Sto cercando nella banca dati...
Risultati di ricerca:
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere Dott. VIGNA Maria Sabina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Si. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 01/03/2023 della Corte di appello di Trento Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Maria Sabina Vigna; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria della difesa di De.Si., che ha insistito per l'annullamento della sentenza; lette le conclusioni scritte della parte civile, che ha insistito per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e ha depositando nota spese. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trento, all'esito di rito abbreviato, ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trento del 25 gennaio 2022, che dichiarava De.Si. responsabile del reato di maltrattamenti nei confronti della ex compagna Ve.Ma. (erroneamente indicata come ex moglie nel capo di imputazione} e lo condannava la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. La sentenza, pur precisando l'assenza di un vincolo familiare e/o di convivenza tra imputato e persona offesa, sottolineava che le condotte vessatorie erano state attuate dall'imputato nell'ambito di un rapporto di convivenza, di non trascurabile durata, connotato da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. In particolare, l'imputato, quando già era cessata la relazione more uxorio con la Ve.Ma., veniva ospitato per alcuni mesi dalla stessa, perché non riusciva a trovare altra sistemazione; nel febbraio 2020 la donna lo allontanava da casa e, a partire da quel momento, veniva percossa, minacciata e ingiuriata fino ad ottobre 2020. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione l'imputato, deducendo seguenti motivi: 2.1. Vizio di motivazione nella parte in cui il giudice di secondo grado, pur accertando e dichiarando che i fatti erano tutti stati commessi in periodo in cui l'imputato non abitava con la persona offesa, desumeva da tali fatti il raggiungimento della prova circa la sussistenza del rapporto familiare. È manifestamente illogica la motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, pur dando atto che il rapporto more uxorio era cessato nel 2011, ritiene che la ospitalità offerta all'imputato dalla persona offesa dal dicembre 2019 al gennaio 2020 - fosse caratterizzata da non irrilevante stabilità e da aspettative di mutua solidarietà. Sin dall'avvio della ospitalità, infatti, la Ve.Ma. aveva precisato che si trattava di disponibilità provvisoria e aveva intimato all'imputato di cercare immediatamente un proprio alloggio. I fatti per i quali De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. 2.2. Violazione di legge con riferimento agli artt. 572 e 612-bis cod. pen., 25 Cost. e 14 delle disposizioni preliminari, con riferimento alla asserita sussistenza, allorché si sono consumate le condotte, di un rapporto di natura familiare o di convivenza tra la persona offesa e l'imputato. La difesa richiama sul punto la sentenza della Corte costituzionale che ha espressamente ammonito contro l'applicazione analogica dell'art. 572 cod. pen. e la più recente giurisprudenza di questa sezione circa i confini tra il reato di maltrattamenti e quello di stalking. Nel caso in esame, al più, possono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di cui all'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Occorre premettere che, richiamando un consistente indirizzo ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito hanno ritenuto che, per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, il dato essenziale e qualificante risieda nell'instaurazione, tra autore e vittima, di un rapporto connotato da reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza; con il corollario per cui, se un siffatto rapporto esiste, e se, dunque, sussistano tra costoro strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà, non è nemmeno necessaria una stabile o prolungata convivenza, potendo il reato configurarsi anche qualora la coabitazione sia di breve durata, instabile od anomala (fra molte altre, Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C, Rv. 261472; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628). Il suindicato indirizzo è frutto dello sforzo dell'interprete di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell'ambito di rapporti affettivi dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi. 2.1. Ritiene, tuttavia, il Collegio che tale lettura normativa debba essere superata, anche in considerazione dei numerosi passi avanti in tal direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal D.L. n. 11 del 2009, conv. dalla legge n.38 del 2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), e dalla stessa I. 172/2012, che ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona "comunque convivente", senza altro aggiungere. In tal senso, non può non osservarsi l'espresso monito di recente rivolto dalla Corte costituzionale al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem, che caratterizza le norme incriminatrici. Chiamato a pronunciarsi su una questione di rito, sorta all'interno di un processo per tal specie di condotte, il Giudice delle leggi ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni. Ma immediatamente dopo ha ammonito che, "in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cast." (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021). 2.2. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, alla quale il Collegio intende dar seguito. In ipotesi analoghe a quella in esame - poiché caratterizzate dal comune denominatore dell'assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti - questa Sezione ha infatti ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì, eventualmente, l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; in termini, da ultimo, Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D. 11/10/2022, Rv. 283939-01). Invero, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25, Cost.), nonché la presenza di un apparato normativa che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572, cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti). 2.3. In applicazione di tale principio, emerge, con sufficiente nitidezza, dal provvedimento impugnato, che le condotte poste in essere dall'imputato successivamente alla cessazione della convivenza non sono riconducibili nell'alveo del reato di cui all'art. 572 cod. pen. Risulta, infatti, dalla sentenza della Corte di appello che: - la stabile convivenza tra imputato e persona offesa era cessata nel febbraio 2011; - nel 2018 i figli della ex coppia venivano allontanati dalla madre e affidati al servizio sociale e veniva altresì sospesa la responsabilità genitoriale di entrambi, affetti da alcolismo e disturbi mentali; - a distanza di anni, tra il dicembre 2019 e il febbraio 2020, la persona offesa aveva dato ospitalità saltuaria all'imputato, il quale era rimasto senza casa; detta ospitalità era, per espressa dichiarazione resa dalla persona offesa, provvisoria ed esclusivamente volta a far fronte alla indisponibilità di un alloggio da parte dell'imputato; - nel febbraio 2020 la Ve.Ma. revocava la disponibilità ad ospitare l'imputato; - i fatti per cui De.Si. è imputato si sono tutti verificati mesi dopo il febbraio 2020: uno nel marzo 2020, altri nel settembre 2020 e altri ancora nell'ottobre 2020. È, quindi, di tutta evidenza che, essendo venuta meno la convivenza, il reato di maltrattamenti non è configurabile. 3. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, che, in sede di rinvio, adeguandosi al principio di diritto sopra dettato, dovrà valutare la sussistenza dei presupposti del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Trento Sezione distaccata di Bolzano. Così deciso il 28 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GUARDIANO Alfredo - Presidente Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere - Relatore Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. GIORDANO Rosario - Consigliere Dott. MAURO Anna - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Si.Ar. nato a S M C V il (Omissis) avverso la sentenza del 27/09/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARIA TERESA BELMONTE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCIA ODELLO che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. udito il difensore della parte civile, avv. FR.CA., che si riporta sia alle conclusioni contenute nella memoria depositata in cancelleria in data 23.03.2024 sia alle conclusioni scritte che deposita all'odierna udienza unitamente alla nota spese; Udito il difensore del ricorrente, avv. LU.VI., che insiste nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1.Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione del giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di quella stessa città, che, nel giudizio abbreviato, aveva riconosciuto Si.Ar. colpevole di atti persecutori, condannandolo a pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile. 2. Ricorre per cassazione l'imputato, con il ministero del difensore di fiducia, avvocato Lu.Vi., che svolge due motivi. 2.1. Con il primo, denuncia vizi della motivazione in relazione alle doglianze esposte con l'atto di appello a fondamento dell'invocata assoluzione nonché in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria. Lamenta che non si sarebbe indagato approfonditamente sulla capacità di intendere e volere del Si.Ar. al momento dei fatti, né la Corte di appello si è confrontata con due processi per stalking decisi da altra AG dichiarando il difetto di imputabilità per vizio di mente. Posto che il ricorrente aveva iniziato l'assunzione di psicofarmaci solo dopo la intervenuta carcerazione nel febbraio 2020, per i fatti in esame, commessi fino al gennaio 2020 , a seguito di prescrizione del medico dell'istituto di pena, sostiene il difensore che l'atteggiamento collaborativo riscontrato, in carcere, dal consulente prof. Senatore (chiamato a valutare la compatibilità dell'imputato con l'ambiente carcerario) sia il frutto della corretta somministrazione dei medicinali, e che la Corte di appello abbia erroneamente trascurato di considerare l'incidenza della mancanza di cure e di trattamento sulla complessiva condizione psicologica dell'imputato al momento della commissione del fatto. In ogni caso, il ragionevole dubbio sull'effettiva imputabilità del ricorrente, proveniente da tre sentenze assolutorie (due dell'A.G. di Como per atti persecutori e una dell'A.G. Napoli per evasione) avrebbe dovuto quantomeno indurre alla rinnovazione dell'istruttoria mediante un approfondimento peritale. 2.2. Con il secondo motivo, lamenta vizio di motivazione in relazione alla richiesta di riduzione della pena per violazione del ne bis in idem e con riguardo alla determinazione della pena base. In particolare, la Difesa sostiene che il reato di diffusione illecita di immagini a contenuto sessualmente esplicito, per cui il ricorrente era stato già condannato nel precedente giudizio dal Tribunale di Napoli, avrebbe potuto essere assorbito nel reato più grave di atti persecutori, in quanto quest'ultimo ricomprende la frazione di condotta già punita. 2.2.1. Inoltre, rileva che la pena avrebbe dovuto essere adeguata al disvalore conseguente alle nuove emergenze processuali e alla personalità attuale dell'imputato e che i giudici di merito non avrebbero dato alcuna motivazione per avere individuato una pena base prossima al massimo edittale (anni 4 e mesi 6 di reclusione). 3. Ha depositato memoria di costituzione il difensore della costituita parte civile, Fe.Ch., avvocato De.Pi. (con P.E.C, del 23 marzo 2024), il quale ha concluso per il rigetto del ricorso, con condanna dell'imputato alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio di legittimità. CONSIDERATO IN DIRITTO l. E' fondato, in modo assorbente, il primo motivo, e la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio. 2.In premessa, va ricordato che si ritiene ammissibile, nel giudizio di appello, la richiesta di rinnovazione del dibattimento per disporre perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato, anche nel caso in cui la decisione di primo grado sul punto non abbia formato oggetto di specifico e tempestivo motivo di gravame, in quanto l'accertamento dell'idoneità intellettiva e volitiva dell'imputato non necessita di richiesta di parte, potendo essere compiuto anche d'ufficio dal giudice di merito allorquando ci siano elementi per dubitare dell'imputabilità (Sez. 5 n. 1372 del 2021 (dep. 2022) Rv. 282470 che ha affrontato criticamente, con condivisibili argomenti, le ragioni di un diverso minoritario orientamento). 2.1. Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, in considerazione della natura della perizia, quale mezzo di prova essenzialmente discrezionale, spetta al giudice di merito la valutazione delle risultanze processuali per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata motivazione, la meritevolezza di una richiesta di perizia psichiatrica (Conf. Sez. 4, n. 20593 del 12/04/2005, Rv. 232096). 2.2. E', invero, pacifica affermazione giurisprudenziale quella per cui la capacità di intendere e di volere, per i soggetti maggiorenni, è presunta "iurìs tantum", e che tale presunzione è superabile in presenza di elementi di segno contrario che inducano a dubitarne, con la conseguenza che l'obbligo per il giudice di motivare il giudizio di sussistenza della capacità dì intendere e di volere al momento del fatto e, specularmente, quello di superfluità della perizia diretta ad appurarne l'integrità, è strettamente correlato alla prospettazione difensiva di elementi specifici e concreti a far ragionevolmente ritenere che nella singola fattispecie detta presunzione sia superata da risultanze di segno contrario (Sez. 2 n. 50196 del 26/10/2018, Rv. 274684), per l'incidenza di una vera e propria infermità, e cioè di uno stato morboso caratterizzato da inequivocabili connotazioni patologiche (Sez. 1, n. 5347 del 06/04/1993, Olivieri, Rv. 194213; Sez. 1, n. 1298 del 11/01/1993, Fechino, Rv. 193021; di recente v. Sez. 3, n. 7222 del 15/12/2015, dep. 2016, Panizzolo, non mass.). 3. Nel caso in esame, va, senza meno, rilevato che la documentazione prodotta dalla difesa, e puntualmente richiamata nell'attuale impugnazione, appare sufficientemente specifica riguardo alla dedotta incidenza della accertata malattia psichiatrica (o anche solo di un disturbo) sulle condizioni di salute mentale del giudicabile, e idonea ad ingenerare un dubbio concreto sulla sua capacità di intendere e volere al momento del fatto. 4. La Corte territoriale si è distaccata dai richiamati principi, giacché, pur avendo la Difesa dell'imputato prodotto specifica allegazione documentale circa la sussistenza del vizio di mente - peraltro già acclarato in plurime sentenze emesse nei confronti del Si.Ar. , anche dalla stessa Autorità Giudiziaria - tale, comunque, da fondare il ragionevole dubbio sulla capacità di intendere e di volere del giudicabile al momento del fatto, ha omesso di svolgere la perizia psichiatrica, fornendo, sul punto della mancata rinnovazione istruttoria, una motivazione che presta il fianco alle censure della Difesa, quando deduce l'omessa valutazione della incidenza della mancanza di cure e di trattamento farmacologico (iniziati solo dopo la commissione del fatto) sulla complessiva condizione psicologica dell'imputato. Così come non può farsi a meno di rilevare che anche l'argomento difensivo, incentrato sulla tempistica della consulenza svolta in ambiente carcerario (e avente, comunque, la diversa finalità della verifica della compatibilità con quest'ultimo) e dopo la commissione dei fatti in scrutinio, dal Dr. Senatore, e sull'influenza del trattamento clinico sull'evoluzione positiva della patologia, da questi riscontrata, risulti ragionevole e meritevole di approfondimento peritale. 5. Un primo rilievo riguarda l'argomentazione con la quale la Corte territoriale, dopo aver dato conto del V'inizia le disturbo sussistente al momento dei fatti per cui è processo" (sub specie di "disturbo dipendente di personalità, quale soggetto immaturo dal punto di vista affettivo...e incapace di fronteggiare dapprima le scelte della compagna successivamente quelle dei suoi genitori"), ha, poi, imputato alla condotta dello stesso ricorrente, sottrattosi alle cure, l'aggravamento della patologia, evoluta in uno stato di ansia e depressione divenuto sempre più acuto, che ha portato agli esiti assolutori per condotte tenute a distanza di tempo (2021 - 2022) da quella qui in esame, affermando apoditticamente che quel disturbo iniziale non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto. 5.1. Ora, come è stato già chiarito dal Massimo organo nomofilattico, "a/ fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 Ud. (dep. 08/03/2005),Raso,Rv. 230317). 5.2. La Corte territoriale avrebbe, dunque, dovuto adeguatamente vagliare anche la sola natura e gravità del disturbo psichiatrico e la sua incidenza causale, tenuto conto, peraltro, della specificità dell'illecito contestato - atti persecutori ai danni della compagna, rispetto alla quale quell'immaturità si è manifestata - anche alla luce del principio per cui l'accertamento peritale relativo allo stato di mente dell'imputato compiuto in un determinato procedimento non ha di per sé rilevanza cogente in altro procedimento a carico del medesimo imputato, sia pure per fatti commessi nel medesimo periodo temporale (Sez. 2, n. 21826 del 05/03/2014, De Luca, Rv. 259576; Sez. 6, n. 40569 del 29/05/2008, Schembri, Rv. 241316; Sez. 3, n. 13237 del 08/02/2008, Colonna, Rv. 239575), in quanto, ai fini dell'applicazione degli artt. 88 e 89 cod. pen. , l'infermità mentale non costituisce uno stato permanente, ma va accertata in relazione alla commissione di ciascun reato (da ultimo, Sez. 2 n. 50196 del 26/10/2018, Rv. 27468402), dal momento che, come statuito dalle Sezioni Unite nella già richiamata sentenza "Raso", ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, è necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo (Sez. U. , n. 9163 del 25/1/2005, Rv. 230317; in senso conforme tra le altre, v. Sez. 1, n. 52951 del 25/06/2014, Guidi, Rv. 261339) 5.3. Va, ancora, osservato come le argomentazioni spese dalla Corte di appello non risultino coerenti con il dato probatorio e appaiano illogiche nel ritenere che, solo in epoca successiva, il disturbo inziale si sia negativamente evoluto, senza, però confrontarsi con l'esito assolutorio a cui la medesima A.G. è pervenuta in relazione a fatti coevi (commessi il 30/01/2020), riconoscendo il vizio totale di mente, e contraddittorie con quanto rilevato a proposito delle ragioni del ricovero ospedaliero nel gennaio 2020, quando venne diagnosticata una "sindrome ansioso depressiva con attacchi dì panico" (pg. 2 della sentenza impugnata) 5.4. Infine, poiché la sentenza impugnata afferma che "al momento dei nostri fatti, l'imputato era capace di comprendere il senso di quello che faceva, cioè gli atti persecutori che commetteva nei confronti della persona offesa" (pg. 3), nb va ricordato che "in tema di imputabilità, l'assenza della capacità di volere può assumere rilevanza autonoma e decisiva, valorizzabile agli effetti del giudizio ex artt. 85 e 88 cod. pen. , anche in presenza di accertata capacità di intendere (e di comprendere il disvalore sociale della azione delittuosa), ove sussistano due essenziali e concorrenti condizioni: a) gli impulsi all'azione che l'agente percepisce e riconosce come riprovevole (in quanto dotato di capacità di intendere) siano di tale ampiezza e consistenza da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze; b) ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale, che deve appunto essere ritenuto idoneo ad alterare non l'intendere, ma il solo volere dell'autore della condotta illecita." (Sez. 5, n. 8282 del 09/02/2006, Rv. 233228; Sez. 5 n. 22659 del 08/03/2023, Rv. 284750). 6. Alla luce dei principi e delle considerazioni che precedono la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli, la quale si atterrà alle coordinate ermeneutiche fin qui richiamate. Restano assorbiti, ma non preclusi, all'esito della valutazione in merito alla capacità di intendere e di volere dell'imputato, gli altri motivi di ricorso. 6.1. La liquidazione delle spese sostenute in questa Sede dalla parte civile sono rimesse al giudizio definitivo. 6.2. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52, P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità' e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, addì 8 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. BELLINI Ugo - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. MICCICHÉ Loredana - Consigliere Dott. BRUNO Mariarosaria - Relatore Dott. MARI Attilio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Al., (CUI omissis) nato (omissis); avverso la sentenza del 02/03/2023 della CORTE APPELLO di GENOVA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARIAROSARIA BRUNO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore SILVIA SALVADORI; RITENUTO IN FATTO E CONSIDERTO IN DIRITTO 1. Con sentenza emessa in data 2/3/2023, la Corte d'appello di Genova ha confermato la pronuncia di condanna emessa a carico di Ca.Al. in relazione a due episodi di tentato furto in danno di diversi esercizi commerciali: il primo - capo A) della rubrica, commesso il 7/7/2018 - riguardante il tentativo di impossessarsi di quattro confezioni di polpo surgelato del valore complessivo di euro 55,60, fatto aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 3 cod. pen.; il secondo - capo B) della rubrica, commesso il 21/8/2018 - riguardante il tentativo di sottrazione di confezioni di profumo del valore di euro 254,00, fatto aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 2 cod. pen. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, articolando le seguenti doglianze (in sintesi giusta il disposto di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.) I) In relazione al reato sub capo B) della rubrica, essendo mutato il regime di procedibilità del reato, la Corte d'appello avrebbe dovuto emettere pronuncia di non doversi procedere per carenza della querela. II) La declaratoria d'improcedibilità limitatamente alla fattispecie di cui al capo B) della rubrica avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a valutare in modo più appropriato l'invocato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. in relazione al fatto di cui al capo A) della rubrica. Il diniego dell'attenuante, infatti, è unicamente incentrato sul valore della merce oggetto di contestazione nel capo B) della rubrica. Il P.G. presso la Corte di Cassazione, con requisitoria scritta, ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al capo B) della rubrica e rigetto del ricorso nel resto. 3. Il ricorso è fondato e deve essere accolto nei termini di seguito indicati. Il reato di cui al capo B) della rubrica è improcedibile per mancanza di querela e la sentenza impugnata va annullata sul punto senza rinvio per tale ragione. Il reato è oggi perseguibile a querela di parte, stante la modifica introdotta dall'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 all'art. 624, ultimo comma, cod. pen., che recita: "Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede, tuttavia, d'ufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7-bis)". L'incidenza della riforma sulla presente regiudicanda è indubbia: la circostanza aggravante riconosciuta dai Giudici di merito - il fatto di avere usato violenza sulle cose - non rientra, infatti, nell'elencazione della norma di nuovo conio. La novità normativa riguardante il regime di procedibilità trova applicazione anche in ordine a fatti commessi prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore del D.Lgs. 150/2022. A questa conclusione può giungersi, pur in assenza di una disposizione transitoria ad hoc, mutuando il principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità formatasi in occasione di altri interventi legislativi che hanno modificato il regime di procedibilità dei reati. Si è, invero, condivisibilmente sostenuto che, data la natura mista, sostanziale e processuale, della querela e la sua concreta incidenza sulla punibilità dell'autore del fatto, il rapporto tra leggi che modificano il regime di procedibilità di un reato deve essere governato dalla norma di cui all'art. 2, comma 4, cod. pen. Il principio è stato sancito da Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabro e altri, Rv. 241862 (a proposito del reato di cui all'art. 642 cod. pen.), secondo cui l'esistenza della condizione di procedibilità, in precedenza non richiesta, andava verificata dal Giudice anche in ordine ai reati commessi anteriormente all'intervenuta modifica. Di segno analogo, ancorché in direzione inversa, è la giurisprudenza secondo cui, qualora il regime di procedibilità divenga più severo, la modifica normativa non può riguardare i reati commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della novella (Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 sulla "nuova" irrevocabilità della querela in materia di stalking; Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188 circa l'irretroattività della procedibilità di ufficio per i reati di violenza sessuale prevista dall'art. 609-septies cod. pen.). Tale orientamento è stato richiamato in Sez. U., n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552 - 01, cap. 5. Calato il principio nell'odierna regiudicanda, se ne deduce che la novella del D.Lgs. 150 del 2022, siccome disposizione di favore, trovi applicazione anche con riferimento a reati commessi prima della sua entrata in vigore, come quello addebitato al ricorrente al capo B) della rubrica, per il quale non risulta essere stata sporta querela. 