inferiore rispetto a quello originario e rivendicato nella presente sede". Si costituiva tempestivamente in giudizio (...) s.p.a. che contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto. Fallito il tentativo di conciliazione, era espletata l'istruttoria orale e la causa era decisa all'udienza del 3.5.2023 con la pubblica lettura della sentenza. Il ricorso appare meritevole di accoglimento. 1. Parte ricorrente agisce in questa sede per ottenere il riconoscimento del diritto all'inquadramento nel superiore livello 4B del CCNL di categoria dal mese di ottobre 2019, riservando successivo giudizio la domanda di pagamento di eventuali differenze retributive, rimarcando come esse siano, allo stato, assorbite dall'assegno ad personam, ferma l'attuale sussistenza di un interesse ad agire ai fini della progressione di carriera. 2. Come è noto, nel procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (cfr. Cass. 14608/2001). È, altresì, noto che per chi invoca lo svolgimento di mansioni superiori non è sufficiente allegare i compiti svolti e le relative disposizioni contrattuali, perché occorre pur sempre esplicitare, e poi rendere evidente sul piano probatorio, la gradazione e l'intensità dell'attività corrispondente al modello contrattuale invocato, rispetto a quello attribuito, trattandosi, in tema di mansioni, di livelli di valore inclusi in un particolare sistema professionale contrattuale a carattere piramidale (per tutte, Cass. 8025/2003). 3. All'esito dell'istruttoria documentale ed orale solta nel presente giudizio è emerso quanto segue. 3.a. Presso l'impianto (...) di (...) gli addetti all'ufficio pesa, come il ricorrente, nel periodo oggetto del presente giudizio hanno svolto le seguenti mansioni. Occorre premettere che presso l'impianto affluiscono due tipologie di mezzi: i mezzi (...) e i mezzi di terzi. I mezzi (...) che affluiscono all'impianto (furgoni CSL o TS che trasportano massimo 12 tonnellate) arrivano carichi di rifiuti: segnatamente essi trasportano o multimateriale (cioè plastica o metalli) o indifferenziata, o siringhe, o ancora farmaci scaduti. Ciascuno di questi rifiuti ha un proprio codice CER (i codici CER sono dunque 4). I mezzi privati che affluiscono all'impianto arrivano, invece, vuoti (si tratti di mezzi molto più grandi di quelli (...) e in grado di trasportare al fino a 30 tonnellate). In una giornata lavorativa media, i mezzi di terzi che affluiscono al sito sono inferiori a quelli (...) (circa il 25% - 30%), mentre i mezzi (...) che trasportano medicinali e siringhe arrivano solo 2 volte a settimana. Per i mezzi (...) il ricorrente, quale addetto alla pesa, deve: - far posizionare il mezzo sulla bascula posta all'ingresso dell'impianto che ne rileva il peso ed è collegata a sistema informatizzato che registra la prima pesata; attendere che il mezzo (...) vada ad effettuare lo scarico del rifiuto nell'impianto e che ritorni alla bascula per ripesare il mezzo vuoto in modo da individuare il peso netto del rifiuto trasportato; - sul computer il peso lordo, tara e netto è registrato tramite l'applicativo Smalto Verde; - riportare sul mod. 81 (che è una bolla - costituita da tre parti - che porta con sé l'autista e che è già precompilata nei dati relativi al codice CER del rifiuto) il peso e la propria firma, previa verifica della correttezza del codice, cioè che esso corrisponda al rifiuto effettivamente trasportato all'impianto e nel caso di errore invitare l'autista a ritornare dai propri superiori (COA) per farsi predisporre il mod. 81 corretto; - visualizzare con una pistola a lettura ottica il codice a barre riportato sul mod. 81 affinchè i relativi dati siano automaticamente inseriti nell'applicativo Smalto Verde (la pistola è stata inserita da circa due anni, mentre prima l'inserimento avveniva digitando un codice alfanumerico); - stampare il bindello della pesatura in duplice copia; - restituire due delle tre parti del mod. 81 insieme ad una copia del bindello di pesatura all'autista e trattenere in ufficio la restante delle tre parti del modello con allegata l'altra copia del bindello di pesatura. Per i mezzi di terzi il ricorrente, quale addetto alla pesa, deve: - ricevere il mezzo e occuparsi della sua pesatura all'ingresso registrando il peso (tara); - attendere che carichi il rifiuto presente nell'impianto e che ritorni alla pesa, per pesarlo con il carico e registrare il peso netto sul sistema Smalto Verde; - stampare il bindello di pesatura in duplice copia; - prendere dall'apposita cartellina il modello FIR corretto (formulario di identificazione dei rifiuti) che è un documento in 4 copie autocopianti (vi sono circa una decina di modelli FIR, in parte precompilati, a cui corrispondono i diversi codici CER sopra indicati e i diversi mittenti, destinatari), mentre più raramente è lo stesso autista che già porta con sé il mod. FIR in parte precompilato; - compilare il modello FIR con la data, la targa, la targa del rimorchio, il peso, in nome dell'autista, la tara, il peso netto e il peso lordo, far firmare l'autista e infine apporre la propria firma; - mantenere in un ufficio la prima copia del FIR con allegata una stampa del bindello di pesatura; - dare le altre tre copie del FIR all'autista con allegata l'altra copia del bindello di pesatura; attendere 90 giorni il rientro della quarta copia del FIR timbrata dall'impianto di destinazione. L'Ufficio FIR e Registri e i suoi addetti (in particolare in persona della sig.ra (...)), poi, provvedono periodicamente a ritirare le parti del mod. 81 presenti nell'ufficio pesa, nonché le copie del mod. FIR; a collazionarle; a farle vidimare alla Camera di Commercio. Infine i dati inseriti sul software Smalto Verde dagli addetti alla pesa, confluiscono sul software Amambiente. Gli addetti dell'ufficio FIR e Registri svolgono sia un'attività a monte (di inserimento delle targhe autorizzate) sia a valle (di verifica e controllo della regolarità delle operazioni), occupandosi dell'eventuale correzione di errori e di rettifiche ed infine stampano i registri di carico e scarico. Tale ricostruzione trova conforto nelle deposizioni, sostanzialmente conformi, dei testi di parte ricorrente e resistente. 3.b. Segnatamente i due testi di parte ricorrente sigg.ri (...) e (...) entrambi colleghi del ricorrente nel periodo controverso, hanno riferito che l'addetto alla pesa si occupa della doppia pesatura (all'ingresso e all'uscita) tanto dei mezzi (...), quanto dei mezzi di terzi e che annota il peso registrandolo sul computer, tramite l'applicativo Smalto Verde, che si occupa di stampare la pesata, di compilare sia il Mod. 81 per i mezzi (...) quanto al peso netto, sia il FIR per i mezzi di terzi in tutte le "parti variabili" che non sono già precompilate e in particolare con riferimento alla data, alle targhe, al nome dell'autista, al peso, facendo poi apporre la firma all'autista e per ultimo apponendo la propria firma e così assumendosi la responsabilità di quanto indicato nel formulario. Così dichiara sul punto la teste (...): "noi verifichiamo il peso e lo inseriamo nel computer. Sulla bascula c'è scritto il peso, noi lo digitiamo sul programma del computer (...) Questi dati che noi inseriamo nel computer vanno direttamente nel registro di carico e scarico che verrà poi stampato". E ancora, "per quanto riguardo i mezzi di terzi (...) inseriamo tutto nel computer e prepariamo il modulo che si chiama FIR" (...) Compiliamo la data, targa, targa del rimorchio, nome autista, tara, pesi netto e lordo e dopo facciamo firmare all'autista il FIR e poi lo firmiamo noi (...). "noi usiamo Smalto Verde e tutti questi dati sono inseriti in modo automatico in Amambiente (...) Se io non scrivo niente su Smalto Verde nulla arriva su Amambiente. Il ricorrente lavora su Smalto Verde. Su Amambiente lavora la sig.ra (...) che si occupa della stampa dei registri di carico e scarico e verifica se tutto è regolare. Questa persona lavora sempre nell'impianto di Ponte Malnome ma è in smart-working per parecchi giorni a settimana. I dati che inseriamo su Smalto Verde devono essere esatti perché sennò su Amambiente si verificano errori. Da noi parte l'organizzazione del sistema per arrivare al corretto carico e scarico". Il teste (...) ha riferito che "una copia del Fir rimane in ufficio; rimane la prima copia e le altre le prende l'autista. Quella che tratteniamo noi, rimane in ufficio da noi ed è messa in apposito contenitore. Successivamente viene una impiegata di nome (...) che la prende da questo contenitore e la porta nell'ufficio ROT. ADR che cifa? Lei controlla in poche parole quello che abbiamo fatto noi. Noi inseriamo tutti i dati necessari e la (...) farà un controllo di sua competenza". Tali deposizioni, benchè rese da soggetti aventi (o che hanno avuto) un analogo contenzioso - e quindi da vagliare con particolare rigore critico - appaiono del tutto credibili, anche perché confermate dai testi di parte resistente. In particolare il teste (...), dirigente responsabile degli impianti (...), ha ribadito che l'addetto alla pesa si occupa della doppia pesatura del mezzo all'ingresso e all'uscita, di registrare sul softaware Smalto Verde il peso, di compilare il mod. 81 (per i mezzi (...)) e quello FIR (per i mezzi di terzi) nelle parti in cui questi non sono già compilati; entrambi i testi di parte resistente, inoltre, hanno confermato che l'addetto alla pesa firma tali modelli. Così dichiara il sig. (...): "la procedura normale è che i mezzi di terzi in ingresso arrivano vuoti. Questo da alcuni anni, sicuramente dal 2019. Il modulo FIr lo predisponiamo noi. L'addetto pesa ha a sua disposizione tutta una serie di moduli Fir prestampati che contengono le informazioni fisse (tipo nominativo dell'impianto di destinazione, trasportatore, codice rifiuto, l'operazione di trattamento). L'operatore deve scegliere il modulo giusto nelle varie cartelline che ha a disposizione e compila le parti variabili ovvero la data e l'ora del trasporto, la targa del mezzo e del rimorchio e il peso (netto lordo e tara), il nominativo dell'autista. Questi dati li scrive l'addetto alla pesa. Firma l'addetto alla pesa e il trasportatore. Questo modulo Fir è in quattro copie autocopianti (quindi scrive solo sulla prima), prende il bindello di pesatura precedentemente stampato, trattiene la prima copia del Fir che resta a noi e a cui allega un bindello di pesatura. Le altre tre copie con allegato un solo bidello di pesatura sono date all'autista, il quale le trasporta all'impianto di destino che entro 90 giorni deve restituire la quarta copia firmata all'(...). Il modulo 81 è un foglio A4 stampato tramite un diverso applicativo aziendale (programma (...)): l'autista arriva già con questo modulo che è suddiviso in tre parti uguali. L'addetto pesa provvede a effettuare le operazioni di pesatura, stampa il bindello e trattiene un terzo del foglio, in cui inserisce il peso e lo trattiene come impianto e le restanti due parti del foglio sono lasciate all'autista, con allegato un bindello di pesatura e anche su queste due parti l'addetto alla pesa scrive il peso (...) I veicoli (...) trasportano dalle alle 12 tonnellate a viaggio, i mezzi non - A. fino a 30 tonnellate. Perciò in una giornata lavorativa, il rapporto tra i mezzi (...) e non - (...), potrà essere intorno a 4/5 mezzi (...) e 1 solo mezzo della società terza (...) Preciso che da circa un anno e mezzo/due anni, esiste un lettore di codice a barre che permette di riportare direttamente a sistema tutte le indicazioni del modello 81. Il codice si trova sul modello 81. Prima l'addetto inseriva a mano questi dati, attraverso comunque pur sempre un codice alfanumerico (che riportava già tutte le informazioni) mentre adesso avviene con il lettore. (...) l'addetto alla pesa effettua le operazioni che ho detto, serve poi che vi sia qualcuno in back office che provveda alla predisposizione dei cd. profili e alla verifica delle autorizzazioni dell'impianto di destino e del trasportatore inserendo a sistema le targhe autorizzate all'accesso allo stabilimento. L'addetto in back office fa un lavoro a monte e uno a valle di quello dell'addetto alla pesa. Il lavoro a monte consiste nell'inserire nel sistema Amambiente tutti i dati riguardo le targhe autorizzate, poi l'addetto alla pesa inserisce i dati e predispone il Fir e quando ritorna la quarta copia ad (...) avviene la consegna all'addetto del back office che provvede all'archiviazione e alla registrazione e stampa nel registro di carico e scarico. Un registro che è appositamente vidimato dalla camera di commercio.". Così riferisce il teste (...), funzionario (...) responsabile dell'impianto di Ponte Malnome: "il mezzo che entra pieno è un mezzo aziendale e non è accompagnato in ingresso dal Fir ma dal mod. 81. L'addetto pesa fa posizionare il mezzo sulla bascula, ritira il modello 81, quantifica tramite il sistema Smalto Verde il peso lordo del mezzo. Poi il mezzo va a scaricare e ritorna vuoto sull'impianto di pesatura e l'addetto pesa il mezzo vuoto. (...) il bindello, trascrive il peso netto sul modello 81, lo firma, ne prende una parte del modello 81 che ha tre parti e altre due le lascia all'autista - il bindello è stampato in due copie, una la trattiene e la spilla insieme ad una parte del modello 81 e l'altra la consegna all'autista. Il mod. 81 ha un codice a barre. Per leggerlo abbiamo dotato gli addetti pesa di un lettore. Quando l'addetto pesa accetta il mod. 81 lo inquadra con questo lettore e il sistema Smalto Verde va a pescarsi in automatico il riferimento alfanumerico del mod. 81 e quindi con questa operazione rileva il codice. (...) In una giornata media tipo i veicoli non ama sono circa 18/25 al giorno; i mezzi (...) in ingresso invece sono circa da 80 a 100. (...) a tenuta dei registri di carico e scarico non viene effettuata dagli addetti pesa, ma da personale impiegato, nel caso di Ponte Malnome è (...), impiegata di quarto livello. Tenere un registro di carico e scarico significa predisporre il materiale cartaceo, portarlo alla camera di commercio per la vidimazione, ritirarlo vidimato e poi tenerlo a disposizione presso l'ufficio e stamparlo periodicamente, con tutti gli elementi previsti dalle norme vigenti. Cap. 16) l'addetto Fir supervisiona i FIr compilati e sottoscritti dall'addetto pesa. Se vi è la necessità di fare una correzione viene fatta dall'addetto FIr e sottoscritta dal responsabile dell'impianto. La responsabilità dell'errore su FIr non è mai stata imputata all'addetto pesa, che viene sollecitato a una maggiore attenzione, però all'addetto pesa non è mai stata imputata alcuna responsabilità per eventuali errori della compilazione del Formulario. E gli errori ci sono stati. (...)". Deve, quindi, ritenersi provato che dall'estate del 2019 il ricorrente presso l'impianto di Ponte Malnome si è occupato di effettuare la doppia pesatura dei mezzi (di (...) o dei privati), dell'annotazione degli orari di ingresso e di uscita, della verifica del tipo di rifiuto trasportato, della compilazione del mod. 81 e del FIR, apponendo la propria firma su tali documenti con assunzione di responsabilità. Peraltro parte dell'attività svolta dal (...), come sopra riferita dai testimoni, ed in particolare la sottoscrizione dei FIR trova piena conferma nella documentazione dallo stesso depositata in atti (cfr. doc. 9). 4. Passando alla seconda fase del percorso logico-giuridico sopra richiamato, va detto che il CCNL di settore - Area Impianti e Laboratori (docc. 4 e 5 fasc. ricorrente) prevede, quanto all'inquadramento posseduto dal ricorrente, che al 3 livello professionale appartengano gli "operai qualificati che svolgono attività esecutive, anche di manutenzione, sulla base di procedure prestabilite, richiedenti preparazione professionale supportata da adeguate conoscenze di tecnica di lavoro, acquisibili anche mediante esperienza pratica con autonomia operativa limitata all'esecuzione del proprio lavoro nell'ambito di istruzioni dettagliate. Possono utilizzare veicoli per la guida dei quali è richiesto il possesso della patente di categoria C" e nei profili esemplificativi è chiarito che specificamente appartiene al livello 3 "l'operaio addetto alla pesatura dei mezzi d'opera conferenti presso gli impianti di smaltimento e piattaforme ecologiche e discariche con verifica della corrispondenza del rifiuto alla tipologia ammessa nell'impianto e altre operazioni connesse". 4.a. Mentre per quanto riguarda il superiore inquadramento rivendicato dal ricorrente il CCNL prevede che al 4 livello Area Impianti e Laboratori appartengano gli "operai specializzati che svolgono attività esecutive, anche di manutenzione, richiedenti una professionalità adeguata per applicazione di procedure e metodi operativi prestabiliti nonché specifiche conoscenze teorico-pratiche anche acquisite mediante addestramento o esperienze equivalenti, con autonomia operativa connessa ad istruzioni generali non necessariamente dettagliate. Operano individualmente o in concorso con altri lavoratori dei quali possono avere il coordinamento. Possono utilizzare autoveicoli per la guida dei quali è richiesto il possesso della patente di categoria C o superiore". Tra i profili esplicativi di detto 4 livello sono ricompresi, tra gli altri, l'"operaio addetto alle discariche, agli impianti di smaltimento e alle piattaforme ecologiche che, oltre alle mansioni di pesatura e verifica di cui al livello precedente, svolge attività di registrazione carico/scarico dei rifiuti su appositi registri e/o modulistica previsti dalle normative in vigore". 4.b. Dalla lettura delle declaratorie sopra riportate, emerge che il livello superiore si caratterizza per il necessario possesso di specifiche conoscenze teorico-pratiche acquisite e per l'autonomia operativa connessa ad istruzioni generali non necessariamente dettagliate (con i connessi profili di responsabilità); inoltre ciò che contraddistingue un operaio di 4 livello rispetto ad un operaio di 3 livello, è la circostanza che presso gli impianti di smaltimento e le piattaforme ecologiche, oltre ad effettuare le attività di pesatura e di verifica della corrispondenza dei rifiuti rispetto alla tipologia ammessa nell'impianto, svolga anche l'attività di registrazione del carico/scarico dei rifiuti su appositi registri e modulistica previsti dalla normativa in vigore. 4.c. Quest'ultima attività, come già chiarito, risulta sicuramente essere stata svolta dal (...) presso l'impianto di Ponte Malnome, posto che tutti i testimoni hanno riferito che il ricorrente provvedeva non solo a compilare e riempire il FIR su cui indicava gli elementi variabili - data, orario, targa, nominativo autista e pesatura del mezzo - ma soprattutto provvedeva a sottoscriverlo, con assunzione di responsabilità. 5. Ciò posto e per completezza deve rilevarsi che sulla questione oggetto del presente giudizio si è sviluppato un contenzioso e si registra una spaccatura in giurisprudenza. Premesso infatti che è pacifico che le mansioni di pesatura e di verifica della corrispondenza del rifiuto alla tipologia ammessa nell'impianto e "le operazioni connesse" siano proprie dell'operaio di 3 livello addetto alla pesatura dei mezzi d'opera conferenti presso gli impianti di smaltimento e piattaforme ecologiche e discariche, perché rientrano espressamente nella declaratoria contrattuale, ai fini del riconoscimento del superiore livello 4 è richiesto necessariamente - oltre alle specifiche conoscenze teorico-pratiche acquisite e il diverso grado di autonomia operativa- anche lo svolgimento di mansioni ulteriori. Tali mansioni ulteriori sono individuate da pressochè tutti i ricorrenti nei vari giudizi sottoposti a questo Tribunale, proprio nel fatto di aver effettuato la "registrazione carico/scarico dei rifiuti su appositi registri e/o modulistica previsti dalle normative in vigore" ed è proprio su questo che si è spaccata la giurisprudenza. 5.a. Segnatamente una serie di pronunce di questo Tribunale hanno disconosciuto il diritto all'inquadramento nel livello 4, affermando che "completare il modello FIR esclusivamente nella parte relativa alla data, all'ora e ai dati risultanti dal sistema informatico "Smalto Verde" sia attività eccessivamente riduttiva e priva dei caratteri di facoltà decisionale, di autonomia operativa e di competenza tecnica, "laddove l'addetto alla registrazione provvede, invece, alla predisposizione e alla pre-compilazione del FIR e alla compilazione del registro di carico/scarico tenuto sia in formato digitale, sia in formato cartaceo su fogli di carta vidimata dalla Camera di Commercio" (cfr. Trib. Roma 8907/2022; cfr. tra le altre anche Trib. Roma 5405/2022 relativa al sig. (...); (...) Appello Roma 253/2018; Corte di Appello Roma 5218/2017). 5.b. Altre pronunce, invece, hanno riconosciuto il diritto all'inquadramento nel livello 4 area Impianti e Laboratori per l'addetto alla pesa che compila il FIR, provvedendo altresì alla sua sottoscrizione ritenendo che rispetto alla semplice attività dell'addetto alla pesa che verifica l'entità del carico e l'orario di entrata e di uscita dei rifiuti l'attività di registrazione sia più complessa e comporta l'assunzione della responsabilità delle operazioni effettuate apponendo la propria firma sugli appositi formulari (in tale senso tra le altre, Trib. Roma 9857/2019, confermata in Appello con sent. 746/2023; Trib. Roma 9861/2019, confermata in appello; Trib. Roma 6765/2018 ricorrente (...), confermata in Appello con sent. 1846/2020; Trib. Roma 9714/2022). In particolare la recente sentenza della locale Corte di Appello n. 746/2023 sul punto ha condiviso e richiamato le argomentazioni espresse dalla stessa Corte con la sentenza del 29.3.2022, osservando che le mansioni "non si esaurivano nella mera redazione e sottoscrizione di una modulistica precompilata" ma comportavano "anche la "attività di registrazione" dell'intera operazione di carico e scarico dei rifiuti, attività, questa, maggiormente rilevante, anche ai fini di un futuro tracciamento, nonché connotata da un più elevato grado di responsabilità (tanto da annoverarsi espressamente nel superiore IV livello) (C. Appello Roma 746/2023). 6. Ritiene questo Ufficio che sia maggiormente persuasivo questo secondo, più recente, orientamento. In particolare si richiamano qui ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., le condivisibili argomentazioni espresse dalla Corte Appello Roma nella sentenza 1846/2020: "L'attività di registrazione cui fa riferimento il quarto livello, d'altronde, integra un'assunzione di responsabilità ben maggiore di quella del semplice addetto alla pesa che verifichi l'entità del carico, l'orario di entrata e uscita dei rifiuti dal deposito e la corrispondenza del rifiuto. Il dipendente di quarto livello registra, infatti, le operazioni di cui è artefice e testimone in via informatica e su appositi formulari, e assume la responsabilità di siffatte operazioni apponendo la propria firma. La difesa di (...) rappresenta - e la circostanza trova effettivamente conferma a seguito dell'esame della produzione documentale - che i formulari consegnati alla signora (...) erano in parte precompilati, con l'indicazione della ragione sociale del mittente, dei produttori di rifiuti, del destinatario, della ragione sociale del trasportatore di rifiuti, delle caratteristiche chimiche, della destinazione dei rifiuti trasportati. Per contro dall'esame della produzione documentale e dalla prova testimoniale è emerso che la signora (...), dopo aver abbinato il formulario alla tipologia di rifiuti trasportata, procedeva a inserire al computer gli estremi identificativi del vettore e il peso dei rifiuti; procedeva altresì alla compilazione e sottoscrizione dell'apposito formulario. Certamente la signora (...) non assumeva alcuna responsabilità in relazione ai dati precompilati dall'ufficio deputato, così come con riferimento alle analisi chimiche del rifiuto - riconducibile a professionista specializzato - : ella tuttavia assumeva la responsabilità delle annotazioni ad essa riconducibili concernenti il peso dei rifiuti trasportati, l'individuazione del trasportatore e della sua destinazione, la tipologia di rifiuto ( in relazione alla quale aveva individuato il corretto formulario). Tale assunzione di responsabilità avveniva sia con l'inserimento dei dati al computer, sia con il completamento e la sottoscrizione dell'apposito formulario, diverso a seconda che il mezzo fosse di proprietà di (...) o appartenente ad una ditta privata (in questo caso i rifiuti non erano provvisti della bolla di accompagnamento). Non è dunque vero che non vi fosse assunzione di responsabilità da parte della signora (...) che, nell'abbinare il formulario, doveva verificare la corrispondenza del vettore e del rifiuto trasportato e soprattutto registrare l'orario e il peso del mezzo, in entrata e in uscita, con tutte le conseguenze in termini economici e di sicurezza che a tale attività sono connessi. A. rileva che il Certificato di analisi relativo al tipo di rifiuto trasportato era sottoscritto, di volta in volta, dal chimico iscritto all'albo e non era competenza dell'addetta alla pesa. Siffatta circostanza non è stata smentita dai testi escussi ed anzi ha trovato conforto documentale nella produzione in atti; tuttavia l'allegazione risulta non determinante ai fini del decidere. Non è infatti rilevante che la dipendente non potesse attestare, dal punto di vista chimico la tipologia di rifiuto, non essendo questa la professionalità richiesta dalla declaratoria del quarto livello. È cioè incontrovertibile che non competesse alla ricorrente la verifica della tipologia del rifiuto operata dal chimico iscritto all'albo, e ciò a prescindere dalla astratta possibilità dell'addetta alla pesa di verificare la tipologia dei rifiuti per come riportati nel formulario abbinato a quel trasporto. È altrettanto incontrovertibile che ella si occupasse dell'attività di registrazione del carico e scarico dei rifiuti in entrata e in uscita sulla modulistica ufficiale, dopo aver operato la pesa del mezzo. Proprio sulla base delle bolle di accompagno dei rifiuti scaricati in impianto e dei moduli, predisposti dall'addetto alla pesa di quarto livello, il responsabile tecnico di gestione procedeva a riportare sugli appositi registri, conservati presso l'ufficio del registro degli impianti, in formato sia cartaceo che digitale, le informazioni rilevanti. All'esito di siffatte valutazioni risulta incontroverso che la ricorrente, nello svolgimento delle attività delegate, non operasse nella cornice del livello di appartenenza, bensì alla stregua di un dipendente di quarto livello professionale. Il livello quarto, in effetti, richiede autonomia operativa nell'esecuzione delle procedure e preparazione professionale supportata da adeguate conoscenze di tecnica di lavoro e della necessaria formazione specialistica nonché l'eventualità di un coordinamento di altri dipendenti. La signora (...), nello svolgimento delle attività ad essa delegate, godeva di ampia autonomia operativa ed infatti non era soggetta al controllo di alcun preposto ed assumeva in proprio la responsabilità delle azioni compiute, sottoscrivendo i dati oggetto di sua personale verifica. Il protratto e ininterrotto svolgimento di siffatte mansioni , dopo aver svolto mansioni diverse in altro servizio, ove aveva acquisito diversa, ma comunque rilevante, esperienza professionale, seppure corrispondente ad un livello inferiore, senza che mai alcun rilievo fosse mosso al suo operato, comprova il possesso delle conoscenze teorico - pratiche funzionali all'attribuzione della qualifica rivendicata, peraltro corrispondente a quella riconosciuta ai dipendenti che svolgevano identiche mansioni ( cfr. deposizione del teste (...))". 7. Insomma e concludendo il sig. (...) ha svolto la significativa mansione, qualificante il superiore livello, di compilazione e di sottoscrizione di registri e di apposita modulistica-assumendo la relativa responsabilità del corretto inserimento dei dati - tra cui il Formulario di Identificazione da, cui come previsto dall'art. 193 del D.Lgs. n. 152 del 2006. 7.a. Sebbene poi il ricorrente non abbia fornito la prova della prevalenza dal punto di vista quantitativo della mansione di registrazione dei FIR- a questo fine anzi la prova orale sconfessa la circostanza, posto che il numero dei FIR giornalieri era di gran lunga inferiore a quello dei mod. 81- deve rammentarsi che secondo il consolidato e condivisibile orientamento della Suprema Corte il giudizio di prevalenza non va determinato sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale (Cass. 26978/2009, Cass. 6303/2011, Cass. 2969/21). 7.b. Giova poi rammentare come l'assegnazione a mansioni diverse da quelle di assunzione determina il diritto del lavoratore all'inquadramento superiore di cui all'art. 2103 c.c. anche quando le prime siano solo prevalenti rispetto agli altri compiti affidatigli, non richiedendo la predetta norma lo svolgimento di tutte le mansioni proprie della qualifica superiore, ma solo che i compiti affidati al lavoratore siano superiori a quelli della categoria in cui è inquadrato (Cass. 25673/2019). 7.c. Né vale obiettare che le vere mansioni di registrazione siano quelle svolte dall'Ufficio FIR e Registri, che svolge l'attività a monte e a valle di quella del ricorrente e detiene i registri di carico e scarico dei rifiuti, occupandosi anche della parziale precompilazione del formulario: infatti per usare le parole della Corte di Appello da ultimo citata "il profilo professionale del quarto livello, laddove rimanda all'attività di compilazione di registri e della modulistica relativa al carico - scarico dei rifiuti , non intende fare riferimento all'attività di detto ufficio - che infatti non si occupa della pesatura dei mezzi - bensì all'attività dell'addetto, collaterale rispetto al controllo delle quantità di rifiuto trasportato e verifica della corrispondenza del rifiuto, di registrazione dei dati acquisiti dal vivo, in apposita modulistica". 7.d. Al sig. (...) va dunque riconosciuto dal mese di novembre del 2019 - essendo in concreto lo svolgimento delle mansioni di addetto alla pesa avvenuto con l'ordine di servizio del 2.8.2019 (doc. 5 fasc. res.) - il diritto all'inquadramento nel livello 4, poiché l'istruttoria ha dimostrato che egli svolgesse quotidianamente e in via ordinaria, l'attività di compilazione di registri e di modelli, che li sottoscrivesse assumendone la responsabilità; che avesse nello svolgimento delle sue attività autonomia operativa non essendo infatti soggetto al controllo di alcun preposto e assumendosi in proprio la responsabilità delle azioni compiute sottoscrivendo i dati oggetto di sua verifica personale; che avesse preparazione professionale supportata da adeguate conoscenze di tecnica di lavoro e della necessaria formazione specialistica, tanto più che egli già apparteneva al 4 livello prima del demansionamento (cfr. verbale di conciliazione del 17.7.2019), vieppiù confermati dal protratto e ininterrotto svolgimento delle dette mansioni. 8. Deve, dunque, essere riconosciuta al ricorrente la posizione parametrale B (la posizione parametrale A pur richiamata nel corpo del ricorso, ma non nelle conclusioni, è infatti acquisibile solo dopo la permanenza per cinque anni nella posizione B ex art. 15 CCNL 30.6.2008 rimasto invariato) del livello professionale 4 a decorrere dal 2.11.2019 e cioè sulla scorta degli artt. 2103 c.c. e dell'art. 16 del CCNL del 17.6.2011, dal 90esimo giorno di svolgimento delle mansioni superiori esercitate. 