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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1013 del 2020, proposto da As. S.p.A. in proprio e nella qualità di mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Di Vi. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe. Ca. e Gr. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fe. Ca. in Roma, via (...); contro Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. St. e Ma. Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Sa. De. in Roma, p.zza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Prima, 24 ottobre 2019, n. 795, n. 795, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cip Sassari Consorzio Industriale Provinciale di Sassari; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società As. S.p.a. chiede la riforma della sentenza del T.a.r. per la Sardegna 24 ottobre 2019, n. 795, che ha respinto il suo ricorso per l'accertamento dell'inadempimento, da parte del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, di un contratto relativo all'esecuzione di lavori, con la conseguente risoluzione dello stesso e la condanna del Consorzio al risarcimento del danno da inadempimento o, in via subordinata, a titolo di responsabilità precontrattuale. 1.1. Come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, il Consorzio (già Consorzio per l'Area di Sviluppo Industriale di Sassari - Porto Torres - Alghero) aveva indetto un appalto concorso per la progettazione e costruzione delle infrastrutture relative alla zona di (omissis). Nella lettera di invito si prevedeva che l'importo dei lavori a "forfait globale chiuso" non potesse superare £ 150.000.000.000 (IVA esclusa) e si specificava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso", per cui "soltanto dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessione edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". 1.2. Con delibera n. 3398 del 22 giugno 1989 era stata adottata l'aggiudicazione provvisoria in favore del raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Di. S.p.a. (odierna As. S.p.a.), specificando espressamente che l'aggiudicazione sarebbe diventata definitiva "solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere", le quali sarebbero state divise in stralci da affidare con successivi contratti, in base ai finanziamenti progressivamente ricevuti. Il che si verificò regolarmente almeno fino alla nota del 2 maggio 2006, prot. n. 1550/5/06, con la quale il Consorzio comunicava al raggruppamento As. la propria volontà di ritirarsi dall'appalto concorso "per contrasto con norme imperative inderogabili e, comunque, per non inidoneità a garantire il corretto perseguimento dell'interesse pubblico attuale". 1.3. Avverso la determinazione del Consorzio, il raggruppamento dapprima si rivolse al giudice ordinario e, successivamente (a seguito della sentenza della Corte di Appello di Cagliari, sezione staccata di Sassari, 26 ottobre 2012, n. 319, che - in riforma della sentenza del tribunale ordinario di Sassari - declino la giurisdizione in favore del giudice amministrativo; e a seguito, anche, della pronuncia della Corte di cassazione, SS.UU. civili, 4 luglio 2017, n. 21199, che ha dichiarato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto da As.) ha radicato il giudizio innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, che ha rigettato integralmente le domande risarcitorie proposte dal R.T.I. As.. 1.4. Il primo giudice - trattenuta la giurisdizione in base alla considerazione che l'oggetto del contendere riguardasse il mancato affidamento al RTI As. dei lavori successivi al quarto stralcio, cioè un profilo relativo alla fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale - ha ritenuto infondate tutte le domande della ricorrente sull'essenziale assunto che la lettera di invito, così come le corrispondenti clausole dei contratti relativi ai primi quattro stralci di lavori, e prima ancora la deliberazione del 22 giugno 1989, n. 338 (in cui si precisava che l'aggiudicazione definitiva sarebbe intervenuta solo con il perfezionarsi dei singoli finanziamenti), erano chiare nel considerare "non immediatamente impegnativo" per il Consorzio, rispetto ai singoli lavori in progetto, l'originario rapporto di appalto concorso; e pertanto - come già osservato - non si è mai perfezionato un rapporto contrattuale per la generalità dei progetti facenti parte dell'appalto concorso. Anche la domanda avente ad oggetto la responsabilità precontrattuale è stata rigettata, sia per la genericità della sua formulazione, sia perché - in ragione della loro qualificazione professionale - non sussisterebbe un affidamento incolpevole delle imprese ricorrenti. 2. La società As., rimasta soccombente, ha proposto appello sostanzialmente reiterando i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Consorzio Provinciale di Sassari, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza in quanto il primo giudice avrebbe errato non solo a non rimettere la questione di giurisdizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sollevando conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a., ma anche ad affermare che la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva amministrativa. Ribadisce che la vicenda non riguarda la fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale, come erroneamente asserito nella sentenza, ma attiene alla fase di esecuzione del contratto posto che la procedura di appalto-concorso indetta dal Consorzio si è conclusa con l'aggiudicazione definitiva della intera progettazione ed esecuzione dei lavori, con la sola condizione che l'esecuzione fosse subordinata alla acquisizione dei finanziamenti. 4.1. Il motivo è infondato. 4.. Come meglio emergerà nel corso dell'esame delle domande risarcitorie, l'appalto concorso indetto con bando dell'8 aprile 1989 e contestuale lettera di invito, si è concluso con la sola aggiudicazione provvisoria, sulla scorta di quanto previsto dalla lex specialis la quale espressamente precisava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso"; soltanto "dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessine edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". La deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), ha correttamente dato atto delle conseguenze derivanti dalle predette norme di gara, dichiarando l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", che "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 4.3. Pertanto la controversia instaurata dalla As. ha per oggetto la fase dell'affidamento di un contratto di appalto di lavori (parte del più ampio progetto di lavori), che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, del codice del processo amministrativo. 