4. Deve invece annullarsi con rinvio la sentenza impugnata con riferimento al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4 cod. pen. ed all'ulteriore aspetto concernente la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. L'attenuante invocata è stata ritenuta inesistente unicamente sulla base del valore della merce riguardante il reato dichiarato improcedibile. È evidente come tale motivazione non possa estendersi al fatto di cui al capo A) della rubrica. Il trattamento sanzionatorio dovrà essere rivisto in conseguenza della intervenuta declaratoria d'improcedibilità del reato sub capo B) della rubrica ed in conseguenza dell'eventuale riconoscimento dell'attenuante invocata. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo B) della rubrica perché l'azione penale non può essere proseguita per difetto di querela. Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Genova, altra sezione, limitatamente alla circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen., nonché per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. DI STASI Antonella - Relatore Dott. GAI Emanuela - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Mi.An., nato a C il (omissis) avverso la sentenza del 05/06/2023 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonella Di Stasi; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Valentina Manuali, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso dell'imputato e l'accoglimento de ricorso del PG; uditi per le parti civili l'avv. Fe.Si., l'avv. Ni.Pa., l'avv. Gi.Co., An.Be., che hanno concluso, depositando conclusioni scritte e note spese, chiedendo l'accoglimento del ricorso del Pg ed il rigetto o, comunque, la declaratoria di inammissibilità del ricorso dell'imputato, e l'avv. Ra.Sc. che ha concluso riportandosi alle conclusioni scritte depositate unitamente alla nota spese; udito per l'imputato l'avv. Iv.Ch., che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del PG e insistendo nell'accoglimento del proprio ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa in data 08/04/2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, all'esito di giudizio abbreviato, pronunciando nei confronti di Mi.An. - imputato dei reati di violenza sessuale contestati ai capi a), b), c), d), e), i), tentato omicidio contestato al capo f), maltrattamenti contestato al capo g), atti persecutori contestato al capo h), sequestro di persona contestato al capo I), lesioni personali contestato al capo m), possesso di segni distintivi contraffatti contestato al capo n) -, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai reati di cui ai capi e) ed f), riqualificato quest'ultimo ai sensi degli artt. 582-585 cod.pen. essendo i reati estinti per intervenuta prescrizione, assolveva l'imputato dai reati di cui ai capi a) e b) limitatamente alle condotte di violenza sessuale diverse da quelle commesse tramite la produzione di fotografie e dal reato di cui al capo n) perché il fatto non sussiste, dichiarava l'imputato responsabile dei restanti reati, riqualificato il reato di cui al capo d) ai sensi dell'art. 613 cod.pen. e il reato di cui al capo h) ai sensi dell'art. 572 cod.pen. da intendersi unificato al reato di cui al capo g) e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia. Con sentenza del 05/06/2023, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della predetta sentenza, dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui al capo G) e al reato di cui all'art. 612-bis cod.pen., così riqualificato il capo h) secondo l'originaria imputazione, commesso fino al 2014, perché estinti per intervenuta prescrizione, assolveva l'imputato dal reato ascritto al capo I) perché il fatto non sussiste, dichiarava non doversi procedere per la violenza sessuale di cui al capo e) con riferimento all'episodio del 18/02/2012 per tardività della querela e revocava le relative statuizioni civili, riteneva la continuazione tra tutti i restanti reati e riduceva la pena ad anni nove di reclusione, riduceva gli importi liquidati a titolo provvisionali. 2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano e l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano propone due motivi di ricorso. Con il primo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale per erronea qualificazione dei fatti contestati ai capi G) ed H) dell'imputazione. Argomenta che correttamente il Gup aveva ritenuto che la condotta di cui al capo H) andasse qualificata non come atti persecutori ma come reato di cui all'art. 572 cod.pen. ed unificata al capo G), in quanto, pur cessata la convivenza nel 2009 a seguito di instaurazione di giudizio di separazione personale, l'imputato e la persona offesa erano genitori di un figlio neonato da accudire ed avevano mantenuto stretti rapporti personali. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione. Argomenta che non convince la motivazione della sentenza di secondo grado nella parte in cui aveva distinto le medesime condotte dell'imputato in maltrattamenti, perché avvenute durante la convivenza coniugale, e in stalking, perchè avvenute dopo l'interruzione della convivenza a seguito della separazione; essa si pone con contrasto con plurime sentenze di legittimità che affermano che integrano il reato di maltrattamenti le condotte che, sorte in ambito domestico, proseguono anche dopo la separazione, di fatto o legale, in quanto il coniuge resta persona della famiglia fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio; nella specie, la perdurante necessità di adempiere agli obblighi di mantenimento ed assistenza del figlio minore derivanti dall'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale consentiva di sussumere la condotta dell'imputato contestata al capo h) nel reato di cui all'art. 572 cod.pen., così come ritenuto dal primo giudice. Deduce, poi, che era erronea la decisione della Corte di appello di ritenere le condotte contestate al capo H), compiute nel 2015 e nel 2016, come non ascrivibili all'imputato o prive di connotazione persecutoria, in quanto una attenta lettura delle denunce e delle memorie della persona offesa consentivano di ritenere denunciate tutte le condotte di stalking puntualmente e tempestivamente. Pertanto, risultava erronea la declaratoria di prescrizione, in quanto il reato di maltrattamenti era stato erroneamente circoscritto agli anni 2008 e 2009 ed il reato di cui al capo H) erroneamente riqualificato come stalking e circoscritto agli anni 2009-2014. Argomenta, inoltre, che, conseguentemente, la Corte di appello erroneamente aveva dichiarato non doversi procedere in ordine all'episodio di violenza sessuale del 18.2.2012 di cui al capo E) perché il Gup aveva erroneamente ritenuto prescritta anche tale condotta delittuosa. L'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, propone i seguenti motivi di ricorso: Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 609-bis e 609-ter n. 2 cod.pen. nonché dell'art. 609-bis, comma 3, cod.pen. in relazione ai reati di cui ai capi A), B), C), I) dell'imputazione. Argomenta che la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto integrati i reati di violenza sessuale contestati in presenza di scatti di fotografie di parti intime effettuate dall'imputato, fotografie rimaste conservate negli apparati elettronici dello stesso; rimarca che, in sostanza, una fotografia non è altro che uno sguardo cristallizzato sulle parti intime di un soggetto, uno sguardo fermato, un tempo su pellicola adesso su byte; lamenta, poi, che erroneamente e con argomentazioni non condivisibili, era stata ritenuta non configurabile l'ipotesi attenuata della minore gravità, essendo evidente che, pur volendo ritenere che la ripresa fotografica avesse, comunque, leso l'integrità sessuale della persona, andava considerato che essa aveva fatto seguito ad un precedente rapporto intimo consensuale. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione e travisamento delle risultanze processuali in relazione alla credibilità delle persone offese circa l'assenso di consenso all'effettuazione delle fotografie ed in relazione all'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 609-bis cod.pen. Argomenta che nei motivi di appello e con memoria del 28.03.2022 la difesa dell'imputato aveva contestato il fatto che le persone offese non fossero consenzienti all'effettuazione delle fotografie, perchè le stesse avevano espresso il consenso precedentemente ovvero erano comunque consapevoli dell'esistenza delle fotografie medesime; la Corte di appello, così come il Tribunale, non aveva adeguatamente considerato una serie di risultanze processuali che comprovavano il consenso delle persone offese all'effettuazione delle fotografie (atti digitali e, in particolare, 50 mila messaggi whatsapp, migliaia di e-mail, centinaia di messaggi vocali, migliaia tra video e fotografie); in particolare: con riferimento al capo A) vi era agli atti una conversazione estratta dalla chat tra l'imputato e la persona offesa, dalla quale si evinceva chiaramente che la donna era a conoscenza delle fotografie intime; con riferimento al capo B) vi erano chat il cui contenuto comprovava che l'imputato e la persona offesa intrattenevano una relazione sentimentale e pianificavano la nascita di un figlio; le risultanze processuali comprovavano che le persone offese avevano acceso ai telefoni e ai computer dell'imputato e, quindi, sapevano dell'esistenza delle foto. La Corte di appello aveva espresso in ordine alle doglianze difensive argomentazioni congetturali ed apodittiche, con conseguente difetto o insufficienza della motivazione. Quanto all'elemento soggettivo del reato, poi, la Corte di appello aveva espresso una motivazione stringata e non condivisibile, affermando l'irrilevanza di relazioni sentimentali e dei rapporti di natura professionale tra le parti; inoltre, con riferimento dal reato di cui al capo C) la difesa aveva contestato che la persona offesa fosse effettivamente priva di conoscenza e sul punto la Corte di appello aveva espresso una motivazione carente e non aderente alle risultanze processuali. Con il terzo motivo violazione degli artt. 582,585, 576 n. 5 e 577 n. 2 cod.pen. in relazione al mancato assorbimento del reato nell'aggravante di cui all'art. 609-ter n. 2 cod.pen. Argomenta che con riferimento ai capi I) e M) la stessa condotta -somministrazione di benzodiazepine - era stata ritenuta, erroneamente, integrare sia l'aggravante del reato di violenza sessuale che il reato di lesioni personali. Con il quarto motivo deduce violazione dell'art. 62-bis cod.pen. e vizio di motivazione. Argomenta che la Corte di appello aveva denegato l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, senza tener conto della confessione dell'imputato, del risarcimento parziale del danno e dei rapporti esistenti tra le parti, nonché del disturbo narcisistico della personalità riscontrato a carico dell'imputato ed effettuando una valutazione negativa del percorso riabilitativo intrapreso dall'imputato, attribuendosi una competenza in materia psichiatrica. Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria ex art. 611 cod.proc.pen., nella quale ha chiesto il rigetto del ricorso del Pg. CONSIDERATO IN DIRITTO l. II ricorso del Procuratore generale è fondato e va accolto. Costituisce orientamento consolidato l'affermazione che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta "persona della famiglia" fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio (o allo scioglimento del vincolo matrimoniale), a prescindere dalla convivenza (Sez. 6, n. 45400 del 30/09/2022, Rv. 284020 - 01; Sez.6, n. 3087 del 19/12/2017, dep.23/01/2018, Rv.272134 - 01; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Rv. 267915 - 01; Sez.6, n. 33882 del 08/07/2014, Rv.262078 - 01). Si è anche da ultimo precisato (Sez. 6, n. 45400 del 30/09/2022, cit.) che quando le azioni vessatorie, fisiche o psicologiche, nei confronti del coniuge siano sorte nell'ambito domestico e proseguano nonostante la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare si configura il solo reato di maltrattamenti, in quanto con il matrimonio o con l'unione civile la persona resta comunque "familiare", presupposto applicativo dell'art. 572 cod.pen. La separazione, infatti, è una condizione che incide soltanto sull'assetto concreto delle condizioni di vita, ma non sullo "status" acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione nell'interesse della famiglia, che discendono dall'art. 143, comma 2, cod. civ., cosicché il coniuge separato resta "persona della famiglia", come peraltro si evince anche dalla lettura dell'art. 570 cod.pen. L'interpretazione costante di questa Corte, secondo cui le condotte violente, psicologiche e/o fisiche, consumatesi in fase di separazione tra coniugi vanno qualificate ai sensi dell'art. 572 cod.pen. è ulteriormente rafforzata quando si condivida un rapporto genitoriale (art. 337- bis e ss. cod.civ.). Di contro, la convivenza è una condizione di fatto, che assume rilievo in relazione ai maltrattamenti ai danni di persona "comunque convivente". Giova ricordare che, secondo il condivisibile orientamento di questa Corte, poi, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa (Sez.6 n. 31390 del 30/03/2023,dep.19/07/2023, Rv. 285087 - 01 e Sez.6, n.9663 del 16/02/2022, Rv. 283120 - 01; nonché Sez.6 n. 31390 del 30/03/2023, Rv. 285087 - 01 e Sez.6, n. 15883 del 16/03/2022, Rv.283436 - 01, che hanno ribadito il principio e precisato che è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa). E si è precisato, con riferimento alla figura della "persona convivente" che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe quello di atti persecutori quando, nonostante l'avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga, comunque, connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., quando non residua neppure una aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l'imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez.6,n. 37077 del 03/11/2020, Rv.280431 - 01); e che nei casi di cessazione della convivenza "more uxorio", è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia, e non invece quello di atti persecutori, quando tra i soggetti permanga, comunque, un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter cod. civ (Sez.6,n.7259 del 26/11/2021, dep. 01/03/2022, Rv.283047 - 01). Tanto premesso, deve osservarsi che, nella specie, la Corte di appello, nel ribaltare la qualificazione giuridica effettuata dal primo giudice - il quale aveva dato atto che le condotte contestate ai capi g) ed h), protrattesi dal 2008 al 2017, andavano ricondotte tutte alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 572 cod.pen., pur essendo stata interrotta la convivenza matrimoniale, in ragione del perdurare dei vincoli di cooperazione per l'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale.- non ha fatto buon governo dei suesposti principi di diritto, non tenendo conto del vincolo coniugale tra l'imputato e la persona offesa - come emerge dall'imputazione e dalla stessa sentenza impugnata che menziona l'iter di separazione che giungeva al divorzio nell'anno 2017- e del principio di diritto suesposto secondo cui, pur essendo in corso un procedimento di separazione, il coniuge separato resta "persona della famiglia" fino allo scioglimento del vincolo matrimoniale, a prescindere dalla convivenza. Va anche ricordato che il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un'ipotesi di reato abituale, si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti; fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrattamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che il termine di prescrizione decorre dal giorno dell'ultima condotta tenuta (Sez.6, n. 52900 del 04/11/2016, Rv. 268559 - 01; Sez.6, n. 56961 del 19/10/2017, Rv.272200 - 01). Anche di tale principio dovrà tener conto il giudice del rinvio. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata relativamente alle condotte contestate ai capi g) ed h) con rinvio per nuovo giudizio tenendo conto dei principi di diritto summenzionati. La sentenza va annullata per nuovo giudizio anche con riferimento al capo e), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.02.2012, in ordine al quale la Corte di appello ha rilevato la tardività della querela, affinchè il giudice di rinvio all'esito del nuovo giudizio di cui ai capi g) ed h) ed alla corretta qualificazione giuridica delle condotte, valuti nuovamente la questione di procedibilità del reato in relazione al disposto di cui all'art. 609-septies comma 4 n. 4 cod.pen. che prevede la procedibilità d'ufficio per il reato di violenza sessuale laddove connesso ad altro reato procedibile d'ufficio. 2. Il ricorso dell'imputato va dichiarato inammissibile sulla base delle considerazioni che seguono. 2.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, che si trattano congiuntamente perché entrambi afferenti all'affermazione di responsabilità relativa ai reati di violenza sessuale, sono manifestamente infondati. Va osservato, in premessa che, nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'atto sessuale, cui la norma incriminatrice fa riferimento, deve comunque coinvolgere la corporeità sessuale del soggetto passivo il quale deve essere costretto "a compiere o subire atti sessuali". Tale requisito deve ritenersi determinate per distinguere l'atto sessuale propriamente detto da tutti gli altri atti che, sebbene significativi di concupiscenza sessuale, siano tuttavia inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, in quanto comportano esclusivamente un'offesa alla libertà morale o al sentimento pubblico del pudore, come avviene nel caso dell'esibizionismo, dell'autoerotismo praticato in presenza di altri costretti ad assistervi o del "voyeurismo"(cfr Sez.3, n. 33045 del 29/10/2020, Rv. 280044 - 01; Sez. 3, n. 23094 del 11/05/2011, Rv. 250654 - 01; Sez. 3 n. 2941, 3/11/1999; Sez. 3 n. 2941 del 28/09/1999, Rv. 215100 - 01). E si precisato che integra il reato di violenza sessuale anche quella condotta che, pur caratterizzata da un fugace contatto corporeo con la vittima, sia finalizzata a soddisfare l'impulso sessuale del reo (Sez.3, 45950 del 26/10/2011, Rv.251339 - 01); e che è atto sessuale sia il contatto fisico diretto che quello simulato con una zona erogena del corpo, in quanto atto parimenti invasivo dell'altrui sfera sessuale (Sez.3, n. 51083 del 28/09/2017, Rv. 271881 - 01). La nozione di violenza nel delitto di violenza sessuale, infatti, non è limitata alla esplicazione di energia fisica direttamente posta in essere verso la persona offesa, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà (Sez.3 ,n.6643 del 12/01/2010,Rv.246186). Tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all'art. 609-bis cod.pen. vanno ricompresi, infatti, anche quelli insidiosi e rapidi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente- come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci (Sez.3, n.42871 del 26/09/2013, Rv.256915 non essendo necessaria una violenza che ponga il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre una resistenza, essendo sufficiente che l'azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo (Sez.3,n.6340 del 01/02/2006,Rv.233315). Integra, inoltre, l'elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona. Ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, infatti, è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso (che Sez.3, n. 22127 del 23/06/2016,dep.08/05/2017, Rv.270500 - 01, che ha affermato il principio in fattispecie in tema di atti sessuali realizzati nei confronti di una persona dormiente, ritenendo integrato il reato di violenza sessuale). Si è, infatti, precisato che possono essere ricondotte al concetto di violenza sessuale non solo le condotte materiali che violano la libertà e l'integrità sessuale della persona offesa attraverso comportamenti realizzati contro la volontà di questa, pertanto in violazione del dissenso manifestato dalla stessa, ma anche le condotte materiali realizzate in assenza di un atto, sia pur implicito o tacito, di disposizione del bene integrità sessuale; e tanto si verifica laddove la persona offesa, non essendo consapevole della materialità degli atti compiuti sulla sua persona, non opponga ad essi un qualche dissenso, essendosi limitata a non esprimere, neppure in forma tacita, il proprio consenso. E si è affermato che configura il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all'art. 609-bis, comma primo, cod. pen. anche l'ipotesi di assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l'assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso all'atto sessuale (Sez. 3 n. 7873 del 19/01/2022,dep.04/03/2022, Rv. 282834 - 02, Sez. 3, n. 38011 del 2019, non mass, sul punto). Va, poi, ricordato che il reato di violenza sessuale non necessita, in alcun modo, ai fini della configurabilità, dell'esistenza di uno specifico requisito soggettivo, consistente nel soddisfacimento sessuale dell'agente. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie prevista dall'art. 609-bis cod.pen. è, infatti, la libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali, una libertà assoluta ed incondizionata, che non incontra limiti nelle intenzioni che il soggetto agente possa essersi prefisso. Ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dunque, non è necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il piacere sessuale dell'agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell'atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, mentre l'eventuale concorrente finalità ingiuriosa o minacciosa o anche di irrisione o ioci causa dell'agente non esclude la connotazione sessuale dell'azione (Sez.3, n.20459 del 24/01/2019, Rv.275965 - 01; Sez.3, n. 3648 del 03/10/2017, dep.25/01/2018, Rv. 272449 - 01;; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep.21/05/2015, Rv.263738 - 01; Sez.3, n. 1709 del 01/07/2014, dep.15/01/2015, Rv.261779 - 01). Nella specie, la Corte di appello, in linea con i suesposti principi di diritto ha evidenziato che gli atti posti in essere dall'imputato integravano gli atti sessuali di cui all'art. 609-bis cod.pen., perché atti materiali costrittivi ed invasivi della corporeità delle persone offese, posti in essere in condizioni di assoluta incapacità delle vittime di esprimere un proprio consenso; in particolare, l'imputato, in più occasioni, dopo aver indotto le donne in uno stato di totale incoscienza mediante la somministrazione di una elevata dose di benzodiazepine occultata in bevande, manovrando le zone intime delle persone offese con le mani e con strumenti divaricatori per consentire la visione della zona vaginale e mettendo in evidenza le parti più interne (allargandole con le proprie dita o con delle pinze a mo' di divaricatore) procedeva, poi, a scattare delle fotografie di tali parti intime; inoltre, con riferimento al reato al capo b) il contatto con le parti intime avveniva anche attraverso l'accostamento del pene dell'imputato alla bocca della persona offesa, condotta poi oggetto di scatto fotografico; con riferimento al capo c), poi, risultano provati anche ulteriori atti sessuali costituiti da palpeggiamenti alle parti intime posti in essere dall'imputato prima che la vittima cadesse in uno stato di totale incoscienza a causa della somministrazione di dosi elevate di psicofarmaci; con riferimento, infine, al capo i) risultando provati anche toccamenti all'inguine, anche in questo caso posti in essere dall'imputato prima che la vittima cadesse in uno stato di totale incoscienza a causa della somministrazione di dosi elevate di psicofarmaci. Risulta evidente che non è lo scatto fotografico in sé ad integrare il reato di violenza sessuale per costrizione ma il contesto in cui tale atto avveniva, contesto caratterizzato da precedenti contatti e manovre poste in essere dall'imputato, con le mani e anche con strumenti divaricatori, interessanti zone erogene delle vittime in stato di assoluta incoscienza e, quindi, incapaci di esprimere un consenso all'atto sessuale. E' indubbia la valenza sessuale di tali atti, che hanno coinvolto la corporeità di zone erogene della vittima violando la libertà e l'integrità sessuale (cfr. Sez. 3, n. 43721 del 23/05/2013, Rv.257488 - 01, che ha ritenuto atto di indubbia connotazione sessuale la condotta di divaricare le gambe della persona offesa al fine di mostrare il pube). Correttamente, poi, la Corte di appello ha ritenuto sussistente anche l'elemento soggettivo del reato, rimarcando come la consapevolezza da parte dell'imputato della natura oggettivamente sessuale degli atti posti in essere risultava comprovata dal contesto e dalla sequenza delle condotte abusanti, chiaramente emergente dalle fotografie contestualmente scattate dall'imputato. A fronte di un siffatto corretto ed adeguato percorso argomentativo, risultando, pertanto, manifestamente infondate le doglianze difensive, volte, peraltro, anche a sollecitare una rivalutazione delle risultanze istruttorie, preclusa in sede di legittimità. Nè coglie nel segno l'allegazione difensiva secondo cui vi sarebbe stato da parte delle persone offese un consenso successivo alle condotte abusanti poste in essere dall'imputato (circostanza, peraltro, ritenuta anche indimostrata dai Giudici di merito) o, comunque, desumibile da una precedente consumazione di un rapporto sessuale tra le parti. Come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all'atto, che esclude la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell'atto stesso (Sez 3, n. 7873 del 19/01/2022, Rv.282834 - 01, che ha l'irrilevanza della antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa); e deve essere relativo all'atto sessuale in itinere ed alle sue modalità inziali (cfr. Sez.3, n. 39428 del 21/09/2007, Rv.237930 - 01, che ha affermato che il consenso iniziale all'atto sessuale non è sufficiente quando quest'ultimo si trasformi, in itinere, in atto violento, consumandosi il rapporto con forme e modalità non volute dalla vittima) e deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità (cfr Sez.3, n. 25727 del 24/02/2004, Rv.228687 - 01, che ha affermato che integra il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell'amplesso, nonché Sez.3, n. 15010 del 11/12/2018, dep.05/04/2019, Rv.275393 - 01, che ha affermato che integra il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà). Risulta evidente che, alla luce dei suesposti principi di diritto e della circostanza che le persone offese si trovavano al momento dei fatti in stato di assoluta incapacità, l'allegazione difensiva risulta del tutto destituita di fondamento. 2.2. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La Corte di appello, nel disattendere il motivo di appello qui riproposto, ha correttamente che il reato di lesioni personali contestato al capo m) dell'imputazione non fosse assorbito dal reato di violenza sessuale contestato al capo i). Costituisce principio consolidato, infatti, quello secondo cui il reato di violenza sessuale non assorbe quello di lesioni personali, trattandosi di fattispecie che offendono beni giuridici diversi e che non si pongono in rapporto di necessaria strumentalità tra di loro (Sez.2, n. 23153 del 19/12/2018, dep.27/05/2019, Rv.276655 - 02; Sez.3, n.16446 del 13/06/2012, dep.11/04/2013, Rv.255280; Sez.3, n.46760 del 28/10/2004, Rv.230481). Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la condotta sia aggravata ai sensi dell'art. 609 ter comma 1 n. 2 cod.pen. La circostanza aggravante di cui all'art.609 ter comma 1 n 2 cod.pen. si caratterizza per una modalità specifica della condotta ("con l'uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa), connotata da potenziale offensività derivante dall'uso di mezzi tipici (armi, sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti) o atipici (altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa); la ratio della disposizione in esame è quella di reprimere più severamente quei comportamenti che sono finalizzati ad attenuare o sopprimere le capacità di resistenza fisico-psichiche della vittima, attraverso l'uso di strumenti potenzialmente idonei a compromettere la salute e le capacità mentali della vittima; la circostanza aggravante è, dunque, integrata dall'uso di mezzi tipici o atipici potenzialmente lesivi della salute della persona offesa, senza alcun riferimento all'effettiva causazione di una lesione della salute. Il delitto di cui all'art. 582 cod.pen. è integrato dalla condotta di cagionare una lesione personale dalla quale derivi una malattia nel corpo e nella mente, da intendersi quale alterazione delle normali funzioni fisiologiche dell'organismo, che richiede un processo terapeutico e specifiche cure mediche (Sez.2, n. 22534 del 21/02/2019, Rv.275422 - 01; Sez. 1, n.7388/85, Rv. 170189), ossia una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Sez.5, n. 33492 del 14/05/2019,Rv.276930 -01). Il delitto di lesioni personali concorre con quello di violenza sessuale anche quando tale delitto sia aggravato della circostanza aggravante di cui all'art.609 ter comma 1 n 2 cod.pen., non essendovi identità del fatto, in quanto l'aggravante prescinde dall'effettiva causazione di una lesione alla salute della persona offesa, condotta integrante, invece, il reato di lesioni personali, ed attesa anche la diversità dei beni giuridici tutelati dai due delitti. Vanno richiamati i principi ripetutamente espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in materia di concorso di norme penali incriminatrici, per stabilire se esso sia reale o meramente apparente, opera quale criterio valutativo fondamentale il criterio di specialità, previsto dall'art. 15 cod.pen., che si fonda sulla comparazione tra la struttura astratta della fattispecie, inteso quale raffronto logico-formale tra i rispettivi elementi costitutivi (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, Rv.270902 - 01; Sez.U, n. 20664 del 23/02/2017,Rv.269668 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep.19/01/2011,Rv.248865 - 01; Sez. U,. n. 23427 del 09/05/2001, Rv. 218771; Sez. U, n. 22902 del 28/03/2001, Rv. 218874). L'insegnamento delle Sezioni Unite è, dunque, consolidato nel ritenere che per "stessa materia", ai sensi dell'art. 15 cod.pen., debba intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale di realizza l'ipotesi di reato, con la precisazione che il riferimento all'interesse tutelato non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità (Sez. U, n.1235 del 28/10/2010, dep.19/01/2011, cit). 2.3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio di fatto, non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola; l'obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez.l, n. 3529 del 22/09/1993, Rv. 195339; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009, Squillace ed altro, Rv. 245241; Sez.3,n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610). Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti; è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione , individuando, tra gli elementi di cui all'art.133 cod.pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell'imputato (Sez.3, n.28535 del 19/03/2014, Rv.259899; Sez.6, n.34364 del 16/06/2010, Rv.248244; sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285, Rv. 230691). Nella specie, la Corte territoriale ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a cagione delle gravi modalità dell'azione (modus operandi organizzato e via via affinato e svalutazione della condizione soggettiva delle vittime); ha, quindi, esaminato e valutato gli elementi addotti dalla difesa, evidenziandone l'irrilevanza e, comunque, la subvalenza degli stessi rispetto alla gravità dei fatti (pp.74 e 75 della sentenza impugnata). La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è, pertanto, giustificata da motivazione congrua ed esente da manifesta illogicità, che è insindacabile in cassazione (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419). 3. In definitiva, in accoglimento del ricorso del Pg va annullata la sentenza impugnata in relazione ai capi h),G),E), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.2.2012, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello Milano, che provvederà, all'esito, anche la liquidazione delle spese per il presente grado di giudizio sostenute dalle parti civili Sc.Ca.e Di.Fa., ammesse al patrocinio in favore dello Stato. Il ricorso diMi.An. va dichiarato inammissibile con condanna, in base al disposto dell'art. 616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, cfr orte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000). Inoltre, l'imputato va condannato in base al disposto dell'art. 541 cod.proc.pen. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle altre parti civili Bo.La., Be.Ca., Me.Ko., Bi.Pa., ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Pg annulla la sentenza impugnata in relazione ai capi h),G),E), quest'ultimo limitatamente all'episodio del 18.2.2012, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello Milano, cui demanda anche la liquidazione delle spese per il presente grado di giudizio sostenute dalle parti civili Sc.Ca.e Di.Fa., ammesse al patrocinio in favore dello Stato. Dichiara inammissibile il ricorso di Mi.An. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle altre parti civili Bo.La., Be.Ca., Me.Ko., Bi.Pa. ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso il 04 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SIANI Vincenzo - Presidente Dott. CASA Filippo - Relatore Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. CURAMI Micaela Serena - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI FIRENZE nel procedimento a carico di El.Om. e El.Om. (CUI omissis) nato il omissis avverso l'ordinanza del 13/07/2023 del GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di FIRENZE udita la relazione svolta dal Consigliere FILIPPO CASA; lette le conclusioni del PG MARIAEMANUELA GUERRA, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata limitatamente alla revoca della sospensione condizionale della pena, revoca che la Corte di cassazione avrebbe dovuto direttamente disporre, e la declaratoria d'inammissibilità del ricorso proposto da El.Om.; RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze, in funzione di giudice dell'esecuzione, respingeva sia la richiesta di El.Om., volta ad ottenere l'applicazione della disciplina della continuazione, ai sensi dell'art. 671 cod. proc. pen., tra reati giudicati con tre sentenze irrevocabili (in particolare: rapina aggravata; art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90; tentato omicidio aggravato, stalking, minaccia grave, lesioni personali aggravate, danneggiamento e porto abusivo di arma), sia la richiesta del Pubblico ministero tesa ad ottenere la revoca di diritto ex art. 168, primo comma, n. 2), cod. pen. della sospensione condizionale della pena concessa all'imputato con sentenza emessa dal Tribunale di Firenze in data 19 giugno 2020, irrevocabile il 16 settembre 2020 (indicata sub n. 2 nel provvedimento impugnato). 1.1. A ragione della decisione reiettiva dell'istanza del condannato, il giudice dell'esecuzione, facendo riferimento al contenuto delle sentenze esaminate, adduceva l'eterogeneità e l'estemporaneità degli episodi delittuosi, frutto di scatti incontrollati di violenza e di istinti predatori determinati da circostanze contingenti. Inoltre, il medesimo giudice escludeva che tutti i fatti di reato fossero stati commessi dal condannato, secondo la prospettazione difensiva, per rivendicare la propria autorità nella gestione dello spaccio nelle piazze fiorentine. Tale assunto, infatti, non sarebbe suffragato dai documenti comprovanti alcool e tossicodipendenza, tema recessivo di fronte ai già descritti indicatori ostativi al riconoscimento del beneficio. 1.2. Quanto alle ragioni esposte a sostegno del rigetto della richiesta del P.M., il giudice a quo osservava che "i fatti per i quali l'imputato ha riportato condanna che a pena cumulata a quella inflitta con la sentenza del Tribunale di Firenze, in composizione monocratica, divenuta irrevocabile in data 3 novembre 2020, sono stati commessi successivamente al fatto per il quale l'imputato è stato condannato con la predetta sentenza" (il "virgolettato" riproduce letteralmente le ultime cinque righe dell'ordinanza impugnata, n.d.e.). 2. Sia El.Om., per il tramite del difensore, che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze hanno proposto ricorso per cassazione secondo i rispettivi profili d'interesse. 2.1. Con l'unico motivo di ricorso, El.Om. deduce il vizio di manifesta illogicità della motivazione. Si rimprovera al giudice di merito di non aver tenuto in debito conto la produzione documentale allegata dalla difesa a proposito della dipendenza del suo assistito da alcool e stupefacente, produzione che, considerata unitamente alla frequentazione abituale, da parte del condannato, di una piazza di spaccio fiorentina, avrebbe dimostrato la sussistenza del vincolo della continuazione fra i reati giudicati con le tre sentenze indicate, commessi in un breve arco temporale (gennaio 2018 - giugno 2019), mediante lo stesso modus operandi, nella medesima località geografica e diretti al reperimento del denaro per procurarsi lo stupefacente. 2.2. Con il suo ricorso, il Procuratore della Repubblica di Firenze denuncia l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 168, primo comma, n. 2), cod. pen., per avere il giudice adito dato rilievo, per stabilire l'anteriorità dei delitti costituenti causa di revoca della sospensione condizionale già concessa (commessi tra il 19 settembre 2018 e il 15 giugno 2019), alla data di consumazione del reato giudicato con la sentenza concedente il beneficio (18 gennaio 2018) e non, come avrebbe dovuto, alla data di irrevocabilità della sentenza medesima (16 settembre 2020). 3. Nella sua requisitoria scritta, il Procuratore generale di questa Corte ha concluso per la declaratoria d'inammissibilità del ricorso di El.Om. e, in accoglimento del ricorso del Procuratore della Repubblica di Firenze, per l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata, limitatamente al rigetto dell'istanza di revoca della sospensione condizionale della pena concessa con sentenza emessa dal Tribunale di Firenze in data 19 giugno 2020, disponendo la stessa Corte di cassazione la revoca del beneficio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di El.Om. va respinto, perché infondato. 1.1. Occorre ricordare, in sintonia con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, che il riconoscimento della continuazione necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea (Sez. U, n. 28659 del 18/5/2017, Gargiulo, Rv. 270074). 1.2. Va, poi, rammentato che, a seguito della modifica dell'art. 671, comma 1, cod. proc. pen. ad opera del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. dalla I. 21 febbraio 2006, n. 49, il giudice dell'esecuzione, nel deliberare in ordine al riconoscimento della continuazione, deve verificare che i reati siano stati frutto della medesima, preventiva risoluzione criminosa, valutando se l'imputato, in concomitanza della relativa commissione, fosse tossicodipendente e se il suddetto stato abbia influito sulla commissione delle condotte criminose, anche alla luce di specifici indicatori quali la distanza cronologica tra i fatti criminosi, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, la tipologia dei reati, il bene protetto, l'omogeneità delle violazioni, le causali, lo stato di tempo e di luogo. In sostanza, seppure la modifica dell'art. 671 cod. proc. pen. non abbia introdotto un "nuovo" concetto di continuazione per i tossicodipendenti, da apprezzare alla stregua di una sorta di "presunzione" iuris tantum (Sez. 6, n. 22553 del 29/03/2017, Braguti, Rv. 270391) - e, infatti, anche per tale categoria di autori di delitti resta, come detto, la necessità, imposta dall'art. 81, secondo comma, cod. pen., che i reati siano avvinti da un "medesimo disegno criminoso", di cui il giudice dell'esecuzione dovrà verificare la sussistenza sulla scorta dei cc.dd. elementi rivelatori - parimenti, lo status in parola deve formare oggetto di specifico esame qualora emerga dagli atti o sia altrimenti prospettato dal condannato (Sez. 2, n. 22493 del 21/03/2019, Avanzini, Rv. 275420; Sez. 1, n. 50716 del 07/10/2014, Iannella, Rv. 261490; Sez. 1, n. 18242 del 14/04/2014, Flammini, Rv. 259192). 1.2.1. Va, poi, aggiunto, che la condizione di alcoldipendenza non rileva ai fini dell'unicità del disegno criminoso, non essendo equiparabile, secondo massime di comune esperienza, allo stato di tossicodipendenza, la cui rilevanza si fonda sull'intento del legislatore dì attenuare le sanzioni derivanti dalla commissione di plurimi reati collegati e dipendenti da tale stato, connotato dalla necessità di procurarsi, con impellente frequenza, i mezzi necessari all'acquisto delle sostanze psicotrope (Sez. 1, n. 37829 del 30/03/2022, Riviera, Rv. 283779). 1.3. Tanto premesso, ritiene il Collegio che il giudice dell'esecuzione, nel caso in esame, si sia correttamente conformato agli enunciati principi con adeguato argomentare. Ed invero, nell'escludere i presupposti del medesimo disegno criminoso, il decidente ha correttamente apprezzato il contenuto delle sentenze esaminate, dal quale ha fatto discendere, in modo non manifestamente illogico, l'individuazione di indicatori ostativi a una matrice deliberativa unitaria, quali, in concreto, l'eterogeneità dei reati commessi (reati contro il patrimonio, contro la persona e in violazione della legge sugli stupefacenti) e la loro estemporaneità, ossia l'occasionalità di specifiche situazioni contingenti delle quali il condannato ha approfittato per assecondare i propri impulsi criminosi. Illuminante del modus operandi di El.Om. è il caso, correttamente all'uopo rappresentato dal giudice dell'esecuzione, dei delitti di tentato omicidio e "stalking", in cui il condannato aveva colpito alla nuca con un colpo di spranga un uomo che si era rifiutato di prestargli la bicicletta e che, poi, successivamente al fatto, aveva variamente minacciato anche al fine di impedirgli di rendere dichiarazioni agli inquirenti. 1.4. Il ricorso non scalfisce la tenuta logica del provvedimento, in quanto si limita ad insistere nel sottolineare la pretesa valenza sintomatica dell'unicità del disegno criminoso inerente alla identità del luogo di commissione dei reati, alla non particolarmente lunga distanza temporale fra gli stessi (che, tuttavia, non equivale a dire che si tratta di distanza temporale breve) e, soprattutto, alla condizione di tossicodipendenza, peraltro contraddittoriamente e indistintamente allegata in uno con l'alcoldipendenza (dipendenza, quest'ultima, che, oltre a essere ininfluente in tema di continuazione, per quanto affermato da questa Corte, in concreto non è stata valorizzata nemmeno dallo stesso ricorrente). Si tratta di indicatori che, all'evidenza, il giudice di merito ha considerato, in modo congruo, recessivi rispetto a contro-indicatori di prevalente spessore di cui si è già dato atto. Non ha fondamento, poi, la censura del passaggio motivazionale, in cui la condanna per il reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 (sentenza emessa dal Tribunale di Firenze in data 19 giugno 2020) è stata definita "eccentrica", essendo palese che, con tale aggettivo, il giudice a quo abbia inteso fare riferimento alla eterogeneità di quel reato rispetto alla tipologia degli altri reati giudicati con le sentenze in valutazione. 1.5. Il ricorso di El.Om. va, in conclusione, rigettato, dal che discende ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 2. Si ritiene, viceversa, fondato il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, essendo conclamata la violazione di legge in cui è incorso il giudice di Firenze con riferimento all'art. 168, primo comma, n. 2), cod. pen. Come noto, la causa di revoca prevista dalla norma in esame è rappresentata da una condanna ulteriore per un reato commesso anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che concesse il beneficio, che intervenga nei termini stabiliti dall'art. 163 cod. pen. per il compimento della prova sottesa alla sospensione condizionale, e cioè da una condanna che deve divenire irrevocabile entro il termine del periodo di esperimento a partire dalla data del passaggio in giudicato della prima sentenza (tra le altre, Sez. 5, n. 25529 del 17/03/2023, Zanetti, Rv. 284930; Sez. 1, n. 47050 del 29/11/2017, dep. 2018, Szal, Rv. 133401). L'anteriorità del reato successivamente giudicato va, quindi, determinata con riferimento alla data in cui diviene irrevocabile la sentenza che concede il beneficio e non a quella di commissione del reato al quale essa si riferisce (Sez. 1, n. 35563 del 10/11/2020, P.M. in proc. Salamina, Rv. 280056), come erroneamente affermato nel provvedimento avversato. Nel caso in esame, alla luce dei principi richiamati, sussistevano, alla data della richiesta del Pubblico ministero territoriale, tutti i presupposti per la revoca di diritto, ai sensi dell'art. 168, primo comma, n. 2), cod. pen. Ed invero, a fronte della concessione della sospensione condizionale della pena di otto mesi di reclusione e 1.200,00 euro di multa, inflitta con sentenza emessa dal Tribunale di Firenze in data 19 giugno 2020, irrevocabile il 16 settembre 2020, El.Om. è stato condannato, con sentenza resa dal G.i.p. del Tribunale di Firenze in data 17 settembre 2020, irrevocabile il 1° dicembre 2022 (quindi, prima dei cinque anni dalla irrevocabilità della decisione concedente il beneficio), alla pena di 12 anni e 2 mesi di reclusione (che già da sola supera i limiti di cui all'art. 163 cod. pen.) per fatti commessi tra il 19 settembre 2018 e il 15 giugno 2019, dunque, anteriormente al 16 settembre 2020, data della irrevocabilità della prima decisione. Il riscontrato errore di diritto in cui è incorso il giudice di merito impone, in parte qua, l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata, potendo dare questa Corte i provvedimenti necessari, a norma dell'art. 620, lettera I), cod. proc. pen., trattandosi di disporre la revoca di diritto del beneficio della sospensione condizionale della pena. Va dato seguito, infatti, al condiviso orientamento di legittimità secondo il quale la revoca obbligatoria della sospensione condizionale della pena, illegittimamente rifiutata dal giudice dell'esecuzione, è disposta direttamente dalla Corte di cassazione, adita con ricorso dal Pubblico ministero, previo annullamento senza rinvio della decisione impugnata (Sez. 1, 5/02/2009, P.M. in proc. Erra, Rv. 242885; vedi, anche, tra le più recenti, Sez. 1, n. 4025 del 29/09/2021, dep. 2022, P.M. in proc. Venturini, non mass.; Sez. 1, n. 32206 del 14/06/2022, P.M. in proc. Impellizzeri, non mass.). La cancelleria provvederà a comunicare la presente decisione al Procuratore generale in sede, per quanto di competenza ai sensi dell'art. 626 cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso di El.Om. che condanna al pagamento delle spese processuali. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nella parte in cui ha rigettato la richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena concessa con sentenza del Tribunale di Firenze n. 1322/2020 del 19.06.2020, irrevocabile il 16.09.2020, revoca che dispone. Manda alla cancelleria per l'immediata comunicazione al Procuratore generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell'art. 626 cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Ma., nato a N il (omissis) avverso l'ordinanza del 26/01/2024 del Tribunale di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ombretta Di Giovine; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Piccirillo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli, in sede di riesame confermava la custodia in carcere di De.Ma. in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia aggravato. 