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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SGUBBI Vincenzo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Relatore Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Di.Er., nato ad A il omissis, Nu.El., nata ad A il omissis, Di.Mi., nato ad A il omissis, avverso la sentenza della Corte di appello di Bari in data 21/11/2022; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Paola Mastroberardino, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi; udito, per l'imputato, l'avv. Do.Ci., che ha concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 21 novembre 2022, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari in data 2 ottobre 2019 con la quale, all'esito di giudizio abbreviato, Di.Er., Di.Mi. ed Nu.El. erano stati condannati, con la diminuente del rito: i primi due, alla pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione e, la terza, alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione, in quanto riconosciuti colpevoli: i primi due, dei delitti previsti dagli artt. 110 cod. pen., 216, comma 1, n. 2, 223, comma 1, 219, comma 2, n. 1, r.d. n. 267 del 1942, commesso in B il 14 aprile 2014, per avere, in concorso fra loro, Di.Er. quale amministratore dal 22 aprile al 25 novembre 2013 e Di.Mi. quale amministratore di fatto della fallita (...) Srl, tenuto i libri e le altre scritture contabili obbligatorie in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, con lo scopo di recare danno ai creditori, non redigendo il bilancio 2013 e omettendo, per lo stesso anno, di tenere il libro giornale e il libro degli inventari (capo B); tutti e tre, del delitto previsto dagli artt. 110 cod. pen., 216, comma 1, n. 1, 223, comma 1, 219, comma 2, n. 1, r.d. n. 267 del 1942, commesso in B il 14 aprile 2014, per avere, in concorso tra loro, distratto beni della società fallita, in quanto i due Di.Er., nella qualità indicata, e la Nu.El. (madre dei Di.Er.), quale amministratrice della Nu. Srl (la cui proprietà era riferibile al nucleo familiare Di.Er.), stipulato un contratto di compravendita con il quale la (...) Srl trasferiva alla Nu. Srl la proprietà, di fatto a titolo gratuito, di un fondo rustico in agro di A; con l'aggravante di aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (capo C); soltanto i primi due, del delitto previsto dagli artt. 110 cod. pen., 216, comma 1, n. 1, 223, comma 1, 219, comma 1 e 2, n. 1, r.d. n. 267 del 1942, per avere, in concorso tra loro, distratto beni della (...) Srl realizzando una cessione di ramo d'azienda al prezzo irrisorio di 80.100,00 Euro, determinato indicando voci passive fittizie (1.339.501,00 Euro per debiti nei confronti della (...) Srl, 318.305,00 Euro per debiti nei confronti della (...), 910.755,16 Euro relativi al "Fondo per rischi e oneri futuri" e 441.657,36 Euro per "TFR"), con l'aggravante di aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, in B il 14 aprile 1014 (capo D), soltanto i primi due, del delitto previsto dagli artt. 110 cod. pen., 216, comma 3, 223, comma 1, 219, comma 2, n. 1, r.d. n. 267 del 1942, per avere, nelle qualità indicate, sia prima che durante la procedura fallimentare, allo scopo di favorire Nu.Gi. e a danno degli altri creditori, eseguito il pagamento nei suoi confronti di 20.000 Euro, dovuti per retribuzioni non corrisposte, in Bari dal 14 aprile 2014 al 31 marzo 2015 (capo E). 2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione Di.Er. per mezzo del difensore di fiducia, avv. Mi.La., deducendo cinque distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta documentale contestato al capo B) per non avere redatto (recte: approvato) il bilancio relativo all'esercizio 2013 e avere omesso di tenere il libro giornale e il libro inventari. Dopo avere premesso che la mancata approvazione del bilancio non integra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale in quanto, di per sé, il bilancio non costituisce una scrittura contabile obbligatoria ex art. 2214 cod. civ. e la sua mancata approvazione non impedisce né ostacola, in alcun modo, la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della fallita, si osserva che Di.Er. era cessato dalla carica di amministratore nel novembre 2013, prima che si concludesse l'esercizio e che fosse possibile redigere il relativo bilancio. Sarebbe, dunque, erronea l'affermazione dei Giudici di merito secondo cui su Di.Er. "incombeva comunque l'onere della presentazione del bilancio entro 120 giorni dalla chiusura dell'esercizio". Quanto, poi, alla omessa tenuta del libro giornale e del libro inventari relativi all'esercizio 2013, non rinvenuti in sede di procedura concorsuale, si opina che la bancarotta documentale è reato proprio dell'amministratore, il quale non può rispondere della tenuta della contabilità nel periodo successivo alla dismissione della carica. Inoltre, non sarebbe stato accertato se il mancato rinvenimento delle scritture contabili fosse imputabile alla sottrazione o distruzione delle stesse da parte dell'imputato, non potendo esse argomentarsi unicamente dalla commissione dei fatti di bancarotta patrimoniale. Peraltro, sarebbe stato dimostrato che all'epoca in cui Di.Er. era amministratore della (...) Srl l'intera contabilità veniva regolarmente tenuta e aggiornata, secondo quanto dichiarato da De.Ma., dipendente amministrativa della (...) Srl sino all'inizio del 2014. In ogni caso, la documentazione acquisita dalla curatela fallimentare avrebbe consentito la puntuale ricostruzione del patrimonio, dei movimenti contabili e di tutte le posizioni di debito/credito. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto di cui al capo C) della rubrica, relativo alla cessione di un fondo rustico "a titolo gratuito" in favore della Nu. Srl con pagamento "fuori atto"; cessione che sarebbe avvenuta per impedire che un creditore come (...) Spa potesse ottenere il ristoro dei propri crediti, risultando "fittizia" (pag. 4). La Corte territoriale avrebbe omesso di valutare che la condotta contestata sarebbe in concreto inoffensiva, atteso che il bene oggetto di trasferimento risultava gravato da un'ipoteca giudiziale anteriore al fallimento, opponibile alla massa dei creditori, sicché il trasferimento del fondo sarebbe stato comunque inidoneo a recare pregiudizio al ceto creditorio e al creditore ipotecario, che poteva opporre all'acquirente il preesistente privilegio trascritto sul bene venduto. Per tali ragioni, quand'anche il fondo fosse rimasto nella disponibilità della società fallita, su di esso si sarebbe integralmente soddisfatto il creditore munito di privilegio. 2.3. Con il terzo motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto di cui al capo D) della rubrica, concernente la cessione, in favore della (...) Srl, di un ramo d'azienda "al prezzo irrisorio di Euro 80.000,00", determinato "indicando voci passive fittizie". Premesso che mancherebbe agli atti qualsiasi valutazione del ramo d'azienda ceduto che possa consentire di verificare la congruità del prezzo, le sentenze di merito avrebbero ritenuto che l'amministratore abbia sottostimato il prezzo di vendita, indicando, nella situazione patrimoniale allegata all'atto di cessione, tra le passività asseritamente inesistenti, i seguenti importi: 1) somme da corrispondere ai dipendenti a titolo di TFR per 441.657,36 Euro; 2) debiti nei confronti della (...) Srl per 1.339.501,00 Euro; 3) debiti nei confronti della (...) per 318.305,00 Euro; 4) Fondo per rischi e oneri futuri per 910.755,16 Euro. Quanto alla posta relativa al TFR, il perito avrebbe effettivamente accertato che la (...) Srl aveva versato agli ex dipendenti della (...) Srl il trattamento di fine rapporto, con pagamento, nel 2013, di circa 307 mila Euro e, nel 2014, di altri 64 mila Euro. Sul punto, però, la sentenza di merito conterrebbe soltanto un riferimento al mancato perfezionamento del trasferimento dei dipendenti in capo alla (...), che sarebbe totalmente ininfluente rispetto all'assunzione del debito e alla sua corrispondenza al dato reale. Quanto alla posta debitoria nei confronti della (...) Srl, originata dalla sottoscrizione dei preliminari di compravendita di due suoli edificabili nel comune di P, il perito avrebbe contestato esclusivamente le modalità di rilevazione contabile, smentendo l'assunto del Giudice di primo grado, secondo cui l'iscrizione del debito non troverebbe alcuna giustificazione, non corrispondendo ad alcun effettivo debito di quest'ultima società verso la prima, in realtà attestato dai cennati preliminari di vendita. Nessun accertamento era stato richiesto al perito in ordine al debito nei confronti della (...), rimasto privo di qualsivoglia verifica e tuttavia richiamato dal Collegio di appello per affermare che attraverso la relativa posta sarebbe stato conferito al ramo d'azienda ceduto un valore inferiore a quello reale. In ogni caso, la circostanza che alla società fallita siano state notificate cartelle esattoriali per un importo complessivo superiore a 7 milioni di Euro (come risulta dalle istanze di insinuazione al passivo acquisite all'esito dell'esame del curatore fallimentare) comporterebbe che le passività del ramo di azienda ceduto fossero ampiamente superiori agli elementi attivi trasferiti, che ammontavano, complessivamente, a 3.594.200,47 Euro, sicché la cessione non avrebbe recato alcun pregiudizio alla massa dei creditori. 2.4. Con il quarto motivo, il ricorso lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto di cui al capo E) della rubrica, relativo al pagamento preferenziale in favore di Nu.El., attuato con il versamento di 20.000 Euro per ridurre il debito che la (...) aveva nei suoi confronti per retribuzioni arretrate non pagate. La Corte territoriale non avrebbe considerato che il delitto de quo non sussiste, secondo la giurisprudenza di legittimità, quando il pagamento viene effettuato nella ragionevole convinzione di poter evitare il fallimento, sulla base delle condizioni in cui versava la società, in quanto la strategia di alleggerire la pressione dei creditori, in vista di un ragionevole e presumibile riequilibrio finanziario patrimoniale, è incompatibile con il delitto. La sentenza di appello avrebbe esaurito la valutazione sulla illiceità della condotta nella constatazione della anteriorità del pagamento: presupposto necessario, ma non sufficiente. In ogni caso, il reato sarebbe prescritto. 2.5. Con il quinto motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La valutazione, compiuta in modo complessivo e unitario per tutti gli imputati, non consentirebbe di apprezzare effettivamente e responsabilità di ciascun imputato e di considerare che l'odierno ricorrente aveva ricoperto la carica di amministratore della società fallita per un brevissimo periodo. 3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione anche Di.Mi. e Nu.El. a mezzo del difensore di fiducia, avv. Do.Ci., deducendo sei distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 216, comma 1, n. 2, cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla attribuzione, in capo a Di.Mi., della qualità di amministratore di fatto della (...) Srl, fondata su affermazioni apodittiche, quali l'esistenza di rapporti di parentela con altri imputati ovvero lo svolgimento di attività pratiche negli uffici della società. In realtà, la nozione di scelta gestionale, che la Corte di cassazione richiama quale indice sintomatico dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, evocherebbe il fatto che i compiti svolti nell'interesse del a società devono ingenerare il convincimento negli estranei che il soggetto sia amministratore della società. La Corte di appello di Bari avrebbe omesso tale accertamento, come di confrontarsi con le censure svolte nei motivi di appello. 3.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del delitto contestato al capo B). Avendo Di.Mi. cessato la propria carica di amministratore unico della società in data 22 aprile 2013, egli non sarebbe stato tenuto all'approvazione del bilancio di esercizio 2013. Quanto, poi, alla omessa tenuta del libro giornale e del libro inventari relativi all'esercizio 2013, la Corte non avrebbe riscontrato che i libri contabili fossero stati sottratti o distrutti dagli imputati ovvero che questi fossero soggettivamente responsabili del loro mancato rinvenimento. In ogni caso, due mesi dopo l'avvicendamento delle cariche, sarebbe stato redatto un bilancio straordinario, allegato all'atto di cessione dell'azienda, che avrebbe consentito una pedissequa ricostruzione della attività di impresa nel 2013, con esclusione del dolo specifico richiesto dall'art. 216, tanto più che tutta la documentazione relativa all'attività gestionale era stata redatta e aggiornata almeno fino ai primi di febbraio 2014, come riferito da De.Ma., che avrebbe fatto riferimento anche alla collaborazione del dott. Ca., responsabile della registrazione delle fatture. 3.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto contestato al capo C). La condotta contestata sarebbe inoffensiva, atteso che il bene oggetto di trasferimento era gravato da un'ipoteca giudiziale anteriore al fallimento e, pertanto, opponibile alla massa dei creditori, sicché il trasferimento sarebbe stato inidoneo a esporre a pericolo il bene tutelato. 3.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto contestato al capo D), ribadendosi, a sostegno, le medesime argomentazioni svolte con il terzo motivo del ricorso di Di.Er., cui si rimanda, e censurandosi l'immotivata decisione della Corte di appello di non procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale al fine di affidare nuovo incarico peritale per valutare le nuove emergenze scaturite nel giudizio di appello all'esito dell'esame testimoniale del curatore fallimentare. 3.5. Con il quinto motivo, il ricorso lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 157 e 159 cod. pen. e carenza della motivazione in ordine alla mancata rilevazione della estinzione del reato per prescrizione, nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto di cui al capo E), relativo al pagamento preferenziale in favore di Nu.El. La responsabilità di Di.Er. sarebbe stata affermata a partire dal ruolo di amministratore di fatto della società, senza che nessun contributo causale sia stato attribuito all'imputato. La sentenza impugnata avrebbe ritenuto sussistente il reato a partire dalla constatazione della anteriorità del pagamento, senza considerare che quando esso sia eseguito nell'ambito di un'operazione di riorganizzazione aziendale volta ad assicurare la continuità delle attività imprenditoriali, l'anteriorità non costituisce un indice univoco della natura preferenziale dello stesso. Sotto diverso profilo, la sentenza avrebbe omesso di considerare che il reato contestato al capo E) si era estinto per prescrizione alla data del 1° ottobre 2022 e, dunque, prima dell'emissione della sentenza di appello il 21 novembre 2022. 3.6. Con il sesto motivo, i ricorsi lamentano, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per i due ricorrenti. La valutazione compiuta in modo complessivo e unitario per tutti gli imputati non consentirebbe di apprezzarne effettivamente ruoli e responsabilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Tutti i ricorsi sono infondati e, pertanto, devono essere respinti. 2. Preliminarmente, e per una migliore comprensibilità sia degli argomenti di ricorso, sia delle ragioni della decisione, va osservato che i Giudici di merito hanno ritenuto accertato che le società coinvolte nelle operazioni descritte nell'imputazione erano tutte riferibili alla famiglia Di.Er.: premesso che la Nu.El. era la madre dei due Di.Er. e che il socio principale della originaria società (...) Srl era il marito della donna e padre degli altri due imputati, anche i soci principali delle società Nu. Srl, la (...) Srl e la (...). Srl erano parenti dei tre odierni ricorrenti. Nella sentenza di primo grado sono ricostruiti i tentativi del curatore fallimentare di entrare in possesso degli ordinari libri e delle scritture contabili della società, che si arrestavano al 31 dicembre 2012, mentre la documentazione successiva non era mai stata consegnata, non essendo rilevante la consegna al curatore di un faldone di fatture emesse dalla fallita, che nulla ha a che vedere con i libri sociali e le altre scritture contabili obbligatorie. Quanto alla posizione di Di.Er., la sentenza di appello ha ritenuto che, essendo stato amministratore dall'aprile 2013 al 25 novembre 2013, egli sarebbe stato tenuto a presentare del bilancio entro 120 giorni dalla chiusura dell'esercizio, sicché egli non sarebbe esonerato dagli obblighi, avendo ricoperto il ruolo di amministratore proprio nel periodo in cui si erano concentrate le operazioni distrattive che avevano svuotato il patrimonio societario, contestate ai capi C), D) ed E). Quanto alla responsabilità penale del fratello Di.Mi., amministratore unico dal 2008 al 22 aprile 2013, data in cui aveva ceduto le funzioni al coimputato, la sentenza ha evidenziato che le operazioni che avevano portato al dissesto della (...) Srl erano avvenute sotto la regia dei 2 fratelli; fermo restando che egli aveva continuato a occuparsi attivamente, anche dopo le dimissioni della qualifica formale, della conduzione della società, provvedendo quotidianamente agli incassi, ai versamenti in banca e ai contatti con il commercialista, cui consegnava i registri Iva, fornendo appunti per la redazione delle prime note e la registrazione delle fatture (si vedano, sul punto, le testimonianze di Ca.Gi., De.Ma., Sa.Gi. e La.Do.). Quanto all'elemento soggettivo, è stato evidenziato che Di.Mi. era socio unico della società fallita, sicché aveva il potere di nominare gli amministratori - e di prendere le decisioni rilevanti in materia di modifica dell'oggetto sociale e dei diritti dei soci, dovendo quindi ritenersi che egli fosse consapevole di quanto avveniva nella società di famiglia, anche con riguardo alla tenuta dei libri e scritture contabili per l'anno 2013. In tale prospettiva, tenuto conto delle operazioni descritte ai capi successivi, si è ritenuto che la mancata tenuta delle scritture contabili fosse preordinata a non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio societario e arrecare danno ai creditori. Con riferimento al delitto contestato al capo C), le indagini della Guardia di finanza hanno fatto emergere che in data 11 giugno 2013 la Di.Er. Srl aveva venduto alla Nu. Srl un fondo rustico, con operazione ritenuta in frode dei creditori in quanto la (...) Spa, creditrice della prima società, aveva ottenuto nei confronti di essa un decreto ingiuntivo in data 28 giugno 2013 per il valore di 320.906,00 Euro sulla base del quale era stata costituita sul bene un'ipoteca il 10 luglio 2013. Inoltre, era stato indicato nell'atto che il pagamento del prezzo convenuto, di 495.000,00 Euro, era avvenuto addirittura il 4 luglio 2006, quando la ed. Legge Bersani sulla tracciabilità dei pagamenti non operava ancora, a favore di una società, la Nu. Srl, costituita due anni dopo e cioè il 5 febbraio 2008, non esistente al momento del pagamento "fuori atto"; pagamento mai attestato da alcun documento e contrario a ogni canone di buon governo societario, sì da far ritenere che l'operazione sia stata fittizia, distraendo risorse dalla disponibilità della società al fine di sottrarre il bene all'aggressione di tutti i creditori, anche quelli a favore dei quali non risultava iscritta l'ipoteca. Quanto alla sussistenza del dolo, tenuto conto della dichiarazione di fallimento intervenuta solo pochi mesi dopo, giova riportarsi alla motivazione della sentenza di primo grado. Il danno rilevante realizzato nei confronti della massa creditoria, tenuto conto delle somme di denaro in considerazione, e la commissione di più fatti di bancarotta, chiaramente interconnessi, ha indotto a ritenere configurabile anche l'aggravante contestato. Quanto a Nu.El., la sua responsabilità è stata affermata quale concorrente extranea nella bancarotta, avendo fornito un contributo causale idoneo alla realizzazione della condotta distrattiva, quale acquirente fittizia del bene e consapevole autrice della diminuzione del patrimonio ai danni dei creditori. Con riferimento al delitto contestato al capo D), gli accertamenti della Guardia di Finanza e la relazione del perito, prof. De.Vi. è emersa la irragionevolezza del prezzo di cessione di un ramo d'azienda da parte della (...) Srl in favore della (...) s.r.L, anch'essa costituita da appartenenti alla famiglia Di.Er., realizzata, il 31 maggio 2013 e dunque a pochi giorni di distanza dall'operazione di cui al capo C), dietro il pagamento di 80.000,00 Euro, a fronte di un valore stimato dalla polizia giudiziaria in 3.594.200,47 Euro, artatamente ridotto attraverso l'iscrizione, nel bilancio di cessione, di voci di passivo infondate. Pertanto, valorizzando tali indici di fraudolenza sopra esposti, l'operazione è stata ritenuta distrattiva, considerato che, con la cessione, la (...) era diventata una scatola vuota e tenuto conto dei particolari legami familiari tra gli autori dell'operazione, delle circostanze di tempo della cessione, con la conseguente responsabilità di Di.Er., che rivestiva la carica di amministratore nel periodo in cui si erano verificati i fatti e le operazioni in questione e di Di.Mi., quale amministratore di fatto, avendo egli nominato come amministratore di diritto, da socio unico, suo fratello proprio prima che iniziassero le operazioni distrattive e avendo continuato a occuparsi attivamente, anche dopo le dismissioni della qualifica formale, della conduzione della società. Ricorrono senza dubbi anche gli estremi delle aggravanti del danno patrimoniale di rilevante gravità e della ed continuazione fallimentare prevista dall'art. 219 co. 2 n. 1, legge Fall. Con riferimento al capo E), le indagini hanno segnalato che, con atto notarile in data 4 luglio 2013, la (...) aveva ceduto alla (...) Srl un ramo di azienda per il corrispettivo di 20.000,00 Euro, da corrispondere con 8 cambiali all'ordine della (...) Srl da 2.500 Euro ciascuna, utilizzato per ridurre l'esposizione debitoria della (...), per retribuzioni non pagate, nei confronti del legale rappresentante della (...) Srl medesima, Nu.Gi., zio per parte di madre dei due Di.Er. Cessione effettuata poco tempo dopo le due precedenti operazioni descritte ai capi C) e D), sotto la direzione amministrativa legale di Di.Er., il quale aveva provveduto a girare a Nu.Gi. le cambiali ricevute come pagamento per la cessione del ramo di azienda, in una fase in cui Di.Er. era certamente consapevole dello stato di decozione della società amministrata, avendo egli personalmente concorso alla realizzazione del graduale depauperamento nei termini esaminati, con le condotte di cui ai capi C), D) ed E), a pochi giorni di distanza, l'una dall'altra. Un pagamento privilegiato che aveva violato il principio della par conditio creditorum, considerato che proprio alcuni dipendenti della società, rimasti privi di tutela, avevano dato avvio al procedimento. Quanto alla richiesta di integrazione della perizia, essa è stata respinta in quanto il quadro probatorio è apparso chiaro, sì da rendere non necessario approfondire ulteriori successive evenienze, essendo importante lo stato e le azioni realizzate nelle date accertate. 3. Tanto premesso, muovendo dal ricorso proposto nell'interesse di Nu.El. e Di.Mi., infondato è il primo motivo, con cui la difesa deduce la violazione dell'art. 216 legge fall, e il vizio di motivazione con riferimento all'attribuzione della qualità di amministratore di fatto a Di.Mi. 3.1. In argomento, va premesso che in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 legge fall, varino individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Sez. 5, n. 27264 del 10/07/2020, Fontani, Rv. 279497 - 01; Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Ottobrini, Rv. 268273 - 01; Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Bonelli, Rv. 277540 - 01). In particolare, ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, si è affermato che la relativa nozione di, introdotta dall'art. 2639 cod. civ., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società (Sez. 5, n. 4865 del 2.5/11/2021, dep. 2022, Capece, Rv. 282775 - 01); è il caso, ad esempio, dei rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero di qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (Sez, 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534 - 01). E il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 2514 del 4/12/2023, dep. 2024, Commodaro, Rv. 285881 - 01). 3.2. Tanto osservato, si è già evidenziato che le due sentenze di merito hanno posto in luce numerosi elementi di fatto che hanno fondato il riconoscimento, niente affatto illogico, che Di.Mi. abbia svolto un attivo ruolo gestorio, estrinsecatosi nell'assumere le scelte strategiche della fallita (come la nomina del fratello come amministratore, peraltro poco prima dell'inizio delle attività distrattive), nell'occuparsi degli incassi e dei versamenti in banca, di predisporre appunti manoscritti per la redazione delle prime note e la registrazione delle fatture, nonché nel tenere i rapporti con il commercialista, cui aveva consegnato i registri Iva e dal cui studio aveva ritirato la documentazione contabile, nel pattuire, in misura pari al 10% del fatturato, i compensi con il nuovo amministratore, La.Do., significativamente nominato soltanto dopo l'avvenuto trasferimento di tutto il patrimonio. A fronte di tale quadro, che ha fatto puntuale applicazione dei criteri che, come visto, la giurisprudenza di legittimità ha enucleato per il riconoscimento del ruolo di amministratore di fatto, le affermazioni difensive si connotano in termini di insuperabile genericità, avendo il ricorso affermato che il requisito soggettivo richiamato dall'art. 216 sia stato interpretato erroneamente e in termini puramente formali, senza però chiarire in quali termini ciò sia avvenuto; che la sentenza impugnata abbia omesso di approfondire le censure rivolte, sul punto, nei motivi di appello, senza peraltro chiarire quali queste fossero; che la motivazione abbia valorizzato i rapporti di parentela con altri imputati ovvero le attività pratiche di svolte all'interno degli uffici della società (v. pag. 2 del relativo ricorso), senza dunque confrontarsi con la puntuale ricostruzione degli indici fattuali compiuta dai Giudici di merito. Ne consegue, dunque, l'inammissibilità del presente motivo. 4. Venendo, quindi, alle censure svolte, con riferimento al capo C), attraverso il secondo motivo del ricorso proposto da Di.Er. e il terzo motivo del ricorso presentato da Nu.El. e Di.Mi., deve rilevarsi la manifesta infondatezza delle considerazioni difensive. 4.1. Va premesso che i due motivi di impugnazione presentano una sostanziale sovrapponibilità, in specie in relazione al profilo della dedotta inoffensività della condotta contestata, derivante dalla circostanza che il bene oggetto di trasferimento era gravato da un'ipoteca giudiziale anteriore al fallimento, sicché il trasferimento sarebbe stato inidoneo a esporre a pericolo il credito, tutelato da una garanzia reale; laddove, rispetto ai creditori non privilegiati, la presenza di tale garanzia avrebbe reso la loro posizione recessiva al momento del soddisfacimento della loro pretesa, di tal che la vendita non avrebbe recato un concreto pregiudizio alle loro ragioni, comunque destinate a soccombere. 4.2. Le considerazioni difensive non possono essere in alcun modo condivise. Va premesso, infatti, che come specificato dalle sentenze, l'ipoteca era stata costituita a garanzia del credito di 320.906,00 Euro ovvero di una somma inferiore al valore economico del bene, come determinabile in rapporto al prezzo convenuto all'atto della stipula della vendita, in data 11 giugno 2013, nella misura di 495.000,00 Euro. Ne consegue, pertanto, che in ogni caso, anche assumendo che l'ipoteca fosse stata validamente costituita, la vendita simulata di un cespite di valore economico maggiore al credito garantito avrebbe comunque sottratto ai creditori non assistiti da alcun previlegio un cespite sul quale, almeno in parte, soddisfarsi, con evidente pregiudizio per le loro posizioni creditorie. Quanto, poi, al diritto della (...) Spa garantito dall'ipoteca, la cessione del bene alla Nu. Srl era avvenuta, come detto, in data 11 giugno 2013 e, dunque, prima della costituzione del diritto reale, il 10 luglio 2013; sicché l'assunto secondo cui il creditore ipotecario avrebbe, comunque, potuto soddisfare la propria pretesa si palesa priva di fondamento. 4.3. Quanto, poi, alla responsabilità di Di.Mi. e di Nu.El., le sentenze hanno diffusamente spiegato, in maniera niente affatto illogica, come essa discendesse, quanto al primo, dal ruolo di amministratore di fatto dal medesimo svolto accanto al fratello, amministratore di diritto della fallita; e, quanto alla seconda, dalla sua veste di amministratrice della Nu. Srl, cessionaria dei beni oggetto della vendita. Anche sotto tale profilo, dunque, la motivazione dei due provvedimenti di merito resiste pienamente alle censure difensive. 5. Venendo, poi, al delitto contestato al capo D), le censure svolte, rispettivamente, con il terzo motivo del ricorso di Di.Er. e con il quarto motivo del ricorso di Nu.El. e Di.Mi., sono infondate. 5.1. Come già illustrato, le doglianze difensive sono dirette a dimostrare che il valore del ramo d'azienda ceduto alla (...) Srl non sarebbe stato artificiosamente eroso attraverso la indicazione di voci passive fittizie. In realtà, quanto alla posta relativa al TFR, il perito avrebbe effettivamente accertato che la (...) Srl aveva versato agli ex dipendenti della (...) Srl il trattamento di fine rapporto, con pagamento, nel 2013, di circa 307 mila Euro e, nel 2014, di altri 64 mila Euro; quanto alla posta debitoria nei confronti della (...) Srl, il debito troverebbe giustificazione nei preliminari di vendita; il debito nei confronti della (...) sarebbe rimasto privo di qualsivoglia verifica; la circostanza che alla società fallita siano state notificate cartelle esattoriali per un importo complessivo superiore a 7 milioni di Euro comporterebbe che le passività del ramo di azienda ceduto fossero ampiamente superiori agli elementi attivi trasferiti. E si lamenta che la Corte di appello abbia immotivatamente deciso di non procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale al fine di affidare un nuovo incarico peritale per valutare le nuove emergenze scaturite all'esito dell'esame testimoniale del curatore fallimentare. 5.2. Come correttamente rilevato dal Procuratore generale in sede di requisitoria, con tali motivi le difese, in realtà, riproducono, sostanzialmente, le doglianze già espresse nell'atto di appello, alle quali la Corte territoriale ha fornito adeguata risposta. 5.2.1. Quanto alla posta relativa al TFR dovuto agli ex dipendenti della (...) Srl, la sentenza di appello ha evidenziato che il perito aveva accertato, dall'esame del libro unico del lavoro della Pe. Srl, che per 40 dipendenti su 46 formalmente ceduti, il rapporto di lavoro era, in realtà, proseguito alle dipendenze della società cedente, sicché è stato coerentemente osservato che non appariva giustificato il trasferimento alla cessionaria di un debito per TFR relativo a lavoratori dipendenti non effettivamente trasferiti. Sul punto, il ricorso si limita ad affermare, da un lato, che il mancato perfezionamento del trasferimento dei dipendenti sarebbe totalmente ininfluente rispetto all'assunzione del debito; e, dall'altro lato, del tutto contraddittoriamente, che il perito avrebbe accertato che la (...) Srl aveva versato agli ex dipendenti essi il trattamento di fine rapporto, con pagamento, nel 2013, di circa 307 mila Euro e, nel 2014, di altri 64 mila Euro. Tuttavia, in disparte la circostanza che quest'ultima considerazione è meramente labiale, contraddicendo, senza fornire alcuna dimostrazione dell'assunto, l'opposta affermazione contenuta in sentenza, non può non osservarsi come il ricorso non si confronti con la logica osservazione secondo cui sarebbe del tutto irragionevole che un soggetto economico si facesse carico dell'onere di corrispondere il TFR ai dipendenti formalmente in carico a un'altra società. 5.2.2. Quanto alla posta debitoria iscritta nei confronti della (...) Srl, l'affermazione difensiva secondo cui essa avrebbe trovato giustificazione giuridico-economica nella sottoscrizione dei preliminari di compravendita di due suoli edificabili nel comune di P, non si confronta con un duplice, decisivo, rilievo contenuto nella sentenza di secondo grado. La Corte territoriale, infatti, da un lato ha evidenziato che la voce relativa ai rapporti con la (...) era stata iscritta due volte tra i debiti nel bilancio di cessione; e, dall'altro lato, che essa non aveva alcuna giustificazione, riguardando il saldo finale di una compravendita il cui contratto definitivo non era mai stato stipulato. 5.2.3. Quanto, ancora, al debito nei confronti della (...), la sentenza di primo grado, la cui motivazione è destinata a integrarsi con quella del grado successivo, aveva osservato che la (...) aveva stipulato con tale società un contratto preliminare di vendita con il quale la seconda si impegnava a cedere due unità immobiliari al prezzo complessivo di circa 318.305,00 Euro, che al 31 maggio 2013 risultava quasi integralmente salsato, residuando soltanto un debito di 5.600,00 Euro. Dunque, l'osservazione difensiva secondo cui il debito non sarebbe stato oggetto di verifica appare per un verso aspecifica, non confrontandosi con l'accertamento riportato in primo grado; e, per altro verso, generica, non riportando il passaggio dell'atto di appello che avrebbe contenuto una censura della prima decisione e rispetto al quale la sentenza di appella avrebbe omesso di pronunciarsi. 5.2.4. Quanto, infine, alla circostanza che alla società fallita fossero state notificate cartelle esattoriali per un importo complessivo superiore a 7 milioni di Euro e che, pertanto, le passività del ramo di azienda ceduto fossero ampiamente superiori agli elementi attivi trasferiti, anche in questo caso la doglianza è inammissibile, fondandosi su un presupposto fattuale estraneo alla traiettoria argomentativa sviluppata dalla sentenza impugnata nella sua motivazione. 6. Ancora, relativamente al delitto contestato al capo E), le censure svolte dai ricorsi, rispettivamente con il quarto (Di.Er.) e con il quinto motivo (Nu.El. e Di.Mi.), sono manifestamente infondate. 6.1. Sotto un primo profilo, le doglianze riguardano la configurabilità del delitto di bancarotta preferenziale che, in particolare la difesa di Di.Er., revoca in dubbio alla luce dell'orientamento secondo cui in tema di bancarotta preferenziale, l'elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l'accettazione della eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale; ne consegue che tale finalità non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia dell'attività sociale o imprenditoriale e il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile (Sez. 5, n. 54465 del 5/06/2018, M., Rv. 274188 - 01). L'imputato, infatti, si sostiene in ricorso, avrebbe agito con "la ragionevole convinzione (...) di evitare il fallimento". Sul punto, tuttavia, è appena il di osservare che tale asserzione non viene suffragata da circostanze concrete che possano sostenerla, avendo le sentenze a più riprese evidenziato come l'imputato fosse perfettamente consapevole della situazione di sostanziale decozione della società, in ragione delle quali si era determinato alle già evidenziate operazioni distrattive. Quanto, poi, all'affermazione secondo cui il credito di Nu.Gi. sarebbe stato privilegiato, deve osservarsi che altri dipendenti della società, ai quali si dovette la presentazione dell'istanza di fallimenti, erano titolari di crediti privilegiati, sicché la prevalenza accordata a uno di essi integrava, pacificamente, la fattispecie contestata, come ritenuto dalle due sentenze di merito. Pertanto, i rilievi difensivi in ordine all'affermata responsabilità degli imputati devono ritenersi inammissibili. 6.2. Sotto altro profilo, le doglianze investono la violazione degli artt. 129 cod. proc. pen., 157 e 159 cod. pen., atteso che la contestata bancarotta preferenziale si sarebbe prescritta. Sul punto va, infatti, osservato che il relativo termine di sei anni, aumentati di 1/4 per effetto dei vari eventi interruttivi ex art. 161, secondo comma, cod. pen., non risultava ancora spirato al momento della pronuncia, in data 21 novembre 2022, della sentenza di appello, tenuto conto della sospensione della prescrizione per complessivi 384 giorni (e in particolare della sospensione dichiarata dalla Corte territoriale dal 18 ottobre 2021 al 7 febbraio 2022 a seguito del rinvio disposto per legittimo impedimento del nuovo difensore di Di.Er.); e che, per effetto di tali sospensioni, il termine di prescrizione era stato spostato al 20 ottobre 2023. In proposito, la circostanza che il suddetto termine sia successivamente decorso non assume alcuna rilevanza, tenuto conto, da un lato, del principio secondo cui l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., ivi compreso il caso della prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D., Rv. 217266 - 01) e, dall'altro lato, che in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966 - 01). Ne consegue che la declaratoria di inammissibilità dei motivi di ricorso relativi al capo E), impedisce la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione maturata dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado. 7. Quanto, infine, al delitto di cui al capo B), le doglianze articolate, rispettivamente, con il primo e con il secondo motivo dei ricorsi proposti nell'interesse di Di.Er. e di Nu.El. e Di.Mi., sono infondate. 7.1. Muovendo dall'analisi del motivo di ricorso proposto nell'interesse di Di.Er., la difesa deduce il vizio di motivazione sostenendo che l'imputato, amministratore di diritto dal mese di aprile a quello di novembre del 2013, non potesse ritenersi formalmente onerato della presentazione del bilancio relativo al 2013, da redigersi entro 120 dalla chiusura dell'esercizio e, dunque, entro il mese di aprile del 2014. Tuttavia, in argomento, va osservato che in tema di bancarotta fraudolenta documentale, è onere dell'amministratore cessato, nei confronti del quale sia provata la condotta di omessa tenuta delle scritture contabili relative al periodo in cui rivestiva l'incarico, dimostrare l'avvenuta consegna delle scritture contabili al nuovo amministratore subentrante (Sez. 5, n, 55740 del 25/09/2017, Del Papa, Rv. 271839 - 01). In proposito, proprio le dichiarazioni di De.Ma., richiamate dalla difesa, secondo cui sino ai primi di febbraio 2014, la prima nota, le fatture e la contabilità interna della (...) Srl era stata redatta e aggiornata costituiscono la conferma della responsabilità dell'imputato. Secondo le annotazioni della teste, la documentazione che costei aveva predisposto erano state consegnate ai Di.Mi. per la successiva consegna al commercialista Ca.. Pertanto, proprio accedendo alla tesi difensive, è stato dimostrato che la documentazione contabile, nella disponibilità di Di.Er., non erano poi state trasmesse al commercialista. Tale spiegazione, inoltre, è stata consolidata, sul piano logico, dalla stretta connessione tra le operazioni distrattive e l'esigenza di non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio societario al fine di occultarle. 7.2. Quanto, poi, al fatto che sia stato comunque possibile, pur in assenza delle scritture obbligatorie, ricostruire la situazione contabile e patrimoniale, va evidenziato che, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il reato di bancarotta fraudolenta documentale sussiste anche quando la documentazione possa essere ricostruita aliunde. Ciò in quanto la necessità di acquisire i dati documentali presso terzi costituisce la riprova che i libri e le altre scritture contabili erano stati tenuti con modalità tali da rendere quantomeno molto difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari della società (Sez. 5, n. 21028 del 21/02/2020, Capasso, Rv. 279346 - 01; Sez. 5, n. 2809 del 12/11/2014, dep. 2015, Ronchese, Rv. 262588 - 01). 8. Con il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Di.Er. e con il sesto motivo dei ricorsi presentati nell'interesse di Di.Mi. e di Nu.El., le difese prospettano vizi di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e alla mancata rideterminazione del trattamento sanzionatorio stabilito dal primo giudice. Le doglianze sono, però, generiche e, come tali, inammissibili. 8.1. Invero, la Corte territoriale ha richiamato, quanto alle scelte dosimetrica, la gravità dei fatti, il valore dei beni sottratti alla curatela e il grado di responsabilità conseguente alle posizioni rivestite da ciascuno degli imputati. Va, del resto, ricordato che in sede di concreta commisurazione della pena entro la cornice edittale prevista dalla norma incriminatrice, il giudice esercita, alla stregua di una valutazione globale degli indici di commisurazione di cui all'art. 133 cod. pen., un ampio potere discrezionale che si sottrae, in quanto riconducibile ad apprezzamento di merito, a qualunque sindacato da parte del giudice di legittimità. Quanto agli standard motivazionali che il giudice di merito è tenuto a osservare nell'ambito di tale apprezzamento, questa Corte ha avuto modo di porre in luce che l'applicazione di una pena base in misura pari o superiore alla media edittale richiede una specifica indicazione dei criteri soggettivi e oggettivi elencati dall'art. 133 cod. pen., valutati e apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153 - 01); la quale non è invece richiesta tutte le volte in cui la scelta del giudice risulti contenuta, come avvenuto nel caso in esame, in una fascia "medio bassa" rispetto al regime edittale della pena. 8.2. Quanto, poi, alle circostanze attenuanti generiche, la Corte territoriale ha sottolineato l'assenza di comportamenti valutabili positivamente, non avendo gli odierni ricorsi nemmeno prospettato quali specifici elementi avrebbero dovuto essere valorizzati in sede di merito, donde l'inammissibilità della relativa censura. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in data 12 gennaio 2024 Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLOI DI CATANIA (...) composta dai magistrati: dott.ssa (...) dott.ssa (...) rel. dott.ssa (...) pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. (...)/2021 R.G. promossa DA (...) (C.F. (...)), rappresentato e difeso, giusta procura in atti, dall'avv. (...) F.(...) S.R.L. (C.F), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in atti, dall'avv. (...) e dall'avv. (...) Appellata AVENTE AD OGGETTO: crediti retributivi e impugnativa di licenziamento SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) adiva il Tribunale di Ragusa impugnando il licenziamento intimatogli dalla società F.lli (...) S.r.l. e chiedendo, ai sensi dell'art. 8 della legge 604/66, la condanna della società resistente alla corresponsione in suo favore della somma di Euro 10.717,62 a titolo di indennità risarcitoria pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Il ricorrente chiedeva altresì la condanna della convenuta al pagamento delle differenze retributive per il lavoro straordinario svolto, per permessi non richiesti, indennità di cassa, indennità di mancato preavviso e per residuo TFR non azionato in sede monitoria, per la complessiva somma di Euro 44.138,86 oltre rivalutazione ed interessi. Il G.L., ritenuta priva di pregio l'eccezione di improcedibilità della domanda attorea sollevata dalla resistente, raccolto l'interrogatorio formale del ricorrente ed escussi i testimoni, ordinata l'esibizione dei cronotachigrafi degli automezzi condotti dal (...) all'esito del fallimento del tentativo di conciliazione, pronunciava la sentenza n. 1203/2021 del 29.11.2021, con la quale condannava la società F.lli (...) S.r.l. a pagare in favore del lavoratore l'importo di Euro 611,83 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento, oltre interessi e rivalutazione sino al saldo e rigettava, nel resto, il ricorso, compensando integralmente le spese di lite. In particolare, il decidente, disattesa l'eccezione relativa alla denunciata parcellizzazione del credito, rigettava la domanda relativa al dedotto lavoro straordinario, sul rilievo che dall'istruttoria orale non era emersa prova certa in ordine all'espletamento di attività lavorativa in misura sistematicamente superiore a 40 ore settimanali; non riconosceva la reclamata indennità di cassa, trattandosi di emolumento accessorio e facoltativo non espressamente contemplato nel contratto individuale di lavoro e non risultando in atti il contratto collettivo contenente una previsione in tal senso; rigettava inoltre la domanda di restituzione delle somme decurtate in busta paga a titolo di permessi non retribuiti mai fruiti stante l'assoluto difetto di prova sul punto; riteneva legittimo il licenziamento intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo, stanti le perdite dalla stessa subite nell'anno 2013, sufficientemente documentate; riconosceva tuttavia dovuta l'indennità sostituiva del preavviso, non avendo il datore dimostrato di aver consegnato la lettera di licenziamento in data (...) anziché il (...) come si duole il ricorrente. Avverso la predetta sentenza interponeva appello (...) con atto depositato il (...), censurando la sentenza per i motivi da intendersi qui integralmente ritrascritti. Instauratosi il contraddittorio, F.(...) S.R.L. resisteva al gravame La causa veniva decisa all'esito dell'udienza del 18.4.2024, fissata ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., compiuti i termini assegnati alle parti per depositare note telematiche. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di impugnazione l'appellante contesta il mancato riconoscimento delle differenze retributive per il lavoro svolto, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che dall'istruttoria orale non è emersa prova certa in ordine all'espletamento di attività lavorativa in misura sistematicamente superiore a 40 ore settimanali. Lamenta l'appellante che il Giudice non avrebbe valutato adeguatamente le prove agli atti e in particolare la testimonianza del teste (...) basando il proprio convincimento sulle dichiarazioni di tutti gli altri testi, inattendibili in quanto lavoratori ancora dipendenti della società e/o parenti dell'amministratore della stessa. Deduce che se il giudice avesse esaminato tutte le prove addotte nel corso nel giudizio e non solo quelle orali, avrebbe potuto certamente verificare che la dissonante testimonianza del teste (...) era invece suffragata e confermata dalle risultanze dei cronotachigrafi prodotti con il ricorso introduttivo al fine di determinare proprio i periodi di sosta e di marcia dei mezzi guidati dal (...) 