9. In ragione della complessità delle questioni affrontate e delle oscillazioni giurisprudenziali, appaiono sussistere gravi ed eccezionali motivi per compensare integralmente le spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: - accerta che il ricorrente a far data dal 2.11.2019 ha diritto ad essere inquadrato nel livello professionale 4 posizione parametrale B (Area Impianti e laboratori) del CCNL dei servizi ambientali (Federambiente) e dispone che (...) provveda al relativo inquadramento; - compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Così deciso in Roma il 3 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da Dott.ssa Susanna Mantovani - Presidente Dott.ssa Maria Rosaria Cuomo - Consigliere est Dott.ssa Laura Bertoli - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano, est. dott.ssa Fr.Ca., promossa: DA (...) SRL, rappresentata e difesa dall' avv. GR.DA., ed elettivamente domiciliato in CORSO (...) 12051 ALBA APPELLANTE principale CONTRO (...), rappresentata e difesa dagli avv.ti TR.SA., TA.GI., BALLETTI PAOLA ed elettivamente domiciliata in VIA (...) 20122 MILANO APPELLATA appellante incidentale Appellata- FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 5.9.2022, la società (...) srl ha impugnato la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano che ha condannato la società a corrispondere a (...) l'importo lordo di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, nonché ha accertato l'illegittimità del licenziamento intimato a (...) con lettera del 23 ottobre 2020 ed ha condannato la società a corrispondere a quest'ultima la somma lorda di Euro 106.666,67 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la somma lorda di Euro 7.901,23 a titolo di differenza dovuta sul TFR per effetto dell'incidenza dell'indennità sostitutiva del preavviso sul calcolo di tale istituto, con versamento di tutti i contributi previdenziali e assistenziali dovuti sull'indennità sostitutiva del preavviso, la somma di Euro 106.666,67 a titolo di indennità supplementare ex art. 19, comma 15, CCNL Dirigenti Industriali vigente, e la somma di Euro 50.000 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, oltre al pagamento delle spese di lite liquidate nella misura di Euro 18.015,00 oltre accessori. Il primo giudice, escluso che la decisione del licenziamento fosse stata presa già alla fine del 2019, come sostenuto dalla lavoratrice ma non provato, esclusa la genericità e tardività della contestazione disciplinare del 7.10.2020, svolta istruttoria, ha ritenuto non provato l'addebito disciplinare consistito nell'aver inviato nel febbraio 2015 al consulente del lavoro, "senza autorizzazioni da parte dell'Amministratore Unico Sig.ra (...), dall'indirizzo di posta elettronica aziendale unicamente da Lei utilizzato, una richiesta di aumento di Euro 3.000,00 netti al mese della Sua retribuzione mensile". Ha ritenuto quindi dovuto l'aumento retributivo come erogato dal mese di febbraio 2015 al mese di agosto 2020. Ha invece ritenuto illegittima la sospensione della corresponsione di detto aumento, disposta unilateralmente dalla società a decorrere dal mese di agosto 2020, sottolineandone la natura di retribuzione ordinaria e non variabile come sostenuto invece dalla società. Ha infine ritenuto fondata la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali avanzata da (...) considerata la lesione dell'immagine professionale della lavoratrice determinata dalla asserita giusta causa del licenziamento, di fatto inesistente, e considerata la non correttezza della condotta posta in essere dalla società che, a partire dal mese di luglio 2017, si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente danno per la lavoratrice impossibilitata ad usufruire dei rimborsi per le spese mediche sostenute, ed a partire dal terzo trimestre del 2018 si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente pregiudizio della lavoratrice in termini di previdenza integrativa. Ha infine respinto le altre domande in termini di risarcimento formulate dalla lavoratrice, in quanto non adeguatamente allegate e provate. La società (...) srl censura la sentenza per i seguenti motivi: 1) Errata qualificazione dell'accordo intervenuto tra le parti nel febbraio 2015. Nel mese di febbraio 2015 la lavoratrice e l'amministratore della società avevano raggiunto un accordo verbale, mai formalizzato, che prevedeva incentivi premiali sullo stipendio dovuti al raggiungimento di obiettivi da stabilire, previa determinazione dei criteri, e riservando successivamente la stipula del contratto. Detta circostanza, di cui si offriva di dare prova, non era stata contestata ma ammessa dalla stessa lavoratrice che aveva sempre fatto riferimento ad un incremento retributivo non in misura fissa ma variabile, per raggiungere un netto di Euro 6.000. La natura variabile degli incentivi, oltre che concordata tra le parti, emergeva anche dalle buste paga, essendo sempre diverso l'importo riconosciuto oltre alla retribuzione ordinaria. Trattandosi di retribuzione variabile la stessa, a norma degli artt. 6 bis e 2 del CCNL applicato, avrebbe dovuto essere oggetto di pattuizione mediante accordo individuale scritto. In mancanza di accordo scritto, l'accordo orale non era valido, con conseguente rigetto delle domande della lavoratrice. 2) Non debenza delle differenze retributive liquidate. La società lamenta la violazione delle regole processuali, avendo il giudice applicato il principio di non contestazione di cui agli artt. 115-416 c.p.c. con riferimento ai documenti prodotti dalla lavoratrice nel corso del processo e precisamente all'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., senza concedere alcun termine alla società per espletare il principio di reciprocità fissato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 13/1977. Conseguentemente, nel liquidare la somma di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, il giudice non poteva fare riferimento al conteggio prodotto dalla lavoratrice in sede di udienza ex art. 420 c.p.c.. Inoltre, la lavoratrice non aveva diritto ad un lordo mese fisso di Euro 12.307,69 in quanto la busta paga mensile era stata redatta sulla base della "retribuzione concordata", diversa mese per mese e non conteggiata in un importo fisso. Infine, durante il periodo di malattia la società aveva corrisposto la retribuzione contrattuale, non essendo stata concordata la retribuzione aggiuntiva. 3) Giustificatezza del licenziamento impugnato. L'esatto inquadramento dell'accordo intervenuto nel febbraio 2015 ha immediati riflessi per quanto riguarda le ragioni che hanno portato al licenziamento. Secondo l'appellante il primo giudice non ha compreso i veri termini della contestazione disciplinare, non attribuendo giusto rilievo alle seguenti circostanze: -la mail oggetto della contestazione disciplinare risulta inviata dall'indirizzo mail ad uso esclusivo di (...), come affermato dal teste (...); -la società ha contestato l'assenza di autorizzazione dell'amministratore per cui doveva essere la lavoratrice a provare l'avvenuta autorizzazione. A tal fine non rileva l'invio per conoscenza della mail all'amministratore. 4)In via subordinata, liquidazione errata delle somme ritenute dovute per indennità sostitutiva del preavviso e indennità supplementare. Richiama il conteggio del proprio consulente del lavoro depositato in primo grado, elaborato sulla base della retribuzione lorda senza l'aumento "retribuzione concordata". Contesta l'inclusione nella liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare anche della 13esima. Secondo la società a norma dell'art. 23 del CCNL, co. 4, l'indennità per il periodo di mancato preavviso è pari alla retribuzione che il dirigente avrebbe percepito durante il periodo di mancato preavviso. Conseguentemente l'indennità va calcolata sulla retribuzione mensile e non sulla retribuzione globale di fatto. Stesso discorso vale per l'indennità supplementare che, ai sensi dell'art. 19, comma 15, C.C.N.L. va calcolata fra un minimo di 8 e un massimo di 12 mensilità di preavviso. 5)Liquidazione dell'importo di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno - vizio di extra petizione. Con il ricorso introduttivo la lavoratrice ha chiesto il risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità legato all'ipotesi di mobbing, richiedendo sotto il profilo quantitativo il risarcimento da liquidarsi in via unitaria a fronte delle vessazioni e/o del demansionamento subito. Tutti fatti che il giudice ha ritenuto non provati. Nulla è stato chiesto a titolo di danno non patrimoniale per le voci invece considerate dal giudice ovvero versamenti contributivi a (...) e (...) e danno all'immagine in conseguenza del licenziamento. Inoltre, quanto ai versamenti contributivi a (...) e (...), la società ha dimostrato l'avvenuto pagamento in ritardo mentre la lavoratrice non ha dimostrato il danno subito. Si è costituita (...) che ha chiesto il rigetto dell'appello di controparte ed ha spiegato appello incidentale per i seguenti motivi: 1)omessa pronuncia del giudice sulla domanda di interessi e rivalutazione su tutte le somme oggetto di condanna. Pur avendo la società pagato nelle more la somma lorda di Euro 24.735,84 a titolo di interessi e rivalutazione manca una pronuncia di condanna in tal senso, come richiesto invece con il ricorso di primo grado. 2) Erronea reiezione della domanda di risarcimento del richiesto danno biologico. Il giudice, per i comportamenti vessatori posti in essere dalla società negli ultimi due anni, quali demansionamento e licenziamento, ha riconosciuto solo il danno morale, il danno all'immagine e il danno alla professionalità ma ha escluso il danno biologico subito per effetto dei "comportamenti persecutori" posti in essere dalla società per oltre due anni. Chiede dunque che vengano risarciti tutti i danni subiti da determinarsi in via equitativa in misura pari ad Euro 120.000,00 netti, senza rinuncia alla maggior somma che fosse ritenuta rispondente a giustizia ed equità. La causa è stata discussa e decisa come da dispositivo trascritto in calce. L'appello della società è parzialmente fondato nei limiti di seguito precisati. Non è contestato tra le parti l'accordo verbale intercorso tra le parti nel febbraio 2015 relativo all'aumento della retribuzione di (...) così come l'effettivo aumento operato nei cinque anni successivi a favore della lavoratrice. Quanto ai termini dell'accordo, sui quali le parti non convergono, decisivi sono i cedolini paga emessi dalla società a decorrere dal febbraio 2015 e per i cinque anni successivi. Ed, infatti pacifica la retribuzione lorda di Euro 101.000,00 annua, per 13 mensilità, pattuita tra le parti al momento dell'instaurazione del rapporto di lavoro, risulta in maniera evidente dall'esame dei cedolini paga, emessi a decorrere dal mese di febbraio 2015, come la retribuzione mensile globale corrisponda sempre alla somma netta di Euro 6.000,00, per 13 mensilità. La circostanza non è stata contestata dalla società. Il dato ricavabile dai cedolini paga, come evidenziato, conferma i termini dell'accordo così come dedotti da (...) secondo cui l'aumento avrebbe dovuto garantire uno stipendio mensile netto pari ad Euro 6.000,00, per 13 mensilità, a cui aggiungersi le indennità di trasferta ed i rimborsi spese, nonché sommarsi e/o detrarsi i conguagli fiscali rinvenienti dalle dichiarazioni. Emerge, quindi, la natura fissa dell'aumento nel senso che l'aumento mensile in sé non doveva essere fisso ma doveva essere tale da consentire il raggiungimento di una retribuzione netta mensile di Euro 6.000,00 -questa sì fissa-, motivo per il quale le somme in aumento variavano mensilmente. Secondo la società l'aumento avrebbe dovuto essere variabile e collegato al raggiungimento di obiettivi da stabilire. Ebbene, a fronte dei pacifici aumenti intervenuti negli anni, la società, a sostegno della propria tesi, non ha provato né tantomeno dedotto quali sarebbero stati gli obiettivi assegnati volta per volta a (...) né ha provato il raggiungimento degli stessi, che solo avrebbe giustificato l'aumento retributivo nei termini dedotti dalla società. In mancanza di prova diversa, deve ritenersi del tutto infondata la tesi della società circa la natura variabile dell'aumento e conseguentemente la dedotta invalidità dell'accordo orale perché non formalizzato per iscritto ai sensi dell'art. 6bis del CCNL applicato. Il primo motivo di appello va quindi respinto. La società nega di aver comunque disposto l'aumento retributivo come emergente dai cedolini paga, e sostiene di aver appreso dell'avvenuto pagamento, per ben cinque anni, solo nel settembre 2020 a seguito della richiesta di pagamento di importi asseritamente non versati, pervenuta alla società dai difensori della lavoratrice. Come già condivisibilmente evidenziato dal primo giudice, la società, gravata del relativo onere probatorio, non ha provato che la mail del 4.2.2015 inviata al consulente del lavoro della società fosse stata inviata non solo da (...) ma anche senza l'autorizzazione dell'amministratore della società, e soprattutto non ha provato che l'amministratore fosse all'oscuro dell'aumento. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società appellante, la teste (...) non ha affermato con certezza che l'indirizzo mail da cui era partita la mail in contestazione fosse di esclusivo utilizzo di (...) ma ha dichiarato che sapeva che lo usasse quest'ultima perché le rispondeva sempre da quell'indirizzo firmandosi personalmente. Firma che tra l'altro non è presente nella mail in contestazione. In ogni caso, pur ritenendo che l'indirizzo mail in questione fosse di esclusivo utilizzo di (...) e che questa avesse inviato la mail, non risulta provata l'assenza dell'autorizzazione da parte dell'amministratore. L'istruttoria svolta ha anzi dimostrato il contrario. La teste (...) ha infatti dichiarato di aver sempre riferito all'amministratore ogni operazione relativa agli stipendi in generale ed in particolare agli stipendi versati a (...), compresa la modifica dello stipendio a seguito dell'aumento -"Sugli stipendi io riferivo all'amministratore gli importi che andavo a pagare. Io dicevo all'amministratore quale era l'importo di volta in volta versato. Anche per lo stipendio della sig.ra (...) informavo l'amministratore dell'importo di volta in volta versato. L'amministratore sapeva quali erano gli importi versati alla sig.ra (...) mese per mese. Gli importi io li comunicavo a voce. Anche quando è stato modificato lo stipendio della sig.ra (...) io ho comunicato di volta in volta gli importi che ho versato. la busta paga della signora (...) veniva pagata in più acconti mai in un'unica soluzione. Tutti gli importi versati alla signora (...) di volta in volta io li ho riferiti all'amministratore. A volte gli acconti erano anche giornalieri dicendo o 200 Euro era difficile capire il saldo totale. Ogni pagamento da me disposto era comunque comunicato all'amministratore. La signora (...) non aveva la possibilità di disporre autonomamente dei pagamenti doveva sempre passare attraverso di me o attraverso il signor Me."-. Anche il teste (...) ha confermato il controllo costante da parte dell'amministratore della società sui pagamenti effettuati e sul continuo confronto con (...) - "la signora (...) faceva dei controlli sugli estratti conto ... Confermo che la signora grosso facesse dei controlli sugli estratti conto e preciso che la signora grosso e la signora (...) si vedevano più volte la settimana quindi era normale che si comunicassero le varie contabili"-. Ulteriore prova della consapevolezza da parte dell'amministratore e quindi dell'autorizzazione da parte sua proviene anche dal fatto che la mail in contestazione era stata inviata anche all'amministratore. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società, la circostanza non è irrilevante perché, pacifica la ricezione della mail da parte dell'amministratore, questi avrebbe potuto intervenire immediatamente, facendo luce sulla questione e soprattutto bloccando i pagamenti. Dallo stesso controllo degli estratti conto, che l'amministratore effettuava regolarmente, come riferito dal teste (...), egli avrebbe dovuto accorgersi dell'aumento retributivo e quindi intervenire bloccando i pagamenti se non autorizzati. Ugualmente avrebbe potuto intervenire nell'apprendere dell'aumento dall'impiegata (...). Il mancato intervento negli anni da parte dell'amministratore per bloccare il pagamento dello stipendio nell'importo aumentato prova ulteriormente che trattavasi di aumento concordato e autorizzato, quindi legittimo. Anche il terzo motivo di appello va quindi respinto. Parimenti infondato è il secondo motivo di appello con il quale la società contesta la condanna al pagamento dell'importo lordo di Euro 47.602,98. Va osservato come avverso i conteggi allegati dalla difesa di (...) alla prima udienza di discussione innanzi al Tribunale, con i quali la parte ricorrente, accogliendo i rilievi formulati dalla società, riduceva la propria domanda, la società non abbia sollevato alcuna contestazione né abbia chiesto un termine per esaminarli (cfr. verbale prima udienza del 2.7.2021). Conseguentemente alcuna violazione delle regole processuali è stata posta in essere dal primo giudice. In ogni caso, si rileva la correttezza dei conteggi nel considerare la retribuzione nell'importo risultante a seguito dell'intervenuto aumento, come sopra accertato. Anche il quarto motivo di appello formulato in via subordinata rispetto al terzo motivo non è fondato. La giurisprudenza di legittimità è consolidata nell'affermare che "Il concetto di retribuzione recepito dagli artt. 2118, comma secondo, cod. civ. (ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120 cod. civ. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro" (cfr. Cass Sez. L, sentenza n. 16636 del 01/10/2012; nello stesso senso Cass. Sez. L, sentenza n. 15380 del 21/06/2017). Conseguentemente, dovendo, ai sensi dell'art. 2118 c.c., considerare la retribuzione che sarebbe spettata se fosse stata svolta l'attività lavorativa durante il preavviso, vanno ricompresi anche i ratei di tredicesima maturati nel corso del preavviso, non potendo la norma contrattuale derogare in peius alla norma di legge. Il quinto motivo di appello, che va accolto, va esaminato unitamente al secondo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) che va respinto. Con il ricorso di primo grado, (...) lamentava di aver subito una delegittimazione, iniziata nel 2016 con l'inibizione di svolgere trasferte e la conseguente perdita del diritto all'indennità di trasferta; proseguita nel 2017 con la mancata approvazione degli elenchi dei pagamenti in scadenza preparati da (...) e regolarmente disattesi dall'amministratrice sig.ra (...); nel 2018 con la revoca delle credenziali di accesso alla visualizzazione telematica dei conti bancari della società e con il mancato versamento contributivo in favore prima di (...) e poi di (...); nel 2019 con il divieto di proseguire le trattative in corso per l'acquisto del gas necessario per il successivo anno termico; nel 2020 infine con l'impossibilità di accedere a internet, alla propria casella di posta elettronica, all'intera rete informatica interna della società, con il mancato inoltro dei cedolini paga ed il mancato pagamento parziale della retribuzione dei mesi di luglio e agosto 2020 (cfr. punti da A/9 ad A/26 del ricorso di primo grado). Lamentava quindi di aver subito un danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità determinato dal comportamento della datrice di lavoro che "per tutto il corso del rapporto, la società convenuta ha immotivatamente posto in essere, in danno della ricorrente, una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale" (cfr. paragrafo B/3 del ricorso di primo grado). E' evidente che il danno patito sia stato riferito dalla lavoratrice all'insieme delle condotte asseritamente poste in essere dalla società ed integranti nel loro unicum una vera e propria "politica aziendale di esautoramento e delegittimazione" che negli ultimi tempi "si intensificava sino ad integrare gli estremi di vero e proprio "mobbing"" (cfr. punto A/24 del ricorso di primo grado). Il primo giudice non ha esaminato i fatti sopra richiamati e lamentati dalla lavoratrice come espressione di condotta vessatoria e di mobbing da parte della società, il cui solo accertamento positivo avrebbe consentito l'ulteriore valutazione circa l'esistenza di un danno non patrimoniale risarcibile, ma si è limitato a non riconoscere le ulteriori voci di danno in quanto non adeguatamente allegate e di conseguenza non provate. La lavoratrice sostiene che i comportamenti asseritamente persecutori e mobizzanti posti in essere dalla società, che richiama, siano stati pienamente comprovati in causa. Va innanzitutto ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (cfr. Cass., Sez. L., n. 3785 del 17.2.2009, Cass. L n. 17698 del 06/08/2014) E' quindi possibile parlare di mobbing quando si è in presenza di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Al fine di non dilatare oltre misura la fattispecie del mobbing è infatti necessario riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell'organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive. Il relativo onere di allegazione e prova grava sulla parte che assume di esserne stata vittima. Ebbene, dalle allegazioni in fatto della lavoratrice non emerge né la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio, né l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente né il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore né la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. I fatti lamentati non si sono succeduti in maniera sistematica e prolungata, tanto da essere espressione di un intento vessatorio. La lavoratrice fa infatti riferimento a episodi -inibizione trasferte, inosservanza liste di pagamenti, omesso versamento contributi- verificatisi a distanza di mesi se non di un anno l'uno dall'altro. Si osserva inoltre come lo svolgimento per il passato di trasferte non integri un diritto della lavoratrice -peraltro la stessa nemmeno lo deduce-; come i versamenti contributivi siano stati effettuati anche se con ritardo; come l'accesso ai portali dei conti correnti bancari aziendali rientri nel potere decisionale della società che ha ritenuto di riferirlo al solo amministratore. Tra l'altro la lavoratrice non aveva mai avuto la disponibilità delle password dispositive. La società ha poi documentato come nel periodo successivo al 31.1.2020, a seguito dello stato di emergenza COVID, la sig.ra (...) abbia lavorato regolarmente in smart working nonostante la mancata ricezione da parte della società delle password di acceso da remoto e delle password relative alle mail aziendali (cfr doc. 16 della sig.ra (...)) e come si sia assentata per malattia dal 3 marzo 2020 ininterrottamente fino al 13.12.2020. In ogni caso non è stato allegato alcunché con riferimento al danno non patrimoniale asseritamente patito. In proposito, va ricordato che "In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale" (cfr Cass. Sez. L - , sentenza n. 29047 del 05/12/2017). Prova che non è stata fornita. Il primo giudice senza aver accertato l'asserita condotta vessatoria e mobizzante, ha comunque riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno non patrimoniale, incorrendo così nel vizio di ultrapetizione. Ed infatti, il primo giudice ha condannato la società al risarcimento del danno non patrimoniale per avere la stessa posto in essere una condotta non corretta consistita nell'aver omesso il versamento contributivo in favore di (...) e (...) e nell'aver leso l'immagine professionale della dirigente a causa di un licenziamento per asserita giusta causa inesistente. A parte il pregiudizio patrimoniale conseguente all'omesso versamento contributivo, va evidenziato come, nella stessa prospettazione della lavoratrice, l'omesso versamento dei contributi -poi versati tardivamente- ed il licenziamento, unitamente alle altre condotte sopra esaminate, integrassero "una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale", con la precisazione che "a cagione di tale illecita politica aziendale, tradottasi nei singoli episodi più sopra descritti in fatto, ... la ricorrente ha subito gravi danni sotto diversi profili", da liquidarsi in via equitativa in Euro 120.000,00 (cfr. ricorso primo grado B/3 Risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità - pagg. 27, 28). Va quindi respinto il secondo motivo dell'appello incidentale ed accolto il quinto motivo di appello principale formulato dalla società (...) srl, con la conseguente condanna di (...) alla restituzione della somma di Euro 50.000,00. Va infine accolto il primo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) stante l'effettiva omessa pronuncia da parte del primo giudice sulla domanda di condanna al pagamento degli interessi e rivalutazione monetaria sulle somme liquidate. Le spese processuali del doppio grado, liquidate come in dispositivo (nella quota Euro 9.000 per il primo grado, Euro 2.500 per l'appello) , ai sensi del D.M. n. 147 del 2022, in ragione del valore della controversia, del grado di complessità, dell'attività istruttoria svolta in primo grado, della reciproca soccombenza prevalente per la società, vanno compensate per metà mentre la restante metà va posta a carico della società (...) srl. P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano respinge tutte le domande di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al ricorso di primo grado; condanna (...) srl a corrispondere gli interessi e rivalutazione sulle somme liquidate a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, indennità supplementare ed a titolo di titolo spettanze fine rapporto ed arretrati retributivi. Conferma le restanti statuizioni di merito. Condanna (...) alla restituzione delle somme nette percepite in eccesso in esecuzione della sentenza di primo grado. Compensa per metà le spese del doppio grado e condanna (...) srl alla rifusione delle spese del doppio grado che liquida nella quota in Euro 11.500,00 oltre spese generali ed oneri accessori. Così deciso in Milano il 15 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1072 del 2022, proposto da Fi. En. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ga. Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in (...), via (...); contro Società Lo. di Ri. - So. S.p.A., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto Sezione Prima, 7 gennaio 2022, n. 56, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 settembre 2022 il Cons. Giorgio Manca e preso atto dell'istanza in atti di passaggio in decisione, senza preventiva discussione, dell'avvocato Bi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società Fi. En. S.r.l. ha chiesto la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, Sezione Prima, 7 gennaio 2022, n. 56, che ha respinto il ricorso in primo grado proposto dalla medesima società per l'annullamento del provvedimento di chiusura della procedura di dia competitivo ai sensi dell'art. 64 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, indetta da So. S.p.a. per la gestione del servizio di riscossione coattiva delle multe elevate nei confronti dei cittadini residenti all'estero. 2. In difetto della costituzione in giudizio delle parti intimate, e non essendo comparso nessuno per l'appellante (che aveva presentato istanza di passaggio in decisione senza discussione), all'udienza pubblica del 22 settembre 2022 la causa è stata trattenuta per la decisione. 3. Nel corso della camera di consiglio il Collegio ha rilevato la possibile inammissibilità dell'appello in epigrafe, il quale - stando alla documentazione in atti - non risulta notificato o comunque non è stata depositata la prova della notifica ai sensi dell'art. 45, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo. Inoltre, dubbi sono emersi anche in ordine alla validità della procura alle liti, avendo l'appellante depositato la medesima procura rilasciata per il primo grado, nella quale tuttavia non sembra farsi cenno alla facoltà del difensore di proporre appello. Con ordinanza collegiale del 16 febbraio 2023 si è ritenuto, pertanto, riservata la decisione, di assegnare alla parte appellante, ai sensi dell'art. 73, comma 3, del codice del processo amministrativo, un termine di giorni 30, decorrente dalla notificazione o comunicazione in via amministrativa dell'ordinanza, per presentare memorie vertenti sulle predette questioni rilevate d'ufficio. 3. In data 15 marzo 2023, l'appellante ha adempiuto all'ordinanza collegiale depositando in giudizio la procura alle liti rilasciata per l'appello dal legale rappresentante della Fi. En.. Inoltre, ha depositato la prova dell'avvenuta notifica (effettuata via p.e.c.) del ricorso in appello. 4. Ciò premesso, alla luce della documentazione prodotta da parte appellante, l'appello è inammissibile per il mancato deposito, prima del passaggio in decisione della causa, della prova della notificazione del ricorso, secondo quanto previsto dall'art. 45, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo. A quest'ultimo proposito va rilevato che, alla stregua di quanto dispone l'art. 45, comma 3, l'adempimento dell'onere del deposito della prova dell'avvenuto perfezionamento della notifica del ricorso per il destinatario è indispensabile perché la domanda introdotta possa essere esaminata. Infatti, la parte che si avvale della facoltà di cui al comma 2 dell'art. 45 cit. (ossia del deposito del ricorso senza la prova dell'avvenuta notificazione) è tenuta a depositare la documentazione comprovante la data in cui la notificazione si è perfezionata anche per il destinatario. In assenza di tale prova le domande introdotte con l'atto di gravame non possono essere esaminate. La sanzione processuale è posta dal comma 3 dell'art. 45, che prescrive un esplicito divieto per il giudice di esaminare le domande processuali contenute in atti introduttivi in riferimento ai quali non sia stato comprovato il buon esito della notifica al destinatario entro il termine ultimo del passaggio della causa in decisione. Si deve ritenere che, a fronte della mancata costituzione in giudizio (entro il momento ultimo suddetto) della parte resistente o appellata, l'omessa produzione della prova della notifica, comportando la preclusione all'esame delle domande, comporti la inammissibilità dell'appello. 5. Non può essere riconosciuto, nel caso di specie, nemmeno l'errore scusabile e la conseguente rimessione in termini, sulla base della circostanza (allegata dall'appellante nella memoria del 15 marzo 2023) secondo cui "nel periodo dal 19 gennaio 2022 al 2 febbraio 2022, lo scrivente difensore si trovava in quarantena avendo contratto il Covid-19 (...). A causa della malattia, alcune attività, tra cui la notifica dell'appello effettuata in data 25.01.2022 e la formazione del fascicolo informatico, sono state svolte in smart working, (...) questo ha comportato involontariamente delle omissioni (...)". Come osservato, il deposito della prova della notifica dell'appello può intervenire fino al passaggio in decisione della causa; ossia, nel caso in esame, fino all'udienza pubblica del 22 settembre 2022. L'appellante, pertanto, ha usufruito di un ampio termine, dopo il periodo di malattia (che, secondo lo stesso difensore, si è concluso il 2 febbraio 2022), per provvedere al deposito. 6. In conclusione, l'appello va dichiarato inammissibile. 