2. Avverso l'ordinanza ha presentato ricorso il difensore dell'indagato, Avv. Sa.Da., deducendo vizio di motivazione in relazione agli artt. 309 e 310 cod. proc. pen. e 101 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. L'ordinanza è nulla per essersi il Tribunale del riesame pronunciato oltre i termini di legge. L'udienza davanti al Tribunale del riesame era stata differita a causa dell'impedimento dell'indagato, affetto da sindrome influenzale, e la procedura sospesa ex art. 101 disp. att. cod. proc. pen. Il Tribunale provvedeva a trasmettere il verbale alla casa circondariale dove l'indagato era ristretto, chiedendo di avvisare appena cessata la causa dell'impedimento. Nel provvedimento impugnato, il Tribunale evidenzia come la prima risposta fosse stata inviata dalla casa circondariale in data 20/12/2023 e che in essa il sanitario di guardia attestava una prognosi di tre giorni, salvo complicanze. In realtà, la richiesta era stata inoltrata dal Tribunale del riesame via pec il 19/12/2023, alle 12.51; il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria aveva risposto lo stesso giorno al Tribunale del riesame, ma aveva errato l'indicazione della sezione competente e aveva provveduto, di conseguenza, ad un nuovo inoltro, tanto che agli atti si trova una ricevuta di accettazione recante la data del 21/12/2023, ore 9.16 (e non del 20/12). Anche, peraltro, a prescindere da tale inesattezza, solo il 19/01/2024, dietro ulteriore richiesta del Tribunale, sollecitato dalla difesa dell'indagato, l'azienda sanitaria certificava la cessazione dell'impedimento, rinviando compiutamente al contenuto del primo certificato. Il Tribunale ritiene rispettato il termine di cui all'art. 309, comma 9, cod. proc. pen., dal momento che il dies a quo per il decorso dei nuovi termini per la decisione del riesame è quello in cui è sicuramente venuto meno l'impedimento. Non considera tuttavia che il DAP, oltre ad aver evidenziato che si trattava di sindrome "simil-" influenzale, aveva dichiarato che l'impedimento sarebbe venuto meno tre giorni dopo la comunicazione del 19/12/2023. Peraltro, tale primo certificato era stato integralmente riportato anche dalla successiva comunicazione del 18/01/2024. L'impedimento deve quindi intendersi cessato il 22/12/2023. 2.2. Violazione dell'art. 606, lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 273, 192 cod. proc. pen. con riferimento ai maltrattamenti in famiglia. Sul piano della gravità indiziaria, l'ordinanza si limita a riportare le dichiarazioni della persona offesa, senza considerare che la difesa aveva rilevato come il narrato della stessa si ponesse in contrasto con alcuni atti di indagine e, in particolare, con le sommarie informazioni testimoniali di chi (Or.Ma., De.Gi., Lu.Ma.) aveva escluso di aver assistito ad atti di violenza dell'indagato sulla persona offesa o di averne avuto conoscenza dalla presunta vittima; per contro, alle memorie erano allegati files audio/video che attestavano le aggressioni e le minacce della persona offesa ai danni dell'indagato e di cui il Tribunale non ha tenuto conto. 3. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell'art. 23, comma 8, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla L. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. L'art. 101 disp. att. cod. proc. pen. dispone che "nel procedimento previsto dall'art. 309 del codice, se l'udienza è rinviata a norma dell'art. 127, comma 4, del codice, il termine per la decisione sulla richiesta di riesame decorre nuovamente dalla data in cui il giudice riceve comunicazione della cessazione dell'impedimento o comunque accerta la cessazione dello stesso". Dall'ordinanza impugnata risulta che il Tribunale del riesame, dopo aver ricevuto la certificazione recante la prognosi di guarigione dell'imputato detenuto entro tre giorni "salvo complicanze", aveva nuovamente chiesto alla Casa circondariale di B, ove il ricorrente era ristretto, di essere avvisato appena fosse cessato dell'impedimento, "non essendo sufficiente una mera prognosi". La Casa circondariale non ha, tuttavia, comunicato alcunché ed ha risposto soltanto dopo l'ulteriore richiesta da parte del Tribunale, la quale ha fatto immediatamente seguito al sollecito del difensore dell'imputato. Di conseguenza, soltanto dal giorno di tale risposta è nuovamente decorso il termine di cui agli artt. 101 disp. att. cod. proc. pen. e 309 cod. proc. pen., che dunque risulta, nel caso di specie, rispettato. 2. Anche il secondo motivo di ricorso va rigettato, poiché sollecita una diversa valutazione del quadro indiziario, inammissibile in cassazione. Il Tribunale del riesame ha valorizzato le dichiarazioni della parte offesa, ritenuta attendibile, considerato il grado di dettaglio del racconto e perché non ha dimostrato alcun astio o rancore nei confronti dell'imputato. Ha, inoltre, comunque richiamato i riscontri al narrato della donna. In particolare, ha riferito che un'amica fu presente ad un episodio aggressivo e richiamato le dichiarazioni della madre della persona offesa, la quale venne a sapere delle violenze subite dalla figlia nonostante questa avesse tentato a lungo di tenergliele nascoste, perché a conoscenza di una precedente condanna per stalking dell'uomo ai danni della precedente fidanzata (e del fatto che avesse compiuto atti di ritorsione a carico del padre di lei), oltre che nel tentativo di salvare il rapporto con l'uomo dal quale aveva avuto una figlia. La motivazione del provvedimento impugnato, allo stato del procedimento, risulta, dunque, completa e non illogica né contraddittoria, oltre che conforme all'insegnamento della pacifica giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). 3. Per le ragioni esposte, il ricorso è rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 18 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GENTILI Andrea - Presidente Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere Dott. GALANTI Alberto - Consigliere-Rel. Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Vi.Cl., nato a B il (Omissis) avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia del 16 marzo 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Galanti Alberto; Lette, per le parti civili Bo.An. e Vi.As., le conclusioni scritte dell'Avv. Se.Ch., che ha concluso per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso. Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Dr. Molino Pietro, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 16 marzo 2023 la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del Tribunale di Verona in data 15 aprile 2022, con cui Vi.Cl. veniva condannato alla pena anni 9 e mesi 6 di reclusione per i delitti di cui agli artt. 609-bis e 609-ter cod. pen. (capo a), 582-585-576 cod. pen. (capo b), 572, in parte riqualificato in 612-bis cod. peno (capo c), in danno di Bo.An., sua ex compagna. 2. Avverso la sentenza propone ricorso l'imputato, tramite il proprio difensore. 2.1. Con il primo motivo lamenta motivazione illogica e apparente in riferimento alla censurata inidoneità degli elementi di prova assunti a fondare un giudizio di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale. La sentenza ritiene sufficiente la deposizione della persona offesa, in assenza di riscontri estrinseci, pur avendo la difesa prodotto prove che confutavano il suo narrato. Contesta la valenza probatoria del certificato medico, che attesta solo lesione al labbro e non in zona vaginale. L'attendibilità della persona offesa è poi minata dalla sua dimostrata "lascività". Si lamenta poi il rinvio a messaggi e chat intercorsi la sera stessa del fatto, indicati nella prima sentenza, senza che essi siano indicati nella sentenza di appello o ne sia specificata la valenza. 2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge in riferimento all'articolo 612-bis cod. pen. Lamenta il ricorrente che, quand'anche le condotte poste in essere dall'imputato si fossero verificate effettivamente, esse andavano semmai qualificate come maltrattamento in famiglia e non come stalking. In relazione a tale delitto mancano, comunque, sia la abitualità della condotta che il mutamento delle abitudini di vita o il perdurante stato d'ansia. 2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: nell'editto accusatorio vengono indicati i soli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti, ai quali inopinatamente sono stati aggiunti dal Tribunale altri elementi, relativi al periodo successivo alla cessazione della convivenza, del diverso reato di stalking. La conseguente nullità, anche se non dedotta in appello, può essere rilevata anche in Cassazione, trattandosi di nullità assoluta. Il ricorrente deduce anche che nell'atto di appello avesse sottolineato come, anche dopo la cessazione della convivenza, la Bo.An. continuava a frequentare a casa dell'imputato, del quale non era assolutamente impaurita. 2.4. Con il quarto motivo, lamenta violazione di legge in relazione all'articolo 572 cod. pen. Ritiene che la presenza di soli due episodi in venti anni non sia sufficiente a integrare l'abitualità della condotta. 2.5. Con il quinto motivo, lamenta vizio di motivazione (motivazione apparente) in riferimento agli atti persecutori, sotto il profilo dell'elemento psicologico del reato e della sussistenza degli eventi tipici del reato. Non specifica, poi, quali sarebbero stati gli episodi ripetuti di percosse. 2.6. Con il sesto motivo, lamenta mancanza o vizio di motivazione circa gli elementi di prova della violenza sessuale, effettuata solo per relationem. 2.7. Con il settimo motivo lamenta una "carenza di approccio critico e motivazionale" della sentenza impugnata, appiattita sulla sentenza di primo grado. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni, evidenzia come le doglianze di cui ai nn. 1, 2, 4,5,6 e 7, si risolvono - pur nella veste di denuncia di vizio motivazionale - nella sostanziale riproposizione dei motivi di appello relativi alla affermazione della responsabilità dell'imputato per la condotta di violenza sessuale, di lesioni e di maltrattamenti nei confronti della compagna convivente. Al riguardo - ricordato come nel caso di "doppia conforme" la motivazione del giudice di appello si salda con quella del primo giudice, di modo che deve essere riguardata in maniera unitaria e come tale deve essere sottoposto al reclamato scrutinio di tenuta del discorso giustificativo - si osserva che entrambi i giudici territoriali hanno dato conto, con analiticità, delle ragioni per le quali le dichiarazioni della persona offesa sono del tutto affidabili, verificando la corrispondenza dei dettagli del narrato con i riscontri esterni. Manifestamente infondata sarebbe infine la censura di cui al motivo n.3, una volta verificato che i fatti contestati in imputazione corrispondono al nucleo delle condotte che costituiscono il paradigma dell'art. 612-bis cod. pen. ed essendosi più volte affermato in giurisprudenza che, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, sia configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il - peraltro più grave - reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa (da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 31390 del 30/03/2023, Rv. 285087 - 01). 4. La parte civile, nella memoria depositata, evidenzia come le doglianze difensive di fatto si sostanzino nella richiesta di un terzo grado di giudizio sui fatti di cui alla vicenda processuale. Più nello specifico, come noto, il Giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive. Evidenzia inoltre che, secondo la giurisprudenza della Corte, in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l'appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione. Evidenzia inoltre, quanto al delitto di violenza sessuale, che non corrisponde al vero che i primi giudici abbiano ritratto la prova di un rapporto sessuale dall'esistenza di un ematoma al labbro. Il certificato medico è stato, al contrario, esaminato in uno con i riscontri, acquisiti durante l'istruttoria dibattimentale, al narrato della persona offesa, risultando quindi, sotto il profilo logico e giuridico, rafforzativo e confermativo dei fatti ascritti all'imputato. Il Giudice di prime cure trae infatti il proprio convincimento della violenza subita dalla Bo.An., dalle numerose circostanze emerse durante l'istruttoria dibattimentale (l'accesso al pronto soccorso poco dopo i fatti, la richiesta d'aiuto formulata nell'immediatezza a Vi.Cr. e lo stato di forte agitazione, narrato dalla Vi.Cr. stessa, nel quale si trovava la signora Bo.An., nonché il racconto della violenza subita a Ga.Ri. e Vi.Gi. che hanno confermato in dibattimento di aver raccolto le confidenza della signora Bo.An. e la denuncia sporta il giorno successivo) oltre che dalla risultanze del certificato medico, richiamato dal ricorrente. In ogni caso, ad abundantiam, il richiamato certificato medico evidenzia anche lesioni agli organi genitali, quali escoriazioni e sanguinamento, conseguenti alla violenza subita. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono. Va premesso che la sentenza di appello, pur non effettuando un esplicito riferimento alla motivazione per relationem, espressamente rinvia - in numerose occasioni - all'iter motivazionale della prima sentenza, che conferma. Come noto (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664 - 01, e unanime giurisprudenza successiva), la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile. Elementi tutti ricorrenti nel caso in esame. Il Collegio, pertanto, ribadisce il principio della "reciproca integrazione" motivazionale delle sentenze di primo e secondo grado nelle parti in cui la decisione è conforme, senza affrontare in modo critico le motivazioni addotte dai giudici di prima cura, risultando di tal guisa inammissibile. E' infatti pacifico che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 - 01; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01). Affinché tale effetto di crasi delle due sentenze si verifichi, occorre che i giudici del gravame concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, con il conseguente obbligo per il ricorrente - che coltivi il vizio di motivazione del provvedimento impugnato - di confrontarsi in maniera puntuale, a pena di inammissibilità, con i contenuti di entrambe sentenze, onere che, come si vedrà caso per caso, nel caso di specie è stato largamente disatteso. Inoltre, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella pronuncia di primo grado (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, Valerio, Rv. 252615-01; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229-01), il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593-01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841-01). 2. Ciò premesso, i motivi di ricorso afferenti il giudizio di responsabilità in ordine ai reati contestati nelle imputazioni, che possono essere trattati congiuntamente, sono tutti inammissibili per difetto di specificità. Correttamente, la sentenza di appello richiama quella giurisprudenza - che il Collegio condivide e ribadisce - secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. 3, Sentenza n. 1559 del 19/11/2021, dep. 2022, Pavin, n.m.; Sez U, n. 41461 del 19/07/2012, Rv.253214, che ha, altresì, precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi). Il Giudice, quindi, può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini, Rv. 248016, Sez.5, n. 1666 del 08/07/2014). Tale principio è stato ribadito anche di recente, avendo questa Corte affermato, in tema di testimonianza, che le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez.5, n. 21135 del 26/03/2019, RV.275312-01). La Corte di appello (pag. 10) evidenzia poi come nel corso del primo grado di giudizio le dichiarazioni della persona offesa, relative alla violenza sessuale subita, siano state suffragate da una serie di riscontri oggettivi (tra cui evidenzia i messaggi e le chat vocali, incluso quello tra l'imputato e la figlia Vi.As.) e soggettivi che ne avallavano la attendibilità. Quanto ai delitti di maltrattamenti e stalking, evidenzia la sentenza impugnata a pagina 12 che - tralasciando la visione atomistica proposta dalla difesa, una valutazione unitaria delle condotte, reiterate per anni, consente di affermare senza ombra di dubbio la sussistenza dei reati contestati. La motivazione della seconda sentenza deve essere valutata congiuntamente con quella di primo grado, che la integra e completa. E così: - il contenuto del messaggio mandato la sera dello schiaffo alla figlia è riportato a pagina 4 della sentenza del Tribunale di Verona; - l'utilizzo sistematico, durato anni, di pedinamenti, messaggi minatori anonimi e altre forme di controllo ossessivo, è riportato alle pagine 5 e 6, così come la riconducibilità del periodo di malattia di cui ha usufruito la p.o. al fatto che l'imputato depositava messaggi minatori presso la LIDL dove lei era impiegata; - la sussistenza di riscontri estrinseci al narrato della persona offesa, costituiti dalle dichiarazioni del M.llo Gi.El., di Vi.Gi. (figlia dell'imputato e di Ga.Ri.), Ga.Ri. (ex compagna dell'imputato), Vi.Cr. (sorella dell'imputato), Vi.As. (figlia dell'imputato), Va.Ca. (collega della p.o.), Ot.Mo. (collega), Po.An. (autista di camion che la aiutò in una occasione), dai tabulati telefonici, dalla chat anzidetta, dal messaggio audio mandato dall'imputato al Va.Ca. la sera del 23 gennaio 2020, circostanze tutte da cui il Tribunale scaligero induce la attendibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa Bo.An., sono riportate a pag. 6-10, mentre il vaglio finale di attendibilità pag. 14-15. Del pari, in modo certosino vengono interpolate le varie fonti di prova che dimostrerebbero la sussistenza del reato di violenza sessuale contestato all'imputato, motivazione la cui valenza persuasiva non viene scalfita dai motivi di ricorso, che si limitano ad una generica contestazione dell'attendibilità della persona offesa. Quanto al reato di maltrattamenti, premessa la indiscussa qualificazione giuridica del reato in oggetto come reato abituale, in relazione al quale, pertanto, è necessaria, affinché le singole condotte che ne compendiano la materialità assurgano al grado di rilevanza penale, che le stesse siano caratterizzate da una loro sistematica iterazione, tanto da avere fatto dire che deve trattarsi di un "sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente" per il soggetto passivo del reato (v., ex plurimis, Sez. 3, 36170 del 23/03/2023, Torre, n.m.; Sez. 6, 17/04/1996, n. 4015), deve, peraltro, rilevarsi, quanto al caso ora in esame che le plurime dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai testimoni escussi, puntualmente riportate nella prima sentenza e richiamate per relationem dalla sentenza impugnata, evidenziano una desolante situazione di ripetute ed umilianti vessazioni, elementi tutti che rendono manifestamente infondato il quarto motivo di ricorso. La prima sentenza, in particolare, riferisce di maltrattamenti e atti persecutori attuati in un lungo arco temporale e posti in essere non solo nei due episodi esemplificativamente indicati nell'imputazione, ma altresì in un incessante susseguirsi di pedinamenti, lettere minatorie, anche anonime, percosse, ingiurie, minacce, consegna di pacchetti accompagnati da messaggi scurrili e offensivi (come quello contenente un vibratore), minacce rivolte ad amici e colleghi della persona offesa, anche quando l'imputato era sottoposto al divieto di avvicinamento alla persona offesa, forme ossessi ve di controllo, e così via. Tale ricostruzione è perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273 - 01), secondo cui "in tema di maltrattamenti in famiglia, il reato è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione". Del tutto inconsistente si appalesa, quindi, la doglianza che vorrebbe negare la sussistenza di quella abitualità di comportamento che connota i due reati in cui è stato frammentato il capo c). 2.5. Inammissibile è del pari il quinto motivo, contenente censure relative alla mancanza dell'elemento psicologico, la cui esistenza viene confermata dalla sentenza impugnata (pag. 12) in considerazione delle modalità di commissione dei singoli reati. La prima sentenza, a pag. 17, evidenzia in proposito che non possono esserci dubbi sulla volontarietà della commissione dei reati contestati, già in ragione delle modalità della loro commissione, e che l'eventuale finalità di intimidire o umiliare la vittima non esclude certo il dolo (conforme: Sez. 3, n. 39718 del 17/06/2009, Rv. 244622). 2.3. Il secondo e terzo motivo possono essere trattati congiuntamente. Essi sono parzialmente fondati, nei termini e nei limiti che seguono. 2.4. Quanto al reato di stalking, in cui è stata riqualificata l'originaria contestazione di maltrattamenti in famiglia, per il periodo successivo alla cessazione della relazione affettiva, il Collegio evidenzia quanto segue. 2.4.1. In ordine alla lamentata teorica insussistenza del delitto di cui all'articolo 612-bis cod. pen., per il periodo successivo alla cessazione della convivenza, l'interpretazione fornita dai giudici di merito non appare censurabile, per cui il terzo motivo di censura è manifestamente infondato. Ed infatti, come evidenziato da Sez. 3, n. 31390 del 30/03/2023, Piccoli, n.m., il Giudice delle leggi (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021) "ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di "famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni". Ma immediatamente dopo ha ammonito che, "in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost.". Invero, secondo la Corte costituzionale citata, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25 Cost.), nonché la presenza di un apparato normativa che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572 cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua. Così, la successiva giurisprudenza ha affermato che, nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori (così Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, HavirneanuSez. 2, n. 10222 del 23/01/2019, c., Rv. 275617; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398; Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, dep. 21/03/2022, P., n. m.; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, Di Trocchio, n.m.). Quanto ai profili strutturali, si è del resto evidenziato (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D'Aversa, n.m.) che "l'oggettività giuridica delle due fattispecie di cui agli artt. 572 e 612 bis cod. pen. è diversa, poiché il primo è un reato contro l'assistenza familiare ed il secondo è un reato contro la libertà morale e che diversi sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite, ancorché le condotte materiali dei reati appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva". 2.4.2. Venendo ai rapporti fra le due fattispecie incriminatrici si è ritenuto che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'art. 612-bis, comma primo, cod. pen. - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 (dep. 2012) Frasca, Rv. 252906). 2.4.3. Quanto alla censura che lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, esso è invece fondato. Questa Corte, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ritiene (Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846 - 04) che "per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, sicché l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione". Si è anche rilevato che sussiste la violazione dell'obbligo di correlazione laddove "il fatto ritenuto nella decisione si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contenga l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva, tenendo conto di tutte le risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione" (Sez. 2, n. 21089 del 29/03/2023, Saracino, Rv. 284713 - 02). Analogamente, è stato ritenuto (Sez. 2, n. 3483 del 25/10/2018, dep. 2019, Giacomi, Rv. 274896 -02 non sussiste violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen., quando la riqualificazione abbia per oggetto reati (nel caso di specie: l'art. 640 cod. peno in luogo dell'art. 642 cod. pen., contestato in rubrica) che non si pongono in termini di "incompatibilità" ma piuttosto un rapporto di "specialità", in forza del quale la riqualificazione operata dal giudice non comporta alcuna immutazione del fatto storico ed è assolutamente prevedibile per l'imputato. Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B., Rv. 269655 - 01, ha poi affermato che "l'attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa". 