2. Con il secondo motivo di gravame, l'appellante contesta il mancato riconoscimento dell'indennità di cassa censurando la sentenza oggetto del gravame nella parte in cui ha ritenuto che tale indennità non sarebbe dovuta poiché non espressamente contemplata nel contratto individuale di lavoro, rilevando che l'indennità spetta sulla base dell'art. 50 del CCNL. Quanto all'affermazione contenuta in sentenza secondo cui l'indennità non spetterebbe in quanto l'attività di riscossione sarebbe stata meramente saltuaria, eccepisce di essersi trovato "non proprio occasionalmente" a ricevere denaro contante e assegni dai clienti della società e chiede emettersi ordine di esibizione delle fatture e dei DDT dai quali risulterebbe la sua firma per quietanza o di assumere la prova testimoniale dai clienti medesimi. 3. Con il terzo motivo di gravame, (...) impugna anche la parte della sentenza in cui il Tribunale ha rigettato la domanda di restituzione delle somme decurtate in busta paga a titolo di permessi non retribuiti, deducendo che dalla produzione dei dischetti cronotachigrafi, ove fosse stata effettuata, sarebbe emerso che nelle ore risultanti dalle buste paga imputabili a permessi, l'appellante si trovava invece alla guida dell'automezzo. 4. Con altro motivo, l'appellante impugna la sentenza nella parte in cui il Tribunale non ha riconosciuto l'illegittimità del licenziamento, evidenziando che quasi in coincidenza con tale atto la società aveva assunto un altro lavoratore, (...) addetto all'attività di trasporto, per cui nessun riassetto organizzativo si era registrato con riferimento agli addetti all'attività di trasporto. Inoltre dalle prove testimoniali era emerso che il (...) oltre che al trasporto del gasolio, era addetto anche all'attività di pavimentazione stradale utilizzando i mezzi semi moventi ((...) e/o pala meccanica), per cui nessuna prova era stata fornita sull'impossibilità del reimpiego del lavoratore. (...)à conseguiva anche alla scelta del lavoratore da licenziare, possedendo egli 8 anni di anzianità e un'età, 40 anni, che non gli dava accesso alla pensione né gli consentiva di reinserirsi nel mondo del lavoro. Sotto altro profilo evidenzia che la questione del mancato rinnovo della patente ADR è stata sollevata solo nel corso del giudizio, non essendo stata indicata quale causa del recesso nella lettera di licenziamento né precedentemente essendo stata fatta oggetto di richiamo nei confronti del lavoratore. Deduce poi che agli atti non vi sarebbe nemmeno la prova della scadenza della validità della patente e comunque, laddove per il rinnovo fosse stato necessario seguire un corso di formazione che lo abilitasse nuovamente al trasporto di merce pericolosa, tale corso sarebbe stato di certo a carico del datore di lavoro. 5. Con il quinto motivo l'appellante censura la sentenza per non avere preso in esame e riconosciute le ulteriori somme dovute per T.F.R. e non azionate in sede monitoria, da calcolarsi sull'effettiva retribuzione spettante al lavoratore, né considerando e riconoscendo il risarcimento danni per mancato corrispondente trattamento previdenziale dovuto per tutte le differenze retributive e le relative omesse contribuzioni previdenziali sulle stesse. 6. Ancora, l'appellante impugna la sentenza evidenziando la contraddittorietà della decisione di accogliere solo la domanda relativa all'indennità di preavviso, liquidata sulla base di criteri e valutazioni rimasti ignoti, rispetto al giudizio prognostico formulato all'esito dell'attività istruttoria che aveva condotto a invitare le parti a valutare una definizione conciliativa della controversia sulla base del pagamento della somma di Euro 12.500,00 onnicomprensiva oltre un contributo alle spese legali di Euro 1000,00; avendo peraltro il Tribunale esplicitato in sentenza che "la domanda attrice volta ad ottenere le relative differenze retributive fosse tutt'altro che infondata e pretestuosa". 7. Infine l'appellante ha censurato il capo della sentenza impugnata che ha statuito sulle spese di lite disponendo la compensazione integrale delle stesse e ponendo, altresì, a carico di entrambe le parti le spese della CTU già liquidate con separato decreto. Le spese invece dovevano essere poste integralmente a carico della società, in quanto non aveva ottemperato all'ordine di esibizione, non aveva accettato la proposta conciliativa ed era stata, sia pure parzialmente, soccombente. 8. (...) è parzialmente fondata. Con riguardo al primo motivo va rilevato che correttamente il Tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni del teste (...) non fossero sufficienti a dare la prova rigorosa, che non può essere superata dalla valutazione equitativa del giudice - come richiesta dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (vd. Cass. 16150/2018, 4676/2018, 1389/03) - dello svolgimento e della consistenza del lavoro straordinario rivendicato dal lavoratore, tenuto conto delle concordi testimonianze contrarie rese da tutti gli altri testimoni, i quali hanno riferito che l'orario di uscita dal lavoro del (...) era flessibile, in considerazione delle sue mansioni di autista e che si sottraeva alle richieste datoriali di svolgimento di mansioni diverse in ausilio agli altri lavoratori; il (...) cessava la sua giornata lavorativa a volte alle 16,00 a volte alle 16,30 (e comunque non si tratteneva mai al lavoro oltre le 17), altre volte addirittura saltava su sua richiesta la pausa pranzo per andare via alle 15,30 in quanto gestiva una pizzeria e aveva la necessità di accendere il forno in tempo per la sera. Tuttavia nel presente grado è stata disposta consulenza tecnica d'ufficio al fine di accertare l'orario di lavoro nei periodi per i quali sono stati acquisiti agli atti di causa le copie dei dischi cronotachigrafi (in parte prodotti dal lavoratore in allegato al ricorso, in parte prodotti dal datore di lavoro in parziale adempimento dell'ordine di esibizione del Tribunale), ovvero per i mesi da novembre 2013 a gennaio 2014. Dall'indagine peritale, mentre è rimasta confermata la notevole flessibilità dell'orario di lavoro, è emerso però che nel mese di novembre 2013 sono state svolte 5 ore e 30 minuti di lavoro straordinario, nel mese di dicembre 2013 2 ore e 45 minuti e nel mese di gennaio 2014 8 ore di straordinario per le quali non risulta alcuna remunerazione in busta paga. (...) le previsioni del (...) applicato al rapporto, come si evince dalla lettera di assunzione in atti, il valore della paga oraria desunta dalla busta paga (Euro 10,(...)) deve essere maggiorata del 35%, sicché sulla base delle condivisibili conclusioni del (...) deve essere riconosciuto un credito di Euro 226,51 in favore del lavoratore. Le brevi soste del mezzo rilevate dai dischi (30 e 45 minuti) sono state correttamente considerate dal CTU come destinate alle operazioni di carico e scarico e computate come orario di lavoro a tutti gli effetti, così come correttamente è stata computata l'ora della pausa pranzo nel caso in cui dai dischi si evince che questa non sia stata fruita. 9. Va invece rigettato il secondo motivo di appello, essendo pacifico che il ricorrente non abbia prodotto, nemmeno nel presente grado (né è stata avanzata istanza di autorizzazione alla produzione) il (...) contenente la disciplina dell'indennità di cassa. Come è noto il contratto collettivo di diritto comune ha efficacia negoziale e ciò comporta che ad esso non si applica il principio "iura novit curia" e che il contenuto del contratto stesso costituisca un fatto che la parte attrice ha l'onere di allegare tempestivamente, al pari di ogni altro elemento di fatto costitutivo del proprio diritto. Nel ricorso introduttivo, invece, il ricorrente non ha in alcun modo allegato la previsione contrattuale richiamata solo nel presente grado, limitandosi ad allegare il fatto di avere riscosso per conto della società i compensi delle forniture di gasolio quietanzando le fatture, circostanza smentita dalle dichiarazioni testimoniali di (...) e (...) addette all'amministrazione e alla contabilità aziendale, le quali hanno riferito che il pagamento avveniva prevalentemente mediante bonifici bancari, anche nel rispetto delle norme di legge sulle soglie dei pagamenti in contanti, effettuati solo occasionalmente, così come i pagamenti tramite assegni, da clienti anziani. 10. Parimenti va rigettato il terzo motivo di impugnazione, in difetto assoluto di prova della falsità della annotazione nelle buste paga, mai tempestivamente contestate dal lavoratore, di permessi in realtà non fruiti. Tutti i lavoratori sentiti quali testimoni hanno negato di essere mai stati indotti dal datore di lavoro a richiedere permessi non fruiti. Il raffronto tra le buste paga e i pochi dischi cronotachigrafi acquisiti agli atti di causa non consente di ritenere che la società adottasse una diversa condotta solo nei confronti del (...) 11. (...) di licenziamento invece è fondata. Il recesso del datore di lavoro è avvenuto per asserito giustificato motivo oggettivo, essendo così motivato: "(...) procedere ad un necessario riassetto organizzativo al fine di ottimizzare l'attività aziendale, la scrivente ha assunto la determinazione di rimodulare le attività di trasporto esercitate con riduzione degli addetti alle stesse attività. Alla luce di ciò e tenuto conto dell'impossibilità di altra collocazione lavorativa idonea per la sua professionalità, con la presente provvediamo a comunicarLe l'impossibilità a continuare ad avvalerci della sua opera". Il Tribunale ha ritenuto assolto l'onere della prova a carico del datore di lavoro in ordine alla sussistenza del giustificato motivo, in quanto le perdite subite nell'anno 2013, come documentate, suffragavano le dedotte necessità di riassetto organizzativo. E tuttavia in sentenza ha dato atto che al settore dell'attività di trasporto erano addetti anche altri due lavoratori, uno, (...) con maggiore anzianità dell'appellante, mentre l'altro, (...) veniva inizialmente impiegato "a chiamata" dal novembre 2013 e poi "stabilizzato" poco dopo il licenziamento dell'appellante. La nuova assunzione di altro lavoratore - a prescindere dal suo precedente inserimento in azienda con contratto intermittente già prorogato fino al giugno 2014 - dimostra la pretestuosità del motivo addotto quale giustificazione del licenziamento. (...) canto il vero motivo della risoluzione del rapporto, emerso in corso di causa, consisteva nel mancato possesso da parte di (...) della patente per il trasporto di merci pericolose, scaduta e non rinnovata a causa del mancato accordo tra le parti su chi dovesse sostenerne i costi, lavoratore o datore di lavoro. Tuttavia tale motivo non è stato formalizzato nella lettera di licenziamento che, come sopra riportato, ha indicato unicamente l'esigenza di "ridurre" gli addetti all'attività di trasporto, riduzione che di fatto non è avvenuta, essendo stato invece stabilizzato un altro lavoratore in precedenza assunto con le modalità del lavoro intermittente. Inoltre il datore di lavoro non ha adempiuto all'onere a suo carico di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni alle quali già lo aveva adibito, quale il trasporto dell'asfalto (vd. teste (...) teste (...) il quale peraltro ha dichiarato di svolgere in azienda sia mansioni di autista che di conducente di macchine operatrici, quali pale meccaniche, fresa, etc.; teste (...) che ha dichiarato di avere visto (...) anche condurre il bobcat; teste (...) che ha riferito che il (...) al bisogno, benché restio, conduceva anche il bobcat e la pala meccanica) o anche altro, "quello che serve nell'organizzazione giornaliera, perché poi insomma ogni giorno nasce un'esigenza diversa, quindi di norma l'autista perché portava il camion, però se poi in cantiere nasce un'esigenza di aiutare la squadra, di fare qualcos'altro, è una cosa che si deve fare" (vd. testimonianza di (...). (...) avrebbe potuto occuparsi nella pavimentazione stradale dell'aiuto "manuale con i rastrelli, con le pale, per fare le zone dove non arrivano le macchine", avrebbe potuto occuparsi della "scarifica della sede stradale prima della stesura del conglomerato" (vd. dichiarazioni teste (...) ma anche del teste (...). Anche la teste (...) ha dichiarato: "Da noi è così, se c'è da fare altro si deve fare altro, perché ovviamente siamo una piccola ditta" e con riferimento all'assunzione di (...) ha precisato che era stato assunto non solo per fare l'autista, ma anche altro, "un po' di tutto". Non rileva il fatto che i testimoni ((...) e (...) abbiano riferito che il lavoratore si rifiutava di fare altri lavori che gli venivano richiesti (anche la guida delle macchine operatrici) adducendo problemi fisici agli occhi e alla schiena, in quanto il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare che tali attività gli furono offerte come alternativa al licenziamento e ugualmente rifiutate. Pertanto la domanda di indennità risarcitoria proposta ai sensi dell'art. 8 legge 604/1966 deve essere accolta e considerata l'anzianità di servizio alla data del licenziamento (8 anni) e le dimensioni dell'azienda, costituita nel 1977, con duplice settore di attività, industriale e commerciale e con un numero medio di 15 dipendenti (come emerge dalla visura della (...) in atti) possono riconoscersi 5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto quale risulta dalla busta paga di gennaio 2014. 12. Il quinto motivo di appello può essere parzialmente accolto, essendo dovute le differenze sul TFR oggetto di decreto ingiuntivo, benché nei limiti delle differenze retributive riconosciute nella misura minima di Euro 226,51 a titolo di straordinario. Non può invece accogliersi nemmeno nel presente grado la domanda di risarcimento del danno per omessa contribuzione previdenziale corrispondente alle differenze retributive non corrisposte, stante l'evidente genericità della domanda stessa, non avendo l'appellante specificato il danno subito, che non può consistere nella mera omissione contributiva. 13. Il sesto motivo deve essere rigettato in quanto la formulazione della proposta conciliativa non può vincolare il giudice nella decisione finale, che deve essere esclusivamente basata sull'attenta valutazione dell'esito dell'istruttoria svolta. 14. (...) parziale del ricorso comporta la soccombenza della parte appellata che deve essere condannata al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi, come liquidate in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui al DM 55/2014 e del valore del decisum (da Euro 5.201,00 a 26.000,00). La parte soccombente deve sopportare anche le spese relative alla disposta (...) P.Q.M. La Corte, definitivamente decidendo, in parziale accoglimento dell'appello, riforma parzialmente la sentenza impugnata e per l'effetto dichiara l'illegittimità del licenziamento intimato a (...) da (...) S.r.l. e condanna quest'ultima al pagamento in favore dell'appellante dell'indennità risarcitoria corrispondente a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione. Condanna altresì (...) S.r.l. al pagamento in favore dell'appellante della somma di Euro 226,51 a titolo di straordinario e della conseguente differenza spettante sul (...) oltre interessi e rivalutazione monetaria. Condanna la società appellata al pagamento delle spese processuali, che liquida per il primo grado in Euro 3.000,00 e per il presente in Euro 3.500,00, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge, da distrarre in favore dell'avv. (...) Restano a carico della parte appellata le spese di CTU liquidate con separato decreto.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ETTORE CIRILLO Presidente MICHELE CATALDI Consigliere Rel. GIAN PAOLO MACAGNO Consigliere ALBERTO CRIVELLI Consigliere FEDERICO LUME Consigliere Oggetto: GIUDICATO-RIMBORSO- OTTEMPERANZA-INTERESSI ULTRADECENNALI- PRINCIPIO DI DIRITTO P.U. 07/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 4249/2022 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende. - ricorrente - contro INTESA SANPAOLO S.P.A. , rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Guglielmo Fransoni e dall’ Avv. Rossella Suraci, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma , via Crescenzio n.c. 2 , come da procura speciale in atti. - controricorrente - avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 534/2021, pronunciata in data 15 ottobre 2018 giugno 2021, depositata il s 2 luglio 2021 e non notificata. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7 maggio 2024 dal consigliere Michele Cataldi. Udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Alessandro Pepe, che ha chiesto accogliersi il secondo ed il terzo motivo di ricorso. Udito per la ricorrente l’avv. Barbara Tidoreper l’Avvocatura Generale dello Stato. Udito, per la controricorrente, l’avv. Paola Rossi, delegata dal Prof. Avv. Guglielmo Fransoni. FATTI DI CAUSA 1.Espone l’Agenzia delle entrate ricorrente che Intesa San Paolo s.p.a. ( incorporante per fusione della Banca Popolare dell'Adriatico s.p.a.) notificò il 6.3.2019 all'Agenzia delle Entrate atto di messa in mora, con il quale chiedeva l’esecuzione del giudicato di condanna al rimborso formatosi (in sede di secondo rinvio effettuato da questa Corte) sulla sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 715/04/2015 che, all’esito di un complesso e lungo iter giudiziario, aveva condannato l'Ufficio al pagamento, in favore della contribuente, della somma di € 1.250.153,65 a titolo di ritenute erroneamente versate, oltre agli "interessi legali" dalla data del 23.05.1996. In particolare, la società chiedeva nella messa in mora, in esecuzione del giudicato, l'erogazione del rimborso della sorte capitale, oltre agli interessi calcolati nella misura di € 939.444,00, comprensivi anche degli interessi ultradecennali. L'Agenzia delle Entrate rimborsò la sorte capitale e gli interessi ex art. 44 del d.P.R. n. 602 del 1973, calcolati in € 904.798,70, dandone previa comunicazione, in data 8 marzo 2019, alla banca contribuente. Quest’ultima, con comunicazione del 23 maggio 2019, ricevuto l'accredito del rimborso il 21 maggio 2019, chiese chiarimenti all'Ufficio in merito al calcolo degli interessi, ricevendo nello stesso giorno la risposta che il computo era stato effettuato ai sensi del ridetto art. 44. La contribuente propose quindi reclamo ai sensi dell'art. 17-bis del d.Lgs. n. 546 del 1992, impugnando un ravvisato rifiuto di rimborso dell'Agenzia, a seguito di atto di messa in mora e di solo parziale adempimento del giudicato di condanna, lamentando l’ erroneo calcolo, da parte dell'Ufficio, degli interessi spettanti sul rimborso riconosciuto dalla sentenza irrevocabile, con riferimento alla mancata corresponsione degli interessi ultradecennali di cui all'art. 1, comma 139, della legge n. 244 del 2007, a suo dire dovuti ed ammontanti ad € 34.645,85. Conclusa senza esito positivo la fase della mediazione, la società propose ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Teramo, impugnando il rifiuto del rimborso di una parte degli interessi maturati sul credito da rimborsare. L’adita CTP accolse il ricorso. Interposto appello dall’Ufficio, la Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, con la sentenza qui impugnata, lo ha rigettato. Propone ricorso per cassazione l’ Ufficio, affidandolo a quattro mezzi. La contribuente si difende con controricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia deduce « Nullità della sentenza per motivazione contraddittoria in violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., e 111, comma 6, Cost.), in relazione all' art. 360, n. 4, c.p.c.». Assume infatti l’Amministrazione che la sentenza impugnata, dopo aver rilevato che «il dispositivo della decisione della Commissione tributaria regionale dell'Aquila n. 715/2015 non stabiliva l'esatto importo degli interessi dovuto, lasciando così discrezionalità all'Ufficio,discrezionalità che deve essere eccepita, se la si assume errata, avanti la giurisdizione tributaria», ha tuttavia ritenuto di individuare un diniego tacito di rimborso di parte degli interessi, ed in particolare di quelli ultradecennali, pur se il relativo adempimento non era imposto dalla stessa sentenza ed era stato richiesto da controparte solo con l'atto di messa in mora. La motivazione sarebbe quindi contraddittoria, poiché, con riferimento al calcolo degli interessi, o non vi era alcun obbligo derivante dalla sentenza, con conseguente inconfigurabilità di un diniego tacito; oppure la spettanza degli interessi nella misura richiesta dalla banca derivava direttamente dalla sentenza, con conseguente obbligo di attivare il giudizio di ottemperanza, per mancata corretta esecuzione del giudicato. 2.Con il secondo motivo, l’Agenzia deduce « Violazione e falsa applicazione dell'art. 70 del D.Lgs n. 546/1992 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4), с.p.c.». Sostiene la ricorrente chela contribuente - che a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della CTR dell’Abruzzo n. 715/04/2015 aveva infatti dato avvio ai prodromi del giudizio di ottemperanza, notificando formale atto di messa in mora dell'Agenzia delle Entrate- avrebbe potuto ottenere l’esatta esecuzione della condanna, a suo dire comprensiva degli interessi ultradecennali controversi, incardinando il giudizio di ottemperanza, funzionalmente competente all’attuazione degli obblighi effettivamente derivanti dalla sentenza irrevocabile. 3.Con il terzo motivo, l’Agenzia deduce « Violazione e falsa applicazione degli artt. 18, 19 e21 del D.Lgs. n. 546/1992 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3)., с.p.c.». Assume la ricorrente che, comunque, il giudizio tributario di merito non avrebbe potuto essere incardinato, non essendo ipotizzabile un rifiuto, espresso o tacito, del rimborso degli interessi in questione, in difetto di un'istanza di rimborso rispetto alla quale tale diniego potesse essere configurato. 4.Va premessa l’ammissibilità dei primi tre motivi di ricorso e l’interesse, sostanziale e processuale, della ricorrente Agenzia rispetto all’impugnazione. Gli stessi motivi, per la loro connessione, vanno trattati congiuntamente e sono fondati, nei termini che si diranno. Occorre muovere dalla premessa, pacifica, che gli interessi ultradecennali richiesti dalla contribuente, della cui applicazione si controverte, sarebbero maturati nel periodo compreso tra 1 gennaio 2008 e 29 gennaio 2009 (cfr. controricorso, pag. 3). Altrettanto pacifico è che la sentenza di merito passata in giudicato (come dedotto da ambedue le parti), recante la condanna dell’Amministrazione al pagamento della sorte del rimborso e degli « interessi legali a far data dal 23.05.1996» (cfr. controricorso, pag. 3), è stata pubblicata nel 2015. Pertanto, prima che maturasse il giudicato de quo, ovvero nella pendenza del giudizio che ha condotto alla sentenza irrevocabile, era non solo entrata in vigore, ed era anche stata successivamente abrogata, la norma (l'art. 1, comma 139, della legge n. 244 del 2007) sulla quale la debenza degli stessi interessi si fondava (cfr. Cass. Cass. 20/10/2021, n. 29237; Cass. 02/11/2022, n. 32271), ma erano anche in fatto maturati gli accessori dei quali si controverte. Pertanto, la pretesa degli interessi, maturati in fatto prima della sentenza irrevocabile, avrebbe potuto e dovuto trovare legittimo ingresso, anche a titolo di ius superveniens -invocabile peraltro nel giudizio di legittimità (ex plurimis Cass. 24/07/2018, n. 19617) ed in quello di rinvio (ad es. Cass. 26/08/2022, n. 25414)- prima della formazione del giudicato, ovvero nell’ambito del giudizio concluso con la sentenza di merito (appunto la n. 715/04/2015 della CTR dell’Abruzzo) che, su domanda della contribuente fondata sull’identica causa petendi restitutoria, ha accertato definitivamente an e quantum complessivo del rimborso spettante alla contribuente. Successivamente, a fronte del giudicato formatosi sull’obbligazione di rimborso, ogni diverso e successivo esercizio della medesima pretesa da parte della contribuente, avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi, nella sede giudiziaria, di fronte all’evidenza di un inammissibile bis in idem, a fronte di un giudicato esterno pacifico e rilevabile d’ufficio (Cass.16/11/2021, n. 34662; Cass. 21/04/2022, n. 12754; Cass., Sez. U, 16/06/2006, n. 13916), risultante, sin dal giudizio di merito, in re ipsa, dalla mera ricostruzione fattuale della fattispecie concreta de qua. Giudicato destinato, peraltro, a coprire, in relazione all’identità della causa petendi (il titolo del rimborso) e del petitum (la somma complessiva da rimborsare) non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia (giudicato implicito). Questa Corte, in materia di accessori, ne ha tratto ad esempio la conseguenza che, qualora si sia formato il giudicato sul debito relativo agli accessori da ritardata corresponsione di una prestazione, resta preclusa una nuova domanda di riliquidazione della prestazione medesima, ancorché fondata su ragioni non dedotte - ma tuttavia deducibili- nel precedente giudizio (cfr. Cass. 11/04/2008, n. 9544. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudicato sugli accessori da ritardata corresponsione del TFR preclude la domanda di riliquidazione del TFR). Ancora, in tema di ammissione al passivo fallimentare, questa Corte ha ritenuto che «L'ammissione tardiva al passivo rappresenta, al pari di quella ordinaria, una fase del medesimo procedimento giurisdizionale, sicché le determinazioni prese in tale ultima sede hanno valore di giudicato interno rispetto alla domanda tardiva, la quale, pertanto, deve avere ad oggetto un credito del tutto diverso - sia per "petitum" che per "causa petendi" - da quello già ammesso, coprendo il giudicato endofallimentare sia il dedotto che il deducibile. (Nella fattispecie, la S.C. ha escluso l'ammissibilità della domanda tardiva relativa agli interessi sul capitale richiesto in sede ordinaria, avendo le due pretese la medesima "causa petendi").» (Cass. 19/02/2003, n. 2476). In particolare, quest’ultimo arresto ha chiaramente argomentato come la domanda relativa agli accessori non possa, al fine della sua ammissibilità, dirsi nuova, rispetto a quella sulla sorte, solo perché il credito per gli interessi non è privo di autonomia. Infatti, « Non vi è dubbio che, una volta sorte, tali prestazioni pecuniarie passano perdere il collegamento, che le caratterizza, con il eredito principale, cui sono legate inscindibilmente nel solo momento genetico, e possano, perciò, avere sorte diversa [….] Ciò che interessa nella chiave prospettica in esame è, però, altro aspetto, e cioè la loro accessorietà al credito per il capitale, che ne rappresenta la connota- zione tipica, che è requisito che scaturisce dall'unicità del titolo da cui entrambi provengono, che rende i due crediti omogenei, e che, in chiave processuale, determina la condivisione della medesima causa petendi, e costituisce un elemento di unificazione fra le due obbligazioni, più intenso del vincolo di accessorietà […] Se, dunque, il creditore ha facoltà di agire separatamente per l'uno e per gli altri, o sinanche di rinunciare agi accessori, questo non significa che, se propone domande giudiziali separate, queste non abbiano in comune siffatto elemento. Ciò solo basta ad escludere il requisito della novità in discussione.» (Cass. 19/02/2003, n. 2476, in motivazione). Nello stesso senso, in tema di rimborso d’imposta, in una fattispecie nella quale parte contribuente lamentava che nella sentenza passata in giudicato ed ottemperata erano stati liquidati accessori in misura inferiore a quella dovuta, questa Corte, facendo riferimento al principio secondo cui il giudicato si estende anche al deducibile, ha considerato che «non assume rilievo alcuno il fatto che la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di ottemperanza potesse non comprendere alcuni altri obblighi che erano stati pretermessi per errore, dovendosi considerare che il giudicato compre il dedotto ed il deducibile. Va peraltro considerato che la ricorrente, qualora avesse inteso frazionare il credito proponendo una domanda limitata ad una sola parte degli interessi, avrebbe dovuto non solo esporre le ragioni dell'apprezzabilità dell'interesse a conseguire solo parte del credito ma avrebbe dovuto anche formulare espressa riserva di far valere le ulteriori ragioni ( cfr. Cass. n. 28964 del 4/12/2017 e Cass. n. 4090 del 16/2/2017 )» (Cass. 13/12/2018, n. 32259). Nel caso di specie, non è stato dedotto che tale riserva sia stata formulata. In questo senso, del resto, depone la stessa iniziativa originaria della contribuente, che come risulta per tabulas (cfr. riproduzione della messa in mora a pag. 14 del ricorso; v. controricorso, pag. 3), il 6.3.2019 ha notificato all’Agenzia un atto di intimazione nel quale, inequivocabilmente, (anche) l’adempimento degli interessi in questione era individuato espressamente come oggetto della condanna portata dalla sentenza n. 715/04/2015 della CTR dell’Abruzzo ed era richiesto meramente a titolo di attuazione del giudicato formatosi su quest’ultima decisione, preannunciando, in difetto, il ricorso al giudizio dell’ottemperanza. 4.1.Essendo pertanto maturato il giudicato (sul dedotto e sul dedubile) nell’ambito del procedimento nel quale gli interessi ultradecennali avrebbero potuto e dovuto essere dedotti dalla parte contribuente, l’unica ammissibile questione che poteva porsi, in ordine agli accessori controversi, era quella relativa alla loro inclusione (come la società sosteneva nella messa in mora), o meno, nella condanna dell’Amministrazione al rimborso, divenuta irrevocabile. E la sede deputata dall’ordinamento per tale verifica (anche a fronte di un’eventuale istanza extraprocessuale del creditore, sia pur fondata sulla sentenza passata in giudicato, che costituisce semplice sollecito al debitore ad adempiere al relativo obbligo: Cass. 24/10/2008, n. 25669) è quella del giudizio di ottemperanza, al quale non a caso la stessa contribuente aveva preannunciato di voler accedere. Infatti, sussisteva non solo il presupposto del passaggio in giudicato della sentenza da ottemperare, ma anche quello del contenuto condannatorio della decisione sul rimborso spettante al contribuente (cfr , ex plurimis, Cass. 19/10/2018, n. 26433; Cass. 18/12/2013, n. 28286). La circostanza, poi, che, come afferma la CTR, « il dispositivo della decisione della Commissione tributaria regionale dell'Aquila n. 715/2015 non stabiliva l'esatto importo degli interessi dovuto, lasciando così discrezionalità all'Ufficio, discrezionalità che deve essere eccepita, se la si assume errata, avanti la giurisdizione tributaria», non è innanzitutto condivisibile in generale nella premessa, non apparendo conciliabile la natura di condanna della decisione irrevocabile con l’ assunta discrezionalità della parte condannata nella determinazione dell’oggetto del comando giudiziale. E comunque, la pretesa indeterminatezza (secondo la CTR non della specie degli interessi o del loro tasso o della loro decorrenza, ma) dell’ “esatto importo degli interessi dovuto” non era affatto ostativa al ricorso al giudizio di ottemperanza, ed anzi evidenziava una tipica fattispecie nella quale (rimanendo alle premesse della CTR), quest’ultimo si rendeva necessario. Invero, per giurisprudenza consolidata, «In materia tributaria il giudizio di ottemperanza è ammissibile anche a fronte di comandi privi dei caratteri di puntualità e precisione propri del titolo esecutivo in quanto tale giudizio presenta connotati diversi dall'esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile, perché il suo scopo non è quello di ottenere l'esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione, bensì quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti gli accertamenti indispensabili a delimitare l'effettiva portata precettiva della sentenza della quale si chiede l'esecuzione. (Fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto ammissibile, in applicazione del principio, il ricorso al giudice dell'ottemperanza a fronte di una pronuncia che riconosceva il diritto al rimborso del contribuente, senza provvedere alla sua quantificazione).» (Cass. 20/06/2019, n. 16569). Pertanto nel giudizio di ottemperanza, attraverso il potere del giudice sul comando definitivo inevaso, esercitato entro i confini invalicabili posti dall'oggetto della controversia definita col giudicato, può essere enucleato e precisato il contenuto degli obblighi nascenti dalla decisione passata in giudicato, chiarendosene il reale significato e rendendolo quindi effettivo (Cass. 29/05/2019, n. 14642). Infatti, Il giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalle sentenze della commissione tributaria ha una duplice natura, di merito, in quanto volto ad individuare gli obblighi contenuti nella sentenza, e di esecuzione, in quanto volto ad adottare i provvedimenti in sostituzione dell'Amministrazione finanziaria inadempiente (Cass. 12/04/2019, n. 10299).Nella sostanza, dunque , in tema di contenzioso tributario, il giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalle sentenze delle commissioni tributarie, disciplinato dall'art. 70 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, presenta connotati diversi dal corrispondente e concorrente giudizio esecutivo civile, perché il suo scopo non è quello di ottenere l'esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione passata in giudicato, bensì quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti quegli accertamenti indispensabili a delimitare l'effettiva portata precettiva della sentenza di cui si chiede l'esecuzione (Cass. 18/01/2012, n. 646). Con specifico riferimento alla materia degli interessi, peraltro, questa Corte ha affermato che «In tema di giudizio di ottemperanza alle decisioni delle Commissioni Tributarie, la domanda di corresponsione degli interessi ad un tasso maggiore di quello applicato dal commissario "ad acta" deve ritenersi attinente all'esecuzione del giudicato, ove questo si sia formato su una domanda avente ad oggetto, oltre che la restituzione di somme indebitamente versate (nella specie, per maggiore imposta IRPEG e ILOR), il pagamento degli interessi legali maturati e maturandi, atteso che scopo del giudizio di ottemperanza non è quello di ottenere l'esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione passata in giudicato, ma quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti gli accertamenti indispensabili a delimitare l'effettiva portata precettiva della sentenza di cui si chiede l'esecuzione» (Cass. 12/09/2012, n. 15246). La sentenza ora impugnata, pertanto, ha errato nel ritenere che, poiché « il dispositivo della decisione della Commissione tributaria regionale dell'Aquila n. 715/2015 non stabiliva l'esatto importo degli interessi dovuto», la sentenza passata in giudicato da un lato non avrebbe potuto essere oggetto di un giudizio di ottemperanza, come eccepito dall’Ufficio; dall’altro avrebbe consentito alla stessa Amministrazione una discrezionale quantificazione degli interessi in sede di adempimento del giudicato, con la conseguente ammissibilità di un ulteriore giudizio, destinato ad avere per oggetto pretese che solo nell’ambito del precedente giudizio, concluso con la sentenza irrevocabile (il cui giudicato copre il dedotto ed il deducibile), avrebbero potuto legittimamente trovare ingresso. 4.2.Tirando quindi le fila delle argomentazioni sinora esposte, deve rilevarsi che l’atto della contribuente di messa in mora propedeutico al giudizio di ottemperanza ( nel quale gli interessi di cui si discute erano indicati come oggetto della condanna irrevocabile già emessa e da attuare) e la successiva istanza del creditore ( di sollecito al debitore ad adempiere interamente al relativo obbligo) non possono configurare, nel caso di specie, istanze di rimborso atte a determinare un silenzio-rifiuto, o un rigetto, dell’Amministrazione idoneo ad essere impugnato ed a generare l’introduzione di un nuovo ed autonomo giudizio (non di ottemperanza), che abbia per oggetto componenti dell’importo da rimborsare maturate prima che si formasse il relativo giudicato di condanna. Il quale giudicato, comunque, estendendosi agli accessori in questione, in quanto nel relativo procedimento deducibili, preclude l’introduzione, da parte della contribuente, di un nuovo ed autonomo giudizio che abbia per oggetto la medesima pretesa, già accertata nei suoi componenti. Ove poi la contribuente intenda sostenere che gli accessori controversi, trovando a suo dire titolo nel giudicato di condanna già formatosi, debbano concorrere a determinare il quantum della condanna da attuare, a fronte dell’inadempimento (totale o parziale) dell’Amministrazione, la sede nella quale rendere effettivo il comando giudiziale, compiendo tutti gli accertamenti indispensabili a delimitare l'effettiva portata precettiva della sentenza di cui si chiede l'esecuzione, è quella del giudizio di ottemperanza (non a caso, infatti, preannunciato dalla messa in mora iniziale della contribuente), non anche quella di un nuovo ed autonomo giudizio che abbia per oggetto la medesima fattispecie coperta dal giudicato sul dedotto e sul deducibile. Ognuna di tali considerazioni rende pertanto inammissibile il giudizio di merito che ha generato la sentenza qui impugnata, che va quindi cassata senza rinvio, ai sensi dell’art.382, co.3, ultimo periodo, cod. proc. civ. In conclusione, può affermarsi il seguente principio: «Gli interessi ultradecennali di cui all'art. 1, co. 139, l. n. 244/2007, dovuti limitatamente al periodo compreso tra l’entrata in vigore (1 gennaio 2008) e l’abrogazione (29 gennaio 2009) di tale norma, ove siano maturati, e perciò deducibili, nel corso del giudizio che abbia condotto al giudicato di condanna dell’Amministrazione al rimborso domandato senza riserve dal contribuente, non possono essere oggetto ammissibile di un successivo ed ulteriore autonomo giudizio, neppure se introdotto dal contribuente a seguito del sollecito all’Ufficio debitore ad adempiere al relativo obbligo, restando rimessa al giudizio di ottemperanza la delimitazione dell'effettiva portata precettiva della sentenza passata in giudicato e da attuare.». 5.Resta assorbito il quarto motivo, con il quale la ricorrente denunzia «Violazione e/o falsa applicazione dei commi 139, 140 e 140-bis dell'art. 1 della legge n. 244/2007, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.». 6.Le spese di legittimità seguono la soccombenza e quelle di merito si compensano. P.Q.M. Accoglie il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso e, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata. Condanna la controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 maggio 2024. Il Consigliere est. Il Presidente Dott. Michele Cataldi Dott. Ettore Cirillo
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI CATANIA in persona del giudice unico, dott.ssa (...) in funzione di giudice del lavoro, all'esito dell'udienza del 12.2.2024, sostituita ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G. (...)/2020, promossa da (...) ((...)), rappresentato e difeso, come da procura in atti, dall'Avv. (...) -ricorrente contro (...) S.R.L. ((...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in atti, dall'Avv. (...) -resistente e nei confronti di (...) - (...) ((...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per procura generale alle liti dall'Avv. (...) -litisconsorte necessario Oggetto: regolarizzazione della posizione contributiva; risarcimento del danno per omissione contributiva; Conclusioni: come da ricorso, da memorie di costituzione e da note sostitutive dell'udienza ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con ricorso depositato in data (...) ha adito l'intestato Tribunale esponendo di aver lavorato alle dipendenze della (...) s.r.l. a far data dall'1.7.2019 in virtù di un contratto di lavoro a tempo determinato con scadenza il (...), successivamente prorogato fino al (...), con mansione di autista e inquadramento al livello (...) del (...) che la ditta datoriale ha versato contributi previdenziali soltanto in relazione a due settimane lavorative a fronte di ventisei settimane lavorate; di aver diffidato con lettera dell'8.6.2020 la società convenuta ai fini della corresponsione di quanto dovuto a titolo di TFR oltre ai contributi previdenziali non versati, senza ottenere alcun riscontro. Ha assunto di avere diritto al versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro nonché al risarcimento dei danni per omissione contributiva, chiedendo quindi accogliersi le seguenti conclusioni: "- ritenere e dichiarare dovuti dalla ditta "(...) s.r.l." con sede (...) P.Iva: (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, i residui contributi previdenziali in favore del ricorrente, sig. (...) pari a 26 mensilità; - conseguentemente, ordinare alla società resistente, in personale del legale rapp.te pro tempore, il versamento all'(...) chiamato a riceverli, dei contributi maturati e non versati; - condannare la società "(...) s.r.l." al risarcimento del danno, in favore del ricorrente, per mancata contribuzione di previdenza, da quantificarsi in via equitativa in Euro 1.000,00 od altra somma ben visa dal sig. Decidente. Con vittoria di spese e compensi da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore antistatario il quale dichiara di aver anticipato le spese e non percepito onorari". Con memoria difensiva depositata in data (...) si è costituita in giudizio la società (...) s.r.l. eccependo in via preliminare l'improcedibilità del ricorso ex art 443 c.p.c. Nel merito, ha dedotto di essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali nei confronti degli enti competenti per il periodo ricompreso tra l'8.4.2019 e il (...) nonché tra l'8.8.2019 e il (...), come risultante dal (...) prodotto in atti. Ha poi precisato di avere già corrisposto al ricorrente le differenze retributive spettanti a titolo di TFR e competenze finali, così come riconosciutegli dall'intestato Tribunale con decreto ingiuntivo n. 1063/2020, emesso nell'ambito del procedimento n. (...)/2020 R.G. Pertanto, ha formulato le seguenti conclusioni: "nel rito: - in via preliminare, accertare e dichiarare l'improcedibilità della domanda avversaria e, per l'effetto, sospendere il presente giudizio ai sensi dell'art. 443 c.p.c., fissando per il ricorrente termine per la presentazione del ricorso amministrativo disciplinato dalla legge 9/03/1989 n. 88; - nel merito, accertare e dichiarare l'assoluta infondatezza di tutte le pretese del ricorrente per i motivi sopra dedotti e, per l'effetto, disporne l'integrale rigetto. Con vittoria di spese ed onorari del procedimento, da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario". Con memoria depositata in data (...) si è costituito in giudizio l'(...) dichiarando di avere interesse alla chiesta pronuncia in relazione alla regolarizzazione assicurativa e previdenziale del rapporto di lavoro e formulando le seguenti conclusioni: "(...) il Tribunale di Catania, (...) lavoro adito, disattesa e rigettata ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, pronunciarsi sulla fondatezza o meno della domanda attrice riguardante la regolarizzazione assicurativa e previdenziale, ritenendo, dichiarando ed accertando - nel caso di accoglimento - la relativa retribuzione imponibile, il periodo di competenza, il (...) applicabile secondo i criteri prescritti dall'art. 1 d.l. n. 338/1989 conv. in legge n. 389/1989. Con il favore di spese ed onorari di causa a carico di chi di ragione, come per legge". All'esito dell'udienza di discussione del 12.2.2024 sostituita dal deposito di note scritte ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., sulle conclusioni rassegnate da parte ricorrente come da note in atti, la causa è stata trattenuta per la decisione e viene quindi definita nei termini che seguono. 2. In via preliminare, deve ritenersi infondata l'eccezione di parte resistente di improcedibilità ex art. 443 c.p.c., considerato che l'oggetto della domanda esula dall'ambito applicativo della norma e non riguarda la pretesa del privato rivolta nei confronti di un ente previdenziale o assistenziale, bensì la pretesa rivolta al proprio datore di lavoro di regolarizzazione della posizione contributiva; né, ad ogni modo, sussiste una legge speciale che prescrive nel caso di specie l'attivazione di alcun procedimento amministrativo, come richiesto dallo stesso art. 443 c.p.c. 3. Ciò posto, oggetto del presente giudizio è, in primo luogo, l'accertamento dell'inadempimento da parte della (...) s.r.l. dell'obbligo di versare i contributi all'(...) in relazione al rapporto di lavoro subordinato intercorso con l'odierno ricorrente. In base alle regole generali in tema di inadempimento contrattuale spetta al creditore allegare l'inadempimento e al debitore dimostrare invece di avere adempiuto. È pacifico in quanto non contestato dalla società resistente che il ricorrente abbia lavorato alle dipendenze della stessa in virtù di un contratto di lavoro a tempo pieno e determinato dall'1.7.2019 al 30.9.2019 (doc. 1 parte ricorrente), successivamente prorogato fino al 31.12.2019 (doc. 2 parte ricorrente), con la mansione di autista ed inquadramento al livello (...) del (...) Ebbene, all'allegazione puntuale dell'inadempimento di parte datoriale, consistito nell'avere versato contributi soltanto per due settimane lavorative a fronte di ventisei settimane lavorate (doc. 3 parte ricorrente nonché produzione (...) estratto contributivo), non è conseguita la prova contraria del corretto adempimento da parte dell'odierna resistente. Invero, quest'ultima si è limitata a produrre il (...) di (...) richiesto in data (...), 8.8.2019 e 6.12.2019 (doc. 2 parte resistente) senza tuttavia dimostrare di aver versato i contributi riferiti al rapporto di lavoro per cui è causa. Se, per un verso, il predetto documento attesta, per quanto qui d'interesse, la regolarità contributiva dell'impresa fino al 31.10.2019 (cfr. art. 3 del decreto del (...) del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il (...) dell'economia e delle finanze e il (...) per la semplificazione e la pubblica amministrazione, del 30 gennaio 2015, ai sensi del quale "La verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti dall'impresa in relazione ai lavoratori subordinati (?) scaduti sino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive"), per altro verso, dall'esame della ulteriore documentazione in atti risulta una incongruenza tra il periodo in cui il ricorrente ha lavorato alle dipendenze della società resistente, come allegato in ricorso e non contestato, (pari a circa 26 settimane cfr. doc. 1, 2 e 4 parte ricorrente) e quello risultante dall'estratto contributivo e in relazione al quale sono stati versati i relativi contributi (pari a 2 settimane cfr. doc. 3 parte ricorrente). Al riguardo, deve evidenziarsi che la valenza probatoria dell'estratto contributivo nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro si presta ad essere valutata in base alle regole generali in materia di prove documentali, nel senso che, una volta che il fatto rappresentato dal documento sia pacifico, nessuna ragione giustifica il disconoscimento del valore probatorio del documento e la sua degradazione ad elemento di natura indiziaria o, addirittura, la negazione completa del valore probatorio stesso. (...) canto, risulta irrilevante quanto dedotto dalla parte datoriale in ordine all'avvenuto pagamento degli emolumenti spettanti al ricorrente a titolo di TFR e competenze di fine rapporto, esulando tali spettanze dall'oggetto del presente giudizio. Alla luce di tali rilievi, dunque, sul punto il ricorso è fondato e va accolto con conseguente condanna della (...) s.r.l. al versamento della contribuzione omessa, per il periodo di durata del rapporto di lavoro come indicato in atti, detratte le eventuali somme già corrisposte per le settimane di lavoro risultanti dall'estratto contributivo, oltre accessori come per legge. 