7. Nulla occorre disporre in ordine alle spese giudiziali del presente grado, data la mancata costituzione in giudizio delle parti appellate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Nulla per le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 settembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Anna Bottiglieri - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Gianluca Rovelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO nelle persone dei seguenti magistrati: dott.ssa Silvia Marina Ravazzoni - Presidente est. dott.ssa Benedetta Pattumelli - Consigliere dott.ssa Giulia Dossi - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza n. 152/22 del Tribunale di Busto Arsizio (est. dr.ssa Fedele), promossa da: (...), con gli avv.ti St.Bi. e St.Ba., elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Ba. in Besozzo (VA), via (...) PARTE APPELLANTE contro (...) SPA, con l'avv. Da.Za. elettivamente domiciliato presso il suo studio in 21100 - Varese (VA), Via (...), PARTE APPELLATA MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con sentenza n. 152/22 pubblicata il 27/04/22 il Tribunale Ordinario di Busto Arsizio, Sezione Lavoro, ha respinto il ricorso con il quale (...) chiedeva di accertare il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato intercorso con (...) spa nel periodo dal 1.1.2018 al 24.2.2021 con inquadramento nell'Ottavo Livello Quadro del CCNL tessili, di dichiarare la nullità del licenziamento e/o in subordine la nullità dello stesso per illegittimità della causa e conseguentemente condannare la predetta società al pagamento delle relative indennità di legge nella misura massima oltre all'obbligo di reintegro con pagamento delle mensilità maturate sino alla data della pronuncia giudiziale. Il Sig. (...) esponeva: - di essere stato dipendente della società (...) spa Italia dall'1/11/2013 al 31/12/2014; -di essere stato successivamente assunto- in qualità di General Manager nell'ambito dello sviluppo del settore Marketing- dalla (...) USA Corp. in North Carolina, controllata dalla (...) spa, per due anni, dal 2015 al 2017; - di essere stato richiamato in Italia e di aver lavorato per (...) spa dal 01/01/2018 al 31/12/2019 con la persistenza del contratto di dipendenza della controllata americana, e dal 07/01/2020 sino al 31/12/2020 con un contratto di consulenza aziendale, ma con l'intesa di trasformazione in contratto a tempo indeterminato per l'anno successivo; -da gennaio a fine febbraio 2021 senza alcun contratto fino alla data del licenziamento. Deducendo di aver prestato, sin dal 01/01/18 attività inquadrabile in un rapporto di lavoro subordinato in favore di (...) spa, all'VIII livello-quadro, e fornendo documentazione volta a dimostrare essenzialmente il suo stabile inserimento nell'organizzazione aziendale ( badge aziendale; organigramma che lo vedeva indicato nel settore vendite industriali; corrispondenza con la segreteria; mail di presentazione ai clienti da parte di personale dell'azienda; messaggi WhatsApp vari), in data 28/04/21 ha proposto ricorso. Costituitasi, (...) spa contestava in fatto ed in diritto quanto dedotto dal Sig. (...). Fallito il tentativo di conciliazione e omessa ogni attività istruttoria, il primo giudice, ritenendo la causa matura per la decisione, ha respinto il ricorso specificando che nessuno degli elementi documentali prodotti in giudizio dal ricorrente era adatto a fornire prova univoca del requisito della etero-organizzazione da parte del committente ex art. 2 D.Lgs. n. 81 del 2015 e, a maggior ragione, della subordinazione e che nessuno dei documenti prodotti era relativo all'anno 2018. In particolare, nella sentenza il giudice di prime cure ha esposto che: "non emerge in alcun modo che la società abbia definito tempi e modi della prestazione del ricorrente che risultava libero di organizzarsi per rendere il risultato richiesto. Non c'è un solo documento che evidenzi, al di là del raggiungimento dell'obiettivo, un vincolo in merito alle modalità di esecuzione della prestazione". A conferma di tale decisione ha precisato, inoltre, che le prove testimoniali indicate dal ricorrente, erano state dedotte su circostanze irrilevanti e non determinanti, mancando del tutto la necessaria delineazione delle concrete mansioni svolte da (...). Avverso la sentenza ha proposto appello il Sig. (...) insistendo in via principale per l'integrale riforma della sentenza di primo grado. L'appellante ha censurato la sentenza per i seguenti i motivi: - Per violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. con riferimento agli art. 2697 e ss. c.c. , errata valutazione delle risultanze di causa (...) contesta la mancanza totale di presa in considerazione da parte del giudice delle numerose produzioni documentali (tra l'altro mai contestate dalla società) dalle quali si evincerebbe in modo univoco che il rapporto di lavoro con la (...) spa, iniziato nel 2013 proprio come lavoro subordinato, era proseguito fino al febbraio 2021. Deduce che è fatto incontrovertibile che a far data dal 1.1.2018 è sussistente sia il vincolo della subordinazione che l'assenza di rischio economico; (...) è stato assegnatario di un'auto aziendale, un pc ed un telefono cellulare, un badge per la timbratura, una carta di credito ricaricabile ed un ufficio con una collaboratrice personale la quale a lui solo si riferiva per la richiesta di ferie, permessi e smart working. Evidenzia che lo stesso organigramma aziendale esposto in bacheca riportava esattamente la qualifica aziendale del dott. (...) quale responsabile nella casella "Vendite Industriali". Per quanto attiene poi la etero-organizzazione rileva che le prove documentali (e-mail e prove orali richieste in primo grado e non ammesse dal giudice) provano senz'altro che il dott. (...) operasse sempre e comunque nell'alveo degli obiettivi e dei clienti indicati dall'azienda a cui rispondeva e faceva capo. - Per violazione e falsa applicazione dell'art. 116, 421 e 437 c.p.c. con riferimento alle prove orali non ammesse L'appellante eccepisce la nullità per manifesta illogicità e contraddittorietà della decisione del giudice di primo grado di non ammettere le prove orali (tra l'altro con l'omissione di ogni riferimento alla richiesta di sottoporre ad interrogatorio il legale rappresentante della società) e la nomina del CTU necessario per far luce sui conteggi contestati dalla (...) Spa. - Le ulteriori domande C. contesta la statuizione contenuta nella sentenza "Il rigetto della domanda di accertamento della subordinazione assorbe ogni altra domanda formulata dal ricorrente" e reitera le domande proposte in primo grado e inevase dal giudice con la precisazione che la nullità/annullabilità del licenziamento rimane identica sia laddove si accolga la domanda principale con decorrenza del rapporto di dipendenza dal 1/1/2018 e sia la subordinata con decorrenza dal 1/1/2020. Rileva infatti che: se venisse dichiarata la NULLITA' del licenziamento orale e/o la mancanza di giusta causa/giustificato motivo, alla nullità consegue il diritto al pagamento dell'indennità massima di legge (non inferiore a 5 mensilità) oltre al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quella della sentenza che ordina il reintegro ovvero in alternativa, a 15 mensilità dell'ultima retribuzione come richiesto dall'art.2 D.Lgs. n. 23 del 2015 (pari a Euro 6.885,62 lorde al mese).; se venisse dichiarato l'ANNULLAMENTO stante la mancata esplicitazione del giustificato motivo per cui l'azienda ha inteso risolvere il contratto ad nutum, sempre secondo l'art.1 D.Lgs. n. 23 del 2015 con l'annullamento spetterebbero all'ex lavoratore tutte le indennità previste dal Jobs Act applicabile ratione temporis, ossia non meno di 6 mensilità oltre alle 3 mensilità di preavviso previste dal vigente CCNL. Anche in questo caso l'ultima retribuzione da prendere come parametro è quella pagata a titolo di consulenza mensile dalla società che ammonterebbe ad Euro 6.885,62 lorde al mese. Sull'inquadramento, le differenze retributive e previdenziali e le spettanze di fine rapporto Rileva l'appellante che il profilo professionale del dott. (...) ricade nella declaratoria dell'ottavo livello quadro CCNL tessili con paga lorda contrattuale (come meglio enunciata nei conteggi sviluppati dal consulente di parte) pattuita tra l'altro anche dallo stesso datore di lavoro nel contratto in essere al 1/1/2018 data del trasferimento in Italia del dipendente (e cioè Euro 6.885,62 lorde al mese x 13 mensilità per un totale di Euro 89.513,00 annuo). I crediti spettanti al Dott. (...) ammontano quindi a: - Euro 13.771,24 (gennaio e febbraio 2020) - TFR che varia nel suo ammontare in base alla decorrenza del rapporto di lavoro (da una a tre mensilità), - Tredicesime mensilità che varia nel suo ammontare in base alla decorrenza del rapporto di lavoro (da una a tre mensilità), - Euro 14.336,59 (Istituti di fine rapporto e indennità di preavviso pari a 3 mensilità in ragione del livello ed anzianità). - obblighi derivanti dal pagamento degli istituti previdenziali In data 08/09/2022 si è costituita in giudizio la (...) SPA chiedendo il rigetto delle domande avversarie e la totale conferma della sentenza impugnata in quanto completa ed esauriente ed immune da vizi di natura logica o giuridica. Questi i punti sottolineati dalla società: - Sul vincolo di subordinazione - esclusione Il rapporto lavorativo del Sig. (...) era caratterizzato dall'assenza degli indici tipici che caratterizzano la subordinazione, e, al contrario, connotato dalla possibilità, per lo stesso, di assentarsi senza dover giustificare la propria assenza, di presenziare quando credeva, di relazionarsi sia di persona che a mezzo di altri strumenti, di condurre le trattative per il rinnovo dei contratti con i clienti in autonomia e di coordinarsi con gli obiettivi aziendali, ma gestendo l'attività in maniera autonoma. Parte appellante (come da suo onere di legge) non prova le mansioni che allega, non prova la qualifica, né l'orario di lavoro svolto. Sul punto, infatti, ribadisce che il ricorso presentava evidenti carenze con riferimento alle allegazioni, in particolar modo a sostegno del rapporto di subordinazione invocato dal lavoratore. Al contrario, con riferimento alla messaggistica dallo stesso prodotta (in particolare i messaggi scambiati con il Sig. (...)) si evince la completa autonomia del (...) e la totale assenza di eterodirezione da parte del Sig. (...). Per quanto riguarda i capitoli di prova sottolinea l'irrilevanza degli stessi, oltre alla loro totale genericità ed inammissibilità, in quanto formulati in modo da limitarsi a comprovare il contenuto di un documento. Si porta ad esempio il capitolo "è vero che il dott. (...) lavorava sotto le sue direttive in Italia?": è generico e valutativo, formulato in violazione dell'art. 244 c.p.c., non individuando alcun fatto specifico -dato empirico, concreto- che il teste potesse confermare, ma solo rimandando al teste una valutazione propria. - Sulle prove istruttorie avversarie (documentali e orali) Sostiene la società appellata che le prove documentali prodotte da controparte sono del tutto generiche ed irrilevanti. In particolare (...) non allega e non prova: -l' eterodirezione. L'appellante, a supporto dell'asserita subordinazione, produce solamente la messaggistica intercorsa con il sig. (...) che indica quale suo superiore gerarchico, ma dalla lettura di tale messaggistica non si evince affatto la subordinazione/ l'eterodirezione del sig. (...), in essa non si leggono ordini, direttive, nessuna imposizione da parte del sig. (...), anzi, si evince l'ampia autonomia decisionale che il sig. (...) aveva nella gestione del lavoro e tali messaggi provano unicamente un semplice coordinamento tra consulente e vertice - l'orario di lavoro effettivo svolto. (...) non dimostra nemmeno di aver avuto un orario di lavoro da rispettare, caratteristica tipica del rapporto di lavoro subordinato, unitamente all'obbligo di presenza. Non rendeva nemmeno conto dei periodi di assenza: poteva da solo determinare la quantità e la collocazione temporale della prestazione lavorativa, i giorni di lavoro, quelli di riposo e il loro numero, senza obbligo di presenza, senza necessità di giustificazione -Benefit dallo stesso ricevuti e Badge aziendale: contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, (...) spa ribadisce l'irrilevanza degli stessi, in quanto trattasi di elementi che non si pongono in necessario contrasto con un rapporto di consulenza; -Collaboratrice a lui assegnata: La società deduce che la sig.ra (...) non era affatto alle dipendenze del sig. (...), ella era la figura che forniva supporto in azienda nell'ambito della logistica. La sig.ra (...), difatti, nella email doc 8 che il ricorrente produce, non chiede il permesso/l'autorizzazione, ma si limita a informarlo circa la propria assenza ("oggi ho bisogno di") e, al contempo, il sig. (...) non procede ad autorizzarla, ma si rivolge al Dott. (...). -Organigramma: è irrilevante che (...) fosse indicato nell'organigramma aziendale, in quanto la funzione dello stesso era meramente esplicativa delle funzioni espletate da ogni figura aziendale. -Visita medica aziendale: secondo l'appellata non è elemento utile ad individuare la subordinazione, ma semmai indicativo dell'esigenza dell'azienda di accertarsi che chi accedeva ai locali godesse di uno stato di salute consono alle attività da svolgere. -Conteggi: l'appellata contesta i conteggi in quanto assolutamente generici e basati su allegazioni non corrispondenti a verità. Deduce che l'odierno appellante avrebbe dovuto produrre le buste paga, mese per mese, anno per anno, ossia un conteggio basato sulla qualifica che assume essere corretta e sull'orario svolto. Invece, il sig. (...), errando, ha preso come parametro base di riferimento per formulare i conteggi la retribuzione per l'attività svolta all'estero, sulla base del pregresso rapporto di lavoro - prove orali: (...) spa difende la decisione del giudice di prime cure relativa alla non ammissione delle stesse. I capitoli di prova prodotti da controparte sono da parte appellata definiti errati nella loro formulazione e pertanto in tale si oppone alla loro ammissione. All'udienza del 19 gennaio 2023, all'esito della discussione delle parti, la causa è stata decisa come da dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza. L'appello è infondato e va rigettato, con conseguente conferma della sentenza n. 158/22 del Tribunale di Busto Arsizio Per quel che attiene al primo motivo di impugnazione, giova rammentare che perché sussista un rapporto di lavoro subordinato occorre "la prova dell'eterodirezione della prestazione lavorativa, ossia della soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che necessariamente implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro, mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprieenergie lavorative ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui" (CDA Milano, est. dr.ssa Dossi sent. n.1918/2018) È quindi necessaria "una messa a disposizione delle energie lavorative e l'inserimento dell'attività della persona nell'organizzazione aziendale, con assoggettamento alle direttive e al potere disciplinare del datore" (Cass. Civ., Sez. Lav., 13 ottobre 2010, n. 21152). Secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, "l'elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa ? quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell'attività lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi - come l'assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. n. 7171/2003)" (così, tra le più recenti, Cass. 14 giugno 2018, n. 15631). La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che la "subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato" costituisce il principale elemento di caratterizzazione del rapporto di lavoro subordinato, ..." (Cass. Sez. L, 27.02.2007) La verifica circa la sussistenza di un obbligo di presenza e di un obbligo di rendere la prestazione lavorativa, al pari dell'assoggettamento ai poteri di controllo del preteso datore di lavoro, sono passaggi imprescindibili del procedimento logico-giuridico che porta alla qualificazione di un determinato rapporto in termini di autonomia o subordinazione. L'onere della prova sul punto era posto a carico del solo odierno appellante che non lo ha soddisfatto. Rileva in particolare il Collegio che (...) non ha allegato specifiche circostanze di fatto dalle quali possa fondatamente desumersi che le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa asseritamente resa in favore di (...) s.p.a. siano riconducibili alla tipologia del rapporto di lavoro subordinato. Quanto alla documentazione prodotta a sostegno della tesi della natura subordinata del rapporto, deve rilevarsi quanto segue. Il doc 3 (biglietto da visita) indica solo la qualifica attribuita a (...) "sales manager", ma nulla prova in ordine alla natura autonoma o subordinata del rapporto. I doc da 5 a 7 si riferiscono ai cd benefits attribuiti a (...) (auto, carta aziendale prepagata, badge,) ma non sono indicativi di un rapporto subordinato in quanto possono essere assegnati ai collaboratori. Il doc 8 contiene alcune comunicazioni inviate via mail dalla sig.ra (...) a (...) ma non sono indicative di un rapporto gerarchico tra i due. Al contrario le ultime due mail provano che la sigra (...) riportava sotto il profilo gerarchico al dott. (...) e non a (...): si legge infatti nella mail in data 9.11.2020 inviata da (...) a (...) (...) Dott. (...). Vorrei chiedere se possiamo autorizzare per la Sig.ra (...), visto il particolare momento, 4 giorni di Smart Working e 1 presenza ufficio. Il doc 9 è l'organigramma di (...) spa e riporta la posizione di (...) quale addetto alle vendite industriali, con riporto alla Direzione Generale. E' un dato di per sé neutro, che non individua la natura del rapporto di lavoro, ben potendo tale ruolo essere ricoperto sia da un dipendente sia da un lavoratore autonomo. Il doc 12 contiene messaggi whatsapp tra l'appellante e il sig. (...), direttore generale. In questi messaggi non si rinvengono tuttavia ordini specifici e direttive di un superiore. Il tono è sempre colloquiale, tipico di persone che lavorano insieme ma privo di imposizioni. Ricorrono espressioni di questo tipo: come va?", "buongiorno, oggi riusciamo a vederci per ?.? "possiamo parlare", "tutto ok?", "novità?", ma anche "oggi fate voi poi io passo a salutare", "mi tel quando vuole", "come vanno i progetti?", "come mai il fatturato 2019 più basso del 2018?", "quando ci vediamo?", "a che punto èla linea?", "cosa richiede la linea baby?", "ottobre mi sembra basso come mai?", "come vanno le nuove iniziative?", "SE ha bisogno ci sono", "come procediamo?" Occorre tuttavia anche evidenziare che vi sono messaggi che apertamente contrastano con il dedotto rapporto gerarchico "B. riusciamo a vederci alle 17 con il cavaliere per quella opportunità nella detergenza? Se vuole ci possiamo vedere prima io e lei così le espongo il progetto . Saluti D." In conclusione, certamente i documenti non costituiscono prova della dedotta eterodirezione. Allo stesso modo, le prove testimoniali offerte non presentano allegazioni specifiche in ordine alle modalità di esecuzione della prestazione, all'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, al potere direttivo e gerarchico esercitato dal datore di lavoro. Si tratta in prevalenza di richieste a conferma della documentazione illustrata, inidonee a dimostrare la natura subordinata del rapporto di cui si controverte, sicché appare incensurabile la decisione del primo giudice di non ammettere i mezzi istruttori articolati nel ricorso ex art. 414 c.p.c., in quanto aventi ad oggetto circostanze irrilevanti o non determinanti. Le circostanze capitolate a prova, infatti, risultano prive di efficacia dimostrativa in ordine all'elemento essenziale dell'assoggettamento dell'appellante all'altrui potere direttivo, organizzativo e disciplinare e comunque inidonee ad asseverare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti. Esclusa la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, il Collegio condivide le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale relativamente alla insussistenza nella fattispecie anche di un rapporto di collaborazione riconducibile al disposto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 81 del 2015, a far data dall' 1.1.2018. La Suprema Corte ha statuito che "ai rapporti di collaborazione di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, in un'ottica sia di prevenzione sia rimediale, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell'apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi. In tema di rapporti di collaborazione ex art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, ai fini dell'individuazione della nozione di etero-organizzazione, rilevante per l'applicazione della disciplina della subordinazione, è sufficiente che il coordinamento imposto dall'esterno sia funzionale con l'organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione predisposta dal primo, inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, costituendo la unilaterale determinazione anche delle modalità spazio-temporali della prestazione una possibile, ma non necessaria, estrinsecazione del potere di etero-organizzazione" (Cass. 24.1.2020, n. 1663). Secondo la Cassazione, quindi, si deve ritenere che possa essere ravvisata etero-organizzazione rilevante ai fini dell'applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa". Questa caratteristica, imposta dall'esterno, identifica la fattispecie della etero-organizzazione e di conseguenza l'applicazione "piena" delle tutele del lavoratore. Nella fattispecie, il Collegio condivide le puntuali osservazioni del primo giudice, il quale ha evidenziato che "Non emerge in alcun modo che il committente abbia definito tempi e modi della prestazione del ricorrente che risultava libero di organizzarsi per rendere il risultato richiesto. Non c'è un solo documento che evidenzi, al di là del raggiungimento dell'obiettivo, un vincolo in merito alle modalità di esecuzione della prestazione. La facoltà di usufruire della struttura aziendale, ivi compresa la segreteria, era già riconosciuta in contratto e non è stato in alcun modo provato che la presenza in azienda del ricorrente fosse frutto di una richiesta specifica del committente (sanzionata in caso di assenza) invece che di una scelta organizzativa dello stesso consulente. L'utilizzo di beni aziendali, auto, cellulare ecc. è elemento di per sè neutro in assenza di ulteriori indici; peraltro nel contratto del 2020 è previsto solo il rimborso spese." Per le ragioni esposte l'appello va respinto con integrale conferma della sentenza impugnata. Le spese di lite del grado seguono la soccombenza e si liquidano in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 147 del 2022 nella misura di cui al dispositivo, oltre rimborso forfettario per spese generali (15%) ed oneri di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della reclamante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. Respinge il ricorso; condanna l'appellante a rimborsare alla controparte le spese di lite del grado che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre oneri accessori di legge e spese forfettarie al 15%; ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. Così deciso in Milano il 19 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2023.
LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA LIGURIA Composta dai seguenti magistrati: ROSATI dott.ssa Emma Presidente relatore BENIGNI dott. Alessandro Consigliere DEL POZZO dott.ssa Adriana Referendario ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio di responsabilità rubricato al n. 21238 del Registro di Segreteria ad istanza della Procura regionale nei confronti del sig. VE. GI., rappresentato e difeso dall’avv. BA. MA. del Foro di GENOVA, presso il quale è elettivamente domiciliato, presso il suo Studio sito in GENOVA, alla (…); VISTO l’atto di citazione, datato 30 giugno 2022 e tutti gli altri atti e documenti di causa; UDITI alla pubblica udienza del giorno 26 gennaio 2023: il relatore, Presidente dott.ssa Emma ROSATI, il pubblico ministero, Sostituto Procuratore generale dott.ssa Simona DESI, nonché l’avvocato difensore del sig. Gi. VE., avv. Ma. Ba.; RITENUTO IN FATTO La Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale con l’atto di citazione in epigrafe esponeva in fatto che in data 03 Dicembre 2020 (prot. n. 4036/2020) perveniva comunicazione di una notizia di danno da parte della Guardia di finanza, Tenenza (Omissis), in relazione ad un’ipotesi di danno erariale per indebita erogazione di buoni spesa, avvenuta nell’anno 2020, da parte del signor Gi. Ve., responsabile dell’ufficio dei servizi sociali del Comune di (Omissis) (Savona). Si trattava di una sussistenza economica prevista e disciplinata dall’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento PROTEZIONE CIVILE) n. 658 del 29 marzo 2020, emanata al fine di mitigare gli effetti negativi derivanti dalla situazione emergenziale correlata all’epidemia di COVID 19 per situazioni in stato di bisogno. Secondo quanto accertato dai militari della GdF, i buoni venivano concessi irregolarmente, senza alcun controllo da parte del responsabile dell’area socio-assistenziale che, ai fini dell’erogazione, si limitava alla verifica della sola residenza all’interno del Comune di riferimento dei richiedenti, omettendo ogni accertamento circa la situazione patrimoniale dei richiedenti medesimi, il loro effettivo stato di bisogno e senza alcuna verifica circa la contestuale percezione di altri sussidi. Ancora, secondo la Procura, molte istanze si presentavano come compilate in bianco o riportavano dati palesemente alterati. In particolare, veniva accertato che l’unica verifica espletata sulle domande dagli uffici amministrativi aveva avuto riguardo alla residenza nel Comune di (Omissis) (le uniche istanze, infatti, non ammesse al beneficio erano le 26 - su 422 presentate - scartate dal Comune per mancanza del requisito della residenza). Le restanti 396 domande, in tesi accusatoria, in assenza di qualsivoglia controllo, venivano ammesse alla fruizione del beneficio. Nel dettaglio, fra tutte le domande ammesse al beneficio (396) del buono spesa, n. 171 erano risultate, all’esame della GdF, compilate in bianco o incomplete, per mancata compilazione delle voci proposte (composizione nucleo familiare, percezione di altri sussidi, mancanza di indicazione del conto corrente, mancanza di indicazione del mutamento della condizione economica). In relazione alle risultanze istruttorie la Procura regionale avendo ravvisato un’ipotesi di responsabilità amministrativa nei confronti del sig. Ve. Gi., aveva emesso invito a fornire deduzioni, ai sensi dell’articolo 67 del Codice della giustizia contabile, notifcato in data 08.04.2022. In data 23.05.2022 pervenivano le deduzioni difensive dell’invitato, con le quali egli sostanzialmente rappresentava l’assenza di un proprio comportamento negligente. La Procura regionale, esaminate le deduzioni difensive, riteneva tuttavia sussistenti tutti gli elementi costitutivi della responsabilità per danno erariale in capo al medesimo Ve., nonché i relativi elementi probatori per la contestazione di detta responsabilità in giudizio e con l’atto di citazione in epigrafe ha chiamato in giudizio il dott. VE.. Con articolata Memoria del 3 gennaio 2023, l’avvocato difensore del dott. Ve. si costituiva in giudizio ed eccepiva in diritto una serie di argomentazioni, previo inquadramento funzionale del Ve., nell’ambito del Comune di (Omissis), ove rivestiva fin dal 2014 il ruolo di titolare dell’Area socio assistenziale nonché di Direttore del Distretto sociosanitario n. 6 delle Bormide; ma egli vantava già una precedente esperienza nel settore socio sanitario, avendone rivestito il ruolo di responsabile fin dal 1999, dapprima nel Comune di Finale Ligure poi nel Comune di Sanremo e da ultimo nel Comune di (Omissis), ove, con Determina dirigenziale n. 14106/2021 del 30 giugno 2021, il Dirigente rinnovava l’incarico in detto settore al Dott. Ve. medesimo fino al giugno 2023. Il difensore ha sottolineato come l’odierno convenuto, munito di laurea in sociologia, fosse Sociologo professionale, iscritto presso la Società italiana di sociologia, Sezione Liguria. Egli, pertanto, sarebbe sicuramente in possesso di specifica capacità professionale nell’ambito dell’assistenza socio-sanitaria, acquisita attraverso esperienze di lavoro ultrannuali che gli consentirebbero di gestire con la massima competenza il delicato settore. Ciò premesso, la vicenda di cui trattasi, a parere del difensore, sarebbe caratterizzata da profili di estrema delicatezza che riguardano una platea di soggetti bisognosi di sostegno economico, versando in condizioni sociali e culturali spesso carenti e quindi bisognevoli di attenzioni particolari da parte del Comune, onde migliorarne il regime di vita. Tutto questo, a parere del difensore, potrebbe rischiare di sfuggire a chi, come la Guardia di Finanza, è incaricato di svolgere una indagine all’unico fine di verificare la correttezza della gestione dei contributi sotto un profilo meramente formale e giuridico, prescindendo dagli aspetti socio-sanitari-economici che invece caratterizzano la platea dei potenziali utenti dei benefici di cui trattasi. Secondo il difensore, la Procura regionale, condividendo in maniera del tutto acritica il rapporto della Guardia di finanza, ha finito per considerare a livello normativo anche mere note di indirizzo dell’Anci e modelli di domanda privi di intrinseca obbligatorietà; in tal modo costruendo i presupposti, invero inesistenti per il difensore, per dimostrare il comportamento, quantomeno gravemente colposo del dott. Ve.. La difesa ritiene errata l’interpretazione che il P.M. contabile riporta in citazione con riferimento al quadro normativo vigente all’epoca dei fatti, in quanto richiamerebbe solo alcuni contenuti dell’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 658 del 29 marzo 2020, tuttavia, non terrebbe presenti anche ulteriori disposizioni contenute nell’Ordinanza di cui trattasi, in particolare, talune ‘deroghe normative’, con riferimento alle spettanze del 2020, che - unitamente a quella richiamata anche nell’atto di citazione, relativa all’inapplicabilità delle regole di cui al codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 50/2016) - delineerebbero bene l’eccezionalità del momento storico emergenziale. Al Comune di Cairo-Montenotte erano stati destinati fondi nella misura di € 75.317,29. A seguito delle istruttorie condotte per esaminare le domande presentate, l’Ufficio facente capo al Dott. Ve. ne ammise 396 e erogò provvidenze economiche per un valore pari a €. 