2.4.4. Scendendo in concreto, occorre distinguere il profilo probatorio da quello relativo alla contestazione. In ordine al primo profilo, le due sentenze, unitariamente considerate, danno conto di un duraturo e progressivamente sempre più intenso reiterarsi di condotte moleste e vessatorie, cagionanti un perdurante stato di ansia della persona offesa, nonché della sua decisione di utilizzare un periodo di malattia sul lavoro per sottrarre sé stessa e i propri colleghi alle morbose attenzioni dell'ex compagno, così modificando le proprie abitudini di vita (v. pag. 19 ss. della prima sentenza, in cui si dà atto che la persona offesa - durante la sua escussione - ha ampiamente narrato del perdurante stato d'ansia cagionatole dalla condotta dell'imputato, sfociante anche in attacchi di panico notturni, attestato anche da certificazione medica). In tal modo le due pronunce evidenziano la sussistenza, in fatto, di uno degli eventi di cui all'art. 612-bis cod. pen., e sicuramente la riqualificazione del reato poteva apparire come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio. Sotto il profilo della contestazione, viceversa, se le "condotte" descritte in rubrica sono in grado di concretizzare tanto il reato di maltrattamenti in famiglia che quello di stalking, manca tuttavia la descrizione dell"'evento" del secondo reato, che costituisce elemento descrittivo indeflettibile della fattispecie. In ciò si realizza, secondo il Collegio, un difetto di contestazione, non sanato dalla modifica dell'imputazione ai sensi dell'articolo 516 sS. cod. proc. pen., che si è tradotto nella violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. 3. La sentenza va pertanto annullata senza rinvio, limitatamente alle condotte riqualificate come commesse in violazione dell'art. 612-bis cod. pen. Ai sensi dell'art. 620, lett. I) cod. proc. pen., la Corte può procedere a rideterminare la pena, non essendo necessari accertamenti di fatto, semplicemente elidendo l'aumento di mesi tre di reclusione, operato per la continuazione dal primo giudice, in riferimento a tale ipotesi di reato. L'assenza di contestazione originaria non consente di formarsi, a seguito dell'annullamento senza rinvio, il passaggio in giudicato della sentenza in riferimento alla porzione di condotta contestata, con le conseguenze che ne derivano in tema di bis in idem. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla affermazione della penale responsabilità del ricorrente quanto al reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., per difetto di contestazione ed elimina la relativa pena di mesi tre di reclusione. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Venezia con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso in Roma, l'8 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Relatore Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Fr., nato a M il (omissis); avverso l'ordinanza del 12/10/2023 del Tribunale del riesame di Catanzaro; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Anna Criscuolo; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udite le conclusioni dei difensori avv. Sa.Mi. e Pr.Sa., che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con il ricorso proposto nell'interesse di Ma.Fr. si chiede l'annullamento dell'ordinanza indicata in epigrafe con la quale il Tribunale del riesame di Catanzaro ha annullato per insussistenza delle esigenze cautelari l'ordinanza emessa il 9 giugno 2023 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale applicativa della misura degli arresti domiciliari per il reato di cui agli art. 110-56-610 e 416-bis 1 cod. pen., in particolare, per avere, in concorso con Ac.Gi., capo dell'omonima cosca di Z e la cui sola presenza, senza alcun titolo nella vicenda, aveva valenza intimidatoria, e Ci.Na., tentato di costringere la dott.ssa Co.Ni., veterinaria presso l'Asp di V, a ritirare le querele sporte per stalking nei confronti del Ma.Fr., suo dirigente. Il ricorso si articola in tre motivi, di seguito illustrati. 1.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge penale e processuale in punto di gravi indizi di colpevolezza per avere il Tribunale attribuito al ricorrente il ruolo di mandante senza tener conto del contenuto del colloquio del 17 settembre 2018, registrato dalla vittima e trascritto dalla polizia giudiziaria e dal consulente tecnico di parte. Il Tribunale non ha considerato che entrambi i partecipanti all'incontro con la Co.Ni. hanno negato il coinvolgimento del ricorrente, presunto dalla Co.Ni., la cui credibilità non è stata vagliata, trascurando che ella aveva omesso di riferire di aver interessato l'Ac.Gi. e il Ci.Na. molto prima di quell'incontro, informandoli del rapporto conflittuale con il Ma.Fr. e richiesto il loro intervento per indurlo a revocare il provvedimento del suo trasferimento. L'ascolto del colloquio registrato avrebbe consentito di rilevare tale importante circostanza e di accertare che il silenzio serbato dalla Co.Ni. ne inficia il narrato, oltre a dimostrare che l'Ac.Gi. e il Ci.Na. avevano un interesse personale, dovuto a tale precedente interessamento nella vicenda, per tentare di propiziare una soluzione bonaria, convocando entrambe le parti, ed evitare di essere chiamati a deporre in Tribunale. Dal colloquio risulta che l'unica preoccupazione della Co.Ni. è il processo, il desiderio di vendicarsi del Ma.Fr. e di assicurarsi che il Ci.Na., indicato nella lista testi dal Ma.Fr., al pari degli altri, dei quali rivelava il nome, non dica nulla di pregiudizievole nei suoi confronti e, nonostante l'assicurazione dell'Ac.Gi. che l'incontro è frutto di una sua iniziativa, la Co.Ni. ritiene che l'ideatore dell'incontro sia il Ma.Fr. A fronte di tali elementi il Tribunale avrebbe dovuto verificare anche l'eventuale strumentalità della querela, presentata tre mesi dopo l'incontro e compiere una più approfondita valutazione dell'attendibilità della persona offesa. I contatti telefonici intercorsi tra il Ma.Fr. e il Ci.Na., ritenuti un riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, sono del tutto neutri, avuto riguardo alle dichiarazioni rese dal Ma.Fr. nell'interrogatorio e di cui vi è riscontro nel colloquio registrato ovvero che il fu il Ci.Na. a cercarlo in ufficio e che egli lo richiamò senza raggiungerlo. La tesi dell'accordo con l'Ac.Gi. è illogica perché smentita dalla documentazione in atti, dalla quale risulta che il Ma.Fr. aveva più volte adottato provvedimenti sanzionatori ed era stato destinatario di intimidazioni e minacce, come risulta dall'imputazione elevata a carico di Pa.Ce. 1.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 56-610 cod. pen. per non avere il Tribunale considerato che la persona offesa ha escluso di essere stata minacciata, affermando di essere stata solo invitata a riappacificarsi con il Ma.Fr. 1.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all'aggravante del metodo mafioso, insussistente alla luce dei toni amicali del colloquio, della pregressa richiesta di intervento rivolta all'Ac.Gi. dalla persona offesa e della insufficienza della mera presenza di questi ad integrare l'aggravante. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per mancanza di interesse. È noto che l'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere concreto e attuale, correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento oggetto dell'impugnazione e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione del predetto provvedimento, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante (Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016, Conte, Rv. 267172). È, altresì, noto che l'interesse all'eliminazione della lesione attuale di un diritto o di altra situazione soggettiva dell'impugnante deve persistere fino al momento della decisione perché questa possa avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta al giudice dell'impugnazione (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino; Sez. U, n. 20 del 20/10/96, Vitale): qualora ciò sia impossibile, vi è carenza di interesse sopravvenuta. Pertanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere alla eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell'impugnante, non essendo prevista la possibilità di proporre un'impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, che di per sé non sarebbe sufficiente a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l'interesse normativamente stabilito che sottende l'impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, Rv. 275953 - 02). In applicazione di tali principi si è affermato che non sussiste l'interesse dell'indagato ad impugnare il provvedimento del tribunale del riesame che abbia annullato l'ordinanza applicativa di una misura cautelare personale (nella specie, gli arresti domiciliari) per carenza delle esigenze cautelari, qualora il ricorso si limiti a dedurre il vizio di motivazione in ordine al ritenuto quadro gravemente indiziario, atteso che detto provvedimento non pregiudica sotto alcun profilo processualmente rilevante la posizione del ricorrente (Sez. 3, n. 23526 del 11/01/2023, Pirri, Rv. 284665; Sez. 5, n. 1119 del 09/09/2021, dep. 2022, La Cognata, Rv. 282534; Sez. 1, n. 45918 del 15/10/2019, Beltramelli Rv. 277331). Detta situazione si è verificata nel caso di specie, atteso che, come anticipato, il Tribunale del riesame ha annullato l'ordinanza cautelare sotto il profilo delle esigenze cautelari con conseguente rimessione in libertà dell'indagato, sicché l'eventuale accoglimento del ricorso non comporterebbe alcun mutamento della situazione dell'impugnante. Avuto, peraltro, riguardo alla natura incidentale del giudizio cautelare rispetto all'autonomo giudizio a cognizione piena formulabile in sede dibattimentale, nessun pregiudizio o preclusione può derivare al ricorrente dalla mancata disamina della valutazione espressa in sede cautelare, potendo le censure essere espresse in altra sede. 2. Peraltro, il ricorrente ha omesso di specificare l'utilità della pronuncia sollecitata al fine di potersene avvalere per ottenere l'indennizzo per l'ingiusta detenzione sofferta ai sensi dell'art. 314 cod. proc. pen., non oggetto di specifica manifestazione d'intenti. Sul punto va richiamato il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, secondo il quale "in tema di ricorso avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare custodiale nelle more revocata o divenuta inefficace, perché possa ritenersi comunque sussistente l'interesse del ricorrente a coltivare l'impugnazione in riferimento a una futura utilizzazione dell'eventuale pronunzia favorevole ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, è necessario che la circostanza formi oggetto di specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dal mancato conseguimento della stessa, formulata personalmente dall'interessato" (Sez. U, n. 7931 del 16/12/2010, dep. 2011, Testini, Rv. 249002). All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in tremila euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 9 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. BORRELLI Paola - Relatore Dott. BRANCACCIO Matilde - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: An.Fr. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 04/07/2023 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA BORRELLI; udite le conclusioni del Procuratore generale, MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La pronunzia impugnata è stata deliberata il 4 luglio 2023 dalla Corte di appello di Milano, che ha riformato in punto di trattamento sanzionatorio la decisione del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Milano che, all'esito di rito abbreviato, aveva condannato An.Fr. per il reato di stalking ai danni di Ja.Ma. ed aveva disposto - ai sensi dell'art. 168, comma 1, n. 1, cod. pen. - la revoca della sospensione condizionale della pena concessa all'imputato con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 4 dicembre 2018. 2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato a mezzo del difensore di fiducia, formulando tre motivi. 2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del coefficiente soggettivo della condotta. La Corte di appello, nel chiarire le ragioni della riduzione del tempus commissi delicti, avrebbe almeno parzialmente sposato la tesi difensiva secondo cui, sia pure in un primo periodo, l'imputato non aveva capito che il proprio comportamento stava generando nella vittima gli eventi di cui alla norma punitiva. Tanto premesso - venendo alla vera e propria censura - il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica nella parte in cui, circa il periodo successivo al 23 gennaio 2022, ha ricostruito i fatti dando conto di altri comportamenti ambigui e altalenanti della persona offesa, il che avrebbe dovuto condurre i Giudici di appello a svolgere lo stesso ragionamento che era stato fatto sul periodo precedente. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6), cod. pen. rispetto alle aggravanti e alla recidiva, diniego motivato sulla sola scorta della necessità di controbilanciare non solo la recidiva, ma anche due altre aggravanti. 2.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla revoca della sospensione condizionale della pena concessa con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 4 dicembre 2018, perché essa andava ancorata non già alla commissione, nel termine di legge, del nuovo reato, ma al passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta. Ne consegue che la revoca avrebbe dovuto essere decisa non già in sede di cognizione, ma in sede di esecuzione. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va, pertanto, respinto. 1. Il primo motivo di ricorso - che riguarda il coefficiente soggettivo del reato - è manifestamente infondato e aspecifico in quanto la Corte di appello, con motivazione che sfugge alle censure di parte, ha chiarito le ragioni per cui ha individuato nel 23 gennaio 2022 il momento in cui la relazione tra imputato e persona offesa, per volontà di quest'ultima, era cessata, giacché la Ja.Ma. aveva manifestato comportamenti incompatibili con la volontà di proseguire la frequentazione. Da tale momento - ha aggiunto la Corte di merito - le condotte del prevenuto avevano avuto una portata inequivocabilmente intrusiva, siccome volte ad imporre per mesi la propria presenza nonostante la vittima avesse mostrato la propria indisponibilità a proseguire la relazione, come dimostrato dalle dichiarazioni della vittima, nonché da quelle dell'amica e della madre, ma anche dal contenuto dei messaggi inviati dall'imputato. Di fronte a queste argomentazioni, quella del ricorrente - secondo cui l'atteggiamento della persona offesa era stato ambiguo o equivoco, sì da impedirgli di comprendere che la donna stesse patendo gli eventi di cui all'art. 612-bis cod. pen. - fonda su una diversa lettura del materiale istruttorio che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità; lettura che, soprattutto, non si confronta con la lucida sintesi del materiale probatorio svolta dai Giudici di appello, che hanno ammesso che, inizialmente, la condotta della vittima era stata altalenante e, pertanto, ambigua, ma che hanno altresì individuato un'epoca ben precisa a partire dalla quale la persona offesa aveva abbandonato tale contegno ambiguo e, di conseguenza, la condotta molesta, minatoria e a tratti anche fisicamente violenta dell'imputato portata avanti per mesi realizzata nonostante le evidenti resistenze della persona offesa e l'inequivoca interruzione della frequentazione per volontà di quest'ultima - andava interpretata come consapevolmente diretta a porre in essere atti persecutori. D'altra parte, per integrare il reato di stalking, è sufficiente il dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire (Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020, S., Rv. 279726; Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A., Rv. 265230; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260411). 2. Quanto al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee, la motivazione della Corte di appello - che ha messo a confronto, da una parte, le attenuanti concesse e, dall'altra, le aggravanti e la recidiva, stimando impossibile un giudizio di prevalenza - costituisce di per sé una giustificazione sufficiente, giacché evidenzia degli aspetti personali e fattuali, confluiti, appunto, nella recidiva e nella contestazione di due aggravanti, che incidono sul giudizio da svolgere. Come se non bastasse, poche righe prima, per giustificare lo scostamento della pena dal minimo edittale, la Corte territoriale ha valorizzato altri indicatori negativi - la durata della condotta e la presenza di aggressioni fisiche - che pure costituiscono proposizioni coerenti con il diniego della richiesta difensiva. Si tratta di una consistenza motivazionale che va ben al di là dello standard richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi finanche quella che, per giustificare la soluzione dell'equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245930; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450). Il ricorso sul punto è, pertanto, manifestamente infondato. 3. Il ricorrente - nel terzo motivo di ricorso - critica la sentenza impugnata anche circa la revoca della sospensione condizionale della pena già concessagli con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 4 dicembre 2018; si sostiene, nel ricorso, che il termine quinquennale di cui all'art. 168, comma 1, n. 1), cod. pen. vada inteso come riferito non già alla data di commissione del nuovo reato (quello, cioè, che determina la revoca della sospensione condizionale della pena già concessa), ma a quella del passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta. Ebbene, tale interpretazione è contraria alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, che il Collegio intende ribadire, secondo cui la commissione di un nuovo reato, come causa di revoca della sospensione condizionale della pena ove avvenga nei termini stabiliti dalla legge, va intesa con riferimento al tempo in cui è stato commesso il nuovo reato e non al tempo in cui è pronunciata la sentenza di condanna per il medesimo (Sez. U, n. 19 del 1956, Melis, Rv. 097623; in termini, Sez. 4, n. 23178 del 31/5/22, n.m.; Sez. 1, n. 28612 dell'11/5/2021, n.m.; Sez. 5, n. 11759 del 22/11/2019, dep. 2020, Greco, Rv. 279015, n.m. sul punto; Sez. 1, n. 32722 del 5/11/20, n.m.; sulla data cui fare riferimento per l'effetto estintivo di cui all'art. 167 cod. pen., Sez. 5, n. 11759 del 22/11/2019, dep. 2020, Greco, Rv. 279015). Depone in questo senso, in primo luogo, il dato testuale, "(...) la sospensione condizionale della pena è revocata di diritto qualora, nei termini stabiliti, il condannato 1) commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena detentiva (...)". L'ancoraggio al momento della "commissione" del reato e non a quello del suo accertamento è, d'altra parte, coerente con la logica della disposizione, vale a dire quella di verificare la tenuta della prognosi positiva sul futuro comportamento dell'imputato, formulata all'atto della concessione del beneficio, sicché, in virtù della condotta tenuta durante il periodo di osservazione, il condannato può, alternativamente, giovarsi dell'estinzione del reato ex art. 167 cod. pen. - per cui è indicato il medesimo termine, anch'esso ancorato al momento della "commissione" del reato - oppure subire la revoca ex lege di cui all'art. 168, comma 1, n. 1), cod. pen. Si tratta del cd. esperimento sospensivo, che costituisce un monito rivolto al condannato e connaturato alla concessione del beneficio, al fine di garantire, attraverso un effetto dissuasivo, che l'interessato si astenga dalla commissione di nuovi illeciti per il timore di subire l'esecuzione della nuova e della precedente condanna a pena sospesa e di perdere l'opportunità di godere dell'estinzione di cui all'art. 167 cod. pen. Per la durata di tale monito il legislatore ha previsto un termine che, secondo una lettura del tutto ragionevole della disposizione, va ancorato al momento della commissione e non a quello dell'accertamento definitivo del secondo reato; ciò al fine di individuare un termine certo e uniforme, indipendente dalle singole vicende processuali. Diversamente opinando, si rischierebbe di giungere non solo ad incertezze applicative circa il periodo di "osservazione", ma anche ad ingiustificate disparità di trattamento, giacché la revoca della sospensione condizionale della pena o l'estinzione del reato ex art. 167 cod. pen. non dipenderebbero più solo dalla volontà del soggetto interessato, ma sarebbero ancorate alla minore o maggiore celerità di definizione del processo per il secondo reato. Non collide con questa lettura la circostanza che l'art. 168, comma 1, n. 2) cod. pen. - quanto alla revoca obbligatoria della sospensione condizionale della pena che discende dalla successiva condanna per un delitto anteriormente commesso (a pena che, cumulata con quella sospesa, determini il superamento dei limiti di concedibilità) -faccia riferimento al momento della sentenza che lo accerti giacché, in tal caso, poiché il delitto accertato successivamente era già stato commesso prima di quello accertato per primo, non vi sarebbe stato spazio per valorizzare la "commissione", mentre la pronunzia giudiziale che lo riguardi resta l'unico momento che può sopravvenire nel periodo di "osservazione" dopo la concessione del beneficio. D'altra parte, non ha fondamento neanche l'ulteriore argomentazione del ricorrente circa il fatto che il secondo reato - per essere foriero della revoca della sospensione condizionale della pena - debba essere accertato in via definitiva e che, quindi, detta revoca rientrerebbe esclusivamente nella competenza del Giudice dell'esecuzione, proprio perché occorrerebbe ragionare su situazioni già processualmente definite. La revoca della sospensione condizionale della pena, come ogni altra statuizione penale della sentenza, infatti, intanto potrà essere eseguita in quanto la sentenza che l'ha disposta in uno alla condanna per il nuovo reato sia passata in giudicato e, quindi, la responsabilità per tale, nuovo reato sia cristallizzata in una decisione definitiva. 4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 5. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 14 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 7 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. BORRELLI Paola - Relatore Dott. BRANCACCIO Matilde - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pa.Fe., nata a T il (Omissis) nel procedimento contro IGNOTI avverso l'ordinanza del 18/10/2023 del GIP TRIBUNALE di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA BORRELLI; lette le conclusioni del Procuratore generale PIERO GAETA, che ha chiesto l'annullamento del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. Il provvedimento al vaglio odierno di questa Corte è l'ordinanza di archiviazione pronunziata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma il 18 ottobre 2023, nell'ambito del procedimento n. 5814/20 R.G. Mod. 44 a carico di ignoti per i reati di cui agli artt. 615 - ter e 624 cod. pen. ai danni di Pa.Fe.. 2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la persona offesa a mezzo del difensore, denunziando violazione di legge oltre che l'abnormità del provvedimento. La ricorrente chiarisce di avere sporto tre denunzie, l'una il 21 maggio, l'altra l'8 agosto e l'altra, ancora, il 9 agosto 2019; le prime due contro ignoti per furto e accesso abusivo ad un sistema informatico, la terza per stalking contro Gi.Be., suo ex fidanzato e socio in affari. Inizialmente il pubblico ministero aveva chiesto l'archiviazione per essere ignoti gli autori del reato, richiesta che aveva poi revocato allorché la polizia giudiziaria aveva depositato una comunicazione di notizia di reato in cui riconduceva ad un unico autore - Gi.Be., appunto - tutte le condotte. Successivamente, il pubblico ministero aveva nuovamente richiesto l'archiviazione, lasciando inalterata l'iscrizione contro ignoti per i reati di cui agli artt. 615 - ter e 624 cod. pen.. Sostiene la ricorrente che il Giudice per le indagini preliminari, dopo la procedura conseguente all'opposizione della persona offesa, ha ordinato l'archiviazione del procedimento, sia per essere ignoti gli autori dei reati di accesso abusivo ad un sistema informatico e furto, sia perché il reato di stalking ascrivibile a Gi.Be. era prescritto, giacché gli episodi più recenti, che avevano dato luogo all'iscrizione dei primi due addebiti suddetti, non potevano essere a lui ricondotti. L'abnormità risiederebbe nel fatto che il Giudice per le indagini preliminari si è pronunziato su un reato e per un indagato mai iscritti. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile. 1. Il provvedimento impugnato non è abnorme. 