4. Parte ricorrente ha chiesto, altresì, l'accertamento del proprio diritto al risarcimento del danno ex art. 2116, comma 2, c.c., in ragione della omissione contributiva, da quantificarsi in via equitativa in Euro 1.000,00. La domanda è infondata per le ragioni che seguono. In materia di omessa o irregolare contribuzione, l'art. 2116, comma 2, c.c. prevede espressamente la responsabilità dell'imprenditore per il danno cagionato al prestatore di lavoro nel caso in cui "le istituzioni di previdenza e di assistenza (...) non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute". La ratio di tale disposizione si rinviene nell'esigenza di tutelare il lavoratore dai possibili pregiudizi patrimoniali derivanti dalla omissione della contribuzione da parte del datore di lavoro. In particolare, tali pregiudizi possono consistere nella perdita totale o parziale della prestazione previdenziale pensionistica - danno che si verifica al momento del raggiungimento dell'età pensionabile - ovvero nella necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "In tema di omissioni contributive, l'azione attribuita al lavoratore dall'art. 2116 c.c. per il conseguimento del risarcimento del danno patrimoniale - consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante - presuppone che siano maturati i requisiti per l'accesso alla prestazione previdenziale e postula l'intervenuta prescrizione del credito contributivo; ne consegue che prima del perfezionamento dell'età pensionabile, in presenza di diritti non ancora entrati nel patrimonio del creditore, sussiste l'impossibilità di disporre validamente della posizione giuridica soggettiva inerente al diritto al risarcimento del danno pensionistico" (Cass. n. 15947/2021). Il presupposto dell'azione risarcitoria attribuita al lavoratore dall'art. 2116 c.c. è, dunque, costituito dall'intervenuta maturazione dei requisiti per il trattamento pensionistico e la prescrizione del credito contributivo, poiché, una volta che si siano realizzati i requisiti per l'accesso alla prestazione previdenziale, tale situazione determina l'attualizzarsi per il lavoratore del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante (Cass. n. 27660/2018). Ora, nel caso di specie per un verso il lavoratore non ha allegato di avere raggiunto i requisiti per accedere alla pensione e, per altro verso, tenuto conto della data di notifica del ricorso introduttivo del presente giudizio all'(...) (6.7.2020), non è maturata la prescrizione quinquennale dei contributi omessi dal datore di lavoro. Ne consegue che non sussistono i presupposti per l'azione risarcitoria in parola e la relativa domanda non può essere accolta. 5. Le spese di lite seguono la soccombenza nei rapporti tra parte ricorrente e la società (...) s.r.l. e, liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55/2014 (modificato dal d.m. n. 147/2022), vanno poste a carico della società resistente con distrazione ex art. 93 in favore del procuratore del ricorrente. Le fasi processuali liquidate sono quelle di studio, introduttiva e decisionale. Quanto al valore della causa deve farsi applicazione della regola del "valore effettivo della controversia" di cui all'art. 5, comma 1, del d.m. n. 55/2014. Sebbene la parte ricorrente abbia quantificato la propria domanda come di valore indeterminabile, il relativo parametro tabellare di riferimento per la determinazione del compenso appare non coerente rispetto alla modesta complessità in diritto dell'attività difensiva svolta, sicché risulta proporzionato, per le ragioni sopra esposte, il parametro tabellare riferito alle controversie da Euro 5.200,01 ad Euro 26.000,00 (cfr. Cass. nn. 29821/2019 e 10438/2023), in rapporto ai valori minimi. Deve invece disporsi la compensazione delle stesse nei rapporti tra l'(...) e le altre parti, in considerazione della posizione processuale dell'(...) previdenziale, terzo litisconsorte necessario, che non ha proposto domande nei confronti delle parti del presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale di Catania, in persona della giudice dott.ssa (...) in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. (...)/2020 R.G. così statuisce: accerta il diritto di (...) al versamento dei contributi omessi in relazione allo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze della (...) s.r.l. nel periodo dal 1.7.2019 al 31.12.2019; condanna la (...) s.r.l. a versare all'(...) i contributi omessi relativamente al suddetto rapporto di lavoro, detratte le eventuali somme già versate per le settimane di lavoro risultanti nell'estratto conto previdenziale, oltre interessi come per legge; rigetta nel resto il ricorso; condanna la (...) s.r.l. alla rifusione delle spese di lite in favore di (...) che liquida in complessivi Euro 1.863,50 per compensi, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge, disponendone la distrazione in favore dell'avvocato (...) dichiaratosi antistatario; compensa le spese nei rapporti tra l'(...) e le altre parti. Così deciso in Catania il 6 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO di ANCONA PRIMA SEZIONE CIVILE La Corte, così composta Dr. Gianmichele Marcelli - Presidente Dr. Piergiorgio Palestini - Consigliere Dr. Cesare Marziali - Cons. Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 1023/2022 promossa da: (...) (C.F.(...) con il patrocinio dell'avv. (...) elettivamente domiciliato in CORSO (...) presso il difensore avv.(...) Reclamato - ricorrente in riassunzione contro (...) (C.F.(...) con il patrocinio dell'avv.(...) elettivamente domiciliato in (...) presso il difensore avv.(...) Reclamante E con l'intervento necessario del PM CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE (...) ha riassunto ai sensi dell'art. 392 c.p.c. e ss. dinanzi a questa Corte d'Appello di Ancona in diversa composizione, il procedimento di reclamo n. R.G. 566/2018 che era stato a suo tempo proposto dalla controparte(...) Cenni alla vicenda processuale Il Tribunale di Macerata ha condannato (...) a pagare in favore della ex moglie (...) l'importo di Euro 21,893,76, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, quale quota di TFR a quest'ultima spettante, revocando però l'assegno divorzile di Euro 270,00, posto a carico di (...) dalla sentenza che aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili dei matrimonio, a decorrere dalia domanda giudiziale formulata in via riconvenzionale da quest'ultimo. Con sentenza n. 1186/2019, depositata il 17/07/2019; la Corte d'appello di Ancona, accogliendo l'appello proposto da (...) contro la decisione, ha condannato (...) a versarle il maggiore importo di Euro 66.545,10, computando le ulteriori somme percepite da quest'ultimo in corso dì causa, sempre a titolo di TFR, e ha ripristinato l'obbligo dell'appellato di corresponsione dell'assegno divorzile. La Corte di Cassazione, investita della questione relativa alla correttezza della valutazione giuridica operata dalla Corte d'Appello sulle reciproche situazioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi, affermava, fra l'altro : 1) Diversamente dalle censure proposte su un asserito miglioramento della situazione economica della (...) con riferimento, invece, al dedotto peggioramento delle condizioni economiche del ricorrente, ne appariva fondata la sussistenza. 2) In particolare, il ricorrente ha affermato di avere prodotto le dichiarazioni dei redditi dell'attuale moglie già al doc. 18 del fascicolo di primo grado, evidenziando che dal 2013 ai 2016 si era verificato un progressivo calo del reddito della stessa (nel 2016, Euro 441,00 mensili), tale da imporre al ricorrente di contribuire al suo mantenimento. La documentazione fiscale, dunque, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, era stata acquisita al processo e offerta al contraddittorio delle parti. 3) La Corte di appello ha omesso di considerare la fondamentale circostanza della cronicità delle patologie del ricorrente, dedotta e documentata nel corso del giudizio, decisiva ai fini della statuizione sull'assegno divorzile, in quanto comportante spese mediche continuative, suscettibili di incidere sulle disponibilità economiche del medesimo. Anche in ordine a tale aspetto, la decisione andava cassata. 4) Per quanto invece riguarda il tfr, non incide sulla spettanza della quota dello stesso la proposizione della domanda di revoca dell'assegno divorzile, dopo che sia maturato il diritto a tale trattamento, e cioè dopo che sia cessato il rapporto di lavoro - poiché, anche considerando il possibile accoglimento di tale domanda con effetto dalla data della sua proposizione, comunque tale effetto è successivo al momento in cui è maturato il diritto al trattamento di fine rapporto. Nel caso di specie, nella decisione impugnata si legge con chiarezza che l'intimata, titolare di assegno divorzile, ha chiesto la corresponsione della quota del trattamento di fine rapporto, maturata dal marito dopo la pronuncia di divorzio. Questa Corte, quale Giudice del rinvio, deve procedere ad applicare, nel merito, le regole esposte dalla Cassazione. Si ricava agevolmente che - Deve essere confermata la sentenza di primo grado nella misura in cui dispone il diritto al tfr, per le ragioni esposte sopra, punto 4) - Circa la valutazione dell'impatto delle mutate condizioni economiche da parte del reclamato, occorre dire che da un lato l'assegno di divorzio appare modesto in senso assoluto, mentre è più che modesto in senso relativo rispetto alle capacità reddituali del reclamato. - Risulta agli atti e non è in contestazione Che questo è il quadro economico complessivo valutato dalla stessa Corte di Cassazione, vale a dire che, a fronte di un reddito netto di circa 4.700 Euro derivante da pensione , al netto della tredicesima mensilità, il riconoscimento dell'assegno divorzile nella misura di curo 270 non tiene conto a) Della diminuita capacità di reddito dell'obbligato, derivante dai suoi obblighi di sostentamento e contenimento della nuova coniuge, i cui redditi, come dimostrato, sono diminuiti, scendendo a poco più di Euro 400 mensili e b) Soprattutto, dell'insorgere di un quadro di malattia a carico del (...) sicuramente grave, che la sentenza oggetto di ricorso per cassazione ha ritenuto circoscritta nel tempo mentre la Cassazione ha ritenuto, al contrario, che il quadro emergente dagli atti non potesse che essere di natura cronica. - Non emergendo nessun altro dato reddituale o patrimoniale rispetto quelli già acquisiti nei vari gradi di giudizio sino al giudizio di legittimità, la valutazione nel merito non può che inserirsi negli strettissimi margini aritmetici che ineriscono agli elementi reddituali cui si è accennato. Vale a dire che, nella misura in cui la -relativamente modesta- cifra di Euro 270 per l'assegno di divorzio non tiene conto di un concorrente bisogno dell'obbligato (...) a fare fronte ai suoi obblighi contemporanei di mantenimento dell'attuale moglie né dei suoi personali di sogni a fare fronte a uno stato di salute che ha i caratteri di gravità e di cronicità, non si vede quale altra minore somma possa essere corrisposta: ovvero, posto che si è partiti da una proporzione tra un reddito piuttosto alto in termini assoluti e un obbligo di assegno di divorzio ai limiti minimi, se si rapportano ad esso (si sia un rapporto di circa 1/18 tra il reddito netto del (...) e l'assegno di divorzio della (..) non è individuabile alcun importo intermedio che possa dare conto di una residua capacità del (...) contemperandola con gli obblighi e le esigenze che hanno costituito specifico motivo di ricorso per cassazione e che quest'ultima ha accolto. Ne deriva, sul punto, la sostanziale conferma di quanto già stabilito dal tribunale di Macerata. A fronte della reciproca soccombenza, le spese vanno compensate per i vari gradi di giudizio. P.Q.M. La Corte, quale Giudice del rinvio, così statuisce: 1) Conferma la condanna di (...) a pagare in favore di (...) l'importo della quota tfr così come stabilita dalla sentenza della Corte d'Appello di Ancona n. 1186/2019; 2) revoca rassegno divorzile di curo 270,00 posto a carico di (...) a decorrere dalla domanda giudiziale; 3) compensa integralmente le spese di lite sostenute dalle parti nei vari gradi di giudizio. 4) dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e i dati identificativi delle parti e degli altri soggetti in essa menzionati, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso in Ancona il 18 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Rel. Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. CERULO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 9997-2018 proposto da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati AN.CO., VI.TR., VI.ST.; - ricorrente - contro De.Fe., Pa.Se., Ci.So., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato LE.BR., rappresentati e difesi dall'avvocato SE.LA.; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 952/2017 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 03/10/2017 R.G.N. 617/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2023 dal Consigliere Dott. ROSSANA MANCINO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vi.St., che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato SA.PI. per delega verbale avvocato VI.TR. FATTI DI CAUSA 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d'appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato l'opposizione proposta dall'INPS avverso il decreto ingiuntivo con cui gli attuali intimati avevano chiesto la condanna dell'ente previdenziale, nella qualità di gestore del Fondo di tesoreria di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 755 ss., al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi sul TFR liquidato a seguito di cessazione del rapporto di lavoro. 2. La Corte, in particolare, muovendo dal presupposto che le prestazioni del Fondo di tesoreria concernenti il TFR avessero natura retributiva e non già previdenziale ha ritenuto applicabile il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui gli accessori da ritardo nella corresponsione delle somme spettanti al lavoratore costituiscono componente necessaria del credito originario ed entrano pertanto nel patrimonio del creditore indipendentemente dall'effettività del danno e dalla sussistenza di una qualche responsabilità del soggetto tenuto a corrisponderle. 3. Avverso tale pronuncia l'INPS ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura; hanno resistito, con controricorso, De.Fe., Pa.Se., Ci.So.. 4. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso. 5. In vista dell'udienza, le parti hanno depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 6. Con l'unico motivo di censura, l'INPS denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 755 ss., dell'art. 1, commi 2 ss., e D.M. n. 30.1.2007, 2, nonché degli artt. 2114 e 2116 c.c., in relazione alla l. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, per avere la Corte di merito ritenuto che la prestazione del TFR effettuata dal Fondo di tesoreria avesse natura retributiva e non previdenziale, con conseguente inapplicabilità, in caso di ritardo nella corresponsione, del divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e interessi. 7. Va premesso, al riguardo, che i giudici territoriali, nel motivare la natura retributiva e non previdenziale della prestazione erogata dal Fondo di tesoreria, hanno preso le mosse dalla lettera della L. n. 296 del 2007, art. 1, commi 755 e 756, e hanno ravvisato sicuri indici della conclusione nella circostanza che i presupposti e la misura della prestazione restano regolati dall'art. 2120 c.c. e nel fatto che il contributo dovuto dal datore di lavoro al Fondo è pari alla quota che egli stesso avrebbe dovuto accantonare a titolo di TFR nel caso in cui i lavoratori non avessero scelto di destinarlo alla previdenza complementare, non senza aggiungere che una diversa soluzione sconterebbe l'incongruenza di attribuire al TFR una diversa natura giuridica, a seconda della consistenza occupazionale dei datori di lavoro, operando la previsione della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 755 ss., soltanto per i datori di lavoro che abbiano alle loro dipendenze cinquanta o più addetti. 8. Dal canto suo, nel motivare le proprie conclusioni per il rigetto del ricorso, il Pubblico ministero ha ulteriormente rilevato che il fatto che al contributo da versare al Fondo di tesoreria si applichino le disposizioni in materia di accertamento e riscossione dei contributi previdenziali obbligatori (L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756, ultimo periodo) non sarebbe sicuro indice della sua natura previdenziale, atteso che l'applicabilità della disciplina dei contributi previdenziali obbligatori è limitata, appunto, all' "accertamento ed alla riscossione", con esclusione delle altre regole comuni a tale tipo di contribuzione, di talché si potrebbe meglio spiegare con l'intento di estendere alla riscossione del contributo le regole della più celere ed efficace procedura di riscossione prevista per la contribuzione obbligatoria. 9. Tali conclusioni appaiono prima facie conformi a quell'orientamento maturato in seno a questa Corte di legittimità che, da una parte, ha escluso che l'appaltante chiamato solidalmente a rispondere ex D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, per le quote di TFR dei dipendenti dell'appaltatore inadempiente maturate dopo il 1.1.2007, possa eccepire il proprio difetto di legittimazione passiva in favore del Fondo di tesoreria in mancanza di prova del versamento dei contributi dovuti al Fondo stesso (così già Cass. nn. 27014 del 2017 e 11536 del 2019) e, dall'altra parte, ha ritenuto che spetti al lavoratore la legittimazione alla domanda di ammissione al passivo per il TFR maturato dopo il 1.1.2007 e le cui quote accantonate non siano state versate dal datore di lavoro fallito al Fondo di tesoreria (cosi Cass. nn. 12009 del 2018 e 24510 del 2021): è infatti evidente che, in tanto si può predicare che la legittimazione all'ammissione al passivo per le quote di TFR non versate al Fondo spetta al lavoratore e sostenere che solo l'effettivo versamento dei contributi al Fondo di tesoreria costituisce fatto estintivo della sua pretesa nei confronti del datore di lavoro (ed eventualmente del suo committente obbligato solidale ex lege), in quanto si reputi che l'istituzione del Fondo di tesoreria da parte della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 755 ss., non abbia in nulla e per nulla immutato rispetto alla struttura dell'obbligazione concernente il TFR maturato dopo il 1.1.2007, né per quanto riguarda la sua natura giuridica (che resterebbe di carattere retributivo) né per ciò che concerne il soggetto tenuto alla sua corresponsione (che resterebbe il datore di lavoro, salva la prova del fatto estintivo dell'avvenuto conferimento dell'accantonamento al Fondo); ed è del pari evidente che, giusta tale ricostruzione, il debito per il TFR sorgerebbe, in capo al Fondo di tesoreria, soltanto limitatamente a quanto effettivamente versato dal datore di lavoro, con la conseguenza che sarebbe piuttosto il Fondo ad essere, rispetto ad esso, un mero adiectus solutionis causa. 10. Si tratta, tuttavia, di conclusioni che, a parere del Collegio, non possono essere ulteriormente condivise, come già ritenute da Cass. nn.25205, 25207, 25208, 25305 del 2023. 11. Mette conto, anzitutto, ricordare che la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 755, nell'istituire a far data dal 1.1.2007 il "Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 del codice civile" e nel prevedere che esso venga "gestito, per conto dello Stato, dall'INPS su un apposito conto corrente aperto presso la tesoreria dello Stato", con modalità di finanziamento che "rispondono al principio della ripartizione", stabilisce che il Fondo così istituito "garantisce ai lavoratori dipendenti del settore privato l'erogazione dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 del codice civile, per la quota corrispondente ai versamenti di cui al comma 756". 12. Quest'ultimo, a sua volta, oltre a prevedere che, con la medesima decorrenza, al Fondo debba affluire mensilmente un "contributo" a carico dei datori di lavoro che abbiano cinquanta o più addetti alle proprie dipendenze in misura pari alla quota di cui all'art. 2120 c.c. che non sia stata "destinata alle forme pensionistiche complementari" di cui al D.Lgs. n. 252 del 2005 ovvero all'opzione di cui al successivo comma 756-bis, stabilisce specificamente, ai fini che qui interessano, che "la liquidazione del trattamento di fine rapporto e delle relative anticipazioni al lavoratore viene effettuata, sulla base di un'unica domanda, presentata dal lavoratore al proprio datore di lavoro, secondo le modalità stabilite con il decreto di cui al comma 757, dal Fondo (...) limitatamente alla quota corrispondente ai versamenti effettuati al Fondo medesimo, mentre per la parte rimanente resta a carico del datore di lavoro". 13. A sua volta, il D.M. n. 30.1.2007, art. 2, emanato in attuazione della delega di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 757, oltre a prevedere al comma 1 che "il Fondo eroga le prestazioni secondo le modalità previste dall'art. 2120 del codice civile", stabilisce espressamente, al comma 2, che "le prestazioni di cui al comma 1 sono erogate dal datore di lavoro anche per la quota parte di competenza del Fondo, salvo conguaglio, da valersi prioritariamente sui contributi dovuti al Fondo riferiti al mese di erogazione della prestazione e, in caso di incapienza, sull'ammontare dei contributi dovuti complessivamente agli enti previdenziali nello stesso mese"; fermo tuttavia restando, aggiunge il successivo comma 4, che "l'importo di competenza del Fondo erogato dal datore di lavoro non può in ogni caso eccedere l'ammontare dei contributi dovuti al Fondo e agli enti previdenziali con la denuncia mensile contributiva" e che, "qualora si verifichi tale ipotesi, il datore di lavoro è tenuto a comunicare immediatamente al Fondo tale incapienza complessiva e il fondo deve provvedere, entro trenta giorni, all'erogazione dell'importo delle prestazioni sulla quota parte di competenza del Fondo stesso". 14. Da quanto teste' esposto, e segnatamente dal combinato disposto della L. n. 296 del 2006, artt. 1, comma 756, e del D.M. n. 30.1.2007, art. 2, commi 2 e 4, si ricava anzitutto che l'unico soggetto obbligato al pagamento del TFR maturato dai lavoratori del settore privato successivamente al 1.1.2007 è il Fondo di tesoreria: il datore di lavoro, infatti, risponde dell'obbligazione quale adiectus solutionis causa e nei soli limiti dei contributi dovuti per quel mese al Fondo stesso e, in subordine, agli altri enti previdenziali. 15. Si tratta di un meccanismo di anticipazione salvo conguaglio affatto analogo a quello che presiede alla corresponsione di altre prestazioni previdenziali (ad es., assegni familiari, indennità di malattia, indennità di maternità), le quali, proprio per ciò, vengono del pari corrisposte "sulla base di un'unica domanda, presentata dal lavoratore al proprio datore di lavoro", esattamente come prevede, per la prestazione in esame, la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756. 16. D'altra parte, la circostanza che il D.M. n. 30.1.2007, art. 1, comma 1, stabilisca che "il Fondo eroga le prestazioni secondo le modalità previste dall'art. 2120 del codice civile", avvalora un'ulteriore conclusione già desumibile dal tenore testuale della L. n. 296 del 2006, artt. 1, commi 755 ss.: e precisamente, che quella corrisposta dal Fondo è una prestazione che, sebbene modulata quanto a presupposti e misura secondo le previsioni dell'art. 2120 c.c., costituisce nondimeno una prestazione previdenziale. 17. Deve infatti convenirsi, con l'Istituto ricorrente, nel rilievo che la L. n. 296 del 2006 abbia all'uopo istituito una gestione previdenziale obbligatoria, ai sensi dell'art. 2114 c.c.: al Fondo, invero, affluiscono i contributi obbligatoriamente versati dai datori di lavoro che abbiano cinquanta o più dipendenti ed è il Fondo medesimo tenuto ad erogare le relative prestazioni "secondo il principio della ripartizione"; né, in contrario, potrebbe argomentarsi in relazione al disposto della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 755, secondo cui "la liquidazione del trattamento di fine rapporto e delle relative anticipazioni al lavoratore viene effettuata (...) limitatamente alla quota corrispondente ai versamenti effettuati al Fondo medesimo, mentre per la parte rimanente resta a carico del datore di lavoro": la disposizione teste' cit. deve infatti ritenersi riferita al fatto che, operando il Fondo a far data dall'1.1.2007, le quote di TFR maturate nel periodo precedente dai lavoratori interessati non possono che restare a carico del datore di lavoro. 18. Del resto, che non si possa attribuire alla disposizione in esame il significato di rendere piuttosto il Fondo adiectus solutionis causa delle quote di TFR liberamente e volontariamente versate dal datore di lavoro si ricava dal meccanismo obbligatorio che presiede alla corresponsione del "contributo" mensilmente dovuto in misura pari alla quota di cui all'art. 2120 c.c. che non sia stata "destinata alle forme pensionistiche complementari" di cui al D.Lgs. n. 252 del 2005 ovvero all'opzione di cui al successivo comma 756-bis: il D.M. n. 30.1.2007, art. 1, oltre ad affermare, al comma 5, che i datori di lavoro indicati nella L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756, "sono obbligati al versamento del contributo", stabilisce al comma 3 che "ai fini dell'accertamento e della riscossione del contributo previsto dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 756, si applicano le disposizioni vigenti in materia di contribuzione previdenziale obbligatoria, con esclusione di qualsiasi forma di agevolazione contributiva". 19. E, diversamente da quanto ritenuto nella sua requisitoria dal Pubblico ministero, pare al Collegio che l'insieme di tali previsioni si spieghi solo con l'intenzione del legislatore di attribuire al contributo de quo la stessa natura giuridica dei contributi previdenziali obbligatori. 20. Ma la conferma più decisiva della natura previdenziale della prestazione corrisposta dal Fondo di tesoreria si ricava, a ben vedere, dalla previsione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 755, secondo cui il Fondo stesso "garantisce ai lavoratori dipendenti del settore privato l'erogazione dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 del codice civile, per la quota corrispondente ai versamenti di cui al comma 756": se infatti pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che l'impiego del verbo "garantisce" lascia trasparire l'intento del legislatore di sottrarre la corresponsione del TFR alle alterne fortune cui essa può andare incontro allorché l'unica sua garanzia sia costituita dalla responsabilità patrimoniale del datore di lavoro di cui all'art. 2740 c.c. (ed eventualmente dal Fondo di garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982), non è meno vero che l'unico modo in cui il legislatore può sottrarre un interesse reputato meritevole di tutela al destino precario cui è inevitabilmente soggetto sulla base del mercato concorrenziale è di attrarlo nell'orbita della regolamentazione pubblica; e se è vero che, già sulla base del rapporto di lavoro privato, il TFR costituisce retribuzione differita con funzione previdenziale, è evidente che non si può garantire pubblicamente la meritevolezza di tale funzione se non per tramite dell'istituzione di una forma di previdenza obbligatoria, solo quest'ultima essendo assistita dalla previsione di cui all'art. 2116, comma 1, c.c., secondo cui "le prestazioni (...) sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali". 21. In quest'ottica, si può ulteriormente rilevare che l'istituzione del Fondo di tesoreria intende sottrarre ai datori di lavoro privati che abbiano cinquanta o più dipendenti la disponibilità diretta del risparmio forzoso costituito dagli accantonamenti per il TFR che il lavoratore non abbia destinato, sponte sua, alla previdenza complementare di cui al D.Lgs. n. 252 del 2005 oppure all'opzione di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756-bis, allo scopo di gestirà secondo un sistema a ripartizione che consenta, all'occorrenza, anche il loro impiego per fini di pubblica utilità, così come prevede la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 758; e ciò, mentre avvalora ulteriormente la natura squisitamente contributiva del "contributo" cui sono tenuti i datori di lavoro di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 756, trattandosi di una prestazione patrimoniale imposta per fini di pubblica utilità (ossia di un'imposta speciale, così come in generale i contributi previdenziali), non può specularmente che confermare che quella erogata dal Fondo è una prestazione previdenziale pubblica, ancorché modulata, quanto a presupposti e misura, sulle previsioni di cui all'art. 2120 c.c.. 22. Del resto, che il TFR possa non avere carattere unitario e comporsi di quote distinte, una facente capo al datore di lavoro privato e l'altra alla previdenza pubblica, è qualcosa che questa Corte ha avuto modo di affermare, sia pure con riguardo alla quota di esso maturata durante il periodo di cassa integrazione (cfr. Cass. n. 15978 del 2009). 23. Mentre, sotto altro profilo, è appena il caso di notare che in nessun modo le anzidette conclusioni appaiono suscettibili di porre dubbi di legittimità costituzionale in relazione al diverso trattamento giuridico del TFR corrisposto dai datori di lavoro non tenuti all'applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 755 ss.: l'istituzione di forme di previdenza obbligatorie rientra infatti nella discrezionalità del legislatore, che ben può ritenere, in relazione all'importanza economica di flussi di reddito cospicui come quelli concernenti il risparmio forzoso a fini previdenziali delle imprese con cinquanta o più dipendenti, di attrarli nell'orbita della disciplina pubblicistica; e in quest'ottica, eventuali dubbi di legittimità costituzionale potrebbero, a tutto concedere, residuare per la diversa tutela accordata ai lavoratori dipendenti di imprese non altrettanto grandi, per i quali tuttavia soccorre, ricorrendone le condizioni, la supplenza del Fondo di garanzia di cui alla citata L. n. 297 del 1982. 24. Le suesposte considerazioni, oltre a evidenziare l'errore in diritto della sentenza impugnata, per avere affermato la natura retributiva del TFR corrisposto dal Fondo di tesoreria, trattandosi, come detto, di prestazione previdenziale semplicemente modulata, quanto a presupposti e misura, sulle previsioni di cui all'art. 2120 c.c. e dunque assoggettata alle previsioni di cui alla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, danno conto dell'impossibilità di assicurare continuità ai principi di diritto espressi da Cass. nn. 27014 del 2017 e 11536 del 2019 e da Cass. nn. 12009 del 2018 e 24510 del 2021, già citate: da quanto anzidetto, infatti, risulta evidente, per un verso, che il Fondo di tesoreria è l'unico obbligato alla corresponsione delle quote di TFR maturate dopo il 1.1.2007, anche in mancanza di prova del versamento dei contributi dovuti al Fondo stesso, trattandosi di prestazione previdenziale cui il Fondo di tesoreria è tenuto ai sensi dell'art. 2116, comma 1, c.c., e, per un altro verso, che il lavoratore non può in alcun modo ritenersi creditore del datore di lavoro per il TFR maturato dopo il 1.1.2007 e le cui quote accantonate non siano state versate dal datore di lavoro fallito al Fondo di tesoreria, rimanendo il Fondo pur sempre obbligato alla corresponsione della prestazione e potendo, e dovendo semmai, recuperare esso stesso i contributi non versati dal datore di lavoro, eventualmente nelle forme del concorso. 25. Il ricorso, pertanto, va accolto e, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere Dott. CERULO Angelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 22192-2021 proposto da: ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della (...) INPS ((...)) Spa, rappresentato e difeso, in forza di procura conferita in calce al ricorso per cassazione, dagli avvocati LE.MA., CA.DA., AN.CO., AN.SG., DE.RO., con domicilio eletto presso l'Avvocatura centrale dell'Istituto, in ROMA, VIA (...) - ricorrente principale - contro (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata in calce al controricorso, dagli avvocati AR.MA. e MO.GR., con domicilio eletto presso lo studio dei difensori, in ROMA, VIA (...) - controricorrente e ricorrente incidentale - e ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della (...) INPS ((...)) Spa, rappresentato e difeso, in forza di procura conferita in calce al controricorso, dagli avvocati DE.RO., AN.SG., LE.MA., CA.DA., AN.CO., con domicilio eletto presso l'Avvocatura centrale dell'Istituto, in ROMA, (...) - controricorrente al ricorso incidentale - per la cassazione della sentenza n. 645 del 2021 della CORTE D'APPELLO DI ROMA, depositata il 19 febbraio 2021 (R.G.N. 310/2018). Udita la relazione della causa, svolta in udienza dal Consigliere Angelo Cerulo. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale MARIO FRESA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale e per il rigetto del ricorso incidentale. Udito, per l'INPS, l'avvocato CA.DA., che ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Uditi, per (...) Spa, gli avvocati AR.MA. e MO.GR., che hanno ribadito le conclusioni già formulate. FATTI DI CAUSA 1.- Con ricorso, notificato il 17 agosto 2021 e incentrato su un motivo, l'INPS, nella qualità indicata in epigrafe, impugna per cassazione la sentenza n. 645 del 2021, pronunciata dalla Corte d'appello di Roma e depositata il 19 febbraio 2021. La Corte di merito ha accolto in parte il gravame principale dell'INPS e, in riforma della pronuncia del Tribunale della medesima città, ha condannato (...) Spa a corrispondere anche i contributi e le correlate sanzioni sulle somme dovute per mensilità aggiuntive, ancorché non corrisposte. La Corte territoriale ha quindi disatteso le ulteriori domande dell'INPS, finalizzate ad assoggettare a contribuzione le somme versate al fine di evitare controversie sulla quantificazione dell'indennità di anzianità o del trattamento di fine rapporto (TFR), e ha rigettato il gravame incidentale della società, inerente alla contribuzione sulle mensilità aggiuntive effettivamente erogate. Le spese del doppio grado sono state compensate per intero. 2. - (...) Spa resiste con controricorso, notificato il 19 agosto 2021, e propone ricorso incidentale, articolato in quattro motivi. 3. - L'INPS replica con controricorso al ricorso incidentale. 4. - Il ricorso è stato fissato per la trattazione alla pubblica udienza del 14 novembre 2023. 5. - Il Pubblico Ministero ha depositato memoria (art. 378, primo comma, cod. proc. civ.) e ha chiesto di accogliere il ricorso principale e di rigettare il ricorso incidentale, anticipando le conclusioni rassegnate in udienza. 6. - La ricorrente incidentale, prima dell'udienza, ha depositato memoria (art. 378, secondo comma, cod. proc. civ.). RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- Il presente giudizio trae origine dagli avvisi di addebito notificati a (...) Spa, emessi per "contributi e somme aggiuntive dovuti sulle somme erogate a titolo transattivo e sulle mensilità aggiuntive erogate ed erogabili, quali risultanti dai verbali di accordo sottoscritti dall'(...) con propri dipendenti in occasione della risoluzione consensuale del rapporto" (pagina 2 della sentenza d'appello). Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento dell'opposizione instaurata da (...) Spa, ha condannato la società a pagare la minor somma di Euro 3.442,00, con riferimento all'avviso n. (omissis), e l'importo di Euro 857.526,00, in relazione all'avviso n. (omissis). 1.1. - Il giudice di prime cure ha negato l'obbligo contributivo in ordine alle somme corrisposte a titolo transattivo, per "eventuali questioni inerenti il ricalcolo dell'indennità di anzianità e del TFR, su cui pacificamente non sono dovuti contributi" (pagina 3 della sentenza d'appello). 1.2. - L'obbligo contributivo non sussiste neppure per le mensilità aggiuntive di fatto non corrisposte, "poiché senza una effettiva dazione, la contribuzione non è dovuta" (la già menzionata pagina 3). 1.3. - Quanto alle mensilità aggiuntive effettivamente erogate, la società deve versare i contributi, in quanto esse hanno natura di retribuzione, per espressa previsione delle parti contraenti. 2. - La Corte d'appello di Roma, con la sentenza impugnata in questa sede, ha accolto il gravame principale dell'INPS, riguardo al diniego dell'obbligo contributivo per le mensilità aggiuntive non erogate, e ha respinto il gravame incidentale di (...) Spa, che si doleva dell'assoggettamento a contribuzione delle mensilità aggiuntive concretamente corrisposte e, per altro verso, delle sanzioni applicate. 2.1. - Non è fondato, anzitutto, il motivo d'appello dell'INPS, che mira a sottoporre a contribuzione le somme corrisposte a titolo transattivo al solo fine di evitare controversie sul calcolo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto. In virtù dell'espressa previsione dell'art. 6 del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto sono escluse dalla base imponibile e la medesima conclusione si attaglia anche agl'importi versati per prevenire le liti che, a tale riguardo, possano insorgere. Tali importi, invero, "trovano titolo, all'evidenza, nello stesso TFR di cui, di fatto, si riconosce la debenza" (pagina 8 della pronuncia d'appello). 2.2. - Non coglie nel segno l'appello incidentale di (...) Spa, che tende a qualificare come incentivi all'esodo le mensilità aggiuntive, in realtà corrisposte anche nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età e svincolate "da un (necessario) anticipato recesso del lavoratore dal rapporto" (pagina 10 della sentenza d'appello). Gl'importi indicati assolvono alla funzione di assicurare un'erogazione economica sostitutiva della retribuzione, "talvolta ispirandosi ad una logica premiale, come si verifica nei casi di raggiungimento del limite di età anagrafica o della massima anzianità contributiva "...", talaltra in un'ottica indennitaria o assistenziale a favore dei superstiti, nell'ipotesi di decesso del dipendente per causa di servizio" (pagina 10 della sentenza della Corte d'appello di Roma). La funzione d'incentivo all'esodo, che talvolta si affianca a questi emolumenti, non elide la funzione primaria di attuare una "erogazione economica sostitutiva della retribuzione per un determinato periodo dopo la cessazione del rapporto" (pagina 11). Ne discende la "natura squisitamente retributiva delle mensilità in questione" (pagina 11). Sull'obbligo di corrispondere le mensilità aggiuntive non incide l'accordo quadro di regolamento nel gruppo (...), che non si applica ai dipendenti cessati dal servizio prima della sua entrata in vigore e comunque non si riverbera sul diritto alle mensilità aggiuntive già maturato. 2.3. - Ciò posto, dev'essere, invece, accolto il motivo di doglianza dell'INPS e devono essere versati i contributi sulle mensilità aggiuntive che i lavoratori avevano diritto di percepire. È ininfluente che, in fatto, i lavoratori non abbiano ricevuto questi emolumenti. Il datore di lavoro deve pagare i contributi sia sulle mensilità aggiuntive erogate che su quelle "erogabili" e, nondimeno, non corrisposte. 2.4. - Sui contributi non corrisposti, sono dovute anche le sanzioni previste per legge. Non si configura alcuna ipotesi d'incertezza applicativa, idonea a giustificare la riduzione delle sanzioni. Anche sotto questo profilo, l'appello incidentale della società non ha fondamento. 3. - Contro la pronuncia della Corte d'appello di Roma l'INPS propone ricorso principale, con un motivo, ed (...) Spa propone, con quattro motivi, ricorso incidentale. 4. - L'INPS denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. e dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, come modificato dall'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. La Corte d'appello di Roma avrebbe errato nell'equiparare le somme erogate da (...) Spa con l'accordo transattivo a somme erogate a titolo di trattamento di fine rapporto. Dalla lettura congiunta delle clausole n. 2 e n. 4 dell'accordo in esame, il ricorrente evince l'attinenza della transazione non al trattamento di fine rapporto, ma a "voci retributive soggette a contribuzione" (pagina 6 del ricorso). Peraltro, graverebbe sul datore di lavoro l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti delle tassative ipotesi di esenzione dall'obbligo contributivo. La sentenza impugnata si sarebbe limitata a valorizzare il "titolo formale delle erogazioni" (pagina 8 del ricorso), senza compiere una più accurata disamina sulla giustificazione sottesa al pagamento delle somme in questione. Si tratterebbe pur sempre d'importi corrisposti in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro e perciò riconducibili alla retribuzione imponibile a fini contributivi. 5. - I quattro motivi di ricorso incidentale di (...) Spa si possono così compendiare. 5.1. - Con il primo mezzo (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la società denuncia violazione degli artt. 1362 e seguenti cod. civ., dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969 e dell'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. La sentenza d'appello meriterebbe censura, nella parte in cui ha reputato soggette a contribuzione le somme erogate a titolo di "mensilità aggiuntive". Tale emolumento, correlato con il raggiungimento dei requisiti per godere della pensione di anzianità, si rivelerebbe eterogeneo rispetto all'indennità sostitutiva del preavviso e, fin dalla sua originaria previsione negoziale, confermata dai successivi accordi stipulati dalle parti collettive, si prefiggerebbe d'incentivare le cessazioni anticipate del rapporto di lavoro. L'interpretazione privilegiata dalla sentenza d'appello trascurerebbe sia il dato letterale degli accordi collettivi che la reale intenzione delle parti, univoca nell'escludere ogni affinità con l'indennità sostitutiva del preavviso. 5.2. - Con la seconda doglianza (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la società prospetta violazione o falsa applicazione della disciplina collettiva e delle norme sull'onere della prova e assume che, nel caso di specie, difettino i presupposti negoziali per l'erogazione delle mensilità aggiuntive, legate alla cessazione del rapporto di lavoro con diritto alla pensione. Nella prospettiva della ricorrente incidentale, l'INPS non ha ottemperato all'onere di provare che le somme siano dovute e, di questa circostanza, non ha tenuto conto la sentenza impugnata, nel sottoporre a contribuzione le mensilità aggiuntive non corrisposte. 5.3. - Con la terza censura (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), (...) Spa deduce omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Tale fatto riguarderebbe l'insussistenza del diritto di percepire le mensilità aggiuntive, allorché tali voci non sono state corrisposte. 5.4. - Con la quarta critica (art. 360, primo comma, n. 3, cod. prpc. civ), la società lamenta, infine, la violazione degli artt. 1362 e seguenti e 2697 cod. civ., dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969 e dell'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. Quanto ai lavoratori che hanno aderito al piano di cui all'art. 4 della legge 28 giugno 2012, n. 92, e hanno firmato un accordo individuale di risoluzione in sede protetta, la sentenza impugnata non avrebbe valutato la natura esaustiva del trattamento d'incentivo indicato nell'accordo, incompatibile con il diritto di percepire altre somme in riferimento alla cessazione del rapporto di lavoro. Il trattamento previsto dall'accordo quadro assorbirebbe gli altri emolumenti contemplati dal contratto e legati, come avviene per le mensilità aggiuntive, alla maturazione del diritto a pensione. Maturazione che, nel caso di specie, non si ravvisa. 6. - Il ricorso principale dell'INPS è inammissibile. 6.1. - Lungi dal violare le norme sull'onere della prova dell'esenzione dall'obbligo contributivo, la Corte di merito, all'esito di un meditato apprezzamento delle risultanze di causa e di un accertamento di fatto congruamente motivato, ha escluso l'obbligo in esame. A tali conclusioni i giudici del gravame non sono giunti sulla scorta del mero titolo formale delle erogazioni, ma in virtù di un ragionamento più ampio, che ha valorizzato l'autentica finalità delle somme corrisposte alla luce di un'interpretazione organica e approfondita dell'accordo transattivo. Invero, nella ricostruzione della Corte di merito, aderente al testo e alla ratio complessiva dell'intesa, tali somme riguardano proprio l'indennità di anzianità dovuta al 31 maggio 1982 e il trattamento di fine rapporto e sono perciò escluse dalla base imponibile per espressa previsione di legge. Né, in tal modo, la decisione impugnata, incentrata sul vaglio in concreto delle peculiarità e della genuina funzione delle somme corrisposte, si pone in contrasto con il principio dell'indisponibilità dell'obbligazione contributiva del datore di lavoro verso l'ente pubblico, richiamato nella memoria del Pubblico Ministero. 6.2. - Alla disamina della Corte d'appello di Roma, che peraltro collima con quella già compiuta dal giudice di prime cure e poggia sull'apprezzamento della reale natura delle somme erogate, l'Istituto contrappone una diversa ricostruzione della volontà espressa dalle parti, senza additare anomalie logiche o giuridiche del percorso argomentativo della Corte territoriale. A fronte dell'esegesi delineata nella sentenza d'appello, i rilievi dell'Istituto, dietro le sembianze della violazione dei canoni ermeneutici e della legge, non travalicano i confini dell'assertiva contrapposizione di un più appagante coordinamento delle clausole negoziali e di una diversa, più favorevole, valutazione dei fatti rilevanti. 7. - I motivi del ricorso incidentale di (...) Spa possono essere esaminati congiuntamente, per l'intima connessione che li unisce. Le censure, nella loro essenza, vertono sull'assoggettamento a contribuzione previdenziale delle somme previste a titolo di "mensilità aggiuntive", nell'ambito di accordi conclusi in sede di risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro. Le doglianze si rivelano inammissibili. 