72.540,00, conseguendo in tal modo un risparmio di spesa rispetto agli impegni. Ciò si rese possibile, perché l’Ufficio ottenne degli sconti dai fornitori. A parere del difensore, il Ve. avrebbe eseguito correttamente quanto previsto dall’art. 2 comma 6 dell’Ordinanza citata, secondo cui “l’ufficio dei servizi sociali di ciascun Comune individua la platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID 19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”. Secondo il difensore perciò il Ve. non avrebbe arrecato alcun tipo di danno all’erario per avere comunque erogato il previsto contributo ad una platea di cittadini, residenti tutti e in ogni caso bisognevoli di aiuto economico. Il difensore ha contestato quindi l’assunto dell’Attore pubblico che ravviserebbe il danno nell’importo di € 31.780,00, derivante dalla sommatoria delle erogazioni sottoforma di buoni spesa fatte in favore di 171 beneficiari i quali, ad avviso della G.d.F., condiviso dal P.M. contabile, avrebbero tuttavia compilato le domande in maniera irregolare e quindi non avrebbero avuto alcun diritto a percepire il “bonus” di cui trattasi. Tale conclusione attorea non convince la difesa, laddove si darebbe per scontato che l’irregolare compilazione comporti automaticamente che il richiedente non abbia i requisiti prescritti dall’Ordinanza, nel senso che non rientri nel novero di quei soggetti “più esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID 19 e tra quelli in stato di bisogno”. Sostanzialmente, a parere della difesa, né la G.d.F. né il P.M. contabile darebbero dimostrazione della carenza dei requisiti in capo ai 171 richiedenti di cui alle domande contestate. La difesa si è soffermata poi in particolare, a titolo di esempio, su 23 domande (per un totale di 5.000,00€), quelle di cui ai nn. 13, 41, 47, 49, 57, 68, 71, 76, 81, 87, 97, 98, 101, 111, 125, 137, 138, 139, 140, 142, 143, 146 e 162 dell’elenco contenente le 171 domande irregolari, per le quali le specificazioni di irregolarità riguarderebbero in generale l’omissione dello stato di dipendente, ovvero l’avere percepito la NASPI ovvero ancora lo stato di dipendente di alcuni familiari, ma che sarebbero tutte legittime; e inoltre anche altre 7 domande, ritenute irregolari in quanto totalmente in bianco (le nn. 19, 38, 40, 69, 95, 99, 148), per un totale di € 1.600,00, sarebbero tutte legittime anch’esse, posto che, in generale, le motivazioni di esclusione non sarebbero riferite alla mancanza dello stato di bisogno, ma avrebbero carattere meramente formale di errore o incompletezza nella compilazione della domanda. Secondo la difesa, il P.M. contabile, limitandosi a seguire in maniera pedissequa quanto segnalato dalla G.d.F. avrebbe omesso qualsivoglia istruttoria idonea a dare dimostrazione che i buoni spesa in questione sono stati erogati a soggetti non in stato di bisogno, desumendo erroneamente tale inidoneità soltanto dall’irregolarità formale delle relative istanze, per lo più compilate da soggetti ignoranti o poco istruiti. L’atto di citazione perciò non conterrebbe alcun elemento idoneo a dare dimostrazione del danno; peraltro, le erogazioni effettuate dall’Ufficio dei servizi sociali di (Omissis) sarebbero in realtà tutte correlate ad un effettivo stato di bisogno della platea dei richiedenti e l’importo complessivo erogato rientrerebbe interamente nelle risorse messe a disposizione per tale scopo. La difesa di parte si è poi dilungata, anche con citazioni conformi della giurisprudenza d’appello di questa Corte, sulla mancanza anche dell’elemento soggettivo della responsabilità in capo al Ve., carente di dolo e colpa grave. Si è rilevato in proposito come l’Ufficio facente capo al dott. Ve. si rivelò, in quella contingenza, della massima efficienza nel portare a termine l’obiettivo del Governo di assicurare un immediato sostentamento economico a persone in precarie condizioni economiche. Nel caso in esame, perciò, non potrebbe parlarsi di inosservanza del minimo di diligenza, in considerazione della tempestiva organizzazione approntata dal dott. Ve. per far fronte ad una situazione caratterizzata da oggettive ed eccezionali difficoltà operative. La difesa ha chiesto conclusivamente l’assoluzione del Ve. da ogni addebito, con rigetto dell’atto di citazione, avendo egli sempre agito con perizia e prudenza nell’adempimento del proprio dovere, a maggior ragione in quel periodo emergenziale. L’atto di citazione sarebbe perciò infondato, attesa la mancanza di qualsivoglia elemento che faccia sussistere nei confronti del suo assistito alcuna ipotesi di responsabilità, in relazione ai fatti di cui trattasi; in primis, per insussistenza del danno e inoltre, perché il comportamento assunto dal medesimo non può essere ritenuto gravemente colposo, tenuto conto delle circostanze che caratterizzarono lo svolgimento dei fatti. Ha richiamato infine l’attenzione sulla “relazione complessiva” che il dott. Ve. ha messo a disposizione degli Organi comunali (in atti) al fine di illustrare sia gli adempimenti svolti, sia i bonus erogati ai richiedenti e sia le analitiche motivazioni che hanno indotto l’Ufficio a consentire le erogazioni. In subordine ha chiesto la rideterminazione del quantum del danno risarcibile decurtando gli importi indicati nella Memoria e in ogni caso di esercitare il potere riduttivo, nella misura più ampia possibile, ai sensi degli artt. 1, comma 1 bis, L. n. 20/1994 e 52 R.D. n. 1214/1934. All’odierna udienza pubblica le parti hanno illustrato i rispettivi atti scritti, ulteriormente argomentando e concludendo in modo conforme ad essi. La causa è stata quindi trattenuta in decisione. CONSIDERATO IN DIRITTO La fattispecie all’esame del Collegio riguarda le risorse per la c.d. ‘solidarietà alimentare’ che il Governo previde quale primo intervento emergenziale introdotto nella fase di esordio della pandemia da COVID 19, con l’intento di finanziare aiuti diretti da parte dei Comuni italiani ai nuclei familiari più bisognosi. In proposito il Collegio ritiene di dover subito precisare che tutta la serie di normative emergenziali entrate in vigore nel momento storico contingenziale della pandemia da virus Covid 19 (soprattutto nel corso dell’anno 2020) sono evidentemente caratterizzate in generale da urgenza e pronto intervento nei settori della vita sociale più colpiti dalla pandemia e particolarmente attenzionati dal Governo Italiano, per i quali le medesime sono state di volta in volta dettate. Quanto al caso di specie, riguardante, come detto, la problematica inerente la necessaria solidarietà emergenziale alimentare in quel periodo di pandemia, rilevante soprattutto a livello locale, va rappresentato che a tal proposito, con Ordinanza della Presidenza del consiglio dei Ministri-Dipartimento della Protezione civile n. 658 in data 29 marzo 2020, fu disposto il trasferimento di 400 milioni di euro in favore dei Comuni italiani, per fronteggiare l’emergenza alimentare legata alla pandemia da COVID 19: detta Ordinanza autorizzava ciascun Comune all’acquisizione in deroga, rispetto alle ordinarie procedure prescritte dal Decreto Legislativo n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici), di ‘buoni-spesa’ utilizzabili per gli acquisti di generi alimentari, presso esercizi convenzionati, indicati in apposito elenco pubblicato da ciascun Comune sul rispettivo sito istituzionale ovvero all’acquisto di generi alimentari di prima necessità. L’articolo 2, 6° comma dell’Ordinanza citata disponeva in particolare che “l’ufficio dei servizi sociali di ciascun Comune individua la platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID 19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”. La stessa Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 658 del 29 marzo 2020 prevedeva ulteriori disposizioni di dettaglio, onde rendere più agili le procedure amministrative sottese alla elargizione dei benefici de quibus, e segnatamente quelle sull’inapplicabilità delle sanzioni di cui all’articolo 5, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 e quelle di cui all’articolo 161, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, con riferimento alle spettanze del 2020. Tali deroghe - unitamente a quella relativa all’inapplicabilità delle regole di cui al codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 50/2016) - delineano bene l’eccezionalità del momento emergenziale che si viveva e del conseguente, urgente, intervento del Governo in carica per sostenere la popolazione colpita dagli eventi correlati al Covid-19, onde mitigarne l’impatto. Tanto premesso, è convinzione del Collegio che la normativa de qua ha disposto nel senso di dare priorità ai soggetti non già assegnatari di altro sostegno pubblico, ma non vieterebbe affatto – ferma restando tale priorità – di annoverarli tra coloro che fossero meritevoli del contributo, ovviamente a condizione che si tratti di nuclei familiari esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza e di soggetti in stato di bisogno. Ciò doveva comportare conseguentemente, in generale, un necessario snellimento delle procedure amministrative rispetto alle norme più stringenti, dettate in condizioni di normalità, onde realizzare interventi efficaci e tempestivi e non potrebbe non riguardare anche le procedure attinenti all’individuazione e all’erogazione dei contributi in concreto previsti per far fronte a situazioni di bisogno alimentare in periodo pandemico, ferma restando l’appartenenza alla categoria di soggetti versanti in precarie condizioni economiche familiari e comunque in stato di bisogno: fatto che peraltro sembra risultare incontroverso per il Comune di Cairo-Montenotte, dagli atti acquisiti. Come risulta altresì dall’allegato all’Ordinanza presidenziale de qua, al Comune di Cairo-Montenotte sono stati destinati fondi nella misura di € 75.317,29; risulta inoltre in atti che L’Ente, prima di procedere all’erogazione, aveva assunto un impegno di spesa pari a € 70.000,00; successivamente, in considerazione delle richieste pervenute, previa variazione di bilancio, lo aveva aumentato a €. 75.317,29, vale a dire pari allo stanziamento ricevuto secondo la Delibera della G.M. n. 42/2020 e le Determine di impegno n. 283/2020; n. 293/2020; n. 424/2020; n. 872/2020. Ciò rappresentato, non sembra errare la difesa di parte quando precisa che non avere predisposto una “graduatoria” dei richiedenti il sussidio, specificando i casi di priorità, si sarebbe potuto risolvere in una effettiva irregolarità, suscettibile di qualificazione dannosa, soltanto nel caso in cui taluno dei richiedenti, in rapporto con le risorse disponibili, fosse stato escluso. Ma ciò non si sarebbe, in fattispecie, verificato, per cui l’ipotesi accusatoria appare priva di giuridico fondamento. Neppure emergerebbe dalle circostanze addotte dalla Procura attrice che taluni richiedenti, seppure aventi caratteristiche prioritarie, siano stati posposti rispetto ad altri soggetti ritenuti non prioritari. A ciò, deve aggiungersi che, in sede di liquidazione dei buoni spesa in favore dei negozianti convenzionati, sono stati conseguiti, in effetti, risparmi, ottenendosi degli sconti, nella misura di €. 2.777,29. Orbene, il fatto che talune domande abbiano presentato profili di irregolarità formale non significa necessariamente che i relativi richiedenti non versassero in quelle precarie condizioni di bisogno per vedersi negato il beneficio. A ben guardare si tratta infatti di mere irregolarità nella compilazione delle domande che non postulano necessariamente quale corollario che esse abbiano i connotati di illiceità che le renderebbero foriere di danno erariale, posto che la Procura regionale non ha fornito alcuna dimostrazione che le intenzioni dei compilatori fossero nel senso di trasmettere dati non veritieri. Il Collegio ritiene peraltro inconferente il riferimento alle omissioni contestate ‘alla luce del modello di domanda predisposto dall’ANCI’ e utilizzato dall’Ente. In proposito va rammentato come l’ANCI, a meri fini di uniformità, evidentemente, abbia ideato e diffuso il modello da compilare per l’ottenimento di ridetti benefici e che in ogni caso esso non può avere alcun valore vincolante, né per l’amministrazione comunale né per lo stesso soggetto residente compilante, in stato di bisogno che, in ipotesi, avrebbe potuto anche presentare domande liberamente compilate. Ciò che invece sembra rilevare in fattispecie è solo l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio e le sue prescrizioni, in base alle quali l’erogazione del beneficio andava effettuata a prescindere da formalità prestabilite, dovendosi evidentemente privilegiare l’aspetto della “solidarietà alimentare” nei confronti della popolazione residente più bisognosa di aiuti, in un contesto, quale quello emergenziale dovuto al covid-19 che mal si concilierebbe con rigide procedure burocratiche, specialmente laddove si consideri che la platea dei beneficiari era caratterizzata da soggetti, anche stranieri, con scarsa (o alcuna) capacità di leggere e/o di comprendere un testo e/o con un livello di istruzione minimo, se non, addirittura, assente. Per una esigenza di uniformità, lo si ripete, L’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) diramò anche alcune note d’indirizzo (nota di indirizzo ANCI n. 30/VSG/SD del 30 marzo 2020) con il modello della domanda (Autodichiarazione per la richiesta di contributo alimentare) finalizzata all’ottenimento dei benefici de quibus, che i richiedenti dovevano compilare, ma rimaneva comunque ferma la discrezionalità degli enti locali non prescrivendo, l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio, alcun obbligo giuridico di approvazione di atti d’indirizzo da parte della Giunta comunale, in merito alla individuazione dei criteri per la platea dei beneficiari dei sussidi de quibus. Era perciò diretta competenza dell’Ufficio dei servizi sociali di ciascun Comune individuare la platea dei beneficiari (e il relativo contributo) tra i nuclei familiari, residenti, più esposti agli effetti perniciosi derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus COVID 19 e tra quelli in stato di bisogno, senza alcuna procedura vincolante ma dando unicamente priorità a quelli – tra i residenti – che non fossero anche intestatari di alcun altro sostegno economico (RDC, REI, NASPI, indennità di mobilità, cassa integrazione guadagni o altre forme di sostegno previste a livello locale o regionale). La normativa di riferimento perciò non prevedeva alcuna particolare formalità procedurale (e non poteva prevederla, atteso lo stato di pandemia e la necessità di dettare norme di tempestiva attuazione) atta ad individuare la platea dei soggetti bisognosi del sussidio de quo né prescriveva specifici criteri, limitandosi a determinare la finalità del sussidio economico e la sussistenza dello stato di bisogno, correlata alla pandemia da COVID 19 e specificando solamente la necessità di dare priorità a coloro che già non fruissero di altre forme di sussidio. Tanto considerato, il Collegio ritiene che l’Ordinanza di cui si discute abbia voluto privilegiare senz’altro l’aspetto della solidarietà alimentare in un contesto, quale quello emergenziale, vissuto soprattutto nell’anno 2020, dovuto alla pandemia da COVID 19, che mal si concilierebbe con la previsione di rigide regole e procedure burocratiche farraginose, dovendo incidere tempestivamente ed efficacemente su una platea di cittadini versanti in stato di bisogno, per cui l’erogazione del beneficio alimentare andava effettuata a prescindere da rigide formalità prestabilite. In fattispecie, il Collegio ritiene che sia sufficiente – onde valutare la correttezza del lavoro degli uffici diretti dal dott. Ve. – avere opportuno riguardo ad alcune date: - 30 marzo 2020, deliberazione n. 42 adottata dalla Giunta comunale per prendere atto della necessità di “procedere con massima urgenza alla variazione di bilancio per consentire di finanziare le azioni occorrenti all’utilizzo del contributo assegnato dalla Presidenza del Consiglio Dei Ministri e così procedere alle misure di contrasto Covid 19”; - 6 aprile 2020, avviso pubblico con scadenza alle ore 18, per avere manifestazioni di interesse alla fornitura di buoni spesa da parte di esercenti commerciali siti nel territorio di (Omissis); - 9 aprile 2020, determinazione n. 283 adottata dal dott. Ve., avente per oggetto: “Sostegno alimentare per l’acquisto di generi di prima necessità per i nuclei familiari colpiti dall’emergenza epidemiologica Covid 19”, con cui venivano accreditati diversi esercizi commerciali alla realizzazione del servizio di sostegno alimentare nei confronti dei cittadini in difficoltà economiche. Nel corso poi dei mesi di aprile, maggio e giugno 2020 venivano raccolte, esaminate e liquidate n. 376 domande su 402 pervenute da altrettanti nuclei familiari richiedenti il contributo. Ciò comportò che nel termine di 90 giorni il Comune di Cairo-Montenotte e per esso il servizio socio-sanitario retto dal dott. Ve. desse completa esecuzione a quanto disposto in via di urgenza dall’Ordinanza della Protezione Civile. Il tempestivo, doveroso e necessario adempimento è stato di fatto possibile soltanto riducendo al minimo le formalità procedurali e valorizzando, invece, l’apporto della conoscenza personale degli addetti al servizio socio-sanitario comunale nei confronti della popolazione residente e richiedente gli aiuti economici. In un contesto storico – quale quello che recentemente abbiamo vissuto – caratterizzato dal dilagare dell’epidemia da Covid 19, che, soprattutto all’inizio, appariva sconosciuta e assai nefasta, era necessario prevedere l’adozione in ambito lavorativo del c.d. ‘smart working’, ma appariva altresì necessario adottare procedure eccezionali e celeri per assicurare – così come risulta abbia fatto il servizio socio-sanitario di (Omissis) - anche la massima presenza del personale in servizio - trattandosi di servizi essenziali – ritenuta necessaria, proprio per monitorare personalmente la gestione delle domande presentate dalle persone bisognose di aiuto, al fine di rendere tempestivamente disponibili i buoni spesa, erogati grazie allo stanziamento della Protezione Civile e venire in aiuto alla popolazione più bisognosa. Risultò in particolare che, nel periodo in questione, il personale dell’Area socio-assistenziale di quel Comune si alternava in presenza ogni settimana per garantire la continuità assistenziale, svolgendo l’istruttoria relativa alle richieste, avvalendosi non soltanto dei dati contenuti nelle istanze, ma integrandoli mediante ulteriori elementi desumibili dalle banche dati, relazioni sociali, conoscenza diretta della popolazione bisognosa onde poter verificare altra documentazione già in possesso dei servizi socio-assistenziali medesimi e fare un controllo incrociato. L’esame formale del contenuto della domanda (adottata secondo il modello suggerito dall’Anci) non era dunque l’unica modalità per espletare l’istruttoria e pervenire al suo accoglimento, atteso che l’esito della stessa doveva essere evidentemente altresì fondato su una serie di conoscenze personali e di altri elementi già in possesso del Servizio in base ai quali era possibile appurare il diritto ad ottenere il contributo da parte della cittadinanza bisognosa. Peraltro, trattandosi di Comune di medio-piccola dimensione (poco più di 13.000 abitanti), è del tutto ragionevole presumere che i nuclei familiari versanti in stato di grave disagio economico fossero conosciuti nel contesto sociale e da parte degli uffici dell’area socio-sanitaria-assistenziale del Comune di (Omissis). Del resto – come anche ribadito condivisibilmente in pubblica udienza dall’avvocato difensore e come risuta in atti – dalla disamina delle domande tese ad ottenere il ridetto beneficio emerge - contrariamente all’assunto della Procura regionale, che ha negato ogni tipo di controllo - che le domande medesime furono vagliate e controllate, prima di accordare il beneficio de quo: basti vedere, a conferma, in particolare, all., sub C, alla Relazione complessiva sul rilascio dei buoni spesa COVID 19 (marzo-maggio 2020) redatta dal Responsabile dell’Area Servizi socio-assistenziali del Comune di (Omissis), in atti. Alla luce di quanto sopra esposto, avuto particolare riguardo alla contingenza storica in cui è maturata la vicenda de qua, caratterizzata dall’emergenza epidemiologica da Covid 19, considerata altresì l’esigenza di assicurare l’aiuto economico con la massima celerità ai nuclei familiari più bisognosi, tanto che l’Ordinanza della Presidenza del consiglio non prescriveva particolari procedure amministrative, sembra emergere, a parere del Collegio, con evidenza, l’insussistenza di qualsivoglia colpa, tanto meno di colpa grave, in capo all’odierno convenuto, che si adoperò invece con efficienza onde poter fornire alla popolazione più bisognosa l’aiuto economico di cui aveva bisogno; risulta peraltro altresì difficile, a parere del Collegio, poter individuare persino un danno erariale nella vicenda de qua, atteso che, non può senz’altro evincersi da una irregolarità formale della compilazione delle domande, una illiceità, foriera di danno erariale, senza averne dato minimamente dimostrazione, né può dirsi che non si sia in fattispecie rispettato il principio della priorità da dare alle domande di coloro che non fossero beneficiari di altre provvidenze assistenziali, posto che – una volta esaurita la platea di coloro che non fossero già sovvenzionati ad altro titolo – si poteva del tutto legittimamente (rispettando beninteso l’entità dello stanziamento in bilancio di somme a tal fine previste per il Comune di (Omissis)) ammettere a tale beneficio anche altri soggetti residenti in stato di bisogno, pur se già destinatari di altri sussidi. La norma, infatti, non prevedeva l’esclusione dal beneficio di questi ultimi, ma solamente di dare priorità a coloro che non avessero altri sussidi. In altre parole, non v’era alcuna preclusione normativa nei confronti di ulteriori beneficiari in stato di bisogno, ma solo l’avvertenza di beneficiare dapprima coloro che non godessero di altri sussidi economici, nel rispetto dello stanziamento di bilancio. In proposito il Collegio deve ancora rimarcare che al Comune di (Omissis) vennero destinati fondi nella misura di euro 75.317,29, mentre lo stesso Comune prima di procedere all’erogazione di spesa aveva assunto un impegno pari a euro 70.000,00, poi aumentato ad euro 75.317,29 (pari allo stanziamento ricevuto), previa variazione di Bilancio, in considerazione delle richieste medio tempore intervenute. (Cfr., Delibera G.M. n. 42/2020; Determine di impegno nn. 283, 293, 424/2020, in atti). Risulta dagli atti che a seguito delle istruttorie condotte dal Comune in parola per esaminare le domande pervenute, l’ufficio socio-assistenziale del Comune medesimo ne ammise n. 396 su 422 presentate ed erogò provvidenze economiche pari a euro 72.540,00, dunque con un risparmio di spesa, rispetto allo stanziamento, di euro 2.777,29. Non si rilevano irregolarità di sorta in questo operato, né tantomeno illiceità. Sul punto che precede non sembra errare la difesa di parte quando sostiene che l’attore pubblico non abbia dimostrato l’esistenza dell’elemento dannoso; in effetti, atteso che le erogazioni effettuate per le provvidenze economiche di cui trattasi risultano tutte effettuate in relazione ad effettivi stati di bisogno della platea dei cittadini residenti e a fronte del fatto per cui l’importo complessivamente erogato rientra interamente nelle risorse messe a disposizione per tale scopo sociale-assistenziale – in un periodo particolarmente delicato per tutti e attenzionato dal Governo Italiano – non sembra al Collegio potersi individuare in fattispecie neppure l’elemento oggettivo basilare perché possa parlarsi di responsabilità erariale. Il teorema accusatorio per cui da eventuali irregolarità nella compilazione delle domande di sussidio debba intravedersi un illiceità di fondo, volta a trasmettere dati non veritieri, non è provato né sembra corrispondere alla realtà locale dei presentanti domanda di sussidio, di residenti in stato di bisogno, per lo più ignoranti, alcuni dei quali stranieri e poco o per nulla istruiti. Inoltre va anche ribadito che non risulta né vi è prova da parte della Procura regionale che in fattispecie vi siano stati cittadini pretermessi ovvero posposti rispetto ai percettori di altre provvidenze economiche. L’azione erariale pertanto non può trovare favorevole accoglimento. Si liquidano a favore del dott. Ve. le spese legali come da dispositivo. P.Q.M. La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la LIGURIA, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione definitivamente pronunciando RIGETTA La domanda attorea per carenza di prove degli elementi oggettivo e soggettivo della responsabilità erariale. LIQUIDA In favore del convenuto dott. Gi. VE. le spese legali nella misura di euro 5.314,00, secondo la Tabelle di cui al DM n. 55/2014, come aggiornate dal DM n. 147/2022. Manda alla Segreteria per gli adempimenti di rito. Così deciso in Genova nella camera di consiglio del 26 gennaio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MILANO - Sez. Lavoro La dott.ssa Sara Manuela MOGLIA, in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al numero di ruolo generale sopra riportato, promossa con ricorso depositato in data 7 giugno 2021 da (...) Elettivamente domiciliata in Milano, via (...), presso lo studio degli avvocati An.Si. e Cr.Fe. del foro di Milano che la rappresentano e difendono per delega allegata al ricorso introduttivo. ricorrente contro (...) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, Prof. M.D., rappresentata e difesa dall'Avv. Fr.Ro. e dall'Avv. An.Qu. del Foro di Milano, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio (LabLaw) in Milano, Largo (...), per delega su foglio separato. convenuta OGGETTO: risarcimento danni SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso in data 7 giugno 2021, l'ing. (...) si è rivolta al Tribunale di Milano, in funzione dei giudice del lavoro e, citando in giudizio la società (...) s.p.a., ha formulato le seguenti conclusioni: "NEL MERITO In via principale: 1) quanto al periodo decorrente dall'anno 2002 - accertare e dichiarare l'illegittimità dei fatti descritti in narrativa, qualificabili come demansionamento e/o dequalificazione e/o, in ogni caso, consistenti in una lesione della professionalità della ricorrente in violazione dell'art. 2103 cod. civ. e, per l'effetto, - condannare (...) - (...) S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore a risarcire il relativo danno quantificato nella misura di due terzi della retribuzione percepita nell'anno 2002, per ogni anno dal 2002 alla data di pronuncia della sentenza, quantificabili, ad oggi, nella misura di EURO 505.400,00 (2/3 EURO 39.900,00 x 19), salva diversa, maggiore o minore quantificazione che sarà accertata in corso di causa, eventualmente in via equitativa, con ogni conseguente pronuncia; 2) quanto al periodo successivo all'anno 2014 fermo restando quanto sopra, - accertare e dichiarare l'illegittimità delle condotte tenute da (...) - (...) S.E. S.p.A. nei confronti della ricorrente, così come descritte nel ricorso, in quanto configuranti responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. e, per l'effetto condannare (...) - (...) S.E. S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali a favore della ricorrente e, segnatamente, quanto al a) danno non patrimoniale I) nella misura di EURO 168.401,00 di cui EURO 112.267,00 a titolo di danno biologico dinamico relazionale ed EURO 56.134,00 a titolo di sofferenza soggettiva interiore; II) nella misura di EURO 31.290,00 a titolo di danno biologico temporaneo, e così nella misura complessiva di EURO 199.691,00 elevato a EURO 227.758,00 tenuto conto della personalizzazione, massima, per le ragioni illustrate in atti oltre rivalutazione monetaria ex D.M. Lavoro n. 60 del 2021; III) danno morale nella misura di EURO 113.879,00 (metà del danno biologico complessivo) IV) danno all'immagine previo accertamento e declaratoria che i comportamenti imputabili ad (...) hanno procurato un danno all''immagine professionale della ricorrente, condannare (...) - (...) S.E. S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore al pagamento di una somma compresa tra EURO 350.943,00 (EURO 70.188,65 per cinque anni) ed EURO 87.735,81 (25% EURO 70.188,65 per cinque anni), salve, in tutti i casi, diverse, maggiori o minori quantificazioni, che emergeranno all'esito del giudizio, da determinarsi, in subordine, in via equitativa in relazione alle condotte protrattesi nel tempo, all'intensità del patimento e al pregiudizio subìto sul piano professionale, con ogni conseguente pronuncia; b) danno patrimoniale I) nella misuradi EURO 85.120,69 a titolo di perdita capacità lavorativa specifica; II) nella misura di EURO 4.717,85 per spese mediche sostenute fino a maggio 2021, salve diverse, maggiori o minori quantificazioni, che emergeranno all'esito del giudizio, da determinarsi, in subordine, in via equitativa in relazione alle condotte protrattesi nel tempo, all'intensità del patimento e al pregiudizio subìto sul piano professionale, con ogni conseguente pronuncia; Inoltre, - accertare e dichiarare la riconducibilità dei fatti descritti in narrativa a ipotesi discriminatorie ex D.Lgs. n. 216 del 2004 e, per l'effetto, - condannare la convenuta, in persona del legale rappresentante pro tempore, a) al risarcimento del relativo danno in favore della ricorrente nella misura di EURO 308.579,11, rapportato al valore della retribuzione media dei dirigenti (...) e al numero di anni in cui la discriminazione si è protratta ovvero, in alternativa, seguendo quindi i principi delineati dalla giurisprudenza citata atti, nella misura di EURO 327.547,03 calcolata sull'ultima retribuzione annua lorda (pari a EURO 70.188,65) per sette anni, opportunamente ridotta di un terzo (per coerenza, secondo i criteri indicati in punto danno da demansionamento e/o dequalificazione professionale); b) al pagamento della somma di EURO 11.000,00 quale media tra i bonus quadri percepiti negli anni 2018 e 2019 a soddisfazione di quanto la ricorrente avrebbe dovuto percepire per i medesimi titoli nel quinquennio 2013- 2017; c) al pagamento della somma di EURO 2.200,00 a titolo di bonus quadri 2020 quale media di quanto percepito negli anni 2018 e 2019; d) al pagamento della somma di EURO 1.077,00 quale differenza tra quanto avrebbe dovuto percepire a titolo di premio di risultato aziendale 2021 per i quadri di livello Q32 e Q16 (EURO 2.742,00) e quanto effettivamente percepito a maggio 2021 (EURO 1.665,00) (ns. prod. n. 257 e ss.) salve, in tutti i casi, diverse, maggiori o minori quantificazioni, che emergeranno all'esito del giudizio, da determinarsi, in subordine, in via equitativa in relazione alle condotte protrattesi nel tempo, all'intensità del patimento e al pregiudizio subìto sul piano professionale, con ogni conseguente pronuncia; 3) quanto al periodo decorrente dal 23 maggio 2020 accertare e dichiarare l'imputabilità della malattia senza soluzione di continuità per fatto imputabile al datore di lavoro e, per l'effetto, accertare e dichiarare che il relativo periodo non deve essere computato ai fini del decorso del periodo di comporto ai sensi dell'art. 21 c.c.n.l. applicato (ns. all. B), con ogni conseguente pronuncia e condannare la convenuta in persona del legale rappresentante pro tempore al pagamento della somma di EURO 1.077,00 lordi quale differenza tra quanto avrebbe dovuto percepire a titolo di premio di risultato aziendale 2021 per i quadri di livello e quanto effettivamente percepito a maggio 2021 (EURO 1.665,00) (ns. prod. n. 257 e ss.); in ogni caso Con rivalutazione monetaria ed interessi dal dovuto al saldo; Con vittoria di spese e compensi professionali e rifusione delle spese di c.t.u. e c.t.p." A tal fine ha dedotto: -di essere stata assunta dall'allora CISE, oggi (...) sin dal 7 gennaio 1976, da ultimo inquadrata nel livello QSL (QS32) ovvero quadro di livello superiore presso la Funzione Sviluppo Pianificazione e Valorizzazione (oggi Sviluppo Comunicazione e Valorizzazione), con responsabile l'ing. (...); -di aver altresì sempre ricoperto anche il ruolo di Dirigente per la sicurezza TSL (Tecnico sicurezza laser); -di essere stata assegnata al compito di responsabile del laboratorio di olografia ottica che (...), nel 1985, decise di istituire e che si occupava di ricerca nel settore e di applicazioni pratiche, avendo quale principale committente E.; -che, nel 2002, il laboratorio veniva, di fatto dismesso in quanto la ricerca non costituiva più il core business di E.; -che da tale momento era stata assegnata a compiti relativi alla conclusione di accordi e collaborazioni, campo nel quale sviluppò un'indiscussa competenza; -che, più nello specifico, si era occupata di: - redazione di accordi, anche di collaborazione, con aziende ed enti esterni (nazionali e internazionali); - redazione di accordi, anche di collaborazione, con organismi di ricerca e Università; - redazione di accordi di riservatezza ("Non Disclosure Agreement"); - gestione dei rapporti tra Ricerca di Sistema e organismi di ricerca e Università; - redazione di documenti per il sistema di qualità aziendale con riferimento alle mansioni che la riguardavano; - procedure per l'ottenimento di brevetti e marchi aziendali; - preparazione e sottoposizione all'Ente preposto dei progetti di Ricerca di Sistema a Bando cofinanziati; - preparazione e sottoposizione di proposte per attività a finanziamento nazionale cofinanziato (Regioni, MIUR, MiSE); - preparazione e sottoposizione di proposte di attività in risposta a gare (...) nazionali e internazionali a onere esclusivo dell'organismo che l'indice; - organizzazione di proposte di attività in risposta a gare su portali acquisti (...); collegamento con il cluster della Regione Lombardia LE2C (L.E.