1.1. Per giungere a questa conclusione non è necessario evocare la pluriennale giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite e anche estremamente recente, sul tema dell'abnormità, perché la denunzia di tale vizio da parte della ricorrente è frutto di un malinteso nella lettura del contenuto del provvedimento impugnato. Il Giudice per le indagini preliminari, infatti, contrariamente a quanto ritiene la ricorrente, non ha ordinato l'archiviazione per il reato di cui all'art. 612 - bis cod. pen. a carico di Gi.Be.. 1.2. Per inquadrare la natura del provvedimento impugnato occorre ricordare quali fossero le prerogative del Giudice per le indagini preliminari nella fase della valutazione della richiesta di archiviazione e dell'opposizione della persona offesa. In particolare, per quello che interessa in questa sede, il Giudice per le indagini preliminari di Roma, benché il procedimento n. 5814/20 RG Mod. 44 fosse iscritto per i soli reati di cui agli artt. 615 - ter e 624 cod. pen. a carico di ignoti, avrebbe potuto ordinare al pubblico ministero l'iscrizione di soggetto noto per qualsiasi altro reato, diverso da quelli iscritti, che fosse emerso dall'incarto. A questo riguardo, vanno richiamati gli insegnamenti delle Sezioni Unite di questa Corte che, nel delineare i poteri del Giudice per le indagini preliminari rispetto alla valutazione della notizia di reato, hanno precisato che non è abnorme, e pertanto non è ricorribile per cassazione, l'ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari, all'esito dell'udienza camerale fissata sull'opposizione della persona offesa per il mancato accoglimento della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, ordini l'iscrizione nel registro delle notizie di reato di altri soggetti mai prima indagati e per i quali il pubblico ministero non abbia formulato alcuna richiesta, disponendo altresì la prosecuzione delle indagini, in quanto trattasi di decisione che rientra nei poteri di controllo a lui devoluti dalla legge sull'intera notitia criminis (Sez. U, n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, Rv. 231162). In motivazione si coglie un passaggio illuminante circa la logica di questa prerogativa del Giudice per le indagini preliminari: "Il g.i.p. può concordare con il P.M. ed allora nulla quaestio; può dissentire e ritenere che il P.M. non abbia esercitato bene l'azione penale ed allora, lungi dall'esercitarla egli stesso in contrasto con il dettato costituzionale dell'art. 112 Cost., può invitarlo a compiere ulteriori indagini ed in tal caso, ove dette indagini debbano essere estese a persone non menzionate dal P.M. e/o per altri reati o per reati diversi, è giocoforza disporre che esse inizino secondo le regole, ossia sulla base degli adempimenti previsti dall'art. 335 c.p.p.; solo quando tali formalità siano adempiute e quindi l'attività di indagine sia stata rimessa nuovamente nelle mani e nelle valutazioni del P.M., il G.i.p. è abilitato ad emettere nuovamente i provvedimenti previsti dall'art. 409 c.p.p.". Tali insegnamenti sono stati ribaditi nel percorso argomentativo di Sez. U, n. 43:19 del 28/11/2013, dep. 2014, P.M. in proc. L, Rv. 257786 e non sono smentiti da Sez. U, n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581. 1.3. Tanto premesso, nel caso di specie il Giudice per le indagini preliminari non ha fatto altro, nella seconda parte del suo provvedimento, che chiarire le ragioni per cui non esercitava detta facoltà di ordinare al pubblico ministero la nuova iscrizione, ma non ha affatto ordinato l'archiviazione a carico di Gi.Be. per il reato di stalking. Che questo sia il significato da attribuire al provvedimento impugnato è testimoniato dal dato testuale e dalla stessa struttura dell'ordinanza, laddove il Giudice per le indagini preliminari ha innanzitutto risposto alla richiesta del pubblico ministero, motivando in ordine all'impossibilità di attribuire ad alcuno la responsabilità per i reati di cui agli artt. 615 - ter e 624 cod. pen. e, all'esito di tale passaggio, scrivendo "conseguentemente, deve ritenersi che il procedimento relativo ai reati per cui vi è stata iscrizione (artt. 615 - ter e 624 c.p.) debba essere archiviato". Solo dopo questo passaggio, il Giudice adito ha svolto alcune considerazioni circa la prescrizione del reato di stalking - con la precisazione che si trattava di reato "per il quale non vi è stata iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p." - senza tuttavia pronunciare alcuna statuizione sul punto. Il successivo passaggio dell'ordinanza impugnata, infatti, non contiene una motivazione ulteriore circa l'archiviazione, ma risponde all'esigenza del Giudice di dare riscontro alla sollecitazione della persona offesa - contenuta nell'atto di opposizione alla richiesta di archiviazione che aveva dato luogo al subprocedimento ex artt. 409 e 410 cod. proc. pen. - di avvalersi "delle facoltà di legge attribuitegli e, per gli effetti, ordinare al pubblico ministero una nuova iscrizione di notizia di reato ai sensi dell'art. 335 c.p.p. a carico del sig. Gi.Be. per il reato p. e p. dall'art. 612 - bis c.p.". Tale facoltà - come ricorda la stessa persona offesa nell'atto di opposizione - "appare in linea con la più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite che, in tema di procedimento di archiviazione, afferma che rientri nei poteri del G.I.P. l'ordine rivolto al P.M. di iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. di nuova notizia di reato, qualora dagli atti delle indagini emergano gli estremi di una fattispecie diversa o ulteriore da quella per cui il pubblico ministero ha formulato richiesta di archiviazione (sent. Cass. SS. UU:, 24.09.2018, n. 40984)". In altri termini, è proprio nell'ambito della facoltà delineata dalla giurisprudenza di questa Corte e ricordata anche dalla persona offesa che il Giudice per le indagini preliminari ha operato l'ulteriore valutazione che oggi si contesta con il ricorso. Il Giudice per le indagini preliminari, infatti, doverosamente analizzando la possibilità di dare ulteriore impulso al procedimento, ha dato atto che la nuova notizia di reato - espressamente indicata come non iscritta nel R.G.N.R. (cfr. pag. 3 dell'ordinanza impugnata) - era prescritta in quanto le altre condotte, queste sì oggetto di iscrizione nel registro Mod. 44 per i reati di cui agli artt. 615 - ter e 624 cod. pen., non erano addebitabili al medesimo autore, non potevano essere inglobate nella sequenza persecutoria e, di conseguenza, non spostavano in avanti il termine prescrizionale del reato di atti persecutori. Tale argomentazione non ha determinato l'archiviazione del procedimento a carico di Gi.Be. - cosa di cui pare dolersi la persona offesa ricorrente - per il reato di stalking, ma costituisce la giustificazione data dal Giudice per le indagini preliminari alla scelta di non avvalersi della facoltà riconosciutagli dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di ordinare l'iscrizione del predetto anche per la fattispecie ex art. 612 - bis cod. pen., oggetto comunque sia dell'ulteriore denunzia pure fatta confluire nel fascicolo della indagini preliminari e sottoposta al vaglio del decidente, sia della sollecitazione della persona offesa opponente. 1.4. Ritiene altresì il Collegio che il provvedimento impugnato, nella parte "incriminata", proprio perché non avente natura di archiviazione, non abbia alcun effetto di carattere procedurale, non inibendo alla persona offesa la possibilità di proporre una nuova denunzia o di coltivare quella già presentata per lo stalking, senza la necessità di sollecitare il pubblico ministero a richiedere la riapertura delle indagini a carico del denunziato, mai iscritto - all'esito di questo procedimento - nel registro ex art. 335 cod. proc. pen. per il reato di cui all'art. 612 - bis cod. pen. e, quindi, non interessato dal provvedimento di archiviazione. Il procedi mento, infatti, era ed è rimasto sempre iscritto solo a carico di ignoti (si tratta, infatti, di un mod. 44) per i reati di accesso abusivo ad un sistema informatico e furto. 2. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex l. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento; non consegue, invece, la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, non ritenendo che vi sia colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n. 186). 3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 14 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 7 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pi.Sa. nato a V il (Omissis) avverso l'ordinanza del 26/10/2023 del TRIB. LIBERTA' di CATANIA udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; lette/sentite le conclusioni del PG ALDO CENICCOLA A. udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. L'ordinanza impugnata, pronunziata il 26.10.2023 dal Tribunale del riesame di Catania, ha annullato l'ordinanza cautelare - emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ragusa nei confronti di Pi.Sa. applicativa del divieto di avvicinamento alla persona offesa per i reati di cui all'art. 612 - bis cod. pen. e 609 - bis cod. pen. - limitatamente a quest'ultimo reato, confermando nel resto l'impugnato provvedimento. 2. Contro l'ordinanza sopra indicata ha proposto ricorso per cassazione l'indagato a mezzo del proprio difensore di fiducia, lamentando vizio di motivazione e violazione di legge non emergendo dal provvedimento impugnatala esposizione ed autonoma valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e dei motivi per i quali non sono stati considerati gli argomenti indicati dalla difesa anche nella memoria difensiva, primo tra tutti quello afferente la inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa non assistite da riscontri; dichiarazioni che non sono state comunque ritenute credibili in relazione alle asserite avances del Pi.. Si contesta la sussistenza nel caso di specie degli elementi costitutivi della fattispecie di cui ali'art. 612 - bis cod. pen., rappresentando come l'imputato abbia a sua volta sporto denuncia nei confronti della persona offesa per furto ed incendio. La persona offesa, ben lungi dall'essere un soggetto in preda all'ansia e e/o paura, si è resa colpevole di furto e danneggiamento mediante incendio in danno del Pi. commesso proprio all'indomani del volantinaggio denigratorio subito, a scopo ritorsivo verso l'indagato. Si deduce altresì il difetto di motivazione in relazione alla configurata sussistenza del pericolo di reiterazione del reato, non essendosi considerato che l'indagato ha dichiarato di evitare qualsiasi contatto con la persona offesa a fronte anche delle condotte criminose dalla medesima poste in essere nei suoi confronti. 2. Il ricorso è stato trattato senza l'intervento delle parti, che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; Il difensore dell'imputato ha insistito per l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è nel suo complesso infondato. Quanto al motivo che impinge la gravità indiziaria, la completezza e logicità della motivazione del provvedimento impugnato, non affetta da evidente vizio argomentativo, né da alcuna violazione di legge, impone di rilevare la sua infondatezza. Va, in proposito, rammentato che i limiti della cognizione della Corte di Cassazione, anche in relazione ai provvedimenti riguardanti l'applicazione di misure cautelari, sono individuabili nell'ambito della specifica previsione normativa contenuta nell'art. 606 cod. proc. pen., con la conseguenza che, qualora venga denunciato il vizio di motivazione di un'ordinanza, tale vizio, per poter essere rilevato, deve assumere i connotati indicati nell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., e cioè riferirsi alla mancanza della motivazione o alla sua manifesta illogicità (Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391). Doride, il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento cautelare personale è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti: 1) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine del provvedimento (Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, Merja, Rv. 248698). Da tali massime di orientamento si desume, quindi, che la verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla correttezza della motivazione non va confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, ne' con la possibilità di formulare un giudizio, diverso da quello espresso dai giudici di merito, sull'intrinseca adeguatezza della valutazione dei risultati probatori o sull'attendibilità delle fonti di prova, dovendo il controllo in parola essere, invece, limitato alla congruità e coerenza delle valutazioni compiute: sicché esse si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del convincimento del giudice non abbia subito il condizionamento negativo di un procedimento induttivo contraddittorio o illogico, ovvero di un esame incompleto o impreciso (Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999 - dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331; Sez. 1, n. 4491 del 03/07/1996, Schiani, Rv. 205643). Rimanendo entro i confini di tale pacifica interpretazione,, deve darsi atto che la motivazione del provvedimento impugnato, quanto alla valutazione probatoria e alla gravità indiziaria, ravvisata anche in relazione all'evento tipico del reato di atti persecutori, non è priva di coerenza, completezza e logicità, né può ritenersi che si sia incorsi in violazione di legge nel confermare l'adeguatezza della misura cautelare del divieto di avvicinamento; di qui l'infondatezza delle censure azionate. Ed invero, il collegio territoriale afferma che, nel caso di specie, non solo sussistono i gravi indizi, spiegando le ragioni su cui fonda tale affermazione, ma anche le esigenze cautelari per l'abitualità e attualità della condotta, che ben possono essere salvaguardate solo con la misura indicata. Il Tribunale del riesame, con motivazione congrua e priva di illogicità manifeste, ha in particolare compiutamente illustrato gli episodi che hanno formato oggetto della contestazione e le ragioni per cui ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza. In particolare, alle pagine 3 e sgg. del provvedimento impugnato vengono passati in rassegna i plurimi elementi emersi a carico del ricorrente dando atto come le dichiarazioni rese dalla persona offesa - che aveva sporto querela, con relativa integrazione, contro l'indagato, già suo datore di lavoro, a seguito dei comportamenti assunti dall'uomo che, invaghitosi di lei, al punto di dovere ricorrere a terapia psichiatrica e di minacciarla e molestarla, era giunto persino a diffondere per la città volantini con la fotografia della persona offesa dal contenuto offensivo e denigratorio - risultassero riscontrate, oltre che dalle dichiarazioni di altre persone, anche dagli interventi delle forze dell'ordine allertate dalla persona offesa. Le censure in punto di gravità indiziaria avanzate dall'odierno ricorrente, per contro, si limitano alla riproposizione della diversa prospettazione difensiva, palesando tratti di inammissibilità, laddove il Tribunale con motivazione congrua ha dato, invece, compiutamente conto non solo delle diverse dichiarazioni e delle acquisizioni documentali, tutte convergenti: nel senso della sussistenza della gravità indiziaria per il reato di atti persecutori, ma ha anche spiegato, quanto al reato di violenza sessuale, che per esso, invece, non potesse essere affermata la sussistenza dei gravi indizi non già perché la persona offesa fosse di per sé inattendibile sul punto, ma perché erano emersi comunque dei profili indicativi del fatto che tra i due fosse intercorsa una relazione sentimentale, dei cui esatti contorni necessitavano approfondimenti involgenti l'episodio di violenza descritto dalla donna. Il Tribunale ha già anche spiegato come l'episodio del danneggiamento della vettura dell'indagato da parte del figlio della persona offesa, intervenuto dopo l'ennesima condotta dell'indagato, segnatamente l'episodio della diffusione dei volantini, lungi dal porre in dubbio la sussistenza degli eventi del reato di stalking, fosse piuttosto da porre in relazione alle reiterate condotte sicuramente ed oggettivamente persecutorie, invasive, denigratorie e minacciose poste in essere dal ricorrente, rivelatesi concretamente idonee a creare nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia e di paura, oltre che un fondato timore per la sua incolumità personale e per quella dei suoi familiari, tradottosi anche in alterazioni dello stile di vita (avendo spesso la donna dovuto rinunciare ad andare al mare o ad uscire da casa per timore di incontrare il ricorrente). Per quanto concerne le esigenze cautelari, anche sotto questo profilo la motivazione appare immune da vizi logici per quanto riportato alla pagina 8 del provvedimento impugnato, in cui si dà atto della personalità del prevenuto e del pericolo, concreto ed attuale di reiterazione delle azioni criminose, come desumibile in particolare dalla pervicace reiterazione nel tempo delle condotte delittuose, dalla pervasività e minacciosità manifestate dall'indagato, dalla difficoltà palesata dallo stesso di controllare i propri impulsi, aggravata da! suo stato di ed. limerenza (una sorta di vera e propria ossessione nei confronti della persona offesa), dalla crescente lesività rivelata dallo stesso, dal particolare astio nutrito nei confronti della persona offesa e dell'allarmante degenerazione dei rapporti tra le parti; precisando che in proposito non appare sufficiente a escludere il pericolo di reiterazione - a fronte degli elementi indicati - la mera dichiarazione del ricorrente di non volere più incontrare la persona offesa atteso che tale dichiarazione di intenti non appare sintomatica di un sincero e consapevole ravvedimento apparendo allo stato una mera asserzione labiale non corroborata da dati concreti, tenuto conto della prosecuzione dei fatti sino ad epoca assai recente. A fronte di un siffatto argomentare, le censure enucleate dal ricorrente si appalesando tutte infondate. 2. Dalle superiori considerazioni discende il rigetto del ricorso cui consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. 3.Va, infine, disposto che in caso di diffusione del presente provvedimento devono omettersi le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente ai pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanta imposto dalla legge. Così deciso il 6 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 7 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna - Presidente - Dott. NASINI Tiziano - Consigliere Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore - ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da: Sq.Sa. nato a N il Omissis avverso la sentenza del 17/04/2023 della CORTE APPELLO di SALERNO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, FERDINANDO LIGNOLA, il quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso. Ritenuto in fatto 1. È oggetto di ricorso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte d'appello di Salerno, che ha confermato la condanna nei confronti Sq.Sa. per i reati di cui agli artt. 81 cpv, 612 bis, primo e secondo comma, 81, 582-585, cod. pen, quest'ultimo aggravato ai sensi dell'art. 576, primo comma, n. 5.1 cod. pen. Secondo la rubrica, l'imputato ha posto in essere atti persecutori nei confronti dell'ex fidanzata, Co.Ro., non accettando la fine della relazione con la stessa, e cagionato lesioni, giudicate guaribili in giorni quindici, alla medesima persona offesa, colpendola con un pugno. La Corte distrettuale ha assolto l'imputato dal reato di violenza sessuale, rideterminando la pena, alla luce della circostanza attenuante di cui all'art. 89 cod. pen. equivalente alle contestate aggravanti, in anni uno e mesi otto di reclusione. 2. Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del proprio difensore, Avv. Gi.Co., affidando le proprie censure ai tre motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, si duole di vizio di motivazione in relazione all'elemento soggettivo del reato di atti persecutori, per non avere la Corte d'appello affrontato le deduzioni difensive relative all'incidenza del diagnosticato disturbo mentale dell'imputato sulla consapevolezza dell'abitualità del suo agire. In appello, precisa il ricorrente, la difesa, nel riferirsi alla "pianificazione delle azioni", aveva inteso evidenziare non già la programmazione delle azioni, bensì soltanto la consapevolezza dell'abitualità del suo agire. Nell'escludere la prospettata influenza del disturbo psichico sul profilo soggettivo del reato, la Corte territoriale si sarebbe limitata a ribadire la compatibilità tra vizio parziale di mente e dolo generico, ciò che il ricorrente stesso aveva posto in premessa del relativo motivo d'appello. 2.2 Col secondo motivo, si contesta vizio di motivazione, attesa la mancata replica, da parte della Corte territoriale, al tema della rilevanza della querela presentata dall'imputato stesso in relazione all'episodio delle lesioni, di cui al capo 4 dell'imputazione. 2.3 Col terzo motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione al mancato giudizio di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 89 cod. pen. sulle contestate aggravanti, per non avere la Corte distrettuale valutato le deduzioni difensive circa il forte impatto che la patologia mentale dell'imputato avrebbe dispiegato sulle concrete modalità di realizzazione delle azioni contestate. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, a) le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Ferdinando Lignola, il quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso. È pervenuta altresì memoria dell'Avv. Co., in replica alla requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale, con cui si insiste per l'accoglimento del ricorso. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è infondato, per le ragioni di seguito illustrate. La difesa sostiene che la Corte territoriale non abbia adeguatamente considerato i rilievi circa la necessità, "ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato contestato, della costante consapevolezza, da parte del soggetto agente, dei singoli contegni persecutori". Già tale deduzione è fuori fuoco: il dolo generico, che integra il reato in parola, esprime un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica. Esso, inoltre, può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, Sentenza n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260411 - 01). Tale visione dell'elemento soggettivo del delitto di atti persecutori s inquadra in un'interpretazione giurisprudenziale consolidata, tesa a concentrare l'oggetto della volizione, nel senso che la verificazione degli eventi tipici (meglio: di uno degli eventi tipici, alternativamente richiesti dalla fattispecie incriminatrice) deve essere rappresentata, prima che voluta. Tale è, appunto, il senso di quella "consapevolezza", in capo all'agente, della idoneità delle condotte persecutorie "a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice" così spesso richiamata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., explurimis, Sez. 5, n.43085 del 24.9.15, Rv.265230); idoneità che vieppiù si rafforza in presenza -come nel caso di specie- di ripetuti atti persecutori. In coerenza con tale accezione di dolo generico nel reato de quo, la Corte territoriale, nell'applicare al caso in esame la disciplina prevista dall'art. 612 bis cod. pen., ha ricordato la natura di reato abituale di evento dello stalking, che è integrato dal dolo generico, "il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte, elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa, potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione" (Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020, S., Rv. 279726 - 01; corsivo nostro). È opportuno ricordare -perché proprio tale è l'aspetto che la difesa sembra eludere- che l'accento, nella citata giurisprudenza, cade sulla rappresentazione e volontarietà dell'evento lesivo richiesto dalla norma. Ora, la Corte d'appello, dopo aver correttamente sottolineato l'irrilevanza del profilo della preordinazione delle condotte (profilo affatto diverso, come ricorda il ricorrente stesso, da quello della consapevolezza dell'abitualità dell'agire) ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in parola,, ha giustamente disatteso le censure difensive tese a rimarcare l'incidenza dell'accertato vizio parziale di mente del ricorrente sul dolo, non specifico, del delitto in esame ("in tema di elemento soggettivo del reato, l'indagine sulla colpevolezza di un soggetto ad imputabilità diminuita va effettuata con gli stessi criteri adottabili nei riguardi del soggetto pienamente capace, anche se la ridotta capacità di intendere e di volere può avere influenza nella ricerca del dolo specifico": Sez. 3, n. 13996 del 25/10/2017, dep. 2018, C., Rv. 273170 - 01). Attesa, dunque, la compatibilità -in astratto- tra vizio parziale di mente e dolo generico, la Corte d'appello - con apprezzamento scevro dal lamentato vizio di logicità e pertanto insindacabile in questa sede - ha ritenuto, in concreto, che il ricorrente, per la modalità reiterativa delle condotte persecutorie e violente, culminate nel grave episodio di aggressione fisica della persona offesa in data 13 novembre 2020, avesse consapevolezza -benché scemata al momento dei fatti- delle proprie condotte e dell'idoneità delle stesse a cagionare uno degli eventi richiesti dalla norma incrimiriatrice. 