7.1. - Sebbene, in astratto, le somme corrisposte in esecuzione di una transazione debbano considerarsi estranee rispetto all'obbligo di contribuzione, in quanto dipendono da questo contratto e non dal (diverso) contratto di lavoro, a diverse conclusioni si può pervenire, allorché si provi che l'accordo transattivo includa poste di sicura natura retributiva, collegate intrinsecamente al sottostante rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 27 novembre 2017, n. 27933). L'art. 12 della legge n. 153 del 1969, nel testo modificato dall'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997, ricomprende nella nozione di retribuzione imponibile ai fini previdenziali tutte le erogazioni provenienti dal datore di lavoro, che trovino la loro giustificazione nel rapporto di lavoro. Sono escluse le somme erogate per uno dei titoli tassativamente indicati nel capoverso del medesimo art. 12. Si tratta, in particolare, delle somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto, di quelle corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché di quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l'imponibilità dell'indennità sostitutiva del preavviso. 7.2. - La sentenza impugnata si è uniformata a questi principi e ha ribadito la sussistenza dell'obbligazione contributiva per le somme legate al rapporto di lavoro da un nesso di dipendenza, e non di mera occasione, e ha affermato la natura eminentemente retributiva delle somme erogate ai lavoratori a titolo di "mensilità aggiuntive". È questa natura retributiva, affermata anche dal giudice di primo grado, che rappresenta il fulcro della decisione impugnata. Tali somme, proprio per l'indicata natura retributiva, non possono essere dunque ricondotte alle tassative ipotesi di esclusione tipizzate dall'art. 12 della legge n. 153 del 1969. Nel ricostruire la disciplina contrattuale di riferimento e i requisiti di tali emolumenti, la Corte d'appello di Roma ha negato la finalità d'incentivo all'esodo, oggi propugnata nel ricorso incidentale al fine di conseguire l'esonero dall'obbligo contributivo. Come si è ricordato nel ripercorrere gli antefatti processuali salienti (punto 2.2. delle Ragioni della decisione), le conclusioni sulla natura retributiva dell'emolumento sono avvalorate dall'esame della variegata gamma d'ipotesi in cui le somme devono essere corrisposte. È tale esame, attento alla lettera e alla ratio delle intese e alla loro evoluzione, a corroborare una pluralità di funzioni e il carattere retributivo della voce di cui si discorre. Non si riscontra, pertanto, un nesso evidente e indefettibile con la finalità di promuovere la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, che sola può valere a esonerare il datore di lavoro dall'obbligo contributivo, in forza di una norma che è pur sempre di stretta interpretazione. L'obbligo contributivo permane, dunque, anche rispetto alle somme che non siano state concretamente corrisposte, pur nel ricorrere di tutti i presupposti per l'erogazione. Tali presupposti sono stati riconosciuti in fatto dalla sentenza d'appello in ossequio alle norme sull'onere della prova e sulla base della documentazione versata in atti (cfr., in tal senso, pagina 5 del controricorso notificato dall'INPS per resistere al ricorso incidentale) e non risultano infirmati in modo persuasivo dai motivi di ricorso incidentale. 7.3. - Il giudizio formulato dai giudici del gravame è rispettoso dei principi regolatori della materia e involge, a ben considerare, valutazioni che costituiscono l'esito di un tipico accertamento di merito, incardinato sugli elementi testuali e sullo scrutinio delle finalità perseguite dai contraenti. Nel caso di specie, tale accertamento rappresenta l'approdo dell'esegesi di plurime fonti negoziali, pondera anche l'incidenza delle sopravvenute previsioni dell'accordo invocato nel quarto mezzo e non risulta efficacemente scalfito dai motivi di ricorso incidentale e dagli argomenti svolti nella memoria illustrativa. 7.4. - L'interpretazione degli atti di autonomia privata, governata da criteri giuridici cogenti e volta a ricostruire il significato di tali atti in conformità alla comune volontà delle parti, si configura come un tipico accertamento di fatto, riservato al giudice di merito (fra le molte, Cass., sez. lav., 12 dicembre 2023, n. 34750, punto 14 del Considerato). Tale accertamento può esser censurato in sede di legittimità solo per la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, per le lacune della motivazione, allorché precludano il controllo del procedimento logico che ha condotto alla decisione, o per l'omesso esame d'un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti (Cass., sez. III, 24 novembre 2023, n. 32769, punto 3.1. delle Ragioni della decisione). Quanto alla violazione dei criteri legali, la parte ricorrente deve specificarli e deve chiarire per quali ragioni e in quale punto il giudice di merito se ne sia discostato (di recente, Cass., sez. II, 24 gennaio 2024, n. 2369, punto 7.2. delle Ragioni della decisione). Né l'interpretazione prescelta dal giudice di merito dev'essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni (Cass., sez. III, 19 gennaio 2024, n. 2113, punto 3.1.b.I. delle Ragioni della decisione). Pertanto, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, non è consentita alcuna censura in sede di legittimità per il solo fatto che sia stata privilegiata l'altra (di recente, Cass., sez. lav., 25 gennaio 2024, n. 2451). Il sindacato di questa Corte, in ultima analisi, non può investire il risultato interpretativo in sé considerato e si palesa, pertanto, inammissibile ogni critica alla ricostruzione operata dal giudice di merito, che si sostanzi nella mera prospettazione di un inquadramento alternativo degli stessi elementi di fatto (Cass., sez. III, 19 gennaio 2024, n. 2112, punto 2.1.b.I. delle Ragioni della decisione). 7.5. - Le censure della società non soddisfano i requisiti enucleati dal codice di rito, nell'interpretazione ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte. Le doglianze della società, nel far leva sul comportamento delle parti e sulla preminenza di altri elementi, adombrano una lettura alternativa delle acquisizioni di causa e si risolvono nella pura e semplice antitesi all'interpretazione che la sentenza d'appello ha prospettato, peraltro in consonanza con quella di primo grado, alla luce di tutti i dati di fatto rilevanti. Le censure, così formulate, non valgono, tuttavia, a connotare come implausibile l'interpretazione contestata e si rivelano, pertanto, inammissibili. Né a diverse conclusioni inducono i precedenti di legittimità richiamati dalla società, calibrati sulle specifiche ragioni che, in quel frangente, sorreggevano le statuizioni impugnate, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso sottoposti allo scrutinio di questa Corte. 8. - In virtù dei rilievi svolti, tanto il ricorso principale quanto quello incidentale devono essere dichiarati inammissibili. 9. - Le spese del presente giudizio possono essere integralmente compensate, in considerazione della soccombenza reciproca. 10. - La declaratoria d'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale impone di dare atto dei presupposti per il sorgere dell'obbligo di entrambi i ricorrenti di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per le impugnazioni rispettivamente proposte, ove tale contributo sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315). P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili il ricorso principale dell'INPS e il ricorso incidentale di (...) Spa; compensa integralmente le spese del presente giudizio. Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, rispettivamente, per la stessa impugnazione principale e per quella incidentale, a norma del comma 1-bis dell'art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quarta Sezione civile del 14 novembre 2023. Depositato in cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Rel. - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. CERULO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 23258-2021 proposto da: I.N.P.S. - Istituto Nazionale Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma.Sf., Vi.Tr., Vi.St., Sa.Pi., Ma.Pa. - ricorrente - contro Go.La., elettivamente domiciliata in ROMA, (...), presso lo studio dell'avvocato Va.Ro., rappresentata e difesa dagli avvocati Pi.Ga., Em.Ma. - controricorrente - avverso la sentenza n. 328/2021 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 04/03/2021 R.G.N. 651/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2023 dal Consigliere Dott. ROSSANA MANCINO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONÀ, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato Sa.Pi.; udito l'avvocato Pi.Ga.. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'appello di Milano, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato la decisione di prime cure, nel capo relativo all'accoglimento della domanda proposta dall'attuale intimata, nei confronti dell' INPS, per il versamento al Fondo Pensione Integrativa Co., delle quote di TFR non versate dal datore di lavoro cedente - la Srl Me. dichiarata fallita - credito per il quale la lavoratrice era stata ammessa al passivo del fallimento; e, in parziale riforma della sentenza gravata, ha dichiarato dovuta, sulla somma liquidata in prime cure, la sola rivalutazione monetaria. 2. Avverso tale sentenza ricorre l'INPS, con ricorso affidato a tre motivi, ulteriormente illustrato con memoria, cui resiste, con controricorso, ulteriormente illustrato con memoria, Go.La. RAGIONI DELLA DECISIONE 3. Con il primo motivo di ricorso l'INPS lamenta la violazione degli articoli 2112 cod. civ., in relazione agli articoli 1 e 2 legge n. 297 del 1982 e all'art. 4 D.Lgs. n. 80 del 1992, per avere la Corte di merito, nell'escludere l'applicabilità dell'art. 2112 cod. civ., in ragione del credito, ritenuto non obbligato solidalmente, con il datore di lavoro fallito, il datore di lavoro cessionario ed onerato, della prestazione richiesta, l'ente previdenziale. 4. Con il secondo motivo si denunciano plurime violazioni di legge, per avere la Corte di merito affermato l'estraneità del lavoratore al rapporto contributivo nell'ambito della previdenza complementare. 5. Con il terzo motivo si denunciano plurime violazioni di legge, per avere la Corte di merito ritenuto opponibile, all'ente previdenziale, l'ammissione al passivo pur in assenza dei presupposti per l'erogazione della prestazione previdenziale richiesta. 6. I motivi, esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione logica, sono da accogliere. 7. Secondo la recente sentenza di questa Corte n. 19510 del 2023 - resa in una fattispecie in cui veniva in rilievo la questione della natura degli accantonamenti del trattamento di fine rapporto destinati dal lavoratore alla previdenza complementare - il credito del lavoratore al T.F.R. accantonato presso il datore di lavoro, con la finalità di destinazione alla previdenza complementare e in origine di natura "retributiva", assume natura "previdenziale" nel momento di attuazione del vincolo di destinazione, vale a dire con il versamento, al Fondo di previdenza complementare, delle risorse finanziarie del lavoratore - sub specie di contribuzione o di conferimento di quote di T.F.R. - accantonate dal datore di lavoro, su mandato del lavoratore medesimo (v. Cass. n. 19510 del 2023 cit.). 8. Qualora, invece, il datore di lavoro non provveda al versamento, per inadempimento dell'obbligazione assunta verso il lavoratore con il mandato ricevuto, il vincolo di destinazione impresso alle risorse - parte della retribuzione attuale o attesa con la maturazione delle quote di T.F.R. - non si attua, ma si ripristina la disponibilità piena, per il lavoratore, di tali risorse, di natura retributiva. 9. Tale conclusione, come già argomentato da Cass. n.19510/2023 cit., e altre decisioni coeve, è avvalorata dal meccanismo di operatività dell'apposito Fondo di garanzia (istituito presso l'Inps contro il rischio derivante dall'omesso o insufficiente versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, dei contributi alle forme di previdenza complementare), introdotto dal D.Lgs. 80 del 1992 che, all'art. 5, prevede che, nel caso in cui, "a seguito dell'omesso o parziale versamento dei contributi dovuti per forme di previdenza complementare" (di cui all'art. 9-bis D.L. n. 103/1991, conv., con modif., in L. n. 166/1991) "ad opera del datore di lavoro", non possa essere corrisposta la prestazione alla quale avrebbe avuto diritto, "il lavoratore", ove il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto in esito ad una delle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero di amministrazione straordinaria, possa richiedere al fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi risultanti omessi (comma 2); in tali casi, il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore per l'equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2 (comma 3). 10. Tali disposizioni confermano, invero, che quand'anche il lavoratore abbia aderito a forme di previdenza complementare, egli resta titolare del diritto di credito nei confronti del datore di lavoro al pagamento dei contributi - anche sotto forma di quote di T.F.R. - non versate al fondo di previdenza complementare e, del pari, in caso di suo fallimento, qualora il lavoratore attivi il Fondo di garanzia, la surrogazione di quest'ultimo, al primo, nell'ammissione al passivo per i contributi omessi. 11. Va, dunque, ribadita la distinzione dei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro - da cui il primo trae, con una parte della propria retribuzione, le risorse per la contribuzione o il conferimento delle quote di T.F.R. maturando - e tra lavoratore e Fondo di Previdenza Complementare - di natura contrattuale per il conseguimento, da parte del lavoratore medesimo, attraverso l'investimento da parte del Fondo, di una prestazione previdenziale integrativa - per cui il datore di lavoro assume l'obbligo, sulla base di un mandato ricevuto dal lavoratore e salvo che non risulti dallo statuto del Fondo una cessione del credito, di accantonare e versare ad esso la contribuzione o il T.F.R. maturando conferito. 12. Fino al compimento del versamento da parte del datore di lavoro, la contribuzione o le quote di T.F.R. maturando conferite, accantonate presso il datore di lavoro medesimo, hanno natura retributiva, mentre ha natura previdenziale la prestazione previdenziale integrativa erogata al lavoratore dal Fondo di previdenza complementare. 13. Il mancato versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, della contribuzione o delle quote di T.F.R. maturando conferite, accantonate su mandato del lavoratore con il vincolo di destinazione del loro versamento al Fondo di previdenza complementare, comporta, per la risoluzione per inadempimento del mandato, il ripristino della disponibilità piena in capo al lavoratore delle risorse accantonate, di natura retributiva: posto che esse assumono natura previdenziale, soltanto all'attuazione del vincolo di destinazione, per effetto del suo adempimento. 14. Il fallimento del datore di lavoro, quale mandatario del lavoratore, comporta lo scioglimento del contratto di mandato, ai sensi dell'art. 78, comma 2, L. Fall. e il ripristino della titolarità, spettante, di regola, al lavoratore, così legittimato ad insinuarsi allo stato passivo, salvo che dall'istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo di previdenza complementare, cui in tal caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell'art. 93 L. Fall. 15. In continuità, pertanto, con la più recente giurisprudenza di questa Corte va riaffermato che, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia versato, al Fondo di previdenza complementare, le quote di T.F.R. che avrebbe dovuto versare secondo la scelta del lavoratore, quest'ultimo resta creditore del corrispondente importo nei confronti del datore di lavoro, di natura "retributiva", atteso che il mancato versamento al Fondo di previdenza complementare non gli ha impresso natura "previdenziale". 16. Conseguentemente, il datore di lavoro cessionario dell'azienda subentra, ex art. 2112 cod. civ., nel debito del datore cedente ed è, pertanto, tenuto ad adempierlo nei medesimi termini. 17. Quanto alla possibilità di invocare l'intervento del Fondo di Garanzia, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n. 80 del 1992, va ribadito il consolidato principio secondo cui il diritto all'intervento del Fondo, sia per quanto concerne il T.F.R. che le ultime tre mensilità, presuppone l'"insolvenza" del "datore di lavoro". 18. Nella vicenda all'esame, quando la lavoratrice ha presentato all'INPS domanda d'intervento ex art. 5 cit. per le quote di T.F.R. accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare dall'ex datrice di lavoro Me. Srl, fallita il 6 marzo 2014, era già passata, dal 1° giugno 2013, alle dipendenze di Fonderia Ba. Srl, cessionaria dell'azienda Me., e, perciò, subentrata nel debito, da Me. non adempiuto, di versamento delle quote di T.F.R. 19. Non sussistono, pertanto, i presupposti dell'intervento del Fondo di garanzia, non essendo il datore di lavoro cessionario - tenuto al versamento delle quote di T.F.R. a suo tempo non versate dal datore cedente - sottoposto a una delle procedure di cui all'art. 1 del D.Lgs. n. 80 del 1992. 20. La sentenza impugnata, che non si è uniformata ai predetti principi, va cassata e, per non essere necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va decisa, nel merito, con il rigetto dell'originaria domanda. 21. La novità della questione trattata consiglia la compensazione delle spese dell'intero processo. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l'originaria domanda; spese compensate dell'intero processo. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 ottobre 2023. Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Franco MODUGNO, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e L. V., con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2023. Visti gli atti di costituzione dell'INAIL e di L. V., nonché gli atti di intervento della Federazione legali del parastato (FLEPAR) e del Presidente del Consiglio dei ministri; udita nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio; uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per FLEPAR, Massimo Luciani e Antonio Pileggi per L. V., Gioia Vaccari per INAIL e l'avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), nella parte in cui, nell'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità assurta a diritto vivente, non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici e attribuita, ai sensi dell'art. 26, quarto comma, della stessa legge, agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell'indennità di anzianità a costoro spettante. 1.1.- Il rimettente riferisce che nel giudizio pendente dinnanzi a sé l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha chiesto condannarsi un proprio dipendente dell'area professionale legale collocato a riposo alla restituzione di una parte di quanto allo stesso corrisposto a titolo di indennità di anzianità, sul presupposto che nel calcolo di tale trattamento erano state indebitamente considerate le competenze e gli onorari giudizialmente liquidati a favore dell'Istituto e attribuiti all'avvocato ai sensi dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975. A sostegno della domanda di ripetizione di indebito - prosegue il giudice a quo - l'INAIL ha dedotto che, dopo la liquidazione dell'indennità di anzianità, effettuata, peraltro con riserva, nei termini suddetti, «aveva dovuto prendere atto» che la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 25 marzo 2010, n. 7158, aveva affermato che dalla base di calcolo del trattamento di fine servizio per i dipendenti degli enti pubblici non economici (cosiddetto parastato) dovessero escludersi le voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e dovevano ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni dei regolamenti che prevedevano, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo. Il rimettente ha, quindi, ricostruito con dovizia di riferimenti l'evoluzione della normativa e della cornice giurisprudenziale nella quale si è inserita la citata pronuncia nomofilattica, ricordando che, anteriormente alla riforma sulla privatizzazione del pubblico impiego, il giudice amministrativo, cui spettava la giurisdizione sui trattamenti di fine servizio in questione, riteneva che la nozione di stipendio complessivo in godimento comprendesse anche gli onorari e le competenze di cui all'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, intravedendo in tali spettanze il corrispettivo naturale e continuativo dell'attività di patrocinio svolta dal dipendente in favore dell'ente e, dunque, una componente ordinaria della retribuzione. Il giudice a quo ha, quindi, osservato che l'interpretazione della normativa in esame è «radicalmente mutat[a]» allorquando la giurisdizione in materia è stata attribuita al giudice ordinario, ricordando, in particolare, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi sulla base di calcolo dell'indennità di anzianità per i dipendenti degli enti pubblici non economici si sono delineati orientamenti contrapposti. Secondo un primo indirizzo interpretativo, ai dipendenti in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 70 del 1975 continuava ad applicarsi la disciplina prevista dagli artt. 5 e 31 del previgente decreto ministeriale 30 maggio 1969 di approvazione del «Regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d'impiego», a condizione che assicurasse un trattamento di maggior favore. Le stesse pronunce affermavano che la nozione di retribuzione contemplata dalle citate disposizioni regolamentari coincidesse con quella onnicomprensiva recepita dall'art. 2121 del codice civile, nella quale rientravano tutte le voci fisse e continuative, dovendosi intendere per tali tutte le componenti retributive non meramente contingenti, non caratterizzate, cioè, da occasionalità, transitorietà o saltuarietà. Un diverso orientamento osservava che, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, normativa con la quale si era inteso razionalizzare ed omogeneizzare il trattamento economico e normativo del parastato, la nozione di stipendio annuo complessivo in godimento, assunta dalla citata previsione a base di calcolo dell'indennità di anzianità, doveva intendersi nel senso di paga tabellare, non comprensiva, cioè, di tutti gli altri emolumenti erogati con continuità e a scadenza fissa. Doveva, inoltre, escludersi la perdurante operatività della previgente disciplina regolamentare, né poteva ritenersi applicabile quella dettata dall'art. 2120 cod. civ., la quale, per i dipendenti in servizio al 31 dicembre 1995, era condizionata, ai sensi dell'art. 69, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), all'intervento, non ancora realizzato, della contrattazione collettiva nazionale, restando ferma, in mancanza, la normativa in materia di trattamento di fine servizio vigente al momento della cessazione del rapporto. Il Tribunale di Roma ha, quindi, ricordato che il contrasto interpretativo è stato composto dalla richiamata sentenza delle sezioni unite civili n. 7158 del 2010, alle cui enunciazioni - con particolare riguardo alla puntualizzazione secondo la quale l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone una disciplina inderogabile da interpretarsi restrittivamente, anche con riferimento al concetto di «stipendio complessivo» dalla stessa menzionato - la giurisprudenza successiva ha dato continuità. Tanto premesso, il giudice rimettente ritiene «del tutto acquisito al cd. diritto vivente» che nella base di calcolo dell'indennità di anzianità spettante ai dipendenti del parastato vadano considerati soltanto lo stipendio base e gli scatti o incrementi strettamente dipendenti dall'anzianità di servizio, senza che possa invocarsi la diversa disciplina dettata dai regolamenti o dai contratti collettivi, e che, quindi, tra le voci retributive computabili non può essere inclusa la “quota onorari” solo perché tale componente dipende anche dall'anzianità di servizio. Inoltre, detto compenso, pur essendo presumibilmente continuativo, non è fisso. Il giudice a quo ritiene che, in presenza di un orientamento ermeneutico assurto a diritto vivente, una diversa ricostruzione dell'istituto, anche se sorretta da una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina rilevante, si rivelerebbe inutile, anche in considerazione della tendenza del giudice di legittimità ad evitare, a garanzia del legittimo affidamento, mutamenti di indirizzo non prevedibili. Il rimettente passa, quindi, in rassegna una serie di possibili argomentazioni di segno contrario, per porne in rilievo l'inidoneità a sostenere una soluzione ermeneutica diversa da quella costruita dalla giurisprudenza di legittimità su «solide e non superabili basi testuali e sistemiche». Lo stesso giudice a quo reputa, invece, impossibile superare in via interpretativa il contrasto di tale diritto vivente con la Costituzione, specie «sul piano della razionalità/ragionevolezza giuridica». 1.2.- La nozione restrittiva di stipendio, argomenta il giudice a quo, «pur plausibilmente tratta dalla prassi normativa del settore», si rivelerebbe, infatti, irragionevolmente formalistica, specie in relazione alla disciplina del parastato, in base alla quale l'indennità di anzianità non ha struttura contributiva, ma è a carico dell'ente datore di lavoro, né si rinviene, rispetto a tale trattamento, una regola espressa di tassatività legale analoga a quella posta dagli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), per l'indennità di buonuscita, e dagli artt. 4 e 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), per l'indennità premio di servizio. Osserva, al riguardo, il rimettente, che, nel contesto normativo in cui si è inserita la legge n. 70 del 1975, da un lato, i trattamenti economici del personale erano stabiliti in via regolamentare dagli stessi enti pubblici datori di lavoro e il concetto di stipendio «non era ancorabile ad una predefinita prassi di tipizzazione legale delle voci computabili» e, dall'altro, con l'art. 26 della legge citata, anticipando un sistema che sarebbe stato generalizzato dapprima con la legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) e, in seguito, con «la riforma del pubblico impiego degli anni '90», l'assetto dei trattamenti economici era rimesso, nella sostanza, alla contrattazione collettiva. Assume, ancora, il giudice a quo che una lettura restrittiva come quella accolta dalla giurisprudenza di legittimità avrebbe potuto comprendersi in un «sistema di tassatività legale» delle voci computabili ai fini della determinazione dei trattamenti di fine servizio, ma non certo in un ambito normativo in cui, al contrario, tali trattamenti «non sono mai stati stabili e qualificati dalla legge». La disciplina censurata, continuando ad agganciare la base di calcolo dell'indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», così escludendo che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva - alla quale, tuttavia, nell'attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici» -, rivelerebbe una intrinseca irrazionalità. 1.3.- Il giudice a quo ritiene che gli onorari in esame non costituiscano una componente retributiva accessoria o secondaria. Di ciò si avrebbe conferma attraverso l'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, il quale dimostra «in modo unico ed eccezionale» che ai legali degli enti parastatali spetta una percentuale delle competenze e degli onorari, quale «naturale corrispettivo» «del tipo di attività» svolta, spettanze che non potrebbero essere introitate integralmente dall'ente datore di lavoro per il solo fatto che il difensore che lo rappresenta in giudizio percepisca uno stipendio, poiché per tale patrocinio lo stesso ente non sopporta alcun esborso. Il rimettente evidenzia, ancora, che la “quota onorari” maturata dalla parte resistente nell'ultimo anno di servizio rappresenta il sessantacinque per cento del suo trattamento economico parametrico di attività, con la conseguenza che, in caso di mancato computo della stessa ai fini dell'indennità di anzianità, risulterebbe più conveniente l'opzione per il trattamento di fine rapporto, opzione che, tuttavia, lo stesso resistente «evidentemente non ha esercitato perché quando è cessato dal servizio era del tutto pacifico, in base alla giurisprudenza amministrativa all'epoca formatasi, ed anche per l'Inail, che la “quota onorari” fosse computabile nell'indennità di anzianità, e per intero». Il giudice a quo ricorda, quindi, che, come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, i trattamenti di fine servizio, costituendo una forma di retribuzione differita, sono presidiati dall'art. 36 Cost., con la conseguenza che nel relativo computo deve essere osservato un ragionevole criterio di proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato e, «per esso, pare implicarsi, al trattamento di attività». Lo stesso rimettente osserva, quindi, che, sebbene una ricorrente enunciazione della giurisprudenza costituzionale precisi che il rispetto dell'art. 36 Cost. debba essere valutato in rapporto al trattamento nel suo complesso, nella sentenza n. 243 del 1993 questa Corte ha desunto la illegittimità costituzionale della mancata considerazione, nel calcolo della indennità di anzianità, dell'indennità integrativa speciale dalla notevole incidenza assunta da tale componente rispetto al trattamento economico complessivo. Viene, quindi, ricordata la sentenza n. 159 del 2019, con la quale questa Corte ha chiarito che la natura di retribuzione differita dei trattamenti di fine servizio è avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni alla durata del servizio e alla retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto e che, anche per tale emolumento, deve essere osservato il canone di proporzionalità imposto dall'art. 36 Cost., anche mediante una tendenziale, progressiva assimilazione alle regole del lavoro privato, nella quale un ruolo fondamentale assume la contrattazione collettiva. 1.4.- Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato anche il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto risulterebbe ingiustificata la diversità della posizione di un dipendente dell'INAIL appartenente al ruolo professionale legale rispetto a quella di un altro dipendente di livello superiore, come ad esempio un dirigente, il quale, pur godendo di un trattamento economico pari a quello accordato al primo, percepisce un'indennità di anzianità maggiore soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non percepisce una quota delle competenze di cui all'art. 26 della legge n. 70 del 1975 e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti» e «la contrattazione collettiva continua a non regolare la materia nel suo complesso, né si è mai curata […] di chiamare “stipendio a percentuale” la “quota onorari”». 1.5.- In ultimo, il giudice rimettente, a sostegno della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, deduce che, in assenza di «un intervento modificativo da parte della Corte costituzionale», la domanda restitutoria avanzata dall'INAIL sarebbe «meritevole di accoglimento», posto che l'ulteriore tema dedotto nel giudizio principale - coincidente con la lesione del legittimo affidamento ingenerato nel resistente dall'interpretazione della disposizione in esame seguita anteriormente all'arresto nomofilattico del 2010 - risulterebbe supportato da argomentazioni non decisive alla luce delle enunciazioni contenute nella sentenza n. 8 del 2023 di questa Corte. 2.- Nel presente giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 2.1.- La difesa statale eccepisce, anzitutto, che le censure di illegittimità costituzionale investono non tanto il contenuto della disposizione in scrutinio, quanto l'interpretazione datane dal diritto vivente e segnatamente da una serie di pronunce di legittimità dalle quali il rimettente potrebbe discostarsi con adeguata motivazione. Inoltre, l'Avvocatura ritiene che le questioni sollevate siano formulate genericamente. Sebbene la “quota onorari” di cui viene denunciata la mancata considerazione, da parte dell'art. 13 della legge n. 75 del 1970, ai fini del calcolo dell'indennità di anzianità, costituisca solo una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici», le censure del rimettente non investirebbero la nozione di retribuzione complessiva, comprensiva, cioè, di tutte le diverse indennità. 2.2.- Nel merito, la difesa dello Stato assume la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 36 Cost., osservando che la nozione di «stipendio complessivamente in godimento» che l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 pone a base del computo dell'indennità di anzianità costituisce una misura proporzionale al lavoro svolto e sufficiente al mantenimento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia, a prescindere dai criteri di computo e dall'ammontare delle singole voci. Sarebbe destituita di fondamento anche la censura con la quale è denunciato il vulnus all'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento tra i professionisti legali dell'INAIL e i dirigenti dello stesso ente, non essendo le due categorie poste a confronto sottoposte alla medesima disciplina. 3.- Nel presente giudizio si è costituito anche l'INAIL, ricorrente nel processo principale, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni. 3.1.- L'Istituto imputa, anzitutto, al giudice rimettente di non avere optato per l'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in scrutinio, dallo stesso ritenuta plausibile, ma non percorribile in quanto in contrasto con il principio di diritto espresso dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione nella ricordata sentenza n. 7158 del 2010. A tal fine, la parte osserva che una questione di legittimità costituzionale può ritenersi ammissibile soltanto laddove una soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile risulti impossibile o comunque ardua da sostenere. Le odierne censure sarebbero inammissibili anche perché il giudice a quo avrebbe omesso ogni deduzione in ordine al profilo della provenienza da terzi delle somme spettanti agli avvocati degli enti pubblici non economici a titolo di onorari. L'esborso di tali spettanze è effettuato dalle parti soccombenti nelle cause in cui è parte l'ente parastatale e, per quanto riguarda l'INAIL, il relativo ammontare è attribuito al Fondo previsto dalla deliberazione del Commissario straordinario di tale istituto 25 settembre 2003, n. 788, recante il «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati», dal quale sono tratti gli importi da versare ai singoli avvocati. Per converso, l'indennità di anzianità è a totale carico dell'ente datore di lavoro. L'INAIL ravvisa un ulteriore profilo di inammissibilità nell'avere il giudice a quo richiesto un intervento di questa Corte «di modifica» dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, in forza del quale il termine “stipendio”, ivi previsto come base di calcolo dell'indennità di anzianità, sia sostituito con quello di “retribuzione” complessivamente in godimento, comprensiva, quindi, degli emolumenti versati agli avvocati per onorari professionali, senza, tuttavia, considerare i compensi professionali agli stessi erogati mediante esborsi a carico dell'ente pubblico per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite, come stabilito dalla citata deliberazione dell'INAIL n. 788 del 2003. L'intervento modificativo auspicato dal rimettente sarebbe inammissibile anche perché determinerebbe effetti che travalicano i limiti delle censure in scrutinio, in quanto coinvolgerebbe l'intero genus degli emolumenti integrativi o accessori riconosciuti in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici. 3.2.- Nel merito, l'INAIL argomenta la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 36 Cost. richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo la quale i criteri di sufficienza e di proporzionalità desumibili da tale precetto costituzionale sono inscindibilmente connessi, di modo che la relativa verifica esige una valutazione globale e di sintesi dell'intero assetto retributivo garantito al lavoratore, a prescindere dai criteri di computo dell'ammontare delle singole voci. Ad avviso dell'Istituto, la nozione di stipendio complessivo in godimento - e non quella di retribuzione, comprensiva di elementi aggiuntivi e accessori -, sulla quale la disposizione in esame basa il calcolo dell'indennità di anzianità, da un lato, sarebbe coerente con il potere del legislatore di tenere conto delle esigenze di finanza pubblica e, dall'altro, non inciderebbe sulla sufficienza e sulla proporzionalità della retribuzione rispetto al lavoro svolto, dovendo la verifica di tali canoni investire il trattamento economico nella sua complessità e non le singole voci di cui si compone. Quanto alla questione relativa alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., l'INAIL rileva l'assenza di adeguata motivazione a sostegno sia della censura di irragionevolezza e di irrazionalità della disposizione in scrutinio, sia della denunciata disparità di trattamento. 3.3.- Nell'imminenza dell'udienza pubblica l'INAIL ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell'atto di costituzione, precisandole e corroborandole con ulteriori richiami giurisprudenziali. 4.- Si è costituito in giudizio anche L. V., resistente nel processo principale, chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 4.1.- La parte, dopo aver dettagliatamente descritto i termini del giudizio principale e ricomposto il quadro normativo di riferimento, ha svolto diffuse argomentazioni a sostegno dell'ammissibilità delle questioni sollevate. 4.2.- Nel merito, la parte ripercorre, prestandovi adesione, le ragioni addotte nell'ordinanza di rimessione a sostegno delle violazioni prospettate. Quanto alla censura formulata in riferimento all'art. 36 Cost., L. V. ricorda come questa Corte abbia ricondotto le indennità di fine servizio nel «paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale», costituendo detti trattamenti «una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell'attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996)» (vengono citate, in particolare, le sentenze n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023). Alla luce di tale inquadramento, la disciplina dei trattamenti di fine servizio, per essere rispettosa dei principi enunciati dall'art. 36 Cost., dovrebbe garantire la proporzionalità tra detti emolumenti e la retribuzione di carattere continuativo percepita dall'avente diritto in costanza di rapporto di lavoro. L'esclusione della “quota onorari” dalla base di calcolo dell'indennità di anzianità sancita dall'interpretazione dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 invalsa nel diritto vivente, sarebbe, pertanto, «assolutamente incomprensibile». Gli onorari - argomenta la parte - sono parte della retribuzione ordinariamente spettante agli avvocati dell'INAIL (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 33 del 2009) e costituiscono una componente del loro trattamento economico complessivo fissa nell'an e variabile soltanto nel quantum. Il contrasto con l'art. 36 Cost. della esclusione degli stessi operata dal diritto vivente si manifesterebbe con particolare evidenza nel caso in scrutinio, nel quale la “quota onorari” spettante a L. V. rappresenta oltre il cinquanta per cento del totale della retribuzione dallo stesso percepita in costanza di rapporto. Pertanto, prosegue la parte, la mancanza di proporzionalità tra retribuzione e trattamento di fine servizio risulterebbe, nella specie, palese, avuto riguardo alle precisazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 nel dichiarare la illegittimità costituzionale della mancata inclusione dell'indennità integrativa speciale nel computo dei trattamenti di fine servizio. La citata pronuncia - ricorda L. V. - ha rilevato che tale voce retributiva è divenuta nel tempo sempre più consistente, così che la sua esclusione dal computo dell'indennità di fine rapporto ha provocato effetti di depauperamento di tali trattamenti sempre più significativi. La parte ha, quindi, ripercorso le motivazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno delle censure di irragionevolezza e irrazionalità della disposizione in scrutinio e di disparità di trattamento, corroborandole con ulteriori argomenti di segno adesivo. Viene, infine, evidenziato che l'interpretazione nomofilattica oggetto di censura ha anche determinato la lesione, in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., della legittima aspettativa della parte resistente nel giudizio a quo, la quale è oggi chiamata a restituire all'INAIL una somma (euro 272.527,70), pari a circa il settanta per cento del trattamento di fine servizio originariamente percepito, a fronte della scelta, che anteriormente alla citata pronuncia della Corte di cassazione, n. 7158 del 2010, appariva la più vantaggiosa, di non esercitare l'opzione per il trattamento di fine rapporto. 4.3.- In vista dell'udienza pubblica, L. V. ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha confermato le conclusioni assunte nell'atto di costituzione e ha replicato alle deduzioni svolte dalla difesa statale e dall'INAIL. 5.- Nel giudizio di legittimità costituzionale ha spiegato intervento adesivo la Federazione legali del parastato - FLEPAR. 5.1.- L'interveniente ha premesso di essere un'associazione federale senza fine di lucro a carattere sindacale il cui scopo è quello di tutelare la dignità, l'autonomia professionale, lo stato giuridico, nonché i diritti economici dei legali delle associazioni aderenti, di essere costantemente presente nello svolgimento delle trattative con l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e di aver sottoscritto diversi contratti collettivi nazionali. A fondamento della propria legittimazione a intervenire, FLEPAR ha dedotto di essere titolare di un interesse, diverso da quello legato alla rappresentanza sindacale, «profondamente conformato» dalla disposizione in esame e inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto nel giudizio principale. A parere dell'associazione, le questioni in scrutinio involgerebbero la definizione dell'ambito riservato all'autonomia collettiva in materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti pubblici non economici e, in particolare, la questione se, alla stregua dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, i contratti collettivi possano disciplinare la sola retribuzione di attività, ovvero se agli stessi sia demandata anche la regolamentazione del trattamento di fine servizio. Dal che deriverebbe, a parere dell'associazione interveniente, che, per effetto di una eventuale decisione di accoglimento, gli accordi sindacali dalla stessa sottoscritti in attuazione dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 e dell'art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. “parastato”». Inoltre, secondo FLEPAR, una pronuncia di accoglimento inciderebbe, al contempo, sulla contrattazione collettiva futura e, in particolare, sul modo in cui l'associazione interveniente, così come le altre organizzazioni sindacali, «dovranno modulare la propria attività per il tempo a venire». 5.2.- Nel merito, l'interveniente ha chiesto accogliersi le questioni di legittimità costituzionale sollevate, svolgendo articolate argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili, dal punto di vista contenutistico, a quelle sviluppate dalla parte resistente nel giudizio a quo. 5.3.- Tali deduzioni sono state ulteriormente precisate mediante la memoria illustrativa depositata nell'imminenza dell'udienza pubblica. 6.- In ultimo, il 20 luglio 2023 l'Associazione nazionale avvocati e procuratori Inps - FLEPAR INPS ha depositato un'opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure svolte dal giudice rimettente. 6.1.- L'associazione ha premesso di aderire alla Confederazione di dirigenti della Repubblica - CODIRP, che rappresenta i dirigenti delle funzioni centrali, dell'Area di istruzione e ricerca e della sanità, di non perseguire fini di lucro e di avere carattere apartitico e sindacale. L'amicus curiae ha fatto, inoltre, rilevare che tra gli scopi istituzionali consacrati nel proprio statuto vi è quello di tutelare e garantire il carattere, le prerogative e le funzioni professionali dell'avvocatura istituzionale, nonché di salvaguardare gli interessi morali ed economici degli avvocati dell'INPS. 6.2.- L'associazione ha, quindi, svolto argomentazioni a sostegno sia dell'ammissibilità sia della fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, soffermandosi, in particolare, sulla natura di retribuzione differita dell'indennità di anzianità di cui al censurato art. 13 della legge n. 70 del 1975 e sulla contrarietà al principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. e irragionevolezza della mancata inclusione della “quota onorari” nel calcolo di tale trattamento. 6.3.- L'opinione è stata ammessa con decreto del Presidente della Corte del 27 dicembre 2023. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 - nell'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, costituente diritto vivente -, nella parte in cui non consente che la quota delle competenze e degli onorari giudizialmente liquidati in favore degli enti pubblici non economici, attribuita dall'art. 26, quarto comma, della stessa legge agli appartenenti al ruolo professionale legale da essi dipendenti, sia computata, neanche in parte, nel calcolo dell'indennità di anzianità a costoro spettante. Alla stregua del principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 7158 del 2010, infatti, la nozione di retribuzione che la disposizione in scrutinio pone a base del computo della suddetta indennità coincide con il solo stipendio tabellare e la sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari, con esclusione di ogni altro emolumento accessorio, e non è derogabile dalla fonte regolamentare, né dall'autonomia collettiva. 1.1.- A giudizio del rimettente, così restrittivamente interpretata, la previsione censurata presenta, anzitutto, un difetto di ragionevolezza e di razionalità, in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto pone una disciplina irragionevolmente formalistica e non modificabile dalla contrattazione collettiva, nonostante la stessa legge n. 70 del 1975 riservi proprio alla fonte negoziale la regolamentazione del trattamento economico di attività. 1.2.- L'interpretazione dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975 cristallizzata dal diritto vivente realizzerebbe, altresì, una ingiustificata disparità di trattamento tra la posizione del dipendente di un ente pubblico non economico - nella specie l'INAIL - appartenente al ruolo professionale legale e quella di un altro dipendente dello stesso ente di livello superiore, come un dirigente, il quale, pur godendo di una retribuzione pari a quella riconosciuta al primo, percepisce un'indennità di anzianità più elevata, soltanto perché, non svolgendo funzioni legali, non riceve una quota delle competenze di cui all'art. 26 della legge citata e «tutto il suo trattamento economico consiste in stipendio e scatti». 1.3.