(...)); - collegamento con il C.N.E.; - collegamento con l'associazione (...) (Rinnovabili per il Mediterraneo); - collegamento con la Fondazione (...) a cui partecipa (...) insieme con gli Istituti Tecnici Superiori (ITS) di Milano e Monza in stretta collaborazione per l'organizzazione dei tirocini presso (...) con la Dott.ssa (...) di S.C. di (...); - presidio delle problematiche relative alla disciplina europea sugli aiuti di Stato a favore di Ricerca, Sviluppo e Innovazione (2014/C/198/01 in G.U. UE 27 giugno 2014) con la (...) (Consulenza Legale Europea) - contatto diretto con il membro dello Studio Avv. (...) di Bruxelles e con l'Avv. Emanuele PROSPERI dell'Avvocatura della Regione Lombardia; - rilevazioni ISTAT; - formazione con affiancamento della collega di funzione dal maggio 2011 Dott.ssa (...); - subentro temporaneo nella preparazione e sottoposizione dei progetti cofinanziati dell'UNIONE EUROPEA, in caso di assenza del collega di (...), Ing. (...) e, dopo il suo pensionamento a giugno 2018, dell'Ing. (...) a lui subentrato; -di essere stata vittima di comportamenti tenuti dalla società, ma soprattutto dal dott. (...) risoltisi in forme di demansionamento e di mobbing; -di aver subito i danni meglio indicati nelle conclusioni, per i quali ha chiesto il risarcimento. Si è costituita la società resistente, respingendo ogni addebito e profilo di responsabilità e chiedendo il rigetto del ricorso. Inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, assunte le prove ammesse, all'udienza del 6 febbraio 2023, la causa è stata discussa. All'esito della camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la presente sentenza, depositando dispositivo e contestuale motivazione. MOTIVI DELLA DECISIONE Molteplici i temi che l'ing. (...) ha inteso sottoporre al vaglio di questo giudice e che occorre individuare all'interno di un atto a tratti eccessivamente prolisso e, per questo, non sempre di immediata comprensione. L'invito svolto dalla sottoscritta ai difensori di enucleare i fatti salienti non ha colto nel segno; le note autorizzate sono risultate una sorta di indice del ricorso con continui rimandi allo stesso, ma poco hanno apportato in termini di chiarezza espositiva. Ad ogni buon conto, il primo motivo di denuncia da parte dell'ing. (...) è il supposto demansionamento che la stessa avrebbe subito nel 2002 allorchè CISE decise di chiudere il laboratorio di elettrottica di cui era responsabile. Al tal proposito e seguendo l'esposizione del ricorso, giova ricordare che la dismissione del predetto laboratorio è stata disposta allorchè E., frattanto divenuto socia di maggioranza di CISE, non considerò più le applicazioni derivanti dalle ricerche del gruppo di Elettrottica il proprio core business e ciò anche a ragione dei costi eccessivi (pagg. 160 e 161 ricorso). Da tale momento, come detto sopra, alla ricorrente, vennero assegnate le mansioni meglio illustrate alle pagg. 16 e 17 del ricorso. (...) che, secondo la ricorrente, determinarono il suo demansionamento in quanto la portarono a diventare da "scienziato a mero burocrate". Ma che, tuttavia, per stessa sua deduzione, le consentirono di sviluppare, nei singoli campi, "un'indiscussa competenza sempre molto apprezzata dai vertici aziendali" (pag. 15, punto 15 del ricorso). Risulta dagli atti che la storia professionale dell'ing. (...) è stata costellata di promozioni: il 1 gennaio 2000, alle dipendenze di Cesi, le è stata attribuita la qualifica di quadro; il 29 settembre 2006, il livello superiore di QS; il 1 luglio 2009 è stata nominata coordinatrice dell'area sviluppo strategico; il 13 febbraio 2012, ha ricevuto l'ulteriore promozione al livello QSL. Per stessa deduzione della ricorrente (pag. 10 punto 11 del ricorso), la medesima, fino alla cessazione del rapporto, ha ricoperto anche il ruolo di dirigente per la sicurezza laser, ruolo che le è stato attribuito dal 2006, ovvero dalla nascita di (...) s.p.a (alle cui dipendenze da tale momento era passata) e che lei definisce "ruolo di assoluto rilievo in un ambiente di ricerca a cui spetta, oltre alla regolamentazione delle attività sperimentali in laboratorio, nei casi di sperimentazioni laser all'aperto anche: - il compito di chiedere e ottenere dall'autorità competente, l'ENAC - Ente Nazionale per l'Aviazione Civile - la chiusura degli spazi aerei sovrastanti il luogo di sperimentazione e - l'onere di verificare, prima della sperimentazione, che sul Bollettino ENAC che viene diramato dall'autorità più volte al giorno, sia effettivamente pubblicata la chiusura dello spazio aereo interessato". Le ripetute promozioni, che hanno consentito alla ricorrente, di risalire il cursus honorum sino a ricoprire la qualifica impiegatizia più alta, il ruolo di dirigente per la sicurezza laser- campo che per stessa ammissione dell'ing. (...) l'ha portata ad operare in attività sperimentali di laboratorio e di sperimentazione laser-, i compiti comunque assegnatile e meglio descritti nel ricorso sono circostanze che mal si conciliano con le conclusioni alle quali è pervenuta la parte con la denuncia di essere stata trasformata da "scienziata a burocrate". Come ammesso, seppur forse in un campo diverso (quello del laser invece che dell'elettrottica), l'ing. (...), passando prima alle dipendenze di (...) e poi incaricata del ruolo di cui sopra, ha operato all'interno di un laboratorio di ricerca e sperimentazione nel quale ha, quindi, avuto modo di mettere a frutto le competenze e la professionalità dalla stessa maturate. La chiusura del laboratorio di Elettrottica è stata spiegata dalla stessa ricorrente come frutto di una scelta imprenditoriale di (...) (maggior azionista della società) e quindi, la sua ricollocazione non può definirsi frutto di una decisione presa in danno dell'ing. (...). Nel frattempo la sua promozione a quadro QS, il passaggio in (...) e l'assegnazione del ruolo di dirigente per la sicurezza laser vanno letti come decisioni volte a preservare, pur di fronte alle varie vicissitudini societarie, il bagaglio professionale conseguito dalla dipendente ed a consentire alla stessa sia di mettere a frutto le sue competenze, sia di acquisirne altre. Circostanza questa ammessa, come già detto, dalla stessa che, giustamente, si è vantata di essere sempre stata molto apprezzata dai vertici aziendali succedutisi negli anni (pag. 15, punto 36). Per le ragioni sopra illustrate, si ritiene che non possa individuarsi alcuna forma di demansionamento, non risultando deduzioni concrete che portino a dimostrare o anche solo a far supporre un inadempimento da parte del datore di lavoro. Sotto un profilo di ordine generale, è noto che l'ordinamento attribuisce al datore di lavoro ampi poteri e diversi strumenti per gestire, nella fisiologia del rapporto ed entro i confini di legittimità, la prestazione di lavoro. L'art. 2103 c.c. vecchia formulazione, che trova applicazione avuto riguardo alle fasi iniziali della vicenda per cui è causa, prevede inderogabilmente che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, o comunque a mansioni equivalenti alle ultime che egli abbia effettivamente svolto, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Quale norma di protezione, l'art. 2103 c.c. limita l'esercizio dello jus variandi del datore di lavoro nell'alveo di una reciprocità dei rapporti che vede il lavoratore operare in una posizione di tendenziale soggezione, direttamente collegata alla natura subordinata del rapporto di lavoro. Per quel che concerne la qualificazione delle mansioni, debbono ritenersi ricomprese nella norma quelle mansioni che, oggettivamente, appartengono alla stessa area professionale e salariale e che, sotto il profilo meramente soggettivo, hanno l'attitudine ad armonizzarsi con la professionalità nel tempo acquisita dal dipendente lungo tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755). Ne consegue che, in applicazione della disciplina previgente, il concetto di equivalenza - che concretizza il nesso di legittimità tra le pregresse e le nuove mansioni - non può essere inteso esclusivamente nella sua accezione oggettiva, né fondarsi sull'astratto valore professionale di mansioni fra loro differenti, bensì esige che siano considerate le attitudini che nelle nuove mansioni potranno essere espresse, anche in considerazione del progressivo arricchimento del patrimonio professionale di cui il lavoratore ha nel tempo beneficiato. L'indagine inerente all'equivalenza, quindi, non potrà di certo avere quale parametro di riferimento il mero e astratto livello di categoria, né il semplice livello retributivo: essa impone di accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza fatta propria dal lavoratore, al fine salvaguardarne il livello professionale e garantirne lo sviluppo in prospettiva dinamica (Cass. Civ., SS.UU., 12 ottobre 2006, n. 25033). Pur sulla base di tali premesse ed al di là dell'asserzione di parte, per la quale da scienziata l'ing. (...), è stata trasformata in mera burocrate, le stesse deduzioni del ricorso paiono andare in senso contrario alle doglianze. Invero, le stesse delineano un percorso professionale in ascesa e un'attività che, per un verso, si è andata arricchendo di nuove competenze e, per altro verso, non ha mai abbandonato la ricerca, così consentendo alla dipendente di conservare il proprio bagaglio professionale. Di tal chè, pur dovendo valorizzare l'accezione di demansionamento per come risulta, dalla formulazione precedente alla novella, si ritiene che la professionalità dell'ing. (...), sotto il profilo della ricerca e sperimentazione, non sia venuto meno. Con decorrenza 25 giugno 2015, deve trovare applicazione il nuovo art. 2103 c.c. (riformato dall'art. 3 D.Lgs. n. 81 del 2015) che prevede che "il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale". La nuova formulazione, a fortiori, esclude ogni forma di demansionamento, non potendosi revocare in dubbio che le mansioni descritte rientrino nella declaratoria contrattuale del quadro. L'ulteriore tema di doglianza illustrato nel ricorso afferisce ai comportamenti tenuti, a decorrere dal 2014, che, secondo la prospettazione di parte, non solo avrebbero, ma per quanto sopra detto, non risulta essere vero, realizzato il demansionamento, ma anche ipotesi di mobbing. La narrazione del ricorso è, sul punto, lunga e non sempre di facile comprensione, soprattutto ciò che va evidenziato è che molti delle circostanze dedotte si traducono in mere considerazioni e valutazioni soggettive, prive di fatti concreti sottoponibili al vaglio testimoniale. Per tale ragione, si è ritenuto di enucleare i fatti dedotti e di circoscrivere la prova orale a quelle circostanze aventi portata concreta. Per maggior chiarezza, si riporta l'ordinanza istruttoria con l'indicazione dei punti del ricorso sui quali si è ritenuto di assumere la prova: "ritenuto che, ai fini della decisione, sia necessario solo assumere prova per testi sulle circostanze riportate nei punti del ricorso contrassegnati dai numeri: 100, 101, 111, 138, 252, 253, 254, 316-320, 418-419, 436 e 534" L'esame dei testi ha offerto il seguente contributo: (...): "Sono dipendente della società dal 2019, ma sono presente in azienda dal 2011 con diverse tipologie contrattuali; nel 2014 era addetta alla segreteria e agli eventi aziendali. Conosco l'Ing. (...) ed il dott. (...). Sul cap. 100, non ricordo di aver sentito il dott. (...) riferire la frase "te la farò pagare". Sul cap. 101 non ho sentito il dott. (...) dire quanto mi viene chiesto. Nulla so del fatto di cui mi viene chiesto e che il giudice dà atto essere oggetto del cap. 111, io mi occupavo di note spese, ma solo del dott. (...). Sul cap. 252 e 253, ricordo che il dott. (...) entrò nel nostro ufficio con in mano la bozza di un contratto che era stata redatta dall'ing. (...), il dott. (...) non era contento di come fosse stato redatto, ma escludo che possa aver proferito le parole che mi vengono lette. Non ricordo le parole esatte. Anzi, preciso non me lo ricordo. Il giudice mi chiede di essere precisa e di dire se ricordo che il dott. (...) ha usato le parole che mi vengono detto se non ricordo le stesse o se le escludo, ora che mi viene chiesto di precisare, la mia risposta è che escludo che abbia usato tali parole. Mi ricordo che disse che il contratto non andava bene ed andava rifatto. Non disse altro. Il dott. (...) non ha mai detto la frase che mi viene letta e che il giudice dà atto essere oggetto del punto 254 del ricorso. Mi viene chiesto se ricordo di aver ricevuto l'email sub doc. 84 di parte ricorrente, nonostante fossi messa in copia conoscenza, non ricordo di averla ricevuta, era capitato altre volte; escludo di aver avuto un qualche ruolo nei contratti con l'università che sono oggetto di questa email; l'ing. (...) mi coinvolgeva in certi lavori a sua discrezione, ma rispetto a tali contratti, ribadisco di non aver avuto alcun ruolo. Sul punto 534: confermo che l'ing. (...) mi disse di inviare settimanalmente le tabelle ed i file, ma mi disse anche di inviarli all'ing. (...), fu lei, invece, che mi disse di non metterla in copia conoscenza, non ne conosco i motivi di questa richiesta. Della richiesta dell'ing. (...) ne ho dato notizia all'ing. (...), glielo solo detto, lui non mi ha risposto nulla ed io ho eseguito quanto mi aveva chiesto di fare l'ing. (...)". (...): "Sono dipendente della resistente da prima del 2014. Dal 2014 per circa un anno-due ero vice direttore del dipartimento (...), poi sono passato nella funzione FSP come vice responsabile, poi sono diventato responsabile di tale funzione. Conosco l'ing. (...) di cui ero superiore. Sui cap. 253 e 254 rispondo: non posso dire di aver sentito le frasi che mi vengono riferite in quanto non ero presente all'episodio e dal mio ufficio, non è possibile sentire quanto viene detto nell'ufficio dell'ing. (...). Premetto che in quel momento, ovvero nell'ottobre 2019, io ero responsabile della funzione FSP che in quel momento aveva cambiato nome in (...), il dott. (...) che prima era il responsabile della predetta funzione, mentre io ero il vice, era diventato responsabile della funzione strategia e comunicazione. I contratti con i terzi, quali per esempio le università, erano preparati dall'ing. (...), che aveva grande esperienza nel settore, io poi li visionavo e poteva capitare che il contratto avesse dei punti da rivedere; mi viene detto che il contratto in questione aveva a che fare con l'assegnista, questo è un punto critico per la società, di solito era preferibile che non vi fosse la clausola relativa all'assegnista, lasciando libertà all'università di decidere a riguardo. Mi viene chiesto se ho memoria di un contratto redatto in maniera particolarmente discutibile o che andava rifatto, non ho memoria di un tale contratto, ribadisco che vi erano spesso punti da rivedere o che ci faceva rivedere l'università perché le trattative erano a volte lunghe. Come ho detto, i contratti redatti dall'ing. (...) passavano sotto la mia supervisione e poi io li riportavo all'ingegnere, il dott. (...) era colui che doveva verificare che il singolo contratto fosse in linea con la strategia della società, per questo aveva il controllo che precedeva la firma dell'amministratore. L'iter per la predisposizione dei contratti prevedeva la predisposizione della bozza da parte dell'ing. (...), l'inoltro a me attraverso la dott.ssa (...), poi dopo il mio controllo e benestare lo ripassavo alla (...) che lo inoltrava alla (...) che era nella segreteria della direzione generale nella stessa funzione in cui vi era (...). La (...) passava il contratto all'amministratore delegato dopo la verifica che ci fosse la mia firma e che (...) avesse controllato il contratto. Sebbene lui facesse parte di una funzione diversa dalla nostra, controllava i contratti, come ho detto, per verificarne l'allineamento con la strategia aziendale. Se qualcosa non andava, l'iter avrebbe comportato che (...) si rivolgesse a me ed io all'ing. (...), in pratica, però, anche per velocizzare i passaggi accadeva che si saltassero le figure e vi fosse il contatto diretto con la persona che in quel momento era interessata. L'aspetto dell'assegnista che è sempre stato un aspetto critico, poteva essere di interesse per la funzione della strategia. Voglio anche aggiungere che in quel momento, essendo arrivato da poco il nuovo AD, davamo maggior spazio e responsabilità all'università affidando a loro la scelta dell'assegnista. Voglio sul punto precisare, prima davamo libertà all'università di scegliere l'assegnista, con il nuovo AD, abbiamo rimesso all'università la scelta delle modalità con cui realizzare l'oggetto del contratto, quindi a scelta tra l'utilizzo del professore di riferimento, di un ricercatore o di un assegnista. Vi viene chiesto del doc. 84 di parte ricorrente, non ricordo di aver ricevuto questa email. In generale posso dire che è capitato che l'ing. (...) avesse dimostrato momenti di nervosismo per le insistenze dei colleghi che premevano perchè le bozze dei contratti fossero redatti in tempi brevi. Voglio precisare che spesso la tempistica dei contratti non dipendeva solo da noi, ma anche dalla controparte. Mi viene chiesto se posso fare i nomi di alcuni di questi colleghi che hanno sollecitato l'ing. (...), non sono in gradodi fare nomi, posso dire che erano spesso i ricercatori delle singole funzioni interessati alla conclusione dei contratti. E' capitato che l'ing. (...) si sia sfogato come me lamentandosi di queste pressioni, può anche essere capitato che tra questi ci sia stato il dott. (...) se il contratto era di interesse per la strategia aziendale. Voglio però precisare che il compulsare per la finalizzazione di un contratto rientra nella normalità di un'azienda in quanto tutti hanno interesse a che si realizzino determinati obbiettivi. Cap. 534, preciso che eravamo nel periodo del lock down quando la società, aveva deciso di applicare la modalità di smart working. Al fine di ottenere e conservare la condivisione che prima poteva essere realizzata di persona in ufficio, diedi questa disposizione alla dott.ssa L.; inoltre istituii un incontro settimanale da remoto proprio avente per oggetto l'iter di predisposizione dei contratti per verificare tutti insieme l'andamento dello stesso. Escludo di aver detto alla (...) di non mettere tra i destinatari l'ing., (...), ciò sarebbe stato proprio il contrario dell'effetto che volevo realizzare, ovvero la condivisione. Non ricordo se la (...) mi disse che l'ing. (...) non voleva essere messa tra i destinatari, né ho controllato nelle email se la stessa vi fosse. Posso però aggiungere che tale mia iniziativa non venne presa di buon viso dalla ing. (...) che riteneva che questa mia idea fosse un modo per controllare il suo lavoro, cosa che, invece, non era mio intento. Sui punti 316-320 del ricorso: come ho detto prima, l'ing (...) si occupava della predisposizione dei contratti e di tenere i contatti con i referenti delle controparti. E' quindi normale che , in relazione a (...) abbia, avuto contatti con la dott.ssa (...) di (...).Aggiungo che (...) è sempre stata una controparte un pochino tignosa e eccessivamente burocratica. L'aspetto della natura di (...) è stato affrontato in varie occasioni in quanto tema che spesso le controparti ci hanno posto e che abbiamo dovuto affrontare, noi non siamo una pubblica amministrazione, ma società di diritti privato a controllo pubblico. Escludo di aver rimproverato l'ing. (...) per non aver detto che eravamo una P.A., non lo eravamo e noi lo siamo, quindi le avrei detto di dire il falso e ciò non è vero, escludo assolutamente di averle prospettato l'inizio di un procedimento disciplinare con eventuale licenziamento. Prendo visione del doc. 117 di parte ricorrente: ricordo che in relazione a I., avevamo incaricato l'ing., (...) di prendere contatti con (...) e verificare quali fossero i punti di criticità, senz'altro tra questi vi era la natura giuridica di (...), ma ve ne potevano essere altri. L'accordo era che poi l'ing. (...) condividesse con me, (...) e (...) il contenuto dell'interferenza con ISPRA, (...) e (...) si sono lamentati con me che l'ing. (...) non aveva condiviso, poi io ho ricevuto questa email ed a seguito di ciò ho voluto incontrare l'ing. (...) per capire cosa fosse successo e quindi sentire anche la sua voce. Poi ho cercato di ricomporre i rapporti nell'interesse della società. Non sono in grado di ricordare se vi sia stato un incontro successivo tra (...) e (...)". (...): "Ho lavorato per (...) dalla sua nascita fino a giugno 2018, mi occupavo del coordinamento dei progetti europei. Conosco l'Ing. (...) ho condiviso con lei l'ufficio sicuramente da prima del 2014 fino a quando me ne sono andato. Non ricordo di aver sentito la frase sub cap. 100. Mi viene letto l'episodio di cui al cap. 101, non ricordo l'episodio né ricordo di aver sentito le frasi che mi vengono lette". (...): "Ho lavorato per (...) fino al 31 maggio 2022, ho svolto mansioni di coordinatrice dell'ufficio amministrazione del personale. Conosco l'ing. (...) e il dott. (...). Sul cap. 111, mi ricordo di tale nota spese, premetto che noi dell'ufficio del personale dobbiamo certificare che le note spese siano in linea con le nostre procedure; in quell'occasione, la mia collega si era accorta che nella nota spese dell'ing. (...) era stata indicato un costo dell'albergo più alto rispetto a quello pagato dagli altri partecipanti alla medesima trasferta. Abbiamo quindi sottoposto la nota spese al dott. (...) che aveva il compito di approvare la nota spese dopo la nostra certificazione e gli abbiamo riferito quanto da noi notato. Quindi abbiamo deciso di decurtare una cifra che consentisse di allineare, anche se rimaneva sempre più alto, il costo dell'albergo a quello sostenuto dagli altri partecipanti. Escludo di aver detto all'ing. (...) che la decurtazione era frutto di un arbitrio del dott. (...). Alla domanda precisa in merito al confronto fatto dal nostro ufficio, rispondo dicendo che l'ing. (...) era solita non avvalersi del sistema di prenotazione che era adottato dal nostro ufficio, era lei che si prenotava direttamente gli alberghi. Ora poiché la mia collega aveva notato questo costo molto elevato, abbiamo credo di ricordare fatto una verifica per vedere quanto sarebbero costati gli alberghi di cui non ci avvalevamo di solito in quella zona, ed è emerso che quello utilizzato dall'ing. (...) era molto più caro. Non ricordo se l'ing. (...) mi disse che l'albergo da lei prenotato era l'unico che disponeva di camere libere per la concomitanza di una gara ippica". (...): "Sono dipendente di (...) dal 1 aprile 2020 con mansioni di segreteria di direzione generale e segretaria dell'amministratore delegato. Ero in azienda anche dal 2018, ma come interinale. Sul cap. 418-419, non ho un ricordo preciso del giorno 13 maggio 2020 perché non è successo nulla di particolare per cui me lo possa ricordare, ricordo di aver sentito il dott. (...) parlare con l'ing. (...) e poi il primo uscire seguito dalla seconda. Il tono di voce era normale, escludo di aver sentito le frasi che mi vengono lette. Mi è capitato altre volte di vederli parlare ed anche di vedere (...) entrare nell'ufficio dell'ing. (...). Mi viene fatto notare che ho inviato un messaggio wa (doc. 170) all'ing. (...), mi viene detto di spiegarne le ragioni, rispondo: il 13 maggio l'ing. (...) dopo che (...) se ne era andato, è venuta da me e piangeva, miha detto che questa era la reazione all'interazione avuta con (...), non mi ricordo cosa mi abbia detto di preciso. Per questo poi le ho inviato il messaggio. Non ricordo se ho visto successivamente (...) e (...) parlare. Il giudice ammonisce il teste sulle sue responsabilità, il teste risponde: confermo quanto detto e preciso che era già successo che l'ing. (...) si sfogasse con me, ma era la prima volta che la vedevo piangere. Quando ho parlato di sfoghi intendevo dire che si lamentava come tutti noi del fatto che, a volte, le cose arrivassero all'ultimo minuto e poi occorreva tornare indietro. Può essere capitato che l'ing. (...) si sia lamentata di (...), come anche di altri. Mi viene detto nuovamente di riferire quanto dettomi dall'ing. (...) circa il motivo del pianto. Ribadisco che il motivo era il colloquio avuto poco prima con (...), ma non ricordo le parole" (...): "Lavoro per (...) dal dicembre 2019, sono avvocato e lavoro all'interno dell'ufficio legale. Conosco l'ing. (...) ed il dott. (...). L'ufficio che occupo si trova all'angolo del corridoio dove poi, dopo due porte, vi era quello dell'ing. (...). Non ho sentito nessuna delle frasi che mi vengono lette e che il giudice dà atto essere oggetto dei capitoli sub (...) e (...). Ricordo tuttavia il giorno 13 maggio 2020, ricordo che nel pomeriggio di quel giorno, l'ing. (...) venne da me e si appoggiò allo stipite della porta in lacrime, rimasi molto stupita perché era la prima volta che la vedevo in queste condizioni e fino a poco prima avevamo parlato normalmente di lavoro. Mi disse che il motivo del suo pianto erano le frasi riferitele da (...) che più o meno sono quelle che mi vengono lette, ricordo che mi disse che (...) si era lamentato per un contratto che a suo dire non era stato seguito come doveva esserlo e che per questo le avrebbe fatto scrivere dall'AD. Non mi disse, invece, che (...) prese degli oggetti nel tentativo di scagliaglieli contro. Vista la posizione del mio ufficio e quello dell'ing. (...) se una persona avesse usato un tono della voce alto, lo avrei sentito distintamente. Quel giorno non ho sentito nulla. Dopo aver ricevuto il racconto dall'ing. (...) le dissi che forse era meglio parlarne con l'amministratore delegato e che potevamo andarci insieme visto che si trovava in ufficio. Non ricordo se nell'attesa di essere ricevute dall'Ad l'ing. (...) sia rimasta nella mia stanza, non so se sia andata ai servizi per trovare riparo, a me non disse di avere paura. Escludo che (...) sia venuto da me, chiedendomi di parlarmi da solo e dicendomi se ro disponibile a testimoniare che lui non aveva prevaricato su nessuno. Confermo, invece, che siamo poi state ricevute dall'Ad, l'ing. (...) ha riferito dell'episodio e di non trovarsi bene nella sua funzione di appartenenza, in quanto non si trovava bene con l'ing. (...) e poi anche con (...). Non riferì di nessun altro episodio. Mi viene letto quanto riportato al punto 437 del ricorso, escludo che l'ing. (...) abbia detto di sentirsi in pericolo né che abbia detto che se l'azienda non la tutelava per la ragione di stato, allora era preferibile lasciare il suo posto. Disse invece che se non vi erano altre possibilità di collocarla in altre funzioni avrebbe considerato l'ipotesi di andarein pensione. L'Ad disse che avrebbe verificato quanto l'ing. (...) gli aveva riferito. (...) che avrebbe verificato l'episodio raccontatogli e preso ogni misura possibile per soddisfare la richiesta dell'ing. (...) di spostarsi" (...): "Sono stato dipendente di (...), sono in quiescenza dal febbraio 2019, ero dirigente, ero delegato in materia di sicurezza e responsabile della qualità aziendale e degli acquisti. Venivo spesso coinvolto come consulente nella materia degli impianti elettrici. Sentito sul cap. 138, premetto che la mia postazione che era in un open space era distante dall'ufficio dell'ing. (...). Ciò che veniva detto nell'ufficio della predetta non era udibile dalla mia postazione. Mi vengono lette le frasi oggetto del capitolo di prova. Non le ho mai sentite dire da (...) a (...), se sono state dette nell'ufficio dell'ing. (...), non posso averle sentite, in ogni caso, quale che sia il contesto, non le ho mai sentite. In relazione alla gara indetta da (...), ricordo che si trattava di una gara importante, rispetto alla quale l'ing. (...) diede un sostanzioso apporto per quanto riguarda la fase più prettamente istruttoria, ovvero la predisposizione dei documenti sotto un profilo amministrativo; da punto di vista contenutistico, invece, i documenti furono elaborati dall'ing. (...) con il mio intervento in quanto l'area della gara in questione coinvolgeva aspetti tecnici (dighe) rispetto ai quali l'ing. (...) non aveva competenze. La proposta di (...) non fu accolta e allora decidemmo, anche per verificare le possibilità di partecipare a successivi lotti, di fare l'accesso agli atti per poter esaminare le proposte della società che ne era risultata vincitrice. Dopo numerose riunioni si decide che l'accesso agli atti l'avrebbe fatto un team composto, per quanto riguarda gli aspetti legali, dall'avvocato, per quanto riguarda gli aspetti tecnici, da me e dall'ing. (...), questo perché ci interessava sapere quali ragioni di ordine tecnico ed economico la società che aveva vinto, fosse riuscita in tale intento. Non capisco cosa possa voler dire il fatto che l'ing. (...) mi abbia chiesto di essere sostituita dall'ing. (...) in quanto le loro aree di competenza non erano sovrapponibili. L'ing. (...) ha portato a termine l'istruttoria che le competenza facendo un bel lavoro e portandolo a termine tant'è vero che abbiamo partecipato alla gare, purtroppo poi abbiamo perso" Come può ricavarsi dalle deposizioni, l'istruttoria ha avuto quale oggetto principale i rapporti tra l'ing. (...) ed il dott. (...) reo, secondo parte ricorrente, di una serie di condotte dai contenuti vessatori, denigranti e umilianti. In un crescendo di gravità, il fatto più saliente e che ha reso colma la misura della sopportazione, è stato, a dire dell'ing. (...), quello avvenuto il 13 maggio 2020 (punti 418 e ss. Pag. 96 e ss. del ricorso). I testi hanno, tuttavia, smentito la ricostruzione di parte, soprattutto la sua gravità. Nessun testimone oculare, le due teste che hanno incontrato la ricorrente nell'immediatezza del colloquio con il dott. (...) hanno riferito di uno stato di prostrazione insolito, tuttavia, nessuna delle due ha sentito alcunché (ed entrambe dai loro uffici avrebbero dovuto sentire), entrambe hanno solo ascoltato il racconto dell'ing. (...). Questo, come gli altri fatti sui quali sono stati escussi, vanno letti in maniera diversa da come sono stati prospettati. L'istruttoria è servita a dare una diversa chiave di lettura dei singoli fatti. Alcune delle circostanze narrate dalla ricorrente sono avvenute, ma con toni, modalità, spiegazioni diverse da quelle che la ricorrente ha inteso attribuire. L'eccessiva personalizzazione dei fatti l'ha indotta ad una lettura distorta, ad una, per certi versi, interpretazione vittimistica di certe condotte o certe frasi. Per l'interprete, che deve esaminare il materiale probatorio con occhi indifferenti e distaccati, la conclusione non può che essere nel senso che non vi è prova di quanto denunciato. Va, quindi, esclusa la sussistenza di condotte mobbizzanti, non essendovi la prova di fatti aventi connotazioni vessatorie. Escludendo sia il demansionamento che altre forme di inadempimento contrattuale o di illecito da parte del datore di lavoro, va poi, in radice, ritenuto insussistente qualsivoglia nesso di causalità con la malattia della ricorrente. Pur non avendo motivo di dubitare dei malesseri lamentati e della loro penosità per la ricorrente, il giudizio non ha consentito di individuare condotte che possano ritenersi la fonte di quanto denunciato. Ed, invero, non potendo profilarsi alcuna condotta illecita, non può rinvenirsi alcun collegamento giuridicamente apprezzabile che consenta di ricondurre la malattia della lavoratrice e la sua assenza al datore di lavoro. Per tale ragione, ogni domanda avente natura risarcitoria va rigettata, non essendovi illecito da cui possano derivare i danni lamentati. Va, altresì rigettata la domanda risarcitoria per presunto comportamento discriminatorio. A dire della ricorrente, lo stesso si sarebbe realizzato per il suo essere donna, ragione che va posta alla base delle stesse condotte ritenute mobbizzanti; inoltre della mancata promozione a dirigente. Quanto alle condotte già esaminate, ci si riporta a quanto detto. Quanto alla mancata promozione, sarebbe stato onere della ricorrente dimostrare, anzitutto i fatti costitutivi del suo diritto alla superiore qualifica. Fatti sui quali la stessa, per propria scelta difensiva (cfr ricorso), decide di non trattare con la dovuta precisione, riservando, forse ad altra sede, la rivendicazione. In assenza delle deduzioni necessarie a dimostrare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto, la mancata promozione non può, sic et simpliciter essere attribuita al suo essere donna. Seppur può essere che in azienda, i ruoli di vertice siano ricoperti da uomini, la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che le donne assunte avevano i requisiti per avere le medesime cariche. Nulla di ciò è stato dedotto. Ugualmente infondata la domanda relativa ai bonus e premi indicati a pag. 210 del ricorso. Anche per questi la ricorrente non avrebbe dovuto limitarsi a lamentare la mancata elargizione, quanto dedurre i fatti costitutivi del diritto al pagamento. Nulla viene dedotto. Per tutte le ragioni sopra riportate, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza. Nella liquidazione deve tenersi conto della copiosità del ricorso che ha richiesto una lettura lunga e non sempre agevole. Al contrario, non si rinvengono i presupposti per l'applicazione dell'art. 96 c.p.c. P.Q.M. Il tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così decide: -rigetta il ricorso; -condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 6.000 oltre accessori di legge. Così deciso in Milano il 6 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4449 del 2022, proposto da Nt. Da. It. S.p.A. ed altri, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Al. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Consip Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti De. Ri. Ad. S.r.l. Società Be., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. Pa. Be., Pi. Ot., Jo. Br., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ey Ad. S.p.A. ed altri, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 04840/2022, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consip Spa e di De. Ri. Ad. S.r.l. Società Be.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 dicembre 2022 il Cons. Massimo Santini e uditi per le parti gli avvocati Bo. e Be.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Si controverte su un appalto quadro indetto da CONSIP per i servizi di sicurezza informatica (in particolare: sicurezza da remoto, compliance e controllo) delle pubbliche amministrazioni. Obiettivo: proteggere le stesse pubbliche amministrazioni da "attacchi informatici di particolare gravità " (cfr. pag. 10 capitolato generale di appalto). Il lotto 2 (attività di compliance (ossia "conformità alle procedure") e controllo) era da aggiudicare a due operatori: oltre 70 milioni di contratti esecutivi al primo classificato; oltre 46 milioni di contratti esecutivi al secondo classificato. 2. La terza classificata NTT contestava dinanzi al TAR Lazio il primo posto di De. (la quale era stata anche previamente sottoposta a giudizio di congruità dell'offerta) a causa del cospicuo numero di lavoratori autonomi che quest'ultima avrebbe impiegato nella commessa (44% della complessiva forza lavoro). Cospicuo numero che peraltro, nella prospettiva della stessa NTT, non avrebbe consentito a De. un sufficiente margine di utile. Il TAR Lazio rigettava tuttavia il ricorso affermando che: a) Il disciplinare di gara non era stato concepito in modo di ammettere soltanto lavoratori subordinati in seno alle società appaltatrici. Le formule adesso previste dal diritto del lavoro nonché il tipo di mansioni e di organizzazione aziendale richiesti dalla legge di gara ("lavoro in team") consentono di dare ingresso anche a tipologie contrattuali diverse rispetto a quella del lavoro subordinato in senso stretto (es. co.co.co, lavoro etero direzionato, etc.). Il tutto non senza trascurare la libertà imprenditoriale e la discrezionalità organizzativa di cui godono i soggetti appaltatori nella scelta del proprio "modello di organizzazione del lavoro"; b) La società ricorrente ha inoltre fornito una propria personale ricostruzione dei costi del lavoro senza tenere conto delle peculiari differenze (es. regime contributivo) tra il regime di lavoro autonomo e quello di tipo subordinato; c) Altre voci di costo sono state infine correttamente computate, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente NTT, e tra queste anche quelle legate alle "trasferte" del personale. 3. La sentenza di primo grado formava oggetto di appello per error in iudicando nella parte in cui non sarebbe stato considerato che: 3.1. Le regole di gara presupporrebbero (unicamente) la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l'appaltatore e le risorse impiegate nella commessa; 3.2. A ben vedere, le medesime risorse impiegate nella commessa da parte di De. - o per lo meno quel 44% di cui si controverte in questa sede - sarebbero solo formalmente lavoratori autonomi ma, nella sostanza, lavoratori subordinati a tutti gli effetti; 3.3. L'offerta economica sarebbe inconsistente con particolare riguardo al costo medio giornaliero; 3.4. La stazione appaltante non avrebbe compiuto alcuna istruttoria né avrebbe espresso una articolata motivazione con riferimento ai giustificativi presentati da De. in merito alla sostenibilità dei costi del lavoro; 3.5. Non si sarebbe tenuto conto della insostenibilità dell'offerta economica, sempre sul piano del costo del lavoro, sulla base delle stime elaborate dalla stessa NTT (odierna appellante); 3.6. Vi sarebbe stato un certo scostamento dalle tabelle ministeriali con particolare riguardo al TFR; 3.7. I costi di trasferta stimati da De. non avrebbero tenuto conto del fatto che le prestazioni del fornitore dovrebbero svolgersi primariamente in situ, ossia "in presenza" presso le singole amministrazioni; 3.8. Gli stessi costi di trasferta sarebbero in ogni caso fortemente inattendibili; 3.9. Non si sarebbe tenuto conto dei "buoni pasto" da corrispondere ai lavoratori autonomi; 3.10. La stazione appaltante non avrebbe compiuto una esauriente istruttoria, né avrebbe formulato una adeguata motivazione in merito alla durata dei contratti esecutivi ipotizzata da De.. 4. Si costituivano in giudizio CONSIP e De. per chiedere il rigetto del gravame mediante articolate controdeduzioni che, più avanti, formeranno oggetto di specifica trattazione. 5. Alla pubblica udienza del 1° dicembre 2022 le parti rassegnavano le proprie rispettive conclusioni ed il ricorso veniva infine trattenuto in decisione. 06. Tutto ciò premesso l'appello è infondato per le ragioni di seguito indicate. 6. Quanto al primo motivo di appello, si ripropongono nella sostanza le stesse argomentazioni del ricorso di primo grado senza tuttavia dimostrare che la legge di gara imponeva l'uso esclusivo di personale con rapporto di lavoro subordinato. Allo stesso modo non si dimostra in che modo una simile formula organizzativa non consentirebbe il raggiungimento degli obiettivi di commessa. Più in particolare: 6.1. Qui di seguito le principali disposizioni di gara che riguardano le modalità di lavoro del fornitore: - Articolo 7.1.2 del Capitolato Tecnico Generale ("Risorse impiegate"): "Il Fornitore dovrà garantire un elevato grado di flessibilità nel rendere disponibili le risorse, nonché nel garantire l'aggiornamento tecnico delle necessarie competenze"; - Articolo 7.2.1 del Capitolato Tecnico Generale ("Responsabile Unico delle Attività Contrattuali" RUAC): "Il RUAC dovrà riferire... su tutte le tematiche contrattuali, quali ad esempio:... -coordinamento fra i gruppi ed i referenti tecnici per garantirne il massimo grado di sinergia e omogeneità d'azione"; - Articolo 7.2.2 del Capitolato Tecnico Generale ("Referenti tecnici per l'erogazione dei servizi"): "I Referenti tecnici... dovranno: - svolgere il coordinamento delle attività e delle risorse impiegate negli specifici servizi"; - Articolo 3 del Capitolato Tecnico Speciale ("Descrizione dei servizi"): "il Fornitore dovrà garantire la totale copertura dei fabbisogni dell'Amministrazione, anche in situazioni di particolare urgenza o complessità, prevedendo la totale flessibilità e puntualità nell'impiego delle risorse professionali per l'esecuzione dei servizi"; - Articolo 4.3 del Capitolato Tecnico Speciale ("Trasferimento know how"): "Il Fornitore dovrà mettere a disposizione un apposito gruppo di lavoro dedicato, con un numero adeguato di risorse professionali, strumenti organizzativi e tecnologici"; - Articolo 5.6 del Capitolato Tecnico Speciale ("Team di Lavoro"): "Il Fornitore per erogare i servizi contrattuali dovrà disporre delle competenze, esperienze e capacità richieste ai profili professionali indicati di seguito, che devono tutte obbligatoriamente fare parte dei Team di Lavoro (o Team Ottimale) di ciascun servizio. I Team di Lavoro sono sotto la responsabilità e l'organizzazione del Fornitore che ha la responsabilità di strutturare i migliori gruppo di lavoro in funzione dell'operatività e dei deliverable richiesti, garantendo la disponibilità dei profili professionali e delle competenze previste". "Il Fornitore sarà libero di organizzare le suddette figure nell'ambito del proprio Team Ottimale in autonomia per soddisfare le richieste progettuali dell'Amministrazione... il Fornitore sarà libero di organizzare le suddette figure nell'ambito del proprio "team ottimale" per singolo servizio"; 6.2. Emerge, dalle disposizioni appena descritte, come il capitolato tecnico operi costante riferimento a "responsabilità " (di risultati e non di mezzi) e "organizzazione" del team di lavoro, attribuendo per tale via ampio risalto al "lavoro di gruppo" che dal canto suo implica, giocoforza, coordinamento e flessibilità (modello organizzativo, questo, compatibile anche con collaboratori esterni e dunque autonomi, come si avrà modo di osservare) e non piuttosto direzione strettamente gerarchica (propria dei soli lavoratori subordinati). In estrema sintesi, gli elementi principali del modello organizzativo descritto dalla legge di gara si basa su alcuni capisaldi tra cui: a) modalità di lavoro basate su team e dunque "gruppi di lavoro"; b) stile direzionale improntato di conseguenza sul coordinamento, piuttosto che sulla direzione verticistica in senso stretto; c) ampia flessibilità se non proprio libertà di organizzazione, da parte del fornitore, nel costruire i suddetti gruppi di lavoro; d) inserimento di lavoratori ad elevata qualificazione professionale (caratteristica questa propria dei lavoratori autonomi); e) libertà più in generale del fornitore, infine, nella scelta del modello organizzativo più efficace per il raggiungimento degli obiettivi che la legge di gara gli impone di realizzare. Il modello proposto dalla SA, in altre parole, non ponendo in essere alcun vincolo organizzativo nell'impiego delle risorse (le disposizioni di capitolato operano espresso riferimento a concetti come libertà di organizzazione e flessibilità nell'impiego delle risorse) non è allora necessariamente di tipo "divisionale" (il quale tollera solo lavoratori subordinati in quanto fortemente direzionale e gerarchico) ma ben può rivelarsi altresì "a matrice" in quanto basato non solo su funzioni ma anche su progetti. Tale modello implica in particolare ampia flessibilità di intervento, decisioni collegiali e dunque risulta compatibile con la presenza di lavoratori sia subordinati, sia autonomi/consulenti. Ciò anche in linea con la libertà di organizzazione imprenditoriale che la legge di gara stessa garantisce al fornitore (cfr. art. 5.6. del CTS cit.) e che trova peraltro un certo riconoscimento nella giurisprudenza di questa stessa sezione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2021, n. 4150) laddove si afferma che vige in materia il "principio di autonomia dell'imprenditore (che discende dal principio costituzionale della libera iniziativa privata di cui all'art. 41 Cost.), il quale organizza e predispone autonomamente le risorse e i mezzi idonei e necessari ad adempiere alle obbligazioni contrattuali oggetto dell'appalto"); 6.3. Si veda altresì, sul tema specifico, la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui: "in tema di distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo, l'organizzazione del lavoro attraverso disposizioni o direttive - ove le stesse non siano assolutamente pregnanti ed assidue, traducendosi in un'attività di direzione costante e cogente atta a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia - costituisce una modalità di coordinamento e di eterodirezione propria di qualsiasi organizzazione aziendale e si configura quale semplice potere di sovraordinazione e di coordinamento, di per sè compatibile con altri tipi di rapporto, e non già quale potere direttivo e disciplinare, dovendosi ritenere che quest'ultimo debba manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non in mere direttive di carattere generale, mentre, a sua volta, la potestà organizzativa deve concretizzarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento della sua attività . Cass. lav. n. 1717 del 23/01/2009" (così : Cass. Civile, sez. lav., 24 luglio 2020, n. 15922). Ed ancora: "quanto allo schema normativo di cui all'art. 2094 c.c., si è precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato (v. Cass., 27.2.2007 n. 4500)" (Cass. Civile, sez. VI, 26 maggio 2021, n. 14530). Infine: "l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività (opus)" (Cass. Civile, sez. lav., 26 giugno 2020, n. 12871); 6.4. Sintetizzando il punto che precede: mentre il lavoro subordinato si caratterizza per la soggezione del dipendente alla "direzione costante e cogente" del datore di lavoro, il quale si esprime a sua volta attraverso "ordini" (oggetto della prestazione sono dunque le "energie lavorative" del dipendente), nel lavoro autonomo lo stile direzionale è quello più flessibile del "coordinamento" che si esprime attraverso "direttive" di carattere generale (in siffatto contesto, oggetto della prestazione è dato più propriamente dal "risultato" che scaturisce dalla prestazione lavorativa stessa). 6.5. Trasponendo tali coordinate al modello organizzativo descritto nella legge di gara di cui in questa sede si controverte (si vedano le considerazioni di cui al punto 6.2.), deve allora concludersi che è agevole assistere, nel caso di specie, ad un modello organizzativo per lo più basato su coordinamento e dunque su "direttive" impartite ai propri collaboratori (che dunque possono essere sia dipendenti, sia lavoratori autonomi) e non soltanto su direzione costante e cogente espressa mediante "ordini" (non traspare giammai, in altre parole, quel "vincolo di soggezione" che è tipico del lavoro subordinato). Il modello delineato dalla legge di gara, in altri termini, è compatibile con la assegnazione di specifici obiettivi - piuttosto che rigide mansioni - ai singoli componenti del gruppo di lavoro. Obiettivi che i medesimi potranno raggiungere con un certo grado di autonomia funzionale data anche l'elevata qualificazione professionale da loro posseduta. Di qui la compatibilità, altresì, con la figura di lavoratori non solo subordinati ma anche autonomi. 6.6. Unico passaggio della legge di gara evidenziato dalla difesa di parte appellante - e in base al quale vi sarebbe una certa indicazione di impiegare soltanto lavoratori subordinati - sarebbe quello in cui si afferma che: "Il Team di Lavoro è sotto la responsabilità e l'organizzazione del fornitore" (cfr. punto 3.2.2. del Capitolato tecnico speciale). Trattasi tuttavia, ad avviso del collegio, di affermazione inidonea a suffragare una simile restrittiva lettura (solo lavoratori subordinati e non anche autonomi), e tanto sulla base della già accennata considerazione secondo cui: allorché si parli di "responsabilità " ci si deve riferire non tanto ad una responsabilità "di mezzi" quanto, piuttosto, "di risultato" (dunque occorre avere presenti gli "esiti concreti" dell'attività svolta e non le singole "energie lavorative" per conseguirli); allorché si tratti di "organizzazione" il riferimento può essere a diverse opzioni che, secondo la scienza aziendalistica, possono variare come visto da modelli "funzionali" e "divisionali" (i quali presuppongono stili direzionali di natura gerarchica e verticistica) a modelli "a matrice" oppure "a rete" che privilegiano stili direzionali e decisionali più collegiali e dunque di natura orizzontale. Modelli questi ultimi improntati sulla tecnica direzionale del (più flessibile) coordinamento organizzativo che, per le ragioni sopra esposte al punto 6.2., risulta senz'altro più aderente alle condizioni ed alle modalità lavorative impresse dalla legge di gara. In altre termini: "responsabilità " e "organizzazione" richiesti per la conduzione del gruppo di lavoro non implicano necessariamente "direzione costante e cogente" ma, piuttosto, un più flessibile ed ampio potere di "coordinamento" (seguendo la ridetta impostazione della Corte di cassazione) che pertanto ben può esprimersi attraverso "direttive" e non necessariamente mediante "ordini" (che implicano vincoli di soggezione e dunque solo lavoro subordinato). Del resto, la stessa invocata disposizione del capitolato (art. 5.6.) prevede altresì che da responsabilità e organizzazione del fornitore discenda altresì la piena facoltà, in capo a quest'ultimo, di scegliere "i migliori gruppi di lavoro in funzione dell'operatività e dei deliverable (risultati) richiesti"; 6.7. Da quanto sinora detto consegue la piena possibilità, da parte delle imprese concorrenti, di prevedere nei propri asset organizzativi sia lavoratori subordinati, sia lavoratori autonomi entro certi limiti qui comunque osservati, dal momento che queste ultime figure corrispondono a meno della metà della forza lavoro complessivamente impiegata; 6.8. Alla luce delle considerazioni appena esposte, il primo motivo di appello deve dunque essere rigettato con conseguente conferma, sul punto, delle condivisibili statuizioni del giudice di primo grado. 7. Con il motivo sub 3.2. si lamenta che, a ben vedere, le risorse impiegate nella commessa da parte di De. - o per lo meno quel 44% di cui si controverte in questa sede - sarebbero solo formalmente lavoratori autonomi ma, nella sostanza, lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Viene dedotta al riguardo la presenza di alcuni indici sintomatici tra cui orario di lavoro predeterminato, continuità del servizio e luogo di esecuzione. Osserva al riguardo il collegio che: 7.1. Trattasi di valutazioni che attengono alla fase esecutiva della commessa e che dunque possono essere operate soltanto ex post (tra l'altro ad opera di altro plesso giurisdizionale (AGO)) ossia sulla base delle concrete modalità e condizioni di lavoro e non ex ante sulla sola base di presunzioni astrattamente ricavabili da documenti di gara concernenti il mero assetto organizzativo dell'impresa concorrente. In questa sede ci si può occupare, in altri termini, soltanto dell'an ossia sul "se" tali lavoratori autonomi possano astrattamente essere utilizzabili nella commessa in questione e non anche del quomodo ossia se gli stessi soggetti siano anche concretamente utilizzati come tali. Una simile prognosi, in tale fase, non è in altri termini effettuabile; 7.2. Ad ogni modo, pur volendo ammettere simili presunzioni trattasi pur sempre di indici non dirimenti né decisivi, onde poter configurare la presenza di un effettivo rapporto di subordinazione, e ciò sulla base di un certo orientamento giurisprudenziale secondo cui: "caratteri dell'attività lavorativa... come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo parasubordinato. Conforme, tra l'altro, Cass. n. 224 del 2001" (così Cass. Civile, sez. lav., 24 luglio 2020, n. 15922, cit.). 7.3. Alla luce delle suddette considerazioni, anche tale motivo deve pertanto essere rigettato. 8. Con il motivo sub 3.3. si deduce che l'offerta economica di De. sarebbe inconsistente con particolare riguardo al costo medio giornaliero (130 euro per professionista 1 e 150 euro per professionista 2). La censura si rivela tuttavia generica e dunque inammissibile in quanto un simile importo non ha formato oggetto di più specifica contestazione (piuttosto, come si avrà modo più avanti di osservare al punto 10, la stessa voce di costo è stata poi del tutto ricalibrata dalla difesa di parte appellante sulla base di proprie soggettive valutazioni). La stessa difesa di parte appellante si è infatti limitata ad affermare che: "La quantificazione di tali costi... risulta del tutto generica". Di qui il suo integrale rigetto. 9. Con il motivo sub 3.4. si lamenta che la stazione appaltante non avrebbe compiuto alcuna istruttoria né avrebbe espresso una articolata motivazione con riferimento ai giustificativi presentati da De. in merito alla sostenibilità dei costi del lavoro. Osserva al riguardo il collegio che, per giurisprudenza costante: "nelle gare pubbliche, ove l'Amministrazione consideri congrua l'offerta sulla base delle spiegazioni fornite dal concorrente in sede di verifica dell'anomalia, la sua valutazione deve ritenersi sufficientemente motivata con richiamo "per relationem" ai chiarimenti ricevuti, tanto più che la verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando invece ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o non serio affidamento circa la corretta esecuzione" (così, testualmente, Cons. St., V, n. 4450/11 cit.). "Il giudizio di anomalia dell'offerta richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo mentre, in caso positivo, non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata motivazione ripetitiva delle medesime giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa "per relationem" alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate" (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6154). Dalle suddette considerazioni discende il rigetto altresì della specifica censura. 10. Con il motivo sub 3.5. si deduce che non si sarebbe tenuto conto della insostenibilità dell'offerta economica, sempre sul piano del costo del lavoro, sulla base delle stime elaborate dalla stessa NTT (odierna appellante). Rammenta al riguardo il Collegio che sul giudizio di anomalia la giurisprudenza consolidata, per quanto di interesse in questa sede, ha in particolare affermato che nelle gare pubbliche un simile giudizio circa l'incongruità dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di palese erroneità (ex multis, Cons. Stato, III, 6 febbraio 2017, n. 514; Cons. Stato, V, 17 novembre 2016, n. 4755): di qui l'impossibilità di censurare la mera non condivisibilità del giudizio, dovendosi piuttosto dimostrare la sua palese inattendibilità nonché l'evidente insostenibilità dell'offerta e delle relative giustificazioni. Con la conseguenza che, ove non emergano evidenti travisamenti o irrazionalità ma solo margini di fisiologica opinabilità della valutazione tecnico-discrezionale operata dalla Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo non potrebbe in alcun caso sovrapporre la propria valutazione a quella del competente organo della stazione appaltante, né potrebbe parimenti procedere ad una autonoma verifica di congruità dell'offerta medesima e delle sue singole voci (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 novembre 2018, n. 6689). Tanto doverosamente premesso, le stime di costo ricalibrate dalla società appellante si riducono ad una mera sovrapposizione di calcoli già effettuati e valutati come congrui in sede di gara. Dunque nessuna dimostrazione di manifesta inattendibilità delle stime effettuate, si ravvisa, ma soltanto mera opinabilità delle valutazioni già effettuate dalla stazione appaltante. Valutazioni queste che, come già anticipato, sono rimesse in discussione dalla difesa di parte appellante (cfr. modelli e tabelle alle pagg. 33-37 atto di appello) attraverso una propria operazione di riparametrazione e rielaborazione dei costi (dunque sovrapposta a quella stimata come congrua dalla SA) che, ove accettata da questo giudice di appello, determinerebbe conseguentemente una inammissibile sostituzione nei confronti dell'amministrazione stessa. Il tutto riproponendo sic et simpliciter, tra l'altro, il modello dei lavoratori subordinati e dunque senza depurare - come correttamente posto in evidenza dal giudice di primo grado - alcuni importanti costi che non sarebbero altrimenti sopportati attraverso l'impiego di lavoratori autonomi (contributi INPS, TFR, indennità di contingenza). In ultimo si osserva che, se è ben vero che questo giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 25 marzo 2019, n. 1979) ha ritenuto legittimo, in caso di valutazione di congruità delle prestazioni professionali di lavoratori autonomi, il ricorso ai parametri retributivi (comunque non vincolanti) dei lavoratori subordinati che svolgono analoghe mansioni, è anche vero che tale decisione si riferiva al diverso caso in cui l'appellante contestava (e non pretendeva, come nel caso di specie) l'utilizzo di tale metodo da parte della stazione appaltante (la quale, giova rammentare, esercita al riguardo un potere tecnico-discrezionale, laddove il ricorrente non potrebbe giammai far valere tale identico metodo onde riparametrare certi costi in via del tutto alternativa e sostitutiva rispetto alle valutazioni al riguardo già svolte dalla stessa SA). Nei termini suddetti anche tale censura deve dunque essere rigettata 11. Con la censura sub 3.6. si lamenta che vi sarebbe stato un certo scostamento dalle tabelle ministeriali con particolare riguardo al TFR. Rammenta al riguardo il collegio che, per giurisprudenza costante, in sede di valutazione della non anomalia dell'offerta i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali costituiscono un semplice parametro di valutazione della congruità dell'offerta: per tali ragioni, l'eventuale scostamento delle voci di costo da quelle riassunte nelle tabelle ministeriali non legittima un giudizio di anomalia o di incongruità in quanto occorre, affinché possa dubitarsi della congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10071; Cons. Stato, sez. V, 6 settembre 2022, n. 7762). Ebbene, alla luce di quanto appena rammentato la difesa di parte appellante non allega elementi tali da poter ipotizzare che la suddetta discordanza possa essere ritenuta considerevole o palesemente ingiustificata, e ciò dal momento che la stessa si limita in proposito a rilevare che: "il RTI... ha palesemente sottostimato tale voce di costo". Ed ancora che: "emergono delle differenze rispetto alle tabelle ministeriali di riferimento" (pag. 39 atto di appello). Inoltre che: "il valore della rivalutazione del TFR è stato calcolato con una percentuale ben inferiore al minimo di legge" (pag. 40 atto di appello), senza tuttavia quantificare l'entità di tale denunziato scostamento. Infine, anche in via pressoché meramente sostitutiva, che: "Dalle tabelle che precedono si evince che il RTI ha sottostimato, per ciascuna categoria di risorse professionali, di ciascuna delle aziende del raggruppamento coinvolte, i reali costi che dette aziende avrebbero dovuto sostenere" (pag. 42 atto di appello). Dalle suddette considerazioni emerge dunque che anche tale motivo deve giocoforza essere rigettato. 12. Con il motivo sub 3.7. si deduce che i costi di trasferta stimati da De. non avrebbero tenuto conto del fatto che le prestazioni del fornitore dovrebbero svolgersi primariamente in situ, ossia "in presenza" presso le singole amministrazioni. Osserva al riguardo il collegio che: 12.1. Ai sensi del punto 3 del Capitolato tecnico generale: "le prestazioni contrattuali dovranno essere svolte come di seguito indicato: - per i servizi erogati da remoto: presso i Centri Servizi del Fornitore; - per i servizi on-site: presso le sedi dell'Amministrazione ove specificato dall'Amministrazione stessa; in alternativa presso la Sede del Fornitore". Inoltre, ai sensi dell'art. 3 del Capitolato tecnico speciale si prevede che: "La modalità di esecuzione dei servizi di "Compliance e controllo" è di tipo "on-site": ovvero primariamente presso le sedi dall'Amministrazione, ove dalla stessa indicate; in alternativa presso la sede del Fornitore"; 12.2. Non vengono utilizzate, con riguardo al servizio prestato presso la sede del fornitore, espressioni come "in via secondaria" oppure "in via subordinata" ma la diversa formula "in alternativa" che, anche ai sensi dell'art. 1285 c.c., lascia presumere che ci si trovi dinanzi a modalità di adempimento dell'obbligazione per l'appunto "alternative" la cui scelta, di conseguenza, spetta a colui che deve effettuare la prestazione stessa (ossia l'appaltatore); 12.3. Nei sensi sopra indicati l'espressione "primariamente", quanto alle modalità di lavoro "in presenza", va allora letta come "preferibilmente" o comunque "in linea tendenziale", salvo una diversa scelta effettuata dall'appaltatore circa la possibilità di effettuare interventi "da remoto" e dunque direttamente dalla sede del fornitore stesso; 12.4. Del resto, una simile opzione interpretativa risulta pienamente ed anche evolutivamente coerente con esigenze non solo di emergenza sanitaria (limitazione al minimo dei contatti personali per via del COVID) ma anche di carattere ambientale (limitazione degli spostamenti per ragioni di inquinamento atmosferico) ed economico (legate al costo dei carburanti e dei mezzi di trasporto): insomma tutte necessità che inducono a promuovere in ogni contesto, ivi ricompreso il settore delle pubbliche commesse, lo strumento del "lavoro da remoto"; 12.5. Per tutte le ragioni sopra evidenziate, anche tale motivo deve pertanto essere rigettato. 