2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto aspecifico, non avendo il ricorrente esplicato, se non attraverso un generico rinvio alla valutazione dell'attendibilità della persona offesa, le ragioni della decisività della querela presentata dall'imputato in relazione all'episodio delle lesioni, di cui al capo 4 dell'imputazione. Non può, pertanto, la difesa dolersi della mancata replica, da parte della Corte territoriale, sul punto. A tal proposito, deve ricordarsi che, in tema di valutazione delle censure proposte in presenza di una ed. "doppia conforme", vale il principio per cui "in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione", (cfr. Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013 Rv. 254988 Reggio.; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017 Rv. 271227 M e altri). 3. Il terzo motivo è manifestamente infondato, dal momento che i giudici di merito hanno sufficientemente chiarito le ragioni sottese al giudizio d'equivalenza tra le opposte circostanze, ricordando l'assenza di specifici elementi sui quali basare una soluzione differente da quella adottata. Si ribadisce, al riguardo, il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità quando, come nella specie, non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931). 4. Per le ragion fin qui esposte, il Collegio rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE SEZIONE PENALE Il Tribunale di Nocera Inferiore - Sezione Penale - in composizione monocratica e nella persona del Giudice dott. Vincenzo D'ARCO, alla pubblica udienza del 3 APRILE 2024 con l'intervento del Pubblico Ministero dott.ssa Antonietta Canale (V.P.O.) e con l'assistenza del Cancelliere dott.ssa Assunta Crispo, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente SENTENZA Nei confronti di: So.Al., nato a M. So. S. (S.) il (...), res.te in C. So. G. (S.) in via E. L. n. 52 LIBERO ASSENTE; Difeso di fiducia dall'avv. Mi.Sa.. IMPUTATO a) reato p. e p. dall'alt 612 bis comma 1, 2 e 3 c.p. perché, con reiterate condotte di violenza e molestia, di seguito indicate, cagionava alla fidanzata non convivente Fa.Ma. (minore di anni 18), un perdurante e grave stato di ansia e paura, ingenerandole un fondato timore per la propria incolumità al punto da costringerla, altresì, ad alterare le abitudini di vita. In particolare e tra l'altro: - strappava, in varie occasioni, il telefono dalle mani della p.o. al fine di controllare le chat, proferendo al suo indirizzo frasi del seguente tenore: "sei una zoccola, sei una puttana! - dall'inizio dell'anno 2020, inviava a mezzo whatsapp alla donna messaggi del seguente tenore: "adesso ti picchio, te la faccio pagare", minacciandola di ripercussioni se non avesse fatto ciò che voleva lui; - in data 16.6.2020, per impedire alla p.o. di partecipare a una festa, tramite whatsapp, la minacciava che l'avrebbe picchiata, e mentre erano nell'abitazione di lui la colpiva violentemente al volto con un oggetto, facendole saltare alcuni denti e la rottura del labbro, cagionandole lesioni; - in data 23.6.2020, mentre la persona offesa gli contestava le lesioni patite, proferiva al suo indirizzo la frase del seguente tenore: "tu lo sai il perché". Con l'aggravante di aver commesso il fatto ai danni di minore di anni 18, con la quale era legato da relazione sentimentale. In Castel San Giorgio (SA), dall'anno 2020 con condotta perdurante. b) reato p. e p. dagli artt. 61 n. 11 quinquies, 582, 585 comma 1 in relazione all'art. 576 comma 1 n. 1 e n. 5 perché, al fine di commettere il reato di cui al sub a), con le condotte ivi descritte, colpiva violentemente con un lume il volto di Fa.Ma., cagionandole lesioni personali giudicate guaribili in gg. 7, consistite in "trauma facciale", come da referto n. 18682 rilasciato in data 17.6.2020 dal pronto soccorso dell'ospedale di Nocera Inferiore. Con l'aggravante di aver commesso il fatto al fine di eseguirne un altro, dall'autore del delitto p. e p. dall'alt 612 bis c.p. nei confronti della stessa p.o., minore di anni 18. In Castel San Giorgio (SA), in data 16.6.2020, Con la costituzione di parte civile di: - Fa.Ma., nata a So. il (...); - Fa.An., nato a C. So. G. (S.) il (...); - At.El., nata a R. (S.) il (...); tutti assistiti dall'avv. Bo.Ca., presente, munito di procura speciale. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto ex art. 429 c.p.p. emesso all'esito dell'udienza preliminare del 6.7.2021, So.Al. veniva tratto a giudizio innanzi a questo Tribunale, in composizione monocratica, per rispondere dei reati meglio specificati in fatto nella sopra trascritta imputazione. All'udienza del 8.6.2022, dopo aver dichiarato nel contraddittorio delle parti l'assenza dell'imputato (regolarmente raggiunto dalla notifica del decreto introduttivo del giudizio e non comparso), in accoglimento di un'istanza di rinvio per legittimo impedimento (dovuto ad un concomitante impegno professionale) avanzata dalla difesa dell'imputato il processo veniva differito all'udienza del 19.10.2022, quindi - per la medesima ragione - all'udienza del 29.3.2023, con sospensione del termine di prescrizione dei reati pari a complessivi giorni 120. All'udienza del 29.3.2023, in mancanza di questioni preliminari veniva dichiarata l'apertura del dibattimento e venivano ammesse le prove orali e documentali così come richieste dalle parti in quanto ammissibili, rilevanti e pertinenti rispetto all'imputazione; si procedeva all'esame dei testi Fa.An., Fa.Ro. e At.El.; all'esito il processo veniva rinviato per il prosieguo dell'attività istruttoria all'udienza del 13.9.2023. All'udienza del 13.9.2023, in accoglimento di un'istanza di rinvio per legittimo impedimento (dovuto ad un concomitante impegno professionale) avanzata dalla difesa dell'imputato il processo veniva differito all'udienza del 11.10.2023, con sospensione del termine di prescrizione dei reati pari a giorni 28. All'udienza del 11.10.2023, veniva escusso il teste Es.Do.; le parti concordavano l'acquisizione - ai sensi dell'art. 493 comma 3 c.p.p. - dei verbali di denuncia orale e di sommarie informazioni a firma di Fa.Ma., con riserva di formulare domande integrative; all'esito, il processo veniva rinviato ai fini della discussione all'udienza del 14.2.2024. All'udienza del 14.2.2024, in accoglimento di un'istanza di rinvio per legittimo impedimento (dovuto ad un concomitante impegno professionale) avanzata dalla difesa dell'imputato il processo veniva differito all'udienza del 28.2.2024, con sospensione integrale del termine di prescrizione dei reati (pari a giorni 14). All'udienza del 28.2.2024, in accoglimento di un'istanza di rinvio avanzata dalla parte civile il processo veniva differito all'udienza del 3.4.2024. All'udienza del 3.4.2024, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale e indicati gli atti utilizzabili ai fini della decisione ex art. 511 comma 1 c.p.p., le parti concludevano come in epigrafe. Al termine della conseguente camera di consiglio si dava lettura del dispositivo della presente sentenza, riservando il deposito dei motivi della decisione entro il termine ordinario. MOTIVI DELLA DECISIONE Sono contestati all'imputato i reati di cui agli arti 612 bis e 582-585 c.p., per aver posto in essere nei confronti di Fa.Ma., a lui precedentemente legata da una relazione affettiva, una pluralità di condotte persecutorie di molestia e di violenza, che - secondo l'editto accusatorio - avrebbero cagionato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia e di paura, ingenerando nella stessa un fondato timore per la propria incolumità, costringendola altresì a modificare le proprie abitudini di vita. Ritiene questo Giudice che gli esiti dell'istruttoria dibattimentale conducano ad affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità di So.Al. in ordine ad entrambi i reati in contestazione. Dalle risultanze dibattimentali emerge la seguente ricostruzione della vicenda in esame. Nel corso dell'anno 2016, Fa.Ma. - all'epoca dei fatti minore di anni 18 - intraprendeva una relazione sentimentale con So.Al., suo compagno di classe; dopo qualche tempo, tuttavia, a causa degli atteggiamenti oltremodo possessivi dell'imputato la relazione iniziava a incrinarsi. In particolare, a causa della sua morbosa gelosia, il So. soleva esercitare uno stretto controllo sulla Fa., impedendole di uscire di casa (ovvero di farlo solo a determinate condizioni, e in compagnia di determinate persone), decidendo cosa la ragazza dovesse indossare, controllando altresì le conversazioni che la persona offesa intratteneva a mezzo del proprio telefono cellulare, minacciandola - talora afferrandola per i polsi, strattonandola, e dandole altresì dei violenti pizzichi - quando la ragazza non ottemperava alle sue indicazioni ("Se non fai questo ti spezzo le cosce, tu non sei buona e tutte queste affermazioni"). I rapporti tra i due peggioravano in concomitanza con l'inizio dell'emergenza sanitaria da Covid-19, allorquando la Fa. - trasferitasi presso l'abitazione della sorella sita in R. - veniva costretta dal So. a fare ritorno a casa, nel Comune di Castel San Giorgio. La situazione precipitava definitivamente in data 16.6.2020, allorquando la Fa. - a seguito di una accesa discussione, determinato dal mancato invito del So. ad una festa organizzata da un'amica della persona offesa - si recava presso l'abitazione dell'imputato per un chiarimento; giunta sul posto, palesava al So. la volontà di interrompere la relazione ma, mentre era seduta sul letto, veniva colpita violentemente al volto da una lampada, subendo una ferita lacero contusa del labbro, e l'avulsione di ben tre denti (cfr. documentazione fotografica e certificazione sanitaria del 16-17.6.2020 in atti). Nel corso dell'udienza del 11.10.2023, la persona offesa - dopo aver riferito di aver sempre taciuto ai propri familiari delle condotte violente del So. - ha evidenziato di aver casualmente incontrato l'imputato successivamente all'aggressione: in tale occasione, a fronte delle rimostranze della donna, legate alle lesioni subite, l'imputato avrebbe risposto dicendole "tu sai il perché"; ha poi dichiarato di aver intrapreso, a causa delle condotte di cui era rimasta vittima, un percorso di supporto psicologico; infine, ha riferito di non aver avuto più contatti con il So. successivamente ai fatti. I comportamenti persecutori appena descritti, protrattisi dunque fino al giugno del 2020, avevano determinato precise conseguenze sull'equilibrio psico-fisico della Fa., che aveva iniziato seriamente a temere per la propria incolumità. Così brevemente ripercorse le risultanze fattuali della vicenda, può ritenersi acclarata la penale responsabilità di So.Al. in ordine a tutti i reati in contestazione. La persona offesa Fa.Ma. - della cui credibilità non è dato in alcun modo dubitare - ha infatti esposto in maniera coerente e precisa i fatti per cui è causa, riferendo dettagliatamente le circostanze di cui al capo di imputazione. A tale riguardo, come è noto, secondo l'insegnamento della Suprema Corte (che questo Giudice ritiene di condividere) la testimonianza della persona offesa - anche se costituita parte civile - ben può porsi a fondamento della pronuncia di colpevolezza se dotata dei requisiti, sussistenti nel caso di specie, di linearità, coerenza e puntualità. Le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, invero, da sottoporre ad un'indagine accurata circa i profili di attendibilità oggettivi e soggettivi, ben possono assurgere a fonte di prova sufficiente ad affermare la colpevolezza dell'imputato, non applicandosi in automatico il criterio di valutazione di cui all'art. 192 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. Sez. 4, sentenza n. 16860 del 13.11.2003, Rv. 227901). Va inoltre rammentato che, ancora secondo l'insegnamento della Suprema Corte, il Giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio convincimento l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. In assenza di siffatti elementi, quindi, il Giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve, perciò, limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità tra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza (cfr. Cass. Pen. sez. 4, sentenza del 10.10.2006, n. 35984). Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, deve anzitutto rilevarsi come le dichiarazioni accusatorie di Fa.Ma. si manifestino pienamente attendibili per diversi ordini di ragioni. In primo luogo esse palesano una adeguata credibilità intrinseca, fornendo una versione dei fatti lineare e connotata da un ordinato sviluppo logico, caratterizzato da una successione non irrazionale degli accadimenti e da un soddisfacente tasso di uniformità, non registrandosi, invece, alcuna illogicità patente o contraddizione. Invero le dichiarazioni della donna, pur dando atto delle percezioni soggettive della medesima, riferiscono in modo oggettivo gli eventi narrati e dimensionano senza deformazioni tali accadimenti, fedelmente differenziando gli episodi a seconda del comportamento di volta in volta avuto dal So. in occasione di ciascun contatto con la stessa. Del resto, ad avviso della giurisprudenza di legittimità (cui lo scrivente presta convinta adesione), l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (cfr. Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 5313 del 16.9.2014 ud. (dep. 4.2.2015), Rv. 262665). Non può peraltro sottacersi la circostanza per cui l'imputato, nell'esercizio di una sua pur legittima facoltà, abbia deciso di non comparire in dibattimento, di fatto privandosi consapevolmente della possibilità di fornire una versione alternativa della vicenda. Dal punto di vista estrinseco, poi, le dichiarazioni della persona offesa non fungono da unica prova dei fatti contestati, ma costituiscono soltanto una delle componenti distinte e congruenti che avvalorano la tesi dell'accusa, e che verranno di qui a breve partitamente analizzate. Il teste Fa.An., padre della persona offesa, ha riferito di non aver accettato di buon grado l'inizio della relazione sentimentale tra la figlia e il So. (soggetto a lui noto per essere abbastanza violento, nonché assuntore di sostanze stupefacenti), e di aver dunque tentato di dissuaderla; tuttavia, non avrebbe mai impedito alla figlia di frequentarlo, temendo in tal modo di peggiorare le cose. Ha quindi raccontato dell'episodio del 16.6.2020 allorquando, mentre si trovava a casa della figlia B., riceveva una telefonata da parte del fratello dell'imputato, il quale lo invitava a raggiungerli al più presto in quanto M. aveva avuto "un incidente" con A.; giunto sul posto unitamente alla moglie e alla figlia R., notava che M., che quasi non si reggeva in piedi, aveva il viso avvolto da un asciugamano insanguinato; si recavano quindi presso il pronto soccorso: nel corso del tragitto, la figlia avrebbe iniziato a ricostruire la dinamica dell'evento, riferendo di essere stata colpita violentemente con un oggetto da A.. Ha poi riferito di aver letto personalmente un messaggio di testo inviato dall'imputato alla figlia nell'immediatezza dei fatti, all'interno del quale il So. le avrebbe detto "te la faccio pagare"; ha infine precisato che, insieme alla moglie, più di una volta, nel corso della relazione sentimentale, aveva notato lividi sul corpo della figlia, e che la stessa aveva sempre minimizzato, sostenendo di esserseli causati accidentalmente: solo successivamente all'episodio del 16.6.2020, M. avrebbe "confessato" le condotte violente di cui da anni era vittima. Il teste Fa.Ro., sorella di M., dopo aver narrato (in termini esattamente sovrapponibili al padre) l'episodio del 16.6.2020, ha dato conto dei comportamenti oppressivi tenuti dal So. nei confronti della sorella ("io ho parlato con mia sorella tante volte, ... era visibilmente stanca di tutta questa situazione. Mia sorella era priva di potersi truccare, ... lui le vietava di indossare degli abiti, ... non poteva fare nulla non poteva uscire, lui le ha anche vietato di uscire con la stessa famiglia, noi, io con le mie sorelle, con il fratello. Non poteva fare nulla"), delle pressioni a lei rivolte per indurla a rientrare nel Comune di Roccapiemonte durante la pandemia ("lui l'ha pressata dicendo che doveva ritornare a casa perché era l'unica coppia che non potevano vedersi, ... lui le ha detto esplicitamente o ritorni a casa o vediamo un poco che dobbiamo fare"), e della reticenza della sorella nel riferire delle violenze subite nel corso della relazione. La madre At.El., anch'ella escussa nel corso dell'udienza del 29.3.2023, ha dichiarato che - successivamente all'aggressione del 16.6.2020 - la figlia si sarebbe rifiutata di uscire per diversi giorni, sia a causa delle sue precarie condizioni fisiche, sia per il timore di incontrare nuovamente il S.; ha riferito dell'incontro casuale con l'imputato avvenuto qualche giorno dopo l'aggressione, allorquando il So. avrebbe riferito alla figlia, che intanto le stava mostrando le lesioni che aveva subito, la frase "tu lo sai il perché"; ha evidenziato, anch'ella, la reticenza della figlia nel rappresentare la reale ragione per cui sul suo corpo vi erano talora dei lividi, soggiungendo che solo successivamente all'episodio del 16.6.2020 M. le avrebbe raccontato tutta la verità; ha poi dichiarato la figlia è tuttora in cura presso una psicologa; infine, ha dato conto del contegno della figlia successivamente ai fatti ("quando è iniziata successivamente ma dopo tanto tempo ad uscire, ... lei tornava a casa sempre in compagnia, e usciva sempre in compagnia"). Sostanzialmente neutre, infine, le dichiarazioni rese dall'operante Es.Do., il quale ha riferito di essersi limitato a ricevere la denuncia, e a prendere visione di alcune foto raffiguranti la persona offesa subito dopo l'aggressione, nonché di ulteriore documentazione consegnatagli dal padre Fa.An., relativa ad una conversazione estrapolata dal cellulare della figlia. Così brevemente sunteggiate le risultanze istruttorie, può ritenersi che le circostanze di fatto emerse nel corso del giudizio descrivano in modo chiaro il tipico andamento di crescente ossessività e di inarrestabile escalation violenta ed intrusiva, all'interno del normale andamento della vita altrui, con effetti di grave danno all'equilibrio psichico ed alle normali abitudini di vita della vittima, peculiare della dinamica mentale patologica e persecutoria denominata stalking, sanzionata dall'art. 612 bis c.p., che punisce "chiunque con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita (...)". La norma, introdotta dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 (pubblicato in G.U. n.45 del 24.02.2009 ed entrato in vigore il 25.02.2009), è sicuramente in astratto applicabile, ratione temporis, al caso di specie. Tale figura normativa è stata, a ben vedere, costruita dal Legislatore alla stregua del reato abituale, per la cui configurazione è necessario che l'agente ponga in essere una serie di condotte a danno della vittima, senza che la perpetrazione di un singolo episodio possa bastare a varcare la soglia della rilevanza penale richiesta dall'art. 612 bis c.p. In carenza di reiterazione, ben potranno le singole condotte - in presenza delle necessarie condizioni - integrare, ad esempio i singoli delitti di minacce, di molestie o di violenza privata; tuttavia, laddove l'insieme di tali ripetuti contegni sia tale da determinare nella vittima uno degli eventi psicologici descritti dalla norma, le condotte incriminate travalicano il disvalore penale insito nelle singole fattispecie delittuose prima menzionate, per transitare ed essere sussunte nell'unico contenitore del più grave delitto di atti persecutori. Il quid pluris che caratterizza il reato in esame, rispetto alle minacce ed alle molestie, è in sintesi costituito da due elementi: a) la reiterazione delle condotte, sicché l'illecito può ascriversi nel novero dei reati abituali, sebbene (secondo la dominante giurisprudenza, ribadita in sede di legittimità) il delitto in parola possa essere integrato anche da due sole condotte di minaccia o di molestia (purché legate causalmente alla determinazione nella vittima di uno degli eventi descritti dalla norma), come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (si veda, tra le altre, Cass. Pen. Sez. 3, sentenza n. 45648 del 23.5.2013 Ud., Rv. 257287); b) la produzione di un grave e perdurante stato di ansia o di paura o di un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da una relazione affettiva, ovvero una alterazione non voluta delle proprie abitudini di vita. Si tratta, quindi, di un delitto di danno e di evento che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idoneo ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è neppure essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità. Quanto alla prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, essa deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Completa la breve analisi del delitto, la specificazione della tipologia dolosa, inquadrabile nel dolo generico, ovvero nella consapevolezza del reo di determinare nella vittima gli sgradevoli turbamenti interiori ed esistenziali che il reato richiede: vale a dire, come è chiaro, che il dolo deve comprendere anche la rappresentazione dell'evento come conseguenza delle reiterate condotte tenute dal reo. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, le condotte poste in essere da So.Al. nel caso che ci occupa, hanno - per numero, convergenza, tasso di reiterazione e continuità - sicuramente integrato la tipicità della fattispecie contestata: le modalità aggressive e la ricorrente esasperazione dei toni da parte dell'imputato nelle occasioni di incontro con la persona offesa, le condotte violente, le minacce evocative di scenari di perdurante assillo, tese al controllo della vita della persona offesa in ogni suo aspetto, rispondono invero esattamente ad una logica molestatrice. Si ravvisano dunque tutti gli estremi materiali necessari per integrare la fattispecie in considerazione, in quanto: a) le descritte condotte persecutorie (articolatesi nelle varie modalità delle reiterate minacce di vario genere, delle condotte violente, del compimento di gravi episodi intrusivi quali la visione delle conversazioni intrattenute via cellulare della persona offesa con soggetti terzi etc.) si sono protratte, con modalità sempre più allarmanti, per un arco temporale significativo, pari a circa quattro anni; b) tali condotte hanno avuto un rilevante effetto sulla sfera esistenziale e sulle condizioni psicologiche di Fa.Ma., avendo ingenerato in costei uno stato d'animo di ansia e paura, ed avendo inciso sul normale espletamento delle sue ordinarie abitudini di vita e sulla libera espressione della sua sfera esistenziale (inducendo la vittima, sostanzialmente, ad ottemperare ai desiderata del So. per non subire ritorsioni, e a non uscire di casa - se non in compagnia - nel periodo successivo all'episodio del 16.6.2020). Ricorre dunque anche l'evento del reato: su questo versante, è appena il caso di ricordare che secondo la giurisprudenza di legittimità, quanto allo stato d'ansia o di paura, non occorre una diagnosi medico psicologica, perché la prova di esso può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (cfr. Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 24135 del 9.5.2012, Rv. 253764). Si consideri, peraltro, che il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore (circostanza verificatasi nel caso che ci occupa) non interrompe l'abitualità del reato, né inficia la continuità delle condotte, sussistendo l'oggettiva e complessiva idoneità delle stesse a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica, in una delle forme descritte dall'art. 612 bis c.p. (cfr. Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 17240 del 20.1.2020, Rv. 279111). Neppure può dubitarsi della sussistenza dell'elemento soggettivo della fattispecie di cui all'art. 612 bis c.p.: esso, come ormai chiarito dalla Suprema Corte, in modo del tutto coerente con la connotazione "abituale" del reato, è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte che lo strutturano nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice. Esso deve assumere il carattere dell'unitarietà, nel senso che deve esprimere un'intenzione criminosa travalicante i singoli atti che compongono la condotta tipica, ma (secondo una linea interpretativa già assestatasi in relazione a figure di reato abituale storicamente più risalenti, come quella di cui all'art. 572 c.p.) può senz'altro realizzarsi in modo graduale, senza dunque la necessità che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (cfr. Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 18999 del 19.2.2014, Rv. 260411). Tanto si è verificato nella fattispecie, ove la reiterazione delle condotte del So. non può non aver generato l'acquisizione progressiva di una rappresentazione e volontà cumulativa, inglobante le azioni già poste in essere e quelle ancora da compiere nella tensione verso la produzione dell'evento perturbatore della sfera morale della vittima. Deve, dunque, ritenersi integrata la fattispecie di cui all'alt 612 bis c.p., contestata all'imputato in rubrica. Sussistono, del pari, gli estremi del reato di lesioni contestato al capo b) della rubrica, ricorrendone tutti gli elementi costitutivi: in particolare, sul piano oggettivo, vi è prova della causazione, da parte dell'agente, di un'alterazione patologica dell'organismo di Fa.Ma. (cfr. documentazione sanitaria e fotografica in atti) e, sul piano soggettivo, della coscienza e volontà di colpire con violenza fisica. In definitiva, So.Al. va ritenuto penalmente responsabile - al di là di ogni ragionevole dubbio - di entrambi i reati a lui ascritti in rubrica. Trascorrendo quindi al trattamento sanzionatorio, possono riconoscersi all'imputato, in considerazione del sensibile mutamento del suo atteggiamento nei riguardi della persona offesa (come da quest'ultima riferito), connotato dalla cessazione delle condotte persecutorie successivamente al giugno del 2020 (sintomo di una rivisitazione critica della propria condotta), le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p.: nel giudizio di comparazione imposto dall'art. 69 c.p., tali attenuanti vanno ritenute equivalenti rispetto alle contestate aggravanti di cui all'art. 612 bis comma 2 e 3, 61 n. 11 quinquies c.p. (in ragione della relazione sentimentale precedentemente occorsa tra l'imputato e la persona offesa, e della minore età di costei al momento dei fatti), nonché delle aggravanti di cui all'art. 576 comma 1 n. 1 e n. 5, conseguenti alla declaratoria di penale responsabilità dell'imputato per il delitto di cui al capo a) dell'imputazione. Le violazioni commesse costituiscono chiara espressione, per prossimità temporale e per il fine complessivamente perseguito dall'agente, di un unitario disegno criminoso: vanno dunque unificate ex art. 81 cpv. del codice penale. Valutati gli indici di cui all'art. 133 c.p., si stima dunque equa la pena finale di anni 2 e mesi 6 di reclusione, così calcolata: - pena base (calcolata in relazione al più grave reato di cui all'art. 612 bis c.p., previa elisione del rilievo delle ritenute aggravanti ex art. 612 bis comma 2 e 3 c.p., all'esito del giudizio di equivalenza con le circostanze attenuanti generiche): anni 2 di reclusione; - aumentata ex art. 81 cpv. c.p. ad anni 2 e mesi 6 di reclusione (mesi 6 di reclusione in relazione al reato di cui all'art. 582 c.p.). Alla dichiarazione di responsabilità dell'imputato segue poi, per legge, la condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali. Non sussistono, in ragione dell'entità della pena irrogata, i presupposti di legge per la concessione all'imputato del beneficio della sospensione condizionale della pena, né risultano essere state avanzate dalla difesa richieste di pena sostitutiva. Ai sensi degli artt. 538 ss. c.p.p., So.Al. viene inoltre condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civile costituite, da liquidarsi in separata sede (non essendo possibile allo stato quantificare con esattezza il danno subito, ragione per cui non si ritiene opportuno, del pari, concedere la chiesta provvisionale), nonché alla refusione, in favore delle predette partì civili, delle spese di costituzione e rappresentanza, liquidate in base al seguente computo analitico, parametrato secondo importi che risultano congruenti con l'attività defensionale concretamente esplicata e con lo spessore giuridico delle questioni affrontate, in relazione ai criteri dettati dal D.M. n. 55 del 2014, non ritenendosi di applicare alcun aumento ai sensi dell'art. 12 comma 2, non avendo comportato l'assistenza di più parti (tutte aventi la medesima posizione processuale) lo studio di questioni di fatto e di diritto ulteriori e diverse: Fase di studio della controversia Euro 237,00 Fase introduttiva del giudizio Euro 284,00 Fase istruttoria Euro 567,00 Fase decisionale Euro 709,00 Totale Euro 1.797,00 Spetta comunque il rimborso spese forfettarie nella misura del 15% sull'importo dei compensi professionali, oltre IVA e CPA sull'imponibile, come per legge. P.Q.M. Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara So.Al. colpevole dei reati a lui ascritti in rubrica e per l'effetto, riconosciute al medesimo le circostanze attenuanti generiche, in regime di equivalenza con le contestate e ritenute aggravanti, unificati i fatti ex art. 81 cpv. c.p., lo condanna alla pena di anni 2 (due) e mesi 6 (sei) di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Letti gli artt. 538 ss. c.p.p., condanna So.Al. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite Fa.Ma., Fa.An. e At.El., da liquidarsi in separata sede. Rigetta la richiesta di provvisionale. Condanna So.Al. alla refusione, in favore delle predette parti civili, delle spese di costituzione e rappresentanza, che liquida in complessivi Euro 1.797,00 oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% sull'importo dei compensi professionali, oltre IVA e CPA sull'imponibile, come per legge. Così deciso in Nocera Inferiore il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CALASELICE Barbara - Presidente - Relatore Dott. MASI Paola - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - Consigliere Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere Dott. RUSSO Carmine - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Se.Da. nato a C D R il (Omissis) avverso l'ordinanza del 26/05/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA udita la relazione svolta dal Presidente BARBARA CALASELICE; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, P. Serrao d'Aquino, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata la Corte di appello di Bologna ha dichiarato inammissibile l'istanza di ricusazione presentata da Se.Da. nei confronti del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale in sede, Ma.De., nel corso del procedimento n. 2599/2022 r.g.n.r. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Forlì, che lo vede indagato per i reati di omicidio pluriaggravato, commesso ai danni del fratello Fr.De., di atti persecutori e di quello di cui all'art. 412, 61 n. 2 cod. pen., nonché di delitti concernenti la violazione della normativa sulle armi. 2. Avverso detto provvedimento propone tempestivo ricorso l'istante, per il tramite del difensore e procuratore speciale, denunciando inosservanza di norme processuali, con particolare riferimento agli artt. 37, comma 1, 41, comma 3, 127, comma 1 e 5, 125, comma 3, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione. 2.1. L'ordinanza di rigetto risulta pronunciata de plano per manifesta infondatezza. Si deduce che l'ordinanza di inammissibilità è illegittima in quanto adottata ai sensi dell'articolo 41, comma 1, cod. proc. pen., ma la motivazione concerne questioni suscettibili di ulteriori delucidazioni, come da parte motiva dell'ordinanza, pronunciata senza l'instaurazione del contraddittorio. Questo può essere escluso, infatti, soltanto nel caso in cui la dichiarazione di ricusazione risulti ictu oculi infondata. Invece, la procedura prevista dall'art. 127 cod. proc. pen. è necessaria quando si deve procedere all'esame del merito, in caso contrario determinandosi la nullità di cui all'articolo 127, comma 5, cod. proc. pen. Si contesta anche la ratio decidendi del provvedimento censurato nella parte in cui afferma che la circostanza che il magistrato avesse già preso parte ad un giudizio, a carico dell'imputato, per fatti diversi sebbene caratterizzati dalla pretesa identità di fonti probatorie valutate e da valutare, non è elemento che dà luogo ad un'ipotesi di ricusazione. Invece, la difesa prospetta che l'imputato ha presentato istanza di ricusazione rispetto al Giudice dell'udienza preliminare assegnatario del procedimento, con udienza fissata il giorno 18 maggio 2023, perché questi aveva espresso valutazione di merito, in altri procedimenti penali, proprio su un segmento degli stessi fatti contestati, al capo C della contestazione, cioè in relazione al delitto di atti persecutori. Il movente dell'omicidio è ricondotto, infatti, dal Pubblico ministero a contrasti endo - familiari connessi alla gestione di un podere di famiglia. Peraltro, lo stato d'ansia contestato viene collegato, nello stesso capo di imputazione ad altre denunce, da parte dei fratelli Ro.Se. e Mi.Se., a seguito di episodi di lesioni personali e minacce gravi, asseritamente commesse ai loro danni. Si tratta dì segmento della condotta che risulta contestata all'interno del capo C dell'imputazione che, in qualche modo, a parere del ricorrente, si collega alla condotta già contestata e giudicata dal magistrato De Paoli, con decreto penale di condanna emesso a carico di Se.Da., nell'ambito di diverso procedimento penale per il reato di lesioni continuate e minaccia, commessi ai danni del fratello Ro.Se. Si tratta di valutazione pregiudicante sulla sussistenza del medesimo fatto-reato e sulla colpevolezza dell'imputato, con valutazione di merito già espressa, sullo stesso fatto, nei confronti del medesimo soggetto che, secondo la Corte costituzionale, con principio affermato nella sentenza n. 283 del luglio 2020, produce un effetto pregiudicante circa l'imparzialità del giudice. Il Giudice per le indagini preliminari, in sede di decreto penale di condanna, non si era espresso solo incidentalmente su aspetti della vicenda processuale ma aveva manifestato un vero e proprio giudizio di colpevolezza sul fatto-reato, poi contestato espressamente, dal Pubblico ministero, all'interno della condotta contestata al capo C. Inoltre, a parere della difesa, il Magistrato si è pronunciato con decreto di archiviazione, per altro segmento della condotta contestata al capo C, nel proc. n. 1607 del 2018, concernente reati di incendio posti in essere in concorso con la stessa vittima del reato. Si ribadisce che la contestazione, quanto al reato di omicidio pluriaggravato, ravvisa il movente dell'omicidio proprio in contrasti endo - familiari e che la mera lettura della documentazione allegata all'istanza di ricusazione avrebbe dovuto condurre la Corte di appello di Bologna ad aderire alla prospettazione difensiva, mentre questa si è pronunciata nel senso dell'inammissibilità sulla base di una motivazione reputata dal ricorrente tautologica e apodittica. 3. Il Sostituto Procuratore generale, P. Serrao d'Aquino ha fatto pervenire requisitoria scritta con la quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è manifestamente infondato. 1.1. Con provvedimento ineccepibile la Corte di appello si è pronunciata de plano perché ha reputato manifestamente infondata l'istanza di ricusazione. Infatti, è consentito alla Corte territoriale provvedere de plano sulla dichiarazione di ricusazione ove, come nel caso al vaglio, operi una valutazione di manifesta infondatezza (tra le altre, Sez. 3, n. 18043 del 26/03/2019, Cimino, Rv. 275952) e i motivi addotti non introducano questioni controverse in giurisprudenza, manifesta infondatezza nella specie non smentita dalla critica difensiva contenuta nel ricorso che, invece, si appalesa reiterativa delle ragioni contenute nell'istanza di ricusazione. Si tratta di soluzione conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale non sussiste incompatibilità logica tra la dichiarazione di inammissibilità dell'istanza di ricusazione, avanzata dall'imputato nei confronti di componenti del collegio in base a motivi manifestamente infondati e la circostanza che il provvedimento dichiarativo, ancorché adottato de plano, illustri le ragioni della ritenuta manifesta infondatezza con motivazione articolata e complessa. 1.2. Ciò posto, si osserva che il ricorso reitera le argomentazioni svolte con l'istanza di ricusazione e finisce per richiedere, a questa Corte, la rivalutazione di merito degli argomenti posti dalla Corte d'appello a base della pronunciata inammissibilità, operazione non consentita in sede di legittimità. La motivazione della Corte territoriale fonda sulla natura della delibazione resa dal Giudice ricusato in altri procedimenti e sulla circostanza che non si tratta, a partire dal punto di vista formale delle contestazioni, dei medesimi fatti per i quali il Giudice per le indagini preliminari è chiamato a procedere nei confronti dell'odierno ricorrente. Infatti, nel procedimento ove viene proposta istanza di ricusazione sono elevate a carico di Da.Se. imputazioni per i reati di omicidio pluriaggravato, atti persecutori, violazione della normativa in materia di armi, fatti commessi, quanto alla persona offesa dal reato, ai danni del fratello Fr.De. . Nel procedimento concluso con decreto penale di condanna, invece, la Corte territoriale evidenzia che si valutano reati di lesioni personali continuate commesse ai danni del fratello Ro.Se., mentre la pronunciata archiviazione riguarda Da.Se. come persona offesa. L'ultimo provvedimento, citato dalla Corte territoriale, poi, attiene al reato di danneggiamento seguito da incendio, condotta commessa in concorso con Fr.Se.. Dunque, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, non avversata specificamente con il ricorso, in sostanza le vicende endo - familiari richiamate quale movente dell'omicidio sub iudice sono relative a fatti diversi, anche se vi è parziale identità di fonte probatoria. Tuttavia, detta identità non dà luogo ad un'ipotesi di ricusazione, ai sensi dell'art. 37 cod. proc. pen. come risultante a seguito della parziale dichiarazione di illegittimità di cui alla sentenza n. 283 del 2000 della Corte costituzionale. Ciò in quanto il magistrato ha già preso parte a un giudizio a carico dell'imputato per fatti diversi, sebbene caratterizzati dalla pretesa identità delle fonti probatorie valutate e da valutare, atteso che una stessa fonte probatoria, considerata importante e attendibile in un processo, potrebbe non esserlo altrettanto in un altro (Sez. 5, n. 15201 del 10/02/2016, Acri, Rv. 266865 - 01, in motivazione; Sez. 3, n. 11546 del 19/02/2013, Frezza, Rv. 254760). Analogamente, è stato ritenuto che non è passibile di ricusazione né il giudice davanti al quale è incardinato un procedimento penale per reati di omicidio commessi al fine di agevolare un'associazione di tipo mafioso e che abbia già concorso alla pronuncia di condanna (ovvero si sia espresso sul punto) dello stesso imputato per il reato associativo, sulla base delle dichiarazioni dei medesimi collaboratori di giustizia da escutere nel nuovo dibattimento (Sez. 1, n. 21064 del 12 maggio 2010, Abbruzzese, Rv. 247578) riè quello che, nei confronti del soggetto imputato di un fatto aggravato dall'essere stato commesso per agevolare un'associazione mafiosa, abbia in precedenza pronunciato condanna per altri fatti, commessi in tempi diversi, ma pure aggravati dell'essere stati posti in essere per agevolare la medesima associazione mafiosa (Sez. 1, n. 22794 del 13/05/2009, Bontempo Scavo, Rv. 244381). Ciò in quanto l'essersi pronunziato su uno di essi non comporta automaticamente l'inquinamento dell'imparzialità e della terzietà del giudice chiamato a conoscere, in altro giudizio, degli altri trattandosi di fatti storici autonomi, a meno che nella prima occasione egli non abbia incidentalmente espresso il proprio convincimento su quelli oggetto del successivo procedimento. 1.3. Infine, deve rilevarsi che vi è anche diversità del fatto rispetto alla porzione di condotta che viene indicata come compresa in uno degli episodi che formano la contestazione del reato di stalking di cui al capo C. Su tale punto, l'oggetto delle due delibazioni è considerato, con ragionamento ineccepibile, diverso e, comunque, la paventata identità dei comportamenti implicherebbe, onde effettuare la necessaria verifica un esame di merito delle fattispecie, inibita a questa Corte. Del resto, si osserva che, a conferma della diversità dei fatti, si rimarca che la contestazione del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., indica l'episodio denunciato dai fratelli Ro.Se. e Mi.Se. a titolo descrittivo (cfr. capo di imputazione sub C) quanto al sopraggiunto stato d'ansia della vittima del delitto di stalking. Del resto, il decreto penale di condanna emesso a carico di Se.Da., nell'ambito di diverso procedimento penale per il reato di lesioni continuate e minaccia, commessi ai danni del fratello Ro.Se. reca come iscrizione a ruolo la data del 2020 (r.g.n.r. n. 142/20) a fronte della data di iscrizione a ruolo del procedimento nel quale si propone istanza di ricusazione che si colloca nel 2022 (r.g.n.r. n. 2326/2022). 2. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art.616 cod. proc. pen. (come modificato ex lege n. 103 del 23 giugno 2017) al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso (Corte cost. 13/6/2000 n.186), con oscuramento dei dati sensibili, tenuto conto del contesto endo - familiare in cui si collocano i reati per i quali si procede. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 25 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria l'11 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA vista la richiesta presentata da: Sa.An., nato a G il (omissis); di rimessione del processo n. 11304/2018 r.g.n.r. pendente dinnanzi al TRIBUNALE di BARI; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale OLGA MIGNOLO, che ha chiesto di dichiarare inammissibile l'istanza. RITENUTO IN FATTO 1. Sa.An. ha presentato - in qualità di imputato nel proc. pen. n. 11304/2018 r.g.n.r., pendente dinanzi al Tribunale di Bari - istanza di rimessione del processo ad altro ufficio giudiziario, ai sensi dell'art. 45 cod. proc. pen., illustrando le ragioni per le quali, a suo giudizio, sussisterebbe un pericolo concreto di mancanza di imparzialità da parte dell'autorità giudiziaria procedente. Rappresenta che: egli è un "già" maresciallo ordinario dei Carabinieri nonché fondatore e segretario del primo sindacato dei Carabinieri; in tale veste, ha, nel corso degli anni, denunciato presunti abusi e reati commessi da ufficiali del Comando generale dell'Arma; il procedimento di cui chiede la rimessione ha a oggetto una presunta diffamazione, da lui commessa (a mezzo Facebook) nei confronti di un colonello dei Carabinieri; il processo pende davanti al dott. Mo.Am., giudice monocratico del Tribunale di Bari; il Procuratore della Repubblica di Bari, dott. Ro.Ro., ha condotto le indagini e finora sostenuto l'accusa in udienza. Tanto premesso, l'istante sostiene che il dott. Mo.Am. sarebbe incompatibile a ricoprire il ruolo di giudice nel processo a suo carico, cosi come incompatibile a rappresentare la pubblica accusa nel medesimo procedimento sarebbe il dott. Ro.Ro. Il dott. Mo.Am. sarebbe incompatibile, atteso che: in passato si sarebbe occupato, anche in qualità di componente del collegio, di altri procedimenti a carico dell'istante; sarebbe indagato davanti all'autorità giudiziaria di Lecce, nell'ambito di procedimenti penali che vedrebbero l'istante nella veste di persona offesa; sarebbe stato oggetto di segnalazioni presentate dall'istante al Consiglio superiore della magistratura; sarebbe amico intimo del dott. Ro.Ro.; avrebbe omesso di trasmettere gli atti alla procura competente in relazione a fatti gravi - di cui sarebbe venuto a conoscenza nel corso del processo - che sarebbero stati commessi dal dott. Ro.Ro. Nel corso del processo di cui l'istante chiede la remissione, il dott. Mo.Am., inoltre, avrebbe tenuto una condotta palesemente imparziale e in particolare: avrebbe impedito all'imputato di rendere spontanee dichiarazioni; avrebbe "vietato" l'escussione dei testi della difesa; avrebbe "rinnegato" una sua stessa ordinanza istruttoria, "appiattendosi" alle richieste del pubblico ministero; avrebbe "vietato" alla difesa di porre domande a un teste; avrebbe consentito al pubblico ministero di escutere un teste nonostante la difesa, in quell'udienza, fosse assente per legittimo impedimento. Il dott. Ro.Ro. sarebbe incompatibile, atteso che: sarebbe persona offesa in procedimenti penali a carico dell'istante; sarebbe parte in processi civili in cui l'indagato riveste il ruolo di controparte; avrebbe immotivatamente proposto l'applicazione di una misura di prevenzione nei confronti dell'istante; sarebbe indagato davanti all'autorità giudiziaria di Lecce per vicende legate alla richiesta di applicazione della misura di prevenzione; si sarebbe reso responsabile di fatti gravi e rilevanti sia sotto il profilo penale che sotto il profilo disciplinare; non avrebbe proceduto rispetto a denunce presentate dall'istante nei confronti di ufficiali dei Carabinieri; nell'esercizio delle sue funzioni, per "vendetta" e per motivi politici, si sarebbe reso responsabile di reiterati e gravi abusi nei confronti dell'istante, finendo per commettere un vero e proprio "stalking giudiziario"; avrebbe chiesto, sempre per mera vendetta, l'applicazione nei confronti dell'istante di misure cautelari, che sarebbero state, poi, annullate dal Tribunale del riesame di Bari e ritenute illegittime dalla Corte di cassazione; anche nell'ambito del procedimento di cui viene chiesta la rimessione, si sarebbe reso responsabile di gravi abusi e omissioni, solo per fini di "vendetta". 2. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile l'istanza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. L'istanza di rimessione del processo è inammissibile, in quanto manifestamente infondata. 1.1. Va ricordato che l'istituto della rimessione del processo ha carattere eccezionale - poiché implica una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall'art. 25 Cost. e dall'art. 6 CEDU - e ciò "comporta la necessità di un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii" (Sez. 3, n. 23962 del 12/05/2015, Bacci, Rv. 263952; Sez. 6, n. 17170 del 01/03/2016, Colucci, Rv. 267170). Ai fini della rimessione del processo, conseguentemente, per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per l'imparzialità del giudice, inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito, o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo (Sez. 3, n. 24050 del 18/12/2017, Ierbulla, Rv. 273116; Sez. 2, n. 55328 del 23/12/2016, Mancuso, Rv. 26853). 1.2. Dai riassunti principi in materia, deriva la manifesta infondatezza dei motivi dell'istanza, che sono correlati a vicende propriamente procedimentali o a fatti relativi a due singoli magistrati (il dott. Mo.Am. e il dott. Ro.Ro.) e non all'intero ufficio giudiziario in cui si svolge il processo. Sotto il primo profilo, va rilevato che i presunti vizi delle ordinanze istruttorie e delle decisioni assunte dal dott. Mo.Am., nell'esercizio del suo potere di direzione del dibattimento e sulle istanze della difesa, rientrano nella dialettica processuale e vanno dedotti nelle forme e nei termini previsti dal codice di rito. Con riferimento alla presunta incompatibilità del dott. Mo.Am. e del dott. Ro.Ro., va evidenziato che il ricorrente deduce fatti gravi, ma relativi a soli due magistrati e non all'intero ufficio giudiziario, che, peraltro, è composto da numerosi magistrati, alcuni dei quali, come riferito dallo stesso istante, hanno in precedenza adottato decisioni a lui favorevoli, come quelle del Tribunale del riesame che hanno annullato le ordinanze applicative di misure cautelari. Al riguardo, deve essere ribadito che i motivi di legittimo sospetto si possono configurare solo in presenza di una grave situazione locale che investa l'ufficio giudiziario nel suo complesso e non i singoli giudici o magistrati del pubblico ministero, giacché, in quest'ultima eventualità, l'osservanza delle regole del giusto processo può essere assicurata mediante l'astensione e la ricusazione, senza necessità del trasferimento del processo ad altro ufficio giudiziario (Sez. 6, n. 13419 del 05/03/2019, Baldassare, Rv. 275366). 2. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna dell'istante al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 9 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2024.
Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.