- La disciplina censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, confliggerebbe, infine, con l'art. 36 Cost., in quanto escluderebbe «ogni ragionevole proporzione» tra l'indennità di anzianità spettante al dipendente parastatale appartenente al ruolo professionale legale e il trattamento economico di attività dallo stesso percepito nel corso e al termine della sua carriera. 2.? Preliminarmente, va ribadita la inammissibilità dell'intervento ad adiuvandum spiegato da FLEPAR, per le ragioni illustrate nell'ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata alla presente pronuncia. 3.- Ancora in via preliminare, deve escludersi la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità formulate, in termini pressoché coincidenti, dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, e dall'INAIL, ricorrente nel giudizio principale costituitasi nel processo costituzionale. 3.1.- La difesa statale e l'INAIL rilevano, in primo luogo, che le censure di illegittimità costituzionale non investono il contenuto della disposizione in scrutinio, ma l'interpretazione datane dal diritto vivente, dalla quale, tuttavia, il giudice rimettente avrebbe potuto discostarsi con adeguata motivazione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, il giudice a quo, pur essendo libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa ricostruzione (sentenza n. 95 del 2020), ha, in alternativa, la facoltà di assumere l'interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022), senza che gli si possa imputare di non aver seguito una diversa interpretazione, più aderente ai parametri stessi (sentenza n. 180 del 2021), poiché la norma vive ormai nell'ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016). Nel caso di specie, l'esistenza di un diritto vivente è da ritenersi incontestabile - posto che il significato della disposizione qui censurato è stato indicato dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione mediante un'interpretazione poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità -, così che del tutto plausibilmente il rimettente ha ritenuto inutile proporre una diversa esegesi con esso incompatibile. 3.2.- Non è fondata neppure l'eccezione con la quale l'Avvocatura generale dello Stato e l'INAIL imputano al giudice a quo di avere comunque prospettato una soluzione ermeneutica diversa da quella nomofilattica, senza, tuttavia, farla propria, ma chiedendo a questa Corte, alternativamente, di avallarla attraverso una pronuncia di rigetto ovvero di dichiarare l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ove interpretata secondo il diritto vivente. Il rimettente mostra, al contrario, di condividere, «sul piano delle tecniche dell'esegesi ordinaria», la ricostruzione assurta a diritto vivente, ritenendola sorretta da «solide e non superabili basi testuali e sistemiche», e tuttavia dubita che il significato dalla stessa attribuito alla previsione in scrutinio sia compatibile con i precetti costituzionali evocati. 3.3.- Non merita accoglimento neanche il rilievo di inammissibilità a sostegno del quale il Presidente del Consiglio dei ministri e l'INAIL deducono che il giudice a quo non avrebbe considerato che l'emolumento di cui auspica l'inclusione nella base di calcolo dell'indennità di anzianità costituisce soltanto una delle componenti del «variegato genus delle indennità integrative e/o accessorie, riconosciute in attività ai dipendenti degli enti pubblici non economici». La limitazione della richiesta additiva agli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 risulta, invece, coerente con il thema decidendum del giudizio principale, in cui oggetto di discussione è la mancata considerazione di tale specifica componente retributiva ai fini del computo dell'indennità di anzianità liquidata ad un dipendente del ruolo professionale legale dell'INAIL collocato a riposo. 3.4.- Deve essere, ancora, disattesa l'eccezione con la quale l'INAIL contesta l'incompletezza del petitum additivo, sul rilievo che nella integrazione normativa auspicata dal rimettente non sarebbero compresi i compensi professionali per le transazioni successive alle sentenze favorevoli o alla compensazione delle spese di lite previsti dalla richiamata deliberazione del Commissario straordinario dell'INAIL n. 788 del 2003. La circostanza che nell'atto di promovimento la “quota onorari” sia stata individuata mediante il riferimento al solo art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non implica che il giudice a quo abbia limitato il richiesto intervento additivo alle sole competenze e agli onorari liquidati giudizialmente in favore dell'ente ivi contemplati, senza implicitamente considerare anche le successive modifiche normative che hanno ampliato l'emolumento in esame, aggiungendovi le competenze legate alle cause nelle quali l'amministrazione non sia rimasta soccombente e che siano definite con compensazione o transatte senza spese a carico della controparte. 3.5.- Da ultimo, contrariamente a quanto sostenuto dall'INAIL, il mancato sviluppo, nell'ordinanza di rimessione, di specifiche deduzioni sulla provenienza da terzi delle competenze e degli onorari di cui si tratta, investendo un aspetto di rilevanza non decisiva ai fini dell'inquadramento dell'indennità di anzianità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975, non si traduce in un deficit motivazionale tale da comportare l'inammissibilità delle questioni sollevate. 4.- Passando all'esame del merito, allo scrutinio delle questioni di legittimità costituzionale è opportuno premettere la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inscrive la disciplina oggetto di censura. 4.1.- La legge n. 70 del 1975 detta una riforma organica dell'ordinamento degli enti pubblici non economici, cosiddetti parastatali, ridefinendo, tra l'altro, gli ambiti della disciplina del personale rispettivamente riservati alla legge, alla contrattazione collettiva ed ai regolamenti dei singoli enti. 4.1.1.- Per quanto riguarda il trattamento di fine servizio, le previsioni che la legge n. 70 del 1975 dedica all'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato sono compendiate nell'art. 13, qui in scrutinio, mentre alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali e, in particolare, del riscatto di anni di servizio ai fini del computo dell'emolumento. Il richiamato articolo, al primo comma, prevede che l'indennità di anzianità, che è a totale carico dell'ente pubblico non economico, spetta al personale da questo dipendente - nel quale vanno inclusi, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, anche i dipendenti a contratto e, proporzionalmente alla durata del servizio, il personale straordinario assunto temporaneamente per le esigenze di carattere eccezionale indicate all'art. 6 della medesima legge - «[a]ll'atto della cessazione dal servizio». Lo stesso terzo comma dispone, inoltre, che l'indennità è determinata in misura «pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo complessivo in godimento, qualunque sia il numero di mensilità in cui esso è ripartito, quanti sono gli anni di servizio prestato», per tale intendendosi, ai sensi del comma successivo, «quello effettivamente prestato senza interruzione presso l'ente di appartenenza, nonché i periodi la cui valutazione ai fini stessi è ammessa esplicitamente dalle leggi vigenti, nonché i periodi di cui il regolamento del singolo ente ammetta il riscatto a carico totale del dipendente». 4.1.2.- Tale indennità compete al personale degli enti pubblici non economici non soggetti, ratione temporis, alla riforma del pubblico impiego avviata con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e, segnatamente, ai dipendenti, già occupati alla data del 31 dicembre 1995, che non abbiano optato per la trasformazione della suddetta indennità nel trattamento di fine rapporto proprio dei lavoratori del settore privato, esercitando la facoltà loro riconosciuta dall'art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). L'indennità di anzianità, al pari dell'indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari dello Stato disciplinata dal d.P.R. n. 1032 del 1973, e l'indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali di cui alla legge n. 152 del 1968, si inscrive, pertanto, nel novero dei trattamenti di fine servizio per i dipendenti pubblici - come il resistente nel giudizio principale - soggetti alla disciplina, di matrice pubblicistica, anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego. 4.2.- Anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 70 del 1975, il trattamento di fine servizio per i dipendenti del parastato era disciplinato dai regolamenti dei singoli enti. Per quanto concerne l'INAIL, il regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale a rapporto d'impiego, approvato con d.m. 30 maggio 1969, all'art. 31, primo comma, prevedeva che «[a]ll'impiegato che cessa dal servizio con diritto alla pensione è corrisposta in aggiunta alla pensione, a carico dell'Istituto, una indennità di buonuscita di importo pari a tanti dodicesimi dell'ultima retribuzione annua spettante per quanti sono gli anni di servizio utile ai fini del trattamento di quiescenza». La nozione di retribuzione rilevante ai fini del calcolo della buonuscita era definita dall'art. 5 nei seguenti termini: «[a]gli effetti del presente Regolamento si intende per “retribuzione” la somma delle seguenti competenze: - stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue; - eventuali assegni personali pensionabili, nonché altre eventuali competenze di carattere fisso e continuativo che siano riconosciuti utili ai fini del trattamento di previdenza e di quiescenza con delibera del Consiglio di amministrazione da assoggettarsi all'approvazione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale di concerto con quello del tesoro». 4.3.- In tale cornice normativa la giurisprudenza amministrativa, alla quale, all'epoca, era devoluta la giurisdizione in materia di pubblico impiego - in seguito attribuita al giudice ordinario - affermava che le somme corrisposte ai legali dipendenti dell'INAIL «a titolo di riparto del fondo competenze di procuratore ed onorari di avvocato» dovessero essere considerate nella base di calcolo dell'indennità di buonuscita (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 5 giugno 1979, n. 433). 4.3.1.- Dopo la riforma del parastato, i giudici amministrativi, riconoscendo alla nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento» recepita dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975 una significativa ampiezza contenutistica, hanno continuato ad includere la cosiddetta “quota onorari” di cui all'art. 26, quarto comma, della stessa legge nella base di calcolo dell'indennità di anzianità. Si osservava che gli onorari e le competenze liquidate giudizialmente in favore dell'ente costituissero una componente ordinaria della retribuzione dei legali degli enti pubblici avente «la sua ragion d'essere nella particolare posizione funzionale dei dipendenti in questione, caratterizzata dalla duplice qualità di impiegato pubblico e di professionista legale, sottoposta in quanto tale ad uno statuto generale» (Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, sentenza 19 febbraio 1986, n. 234). La giurisprudenza amministrativa intravedeva nella “quota onorari” «la funzione di vero e proprio corrispettivo di prestazioni lavorative e [il] carattere di fissità e continuità» (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 9 marzo 2000, n. 1267) e, quindi, in definitiva, una integrazione dello stipendio (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisioni 12 maggio 1986, n. 379; 23 febbraio 1982, n. 78). 4.4.- Le prime decisioni di legittimità registratesi successivamente alla devoluzione al giudice ordinario della cognizione delle controversie sul pubblico impiego, in continuità con la precedente giurisprudenza amministrativa, hanno affermato che nella base di calcolo dell'indennità di anzianità devono essere considerate, oltre allo stipendio in senso stretto, tutte le voci retributive fisse e continuative e, dunque, per quanto concerne gli appartenenti al ruolo professionale legale, anche le competenze di cui all'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975. Tale orientamento muoveva dalla premessa secondo cui l'indennità di anzianità ha natura retributiva, e non previdenziale, ed esibisce una marcata affinità con l'omonimo istituto privatistico disciplinato dagli artt. 2120 e 2121 cod. civ., nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica). Secondo i giudici di legittimità, con l'istituto privatistico l'indennità ex art. 13 della legge n. 70 del 1975 condivideva anche la base di calcolo, coincidente con la nozione onnicomprensiva di retribuzione, accolta dalla giurisprudenza, inclusiva di tutti gli assegni a carattere fisso e continuativo. In tale ampia nozione di retribuzione utile al calcolo del trattamento di fine servizio venivano incluse anche le componenti retributive correlate alla professionalità del lavoratore, non rilevando l'eventuale non definitività dell'attribuzione patrimoniale. In sintesi, ne era esclusa soltanto la retribuzione contingente, caratterizzata, cioè, dalla occasionalità, dalla transitorietà o saltuarietà (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 23 aprile 2007, n. 9551; 13 aprile 2007, n. 8923; 28 marzo 2007, n. 7596 e 20 marzo 2007, n. 6633). 4.4.1.- Successivamente, all'interno della sezione lavoro della Corte di cassazione si è delineato un orientamento di segno contrario. Le pronunce espressive di tale nuovo orientamento sottolineavano che la legge n. 70 del 1975, da un lato, aveva demandato alla contrattazione collettiva la disciplina del trattamento economico di attività, imponendo a ciascun ente di modificare i regolamenti organici vigenti in conformità alle proprie disposizioni entro sei mesi dall'approvazione degli accordi sindacali e vietando, all'art. 26, l'introduzione, in sede di contrattazione collettiva, di emolumenti accessori o integrativi; dall'altro, per quanto concerne il trattamento di quiescenza, aveva dettato essa stessa, all'art. 13, la disciplina applicabile. In tal modo essa aveva determinato l'abolizione delle diverse deliberazioni dei consigli di amministrazione dei singoli enti, posto che la perdurante operatività dei trattamenti ivi previsti si sarebbe posta «in insanabile contrasto con la lettera e la finalità della legge di razionalizzazione ed omogeneizzazione, pena, contrariamente opinando, la completa inutilità della legge medesima» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 maggio 2008, n. 11603; in senso conforme, sentenze 14 luglio 2008, n. 19299; 10 luglio 2008, n. 19014; 7 luglio 2008, n. 18587; 9 maggio 2008, n. 11604 e 7 aprile 2008, n. 8984). In aggiunta, con specifico riferimento al trattamento di fine servizio, le pronunce in esame ritenevano che la nozione di «stipendio annuo complessivo in godimento», che l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 assume a parametro di calcolo di tale prestazione, includesse soltanto la retribuzione base, o paga tabellare, oltre al trattamento riferito all'anzianità acquisita - come reso evidente dall'uso del termine “complessivo” - con esclusione di ogni altra indennità o emolumento. 4.5.- Il contrasto interpretativo è stato composto dalle Sezioni unite civili con la sentenza n. 7158 del 2010, la quale, aderendo al secondo degli orientamenti di cui si è dato conto, ha enunciato il principio di diritto secondo il quale l'art. 13 della legge n. 70 del 1975 di riordinamento degli enti pubblici non economici e del rapporto di lavoro del relativo personale detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto - rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 cod. civ. - non derogabile, neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un'indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato. Rimane rimessa all'autonomia regolamentare dei singoli enti solo l'eventuale disciplina della facoltà, per il dipendente, di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento, quale base di calcolo, allo stipendio complessivo annuo - hanno, inoltre, chiarito le sezioni unite della Corte di cassazione - ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti dei singoli enti che prevedano, ai fini del trattamento di quiescenza, il computo delle competenze a carattere fisso e continuativo. 4.5.1.- La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tali enunciazioni (Corte di cassazione, sezione sesta, sottosezione lavoro, ordinanza 25 febbraio 2011, n. 4749 e sezione lavoro, ordinanza 3 marzo 2020, n. 5892), precisando coerentemente che, nella base di calcolo dell'indennità di anzianità degli appartenenti al ruolo professionale degli enti pubblici non economici, non deve essere inclusa la quota degli onorari e delle competenze agli stessi spettante ai sensi dell'art. 26 della legge n. 70 del 1975 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 marzo 2012, n. 3775). 5.- Tutto ciò premesso, nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., sotto i diversi profili dedotti, non è fondata. 5.1.- Deve, anzitutto, escludersi che la nozione di stipendio assunta dalla disposizione in esame a parametro di calcolo dell'indennità di anzianità così come ricostruita dalla giurisprudenza di legittimità, continuando ad ancorare la determinazione dell'indennità di anzianità «ad un dato formale del 1975», senza che su di essa possa incidere la contrattazione collettiva, alla quale, tuttavia, nell'attuale contesto la stessa legge attribuisce «il dominio […] sugli assetti dei trattamenti economici», riveli una intrinseca irrazionalità. Il concetto di stipendio utile alla determinazione dell'indennità di anzianità indicato dal diritto vivente è coerente con il contenuto precettivo e con la ratio della disposizione in scrutinio e concorda con la logica di fondo della legge n. 70 del 1975 e, più in generale, dell'ordinamento del pubblico impiego non contrattualizzato in cui essa si inscrive. Parimenti rispondente alle linee sistematiche di tali discipline è l'affermazione di principio secondo la quale la regola espressa dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975 non può essere derogata dalla fonte regolamentare, né dall'autonomia collettiva. 5.1.1.- Occorre considerare che, come risulta dalla relazione illustrativa della proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati il 24 giugno 1972, la riforma del parastato si prefiggeva di «mettere ordine» in un settore caratterizzato da un elevatissimo numero di enti proliferati per effetto di una legislazione episodica e frammentaria, sopprimendo gli enti superflui o che avevano esaurito la loro funzione, unificando quelli che svolgevano in modo non coordinato le stesse funzioni e ristrutturando gli enti che dovevano adeguare l'organizzazione e il personale alle nuove funzioni. Riguardo agli enti conservati dal riassetto, il legislatore intendeva ricondurre a principi unitari l'ordinamento del personale da essi dipendente, definendone lo stato giuridico e previdenziale e uniformandone il trattamento retributivo. A tal fine, la legge n. 70 del 1975 ha ripartito la disciplina del personale tra la fonte legale, la contrattazione collettiva e i regolamenti dei singoli enti, riconoscendo alla prima un ruolo primario - come reso evidente dal tenore dall'art. 1, primo comma, a mente del quale «[l]o stato giuridico e il trattamento economico d'attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge» - e lasciando alla fonte regolamentare uno spazio soltanto residuale. Agli accordi sindacali l'art. 26, primo comma, della legge n. 70 del 1975 ha, invece, demandato la regolamentazione del trattamento economico di attività, cui si aggiunge lo stato giuridico per la parte non prevista dalla stessa legge e non affidata ai regolamenti organici degli enti. 5.1.2.- Per quanto riguarda il trattamento di quiescenza, la disciplina dell'indennità di anzianità, come ricordato, è quasi integralmente compendiata nell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, posto che alla fonte regolamentare è rimessa la definizione di soli aspetti marginali - e, in particolare, del riscatto degli anni di servizio ai fini del computo del trattamento -, mentre non viene riconosciuta alcuna competenza alla contrattazione collettiva. Tale scelta legislativa si inscrive coerentemente nella cornice che ha fatto da sfondo alla riforma del 1975, nella quale il processo legislativo che avrebbe condotto alla privatizzazione del pubblico impiego era appena iniziato e, come confermato dalla ricordata relazione illustrativa della proposta di legge, ancora radicata era la concezione pubblicistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La predeterminazione legale delle modalità di calcolo del trattamento di quiescenza risponde ad esigenze di controllo e di prevedibilità della spesa pubblica, tenuto anche conto che l'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato, a differenza degli omologhi emolumenti riconosciuti ai dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli enti territoriali, è a totale carico dell'ente datore di lavoro. 5.2.- Ciò posto, la qualificazione giuridica cristallizzatasi nel diritto vivente oggetto di censura valorizza congruamente le specificità connotative del termine «stipendio» impiegato nell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, il quale non può essere considerato come sinonimo di retribuzione, ma deve essere inteso nella sua specifica valenza assunta nel contesto della legge di riforma del parastato e, più in generale, nella disciplina del pubblico impiego. Nonostante il rinvio all'autonomia collettiva, la legge n. 70 del 1975, nella prospettiva di rendere omogenee le condizioni economiche dei dipendenti di tutti gli enti interessati dal riordino, delinea essa stessa i tratti essenziali della struttura della retribuzione. Anzitutto, l'art. 17, primo comma, stabilendo che «[n]ell'ambito di ciascuna qualifica sono previste, oltre ai normali scatti di anzianità, una o più classi di stipendio che vengono raggiunte, in base all'anzianità effettiva di servizio, dai dipendenti che non abbiano subito alcuna delle sanzioni disciplinari di cui all'articolo 11», enuclea una specifica nozione di stipendio, configurandola come una posta retributiva fissa commisurata alla qualifica del dipendente e alla classe dallo stesso raggiunta in base all'anzianità effettiva di servizio e maggiorata degli scatti di anzianità. L'art. 26, secondo comma, prescrive, poi, che la disciplina collettiva del trattamento economico si uniformi a «norme di chiarezza in modo che ai dipendenti degli enti sia assicurata parità di trattamento economico e parità di qualifica indipendentemente dall'amministrazione di appartenenza e in modo da essere finalizzato al perseguimento di una progressiva perequazione delle condizioni giuridiche ed economiche di tutti i dipendenti pubblici». Al medesimo obiettivo di chiarezza, oltre che di prevedibilità della spesa per il personale, risponde anche il successivo terzo comma, il quale vieta l'attribuzione di «trattamenti economici accessori ovvero trattamenti integrativi relativi a singoli enti o di categorie di enti», facendo salve le quote di aggiunta di famiglia e l'indennità integrativa speciale «nella misura e con le forme vigenti per il personale civile dello Stato». Un'ulteriore eccezione al divieto di riconoscimento di emolumenti accessori si rinviene nel quarto comma del medesimo art. 26, ora in esame, il quale riconosce ai dipendenti appartenenti al ruolo professionale legale una quota degli onorari e delle competenze liquidate giudizialmente in favore dell'ente, demandandone la determinazione all'autonomia collettiva. 5.3.- La nozione di stipendio utile ai fini dell'indennità di anzianità elaborata dal diritto vivente collima anche con le esigenze di uniformità e di razionalizzazione che permeano le previsioni che detta legge dedica al trattamento di quiescenza. Essa si concilia, in primo luogo, con la tecnica di computo dell'indennità di anzianità configurata dall'art. 13 della legge n. 70 del 1975. Il trattamento di fine servizio dei dipendenti del parastato, a differenza della buonuscita dei dipendenti civili e militari dello Stato e dell'indennità premio di servizio per il personale degli enti locali, non si basa su una contribuzione del lavoratore e dell'ente datore di lavoro, né sulla sommatoria delle quote di retribuzione annuale e sul loro accantonamento in senso tecnico - come quello che si rinviene nel trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ. -, ma sulla moltiplicazione tra l'importo dello stipendio complessivo, incrementato, cioè, degli scatti di anzianità e degli emolumenti ad essi similari, in godimento al momento della cessazione dall'impiego e il numero degli anni di servizio prestato. Tale sistema di calcolo, essendo ancorato, a vantaggio del lavoratore, allo stipendio dell'ultimo anno di servizio («[a]ll'atto della cessazione dal servizio»), non è compatibile con il conteggio di componenti retributive variabili, posto che tali emolumenti, nell'annualità assunta a parametro, non necessariamente potrebbero essere stati percepiti dall'interessato. 5.4.- Il carattere tassativo che il diritto vivente attribuisce alla base parametrica dell'indennità di anzianità per i dipendenti del parastato trova, inoltre, riscontro in altre discipline sui trattamenti di fine servizio anteriori alla privatizzazione del pubblico impiego. In particolare, a mente dell'art. 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, la base contributiva di calcolo della indennità di buonuscita per i dipendenti statali è costituita «dall'80 per cento dello stipendio, paga o retribuzione annui, considerati al lordo, di cui alle leggi concernenti il trattamento economico del personale iscritto al Fondo», nonché da una serie di assegni nominativamente individuati. A norma dell'art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, l'indennità premio di servizio per il personale degli enti locali va ragguagliata allo «stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio stesso». 5.4.1.- Gli elementi che, alla stregua della disciplina positiva, accomunano i trattamenti di fine servizio sopra indicati all'indennità di anzianità vanno, dunque, individuati nella predeterminazione legale e nella tassatività delle componenti retributive utili al loro calcolo. A tale riguardo, la giurisprudenza amministrativa afferma costantemente che «[p]er stabilire l'idoneità di un certo compenso a far parte della base contributiva dell'indennità di buonuscita non rileva il carattere sostanziale dello stesso (ossia se abbia o meno natura retributiva), ma esclusivamente il dato formale: vale a dire il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 17 maggio 2017, n. 2335; nello stesso senso, ex multis, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 20 dicembre 2011, n. 6736; TAR Lazio, sezione prima-quater, sentenza 7 aprile 2008, n. 2880). In consonanza con tali enunciazioni, la giurisprudenza di legittimità ha, a propria volta, osservato che «la determinazione della cosiddetta retribuzione-parametro, da porre a base del calcolo di istituti di retribuzione indiretta o differita, è ricavabile esclusivamente dalla specifica disciplina di volta in volta dettata per questi ultimi», disciplina da ritenersi «esaustiva, non concorrente ed incompatibile con deroghe provenienti dalla privata autonomia, in quanto espressione di un regime pubblicistico, improntato alla cura di interessi generali, che si correlano all'onere sopportato dalla finanza pubblica» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 agosto 2004, n. 16582; in senso conforme, sentenze, sezione lavoro, 21 gennaio 2014, n. 1156 e sezioni unite civili, 1° aprile 1993, n. 3888). Né va sottaciuto che la giurisprudenza di legittimità in tema di indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, ha chiarito che la retribuzione contributiva alla quale si commisura tale trattamento è costituita dai soli emolumenti testualmente considerati dall'art. 11, quinto comma, della legge n. 152 del 1968, la cui elencazione ha carattere tassativo, dovendosi interpretare la dizione «stipendio o salario» in senso restrittivo, alla luce dell'espressa menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici di anzianità, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2017, n. 11156). 5.5.- È, inoltre, significativo come la scelta della riforma del parastato di riservare alla legge la configurazione del trattamento di fine servizio abbia resistito alla stessa contrattualizzazione del pubblico impiego avviata dal d.lgs. n. 29 del 1993. L'art. 2, commi 5 e 7, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) ha, infatti, previsto che, per i dipendenti assunti dal 1° gennaio 1996, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sarebbero stati regolati in base a quanto previsto dall'art. 2120 cod. civ., in materia di trattamento di fine rapporto, mentre per i dipendenti già occupati alla data del 31 dicembre 1995 - termine poi prorogato al 31 dicembre 2000 dall'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti) - erano rimesse alla contrattazione collettiva nazionale le sole modalità per l'applicazione della disciplina, di fonte legislativa, del trattamento in materia di fine rapporto. In realtà, l'art. 4 dell'Accordo quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare per i dipendenti pubblici del 29 luglio 1999 - recepito dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti) -, al comma 1, ha disposto che «[i]l TFR si calcola applicando i criteri previsti dall'art. 2120 del codice civile sulle seguenti voci della retribuzione: a) l'intero stipendio tabellare; b) l'intera indennità integrativa speciale; c) la retribuzione individuale di anzianità; d) la tredicesima mensilità; e) gli altri emolumenti considerati utili ai fini del calcolo dell'indennità di fine servizio comunque denominata ai sensi della preesistente normativa» e, al comma 2, ha previsto che «[u]lteriori voci retributive potranno essere considerate nella contrattazione di comparto, garantendo per la finanza pubblica, con riferimento ai settori interessati, i complessivi andamenti programmati sia della spesa corrente, sia delle condizioni di bilancio degli enti gestori delle relative forme previdenziali». Una disciplina organica sul trattamento di fine rapporto non è, però, fino a questo momento intervenuta, tanto che l'art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha riprodotto il contenuto del citato art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993. Sulla scorta di tali previsioni, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, per il trattamento di fine rapporto ex art. 2120 cod. civ., deve aversi riguardo non agli artt. 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, che demandano alla contrattazione collettiva la disciplina sulla retribuzione del lavoro pubblico contrattualizzato, ma, appunto, all'art. 69, il quale per il trattamento di fine rapporto mantiene ferma la disciplina vigente in attesa di un intervento di sistema, e quindi organico, da parte dell'autonomia contrattuale (Corte di cassazione, sentenza n. 5892 del 2020). La Corte di cassazione ha anche precisato che, in attesa di tale intervento, la disciplina legislativa in vigore rimane non derogabile, neanche dalla fonte collettiva, nel senso che i contratti collettivi non possono prevedere con disposizioni isolate e frammentarie singole voci retributive da computare nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto e, ove ciò accada, la disposizione negoziale deve essere disapplicata. 5.6.- In ogni caso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, l'opzione interpretativa sottesa alla disposizione censurata non si espone a rilievi di anacronismo soltanto perché, in un contesto ormai ispirato al paradigma privatistico e caratterizzato dal «dominio» della fonte collettiva, per i dipendenti assunti nel vigore del regime anteriore alla contrattualizzazione del lavoro pubblico, continua ad applicarsi una disciplina di natura pubblicistica come quella qui in scrutinio. Questa Corte ha, infatti, chiarito che «il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi» (sentenza n. 244 del 2014). Spetta, infatti, all'apprezzamento discrezionale del legislatore, in coerenza con il generale canone di ragionevolezza, delimitare la sfera di applicazione delle normative che si succedono nel tempo, ne´ contrasta di per se´ con il principio di eguaglianza il trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie in momenti diversi nel tempo (sentenze n. 240 del 2019 e n. 104 del 2018). 6.- Neanche la questione con cui è dedotta la violazione del principio di eguaglianza merita accoglimento. 6.1.- Il giudice rimettente, nel porre a raffronto i dipendenti degli enti pubblici non economici appartenenti al ruolo professionale legale e i dipendenti dei medesimi enti - e, in particolare, i lavoratori con qualifica dirigenziale - che non svolgono funzioni legali, non ha considerato che le posizioni in comparazione sono del tutto eterogenee. Non deve, infatti, trascurarsi che, come osservato da questa Corte, gli avvocati dipendenti degli enti pubblici costituiscono un unicum e pertanto non possono essere paragonati ad altre categorie di dipendenti (sentenza n. 33 del 2009). Non può, al contempo, sottacersi che gli stessi dirigenti, anche nell'assetto delineato dalla legge n. 70 del 1975, sono sottoposti ad un regime giuridico e ad un trattamento economico specifici, come reso evidente dal contenuto dell'art. 18 della legge citata. In definitiva, il diverso status giuridico ed economico delle categorie di lavoratori poste a raffronto inficia il giudizio di comparazione richiesto dal rimettente (sentenza n. 200 del 2023). 7.- È, infine, da escludersi la dedotta violazione del principio di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost. 7.1.- Il giudice a quo muove da una corretta premessa ermeneutica nell'affermare che la configurazione dei trattamenti di fine servizio come retribuzione differita, sia pure con concorrente funzione previdenziale, attrae le prestazioni in esame nell'ambito applicativo delle garanzie sancite dall'art. 36 Cost., il quale, come ripetutamente affermato da questa Corte, «prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l'idoneità a garantire, in ogni caso, un'esistenza libera e dignitosa» (sentenza n. 159 del 2019; in senso conforme sentenza n. 130 del 2023). Tale affermazione deve, tuttavia, essere coordinata con l'enunciazione, altrettanto sedimentata nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale lo scrutinio sulla conformità di una disciplina sulla retribuzione - e dunque anche sulla retribuzione differita - all'art. 36 Cost. non può essere svolto atomisticamente, dovendo investire il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso (ex aliis, sentenze n. 200 del 2023, n. 27 del 2022, n. 71 del 2021, n. 236 del 2017 e n. 96 del 2016) e non i singoli elementi che lo compongono, né le prestazioni accessorie (sentenza n. 164 del 1994). 7.2.- Se, dunque, è innegabile che l'indennità di fine servizio debba essere «rapportata alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro» (sentenza n. 243 del 1993) e, pertanto, trovi nel trattamento economico di attività la sua base parametrica, tuttavia, affinché possano ritenersi rispettati i canoni di sufficienza e di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost., non deve sussistere una corrispondenza pedissequa tra la composizione dei due emolumenti, tale per cui ogni singola voce della retribuzione debba essere considerata nel trattamento di quiescenza. 7.2.1.- A tale riguardo, occorre, ancora una volta, ricordare che la disciplina dei trattamenti di fine servizio anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego è caratterizzata dalla preminenza della fonte legale, la quale si coniuga con l'indole pubblicistica del rapporto di lavoro non contrattualizzato e risponde ad esigenze di razionalizzazione e di chiarezza, di prevedibilità e di controllabilità della spesa pubblica. Va, inoltre, ribadito che, in tale contesto normativo, spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto del principio di eguaglianza e delle garanzie sancite dall'art. 36 Cost., la base retributiva delle singole indennità di fine servizio nonché i modi e la misura delle stesse (sentenze n. 278 del 1995, n. 243 del 1993, n. 151 del 1976 e n. 251 del 1974). In un sistema siffatto, non è, dunque, sufficiente addurre la natura retributiva di un compenso per ritenere che la sua mancata considerazione ai fini del trattamento di fine servizio confligga con la garanzia della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Tale principio deve, invece, ritenersi osservato allorché detto trattamento esprima, in proporzione, il nucleo del profilo retributivo riconosciuto al dipendente, coincidente con il trattamento economico fondamentale. 7.2.2.- Nel rapporto di lavoro pubblico non contrattualizzato il trattamento fondamentale indica, infatti, il corrispettivo principale dell'attività lavorativa ed è inteso a remunerare la professionalità media del lavoratore. Esso comprende componenti, come lo stipendio tabellare, gli incrementi dipendenti dall'anzianità di servizio, la tredicesima mensilità e l'assegno per il nucleo familiare (oggi, assegno unico), che spettano in modo fisso e continuativo. A detto trattamento possono aggiungersi emolumenti accessori, caratterizzati dalla eventualità e dalla variabilità, come il compenso per lavoro straordinario e le indennità speciali volte a compensare lo svolgimento di attività particolarmente disagiate, pericolose o dannose per la salute, ovvero a premiare la produttività individuale o collettiva. 7.3.- Tanto premesso, l'interpretazione della Corte di cassazione, secondo la quale la “quota onorari”, riconosciuta dall'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 agli avvocati degli enti pubblici non economici, non rientra nella nozione di retribuzione fondamentale, non determina la violazione dell'art. 36 Cost. 7.3.1.- Secondo la giurisprudenza di legittimità, tali competenze costituiscono un'attribuzione di carattere accessorio e variabile che si aggiunge alla retribuzione contrattuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 11 dicembre 2018, n. 31989; 5 luglio 2017, n. 16579). 7.3.2.- Il carattere accessorio dei compensi in esame, come già evidenziato, si ricava dall'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975, nel quale il riconoscimento agli appartenenti al ruolo professionale delle competenze e degli onorari liquidati giudizialmente è oggetto di una previsione speciale e derogatoria del divieto di attribuzione di trattamenti economici accessori sancito, al terzo comma, in consonanza con l'obiettivo programmatico di chiarezza e di prevedibilità della spesa per il personale che pervade l'intero testo della riforma del parastato. 7.3.3.- Il carattere variabile degli onorari ex art. 26 della legge n. 70 del 1975 si desume, invece, dallo stesso sistema di erogazione di tale emolumento, il quale è condizionato dall'esito delle controversie in cui è parte l'ente pubblico patrocinato dai funzionari del ruolo professionale. Non si tratta, infatti, di un compenso fisso e predeterminato, ma dipendente dall'elemento aleatorio costituito dal numero delle cause vinte dall'ente e dalle somme che l'ente è riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Ai sensi dell'art. 30, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1976, n. 411 (Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70) - il quale ha recepito il primo accordo sindacale attuativo dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 -, ai suddetti funzionari è, infatti, attribuita una quota delle somme «riscosse dall'ente a titolo di competenze di procuratore ed onorari di avvocato». Per quanto concerne l'INAIL, il regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, adottato dal Commissario straordinario dell'INAIL con la deliberazione n. 788 del 2003, ha poi previsto che il bilancio dell'Istituto sia munito di un apposito capitolo di spesa, coperto da un fondo specifico che viene alimentato secondo due differenti ipotesi. In un primo caso, di vittoria in giudizio dell'Istituto, le spese legali, poste a carico della controparte e riscosse dallo stesso ente a seguito di sentenza, ordinanza, decreto, rinuncia o transazione, la “quota onorari” è commisurata all'intera parcella professionale, dedotte le spese vive di procedura e le eventuali competenze spettanti ad avvocati esterni. Diversa è l'ipotesi in cui l'Istituto liquida il cinquanta per cento dei compensi professionali ai propri avvocati, nonostante non abbia riscosso tali compensi o perché e` intervenuta una transazione a seguito di sentenza favorevole o perché e` stata pronunciata compensazione, anche parziale, delle spese in cause nelle quali l'ente non e` rimasto soccombente. Un analogo meccanismo di attribuzione è stato successivamente delineato dagli artt. 4 e 5 della determinazione del Presidente dell'INAIL 21 gennaio 2015, n. 16, con la quale è stato approvato un nuovo «Regolamento per la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati Inail» a decorrere dal 1° gennaio 2015. 7.3.4.- La natura premiale dei compensi in questione si desume anche dalla correlazione dell'importo degli stessi con il numero delle cause in cui l'ente di riferimento risulti vittorioso e con le somme che lo stesso ente sia riuscito a riscuotere dai terzi soccombenti. Essi, infatti, sebbene non vengano accordati soltanto ai legali che hanno patrocinato le cause con esito favorevole, ma vengano ripartiti tra tutti gli avvocati in base a criteri predeterminati e in rate costanti, salvo conguaglio, nel loro ammontare complessivo assumono una funzione remunerativa della complessiva produttività degli appartenenti al ruolo professionale legale dell'ente pubblico. Deve, poi, considerarsi che detta funzione premiale e incentivante degli onorari è stata riconosciuta da un'apposita disciplina, la quale, pur non trovando applicazione nella fattispecie oggetto del giudizio principale, attesta significativamente l'evoluzione di un profilo funzionale che ha sempre connotato l'istituto in esame. Il d.l. n. 90 del 2014, come convertito, all'art. 9, comma 5, ha, infatti, stabilito che i regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme recuperate nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, «in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali». In attuazione delle disposizioni introdotte dalla novella del 2014, la ricordata determinazione del Presidente dell'INAIL del 21 gennaio 2015, n. 16, all'art. 7, ha dettato ulteriori criteri speciali di riparto, stabilendo che gli importi degli onorari riscossi a carico delle controparti a seguito di provvedimenti giudiziali sono corrisposti a ciascun avvocato, in base al rendimento individuale rilevato, anche con l'ausilio di strumenti informatici, tenendo conto di una serie di parametri. 7.3.4.1.- Indici rivelatori del carattere premiale degli onorari in disamina si rinvengono anche nella disciplina riguardante i legali degli enti locali, i quali condividono con gli avvocati dipendenti degli altri enti pubblici la matrice normativa. L'art. 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, al quarto comma, lettera b), nel sancire la compatibilità dell'esercizio della professione forense nell'ambito di un rapporto di pubblico impiego, faceva, infatti, rinvio agli enti pubblici enumerati al secondo comma della medesima disposizione tra i quali figuravano, oltre allo Stato, anche gli enti locali. Attualmente, l'art. 23, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), nel conformare la peculiare figura del professionista legale incardinato presso una pubblica amministrazione e al quale è affidato lo ius postulandi nell'interesse di quest'ultima, fa riferimento agli avvocati degli uffici legali istituiti presso «enti pubblici», senza ulteriori distinzioni. 7.3.4.2.- Anche nell'ordinamento degli enti locali i compensi professionali liquidati giudizialmente in favore dell'amministrazione sono sempre stati attribuiti agli avvocati da essa dipendenti, dapprima in forza dell'art. 69 del decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1987, n. 268 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo sindacale, per il triennio 1985-1987, relativo al comparto del personale degli enti locali) e successivamente sulla base delle previsioni dei regolamenti dei singoli enti. La natura premiale di tali emolumenti trova conferma nel decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), il quale, al punto 5.2. dell'Allegato 4/2, nell'individuare i principi contabili per le «spese relative al trattamento accessorio e premiante», precisa, con riguardo alla spesa nei confronti dei dipendenti addetti all'Avvocatura, che, poiché la normativa prevede la liquidazione dell'incentivo solo in caso di esito del giudizio favorevole all'ente, si è in presenza di una obbligazione passiva condizionata al verificarsi di un evento con riferimento al quale non è possibile impegnare alcuna spesa. Detto carattere si desume anche dalle disposizioni di fonte collettiva che - come l'art. 27 del contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali successivo a quello del 1° aprile 1999, firmato il 14 settembre 2000, e l'art. 37 del contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al comparto regioni-enti locali, Area della dirigenza 1998-2001, sottoscritto il 23 dicembre 1999 - evidenziano l'esigenza di coordinarne l'erogazione con il riconoscimento della retribuzione di risultato spettante agli avvocati che rivestono anche una posizione di coordinamento dell'ufficio legale. 7.4.- All'univocità degli indici normativi di cui si è dato conto si aggiunge la considerazione per la quale il compenso in questione non può essere ricondotto nel trattamento economico fondamentale, perché non compensa la professionalità media dei soggetti che ne beneficiano, a ciò provvedendo la retribuzione contrattuale corrispondente allo status di pubblico dipendente riconosciuto ai legali degli enti pubblici (sentenza n. 928 del 1988). Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, oltre che dalla parte privata e dall'amicus curiae, gli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 non costituiscono la normale retribuzione del patrocinio svolto dai legali del parastato dovuta in aggiunta allo stipendio in ragione della specificità di tale attività. La difesa in giudizio dell'ente rientra tra i compiti riconducibili ai doveri istituzionali degli avvocati degli enti pubblici e per questo non necessita di un'apposita remunerazione. Ciò che distingue i legali dagli altri dipendenti dell'ente pubblico è, invero, soltanto il possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, la quale, tuttavia, non assume rilevanza sul piano retributivo, ma sotto il diverso profilo dell'osservanza, da parte del legale pubblico dipendente, degli stessi obblighi deontologici dell'avvocato libero professionista e della soggezione al potere disciplinare del Consiglio dell'ordine (TAR Lazio, sezione terza-quater, sentenza 13 aprile 2011, n. 3222). 7.5.