13. Con il motivo indicato sub 3.8. si lamenta poi che gli stessi costi di trasferta sarebbero in ogni caso fortemente inattendibili (costo medio giornaliero pari ad euro 50,00). Osserva al riguardo il collegio che la difesa di De., sin dai giustificativi resi in sede di giudizio di congruità, aveva indicato una serie di fattori idonei a configurare economie di scala utili, in quanto tali, a contribuire ad un forte abbattimento di simili costi di trasferta. Tra queste voci: presenza di numerosi uffici locali, in capo al concorrente RTI, idonei a garantire adeguata copertura logistica su tutto il territorio nazionale (di qui il venir meno della necessità di ricorrere alla trasferta); utilizzo importante di "lavoro da remoto" (smart working, video conferenze, etc.); utilizzo di auto aziendali; convenzioni con strutture alberghiere; collaborazioni con professionisti ad elevata qualificazione (per l'appunto: lavoratori autonomi) dislocati nelle varie regioni italiane che sono così in grado di coprire l'intero territorio nazionale. Ebbene in merito a tali considerazioni (fatte proprie dalla stazione appaltante ma anche dal giudice di primo grado) la difesa di parte appellante non ha mosso specifiche contestazioni in termini di manifesta incongruità oppure di evidente erroneità in fatto. Ciò risulta piuttosto evidente nella parte in cui la stessa: a) si limita ad affermare genericamente che: "risulta evidente che i costi prospettati dal RTI per garantire la corretta esecuzione del servizio sono così bassi rispetto al loro reale ammontare da mettere in dubbio la serietà dell'offerta" (pag. 46 atto di appello); b) propone una propria stima alternativa di tali costi - in quanto tale inammissibile per le stesse ragioni evidenziate al punto 10 della presente decisione - laddove si afferma in via del tutto sovrapponibile rispetto alle valutazioni della SA che: "Calcolando il 30% del numero di giornate lavorative complessive stimate, risulta che i giorni di trasferta saranno pari ad almeno 115.075 che, moltiplicati per il costo giornaliero di trasferta stimato dal RTI in Euro 50,00, determina un aggravio di costi pari a Euro 5.527.271" (pag. 47 atto di appello). Da quanto sopra detto consegue l'infondatezza, altresì, della specifica censura ed il suo conseguente rigetto. 14. Con il motivo sub 3.9. viene dedotto che non si sarebbe tenuto conto dei "buoni pasto" da corrispondere ai lavoratori solo formalmente autonomi ma sostanzialmente subordinati. Osserva il collegio come la censura sia strettamente collegata a quella già affrontata al punto 7. Pertanto, poiché in quell'occasione si è negata la possibilità di riconoscere in questa sede la qualità effettiva di lavoratori subordinati in capo ai suddetti "collaboratori esterni" di De., va conseguentemente rigettata anche tale specifica censura. 15. Con ultima censura si lamenta che la stazione appaltante non avrebbe compiuto una esauriente istruttoria, né avrebbe formulato una adeguata motivazione in merito alla durata dei contratti esecutivi ipotizzata da De.. Osserva il collegio che, in sede di giustificativi, De. ha fornito ampie delucidazioni circa il fatto che, pur nell'arco complessivo del periodo di attivazione dell'accordo quadro (6 anni), la durata media dei singoli contratti esecutivi sarebbe pari a due anni. Ebbene tali precisazioni sono state evidentemente fatte proprie dalla stazione appaltante mediante motivazione per relationem, come tale non necessitante di più specifiche argomentazioni sulla base delle conclusioni di cui al punto 9 della presente decisione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6154, cit.). A ciò si aggiunga che, pur a fronte di tali delucidazioni da parte di De., la difesa di parte appellante si è limitata ad affermare alquanto genericamente e dubitativamente che: "il RTI... non ha mai chiarito cosa debba intendersi per contratti di "grande" e "media" dimensione, che rimangono concetti astratti e privi di qualsivoglia significato. Allo stesso modo non è dato comprendere i criteri sottesi all'attribuzione dei relativi pesi specifici" (pag. 25 e 26 memoria NTT in data 15 novembre 2022). Anche tale motivo deve pertanto essere rigettato. 16. In conclusione l'appello è infondato e deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza di primo grado. Le spese di lite possono in ogni caso essere integralmente compensate tra tutte le parti costituite stante la peculiarità delle esaminate questioni. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 dicembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Massimo Santini - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI FROSINONE Sezione Lavoro Il Tribunale di Frosinone, in funzione di Giudice del Lavoro, nella persona della dott.ssa Laura Laureti, nella causa tra: (...), ricorrente, rappresentata e difesa dall'avv. Laura Careri; E (...), in persona del legale rappresentante pro-tempore, resistente, rappresentata e difesa dagli avv.ti Fr.Ma. e Ma.Gi.; E REGIONE LAZIO, in persona del legale rappresentante pro-tempore, resistente, contumace; all'udienza del 24 gennaio 2023 ha emesso la seguente Sentenza FATTO E DIRITTO (...) ha convenuto in giudizio la (...) e la Regione Lazio e ha dedotto di essere invalido civile, affetto da cecità assoluta, e di lavorare da circa 37 anni alle dipendenze della Azienda convenuta con mansioni di centralinista. Ha esposto che ha sempre esercitato le proprie mansioni all'interno di un ufficio non accessibile al pubblico e che sin dal 2 agosto 2020 è stato adibito a svolgere il suo lavoro esclusivamente dalla propria dimora (in modalità smart working). Con comunicazione del 15.12.2021 il ricorrente è stato invitato dal datore di lavoro alla vaccinazione anti SarsCoV2. Ritenendo che il personale non sanitario non adibito a lavoro a contatto con il pubblico sia escluso dall'obbligo di vaccinazione, il ricorrente ha contestato l'invito della (...). Con successivo provvedimento prot. n. (...) del 9.2.2022 la Commissione per la verifica dell'obbligo vaccinale ha accertato l'inosservanza dell'obbligo da parte del (...) e la (...) con prot. (...) del 9.2.2022 ha disposto la sua sospensione dal lavoro e dalla retribuzione ai sensi dell'art. 4-ter del D.L. n. 44 del 2021. Il ricorrente ha impugnato il provvedimento di sospensione del 9.2.2022 per violazione dell'art. 2 D.L. n. 172 del 2021 (art. 4-ter co. 3 D.L. n. 44 del 2021), dell'art. 1 D.L. n. 1 del 2022, per inadempimento contrattuale del datore di lavoro e inesigibilità dell'obbligo vaccinale. Ha evidenziato l'illegittimità costituzionale dell'obbligo vaccinale per contrasto con gli artt. 2, 3, 19, 32, 36 e 117 della Costituzione, nonché del Codice di Norimberga, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della Convenzione di Oviedo. Il sig. (...) ha quindi chiesto al Giudice di accertare l'illegittimità del provvedimento di sospensione del 9.2.2022 e di disapplicarlo e di condannare le resistenti al risarcimento del danno mediante pagamento in suo favore delle retribuzioni non corrisposte maturate dalla data di sospensione fino alla data di effettiva riammissione in servizio; ha chiesto altresì di condannare le resistenti alla regolarizzazione contributiva della sua posizione previdenziale per il periodo di illegittima sospensione e di computarlo come periodo di effettivo servizio anche ai fini della valutazione di punteggi e della anzianità lavorativa. Si è costituita la (...) e ha chiesto il rigetto della domanda in quanto infondata. In via preliminare la convenuta ha osservato che in data 21.4.2022, il provvedimento di sospensione del 9.2.2022 è stato revocato e il ricorrente è stato riammesso in servizio a seguito di invio di referto negativo e possesso di green pass (per guarigione in esito a contagio). Ha quindi chiesto di dichiarare l'inammissibilità/improcedibilità della domanda di revoca del provvedimento di sospensione del 9.2.2022 e di riammissione in servizio per cessazione della materia del contendere. Nel merito la (...) ha osservato di essersi conformata alla legge a suo tempo vigente che ha previsto l'obbligo vaccinale del ricorrente, in quanto lavoratore presso struttura sanitaria e ultracinquantenne; che la normativa non contempla il lavoro agile quale causa di esonero dall'obbligo vaccinale; che il legislatore ha demandato al datore di lavoro il compito di assicurare la puntuale e rigorosa applicazione delle norme in materia di obbligo vaccinale. La Regione Lazio, regolarmente citata, non si è costituita ed è stata dichiarata contumace. Alla udienza del 17 maggio 2022, la parte ricorrente ha confermato la revoca della sospensione dal servizio e dalla retribuzione e la sua riammissione al lavoro. Ha quindi aderito alla richiesta di cessazione della materia del contendere in relazione alla domanda di ripristino del rapporto di lavoro, mentre ha insistito con la domanda di risarcimento del danno e corresponsione delle retribuzioni omesse durante il periodo di illegittima sospensione. Sul contradditorio così instaurato, la causa ritenuta documentalmente istruita, è stata discussa e decisa con separata sentenza nel corso della odierna udienza. Per orientamento costante e consolidato della S.C. "La cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice" (Cass. SS.UU. n. 13969/2004, e nn. 16150/2010, 11931/2006; di recente Cass. n. 2063/2014). Inoltre "La cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale, che si verifica quando sopravvenga una situazione che elimini la ragione del contendere delle parti, facendo venir meno l'interesse ad agire e a contraddire, e cioè l'interesse ad ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, da accertare avendo riguardo all'azione proposta e alle difese svolte dal convenuto" (Cass. 2567/2007 e 4714/2006). Nella specie sussistono i presupposti per la dichiarazione di cessata materia del contendere in relazione alla domanda di revoca della sospensione dal lavoro e riammissione in servizio. Il provvedimento di sospensione (impugnato) del 9.2.2022 è stato revocato e il ricorrente è rientrato in servizio dal 21.4.2022. Successivamente al deposito del ricorso (del 9.4.2022) è venuto meno l'interesse delle parti ad una pronuncia del Giudice di annullamento del Provv. del 9 febbraio 2022. Si ritiene poi fondata la domanda di accertamento della illegittima sospensione operata dalla azienda resistente. Il provvedimento di sospensione dal lavoro del 9.2.2022 e l'atto di accertamento dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale richiamano l'art. 2 del D.L. 26 novembre 2021, n. 172, che ha introdotto l'art. 4-ter al D.L. n. 44 del 2021 sull'estensione dell'obbligo vaccinale, tra l'altro, al personale che opera nelle strutture sanitarie. L'art. 4-ter D.L. n. 44 del 2021 cit., nella versione applicabile ratione temporis, statuisce che: "Dal 15 dicembre 2021, l'obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 di cui all'articolo 3-ter, da adempiersi, per la somministrazione della dose di richiamo, entro i termini di validità delle certificazioni verdi COVID-19 previsti dall'articolo 9, comma 3, del D.L. n. 52 del 2021, si applica anche alle seguenti categorie:? c) personale che svolge a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa nelle strutture di cui all'art. 8-ter del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, ad esclusione di quello che svolge attività lavorativa con contratti esterni, fermo restando quanto previsto dagli articoli 4 e 4-bis" (comma 1). I successivi commi 2 e 3 dispongono che "La vaccinazione costituisce requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei soggetti obbligati ai sensi del comma 1. I dirigenti scolastici e i responsabili delle istituzioni di cui al comma 1, lettera a), i responsabili delle strutture in cui presta servizio il personale di cui al comma 1, lettere b), c) e d), assicurano il rispetto dell'obbligo di cui al comma 1. Si applicano ledisposizioni di cui all'articolo 4, commi 2 e 7" (comma 2) e che "I soggetti di cui al comma 2 verificano immediatamente l'adempimento del predetto obbligo vaccinale ... Nei casi in cui non risulti l'effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell'ambito della campagna vaccinale in atto, i soggetti di cui al comma 2 invitano, senza indugio, l'interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell'invito, la documentazione comprovante l'effettuazione della vaccinazione oppure l'attestazione relativa all'omissione o al differimento della stessa ai sensi dell'articolo 4, comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione da eseguirsi in un termine non superiore a venti giorni dalla ricezione dell'invito, o comunque l'insussistenza dei presupposti per l'obbligo vaccinale di cui al comma 1. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, i soggetti di cui al comma 2 invitano l'interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l'adempimento all'obbligo vaccinale. In caso di mancata presentazione della documentazione di cui al secondo e terzo periodo i soggetti di cui al comma 2 accertano l'inosservanza dell'obbligo vaccinale e ne danno immediata comunicazione scritta all'interessato. L'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati. La sospensione è efficace fino alla comunicazione da parte dell'interessato al datore di lavoro dell'avvio o del successivo completamento del ciclo vaccinale primario o della somministrazione della dose di richiamo, e comunque non oltre il termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021". Gli artt. 4 e 4-bis, richiamati dall'art. 4-ter D.L. n. 44 del 2021 cit., prevedono l'obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario (ossia coloro che esercitano professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e la professione ostetrica), nonché per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie. L'art. 8-ter del D.Lgs. n. 502 del 1992, inoltre, fa riferimento alle strutture ospedaliere, sanitarie e socio-sanitarie la cui realizzazione è subordinata ad autorizzazione. L'obbligo vaccinale in esame è stato introdotto per prevenire e contenere la diffusione dell'infezione da virus SARS-Cov-2 al fine di tutelare la salute pubblica e in particolare i soggetti fragili. La sua imposizione comporta una limitazione di libertà personali costituzionalmente protette che si giustifica in ragione della situazione emergenziale all'epoca esistente, del dovere inderogabile di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e della salute come interesse della collettività (art. 32 Cost.), valori di pari rango costituzionale. La disciplina dell'obbligo vaccinale, dunque, è il risultato di un bilanciamento di interessi (individuali e collettivi) contrapposti e per questo, limitando fortemente libertà individuali in funzione della tutela della salute della collettività, va interpretata restrittivamente. Nella specie il ricorrente è dipendente della (...) con mansioni di centralinista. Ha dedotto di aver svolto la sua attività lavorativa in un ufficio non accessibile al pubblico e dal 2 agosto 2020 ha lavorato esclusivamente dalla propria abitazione nella modalità del lavoro agile (o smart working). Non è un sanitario, né è adibito a prestazioni a contatto con il pubblico. Né, alla data di entrata in vigore dell'obbligo vaccinale previsto dall'art. 4-ter in esame (15.12.2021), operava presso una struttura sanitaria o socio-sanitaria. Come osservato, l'art. 4-ter in esame ha introdotto l'obbligo vaccinale per il "personale che svolge a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa nelle strutture di cui all'art. 8-ter del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502" ossia nelle strutture ospedaliere, sanitarie e socio-sanitarie, con esclusione dei collaboratori con contratti esterni e fermo restando l'obbligo vaccinale dei soggetti di cui all'art. 4 e 4-bis. Si ritiene che il ricorrente non rientri in alcuna delle categorie sopra descritte soggette all'obbligo vaccinale. Per un verso, non fa parte del personale sanitario in quanto svolge mansioni di centralinista; per l'altro, prestando attività lavorativa esclusivamente da casa già da agosto 2020, non opera presso una struttura dedicata all'assistenza e al ricovero dei pazienti, non ha contatti con il pubblico né con persone fragili o malate. Inoltre, la sospensione dal servizio non può essere comminata in ragione dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale previsto per i lavoratori ultracinquantenni in quanto, in quest'ultima fattispecie, la norma non prevede la sospensione dal servizio quale conseguenza della mancata somministrazione del vaccino. Alla luce delle osservazioni descritte, si ritiene che sia illegittimo il provvedimento di sospensione dal lavoro del (...) del 9.2.2022, con conseguente condanna della (...) a pagare al ricorrente le retribuzioni maturate e non percepite nel periodo di illegittima sospensione. La (...) va altresì condannata a regolarizzare la posizione previdenziale del ricorrente e a considerare il periodo di sospensione come periodo di effettivo lavoro ai fini della valutazione di punteggi e della anzianità lavorativa. Il ricorso va quindi accolto per le ragioni descritte e ciò assorbe l'esame delle ulteriori censure formulate da parte attrice. Si ritiene di compensare le spese di lite tra le parti per la novità e complessità delle questioni trattate. Queste sono le ragioni della decisione in epigrafe. P.Q.M. Dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda di revoca del provvedimento di sospensione del 9.2.2022 e di riammissione in servizio; Condanna la (...) resistente al pagamento, in favore del sig. (...), della retribuzione maturata durante il periodo di illegittima sospensione dal lavoro, oltre interessi come per legge, e di computarlo come periodo di effettivo servizio ai fini della valutazione di punteggi e della anzianità lavorativa; Condanna altresì la (...) resistente alla regolarizzazione contributiva della posizione previdenziale del ricorrente per il periodo di illegittima sospensione; Compensa le spese di lite. Così deciso in Frosinone il 24 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 4, e 76 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promossi complessivamente dal Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, con ordinanza dell’11 marzo 2021, e dalla Corte di cassazione, sezione quinta penale, con ordinanza del 16 dicembre 2021, iscritte, rispettivamente, al n. 164 del registro ordinanze 2021 e al n. 73 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 43 dell’anno 2021 e n. 26 dell’anno 2022. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022 il giudice relatore Nicolò Zanon; deliberato nella camera di consiglio del 20 dicembre 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza dell’11 marzo 2021 (reg. ord. n. 164 del 2021), il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 15 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 4, e 76 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 13), nella parte in cui prevedono che, con l’avviso orale, il questore possa imporre a coloro che sono stati definitivamente condannati per delitti non colposi il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente» e, dunque, anche i telefoni cellulari. Il giudice a quo riferisce di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di A. L, imputato del reato di cui all’art. 76, comma 2, cod. antimafia, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, nonostante nei suoi confronti fosse stato emesso avviso orale con imposizione dei divieti previsti dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia, tra i quali, appunto, quello «di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente». 1.1.– Il Tribunale di Sassari si sofferma innanzitutto sul significato della locuzione «apparato di comunicazione radiotrasmittente». Premesso che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, coinciderebbe «nella sostanza precettiva» con l’abrogato art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), a suo giudizio tale locuzione sarebbe stata introdotta nell’ordinamento in un’epoca in cui gli apparecchi radiotrasmittenti si connotavano quali strumenti «di tipo eccezionale e militare (walkie talkie)», il cui utilizzo, «raro» e «inusuale», era allora tipicamente volto alla commissione di reati. Una tale caratterizzazione, del resto, ancora oggi accomunerebbe altre categorie di dispositivi che possono essere oggetto del divieto in esame, tra cui i «radar e visori notturni» o i «mezzi di trasporto blindati», la cui finalità d’uso sarebbe rimasta immutata nel tempo. Nell’ordinanza di rimessione viene quindi sottolineato come l’utilizzo del telefono cellulare, il cui funzionamento è basato sulla tecnologia della trasmissione di onde radio, sia ormai diventato talmente comune da soppiantare la comunicazione telefonica via cavo: il potere inibitorio del questore, pertanto, avrebbe acquisito col tempo la capacità di incidere su mezzi di comunicazione del tutto ordinari. Ciò posto, il rimettente muove dal presupposto che il telefono cellulare debba essere incluso nella nozione di «apparato di comunicazione radiotrasmittente», di cui alla disposizione censurata, condividendo l’impostazione abbracciata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, anche di recente, avrebbe interpretato in questo senso la formula normativa (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551). Il giudice rimettente evidenzia, a questo proposito, che una diversa interpretazione non sarebbe consentita dal dato testuale: il telefono cellulare, infatti, costituirebbe «tecnologicamente un apparato radio trasmittente», operando grazie al collegamento via radio con stazioni capaci di ricevere e trasmettere onde elettromagnetiche. 1.2.– Su queste premesse, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui «consente al solo questore, e non all’autorità giudiziaria, di inibire qualunque mezzo di comunicazione radiotrasmittente, e quindi l’uso del telefono cellulare». 1.3.– In punto di rilevanza, il rimettente osserva che si contesta a A. L. la violazione di un provvedimento di divieto dettagliatamente motivato, con riguardo sia ai numerosi reati contro il patrimonio commessi dall’imputato, sia alla finalità della prescrizione, sicché non sarebbe possibile, attraverso la disapplicazione di tale atto, giungere ad una pronuncia di proscioglimento. L’esito del giudizio, quindi, sarebbe evidentemente condizionato dalla soluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, che attribuisce al questore il suddetto potere inibitorio. 1.4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo sospetta, in primo luogo, il contrasto con l’art. 15 Cost., che consente limitazioni alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria». In quest’ottica, la facoltà di impugnare il provvedimento del questore davanti a un’autorità giurisdizionale, prevista dall’art. 3, comma 6, cod. antimafia, sarebbe un rimedio insufficiente, perché l’art. 15 Cost. imporrebbe l’intervento giurisdizionale nel «momento genetico» della limitazione della libertà di comunicazione e non in un momento successivo, mentre l’avviso orale è «immediatamente efficace, anche in pendenza dei termini di impugnazione». A sostegno della dedotta violazione dell’art. 15 Cost., il giudice a quo evidenzia altresì che, oggi, la libertà di comunicazione tra persone che si trovino a distanza non potrebbe prescindere dal ricorso ad apparecchi radiotrasmittenti, tra cui rientrerebbero non solo i telefoni cellulari, ma anche i tablet, gli smartwatch e gli «apparati pc», nonché la comunicazione domotica, che pure funziona via radio. Il Tribunale rimettente pone poi in rilievo come l’inibizione all’utilizzo del telefono cellulare comporterebbe un sacrificio del diritto di comunicare che, per il legislatore del 1956, sarebbe stato inimmaginabile, tenuto anche conto dell’incidenza dell’emergenza sanitaria da COVID-19, essendo a tale eccezionale circostanza conseguite specifiche misure che, limitando i contatti sociali, avrebbero di fatto reso possibili esclusivamente comunicazioni a distanza, le quali «ormai avvengono solo attraverso apparati radiotrasmittenti». Da ultimo, l’inibizione oggetto di censura ostacolerebbe la fruibilità di servizi sanitari, bancari, assicurativi, previdenziali, professionali, di domotica, di smart working, cui l’utente accede oggi sempre più spesso con apparati radiotrasmittenti, venendo così limitate, a parere del giudice a quo, le garanzie del controllo giudiziario in riferimento all’esercizio di diritti ulteriori rispetto alla libertà di comunicazione. 1.5.– La disposizione censurata sarebbe altresì contrastante con l’art. 3 Cost. Viene a tal fine individuato come tertium comparationis l’art. 4 cod. antimafia, il quale, dettato in tema di misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, richiede l’intervento di quest’ultima addirittura per limitazioni che, secondo il giudice rimettente, avrebbero sulle relazioni sociali del prevenuto un impatto meno gravoso della inibizione all’uso del telefono cellulare, come ad esempio il divieto di incontrare «alcune persone», nonostante si fondino su presupposti di pericolosità più gravi o di uguale livello. Il contrasto con il parametro evocato potrebbe essere escluso solo se fosse previsto un intervento del giudice che consenta di modulare la limitazione della libertà di comunicazione in base alle esigenze emerse in contraddittorio, ad esempio vietando l’uso del telefono cellulare soltanto in alcuni orari, nei confronti di alcuni soggetti o utenze, in modo da «non eccedere così platealmente il fine della norma, che finisce [col] sacrificare anticipatamente alla commissione dei reati diritti costituzionalmente garantiti, primo tra tutti quello di comunicare». 1.6.– In definitiva, il Tribunale di Sassari imputa all’art. 3, comma 4, cod. antimafia la violazione degli artt. 3 e 15 Cost., in ragione della «assenza del vaglio giurisdizionale della limitazione ad opera del solo Questore all’uso degli apparati radiotrasmittenti» e per via dell’irragionevolezza di tale norma, posta a raffronto «con il procedimento applicativo di cui al susseguente articolo 4 della [legge n.] 159 del 2011, e alle prescrizioni che possono ivi essere imposte con il controllo giurisdizionale». 2.– Nel giudizio è intervenuto, con atto depositato il 15 novembre 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate. 2.1.– La difesa erariale, richiamata la vicenda oggetto del giudizio a quo, osserva, in termini generali, che, con la sentenza n. 24 del 2019, questa Corte, pur non essendosi pronunciata sull’avviso orale del questore, avrebbe dato atto dell’evoluzione di questa misura di prevenzione, evidenziando come il novero dei suoi destinatari si sia via via ampliato. Il precedente evocato sarebbe, ad avviso dell’interveniente, di per sé indicativo della non fondatezza delle questioni. Premesso che il giudice penale, quando procede in forza dell’art. 77 (recte: 76) cod. antimafia, può disapplicare il provvedimento del questore, se non è sorretto da adeguata motivazione e se non indica le ragioni che hanno determinato l’emissione del divieto, l’Avvocatura ricorda che la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata analoga questione di legittimità costituzionale, facendo leva proprio sulla considerazione che il divieto di possedere e usare il telefono cellulare sarebbe opponibile dinanzi al tribunale e che l’interessato si vedrebbe quindi assicurata una via per adire, di propria iniziativa, l’autorità giudiziaria (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551). Per la difesa erariale le questioni sollevate in riferimento all’art. 15 Cost. sarebbero peraltro manifestamente infondate, anche perché dal divieto del questore non scaturirebbero né limitazioni alla libertà di comunicazione, né controlli sul contenuto delle comunicazioni del prevenuto: questo provvedimento limiterebbe semplicemente una «particolare forma di comunicazione a distanza, seppur rilevante (quella con i telefoni mobili), nella ricorrenza tassativa di specifici presupposti previsti dalla legge». Concludendo rispetto alla censura mossa in riferimento all’art. 15 Cost., l’Avvocatura dello Stato rileva che il potere del questore, giustificato sulla base di finalità general-preventive, sarebbe configurato in modo da assicurare un duplice controllo giurisdizionale: il primo, attivabile su iniziativa dell’interessato, in fase di opposizione davanti al tribunale in composizione monocratica, «successivamente alla denegata richiesta di revoca»; il secondo, necessariamente condotto ad opera del giudice penale, quando questi sia chiamato ad accertare la responsabilità penale del prevenuto per inosservanza del provvedimento del questore. Si tratterebbe, dunque, di un controllo «a formazione progressiva»: il giudice, su istanza dell’interessato, realizzerebbe dapprima un intervento assimilabile ad una «convalida (anche con mitigazioni)»; successivamente, sarebbe garantito un ulteriore controllo dell’autorità giudiziaria, mediante la disapplicazione del divieto ad opera del giudice penale, in caso di sua illegittimità. 2.2.– Anche la censura mossa in riferimento al principio di ragionevolezza risulterebbe, ad avviso della difesa erariale, manifestamente infondata. Il rimettente avrebbe infatti individuato un tertium comparationis disomogeneo, giacché la misura di prevenzione della sorveglianza speciale si baserebbe su requisiti di pericolosità più grave, avendo essa come destinatari i soggetti condannati o indiziati per i reati di particolare allarme sociale indicati dall’art. 4 cod. antimafia, e avrebbe effetti ben più gravosi per le libertà del prevenuto. In definitiva, alla luce della giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 3 Cost., non risulterebbero in alcun modo violati né il principio di eguaglianza, né il principio di ragionevolezza. 3.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, con ordinanza del 16 dicembre 2021 (reg. ord. n. 73 del 2022), solleva anch’essa questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale – possa vietare, senza limiti di tempo, di possedere o utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche i telefoni cellulari, nonché l’accesso ad internet, per contrasto con gli artt. 3, 15, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 3.1.– In fatto, la Corte rimettente riferisce di essere investita dell’impugnazione del rigetto dell’opposizione avverso l’avviso orale rafforzato del questore, con cui era stato inibito a M. B. il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, «ricomprendendo tra gli strumenti vietati anche i telefoni cellulari», nonché di fare accesso alla rete internet. Riferisce il rimettente che, nell’atto di impugnazione, la difesa di M. B. aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, per la mancata previsione di una durata minima e massima della misura di prevenzione oggetto dell’istanza di opposizione. 3.2.– Il giudice a quo esclude, in primo luogo, la percorribilità di un’interpretazione conforme a Costituzione, la quale implicherebbe, al fine di colmare la lacuna denunciata, lo svolgimento di un non consentito «ruolo di supplenza para-normativa». 3.3.– In punto di rilevanza, l’autorità giudiziaria rimettente sostiene che la decisione in ordine all’impugnazione sarebbe condizionata alla previa soluzione delle questioni di legittimità costituzionale relative alla carenza di limiti temporali del divieto oggetto del giudizio a quo, in quanto «il ricorso ha ad oggetto i provvedimenti giurisdizionali riguardanti la misura di prevenzione dell’avviso orale emesso dal questore», aggravato dal divieto di possedere ed utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente. 3.