- Il carattere di retribuzione ordinaria dell'emolumento in esame non può trarsi neppure dalla sua pur significativa entità rispetto alla retribuzione complessiva. Non possono, in proposito, essere trasposte nella fattispecie in scrutinio le considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 243 del 1993 in merito al contrasto con il principio di proporzionalità ex art. 36 Cost. della mancata inclusione nella base di calcolo dell'indennità di anzianità dell'indennità integrativa speciale e, in particolare, all'incidenza quantitativa di tale componente sulla retribuzione dei dipendenti e quindi del trattamento di fine servizio. Deve, infatti, osservarsi che l'emolumento allora scrutinato da questa Corte non aveva natura accessoria, essendo deputato ad adeguare la stessa retribuzione fondamentale alle variazioni del potere di acquisto della moneta a causa dell'inflazione, tanto che, successivamente alla citata pronuncia costituzionale, è stato inglobato nello stipendio base. Nel caso ora in esame, invece, la valorizzazione del dato quantitativo ai fini della qualificazione dell'emolumento in questione si risolverebbe nell'assimilazione di tale posta accessoria alla retribuzione fondamentale in senso proprio, attraverso un apprezzamento della sua sostanza retributiva che, come confermato tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto da quella amministrativa, confligge con il limite di sistema costituito dalla tassatività e dalla qualificazione legale delle componenti della base di calcolo dei trattamenti di fine servizio soggetti alla legislazione anteriore alla privatizzazione del pubblico impiego (Consiglio di Stato, sentenza n. 2335 del 2017). 7.6.- Da ultimo, la qualificazione degli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 in termini di remunerazione ordinaria non si concilia neppure con quanto affermato da questa Corte sulla natura delle cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato. Queste ultime forme di remunerazione, pur essendo soggette ad una autonoma disciplina, non differiscono, infatti, sotto il profilo morfologico e funzionale, dalle competenze maturate dai dipendenti delle altre avvocature pubbliche in ragione dell'attività difensiva svolta in giudizio, trattandosi pur sempre di una retribuzione accessoria che si aggiunge allo stipendio tabellare e rinviene almeno parte della provvista nelle spese di lite rifuse all'amministrazione in caso di vittoria in giudizio. Questa Corte ha, in particolare, osservato che le cosiddette propine spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato sono di natura variabile «perché dipendenti dalla sorte del contenzioso» ed hanno carattere premiale (sentenza n. 128 del 2022) e non intaccano lo stipendio tabellare, che costituisce il nucleo del profilo retributivo della categoria interessata (sentenza n. 236 del 2017). 8.- Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni devono, pertanto, essere dichiarate non fondate. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice Igor DI BERNARDINI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2024 Il Cancelliere F.to: Igor DI BERNARDINI Allegato: Ordinanza Letta All'udienza Del 6 Febbraio 2024 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), «nella parte in cui non consente (in alcun modo) di considerare, nella base di calcolo dell'indennità di anzianità, la cd. "quota onorari" di cui all'art. 26, co.4, della stessa legge», promosso dal Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, con ordinanza del 5 aprile 2023, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2023. Rilevato che la Federazione legali del parastato - FLEPAR è intervenuta ad adiuvandum per chiedere l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale; che l'interveniente premette di essere un'associazione federale senza fine di lucro a carattere sindacale il cui scopo è quello di tutelare la dignità, l'autonomia professionale, lo stato giuridico, nonché i diritti economici dei legali delle associazioni aderenti, di essere costantemente presente nello svolgimento delle trattative con l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e di aver sottoscritto diversi contratti collettivi nazionali; che FLEPAR ricorda che la giurisprudenza costituzionale esclude che l'interesse degli enti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria connesso agli scopi statutari di tutela dei propri iscritti possa legittimare alla partecipazione al giudizio di legittimità costituzionale; che la stessa associazione ritiene, tuttavia, di essere legittimata a intervenire in quanto titolare di un interesse, diverso da quello legato alla rappresentanza sindacale, «profondamente conformato» dalla norma in scrutinio e inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto nel giudizio principale; che, infatti, le questioni in scrutinio involgerebbero la definizione dell'ambito riservato all'autonomia collettiva in materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti pubblici non economici e, in particolare, la questione se, alla stregua dell'art. 13 della legge n. 70 del 1975, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, i contratti collettivi possano disciplinare la sola retribuzione di attività, ovvero se agli stessi sia demandata anche la regolamentazione del trattamento di fine servizio; che, pertanto, per effetto di una eventuale decisione di accoglimento, gli accordi sindacali sottoscritti da FLEPAR in attuazione dell'art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 e dell'art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. "parastato"»; che, infine, una pronuncia di accoglimento, secondo FLEPAR inciderebbe anche sulla contrattazione collettiva futura e, in particolare, sul modo in cui l'associazione interveniente, così come le altre organizzazioni sindacali, «dovranno modulare la propria attività per il tempo a venire». Considerato che, per giurisprudenza costituzionale costante - recepita dall'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale -, l'intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del processo principale, dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Presidente della Giunta regionale, è ammissibile soltanto in quanto essi si assumano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (ex aliis, ordinanza n. 271 del 2020; sentenze n. 158 del 2020 con allegata ordinanza letta all'udienza del 10 giugno 2020 e n. 119 del 2020); che tale interesse qualificato sussiste allorché si configuri una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio incidentale» (sentenze n. 159 del 2019 e n. 194 del 2018 con allegata ordinanza letta all'udienza del 25 settembre 2018; ordinanze n. 191 del 2021 e n. 271 del 2020); che, in particolare, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente deve essere conseguenza immediata e diretta dell'effetto che la pronuncia di questa Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (sentenze n. 46 del 2021 e n. 98 del 2019); che l'interesse dedotto da FLEPAR a fondamento della propria legittimazione a intervenire non solo non è direttamente riconducibile al rapporto oggetto del processo principale, ma risulta privo di concretezza e di attualità; che, infatti, secondo l'interveniente, detto interesse deriverebbe dalla possibilità che, qualora questa Corte, nell'accogliere la questione di legittimità costituzionale, affermi che spetta all'autonomia collettiva disciplinare non solo il trattamento economico di attività, ma anche quello di fine servizio, la stessa FLEPAR sarebbe chiamata a partecipare alla stipula degli accordi sindacali a ciò deputati; che parimenti estranea all'oggetto del giudizio a quo, e dunque priva di rilevanza ai fini della legittimazione all'intervento, è la circostanza che, nell'evenienza sopra indicata, i contratti collettivi recanti disposizioni sugli onorari ex art. 26, quarto comma, della legge n. 70 del 1975 già conclusi, ai quali ha preso parte anche l'associazione interveniente, «concorrerebbero a determinare anche la retribuzione differita degli avvocati dipendenti degli enti del c.d. "parastato"»; che, pertanto, l'intervento della FLEPAR deve essere dichiarato inammissibile. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile l'intervento della Federazione legali del parastato - FLEPAR. F.to: Augusto Antonio Barbera, Presidente
AULA 'B' 2023 4689 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. ROSSANA MANCINO - Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Rel. Consigliere - Dott. LUIGI CAVALLARO - Consigliere - Dott. ANGELO CERULO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 29547-2021 proposto da: ENEL ITALIA S.P.A. (già ENEL SERVIZI S.R.L.), società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di ENEL S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell'avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MONICA GRASSI; - ricorrente principale - contro Oggetto Accordo di risoluzione contratti lavoro Transazione Obblighi contributivi R.G.N. 29547/2021 Cron. Rep. Ud. 14/11/2023 PU I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. - Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, ANTONINO SGROI, CARLA D'ALOISIO, ANTONIETTA CORETTI; - controricorrenti - ricorrenti incidentali - nonchè contro ENEL ITALIA S.P.A. (già ENEL SERVIZI S.R.L.), società con socio unico, soggetta all'attività di direzione e coordinamento di ENEL S.P.A.; - ricorrente principale - controricorrente incidentale - avverso la sentenza n. 2497/2021 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 13/08/2021 R.G.N. 328/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2023 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento dell'incidentale; uditi gli avvocati ARTURO MARESCA, MONICA GRASSI; udito l'avvocato CARLA D'ALOISIO. FATTI DI CAUSA 1.La Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell'appello principale proposto dall'Inps, rigettato quello incidentale di ENEL Italia S.P.A. (già ENEL SERVIZI S.R.L. e di seguito solo ENEL), ha condannato l’Enel al pagamento di contributi, sanzioni e interessi di mora, per gli importi e le causali come specificati nella parte dispositiva. 2.Non in discussione la sussistenza di un accordo di risoluzione consensuale incentivata in relazione ad una serie di rapporti di lavoro, i profili controversi in causa hanno riguardato la sussistenza o meno dell’obbligo contributivo: ✓ per le somme erogate in via transattiva al «dichiarato ed espresso fine di evitare il rischio di un contenzioso sulla quantificazione del TFR»; ✓ per le somme dovute a titolo di mensilità aggiuntive, anche se, in concreto, non erogate. 3.La Corte di appello ha osservato, in premessa, che il negozio transattivo non spezza, necessariamente, il collegamento con il rapporto di lavoro; per interrompere tale nesso, è, infatti, necessaria una clausola novativa (nella specie implicitamente esclusa) tale da attribuire alla dazione in danaro un titolo nuovo ed autonomo, riconducibile al contratto transattivo, rispetto al precedente contratto di lavoro. 4.Ha, quindi, ritenuto, quanto agli effetti del delineato ragionamento sul piano contributivo, che, ai sensi dell'art. 12, co.4, lett. a), della legge nr. 153 del 1969, le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto andassero escluse dalla base imponibile contributiva. Per i Giudici, gli importi ai quali si riferiva la pretesa contributiva «partecipa(va)no» della medesima natura giuridica del TFR per cui erano attribuite; di conseguenza, erano esenti dall'obbligo contributivo. 5.In relazione alle mensilità aggiuntive, invece, la Corte di merito ha ritenuto che fossero dovuti i contributi, in applicazione del principio del minimale contributivo. Le somme, infatti, erano dovute ai lavoratori, benché, in concreto, non fossero state corrisposte. 6.Ha osservato che le mensilità aggiuntive, in base alla disciplina di riferimento, avevano la funzione di sostituire l’indennità di mancato preavviso e non, come sosteneva la società datrice di lavoro, quella di incentivo all’esodo. Pertanto, rientravano nell’imponibile contributivo, ai sensi del medesimo art.12. 7.Avverso la decisione, ha proposto ricorso principale l’ENEL, con quattro motivi. 8.Ha resistito l’INPS, con controricorso, contenente ricorso incidentale, articolato in un motivo. 9.Ha resistito, a sua volta, con controricorso, l’ENEL che ha, successivamente, depositato memoria. 10.Il PG ha depositato conclusioni scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE 11.Con il primo motivo del ricorso principale - ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - è dedotta la violazione degli artt. 1362 e ss. cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 159 del 1963 e dell’art. 6, comma 4, del d.lgs. nr. 314 del 1997. 12.L’Enel imputa alla Corte di appello una erronea interpretazione della disciplina legale e contrattuale di riferimento e l’inesatta ricostruzione giuridica dell’istituto delle mensilità aggiuntive, come costantemente applicato dall’Azienda. 13.È denunciata la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale che, viceversa, correttamente applicati, avrebbero condotto a ravvisare il collegamento tra le somme controverse e la finalità di incentivare la risoluzione dei rapporti di lavoro. 14.Con il secondo motivo -ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ.- è dedotta la violazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro con riferimento alla disciplina collettiva applicabile e all’onere della prova ex art. 2967 cod.civ. 15.È criticata la statuizione secondo cui le mensilità aggiuntive, non erogate, erano invece dovute ai lavoratori che hanno sottoscritto gli accordi risolutivi. 16.L’Enel deduce che l’erogazione delle cd. mensilità aggiuntive era prevista in favore dei soli lavoratori che cessavano dal rapporto di lavoro, con diritto a pensione, pur avendo la possibilità di rimanere in servizio. Le mensilità non erano state corrisposte perché non sussistevano i presupposti per la loro erogazione, né l’INPS, come era suo onere, aveva dimostrato il contrario. 17.Con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. – le censure di cui ai precedenti mezzi di impugnazione sono argomentate in termini di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. 18.L’omissione è riferita al mancato esame della circostanza che le mensilità aggiuntive, giudicate dalla Corte di appello dovute e non erogate, in realtà non erano spettanti. 19.Con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ.- è dedotta la violazione degli artt. 1362 e ss e 2967 cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 159 del 1963 e dell’art. 6 comma 4 del d.lgs. nr. 314 del 1997. 20.La sentenza di appello è censurata anche con riferimento ai lavoratori aderenti al piano ex art. 4 della legge nr. 92 del 2012. 21.Parte ricorrente deduce, in particolare, che nelle ipotesi di risoluzioni consensuali ai sensi del citato art. 4, il presupposto – certificato dall’INPS – era proprio quello di non aver raggiunto il diritto al pensionamento; pertanto, neppure in astratto, vi erano le condizioni per ottenere le mensilità aggiuntive. 22.I motivi del ricorso principale possono congiuntamente esaminarsi, ponendo tutti, nella sostanza, la questione della sottoposizione a contribuzione previdenziale delle somme previste a titolo di cd. mensilità aggiuntive, nell’ambito di accordi conclusi in sede di risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro. 23.Come sinteticamente riportato nello storico di lite, la ratio decidendi della sentenza impugnata risiede, innanzitutto, nell’affermazione secondo cui l'obbligazione contributiva può essere insensibile al fatto che determinate somme siano erogate in esecuzione di un contratto di transazione. Ciò che rileva è, infatti, il nesso che intercorre tra le somme e il rapporto di lavoro; se tra i due termini persiste il nesso di dipendenza (e non di mera occasione), nel senso che le somme erogate dipendono dal contratto di lavoro e non da quello, diverso, di transazione, gli importi corrisposti costituiscono imponibile contributivo. 24.Sulla base di tale premessa teorica, l'indagine del giudice di merito si è conclusa nel senso della natura retributiva delle somme erogate ai lavoratori, in occasione degli accordi raggiunti, e della assoggettabilità a contribuzione di quelle in discussione, non ricorrendo le tassative ipotesi di esclusione stabilite dall’ art. 12 legge nr. 153 del 1969. 25.Come noto, la disposizione indicata individua la retribuzione imponibile ai fini previdenziali ricomprendendo nella relativa nozione, sostanzialmente, tutte le erogazioni provenienti dal datore di lavoro che trovano la loro giustificazione nel rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno dei titolo tassativamente indicati nel capoverso del medesimo art. 12. 26.In particolare, per quanto rileva nella fattispecie, sono escluse dalla base imponibile le somme corrisposte a titolo di «trattamento di fine rapporto» e le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione «fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso». 27.La Corte di appello ha ritenuto, però, che le mensilità aggiuntive avessero, in base alla disciplina contrattuale di riferimento, una funzione sostitutiva dell’indennità di preavviso; di conseguenza, permaneva, in relazione alle stesse, l’obbligo datoriale di contribuzione. 28.Osserva il Collegio che il giudizio espresso, condotto conformemente ai principi regolatori della materia, involge, altresì, valutazioni che costituiscono l’esito di un tipico accertamento di merito. Esso è, infatti, il frutto dell’esegesi di plurime fonti, in gran parte negoziali, di natura aziendale, non sindacabile in sede di legittimità. 29.Fermo è l’orientamento di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. nr. 36337 del 2023; Cass. nr. 7978 del 2023; Cass. nr. 10745 del 2022 anche nelle rispettive motivazioni) in base al quale l'interpretazione degli atti privati, governata da criteri giuridici cogenti e tendente alla ricostruzione del loro significato in conformità alla comune volontà dei contraenti, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile, in sede di legittimità, solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (e, in questo caso, con imprescindibile specificazione dei canoni e delle norme ermeneutiche che in concreto sarebbero state violate e con indicazione puntuale - al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – del modo e dei passaggi motivazionali in cui il giudice di merito se ne sarebbe discostato) o in presenza di una motivazione talmente lacunosa da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione in sé. 30.Altrettanto costante è l’insegnamento secondo cui l’interpretazione data dal giudice di merito, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni. Pertanto, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, non è consentita alcuna censura in sede di legittimità per il solo fatto che sia stata privilegiata l'altra (su tali principi, cfr., ex plurimis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nr. 7978 del 2023; Cass. nr 15612 e 9461 del 2021; Cass. nr. 23132 del 2015). 31.In altri termini, il sindacato della Corte di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé ed è, quindi, inammissibile ogni critica alla ricostruzione operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr., ex aliis, Cass., sez.un. nr. 2061 del 2021; Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 10891 del 2016); con l’ulteriore precisazione che quando, come nella specie, è applicabile il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, nr. 5 cod.proc.civ., l'omesso esame della questione relativa all'interpretazione del contratto neppure è riconducibile a detto vizio, in quanto l'interpretazione di una clausola negoziale non costituisce «fatto» decisivo per il giudizio, poiché, in tale nozione, rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (cfr. Cass. nr. 21779 del 2019;Cass. nr. 5795 del 2017). 32.I rilievi di cui al ricorso principale non soddisfano le rigorose indicazioni qui tracciate. Essi, a ben vedere, si limitano ad offrire una diversa lettura delle fonti di riferimento esaminate dal Giudice del merito che, per quanto innanzi, resta del tutto irrilevante in questa sede. 33.Deve aggiungersi, in ultimo, che non sono decisivi i precedenti di legittimità richiamati in ricorso (vale a dire Cass. nr. 97 del 1986, nr.1222 del 1994 e nr. 2213 del 1995). 34.La Corte di legittimità, in epoca oramai risalente, si è, in effetti, occupata, sia pure ad altri fini, dell’interpretazione di alcune clausole contrattuali e della natura delle mensilità aggiuntive di cui anche qui si controverte, confermando, con le pronunce citate, sentenze di merito che avevano ritenuto che l’istituto delle mensilità aggiuntive costituisse un incentivo all’esodo. Tuttavia, le controversie sottoposte al vaglio del giudice di 10 legittimità hanno un oggetto delimitato dalle ragioni che sorreggono la statuizione impugnata, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso, e a tale oggetto è radicalmente estranea la verifica della fondatezza della domanda ogni qualvolta essa dipenda da un accertamento di fatto, qual è, come anzidetto, la volontà negoziale espressa in un contratto o accordo di carattere aziendale (cfr. Cass. nr. 11807 del 2003); e ciò costituisce un insopprimibile limite logico alla pur condivisibile esigenza (evidenziata, tra le altre, da Cass. nr. 8297 del 2007 e nr. 25139 del 2010) che nell’interpretazione dei contratti collettivi aziendali propri di imprese di rilievo nazionale si pervenga a soluzioni ermeneutiche uniformi, stante la loro riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e il loro carattere sostanzialmente normativo: tanto è vero che letture diverse delle medesime clausole contrattuali sono state parimenti ratificate da questa Corte, in ragione della decisiva rilevanza, in ciascun giudizio in sede di legittimità, solo dell'adeguatezza e della congruità delle valutazioni interpretative svolte nelle singole decisioni di merito. In particolare, diversamente dai precedenti indicati dalla ricorrente, in altre sentenze (v. Cass. nr. 6396 del 1995 e Cass. nr. 11128 del 1996) è stata ritenuta plausibile l’imputazione delle mensilità aggiuntive corrisposte dall'allora E.N.E.L. all’ indennità sostitutiva del preavviso. 35.Da quanto precede, segue l’inammissibilità del ricorso principale. 36.Ad un rilievo di inammissibilità – e per analoghe ragioni - si arresta anche il ricorso incidentale dell’Inps. 37.Con l’unico motivo di ricorso, l’INPS deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 153 del 1969, 11 come modificato dall’art. 6, comma 1, del d.lgs nr. 314 del 1997, per avere la Corte di appello escluso dalla base imponibile le somme corrisposte, in sede transattiva, «al fine di evitare il rischio di contenzioso sulla quantificazione del T.F.R.». 38.La Corte territoriale ha proceduto all'interpretazione del contenuto dell'accordo transattivo. All’esito, ha ritenuto che le somme controverse «partecipassero» della stessa natura del TFR. In estrema sintesi, ha ritenuto che le somme stesse costituissero TFR. Ha quindi escluso gli importi a detto titolo erogati dall’imponibile contributivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12, comma 4, lett. 4, legge nr. 153 del 1969 più volte citato. 39.All’evidenza, anche in parte qua, si è in presenza dell’esegesi di un atto negoziale, in relazione al quale il controllo della Corte è segnato, come si è già detto, da limiti rigorosi, risultando imprescindibile la specificazione, in concreto, dei canoni violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia discostato dagli stessi. Nella specie, pure i rilievi dell’Inps si risolvono nella mera contrapposizione tra l'interpretazione preferita e quella accolta nella decisione impugnata e incontrano gli stessi ostacoli evidenziati in relazione allo scrutinio del ricorso principale. 40.Conclusivamente, entrambi i ricorsi, principale e incidentale, vanno dichiarati inammissibili, con le spese che si compensano per la reciproca soccombenza. 41.Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, del raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater D.P.R. nr. 115 del 2002, se dovuto. P.Q.M. 12 La Corte dichiara inammissibili i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, principale e incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente previsto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto. Così deciso in Roma, il 14 novembre 2023 IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE Gabriella Marchese Umberto Berrino
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA CIVILE Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere Dott. CERULO Angelo - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 22053-2022 proposto da: ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETÀ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (S.C.C.I.) Spa, rappresentato e difeso, in forza di procura conferita in calce al ricorso per cassazione, dagli avvocati Le.Ma., Ca.Da., An.Co., An.Sg., Em.De., con domicilio eletto presso l'Avvocatura centrale dell'Istituto, in ROMA, (...) - ricorrente principale - contro Ed. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata in calce al controricorso, dagli avvocati Ar.Ma. e Mo.Gr., con domicilio eletto presso lo studio dei difensori, in ROMA, N° °(°gfâ„¢ GIUSEPPE FARAVELLI, 22 - controricorrente e ricorrente incidentale -e ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETÀ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (S.C.C.I.) Spa, rappresentato e difeso, in forza di procura conferita in calce al controricorso di Ed., dagli avvocati Le.Ma., Ca.Da., An.Sg., Em.De., An.Co., con domicilio eletto presso l'Avvocatura centrale dell'Istituto, in ROMA, VIA CESARE BECCARIA, 29 - resistente al ricorso incidentale - per la cassazione della sentenza n. 1090 del 2022 della CORTE D'APPELLO DI ROMA, depositata il 21 marzo 2022 (R.G.N. 280/2018). Udita la relazione della causa, svolta in udienza dal Consigliere Angelo Cerulo. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale MARIO FRESA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale e per il rigetto del ricorso incidentale. Udito, per l'INPS, l'avvocato Ca.Da., che ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Uditi, per Ed. Spa, gli avvocati Ar.Ma. e Mo.Gr., che hanno ribadito le conclusioni già formulate. FATTI DI CAUSA 1.- Con ricorso, notificato il 16 settembre 2022 e incentrato su un motivo, l'INPS, nella qualità indicata in epigrafe, impugna per cassazione la sentenza n. 1090 del 2022, pronunciata dalla Corte d'appello di Roma e depositata il 21 marzo 2022. La Corte di merito ha accolto in parte il gravame principale dell'INPS e, in riforma della pronuncia del Tribunale della medesima città, ha condannato Ed. Spa a corrispondere anche i contributi e le correlate sanzioni sulle somme dovute per mensilità aggiuntive, benché concretamente non corrisposte. La Corte territoriale ha quindi disatteso le ulteriori domande dell'INPS, finalizzate ad assoggettare a contribuzione le somme versate al fine di evitare controversie sulla quantificazione dell'indennità di anzianità o del trattamento di fine rapporto (TFR), e ha rigettato il gravame incidentale della società, inerente all'obbligo di versare i contributi sulle mensilità aggiuntive corrisposte. Le spese del doppio grado sono state compensate per intero. 2. - Ed. Spa resiste con controricorso, notificato il 20 settembre 2022, e propone ricorso incidentale, articolato in quattro motivi. 3. - L'INPS si limita a depositare procura in calce al controricorso avversario per resistere al ricorso incidentale di Ed. Spa 4. - Il ricorso è stato fissato per la trattazione alla pubblica udienza del 14 novembre 2023. 5. - Il Pubblico Ministero ha depositato memoria (art. 378, primo comma, cod. proc. civ.) e ha chiesto di accogliere il ricorso principale e di rigettare il ricorso incidentale, anticipando le conclusioni rassegnate in udienza. 6. - La ricorrente incidentale, prima dell'udienza, ha depositato memoria (art. 378, secondo comma, cod. proc. civ.). RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- Il Tribunale di Roma ha accolto le opposizioni proposte da Ed. Spa, limitatamente agl'importi corrisposti a titolo di transazione sul calcolo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto (TFR) e alle somme non corrisposte a titolo di mensilità aggiuntive. Il giudice di prime cure ha confermato, invece, gli avvisi di addebito con riferimento a contributi reclamati sugl'importi effettivamente corrisposti a titolo di mensilità aggiuntive. Pertanto, il Tribunale di Roma ha condannato la società a pagare la minor somma di Euro 8.568,00, riguardo all'avviso n. (omissis), e l'importo di Euro 3.954.596,00, in relazione all'avviso n. (omissis). 2. - La Corte d'appello di Roma, con la sentenza impugnata in questa sede, ha accolto in parte il gravame principale dell'INPS, riguardo al diniego dell'obbligo contributivo per le mensilità aggiuntive non erogate, e ha respinto il gravame incidentale di Ed. Spa, che si doleva dell'assoggettamento a contribuzione delle mensilità aggiuntive concretamente corrisposte e, per altro verso, delle somme aggiuntive richieste. 2.1. - Non è fondato, anzitutto, il motivo d'appello dell'INPS, che mira a sottoporre a contribuzione le somme corrisposte a titolo transattivo al solo fine di evitare controversie sul calcolo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto. In virtù dell'espressa previsione dell'art. 6 del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto o d'indennità di anzianità sono escluse dalla base imponibile. Quel che assume rilievo decisivo è proprio la "natura dello specifico emolumento oggetto di transazione" (pagina 6 della sentenza d'appello). 2.2.- Non coglie nel segno l'appello incidentale di Ed. Spa, che tende a qualificare come incentivi all'esodo le mensilità aggiuntive. Gliimporti indicati, lungi dal configurarsi come incentivi all'esodo, devono essere ricondotti all'indennità sostitutiva del preavviso in base alla disciplina pattizia che si è succeduta nel tempo, senza mai richiamare l'adombrata finalità incentivante. Finalità, peraltro, inconciliabile con il fatto che l'emolumento sia corrisposto anche in caso di morte del prestatore d'opera. Né si può attribuire carattere d'interpretazione autentica a quanto le parti contrattuali hanno dichiarato in sede di rinnovo del contratto di categoria, in quanto il riferimento all'evoluzione del quadro normativo già di per sé smentisce un siffatto carattere interpretativo. Quanto ai lavoratori che hanno aderito al piano di cui all'accordo quadro previsto dall'art. 4 della legge 28 giugno 2012, n. 92, comunque non viene meno l'obbligo di pagare i contributi sugl'importi effettivamente corrisposti a titolo di mensilità aggiuntive. 2.3. - Dev'essere accolto il motivo di doglianza dell'INPS e devono essere versati i contributi sulle mensilità aggiuntive che i lavoratori avevano diritto di percepire. È ininfluente che, in fatto, i lavoratori non abbiano ricevuto questi emolumenti. Il datore di lavoro deve pagare i contributi sia sulle mensilità aggiuntive erogate che su quelle "erogabili" e, nondimeno, non corrisposte. Né l'accordo quadro invocato da Ed. Spa "potrebbe mai incidere sui diritti già acquisiti in forza della contrattazione collettiva" (pagina 10 della sentenza d'appello). Si deve escludere, pertanto, che l'incentivo all'esodo erogato in virtù di tale accordo "possa assorbire il diritto alla percezione delle mensilità aggiuntive previste dalla contrattazione collettiva in occasione della risoluzione del rapporto di lavoro" (pagina 11 della sentenza). Significativo, a tale riguardo, è che i singoli accordi individuali contemplino una rinuncia alle mensilità aggiuntive, rinuncia che sarebbe stata superflua se le misure incentivanti avessero assorbito ogni altro trattamento di fonte negoziale. 2.4. - Sui contributi non corrisposti, sono dovute anche le somme aggiuntive. Nessuna specifica censura la società ha formulato riguardo al regime dell'evasione, che la sentenza del Tribunale ha ritenuto applicabile. Esula, poi, dall'oggetto del giudizio l'applicabilità del regime di cui all'art. 116, comma 18, della legge 23 dicembre 2000, n. 388. 3. - Contro la pronuncia della Corte d'appello di Roma l'INPS propone ricorso principale, con un motivo, ed Ed. Spa propone, con quattro motivi, ricorso incidentale. 4. - L'INPS denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. e dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, come modificato dall'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. La Corte d'appello di Roma avrebbe errato nell'equiparare le somme erogate da Ed. Spa con l'accordo transattivo a somme erogate a titolo di trattamento di fine rapporto. Il ricorrente, dopo avere ripercorso il contenuto delle clausole n. 2 e n. 4, rammenta che grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti delle tassative ipotesi di esenzione dall'obbligo contributivo. La sentenza impugnata si sarebbe limitata a valorizzare il "titolo formale delle erogazioni" (pagine 7 e 8 del ricorso), senza compiere una più accurata disamina sulla giustificazione sottesa al pagamento delle somme in questione. Si tratterebbe pur sempre d'importi corrisposti in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro e perciò riconducibili alla retribuzione imponibile a fini contributivi. 5. - I quattro motivi di ricorso incidentale di Ed. Spa si possono così compendiare. 5.1. - Con il primo mezzo (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la società denuncia violazione degli artt. 1362 e seguenti cod. civ., dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969 e dell'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. La sentenza d'appello meriterebbe censura, nella parte in cui ha reputato soggette a contribuzione le somme erogate a titolo di "mensilità aggiuntive". Tale emolumento, correlato con il raggiungimento dei requisiti per godere della pensione di anzianità, si rivelerebbe eterogeneo rispetto all'indennità sostitutiva del preavviso e, fin dalla sua originaria previsione negoziale, confermata dai successivi accordi stipulati dalle parti collettive, si prefiggerebbe d'incentivare le cessazioni anticipate del rapporto di lavoro. L'interpretazione privilegiata dalla sentenza d'appello trascurerebbe sia il dato letterale degli accordi collettivi che la reale intenzione delle parti, univoca nell'escludere ogni affinità con l'indennità sostitutiva del preavviso. 5.2. - Con la seconda doglianza (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la società prospetta violazione o falsa applicazione della disciplina collettiva e delle norme sull'onere della prova e assume che, nel caso di specie, difettino i presupposti negoziali per l'erogazione delle mensilità aggiuntive, legate alla cessazione del rapporto di lavoro con diritto alla pensione. Nella prospettiva della ricorrente incidentale, l'INPS non ha ottemperato all'onere di provare che le somme siano dovute e, di questa circostanza, non ha tenuto conto la sentenza impugnata, nel sottoporre a contribuzione le mensilità aggiuntive non corrisposte. 5.3. - Con la terza censura (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), Ed. Spa deduce omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Tale fatto riguarderebbe l'insussistenza del diritto di percepire le mensilità aggiuntive, allorché tali voci non sono state corrisposte. 5.4. - Con la quarta critica (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la società lamenta, infine, la violazione degli artt. 1362 e seguenti e 2697 cod. civ., dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969 e dell'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997. Quanto ai lavoratori che hanno aderito al piano di cui all'art. 4 della legge 28 giugno 2012, n. 92, e hanno firmato un accordo individuale di risoluzione in sede protetta, la sentenza impugnata non avrebbe valutato la natura esaustiva del trattamento d'incentivo indicato nell'accordo, incompatibile con il diritto di percepire altre somme in riferimento alla cessazione del rapporto di lavoro. Il trattamento previsto dall'accordo quadro assorbirebbe gli altri emolumenti contemplati dal contratto e legati, come avviene per le mensilità aggiuntive, alla maturazione del diritto a pensione. Maturazione che, nel caso di specie, non si ravvisa. 6. - Il ricorso principale dell'INPS è inammissibile. 6.1. - Lungi dal violare le norme sull'onere della prova dell'esenzione dall'obbligo contributivo, la Corte di merito, all'esito di un meditato apprezzamento delle risultanze di causa e di un accertamento di fatto congruamente motivato, ha escluso l'obbligo in esame. A tali conclusioni i giudici del gravame non sono giunti sulla scorta del mero titolo formale delle erogazioni, ma in virtù di un ragionamento più ampio, che ha valorizzato l'autentica finalità delle somme corrisposte alla luce di un'interpretazione organica e approfondita dell'accordo transattivo. Invero, nella ricostruzione della Corte di merito, aderente al testo e alla ratio complessiva dell'intesa, tali somme riguardano proprio l'indennità di anzianità dovuta al 31 maggio 1982 e il trattamento di fine rapporto e sono perciò escluse dalla base imponibile per espressa previsione di legge. Né, in tal modo, la decisione impugnata, incentrata sul vaglio in concreto delle peculiarità e della genuina funzione delle somme corrisposte, si pone in contrasto con il principio dell'indisponibilità dell'obbligazione contributiva del datore di lavoro verso l'ente pubblico, richiamato nella memoria del Pubblico Ministero. 6.2. - Alla disamina della Corte d'appello di Roma, che peraltro collima con quella già compiuta dal giudice di prime cure e poggia sull'apprezzamento della reale natura delle somme erogate, l'Istituto contrappone una diversa ricostruzione della volontà espressa dalle parti, senza additare anomalie logiche o giuridiche del percorso argomentativo della Corte territoriale. A fronte dell'esegesi delineata nella sentenza d'appello, i rilievi dell'Istituto, dietro le sembianze della violazione dei canoni ermeneutici e della legge, non travalicano i confini dell'assertiva contrapposizione di un più appagante coordinamento delle clausole negoziali e di una diversa, più favorevole, valutazione dei fatti rilevanti. 7. - I motivi del ricorso incidentale di Ed. Spa possono essere esaminati congiuntamente, per l'intima connessione che li unisce. Le censure, nella loro essenza, vertono sull'assoggettamento a contribuzione previdenziale delle somme previste a titolo di "mensilità aggiuntive", nell'ambito di accordi conclusi in sede di risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro. Le doglianze si rivelano inammissibili. 7.1. - Sebbene, in astratto, le somme corrisposte in esecuzione di una transazione debbano considerarsi estranee rispetto all'obbligo di contribuzione, in quanto dipendono da questo contratto e non dal (diverso) contratto di lavoro, a diverse conclusioni si può pervenire, allorché si provi che l'accordo transattivo includa poste di sicura natura retributiva, collegate intrinsecamente al sottostante rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 27 novembre 2017, n. 27933). L'art. 12 della legge n. 153 del 1969, nel testo modificato dall'art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997, ricomprende nella nozione di retribuzione imponibile ai fini previdenziali tutte le erogazioni provenienti dal datore di lavoro, che trovino la loro giustificazione nel rapporto di lavoro. Sono escluse le somme erogate per uno dei titoli tassativamente indicati nel capoverso del medesimo art. 12. Si tratta, in particolare, delle somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto, di quelle corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché di quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l'imponibilità dell'indennità sostitutiva del preavviso. 7.2. - La sentenza impugnata si è uniformata a questi principi e ha ribadito la sussistenza dell'obbligazione contributiva per le somme legate al rapporto di lavoro da un nesso di dipendenza, e non di mera occasione, e ha affermato la natura eminentemente retributiva delle somme erogate ai lavoratori a titolo di "mensilità aggiuntive". È questa natura retributiva, affermata anche dal giudice di primo grado, che rappresenta il fulcro della decisione impugnata. Tali somme, proprio per l'indicata natura retributiva, non possono essere dunque ricondotte alle tassative ipotesi di esclusione tipizzate dall'art. 12 della legge n. 153 del 1969. Nel ricostruire la disciplina contrattuale di riferimento e i requisiti di tali emolumenti, la Corte d'appello di Roma ha negato la finalità d'incentivo all'esodo, oggi propugnata nel ricorso incidentale al fine di conseguire l'esonero dall'obbligo contributivo. Come si è ricordato nel ripercorrere gli antefatti processuali salienti (punto 2.2. delle Ragioni della decisione), le conclusioni sulla natura retributiva dell'emolumento sono avvalorate dall'esame della genesi e dell'evoluzione diacronica della disciplina negoziale. È tale esame, attento alla lettera e alla ratio delle intese, a corroborare una pluralità di funzioni e il carattere retributivo della voce di cui si discorre. Non si riscontra, pertanto, in difetto di dati testuali probanti, un nesso evidente e indefettibile con la finalità di promuovere la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, che sola può valere a esonerare il datore di lavoro dall'obbligo contributivo, in forza di una norma che è pur sempre di stretta interpretazione. La sentenza impugnata non solo si fa carico di soppesare la pluralità di funzioni insite nell'emolumento e il dato letterale, che l'inquadramento alternativo della società intende in senso riduttivo, ma analizza anche l'interpretazione successivamente fornita dalle parti, per escluderne la valenza decisiva, con motivazione logica e circostanziata (pagine 8 e 9). L'obbligo contributivo, insensibile all'inadempimento della sottostante obbligazione retributiva, permane, dunque, anche rispetto alle somme che non siano state concretamente corrisposte, pur nel ricorrere di tutti i presupposti per l'erogazione. Tali presupposti sono stati riconosciuti in fatto dalla sentenza d'appello in ossequio alle norme sull'onere della prova e sulla base della documentazione versata in atti (cfr., su tale punto, pagina 10 della sentenza) e non risultano infirmati in modo persuasivo dai motivi di ricorso incidentale. 7.3. - Il giudizio formulato dai giudici del gravame è rispettoso dei principi regolatori della materia e involge, a ben considerare, valutazioni che costituiscono l'esito di un tipico accertamento di merito, incardinato sugli elementi testuali e sullo scrutinio delle finalità perseguite dai contraenti. Nel caso di specie, tale accertamento rappresenta l'approdo dell'esegesi di plurime fonti negoziali e pondera anche l'incidenza delle sopravvenute previsioni dell'accordo invocato nel quarto mezzo, per escludere l'assorbimento delle mensilità aggiuntive ad opera delle misure incentivanti (pagina 11 della sentenza). Tale accertamento non risulta efficacemente scalfito dai motivi di ricorso incidentale e dagli argomenti svolti nella memoria illustrativa. 7.4. - L'interpretazione degli atti di autonomia privata, governata da criteri giuridici cogenti e volta a ricostruire il significato di tali atti in conformità alla comune volontà delle parti, si configura come un tipico accertamento di fatto, riservato al giudice di merito (fra le molte, Cass., sez. lav., 12 dicembre 2023, n. 34750, punto 14 del Considerato). Tale accertamento può esser censurato in sede di legittimità solo per la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, per le lacune della motivazione, allorché precludano il controllo del procedimento logico che ha condotto alla decisione, o per l'omesso esame d'un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti (Cass., sez. III, 24 novembre 2023, n. 32769, punto 3.1. delle Ragioni della decisione). Quanto alla violazione dei criteri legali, la parte ricorrente deve specificarli e deve chiarire per quali ragioni e in quale punto il giudice di merito se ne sia discostato (di recente, Cass., sez. II, 24 gennaio 2024, n. 2369, punto 7.2. delle Ragioni della decisione). Né l'interpretazione prescelta dal giudice di merito dev'essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni (Cass., sez. III, 19 gennaio 2024, n. 2113, punto 3.1.b.I. delle Ragioni della decisione). Pertanto, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, non è consentita alcuna censura in sede di legittimità per il solo fatto che sia stata privilegiata l'altra (di recente, Cass., sez. lav., 25 gennaio 2024, n. 2451). Il sindacato di questa Corte, in ultima analisi, non può investire il risultato interpretativo in sé considerato e si palesa, pertanto, inammissibile ogni critica alla ricostruzione operata dal giudice di merito, che si sostanzi nella mera prospettazione di un inquadramento alternativo degli stessi elementi di fatto (Cass., sez. III, 19 gennaio 2024, n. 2112, punto 2.1.b.I. delle Ragioni della decisione). 7.5.- Le censure della società non soddisfano i requisiti enucleati dal codice di rito, nell'interpretazione ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte. Le doglianze della società, nel far leva sul comportamento delle parti e sulla preminenza di altri elementi, adombrano una lettura alternativa delle acquisizioni di causa e si risolvono nella pura e semplice antitesi all'interpretazione che la sentenza d'appello ha prospettato, peraltro in consonanza con quella di primo grado, alla luce di tutti i dati di fatto rilevanti. Le censure, così formulate, non valgono, tuttavia, a connotare come implausibile l'interpretazione contestata e si rivelano, pertanto, inammissibili. Né a diverse conclusioni inducono i precedenti di legittimità richiamati dalla società, calibrati sulle specifiche ragioni che, in quel frangente, sorreggevano le statuizioni impugnate, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso sottoposti allo scrutinio di questa Corte. 8. - In virtù dei rilievi svolti, tanto il ricorso principale quanto quello incidentale devono essere dichiarati inammissibili. 9. - Le spese del presente giudizio possono essere integralmente compensate, in considerazione della soccombenza reciproca. 10.- La declaratoria d'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale impone di dare atto dei presupposti per il sorgere dell'obbligo di entrambi i ricorrenti di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per le impugnazioni rispettivamente proposte, ove tale contributo sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315). P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili il ricorso principale dell'INPS e il ricorso incidentale di Ed. Spa; compensa integralmente le spese del presente giudizio. Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, rispettivamente, per la stessa impugnazione principale e per quella incidentale, a norma del comma 1-bis dell'art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quarta Sezione civile del 14 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2024.
AULA 'B' 2023 4164 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UMBERTO BERRINO - Presidente - Dott. ROSSANA MANCINO - Rel. Consigliere - Dott. GABRIELLA MARCHESE - Consigliere - Dott. DANIELA CALAFIORE - Consigliere - Dott. ANGELO CERULO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 35082-2018 proposto da: LOMBARDO SALVATORE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OSLAVIA 30, presso lo studio dell'avvocato VINCENZO GIORDANO, rappresentato e difeso dall'avvocato GAETANO COSTA; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale Oggetto PREVIDENZA FONDO DI GARANZIA SOCIO COOPERATIVA R.G.N. 35082/2018 Cron. Rep. Ud. 10/10/2023 PU dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURO SFERRAZZA, ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO; - controricorrente - avverso la sentenza n. 474/2018 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 23/05/2018 R.G.N. 311/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2023 dal Consigliere Dott. ROSSANA MANCINO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA', che ha concluso per l'accoglimento del terzo motivo del ricorso, respinti gli altri; udito l'avvocato SAMUELA PISCHEDDA per delega verbale avvocato MAURO SFERRAZZA. FATTI DI CAUSA 1.Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di Appello di Catania ha confermato la decisione di prime cure e accolto, in misura ridotta, la domanda dell’attuale ricorrente, volta ad ottenere la condanna, a carico del Fondo di garanzia, del TFR maturato in relazione all'attività lavorativa svolta alle dipendenze della Floridiana Società Cooperativa a r.l., dichiarata fallita. 2.La domanda era tesa ad ottenere il pagamento dal Fondo di garanzia dell'Inps anche della quota di T.f.r. maturato prima del luglio 1997 (e quindi dell'estensione con la L. n. 196 del 1997, della disciplina in materia di fondo di garanzia per il T.f.r. ai soci lavoratori di cooperativa). 3.La Corte territoriale ha ritenuto dimostrata, in giudizio, la qualità di socio della cooperativa anzidetta, dalla costituzione della società alla sua cessazione, ma non provato il fatto costitutivo del pagamento dei contributi da parte del datore di lavoro, prova della quale era onerato il socio della società cooperativa dichiarata fallita che, sul punto, neanche aveva contrastato, in giudizio, le allegazioni dell’INPS. 4.Infine, quanto alla regolazione delle spese di lite, la Corte di merito, ha dapprima richiamato, in motivazione, il diritto all’esenzione, ritenendolo, ivi provato, poi lo ha negato, nel regolare le spese di lite in dispositivo, riconoscendolo solo agli effetti del versamento del doppio contributo. 5.Salvatore Lombardo ricorre, co ricorso affidato a quattro motivi, ulteriormente illustrato con memoria; resiste, con controricorso l’INPS. 6.L’ufficio del Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate. RAGIONI DELLA DECISIONE 7.Il primo motivo, con il quale si devolve il vizio di violazione di legge – art.2697 cod.civ. e 24 legge n.196/1997 cit. – investe il capo della sentenza relativo alla regolazione dell’onere della prova, per avere ingiustamente gravato il lavoratore dell’onere di dimostrare il versamento dei contributi al Fondo di garanzia, è da rigettare, per avere la Corte di merito correttamente applicato i principi sull’onere della prova a carico del richiedente la prestazione. 8.In continuità con Cass. n.37246 del 2022, si ribadiscono, di seguito, i principi ivi affermati. 9.Il presente giudizio concerne le prestazioni che il Fondo di garanzia gestito dall'INPS è tenuto a erogare ai soci lavoratori delle cooperative, per un periodo compreso, nella specie, tra il 24 agosto 1982 e il 12 maggio 2006 (così indicato nella sentenza impugnata) e, dunque, in parte antecedente all'entrata in vigore della L. n. 196 del 1997, art. 24. 10.La previsione richiamata persegue l'obiettivo di equiparare i soci delle cooperative di lavoro ai lavoratori subordinati, con riguardo all'assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria, alle indennità di mobilità e alla tutela previdenziale dei crediti di lavoro e per trattamento di fine rapporto. 11.L'estensione prescinde dal tipo di prestazione lavorativa e non postula alcun riscontro in ordine alla conformità alle previsioni del patto sociale e alla sussistenza degli estremi della subordinazione (Cass., sez. lav., 13 gennaio 2000, n. 304; nello stesso senso, Cass., sez. lav., 10 maggio 2016, n. 9479, punto 3). 12.Le tutele introdotte dalla L. n. 196 del 1997 operano anche per il passato, come si evince dal dettato letterale della nuova disciplina (art. 24, comma 1), applicabile anche ai giudizi pendenti (Cass., sez. lav., 24 luglio 2000, n. 9712; Cass., sez. lav., 21 marzo 2001, n. 4071). 13.Il legislatore ha specificato, difatti, che i contributi previdenziali versati dalle società cooperative di lavoro in favore dei propri soci lavoratori, nel periodo anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 196 del 1997, restano salvi e conservano la loro efficacia ai fini delle prestazioni di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 e del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, artt. 1 e 2. 14.Pertanto, nei casi d'insolvenza del datore di lavoro, il Fondo di garanzia gestito dall'INPS eroga il TFR, anche quando i fatti costitutivi del credito si siano verificati prima della data di entrata in vigore della L. n. 196 del 1997 (Cass., sez. lav., 13 giugno 2000, n. 8069). 15.A tale riguardo, questa Corte, con orientamento ribadito a più a riprese (Cass., sez. lav., 30 settembre 2013, n. 22329, punto 5; di recente, Cass., sez. lav., 16 gennaio 2017, n. 862, punto 3), ha puntualizzato che l'estensione retroattiva dell'intervento del Fondo di garanzia a favore dei soci lavoratori di cooperative in situazione d'insolvenza presuppone il pagamento dei contributi previdenziali per il periodo precedente all'entrata in vigore delle disposizioni in esame. 16.L'obbligo del Fondo di garanzia di corrispondere ai soci lavoratori, nell'ipotesi d'insolvenza della cooperativa, le quote del trattamento di fine rapporto relative al periodo antecedente all'entrata in vigore della L. n. 196 del 1997, "deriva dai versamenti dei contributi effettuati al Fondo prima della legge": quando le cooperative non abbiano versato i contributi prima dell'entrata in vigore della legge, non si può usufruire della copertura del Fondo per il periodo pregresso (Cass., sez. lav., 10 novembre 2003, n. 16848). 17.In tal senso militano il dato letterale della norma transitoria, che riconosce rilevanza all'assicurazione volontariamente e irretrattabilmente istituita dalle cooperative, e la finalità dell'intervento normativo, che salvaguarda la garanzia del credito per TFR nei limiti in cui sia stato reso operativo in favore dei soci dall'autonomia contrattuale, in virtù di conforme previsione statutaria o assembleare o di comportamenti concludenti, come il versamento della contribuzione (Cass., sez. lav., 11 giugno 2010, n. 14076). 18.Quanto alla distribuzione dell'onere della prova, questa Corte è costante nell'affermare che incombe sul creditore la prova dei fatti costitutivi della pretesa previdenziale. 19.A tali fatti costitutivi dev'essere ricondotto anche il pagamento dei contributi previdenziali per il periodo antecedente all'entrata in vigore della L. n. 196 del 1997 (Cass., sez. VI-L, 10 dicembre 2021, n. 39328, punti 3.1. e 4). 20.Ne' si può invocare il principio di vicinanza della prova per alterare la regola che presiede alla ripartizione degli oneri probatori. 21.Tale principio non può valere a derogare alla regola di cui all'art. 2697 c.c., che impone all'attore di provare i fatti costitutivi del proprio diritto e al convenuto la prova dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto vantato dalla controparte. Il principio in parola opera allorché le disposizioni che attribuiscono le situazioni attive non offrono indicazioni univoche per distinguere le due categorie di fatti. 22.In tali ipotesi problematiche, che non si ravvisano nell'odierno giudizio, il principio di vicinanza della prova assurge a criterio ermeneutico che conduce a identificare i fatti costitutivi in quelli più vicini all'attore, e dunque nella sua disponibilità, e gli altri in quelli meno prossimi e quindi più facilmente dimostrabili dal convenuto (Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 12910). 23.Come questa Corte ha affermato in un contenzioso analogo a quello odierno, l'interessato dispone della possibilità, secondo le regole di diritto di accesso agli atti della P.A. o eventualmente, sulla base degli strumenti processuali a tal fine predisposti dall'ordinamento, di acquisire la documentazione necessaria a suffragare le proprie ragioni (Cass. 24 giugno 2020, n. 12490; Cass., sez. VI-L, 9 dicembre 2021, n. 39158, punto 3.2.). 24.La pronuncia impugnata, nel porre a carico del lavoratore l'onere di provare il pagamento dei contributi è conforme ai principi di diritto richiamati e non incorre negli errores in iudicando denunciati con il primo mezzo, sul presupposto che l'onere della prova gravi sull'INPS e che sia impossibile, per il lavoratore, ottemperare a un onere siffatto. 25.Il motivo e', sotto questo profilo, infondato. 26.Il motivo e', inoltre, inammissibile. 27.La violazione dell'art. 2697 c.c., può essere censurata in Cassazione soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie, basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (fra le molte, Cass., sez. lav., 10 ottobre 2022, n. 29397). 28.Nel caso di specie, la ripartizione degli oneri probatori è stata correttamente applicata. 29.I tre motivi che si susseguono nell’illustrazione delle censure, tentato di incrinare, vanamente, il capo della sentenza relativo alla regolazione delle spese. 30.Con il secondo mezzo, il ricorrente si duole della compensazione delle spese nel primo grado di merito e deduce, al tal fine, violazione di legge, dell’art. 112 cod.proc.civ. e omesso esame del motivo di gravame ma, invero, il motivo di gravame è stato implicitamente rigettato onde la censura non supera lo scrutinio di ammissibilità. 31.Del pari inammissibile è il terzo motivo, con il quale si devolve violazione dell'art. 152 disp att cod.proc.civ., per difetto di autosufficienza per essere rimasta indimostrata, in sede di legittimità, l’adeguata e tempestiva allegazione, in sede di merito, della dichiarazione reddituale sottoscritta dalla parte personalmente. 32.Nondimeno inammissibile è il quarto mezzo che, per investire globalmente l’esito auspicato del gravame e la conseguente statuizione sulle spese, si appalesa carente d’interesse. 33.In conclusione, il ricorso è rigettato e l’allegazione, in questa sede, d’idonea dichiarazione reddituale comporta l’esonero dalle spese di lite. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art.13,co.1-quater, d.P.R.n.115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso ex art.13,co. 1, se dovuto. 10 Così deciso nella camera di consiglio del 10 ottobre 2023 Il Consigliere estensore Il Presidente Rossana Mancino Umberto Berrino
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere - Rel. Dott. CERULO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 21573/2022 proposto da: (...) Spa già (...) Spa, società con socio unico soggetta all'attività di direzione e coordinamento di (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via (...), presso lo studio degli avvocati AR.MA., MO.GR., che la rappresentano e difendono; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della (...) Spa - Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (...), presso l'Avvocatura dell'Istituto, rappresentata e difesa dagli avvocati CA.DA., LE.MA., AN.SG., DE.RO., ES.SC.; - resistente con mandato - e sul RICORSO SUCCESSIVO SENZA N.R.G. proposto da I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della (...) Spa - Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (...), presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentata e difesa dagli avvocati CA.DA., LE.MA., AN.SG., DE.RO., AN.CO.; - ricorrente successivo - contro (...) Spa già (...) Spa, società con socio unico soggetta all'attività di direzione e coordinamento di (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via (...), presso lo studio degli avvocati AR.MA., MO.GR., che la rappresentano e difendono; - controricorrente al ricorso successivo - avverso la sentenza n. avverso la sentenza n. 1242/2022 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2022 R.G.N. 345/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2023 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento dell'incidentale; uditi gli Avvocati AR.MA. e MO.GR.; udito l'Avvocato CA.DA. FATTI DI CAUSA Con sentenza depositata il 22.3.2022, la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato (...) Spa a pagare all'INPS i contributi sulle mensilità aggiuntive erogabili ai sensi della norma transitoria in calce al CCL 24.7.2001 e non corrisposte, per come riportate nell'avviso di addebito oggetto di opposizione, e ha confermato nel resto l'impugnata sentenza. La Corte, in particolare, ha rigettato l'appello principale dell'INPS nella parte in cui aveva censurato la pronuncia di prime cure per avere ritenuto non assoggettabili a contribuzione le somme corrisposte ai lavoratori aderenti al piano di esodo incentivato al fine di evitare eventuali controversie concernenti il ricalcolo dell'indennità di anzianità maturata al 31.5.1982 e al TFR con il computo del compenso per il lavoro straordinario; indi, nel confermare la pronuncia di prime cure nella parte in cui aveva reputato assoggettabili a contribuzione le somme corrisposte a titolo di mensilità aggiuntive, rigettando per l'effetto l'appello incidentale della società, ha ritenuto che la contribuzione fosse dovuta anche sugli importi che, sempre per tale titolo, non erano stati erogati, accogliendo in parte qua l'appello principale dell'INPS e compensando le spese. Avverso tale pronuncia (...) Spa (già (...) Spa) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura, successivamente illustrati con memoria. L'INPS ha resistito con delega in calce al ricorso notificatogli e ha proposto ricorso successivo, deducendo un motivo di doglianza, cui la società ha a sua volta resistito con controricorso. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo del ricorso principale, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1362 ss. c.c., 12, L. n. 153/1969, e 6, comma 4, D.Lgs. n. 314/1997, per avere la Corte di merito ritenuto che le somme corrisposte a titolo di mensilità aggiuntive ai lavoratori aderenti al piano di esodo anticipato dovessero essere assoggettate a contribuzione, nonostante che la lettera dei contratti collettivi aziendali istitutivi delle mensilità aggiuntive deponesse chiaramente nel senso di considerarle un incentivo all'esodo. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di norme collettive e dell'art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale comunque ritenuto, diversamente dal primo giudice, che dovessero essere assoggettate a contribuzione anche le mensilità aggiuntive non erogate. Con il terzo motivo, la ricorrente si duole di omesso esame circa un fatto decisivo per avere la Corte di merito ritenuto che le mensilità aggiuntive non corrisposte dovessero comunque considerarsi dovute. Con il quarto motivo, la ricorrente deduce violazione degli artt. 1362 ss. e 2697 c.c., 12, L. n. 153/1969, e 6, comma 4, D.Lgs. n. 314/1997, per avere la Corte territoriale ritenuto che fossero assoggettabili a contribuzione le somme corrisposte o non corrisposte a titolo di mensilità aggiuntive ai lavoratori aderenti al piano di esodo incentivato ex art. 4, L. n. 92/2012, ancorché dovesse ritenersi pacifico che costoro, non avendo maturato il diritto al pensionamento, non potessero aver conseguito alcun diritto ad aver corrisposte le mensilità aggiuntive. Con l'unico motivo del ricorso successivo, l'INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché dell'art. 12, L. n. 153/1969 (per come sostituito dall'art. 6, comma 4, D.Lgs. n. 314/1997), per avere la Corte territoriale ritenuto che non fossero assoggettabili a contribuzione le somme corrisposte ai lavoratori aderenti al piano di esodo incentivato al fine di evitare eventuali controversie concernenti il ricalcolo dell'indennità di anzianità maturata al 31.5.1982 e al TFR con il computo del compenso per il lavoro straordinario. I motivi del ricorso principale possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell'intima connessione delle censure, e sono inammissibili. Va premesso che costituisce orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui, ai fini dell'individuazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, l'autonomia reciprocamente esistente tra il rapporto di lavoro e il rapporto contributivo fa sì che l'obbligo di contribuzione possa sussistere indipendentemente dal fatto che le obbligazioni retributive nei confronti del lavoratore siano state in tutto o in parte soddisfatte oppure che quest'ultimo abbia rinunciato ai suoi diritti, di talché, sebbene in astratto le somme corrisposte in esecuzione di una transazione debbano considerarsi estranee rispetto all'obbligo di contribuzione, dipendendo da questo contratto e non dal (diverso) contratto di lavoro, a diverse conclusioni può pervenirsi allorché si provi che nell'accordo transattivo sussistono comunque poste di sicura natura retributiva e collegate intrinsecamente al sottostante rapporto di lavoro (cfr., tra le tante, Cass. n. 27933 del 2017): l'art. 12, L. n. 153/1969, nel testo modificato dall'art. 6, comma 4, D.Lgs. n. 314/1997, individua infatti la retribuzione imponibile ai fini previdenziali ricomprendendo nella relativa nozione, sostanzialmente,tutte le erogazioni provenienti dal datore di lavoro che trovano la loro giustificazione nel rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno dei titoli tassativamente indicati nel capoverso del medesimo art. 12, e segnatamente - per quanto qui rileva - quelle corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto, quelle corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l'imponibilità dell'indennità sostitutiva del preavviso. Ciò posto, deve rilevarsi che i giudici territoriali hanno ritenuto che le mensilità aggiuntive avessero, in base alla disciplina contrattuale di riferimento, una funzione sostitutiva dell'indennità di preavviso, reputando conseguentemente dovuti i contributi sia in relazione a quelle concretamente erogate che a quelle non erogate; e tale giudizio, condotto in specie conformemente ai principi regolatori della materia, involge valutazioni che costituiscono l'esito di un tipico accertamento di merito non sindacabile in questa sede di legittimità, essendo frutto dell'esegesi di plurime fonti negoziali di natura aziendale. Fermo è, invero, l'orientamento di questa Corte in base al quale l'interpretazione degli atti privati, governata da criteri giuridici cogenti e tendente alla ricostruzione del loro significato in conformità alla comune volontà dei contraenti, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile, in questa sede di legittimità, solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (e, in questo caso, con imprescindibile specificazione dei canoni e delle norme ermeneutiche che in concreto sarebbero state violate e con indicazione puntuale del modo e dei passaggi motivazionali in cui il giudice di merito se ne sarebbe discostato), oppure in presenza di una motivazione talmente lacunosa da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione in sé (cfr., tra le più recenti Cass. nn. 10745 del 2022 e 7978 e 36337 del 2023, anche nelle rispettive motivazioni); e altrettanto costante è l'insegnamento secondo cui l'interpretazione data dal giudice di merito, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, di talché alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice non è consentita alcuna censura in sede di legittimità per il solo fatto che sia stata privilegiata l'altra (cfr., in tal senso Cass. nn. 23132 del 2015, 9461 e 15612 del 2021 e 7978 del 2023, già cit.). In altri termini, il sindacato di questa Corte di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé ed è, quindi, inammissibile ogni critica alla ricostruzione operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 2061 del 2021); con l'ulteriore precisazione che quando, come nella specie, è applicabile il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l'omesso esame della questione relativa all'interpretazione del contratto neppure è riconducibile a detto vizio, in quanto l'interpretazione di una clausola negoziale non costituisce "fatto" decisivo per il giudizio, poiché, in tale nozione, rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (così Cass. n. 5795 del 2017). I rilievi di cui al ricorso principale non soddisfano le rigorose indicazioni qui tracciate. Essi, a ben vedere, si limitano ad offrire una diversa lettura delle fonti di riferimento esaminate dai giudici territoriali che, per quanto innanzi, resta del tutto irrilevante in questa sede. Deve aggiungersi, in ultimo, che non appaiono in contrario decisivi i precedenti di legittimità invocati nel ricorso per cassazione a sostegno delle censure, vale a dire Cass. nn. 97 del 1986, 1222 del 199DataPubblicazione del 1995. Vero è, infatti, che questa Corte di legittimità, in epoca oramai risalente, si è occupata, sia pure ad altri fini, dell'interpretazione di alcune clausole contrattuali e della natura delle mensilità aggiuntive di cui anche qui si controverte, confermando nelle pronunce citate sentenze di merito che avevano ritenuto che l'istituto delle mensilità aggiuntive costituisse un incentivo all'esodo. Tuttavia, le controversie sottoposte al vaglio del giudice di legittimità hanno un oggetto delimitato dalle ragioni che sorreggono la statuizione impugnata, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso, e a tale oggetto è radicalmente estranea la verifica della fondatezza della domanda ogni qualvolta essa dipenda da un accertamento di fatto, qual è, come anzidetto, la volontà negoziale espressa in un contratto o accordo di carattere aziendale (cfr. Cass. n. 11807 del 2003); e ciò costituisce un insopprimibile limite logico alla pur condivisibile esigenza (evidenziata, tra le altre, da Cass. nn. 8297 del 2007 e 25139 del 2010) che nell'interpretazione dei contratti collettivi aziendali propri di imprese di rilievo nazionale si pervenga a soluzioni ermeneutiche uniformi, stante la loro riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e il loro carattere sostanzialmente normativo, che li rende inassimilabili a qualsivoglia contratto o accordo diverso da un contratto collettivo nazionale di lavoro: tanto è vero che letture diverse delle medesime clausole contrattuali sono state parimenti ratificate da questa Corte, in ragione della decisiva rilevanza, in ciascun giudizio in sede di legittimità, solo dell'adeguatezza e della congruità delle valutazioni interpretative svolte nelle singole decisioni di merito; e in particolare, diversamente dai precedenti indicati dalla parte ricorrente, Cass. nn. 6396 del 1995 e 11128 del 1996 hanno ritenuto plausibile l'imputazione delle mensilità aggiuntive corrisposte dall'allora E.N.E.L. all'indennità sostitutiva del preavviso. Ad un rilievo di inammissibilità - e per analoghe ragioni - si arresta anche il ricorso successivo dell'INPS, da reputarsi incidentale (Cass. n. 36057 del 2021). Premesso sul punto che i giudici territoriali, all'esito dell'interpretazione del contenuto dell'accordo di risoluzione incentivata, hanno ritenuto che le somme erogate al fine di evitare eventuali controversie concernenti il ricalcolo dell'indennità di anzianità maturata al 31.5.1982 e al TFR con il computo del compenso per il lavoro straordinario avessero natura genuinamente transattiva, correttamente escludendole dall'imponibile contributivo, ai sensi e per gli effetti dell'art. 12, L. n. 153/1969, più volte cit., è sufficiente rilevare che, anche in parte qua, si è in presenza dell'esegesi di un atto negoziale, in relazione al quale il controllo di questa Corte è segnato, come si è già detto, da limiti rigorosi, risultando imprescindibile la specificazione, in concreto, dei canoni violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia discostato dagli stessi; e dal momento che, nella specie, i rilievi dell'ente previdenziale si risolvono nella mera contrapposizione tra l'interpretazione preferita e quella accolta nella decisione impugnata, essi incontrano gli stessi ostacoli evidenziati in relazione allo scrutinio del ricorso principale. Conclusivamente, entrambi i ricorsi, principale e incidentale, vanno dichiarati inammissibili, con le spese che si compensano per la reciproca soccombenza. Tenuto conto della declaratoria d'inammissibilità di entrambi i ricorsi, vanno dichiarati sussistenti i presupposti processuali per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili i ricorsi. Compensa le spese. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte di entrambi i ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Accordo risoluzione rapporti di lavoro. Transazione Obblighi contributivi UMBERTO BERRINO Presidente ROSSANA MANCINO Consigliere GABRIELLA MARCHESE Consigliere - Rel. LUIGI CAVALLARO Consigliere Ud. 14/11/2023 PU B Cron. R.G.N. 8902/2022 ANGELO CERULO Consigliere SENTENZA sul ricorso 8902/2022 proposto da: ENEL S.P.A.,in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22 presso lo studio dell'avvocato ARTURO MARESCA che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MONICA GRASSI; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE,in persona del suoPresidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario dellaS.C.C.I. S.P.A. - Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLA D'ALOISIO, ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO, ANTONIETTA CORETTI; - resistenti con mandato – e sul RICORSO SUCCESSIVO SENZA N.R.G. proposto da: I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE,in persona del suoPresidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario dellaS.C.C.I. S.P.A. - Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLA D'ALOISIO, ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO, ANTONIETTA CORETTI; -ricorrenti successivi - contro ENEL S.P.A.,in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22 presso lo studio dell'avvocato ARTURO MARESCA che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MONICA GRASSI; -controricorrente al ricorso successivo – avverso la sentenza n. 3073/2021 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 12/10/2021 R.G.N. 708/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2023 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento dell’incidentale; uditi gli avvocati ARTURO MARESCA, MONICA GRASSI; udito l’avvocato CARLA D’ALOISIO. FATTI DI CAUSA 1.La Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell'appello principale proposto dall'Inps, rigettato quello incidentale della parte privata, ha condannato quest’ultima al pagamento di contributi, sanzioni e interessi di mora, per gli importi e le causali come specificati nella parte dispositiva. 2.Non in discussione la sussistenza di un accordo di risoluzione consensuale incentivata in relazione ad una serie di rapporti di lavoro, i profili controversi in causa hanno riguardato la sussistenza o meno dell’obbligo contributivo: ✓ per le somme erogate in via transattiva al «dichiarato ed espresso fine di evitare il rischio di un contenzioso sulla quantificazione del TFR»; ✓ per le somme dovute a titolo di mensilità aggiuntive, anche se, in concreto, non erogate. 3.La Corte di appello ha osservato, in premessa, che il negozio transattivo non spezza, necessariamente, il collegamento con il rapporto di lavoro; per interrompere tale nesso, è, infatti, necessaria una clausola novativa (nella specie implicitamente esclusa) tale da attribuire alla dazione in danaro un titolo nuovo ed autonomo, riconducibile al contratto transattivo, rispetto al precedente contratto di lavoro. 4.Ha, quindi, ritenuto, quanto agli effetti del delineato ragionamento sul piano contributivo, che, ai sensi dell'art. 12, co.4, lett. a), della legge nr. 153 del 1969, le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto andassero escluse dalla base imponibile contributiva. Per i Giudici, gli importi ai quali si riferiva la pretesa contributiva «partecipa(va)no» della medesima natura giuridica del TFR per cui erano attribuite; di conseguenza, erano esenti dall'obbligo contributivo. 5.In relazione alle mensilità aggiuntive, invece, la Corte di merito ha ritenuto che fossero dovuti i contributi, in applicazione del principio del minimale contributivo. Le somme, infatti, erano dovute ai lavoratori, benché, in concreto, non fossero state corrisposte. 6.Ha osservato che le mensilità aggiuntive, in base alla disciplina di riferimento, avevano la funzione di sostituire l’indennità di mancato preavviso e non, come sosteneva la società datrice di lavoro, quella di incentivo all’esodo. Pertanto, rientravano nell’imponibile contributivo, ai sensi del medesimo art.12. 7.Avverso la decisione, ha proposto ricorso principale l’ENEL SPA, con quattro motivi. 8. L’INPS ha depositato procura speciale in calce al ricorso principale e ha, poi, proposto ricorso successivo, articolato in un unico motivo, cui la società ha, a sua volta, resistito con controricorso. 9. L’ENEL ha, successivamente, depositato memoria. 10.Il PG ha depositato conclusioni scritte. RAGIONI DELLA DECISIONE 11.Con il primo motivo del ricorso principale - ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - è dedotta la violazione degli artt. 1362 e ss. cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 159 del 1963 e dell’art. 6, comma 4, del d.lgs. nr. 314 del 1997. 12.L’Enel imputa alla Corte di appello una erronea interpretazione della disciplina legale e contrattuale di riferimento e l’inesatta ricostruzione giuridica dell’istituto delle mensilità aggiuntive, come costantemente applicato dall’Azienda. 13.È denunciata la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale che, viceversa, correttamente applicati, avrebbero condotto a ravvisare il collegamento tra le somme controverse e la finalità di incentivare la risoluzione dei rapporti di lavoro. 14.Con il secondo motivo -ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ.- è dedotta la violazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro con riferimento alla disciplina collettiva applicabile e all’onere della prova ex art. 2967 cod.civ. 15.È criticata la statuizione secondo cui le mensilità aggiuntive, non erogate, erano invece dovute ai lavoratori che hanno sottoscritto gli accordi risolutivi. 16.L’Enel deduce che l’erogazione delle cd. mensilità aggiuntive era prevista in favore dei soli lavoratori che cessavano dal rapporto di lavoro, con diritto a pensione, pur avendo la possibilità di rimanere in servizio. Le mensilità non erano state corrisposte perché non sussistevano i presupposti per la loro erogazione, né l’INPS, come era suo onere, aveva dimostrato il contrario. 17.Con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. – le censure di cui ai precedenti mezzi di impugnazione sono argomentate in termini di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. 18.L’omissione è riferita al mancato esame della circostanza che le mensilità aggiuntive, giudicate dalla Corte di appello dovute e non erogate, in realtà non erano spettanti. 19.Con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ.- è dedotta la violazione degli artt. 1362 e ss e 2967 cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 159 del 1963 e dell’art. 6 comma 4 del d.lgs. nr. 314 del 1997. 20.La sentenza di appello è censurata anche con riferimento ai lavoratori aderenti al piano ex art. 4 della legge nr. 92 del 2012. 21.Parte ricorrente deduce, in particolare, che nelle ipotesi di risoluzioni consensuali ai sensi del citato art. 4, il presupposto – certificato dall’INPS – era proprio quello di non aver raggiunto il diritto al pensionamento; pertanto, neppure in astratto, vi erano le condizioni per ottenere le mensilità aggiuntive. 22.I motivi del ricorso principale possono congiuntamente esaminarsi, ponendo tutti, nella sostanza, la questione della sottoposizione a contribuzione previdenziale delle somme previste a titolo di cd. mensilità aggiuntive, nell’ambito di accordi conclusi in sede di risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro. 23.Come sinteticamente riportato nello storico di lite, la ratio decidendidella sentenza impugnata risiede, innanzitutto, nell’affermazione secondo cui l'obbligazione contributiva può essere insensibile al fatto che determinate somme siano erogate in esecuzione di un contratto di transazione. Ciò che rileva è, infatti, il nesso che intercorre tra le somme e il rapporto di lavoro; se tra i due termini persiste il nesso di dipendenza (e non di mera occasione), nel senso che le somme erogate dipendono dal contratto di lavoro e non da quello, diverso, di transazione, gli importi corrisposti costituiscono imponibile contributivo. 24.Sulla base di tale premessa teorica, l'indagine del giudice di merito si è conclusa nel senso della natura retributiva delle somme erogate ai lavoratori, in occasione degli accordi raggiunti, e della assoggettabilità a contribuzione di quelle in discussione, non ricorrendo le tassative ipotesi di esclusione stabilite dall’ art. 12 legge nr. 153 del 1969. 25.Come noto, la disposizione indicata individua la retribuzione imponibile ai fini previdenziali ricomprendendo nella relativa nozione, sostanzialmente, tutte le erogazioni provenienti dal datore di lavoro che trovano la loro giustificazione nel rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno dei titolo tassativamente indicati nel capoverso del medesimo art. 12. 26.In particolare, per quanto rileva nella fattispecie, sono escluse dalla base imponibile le somme corrisposte a titolo di «trattamento di fine rapporto» e le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione «fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso». 27.La Corte di appello ha ritenuto, però, che le mensilità aggiuntive avessero, in base alla disciplina contrattuale di riferimento, una funzione sostitutiva dell’indennità di preavviso; di conseguenza, permaneva, in relazione alle stesse, l’obbligo datoriale di contribuzione. 28.Osserva il Collegio che il giudizio espresso, condotto conformemente ai principi regolatori della materia, involge, altresì, valutazioni che costituiscono l’esito di un tipico accertamento di merito. Esso è, infatti, il frutto dell’esegesi di plurime fonti, in gran parte negoziali, di natura aziendale, non sindacabile in sede di legittimità. 29.Fermo è l’orientamento di questa Corte (cfr., explurimis, Cass. nr. 36337 del 2023; Cass. nr. 7978 del 2023; Cass. nr. 10745 del 2022 anche nelle rispettive motivazioni) in base al quale l'interpretazione degli atti privati, governata da criteri giuridici cogenti e tendente alla ricostruzione del loro significato in conformità alla comune volontà dei contraenti, costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile, in sede di legittimità, solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (e, in questo caso, con imprescindibile specificazione dei canoni e delle norme ermeneutiche che in concreto sarebbero state violate e con indicazione puntuale - al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – del modo e dei passaggi motivazionali in cui il giudice di merito se ne sarebbe discostato) o in presenza di una motivazione talmente lacunosa da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione in sé. 30.Altrettanto costante è l’insegnamento secondo cui l’interpretazione data dal giudice di merito, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni. Pertanto, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, non è consentita alcuna censura in sede di legittimità per il solo fatto che sia stata privilegiata l'altra (su tali principi, cfr., ex plurimis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nr. 7978 del 2023; Cass. nr 15612 e 9461 del 2021; Cass. nr. 23132 del 2015). 31.In altri termini, il sindacato della Corte di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé ed è, quindi, inammissibile ogni critica alla ricostruzione operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr., ex aliis, Cass., sez.un. nr. 2061 del 2021; Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 10891 del 2016); con l’ulteriore precisazione che quando, come nella specie, è applicabile il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, nr. 5 cod.proc.civ., l'omesso esame della questione relativa all'interpretazione del contratto neppure è riconducibile a detto vizio, in quanto l'interpretazione di una clausola negoziale non costituisce «fatto» decisivo per il giudizio, poiché, in tale nozione, rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (cfr. Cass. nr. 21779 del 2019;Cass. nr. 5795 del 2017). 32.I rilievi di cui al ricorso principale non soddisfano le rigorose indicazioni qui tracciate. Essi, a ben vedere, si limitano ad offrire una diversa lettura delle fonti di riferimento esaminate dal Giudice del merito che, per quanto innanzi, resta del tutto irrilevante in questa sede. 33.Deve aggiungersi, in ultimo, che non sono decisivi i precedenti di legittimità richiamati in ricorso (vale a dire Cass. nr. 97 del 1986, nr.1222 del 1994 e nr. 2213 del 1995). 34.La Corte di legittimità, in epoca oramai risalente, si è, in effetti, occupata, sia pure ad altri fini, dell’interpretazione di alcune clausole contrattuali e della natura delle mensilità aggiuntive di cui anche qui si controverte, confermando, con le pronunce citate, sentenze di merito che avevano ritenuto che l’istituto delle mensilità aggiuntive costituisse un incentivo all’esodo. Tuttavia, le controversie sottoposte al vaglio del giudice di legittimità hanno un oggetto delimitato dalle ragioni che sorreggono la statuizione impugnata, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso, e a tale oggetto è radicalmente estranea la verifica della fondatezza della domanda ogni qualvolta essa dipenda da un accertamento di fatto, qual è, come anzidetto, la volontà negoziale espressa in un contratto o accordo di carattere aziendale (cfr. Cass. nr. 11807 del 2003); e ciò costituisce un insopprimibile limite logico alla pur condivisibile esigenza (evidenziata, tra le altre, da Cass. nr. 8297 del 2007 e nr. 25139 del 2010) che nell’interpretazione dei contratti collettivi aziendali propri di imprese di rilievo nazionale si pervenga a soluzioni ermeneutiche uniformi, stante la loro riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e il loro carattere sostanzialmente normativo: tanto è vero che letture diverse delle medesime clausole contrattuali sono state parimenti ratificate da questa Corte, in ragione della decisiva rilevanza, in ciascun giudizio in sede di legittimità, solo dell'adeguatezza e della congruità delle valutazioni interpretative svolte nelle singole decisioni di merito. In particolare, diversamente dai precedenti indicati dalla ricorrente, in altre sentenze (v. Cass. nr. 6396 del 1995 e Cass. nr. 11128 del 1996) è stata ritenuta plausibile l’imputazione delle mensilità aggiuntive corrisposte dall'allora E.N.E.L. all’ indennità sostitutiva del preavviso. 35.Da quanto precede, segue l’inammissibilità del ricorso principale. 36.Ad un rilievo di inammissibilità – e per analoghe ragioni - si arresta anche il ricorso successivo dell’Inps, da reputarsi incidentale (Cass. nr. 36057 del 2021). 37.Con l’unico motivo di ricorso, l’INPS deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod.civ. nonché dell’art. 12 della legge nr. 153 del 1969, come modificato dall’art. 6, comma 1, del d.lgs nr. 314 del 1997, per avere la Corte di appello escluso dalla base imponibile le somme corrisposte, in sede transattiva, «al fine di evitare il rischio di contenzioso sulla quantificazione del T.F.R.». 38.La Corte territoriale ha proceduto all'interpretazione del contenuto dell'accordo transattivo. All’esito, ha ritenuto che le somme controverse «partecipassero» della stessa natura del TFR. In estrema sintesi, ha ritenuto che le somme stesse costituissero TFR. Ha quindi escluso gli importi a detto titolo erogati dall’imponibile contributivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 12, comma 4, lett. 4, legge nr. 153 del 1969 più volte citato. 39.All’evidenza, anche in parte qua, si è in presenza dell’esegesi di un atto negoziale, in relazione al quale il controllo della Corte è segnato, come si è già detto, da limiti rigorosi, risultando imprescindibile la specificazione, in concreto, dei canoni violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia discostato dagli stessi. Nella specie, pure i rilievi dell’Inps si risolvono nella mera contrapposizione tra l'interpretazione preferita e quella accolta nella decisione impugnata e incontrano gli stessi ostacoli evidenziati in relazione allo scrutinio del ricorso principale. 40.Conclusivamente, entrambi i ricorsi, principale e incidentale, vanno dichiarati inammissibili, con le spese che si compensano per la reciproca soccombenza. 41.Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, del raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater D.P.R. nr. 115 del 2002, se dovuto. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili entrambi i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente previsto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto. Così deciso in Roma, il 14 novembre 2023 IL CONSIGLIEREESTENSORE IL PRESIDENTE Gabriella Marchese Umberto Berrino
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE di GENOVA Sezione Lavoro Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Stefano Grillo ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 4205/2023 promossa dal sig.: (...) e residente in Genova, (...) elettivamente domiciliato in Genova, (...), presso lo studio e la persona dell'Avv. Va.Ma., che lo rappresenta e difende in forza di mandato in calce al ricorso -ricorrente- CONTRO (...) in persona del suo Amministratore pro tempore e legale rappresentante Dott. (...) con studio in Genova (GE), (...), ed elettivamente domiciliata in Genova, (...) presso e nello studio dell'Avv. Ca.Pa., che la rappresenta e difende congiuntamente e disgiuntamente dall'Avv. Al.Lu., per mandato allegato alla memoria di costituzione -convenuta- Conclusioni delle parti RICORRENTE: "CHIEDE al Giudice adito in via principale di accertare la nullità del licenziamento per le circostanze dedotte in narrativa e quindi perché trattasi di licenziamento discriminatorio ovvero intimato in frode alla legge; ovvero perché intimato in mancanza dei poteri conferiti da valida delibera assembleare o in seguito a delibera affetta da vizi di nullità o illegittimità. Conseguentemente ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 23/2015, Voglia il Giudice adito annullare il licenziamento in esame e condannare la parte convenuta (...) (...) in persona dell'amministratore p.t. a riammettere in servizio o a ripristinare o a reintegrare il ricorrente nel suo posto di lavoro con condanna della stessa parte convenuta al pagamento in favore del ricorrente del risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni, maturate e maturande, dal licenziamento sino all'effettivo ripristino del rapporto di lavoro oltre ai contributi previdenziali ed assistenziali connessi In subordine: Voglia il Giudice accertare l'illegittimità del licenziamento perché infondato, perché privo di giusta causa o giustificato motivo con conseguente condanna della parte convenuta (...) (...) in persona dell'amministratore p.t. a pagare al ricorrente l'indennità risarcitoria connessa all'illegittimo licenziamento nella misura massima o altra meglio vista ai sensi dell'art. 3 comma n. 1 e art. 9 D.Lgs. n. 23/2015. In punto procedimento disciplinare: Voglia il Giudicante dichiarare l'inammissibilità e infondatezza degli addebiti elevati nei confronti del ricorrente, annullando, ove esistenti, eventuali sanzioni disciplinari con condanna della parte convenuta a rimborsare o restituire eventuali importi illegittimamente trattenuti. In ordine agli emolumenti retributivi: con riferimento al periodo lavorativo dedotto in causa e per l'intera sua durata o altra durata meglio accertata, previa applicazione dell'art. 36 Cost. e del ccnl Proprietari di Fabbricati, il ricorrente chiede la condanna della parte convenuta (...) in persona dell'amministratore p.t. a pagare al ricorrente stesso le somme che risulteranno dovute in corso di causa mediante ctu contabile a titolo di lavoro straordinario non pagato e delle indennità elencate in narrativa e non pagate, nonché il ricalcolo del complessivo trattamento retributivo riservato all'esponente in forza delle indennità omesse su tutti gli elementi diretti e differiti: retribuzione mensile, mensilità aggiuntiva, festività, ferie e permessi ed in subordine le differenze sui singoli ratei del Tfr. Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio da distrarsi in favore del difensore che se ne dichiara antistatario"; CONVENUTO: "Conclude Affinché il Tribunale Ill.mo di Genova, in composizione monocratica, Sezione Lavoro, In via principale, respinga il ricorso proposto dal sig. (...) in quanto infondato in fatto e diritto. Respinga le ulteriori domande ex adverso proposte in quanto infondate in fatte e diritto Vinte le spese". MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con ricorso depositato telematicamente l'11.11.2023, il sig. (...) ha convenuto in giudizio il datore di lavoro, (...) in Genova (nel seguito, per brevità, anche solo il (...)"), per sentire: -accertare la nullità del licenziamento intimatogli, perché discriminatorio, ovvero in frode alla legge, o ancora comunicato in mancanza dei poteri conferiti da valida delibera assembleare o in seguito a delibera affetta da vizi di nullità o illegittimità; con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna del convenuto al risarcimento del danno; o, in subordine, con condanna del convenuto al (solo) risarcimento del danno; -accertare l'illegittimità del medesimo licenziamento, perché infondato, privo di giusta causa o giustificato motivo, con conseguente condanna del convenuto al risarcimento del danno; -dichiarare l'inammissibilità e infondatezza degli addebiti elevati nei propri confronti, annullando, ove esistenti, eventuali sanzioni disciplinari con condanna del convenuto a rimborsare o restituire eventuali importi illegittimamente trattenuti; -condannare il convenuto, previa applicazione dell'art. 36 Cost. e del CCNL Proprietari di fabbricati, a pagargli le somme che risulteranno dovute in corso di causa a titolo di lavoro straordinario non pagato e delle indennità elencate in narrativa (principalmente, indennità per apertura e chiusura portone e per "ritiro raccomandate e pacchi") e non pagate, nonché al "ricalcolo del complessivo trattamento retributivo riservato all'esponente in forza delle indennità omesse su tutti gli elementi diretti e differiti: retribuzione mensile, mensilità aggiuntiva, festività, ferie e permessi ed in subordine le differenze sui singoli ratei del TFR". A fondamento delle proprie richieste, il ricorrente, portiere e custode condominiale con alloggio, liv. A4 del CCNL Proprietari di fabbricati, ha dedotto che: -con lettera del 6.4.2023 il Condominio (...) gli ha intimato il licenziamento alla scadenza del preavviso, prevista per il 15.4.2024, in quanto il 15.2.2023 l'assemblea condominiale avrebbe deliberato la soppressione del posto di lavoro; -il licenziamento è stato determinato dalla volontà di discriminarlo, quale lavoratore-genitore di un figlio gravemente disabile; ovvero con l'intento fraudolento di "esautorare un lavoratore il cui figlio è motivo di imbarazzo e fastidio per alcuno condomini"; -infatti, il proprio figlio (...) risulta invalido civile al 60% da marzo 2018, per disturbo schizotipico di personalità, deficit campimetrico con scotoma paracentrale-deficit visivo OS; sottoposto dal febbraio 2020 a ripetuti ricoveri in P.S., gli ultimi due nell'ottobre (2023) per ansia acuta, rimurginazioni ossessive, dubbia presenza di allucinazioni uditive; è seguito presso il SSM Asl 3 dalla curante dott.ssa (...) (v. in particolare doc. 11 e 12 ric.); -"molti condomini... erano infastiditi dal comportamento di (...) che dava spesso in escandescenze, alcuni riferivano di aver paura del ragazzo; altri si lamentavano dell'intervento dell'ambulanza o della polizia quando il ragazzo aggrediva il padre o rompeva mobili e suppellettili in casa, urlando e scagliandosi contro il padre"; di queste problematiche e doglianze si è fatto portavoce lo stesso Amministratore del Condominio, sig. (...); -in tale contesto sono maturati gli addebiti disciplinari, "come spinta ad esasperare il ricorrente per indurlo a dimettersi"; in particolare le contestazioni del 23.9.2020, relativa a scarsa pulizia, scarsa presenza in guardiola., e del 10.5.2023, relativa alla gestione delle luci dell'atrio condominiale, non seguite da sanzioni; -il licenziamento è altresì nullo "per carenza dei poteri in capo all'amministratore in mancanza dell'autorizzazione dell'assemblea o della maggioranza qualificata per assumere tale deliberazione che è l'atto presupposto per la successiva comunicazione del licenziamento." (il ricorrente contesta la delibera condominiale del 15.2.2023, menzionata nella lettera di licenziamento, quanto ad "esistenza, regolarità o legittimità dell'o.d.g., dei quorum di votazione, delle eventuali deleghe dei condomini ecc."); -il licenziamento è previo di giusta causa/giustificato motivo; -come da contratto, la portineria deve essere aperta dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 19; il sabato dalle 9 alle 12; tuttavia, per poter svolgere le mansioni di pulizie e sorvegliare il portone, è sempre stato tenuto ad osservare, dal lunedì al venerdì mattina, il maggiore orario dalle 7 alle 12.30; -il lavoro straordinario diurno svolto non gli è mai stato retribuito; -il (...) gli avrebbe dovuto corrispondere le indennità per apertura e chiusura portone e la voce "ritiro raccomandate e pacchi" (pagata solo dal febbraio 2020) in luogo dell'indennità "distribuzione posta"; -il (...) gli ha corrisposto per diversi anni le indennità/voci "distribuzione posta", "reperibilità", "sostituzione luce", inserendole in busta paga tra le competenze lorde mensili, dunque senza che incidessero su 13.ma, ferie e TFR. L'Amministrazione del (...) si è ritualmente costituita in giudizio, chiedendo in via principale la reiezione del ricorso, in quanto infondato in fatto e in diritto. Secondo il convenuto, infatti: -le circostanze dedotte in ricorso sono assolutamente generiche, prive di riferimenti a tempi e/o persone, nonché non conformi al vero; -nessuna finalità discriminatoria può ritenersi sussistente, perché come documentalmente provato dai verbali assembleari prodotti, il "problema portineria" nel CONDOMINIO "... è presente quanto meno già dal 2005 ed è stato spesso oggetto di discussioni e contenziosi (tra condomini e condominio) relativamente alla opportunità o meno di conservare tale servizio ovvero dismetterlo" (sia prima dell'assunzione del ricorrente: v. ordini del giorno/delibere condominiali 2005, febbraio e marzo 2011, 2014, novembre e dicembre 2016, gennaio e ottobre 2017; sia dopo: v. delibere giugno 2021, giugno 2022 e, infine, 15.2.2023, con cui è stata decisa l'abolizione), tanto per i significativi costi connessi, quanto per i controversi criteri di ripartizione di essi"; -il motivo del cambiamento di posizione sul punto di alcuni condomini deve rinvenirsi nell'incremento delle spese a carico di essi, a seguito di contenzioso giudiziale; -comunque, "la volontà assembleare di un condominio, le cui scelte sono pacificamente insindacabili nel merito da parte del Giudice, altro non. (è) che la sommatoria delle volontà dei singoli condomini per cui controparte dovrebbe dimostrare la volontà, in capo ai singoli condomini favorevoli alla soppressione del servizio di portineria, di porre in essere un atto ritorsivo-discriminatorio volto a penalizzare il ricorrente"; -ne è seguita l'intimazione del licenziamento da parte dell'amministratore, delegato dall'assemblea condominiale; -unicamente al termine del periodo di preavviso (di 12 mesi) potrà verificarsi se il servizio di portineria verrà effettivamente soppresso, non potendo il Tribunale sindacare il merito della decisione assembleare; -se davvero si fossero voluti allontanare il ricorrente e il di lui figlio dall'alloggio condominiale, "l'Amministratore avrebbe ben potuto procedere disciplinarmente nei suoi confronti (le occasioni non sono comunque mancate) ovvero avrebbe potuto sostituire l'alloggio con la relativa indennità prevista dal CCNL, ovvero procedere ad una risoluzione del rapporto con una diversa motivazione (magari strumentale) e con un periodo di preavviso considerevolmente più corto"; il Condominio non avrebbe impiegato oltre tre anni "per risolvere un rapporto di lavoro assoggettato pacificamente a tutela obbligatoria"; -"le contestazioni disciplinari elevate, ma non portate a termine, confermano come il condominio, qualora avesse avuto una intenzione ritorsiva od espulsiva del ricorrente avrebbe ben potuto dar seguito alle stesse per giungere in tempi assai più rapidi al licenziamento del sig. (...)"; -il licenziamento è pertanto legittimo, in quanto conseguente alla scelta, non sindacabile, di sopprimere il servizio di portineria e conseguentemente il posto di lavoro occupato dal ricorrente; -non essendo mai stato erogato e/o applicato alcun provvedimento disciplinare conservativo, la domanda di annullamento proposta dovrà essere respinta; -sono altresì infondate le domande attrici relative alle differenze retributive, in quanto: il portone doveva essere aperto e chiuso in coincidenza con l'orario di lavoro del sig. (...) e pertanto aperto alle 8:00 (il sabato alle 9:00) e chiuso alle 19:00 (il sabato alle 12:00); mai l'Amministratore e/o i consiglieri hanno dato disposizione e/o autorizzato il ricorrente ad iniziare l'attività lavorativa alle ore 7:00; peraltro, l'attività di portierato è "attività discontinua e pertanto, in assenza di espressa richiesta del datore di lavoro, non può essere riconosciuto il lavoro eccedente l'ordinario orario contrattuale"; lo stesso CCNL non prevede il diritto alla retribuzione dello straordinario diurno eventualmente svolto dal portiere con alloggio; pertanto, non sono dovuti compensi per lavoro straordinario e neppure le indennità di apertura e chiusura del portone, che spettano nei soli casi in cui le operazioni non debbano avvenire durante l'orario di lavoro (art. 43 punto 6 e 7 del CCNL applicato); -per quanto concerne le indennità relative al ritiro raccomandate e pacchi, fino alla fine del 2019 era prevista unicamente l'indennità per ritiro raccomandate, nella misura pacificamente riconosciuta nelle buste paga (0,63 per abitazione); "a partire dal rinnovo del CCNL avvenuto con decorrenza dal gennaio 2020, le tabelle delle indennità hanno introdotto una nuova voce relativa all'indennità per il ritiro raccomandate e pacchi stabilita per i condomini ad uso prevalente abitativo pari ad Euro 1,00 per unità immobiliare, somma regolarmente riconosciuta al ricorrente"; -è altresì infondata la richiesta di differenze retributive a causa del mancato computo di alcune voci indennitarie nella 13A mensilità, nel TFR e in occasione delle ferie e permessi: analizzando le buste paga, se ne trae conferma che, "anche nel periodo in cui alcune voci indennitarie sono state inserite nella c.d. 'parte bassa' della busta paga, le somme corrisposto a tale titolo erano ricomprese nella base imponibile del TFR, venivano corrisposte integralmente anche nei mesi in cui il ricorrente ha usufruito di ferie e/o permessi ed infine in occasione dell'erogazione della 13A mensilità la somma corrisposta veniva integrata di un importo denominato 'indennità per tredicesima' pari a quanto maturato a tale titolo". La causa è stata istruita documentalmente. E' stata poi discussa oralmente dai difensori delle parti, che hanno infine insistito nelle conclusioni di cui ai rispettivi atti. Nell'udienza del 12.4.2024, la vertenza è stata decisa come da dispositivo, di cui è stata data lettura. 2. Iniziando ad esaminare le questioni relative licenziamento, deve osservarsi che il ricorrente ne deduce la nullità o, comunque, l'invalidità, innanzitutto perché intimato dall'Amministratore senza l'autorizzazione dell'assemblea dei condomini, essendo inesistente, ovvero viziata, la delibera (di "soppressione del servizio di portineria") indicata nell'atto di recesso. Quindi, perché "discriminatorio, ovvero in frode alla legge". 3. L'esistenza della delibera dell'assemblea condominiale straordinaria, con cui è stata decisa la soppressione del servizio di portineria, è stata provata dal convenuto, che ha prodotto sub doc. 13 il relativo verbale, nel quale la decisione sul 1° punto dell'o.d.g., relativo alla "Dismissione servizio di portierato", risulta presa con la maggioranza di 19 voti (contro 13 contrari) e 633,351 millesimi (contro 321,69 contrari). Nel verbale si indica, quindi, che "L'assemblea, con m/m e 19 condomini su 32 presenti, delibera di dismettere il servizio di portierato incaricando l'amministratore di sentire il Consulente del lavoro per tutti gli adempimenti necessari ad ottenere quanto oggi deliberato". Con la produzione della delibera, è stata provata anche l'attribuzione all'Amministratore dei poteri per provvedere al licenziamento. Come da verbale d'udienza dell'11.3.2024, il difensore del ricorrente ha poi chiesto al Tribunale, nel corso del giudizio, di "... acquisire i rendiconti e i consuntivi degli ultimi due esercizi al fine di verificare se ed eventualmente con quanti millesimi i condomini (...) abbiano partecipato alle spese di portineria". Ha insistito, quindi, "... nella domanda relativa all'accertamento. (della) illegittimità/annullabilità della delibera assembleare del 15.2.23 ove i condomini (...) partecipavano all'assemblea con 127 millesimi e votavano sempre in forza di 127 millesimi il primo punto 'dismissione del portierato', laddove risulterebbe dal secondo punto che gli stessi dovevano eventualmente votare con 44 o 65 millesimi anziché 127. Da qui l'annullabilità dell'intera delibera in ordine al punto 1 e conseguentemente il profilarsi di nullità o illegittimità di tutti gli atti conseguenti e presupposti, tra cui l'intimazione del licenziamento". 3.1. Tuttavia, il vizio dell'annullabilità del negozio giuridico, secondo la disciplina generale di cui al codice civile (art. 1441 c.c., in materia di contratti, applicabile, ex art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale), può essere fatto valere (non, come quello di nullità, da chiunque vi abbia interesse), ma (solo) da colui nel cui interesse sia previsto dalla legge. E non può essere rilevato d'ufficio (a differenza della nullità). Nella disciplina del condominio, ai sensi dell'art. 1137 c.c., le deliberazioni dell'assemblea condominiale possono essere annullate solo dietro richiesta dei condomini assenti o dissenzienti. Secondo le indicazioni delle SS.UU. della Suprema Corte, "l'azione di annullamento delle delibere assembleari costituisce la regola generale, ai sensi dell'art. 1137 c.c., come modificato dall'art. 15 della l. n. 220 del 2012, mentre la categoria della nullità ha un'estensione residuale ed è rinvenibile nelle seguenti ipotesi: mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali, impossibilità dell'oggetto in senso materiale o giuridico - quest'ultima da valutarsi in relazione al "difetto assoluto di attribuzioni" -, contenuto illecito, ossia contrario a "norme imperative" o all'ordine pubblico" o al "buon costume". Pertanto, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell'assemblea previste dall'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c., mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell'esercizio di dette attribuzioni assembleari, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c." (Cass. Sez. Un. n. 9839/2021). Non solo. Secondo le SS.UU. la disposizione dell'art. 1137, secondo comma, c.c., "... descrive il "modello legal-tipico" tramite il quale l'annullabilità della deliberazione assembleare può essere dedotta dinanzi al giudice: tale modello è quello dell'azione di impugnativa, da esercitare mediante la proposizione di apposita domanda giudiziale. Ciò vuoi dire che l'annullabilità della deliberazione assembleare può essere fatta valere in giudizio soltanto attraverso l'esercizio dell'azione di annullamento; tale azione deve estrinsecarsi in una domanda che può essere proposta "in via principale", nell'ambito di autonomo giudizio, oppure "in via riconvenzionale", anche nell'ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sempreché il termine per l'esercizio dell'azione di annullamento non sia perento... 5.2.1. - In primo luogo, occorre chiedersi se l'annullabilità della deliberazione assembleare possa essere fatta valere, oltre che in via di azione, anche in via di eccezione, come è consentito per l'annullabilità relativa ai contratti (art. 1442, ultimo comma, cod. civ.). Per trovare risposta a tale quesito, è necessario muovere dal considerare la ratio della norma di cui all'art. 1137 cod. civ., ratio che va rinvenuta nella esigenza di assicurare certezza e stabilità ai rapporti condominiali, di modo che l'ente condominiale sia in grado di conseguire in concreto la sua istituzionale finalità, che è quella della conservazione e della gestione delle cose comuni nell'interesse della collettività dei partecipanti. Questa ratio legis spiega perché il legislatore, per un verso, ha stabilito che le deliberazioni adottate dall'assemblea "sono obbligatorie per tutti i condomini" (art. 1137, primo comma, cod. civ.), anche per gli assenti e per i dissenzienti, e, per altro verso, ha sancito il principio dell'esecutività delle deliberazioni dell'assemblea... Quanto detto impone di interpretare l'art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel senso che l'annullabilità della deliberazione non può essere dedotta in via di eccezione, ma solo "in via di azione", ossia nella sola forma che consente una pronuncia di annullamento con efficacia nei confronti di tutti i condomini" (Cass. Sez. Un. n. 9839/2021, cit.). Pertanto, parte ricorrente non è certamente legittimata a far valere l'eventuale vizio d'annullabilità da essa invocato, potendolo solo, con domanda giudiziale d'annullamento, uno dei condomini assenti o dissenzienti. D'altra parte, anche "(q)ualora un servizio condominiale (nella specie: portierato) sia previsto nel regolamento di condominio, la sua soppressione comporta una modificazione del regolamento che deve essere approvata dall'assemblea con la maggioranza stabilita dall'art. 1136 comma secondo cod. civ. (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio) richiamato dall'art. 1138 comma terzo" (Cass. n. 3708/1995; conf. Cass. n. 5400/1997 e n. 12481/2002). Condizione nella specie raggiunta. Non si comprende, dunque, quale utilità potrebbe avere acquisire le tabelle di riparto delle spese concernenti la portineria, atteso che ciò che rileva, ai fini dei poteri deliberativi, è il valore proporzionale delle unità immobiliari dei condomini intervenuti in rapporto al valore dell'intero edificio (v. Cass. n. 32569/2023). Per questo, la richiesta istruttoria attrice non è stata accolta. 3.2. Parte ricorrente, nel corso del giudizio, non ha ribadito le difese (peraltro assolutamente generiche) di cui al ricorso, in merito alla (asserita) nullità della delibera condominiale. Nell'atto introduttivo, il riferimento alla frode alla legge riguarda piuttosto il recesso datoriale. Vale comunque, ad escludere l'esistenza della frode, quanto si dirà nel seguito circa la carenza di elementi probatori che consentano di ritenere la delibera de qua conseguenza della situazione familiare del lavoratore e della disabilità del di lui figlio. Altre possibili ragioni di nullità della delibera non sono emerse in corso di giudizio. 4. Venendo all'aspetto della discriminatorietà del licenziamento, deve osservarsi innanzitutto che nelle difese attrici si delinea un'ipotesi di discriminazione diretta, in relazione al fattore di rischio costituito dalla condizione di disabilità (o handicap, che dir si voglia), non del lavoratore, ma di suo figlio (...). Può ritenersi pacifico, tra le parti, che quest'ultimo sia persona disabile, nei termini di cui all'art. 15 st. lav., innanzitutto a causa delle sue affezioni psichiche. Non sembra dubitabile che la tutela a fronte di detto fattore di rischio si estenda alla c.d. "discriminazione associata", che sussiste quando la disabilità riguarda non il lavoratore, ma una persona in stretto rapporto con questi. La tesi trova conferma nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui "... è indubbio... che la discriminazione possa rivolgersi anche verso persone diverse da quella interessata dal fattore di protezione e che essa ciononostante rilevi se finisca per comportare un trattamento sfavorevole quale effetto della situazione differenziale da proteggere: v. Corte di Giustizia 17 luglio 2008, n. 3030, (...) proprio in tema di discriminazione di genitori a causa della disabilità del figlio" (Cass. n. 24206/2020). Dunque, quanto meno astrattamente, l'odierno ricorrente può trovare tutela nella disciplina antidiscriminatoria, a fronte di un trattamento deteriore subito a cagione della disabilità del figlio, convivente presso l'alloggio condominiale in uso. E' ormai comunemente riconosciuto che "(l)a nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della l. n. 604 del 1966, l'art. 15 st. lav. e l'art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere... "; onde la fattispecie si differenzia dall'ipotesi del licenziamento ritorsivo, e "... non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c...." (Cass. n. 6575/2016, secondo cui, inoltre e per le medesime ragioni, "... la natura discriminatoria (non)può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico"). Secondo la S.C., "... affinché si verifichi una "discriminazione diretta", occorre che la condotta antidiscriminatoria abbia dato luogo a un trattamento svantaggioso per una persona: essa si configura quando, sulla base di uno dei motivi vietati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una posizione analoga. (...) Ora, è vero che il profilo soggettivo (dolo o colpa) nell'illecito discriminatorio non rileva, anche per il solo fatto della previsione di una risarcibilità del danno in presenza di una "discriminazione indiretta" - fattispecie ove una disposizione, un criterio, una prassi, di apparente neutralità, creano, in realtà, una discriminazione - cosicché devono ritenersi illeciti discriminatori tutte quelle condotte che, pur se prive delle caratteristiche di rimproverabilità e colpevolezza, siano produttive di una situazione di svantaggio per quei soggetti recanti determinate caratteristiche personali... La questione è quindi quella di verificare cosa occorra per integrare una condotta "oggettivamente discriminatoria". In generale, si riconosce che caratteristica determinante dell'illecito sia quella di creare un effetto di ingiustificata diseguaglianza, in quanto conseguenza immediata, diretta ed esclusiva di una determinata caratteristica della persona, che sia stata ritenuta rilevante dall'ordinamento come "fattore di rischio". A fronte di indizi offerti dall'attore in giudizio in ordine ad un tale trattamento deteriore collegabile ad un suo fattore di rischio, fonte di diseguaglianza, comportamento che si presume discriminatorio, il convenuto dovrà offrire elementi in grado di far acclarare l'insussistenza del fatto presunto a lui contestato, cioè la discriminazione, in quanto la medesima scelta sarebbe stata operata nei confronti di qualsiasi altra persona, che si fosse trovata nella stessa posizione. (...) E' stato evidenziato (cfr. Cass. 23338/2018, Cass. 1/2020), in ambito di controversie di lavoro, che le direttive in materia (quali quelle nn. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongono l'introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull'attore, prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il convenuto di dimostrare l'insussistenza della discriminazione (cfr. Cass. n. 14206 del 2013, in materia di discriminazione di genere; Cass. 255432018, in ambito di discriminazione nel rapporto di lavoro)" (Cass. n. 7415/2022). Il fatto che, "... nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima... (comporta) che, essendo diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere le rispettive azioni, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice che senza una specifica richiesta, ed in mancanza di specifiche allegazioni, pur nell'identità del "petitum", muti la "causa petendi" e qualifichi come diretta la discriminazione indiretta prospettata dalla parte" (Cass. n. 20204/2019). Nella specie, dunque, occorre verificare se il licenziamento de quo abbia dato luogo a discriminazione diretta, in quanto conseguenza immediata e diretta della condizione di disabilità del figlio del lavoratore. Parte ricorrente può beneficiare della menzionata "attenuazione" del proprio onere probatorio, cosicché, ai sensi dell'art. 4 l. 125/1991 e, oggi, dell'art. 28 D.Lgs. 150/2011, "... può limitarsi a fornire elementi di fatto... idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori, spettando in tal caso al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione" (Cass. n. 6575/2016, cit.). A ben vedere, la prospettazione attrice, in punto discriminatorietà del licenziamento, risulta ellittica, quanto meno una volta esclusa la pur dedotta "inesistenza" della delibera condominiale. Infatti, a fronte della decisione dell'assemblea di abolire il servizio di portineria, qualunque lavoratore con mansioni di portiere sarebbe stato licenziato, indipendentemente dal fattore di rischio. Dunque, l'invocata natura discriminatoria della "condotta" del (...) deve ritenersi (implicitamente) riferita, nella tesi attrice, alla decisione stessa di abolire il servizio. Né, peraltro, è stato dedotto dal ricorrente che il CONDOMINIO non intenda, in realtà, abolire la portineria (se non attraverso le difese - come visto infondate - in merito all'inesistenza della delibera dell'assemblea condominiale). Occorre verificare, allora, se gli indizi allegati dal ricorrente a sostegno di detta tesi risultino precisi e concordanti; in caso positivo, se il (...) abbia offerto la prova dell'insussistenza della discriminazione. Secondo i principi generali, perché le presunzioni semplici abbiano valore giuridico, ". è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi, precisi e concordanti, ovvero devono essere tali da lasciar apparire l'esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione tra i fatti accertati e quelli ignoti secondo le regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità, senza che sia consentito al giudice, in mancanza di un fatto noto, fare riferimento ad un fatto presunto e far derivare da questo un'altra presunzione" (Cass. n. 14115/2006). Nella specie, può prescindersi dal requisito della gravità, ma non da quelli della precisione e della concordanza. Mentre "... il requisito della gravità è ravvisabile per il grado di convincimento che ciascun d'essi è idoneo a produrre ed, a tal fine, è necessario che l'esistenza del fatto ignoto sia allegato e dimostrato come dotato di ragionevole certezza, se pure probabilistica; il requisito della precisione impone che i fatti noti, dai quali muove il ragionamento probabilistico, e l'iter logico nel ragionamento stesso seguito non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; in fine, il requisito, unificante, della concordanza richiede che il fatto ignoto sia desunto, salvo l'eccezionale caso d'un singolo elemento di gravità e precisione tali da essere di per sè solo esaustivamente ed incontrovertibilmente significativo, da una pluralità di fatti noti gravi e precisi univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza" (Cass. 19601/2004, ex pluribus). 4.1. Il ricorrente ha dedotto, invero piuttosto genericamente, alcune circostanze, per sostenere la propria tesi. Ha indicato in ricorso, in particolare, che: -il proprio figlio è "motivo di imbarazzo e fastidio per alcuno (dei) condomini"; -"molti condomini... erano infastiditi dal comportamento di (...) che dava spesso in escandescenze, alcuni riferivano di aver paura del ragazzo; altri si lamentavano dell'intervento dell'ambulanza o della polizia quando il ragazzo aggrediva il padre o rompeva mobili e suppellettili in casa, urlando e scagliandosi contro il padre"; -"i problemi famigliari del ricorrente sono sempre stati discussi nelle assemblee condominiali degli ultimi 2-3 anni dove molti condomini e l'amm.re (...) erano decisi a far dimettere il ricorrente o a trovare il modo per licenziare il sig. (...) a causa dei problemi di salute del figlio"; -"nel tempo aumentava il malumore di alcuni condomini tra cui la sig.ra (...) (ora ex condomina); quest'ultima era una tra le persone che cercava(no) di raccogliere i consensi, anche andando porta per porta a bussare ai vicini, perché non voleva che il sig. (...) e il figlio continuassero ad abitare nell'alloggio condominiale a causa delle scenate di rabbia del ragazzo"; -"nel corso dell'anno 2021 o 2022, la sig.ra (...) si era poi litigata con la sig.ra (...), perché quest'ultima aveva votato contro in assemblea nella votazione per il licenziamento del ricorrente"; -"di queste problematiche e doglianze si è fatto portavoce lo stesso Amministratore del Condominio, sig. (...) con lo stesso ricorrente in numerose occasioni, quando si recava nello stabile"; -"nel tempo lo stesso amm.re dott. (...) contattava telefonicamente la Dott.ssa (...) (medico del CSM che aveva in cura (...), presentandosi correttamente come l'amministratore del condominio ove stava lavorando il padre del paziente e chiedendo informazioni sullo stato di salute di (...) (ovviamente la dott.ssa (...) ascoltava senza commentare stante il segreto professionale). In occasione della conversazione telefonica, il dott. (...) riferiva alla dott.ssa (...) che molti condomini erano preoccupati per la condizione di salute del ragazzo, avvezzo a frequenti scatti d'ira, "scenate per strada" e davanti al portone e talvolta era dovuta (intervenire) la polizia"; -"la Dott.ssa (...) riceveva anche altre telefonate, questa volta direttamente da alcuni condomini che si lamentavano con il CSM spiegando che il ragazzo (...) creava problemi, era violento e irascibile, picchiava il padre e rompeva 'tutto' e molti condomini non lo volevano più lì"; -le contestazioni disciplinari di cui è stato destinatario, sono state utilizzate "come spinta ad esasperare il ricorrente per indurlo a dimettersi". Al fine di valutare dette deduzioni in fatto, occorre premettere che sono pacifici i comportamenti cui purtroppo il sig. (...) è indotto dalla malattia, talvolta violenti, in particolare nei confronti dei familiari, ma non solo, che hanno anche richiesto interventi della Forza pubblica e dei sanitari presso l'alloggio condominiale. Nella relazione del D.S.M. Asl 3, datata 31.8.2023 (doc. 11 ric.) si fa riferimento al "discontrollo degli impulsi (che) negli ultimi anni è andato configurandosi con tendenza alla disforia ed a reazioni aggressive circoscritte alle relazione familiari (con il padre, la nonna paterna) e sentimentali". A fronte di ciò, "la terapia prescritta, anche in forma depot, si è sempre dimostrata inefficace". Si accenna anche ad una relazione disfunzionale del paziente con una ragazza, a propria volta seguita dal S.S.M., ai cui comportamenti "manipolativi" il ragazzo "non sapeva opporsi se non in modo aggressivo e disforico". Ancora, vi si legge: "frequenti i diverbi anche per strada con comportamento aggressivo da parte del paziente ed intervento delle Forze dell'Ordine, frequenti le discussioni in casa, con momenti di grave agitazione psicomotoria, rotture di oggetti, discomportamentismi ed urla da parte di (...) che hanno creato disturbo ed insofferenza nei condomini tale da minacciare il licenziamento del padre (che è portinaio) e di conseguenza la perdita sia del lavoro che dell'alloggio. Il paziente, presumibilmente a causa dell'intenzione della curante di ricorrere ad un inserimento in comunità, ha interrotto nel luglio 2021 i rapporti con il servizio in accordo con il padre e per lungo tempo. Recentemente ha ripreso spontaneamente contatto con richiesta di aiuto, ma dopo brevissimo tempo si è rifiutato di venire ai colloqui e ha manifestato una sintomatologia a carattere persecutorio tale da essere ricoverato in ambito psichiatrico all'Osp. (...) e successivamente al (...). Anche dopo la dimissione il paziente si rifiuta di venire in servizio e di assumere qualsiasi terapia, al momento i contatti sono tenuti con la nonna che riferisce sull'andamento del quadro clinico, attualmente stabile". Ancora nell'udienza dell'8.4.2024 il ricorrente ha riferito che il figlio, dalla sera precedente, era ricoverato volontariamente (avendo accettato il ricovero) presso l'Ospedale Villa Scassi, a seguito di atteggiamenti incongrui e potenzialmente pericolosi nei confronti della nonna, per cui era stato necessario l'intervento della Guardia medica, richiesto tramite il 112. Non sembra che l'"attenzione" per i comportamenti del sig. (...), da parte dell'Amministratore e/o dei condomini, si sia concretizzata, nella stessa prospettazione attrice, (a) in fatti storici ben individuati, inoltre (b) interpretabili quali indici d'insofferenza verso padre e figlio e verso la loro presenza nel CONDOMINIO, nonché della volontà di estrometterli attraverso l'eliminazione del servizio, con conseguente licenziamento del portiere. 4.1.1. Sotto il primo aspetto, nessuna circostanza specifica, relativa ai condomini, cioè a coloro che hanno deciso la soppressione della portineria, è stata indicata dal ricorrente, che pure conosce, quanto meno, i condomini che abitano e/o lavorano nello stabile. Fa eccezione il riferimento alla sig.ra (...) della quale si afferma in ricorso che cercava di "raccogliere i consensi" degli alti condomini, su una soluzione (non meglio specificata) che "impedisse che il sig. (...) e il figlio continuassero ad abitare nell'alloggio condominiale a causa delle scenate di rabbia del ragazzo" (soluzione di per sé compatibile con iniziative diverse dall'abolizione del servizio e dal licenziamento del lavoratore). Si aggiunge, nell'atto introduttivo, che nel 2021 o nel 2022 la sig.ra (...) avrebbe litigato con altra condomina, sig.ra (...) "perché quest'ultima aveva votato contro in assemblea nella votazione per il licenziamento del ricorrente". In sede di libero interrogatorio si è cercato, dunque, di approfondire il tema relativo ai comportamenti dei condomini. I chiarimenti ottenuti hanno reso ancor più sfumate le circostanze prospettate nell'atto introduttivo e più labili i collegamenti tra esse e la situazione familiare del ricorrente. Il lavoratore, interpellato in merito, ha riferito infatti: "alcuni condomini mi hanno attaccato, in particolare per le situazioni relative a mio figlio e non solo"; "mi ha attaccato la sig.ra (...) cui non andava bene niente. Ad esempio se la caldaia non funzionava, me ne chiedeva conto e poi non credeva che avessi contattato il manutentore, ma affermava di averlo fatto lei. Per quanto riguarda i comportamenti di mio figlio, la (...) a volte mi diceva di aver sentito un po' di trambusto. Immagino che di tale situazione si lamentasse con l'amministratore e non direttamente con me. Infatti venivo chiamato dall'amministratore. L'amministratore ha ricevuto le lamentele della (...) relative alla caldaia, penso, perché poi me ne ha parlato"; "una volta sig.ra (...) altra condomina, si è lamentata con me perché a suo dire il cucciolo di cane che avevo preso per mio figlio, disturbava, guaendo. L'indomani è passato l'amministratore il quale educatamente mi ha detto che gli avevano riferito che il cane abbaiava. Io gli ho fatto notare che era solo un cucciolo e che se faceva un po' di rumore, ciò avveniva solo di giorno"; "alcuni condomini si sono lamentati per il fatto che il cucciolo si reca spesso dai vicini, passando per il cavedio. Il cane l'ho preso 3 anni fa. I vicini presso i quali si reca ne sono ben contenti e lo fanno giocare con il bambino. Si occupano loro di pulire dagli escrementi la loro parte di cavedio, che è delimitata da sbarre di ferro"; "la (...) mi rinfacciava spesso che io non adempievo correttamente ai miei doveri e che avrei dovuto riavviare la caldaia quando andava in blocco. Io l'ho fatto qualche volta, ma poi mi sono rifiutato perché lo ritenevo pericoloso e non mi ritenevo obbligato a farlo"; "l'amministratore mi ha riferito delle lamentele riguardo la caldaia ma non mi ha mai detto espressamente di occuparmene. È stata poi convocata un'assemblea che credo abbia deciso che non sia di mia competenza". Insomma, non sono emersi, (neppure) in libero interrogatorio, episodi specifici legati al fattore di rischio, ascrivibili a soggetti ben individuati; i fatti narrati sono stati ricollegati dallo stesso attore a motivi di "scontento" spesso diversi. Perfino le "lamentele" della sig.ra (...) concernenti i "comportamenti" del sig. (...), si limitano, nel racconto, ad un riferimento a un po' di "trambusto". A ben vedere, è stato più diretto e incisivo l'Amministratore del (...), che in sede di libero interrogatorio ha riferito che "la sig.ra (...) era consigliera del condominio e si è lamentata con... (lui) in diverse occasioni del ricorrente, principalmente per questioni relative al lavoro di quest'ultimo, ma talvolta anche per gli aspetti familiari". 4.1.2. Quanto fin qui osservato si riflette anche sul secondo aspetto in disamina, in quanto il ragionamento probabilistico (circa il collegamento tra la situazione familiare del ricorrente e la decisione dei condomini di abolire il servizio di portineria) risulta, in conseguenza, piuttosto vago: non emergono episodi di grave ed evidente insofferenza o di particolare timore da parte dei condomini, fermo restando che, alla luce di quanto premesso, qualche preoccupazione (per una situazione di salute e familiare davvero complicata, tale per cui i comportamenti disforici e inadeguati del sig. (...), connessi alla patologia, non si manifestavano neppure nel solo ambito domestico - v. supra), ben può comprendersi, anche da parte dell'Amministratore. Comunque, siccome la decisione di abolire il servizio di portineria non è ascrivibile all'Amministratore, le "preoccupazioni" dello stesso potrebbero al più rilevare quale indizio delle sollecitazioni ricevute dai condomini, fermo restando, però, che il giudice non può basare il proprio convincimento su una praesumptio de paesumpto. Neppure sono stati evidenziati o sono comunque emersi, richieste o tentativi di indurre il lavoratore a rinunciare all'alloggio, ovvero tentativi (infruttuosi) di licenziare il ricorrente a prescindere dall'abolizione del servizio. Si è già osservato, inoltre, come non siano state concretamente e specificamente prospettate la natura fittizia o simulata della delibera in questione e, quindi, l'inesistenza della volontà del (...) di rinunciare effettivamente alla portineria. Nell'accennata relazione del S.S.M. la curante, dopo aver descritto i diverbi, i comportamenti aggressivi, gli episodi di grave agitazione psicomotoria del paziente (...) (...), osserva che essi "hanno creato disturbo ed insofferenza nei condomini tale da minacciare il licenziamento del padre (che è portinaio) e di conseguenza la perdita sia del lavoro che dell'alloggio". Per la verità, al momento della redazione della relazione medica, il ricorrente era già stato licenziato (seppure con preavviso) a seguito della più volte citata delibera condominiale di abolizione del servizio. Nella relazione non si accenna a segnalazioni dirette da parte dei condomini, benché siano di competenza del Servizio (che può all'uopo avvalersi, tra l'altro, della professionalità degli assistenti sociali e degli educatori) le valutazioni in merito all'adeguatezza del contesto ambientale e socio-familiare del paziente e ai connessi pericoli, anche per i terzi. Infatti, "(i)l medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per se stesso" (Cass. pen. n. 43476/2017). Che lo stesso S.S.M. ritenesse inadeguato il contesto di vita del sig. (...) è confermato, seppure indirettamente, dalla proposta (non accettata) d'inserimento in comunità terapeutica, cosicché eventuali "preoccupazioni" manifestate da condomini e Amministratore non sembrerebbero né ingiustificate, né estranee a finalità di tutela del "paziente" e della sua famiglia, oltre che altrui. Se ne deve trarre altresì che le indicazioni del sanitario (finalizzate alla promozione dell'inserimento in comunità) sono derivate da quanto appreso dai familiari del sig. (...) (...) e quindi, nel periodo più recente, dalla nonna. Il paziente, infatti, "d'accordo con il padre", ha interrotto per lungo tempo (a partire dal luglio 2021) i contatti con il S.S.M., che sono ripresi solo di recente e nel cui ambito la sola fonte di aggiornamento dalla parte del paziente risiede nei colloqui con la (anziana) nonna dello stesso (madre dell'odierno ricorrente), evidentemente informata solo per sommi capi della situazione lavorativa del proprio figlio. Del resto, dei litigi e dei comportamenti del sig. (...) nel contesto familiare difficilmente potrebbero avere riferito altre persone. Per altro verso, poiché neppure in sede di libero interrogatorio il ricorrente ha delineato rilevanti condotte dei condomini, indicative d'insofferenza e della volontà di licenziarlo a causa dei problemi del figlio, è ben difficile ipotizzare che egli ne abbia riferito al S.S.M. Ma i timori o i sospetti dei familiari del sig. (...) non possono costituire indizi "precisi". Può avere inciso, altresì, sulle indicazioni della curante, la conversazione con l'Amministratore del (...), probabilmente risalente a qualche anno prima (ne ha riferito l'Amministratore in libero interrogatorio, affermando: "ho contattato il curante presso il SSM del figlio del ricorrente perché ero preoccupato della situazione, che mi sembrava piuttosto complicata. Ero stato informato di un intervento dei sanitari e dei Carabinieri in occasione di un momento di difficoltà del figlio del ricorrente"). Come già accennato, tuttavia, tale iniziativa dell'Amministratore, soggetto non competente a deliberare, non costituisce indizio preciso della volontà dei condomini (rectius di alcuni di essi) di estromettere il ricorrente e il figlio per il tramite dell'abolizione della portineria. Comunque, le circostanze non indicano in modo chiaro che l'attenzione dell'Amministratore ed eventualmente dei condomini, per la situazione del sig. (...) (...), sia stata ispirata da finalità diverse da quelle che avrebbero mosso gli stessi soggetti a fronte di un condomino, un inquilino o un loro familiare, nella medesima condizione. E neppure che vi fosse, al momento della delibera assembleare, un significativo e diffuso livello di preoccupazione, tale da determinare i condomini a scelte "estreme". 4.2. Per quanto riguarda le contestazioni disciplinari, deve osservarsi che concernono formalmente condotte del lavoratore non connesse all'assistenza del figlio e alla situazione di questi, che una è addirittura successiva all'intimazione del licenziamento con preavviso (quando, nell'ottica attrice, il "risultato" voluto da controparte era ormai conseguito, anche se con decorrenza differita) e che ad esse non ha fatto seguito l'irrogazione di alcun tipo di sanzione disciplinare. Non sembra, dunque, che esse possano assumere il necessario valore indiziario e, tanto meno, che siano state utilizzate "come spinta ad esasperare il ricorrente per indurlo a dimettersi". Non per numero e frequenza (si tratta di due contestazioni, l'una a distanza di circa nove mesi dall'altra) e neppure per conseguenze (nessuna ne è derivata, all'esito delle giustificazioni). Certamente, non emerge alcun interesse del ricorrente ad impugnare le dette contestazioni. 4.3. Insomma, gli unici indizi dotati di una qualche precisione, circa il possibile nesso tra la situazione di disabilità del figlio convivente del ricorrente e la decisione condominiale di abolire la portineria (in quanto strumentale all'estromissione del portiere e del figlio dall'alloggio), potrebbero desumersi, al più, dal comportamento della condomina (...) quale riferito dall'Amministratore (farebbe comunque difetto una pluralità di indizi, concordanti). Deve ribadirsi, infatti, che la genericità delle deduzioni attrici non consentirebbe l'utile esperimento della prova testimoniale, il ricorso alla quale, invero, è stato escluso dalla stessa parte ricorrente, che ha ritenuto (al pari del convenuto) la causa sufficientemente istruita in relazione al licenziamento (v. verbali udienze 11.3.2024 e 8.4.2024). Il voto della predetta sig.ra (...) peraltro, non è stato decisivo in sede di adozione della delibera assembleare. Così stando le cose, non può ritenersi che la delibera sia stata conseguenza della condizione di rischio, proprio perché sarebbe stata adottata comunque, anche senza il voto della sig.ra (...) onde non emergono indizi precisi e concordanti dell'adozione di essa a causa della condizione di disabilità del sig. (...). 4.4. Gli elementi dedotti dal convenuto valgono ad indebolire ancor più il descritto quadro indiziario. Il (...), infatti, ha provato che le proposte e delibere in merito all'abolizione della portineria si sono susseguite a partire dal 2005 (mentre l'assunzione dell'odierno ricorrente risale al novembre 2017), senza che la proposta venisse approvata, ciò che è avvenuto solo il 15.2.2023. Insomma, la questione è stata oggetto di valutazione ripetutamente e per lunghi anni, indipendentemente dalla situazione familiare del ricorrente. Limitando l'analisi al periodo più recente, comunque anteriore all'assunzione del ricorrente, sono stati offerti in comunicazione i verbali delle assemblee condominiali del 16.6.2014 (votazione con millesimi 106,334 a favore soppressione); del 3.11.2016 (voti favorevoli alla soppressione 12, millesimi 309,396); del 13.12.2016 (nell'assemblea si è discusso nuovamente del tema, esaminando le contestazioni di un condomino circa il criterio di calcolo delle maggioranze necessarie per deliberare, adottato nella precedente assemblea, con conseguente rinvio di ogni decisione alla successiva assemblea del gennaio 2017); del 16.1.2017 (l'Amministratore vi ha riferito circa il parere legale riguardante il criterio di voto da adottare, onde l'assemblea ha adottato il "sistema capitario": ne sono risultati 9 voti favorevoli alla soppressione, 15 contrari); del 26.6.2017 (l'o.d.g. prevedeva nuovamente la "soppressione del servizio di portierato a modifica dell'attuale regolamento condominiale."; argomento la cui trattazione è stata rinviata all'esito dell'acquisizione di un parerepro veritate sulla natura contrattuale del regolamento condominiale). Parte convenuta ha altresì documentato e fatto constare, quanto alle delibere successive all'assunzione dell'odierno ricorrente, che l'assemblea del 30.6.2022 si è conclusa, ancora, con 15 voti contrari alla soppressione della portineria (442,097 mill.) e 7 favorevoli (169,449 mill.); quella del 15.2.2023, infine, ha approvato l'abolizione, con voto favorevole, per millesimi 633,351, di 19 condomini su 32; tra coloro che hanno votato per l'abolizione solo in tale ultima circostanza, cambiando opinione rispetto alla precedente assemblea, vi è tra l'altro (per delega) il condomino (...) con cui l'altra condomina (...) avrebbe "litigato", secondo parte attrice, perché il primo "aveva votato contro in assemblea nella votazione per il licenziamento del ricorrente". Se ne trae anche - a dimostrazione della non decisività del voto di (...) del 15.2.2023 - che (...) a espresso, peraltro per delega (cosicché neppure era presente e può avere svolto attività di proselitismo, almeno in quella sede), un solo voto, per millesimi 28,111. (...) rappresentata per delega anche nella precedente assemblea. Ancora, il contenzioso comprovato dal convenuto, relativo alla ripartizione delle spese per la portineria (v. doc. 14 conv., sentenza Tribunale di Genova del 2.1.2022, che ha escluso l'esistenza di un regolamento condominiale contrattuale atto a derogare alla disciplina codicistica ex art. 1123 c.c., in materia di riparto delle spese di portineria, fino ad allora effettuato "non proporzionalmente, bensì in misura fissa, e attribuendo una quota doppia per gli immobili adibiti ad ufficio") e atto a stravolgere gli oneri economici a carico dei singoli condomini, valutato unitamente al notorio mutamento delle condizioni socio economiche della zona ove il CONDOMINIO sorge e ai costi del servizio, offre riscontro di plausibili ragioni, alla base della deliberazione assembleare, estranee al fattore di rischio de quo. Tali elementi probatori vengono utilizzati, non per sostenere che il voto per l'abolizione della portineria sia stato determinato anche da ragioni economiche, ma per escludere, quanto meno guardando alla gran parte dei votanti a favore, che vi sia un nesso causale tra il loro voto e il fattore di rischio. 5. Sulla base degli stessi ragionamenti, può confutarsi la tesi, prospettata da parte attrice, della frode alla legge, a fronte di una decisione, in merito alla soppressione della portineria, che non è risultata strumentale e di un licenziamento che è ad essa conseguente. 6. Il ricorrente ha anche affermato che il licenziamento sarebbe "privo di giusta causa o giustificato motivo". L'esistenza di un'eventuale giusta causa non è mai stata invocata da controparte, che ha intimato il licenziamento (doc. 7 ric.) e si è difesa in giudizio, ricollegando il recesso all'abolizione della portineria. Che la soppressione del portierato possa dare luogo a giustificato motivo del licenziamento del portiere, è peraltro comunemente ritenuto in giurisprudenza (cfr. Cass. n. 15934/2020; Cass. n. 88/2002, secondo cui integra soppressione della posizione lavorativa del portiere, la decisione di rinunciare al servizio reso "secondo il modulo del rapporto di lavoro subordinato", pur a fronte della successiva reintroduzione in forme diverse; Cass. n. 14949/2009, secondo cui "il... licenziamento, intimato per intervenuta soppressione del posto di lavoro, è valido in quanto assistito da giustificato motivo oggettivo, la cui validità è contestata dal lavoratore, ma non può essere rimessa in discussione perché non risulta che la citata soppressione del posto non abbia avuto seguito."). Nella specie, come già osservato, non vi sono indici della non effettività della decisione condominiale di abolire il servizio di portineria (indici che conforterebbero, come pure indicato, la tesi attrice della strumentalità della decisione) ed è inoltre pacifico che non sussistano possibilità di "ripescaggio", trattandosi dell'unica posizione lavorativa del (...). Anche tale difesa attrice, pertanto, risulta infondata, a fronte di un licenziamento intimato per (effettivo) g.m.o. 7. Anche le domande relative alle differenze retributive possono essere decise allo stato degli atti e debbono essere respinte. Infatti, il ricorrente, molto sinceramente, ha riferito, in sede di libero interrogatorio: "io la mattina mi sveglio molto presto e quindi attorno alle 7 apro il portone. Si tratta di una mia iniziativa, non mi è mai stato chiesto, ma io mi annoio e non saprei cosa fare". Ne risulta evidente, dunque, che alcun tipo di richiesta in tal senso è mai stata rivolta al ricorrente e, d'altra parte, è ragionevole ritenere che l'Amministratore non avesse neppure contezza di tale circostanza. Ne consegue che alcun compenso per lavoro straordinario (svolto tra le 7 e le 8 del mattino) è dovuto al ricorrente. Tale conclusione, peraltro, deriva altresì dalle previsioni del CCNL pacificamente applicabile al rapporto, che riconosce ai portieri con alloggio il diritto alla retribuzione del solo lavoro straordinario domenicale, festivo e notturno, prevedendo invece, per le prestazioni diurne, il diritto al recupero (v. artt. 43, 45, 48 CCNL 2019, doc. 18 conv., e CCNL 2013, doc. 1 ric.). Del resto, ai sensi dell'art. 16 D.Lgs. n. 66/2003, dipende dalla disciplina di maggior favore stabilita dal singolo CCNL, ogni deroga all'esclusione dall'ambito di applicazione della disciplina della durata settimanale dell'orario di lavoro, delle "occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia elencate nella tabella approvata con regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657, e successive modificazioni ed integrazioni, alle condizioni ivi previste" (tabella che, al n. 3, prevede i "portinai"). E' pertanto consentita l'indicata regolamentazione, da parte del CCNL de quo, del lavoro straordinario diurno (che in assenza delle previsioni contrattuali collettive, non rileverebbe affatto). 7.1. Per quanto attiene alle indennità di apertura e/o chiusura del portone (art. 43.7 del CCNL e rinnovo), esse sono dovute solo se gli orari delle operazioni non coincidono (per disposizione datoriale) con l'inizio e il termine dell'orario di lavoro. Il fatto che l'orario di apertura del portone non coincidesse con quello d'inizio dell'attività lavorativa sarebbe dipeso, secondo la prospettazione del ricorrente (v. libero interrogatorio) - come già osservato - da una sua autonoma iniziativa, senza alcuna imposizione datoriale. Pertanto, l'indennità non può ritenersi dovuta. 7.2. Riguardo alle indennità relative al ritiro di raccomandate e pacchi, trova conferma, nelle produzioni documentali (docc. 1, 2, 3 ric.; docc. 16, 17, 18 conv.), quanto indicato dal convenuto nella propria memoria di costituzione, cioè che fino alla fine del 2019 era prevista dal CCNL vigente unicamente l'indennità per ritiro raccomandate, nella misura di euro 0,63 per condomino, nei condomini ad uso prevalentemente abitativo (uso che può ritenersi pacifico); solo il rinnovo, con decorrenza gennaio 2020, ha introdotto la nuova indennità per il ritiro di raccomandate e pacchi, pari ad euro 1,00 per unità immobiliare, nei condomini ad uso prevalente abitativo, corrisposta al ricorrente a partire dalla busta paga di febbraio 2020, con arretrati del mese precedente (euro 11,84) (v. doc. 6 ric.). 7.3. Infine, non trova alcun riscontro la circostanza, asserita dal ricorrente, peraltro in modo generico, secondo cui il "pagamento" delle varie indennità "nella voce competenze lorde mensili" ha comportato che di esse non si è tenuto conto ai fini del calcolo del TFR e degli istituti retributivi indiretti. Infatti, è agevole ricavare dalle buste paga agli atti (doc. 6 ric.) che la retribuzione utile per il calcolo del TFR, di cui alle stesse, comprende gl'importi di tutte le indennità riconosciute (indicate nell'ambito degli "elementi della retribuzione" o meno; è quest'ultimo il caso dell'indennità di reperibilità); altrettanto si desume dalle buste paga relative alla tredicesima mensilità, quest'ultima quantificata sulla base degli "elementi della retribuzione" e comprendente anche l'"indennità per tredicesima". Ne risulta, altresì, che le indennità sono state corrisposte, per intero, nei periodi di fruizione delle ferie. Il ricorso, pertanto, è totalmente infondato. 8. Le peculiarità della vicenda e la particolare novità della questione, sotto l'aspetto della valutazione della discriminatorietà di una delibera condominiale di abolizione del servizio di portineria con conseguente licenziamento del portiere, rendono equa l'integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite. P.Q.M. Il Giudice, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa deduzione, eccezione e conclusione, respinge il ricorso; compensa integralmente, tra le parti, le spese di lite. Riserva il deposito della motivazione nel termine di giorni 60. Genova, il 12 aprile 2024.
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