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Corte di cassazione rimettente illustra brevemente l’evoluzione normativa che ha portato all’attuale disciplina, ricordando che i divieti accessori all’avviso orale del questore sono stati introdotti nell’ordinamento con la legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), successivamente estesi ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e, da ultimo, modificati dal codice antimafia. Viene altresì ricordato che, quando la legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali) ha introdotto nell’ordinamento, in sostituzione della diffida, l’avviso orale del questore, ne aveva stabilito un termine di durata (da sei mesi a tre anni). Sulla scorta di questa premessa, il giudice a quo non ignora che questa Corte, con l’ordinanza n. 499 del 1987, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento alla mancata previsione di una durata minima e massima della diffida, sulla base della considerazione che, costituendo essa una mera ingiunzione a cambiare condotta, risultava priva di effetti limitativi per le libertà individuali. Nel solco di tale pronuncia, a parere del rimettente, nel 2011 il legislatore, con il codice antimafia, avrebbe legittimamente eliminato la durata dell’avviso orale semplice, giacché tale misura di prevenzione consisterebbe nel mero invito a tenere una condotta conforme alla legge, non venendo nemmeno in questo caso compressa alcuna libertà costituzionale. Il giudice a quo sottolinea che, all’opposto, l’avviso orale rafforzato dai divieti di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, comporterebbe significative restrizioni dei diritti della persona. I vizi che affliggerebbero la disposizione censurata non deriverebbero dalla previsione di divieti idonei, in astratto, ad incidere su libertà fondamentali dell’individuo, bensì, da un lato, dall’attribuzione all’autorità amministrativa della competenza ad adottare le misure inibitorie, e, dall’altro, dall’assenza di un termine di durata dei suddetti provvedimenti inibitori. La previsione di una pena per la trasgressione all’ordine aggravato del questore (art. 76, comma 2, cod. antimafia), allo stesso tempo, collocherebbe «una sorta di ‘spada di Damocle’» permanente sul prevenuto. 3.5.– Ciò posto, il giudice a quo ritiene necessario precisare che il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma posta a tutela della libertà di comunicazione, nonché dell’art. 21 Cost., quale norma che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni». La tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale». Lo Stato sarebbe investito, in questo senso, del compito di intervenire anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost. Il rimettente osserva quindi che l’art. 15 Cost. appresterebbe tutele più stringenti di quelle degli artt. 13 e 14 Cost., vietando che siano attribuiti poteri di intervento in via d’urgenza all’autorità di pubblica sicurezza e, inoltre, richiedendo che le restrizioni debbano avvenire «con le garanzie adottate dalla legge». Con questa formulazione, il parametro costituzionale evocato richiederebbe, in particolare, che la legge disciplini non solo i casi e i modi che legittimano compressioni della libertà di comunicazione, ma anche «le garanzie tecniche e giuridiche idonee a limitare il sacrificio della libertà fondamentale». Non sarebbero, quindi, rispettate né la riserva di giurisdizione, per cui la libertà di comunicazione può tollerare restrizioni solo in presenza di una previa autorizzazione, motivata, dell’autorità giudiziaria, né la riserva di legge, avendo il legislatore omesso di indicare «“le garanzie” legate alla predeterminazione della durata, massima e minima, del provvedimento limitativo». Infine, essendo la trasgressione del divieto del questore punita in base all’art. 76 cod. antimafia, tale quadro normativo non genererebbe solo un sacrificio, privo di termine, di una libertà costituzionale fondamentale, ma sottoporrebbe il prevenuto anche al rischio, illimitato nel tempo, della sanzione penale per violazione del divieto. 3.6.– Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU. Per il rimettente, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe posto in evidenza l’importanza dell’accesso alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, in quanto la libertà di espressione ricomprenderebbe anche il mezzo di diffusione del pensiero (viene citata, tra le altre, Corte EDU, sentenza 9 febbraio 2021, Ramanaz Demir contro Turchia). Inoltre, l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprenderebbe certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica (sono citate, tra le altre, Corte EDU, grande camera, sentenze 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania e 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito). Alla luce di tali considerazioni, il giudice a quo sostiene che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare, pur essendo volto a perseguire uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati», non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale inidonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo (viene citata Corte EDU, sentenza 26 aprile 1979, Sunday Times contro Regno Unito), a causa della mancata previsione della durata della misura. 3.7.– La Corte rimettente passa dunque ad illustrare unitariamente il dubbio di legittimità costituzionale posto in riferimento all’art. 3 Cost., nonché in riferimento alla «dimensione convenzionale» del principio di proporzione: la lesione della libertà di comunicazione, in assenza di una durata, sarebbe sproporzionata e darebbe vita ad una interferenza dell’autorità pubblica non necessaria in uno Stato democratico. Più specificamente rispetto alla CEDU, viene sottolineato che la possibilità, prevista dall’art. 3, comma 3, cod. antimafia, di chiedere la revoca dell’avviso orale (semplice o aggravato) al questore, non rappresenterebbe che una «facoltà rimessa al destinatario della misura, che tuttavia non arricchisce la ‘base legale’ della limitazione mediante preventivo riconoscimento legislativo dei termini di durata, rimettendo all’autorità amministrativa la valutazione dell’esercizio del relativo potere (di revoca)». 4.– Nel giudizio è intervenuto, con atto depositato il 19 luglio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate. 4.1.– Richiamato l’iter argomentativo dell’ordinanza di rimessione, la difesa erariale ricorda, sotto il profilo della riserva di giurisdizione, posta dall’art. 15 Cost., che analoga questione di legittimità costituzionale è già stata ritenuta manifestamente infondata dalla Corte di cassazione (vengono citate Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551 e, sezione seconda penale, ordinanza 20 febbraio-18 giugno 2020, n. 18559), perché ai sensi dell’art. 3, comma 6, cod. antimafia, il provvedimento del questore è opponibile dinnanzi al tribunale. Inoltre, sempre rispetto alla necessità di un controllo giurisdizionale, l’art. 8 CEDU non richiederebbe necessariamente l’intervento dell’autorità giudiziaria, potendo intervenire a limitare la libertà di corrispondenza qualsiasi «pubblica autorità». 4.2. – Rispetto alla mancata previsione di termini di durata, l’Avvocatura mette in rilievo che la violazione dei parametri costituzionali evocati non sussisterebbe, in quanto l’interessato potrebbe avvalersi di un articolato sistema di garanzie, alcune delle quali esperibili senza termini di decadenza, come la revoca, qualora siano venuti meno i presupposti di applicabilità del divieto, o come l’opposizione al tribunale. Ulteriore istituto a tutela del prevenuto sarebbe, «da un punto di vista più generale», la disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario, desumibile dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, recante «Legge sul contenzioso amministrativo (All. E)». Secondo la difesa erariale, peraltro, l’assenza di predeterminazione della durata della misura non darebbe adito alla violazione dei parametri convenzionali evocati: l’art. 3, comma 4, cod. antimafia indicherebbe infatti i presupposti del divieto e gli strumenti di tutela amministrativi e giurisdizionali, proprio al fine di contenere eventuali abusi, che peraltro sarebbero sottoposti al vaglio giurisdizionale. Infine, l’avviso orale rafforzato sarebbe volto a perseguire finalità legittime, «inerenti alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati in coerenza, peraltro, con gli omologhi obiettivi generali dell’Unione europea previsti dall’art. 3 TUE». Considerato in diritto l.– Il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato” nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», e perciò anche telefoni cellulari, in quanto ricompresi in tale ultima definizione. Il giudice a quo include nella censura anche l’art. 76, comma 2, del medesimo codice antimafia, che punisce con la reclusione e la multa la trasgressione ai divieti di cui alla disposizione prima descritta. Premesso che la disponibilità di un telefono cellulare costituirebbe oggi presupposto indispensabile per poter effettivamente esercitare la libertà di comunicare, ritiene il rimettente che le due norme censurate consentano limitazioni a tale libertà, non già per atto motivato dell’autorità giudiziaria, come richiede l’art. 15 Cost., bensì direttamente tramite una decisione dell’autorità amministrativa, in violazione quindi della riserva di giurisdizione prevista dall’evocata disposizione costituzionale. Inoltre, in lesione congiunta degli artt. 3 e 15 Cost., proprio la circostanza che l’avviso orale “rafforzato” non sia adottato dall’autorità giudiziaria – nell’ambito di un procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, idoneo a consentire una modulazione degli effetti del divieto in base alle esigenze del caso concreto – comporterebbe un sacrificio sproporzionato della libertà di comunicazione rispetto alla contrapposta esigenza di prevenzione dei reati. Infine, quale ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 Cost., il giudice a quo ritiene che i destinatari del divieto del questore di possedere e usare telefoni cellulari siano trattati in modo ingiustamente deteriore rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 4 cod. antimafia: mentre, in questo secondo caso, l’autorità giudiziaria può inibire la frequentazione di specifiche categorie di persone (ma non impedire ogni relazione sociale) e può vietare l’accesso a determinati luoghi d’incontro (ma non a tutti), i destinatari dell’avviso orale “rafforzato” per decisione amministrativa subirebbero, invece, una limitazione generalizzata e indiscriminata di tutte le loro comunicazioni con terzi. E ciò avverrebbe, aggiunge il rimettente, con riferimento a soggetti che presenterebbero caratteristiche di pericolosità inferiori rispetto a quelli interessati dalle misure di cui all’art. 4 cod. antimafia. 2.– Anche la Corte di cassazione, sezione quinta penale, censura l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale “rafforzato” – possa vietare il possesso e l’utilizzo di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche dei telefoni cellulari, sottolineando che, tramite il divieto in questione, sarebbe anche possibile vietare l’accesso ad internet. La disposizione violerebbe innanzitutto l’art. 15 Cost., poiché l’attribuzione all’autorità amministrativa del potere di proibire il possesso o l’utilizzo di strumenti essenziali per comunicare si porrebbe in contrasto con la previsione della riserva di giurisdizione contemplata dal parametro costituzionale evocato. Inoltre, la circostanza che la norma censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata vanificherebbe la stessa tutela offerta dalla riserva di legge contenuta nell’art. 15 Cost., in base al quale apposite «garanzie» devono accompagnare l’atto motivato dell’autorità giudiziaria. Allo stesso modo, in lesione anche dell’art. 3 Cost., nel consentire che l’accesso a strumenti essenziali per esercitare la libertà di comunicare e di manifestare il proprio pensiero possa essere impedito senza limiti di tempo, la disposizione censurata permetterebbe restrizioni non proporzionate a tali libertà fondamentali. Inoltre, sempre sul presupposto che il divieto del questore possa riguardare anche l’accesso a internet, l’ordinanza di rimessione sottolinea ampiamente come la norma censurata comporti l’impossibilità di disporre, senza limiti di durata, di strumenti essenziali non solo per comunicare, ma anche per ricevere informazioni. Del resto, possesso e uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero non solo nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma costituzionale posta a tutela della libertà di comunicare, ma anche dell’art. 21 Cost., quale disposizione che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni». L’ordinanza segnala come la tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale». Garantire l’accesso alla rete, da questo punto di vista, sarebbe un compito di cui lo Stato risulterebbe investito, anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost. A fronte di tutto ciò, proprio in violazione degli artt. 3, secondo comma, e 21 Cost., la disposizione censurata consentirebbe invece che aspetti fondamentali della libertà di manifestazione del pensiero siano ristretti senza limiti di tempo, in frontale contrasto con il «diritto sociale» ad un comportamento delle autorità pubbliche che dovrebbe invece essere volto a favorire la libera circolazione delle idee e la formazione di un’opinione pubblica consapevole. Infine, l’art. 3, comma 4, cod. antimafia violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU. Sottolineando, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, l’importanza della possibilità di accedere alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, e considerando che l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprende certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica, il giudice a quo sostiene che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare – pur perseguendo uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati» – non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale non idonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo, proprio a causa della mancata previsione della durata della misura. 3.– Le due ordinanze di rimessione hanno in comune una delle due disposizioni censurate, con riferimento a parametri costituzionali in parte coincidenti, sotto profili largamente comuni, e con argomentazioni sovrapponibili. Ponendo, pertanto, analoghe questioni di legittimità costituzionale, i due giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia. 4.– Le questioni di legittimità costituzionale riguardano in particolare l’istituto dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato”. Mentre l’avviso orale cosiddetto “semplice” comporta unicamente l’invito rivolto ai soggetti di cui all’art. 1 cod. antimafia a tenere una condotta conforme alla legge (art. 3, commi 1 e 2, cod. antimafia), il comma 4, oggetto delle odierne censure, attribuisce al questore anche il potere di inibire alla persona attinta da avviso orale il possesso o l’uso, in tutto o in parte, di determinati mezzi e strumenti. La misura di prevenzione in questione è adottabile sul presupposto che si tratti di «persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi» (comma 4); il questore può inoltre colpire con le medesime interdizioni i soggetti sottoposti a sorveglianza speciale, anche in questo caso quando definitivamente condannati per delitti non colposi (comma 5). La trasgressione dei divieti contenuti nell’avviso orale “rafforzato” è presidiata dalla previsione di una sanzione penale. L’art. 76, comma 2, cod. antimafia prescrive, infatti, che chiunque violi il divieto di cui all’art. 3, commi 4 e 5, «è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164». 5.– L’ordinanza del Tribunale di Sassari (r.o. n. 164 del 2021) include nelle proprie censure anche il menzionato art. 76, comma 2, cod. antimafia. In effetti, il giudice a quo riferisce di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di un imputato del reato previsto e punito proprio dal citato art. 76, comma 2, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, e ritiene dunque di coinvolgere la norma incriminatrice nelle proprie doglianze. Tuttavia, in riferimento a questa disposizione, l’ordinanza è priva di qualunque argomentazione, ciò che rende inammissibile la relativa questione di legittimità costituzionale (ex multis, di recente, sentenze n. 263, n. 256 e n. 128 del 2022). Questa preliminare delimitazione dell’oggetto non ha conseguenze sull’ammissibilità della questione riferita, dal medesimo rimettente, all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ovvero alla disposizione che fonda il divieto del questore. La giurisprudenza di legittimità e di merito è infatti costante nell’ammettere che il giudice penale, pronunciandosi sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui al citato art. 76, comma 2, esercita incidentalmente un sindacato sulla legittimità dell’ordine del questore di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, dal cui esito deriva, in caso di illegittimità, il proscioglimento dell’imputato (di recente Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 settembre-24 novembre 2021, n. 43301, e 27 maggio-2 settembre 2021, n. 32667). Inoltre, fuga ogni dubbio sulla rilevanza della presente questione, la circostanza per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che dà fondamento al potere dell’autorità pubblica di adottare la misura di prevenzione, la cui inosservanza è oggetto di accertamento nel giudizio principale, vale a «porre nel nulla» la misura medesima (sentenza n. 109 del 1983; in senso analogo, sentenza n. 126 del 1983). 6.– Entrambe le ordinanze di rimessione intendono censurare unicamente il potere del questore di vietare possesso e uso di apparati di comunicazione radiotrasmittente, non già degli altri mezzi e strumenti elencati dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia (sul presupposto, del tutto corretto, che il questore possa separatamente decidere il divieto di alcuni soltanto tra i mezzi ed oggetti elencati dalla disposizione citata). Ciò vale anche per l’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione: se è vero che il dispositivo di quest’ultima, testualmente, coinvolge nelle censure di legittimità costituzionale l’intero comma 4, tuttavia la motivazione fuga ogni dubbio in proposito, riferendosi unicamente all’inibizione di possesso e uso di un telefono mobile, in quanto ritenuto apparato di comunicazione radiotrasmittente. La costante giurisprudenza di questa Corte – secondo cui l’oggetto del giudizio costituzionale deve essere appunto individuato interpretando il dispositivo dell’ordinanza di rimessione alla luce della sua motivazione (ex multis, di recente, sentenze n. 149 e n. 148 del 2022) – consente, perciò, di correttamente delimitare, nei termini testé riferiti, il thema decidendum. 7.– Tutto ciò posto, le censure da scrutinare nel merito presuppongono innanzitutto una ricognizione del significato dell’espressione «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», contenuto nell’art. 3, comma 4, cod. antimafia. Entrambe le ordinanze accolgono l’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui tale espressione è idonea a includere nel proprio orizzonte di senso i telefoni mobili o cellulari, e proprio su questa base formulano le descritte censure di violazione degli artt. 3 e 15 Cost. Una simile interpretazione, consolidatasi nella forma del diritto vivente, ha da tempo condotto a superare i dubbi relativi alla portata della disposizione censurata. Tra i vari mezzi e strumenti di cui il questore può vietare il possesso o l’utilizzo, «in tutto o in parte», ai soggetti che si trovino nelle condizioni previste dallo stesso art. 3 cod. antimafia, gli apparati di comunicazione radiotrasmittente risultano enunciati per primi dal comma censurato. Il loro inserimento tra i possibili oggetti di un avviso orale del questore risale alla legge n. 128 del 2001. L’elenco originario, trasfuso in seguito nel d.lgs. n. 159 del 2011 (dopo esser stato ulteriormente integrato ad opera dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009), poneva gli apparati ricordati accanto a «radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, nonché programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi». Si tratta, all’evidenza, di un catalogo di strumenti di uso non comune, quasi di natura eccezionale, il cui impiego parrebbe indicativo della volontà di compiere specifiche attività delittuose offensive o difensive (per sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine), anche mediante l’uso o l’esibizione della forza. Un’interpretazione più coerente con tale contesto normativo e con la ratio legis avrebbe potuto allora suggerire che gli specifici apparati di comunicazione radiotrasmittente oggetto di divieto del questore possono essere soltanto quelli, anch’essi di uso non comune, univocamente e abitualmente destinati ad un determinato scopo criminoso, e tali anche da evidenziare una specifica volontà di usare la tecnologia per danneggiare le indagini di polizia o sfuggire ai relativi controlli. I lavori preparatori della legge n. 128 del 2001 (seduta del 24 gennaio 2001 della Camera dei deputati), per parte loro, mostrano la presenza di un emendamento al testo legislativo, non approvato, che al divieto relativo, in generale, agli apparati di comunicazione radiotrasmittente affiancava proprio la previsione di un distinto e specifico divieto relativo agli apparati di telefonia mobile, sul presupposto, quindi, che questi ultimi non fossero ricompresi tra i primi. La circostanza non è irrilevante e tuttavia resta ambiguo il significato della mancata approvazione dell’emendamento, non emergendo con chiarezza se ciò suoni conferma della voluntas legis di escludere i telefoni mobili dal novero degli apparati radiotrasmittenti, oppure se sia stata ritenuta superflua la menzione esplicita dei telefoni cellulari, accanto ad una definizione già di per sé generica e onnicomprensiva («qualsiasi» apparato di comunicazione radiotrasmittente). Sotto un ulteriore profilo, potrebbe essere oggetto di dubbi il significato di senso comune trasmesso dalla locuzione “apparati di comunicazione radiotrasmittente”, sia nel 2001, all’epoca dell’approvazione della disposizione censurata, sia, a maggior ragione, nell’epoca attuale. Non sembra impossibile sostenere, infatti, che, già nel 2001 (quando i telefoni cellulari non costituivano più una rarità), la locuzione “apparato di comunicazione radiotrasmittente” esibisse – ed esibisca ancor più oggi, considerata l’universale diffusione dei telefoni mobili – un significato di senso comune evocatore di apparati ben diversi dai telefoni cellulari (come i walkie-talkie e simili). Fatto sta che, superando del tutto i dubbi e le possibili diverse letture della disposizione, la giurisprudenza di legittimità – a partire da Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 1° settembre-1° ottobre 2009, n. 38514, seguita da almeno altre sei pronunce (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 24 febbraio-2 aprile 2021, n. 127793, 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551, 26 febbraio-17 giugno 2019, n. 26628, 11 settembre 2018-7 gennaio 2019, n. 314 e 3 dicembre 2013-3 luglio 2014, n. 28796; sezione settima penale, ordinanza 18 ottobre 2018-7 gennaio 2019, n. 294) e con un’indiretta conferma da parte delle Sezioni unite civili, sentenza 2 maggio 2014, n. 9560, sia pur nella diversa materia delle tasse su concessioni governative – ha stabilito con nettezza che il telefono cellulare rientra a pieno titolo nella nozione di apparato di comunicazione radiotrasmittente. Questa interpretazione è basata, da un lato, su un criterio testuale, che eliminerebbe ogni incertezza sull’intenzione del legislatore derivante dall’analisi dei lavori preparatori, ed è, dall’altro, aderente al significato strettamente tecnico dell’espressione “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, escludendo il rilievo di un eventuale significato di senso comune non coincidente, in ipotesi, con quello tecnico: per apparato di comunicazione radiotrasmittente si deve intendere qualsiasi apparecchio in grado di inviare onde radio e di trasmetterle, o ad un altro apparato analogo, o ad un impianto in grado di riceverle. Da questo punto di vista, afferma la citata sentenza Cass. n. 38514 del 2009, seguita dai menzionati arresti in senso conforme, «il telefono cellulare è un apparecchio radiotrasmittente o radioricevente per la comunicazione in radiotelefonia, collegato alla rete telefonica di terra tramite centrali di smistamento denominate stazioni radio base». 8.– La premessa interpretativa da cui muovono entrambe le ordinanze di rimessione è dunque fedele alla costante lettura fornita dalla descritta giurisprudenza di legittimità, che costituisce ormai, come ricordato, diritto vivente. Ciò fuga ogni dubbio quanto all’ammissibilità delle questioni sollevate. Esse vanno perciò decise assumendo che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui si riferisce a «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», consenta al questore di vietare il possesso e l’uso anche di telefoni cellulari. 9.– Sulla base di questa premessa, le questioni sono fondate, per violazione dell’art. 15 Cost. La Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. Al tempo stesso, in termini generali, le regole attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale ora in esame: anzi, sempre in termini generali, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare. Esiste tuttavia un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione. Esattamente questo accade, in forza di ciò che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia consente di fare al questore, oltretutto in una materia, quella delle misure di prevenzione, di particolare delicatezza, perché finalizzata a consentire forme di controllo, per il futuro, sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto, ma non deputate alla punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato (di recente, sentenza n. 180 del 2022). Le esigenze di prevenzione ben possono giustificare incisive misure restrittive, quali quelle che il questore può assumere sulla base dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ma non possono che assoggettarsi all’evocato imperativo costituzionale. È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare, «spazio vitale che circonda la persona» (sentenze n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), in quanto attinente alla sua dimensione sociale e relazionale. Da questo punto di vista, il telefono cellulare ha assunto un ruolo non paragonabile a quello degli altri strumenti evocati dai rimettenti. Rivelerebbe, inoltre, un senso d’irrealtà l’obiezione per cui la libertà di comunicare, privata del telefono mobile, ben potrebbe ancora oggi essere soddisfatta attraverso mezzi diversi, come gli apparati di telefonia fissa. L’art. 15 Cost. definisce la libertà di comunicazione come inviolabile. Questa Corte ha stabilito, in particolare, che tale qualificazione implica che il contenuto essenziale della libertà non può subire restrizioni, se non in ragione della necessità di soddisfare un interesse pubblico costituzionalmente rilevante, «sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria» (ancora sentenza n. 366 del 1991; nello stesso senso, sentenza n. 81 del 1993). Le esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare, si è detto, misure restrittive, e queste possono incidere anche su diritti fondamentali. Ma, proprio ove ciò accada, le garanzie costituzionali reclamano osservanza. Nel caso della disposizione censurata ciò non avviene: la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria (per un’analoga fattispecie, pure oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, sentenza n. 100 del 1968). Questa Corte, sin dal primo anno della propria attività, non ha esitato a dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge contenenti misure di prevenzione, assunte su decisione dell’autorità amministrativa, che avevano effetti restrittivi sulla libertà personale, in violazione della riserva di giurisdizione costituzionalmente prescritta (sentenza n. 2 del 1956, sull’ordine di rimpatrio con traduzione ordinata dal questore; sentenza n. 11 del 1956, in tema di cosiddetta ammonizione del questore, a causa di una sorta di «degradazione giuridica» cui era sottoposto l’individuo in virtù del provvedimento dell’autorità di polizia; entrambe le pronunce sono riprese, di recente, dalla sentenza n. 24 del 2019). Nella giurisprudenza costituzionale, è già stato inoltre chiarito il significato sostanziale, e non puramente formale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione. Il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta infatti associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa (sentenze n. 113 del 1975 e n. 68 del 1964; si vedano, inoltre, le sentenze n. 177 del 1980 e n. 53 del 1968). Analogamente a quanto questa Corte ha già stabilito con riguardo a misure di prevenzione restrittive della libertà personale, va dunque affermato che anche la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è «necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sentenza n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro rendendolo meramente illusorio» (sentenza n. 177 del 1980). In un caso (sentenza n. 419 del 1994, pronunciata in riferimento alla misura di prevenzione del cosiddetto «soggiorno cautelare», che poteva essere disposto dal procuratore nazionale antimafia, in presenza di indici di pericolosità di reati associativi di stampo mafioso di particolare allarme sociale), la sentenza d’accoglimento, fondata sulla natura non giurisdizionale dell’organo chiamato ad adottare la misura limitativa della libertà personale, ha avuto cura di precisare l’ininfluenza, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione, dell’eventuale previsione di un riesame del giudice, su iniziativa dell’interessato. Già in quell’occasione, fu osservata la natura meramente eventuale di questo vaglio, attivabile su impulso del destinatario della misura. Ciò va ribadito nell’odierna questione: quel che conta, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione costituzionalmente imposta, è la titolarità del potere di decidere, direttamente e definitivamente, la misura stessa. Se tale potere è conferito ad un’autorità non giudiziaria, nessun riferimento ad una «fattispecie a formazione progressiva», sulla base della previsione di un eventuale, successivo intervento del giudice, può emendare il vizio di legittimità costituzionale. Da questo punto di vista, non ha dunque pregio l’osservazione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il divieto del questore sarebbe «pienamente» assistito dal controllo dell’autorità giudiziaria, «essendo opponibile, successivamente alla denegata richiesta di revoca, davanti al Tribunale in composizione monocratica, nella forma dell’incidente di esecuzione». 10.– Come accade nell’ambito delle stesse misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (ai sensi, ad esempio, dell’art. 5, comma 1, cod. antimafia), ben può spettare anche al questore la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma non gli compete di adottare il provvedimento, poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione. L’art. 3, comma 4, cod. antimafia va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo. La rimozione del potere di decisione spettante al questore, infine, comporta l’assorbimento delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate: sia quella inerente alla presunta lesione del diritto di accesso alla rete, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU; sia quelle concernenti, da un lato, l’asserito deteriore trattamento riservato ai destinatari del divieto di possedere e usare telefoni cellulari rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ex art. 4 cod. antimafia, e dall’altro, la circostanza che la disposizione censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo; 2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76 del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., dal Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 dicembre 2022. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Nicolò ZANON, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2023. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
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