5. Con il secondo motivo, l'appellante censura la sentenza anche nella parte in cui ha rigettato la domanda di accertamento dell'inadempimento e della conseguente responsabilità contrattuale del Consorzio industriale e risarcimento del danno, sostenendo la inesistenza di un vincolo contrattuale tra le parti. Reitera gli argomenti con i quali ha sostenuto che dall'aggiudicazione dell'appalto concorso discendeva l'affidamento di tutta l'opera oggetto della gara. In particolare, la procedura indetta ed aggiudicata dal Consorzio riguardava la progettazione e la realizzazione dell'intera opera, ferma restando la circostanza che la fase esecutiva sarebbe proseguita per stralci dopo il recepimento dei necessari finanziamenti. La stessa lettera di invito precisava inoltre che l'aggiudicataria "dovrà consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Dunque, la lettera di invito non indicava solo che l'opera era priva di finanziamento e che si sarebbe proceduto per stralci, ma anche che oggetto dell'affidamento era costituito dalla progettazione e che il progetto presentato dal vincitore sarebbe stato utilizzato dal CONSORZIO "come cosa propria" per ottenere i finanziamenti necessari all'attività esecutiva. 5.1. In tale prospettiva chiede la corresponsione anche dello specifico compenso per il progetto divenuto di proprietà del Consorzio, che non sarebbe stato interamente pagato (pagamento che era previsto in occasione dell'affidamento dei diversi stralci). 5.2. Sotto altro profilo, l'appellante richiama anche l'art. 33 del Capitolato speciale di appalto (sul deferimento alla competenza arbitrale per le controversie che dovessero sorgere fra la Direzione dei Lavori e l'Appaltatore), osservando come il fatto che il Consorzio si sia sempre difeso, tra l'altro, richiamando la competenza arbitrale prevista dal richiamato art. 33 del capitolato speciale di appalto, presuppone il perfezionamento del vinculum iuris e quindi si controverta in materia di diritti soggettivi (art. 12 del Codice del processo amministrativo), posto che il collegio arbitrale non potrebbe essere chiamato a definire controversie che attengono a interessi legittimi. In tal modo il Consorzio avrebbe mostrato di essere consapevole della definitività dell'intero affidamento e, dunque, del vinculum iuris tra le parti. 5.3. Col terzo motivo, in via subordinata l'appellante impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto la domanda di condanna del Consorzio alla stipula del contratto, ai sensi dell'art. 2932 del codice civile, che troverebbe la sua base giuridica nella clausola dei contratti stralcio (articolo 5) successivi alla iniziale aggiudicazione dell'appalto concorso, che contempla l'espresso impegno a completare la realizzazione dei restanti lotti, concretizzando l'obbligo a contrarre in capo alla stazione appaltante, condizionato al mero ottenimento dei finanziamenti regionali. Il Consorzio sarebbe venuto meno anche all'obbligo di esecuzione in buona fede (art. 1375 c.c.), omettendo di chiedere i finanziamenti necessari, il che giustifica la domanda di esecuzione in forma specifica, per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non stipulato. L'appellante, peraltro, precisa che con la sentenza ex art. 2932 il giudice dovrebbe, per un verso, accertare l'esistenza del contratto e, per altro verso, successivamente, dichiararlo risolto per inadempimento imputabile al Consorzio, condannando quest'ultimo al risarcimento dei danni da inadempimento subiti dalla società appellante. In alternativa, il giudice potrebbe limitarsi a disporre direttamente il risarcimento per equivalente, per l'impossibilità della realizzazione dell'opera per fatto e colpa del Consorzio. 5.4. In via ulteriormente subordinata, l'appellante ritiene che il primo giudice abbia errato nel rigettare la domanda per l'accertamento della responsabilità precontrattuale del Consorzio, ai sensi dell'art. 1337 del codice civile, i cui principi di correttezza e di buona fede sarebbero stati palesemente violati dall'amministrazione appaltante. 6. Le diverse questioni sollevate con gli articolati motivi sopra esposti si prestano a una trattazione unitaria, considerato che le conseguenze tratte dall'appellante prendono le mosse dall'unico assunto secondo cui dal bando di gara e dalla lettera di invito, o - anche - dai tre contratti stralcio stipulati, sorgesse il vincolo contrattuale definitivo o quantomeno quel vincolo preliminare idoneo a costituire l'obbligo del Consorzio (coercibile ex art. 2932 c.c.) a concludere il contratto definitivo. 6.1. I motivi sono infondati. 6.2. Quanto alla inesistenza di un rapporto contrattuale discendente direttamente dal bando di gara e dalla lettera di invito all'appalto concorso, è sufficiente richiamare le condivisibili argomentazioni spese dal primo giudice, il quale ha correttamente rilevato come le norme di gara escludevano chiaramente ogni impegno contrattuale dell'amministrazione, se non a seguito della acquisizione dei finanziamenti per l'esecuzione dei lavori dei singoli lotti e della stipula dei relativi contratti di appalto (eventualità che si è puntualmente verificata per i tre stralci affidati al raggruppamento As.). 6.3. Conseguenza che era facilmente evincibile anche dalla piana lettura della deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), che ha dichiarato l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", precisando che detta aggiudicazione "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 6.4. Oltre alle argomentazioni di cui in sentenza, milita a favore della inesistenza di un vincolo contrattuale anche la previsione contenuta nella lettera di invito (su cui si sofferma insistentemente l'appellante) secondo cui l'impresa risultata aggiudicataria avrebbe dovuto "consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Al contrario di quanto sostenuto dall'appellante, appare evidente che una clausola del genere non sarebbe stata necessaria in caso di aggiudicazione definitiva, che implica - nel caso di gara di appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori - l'acquisizione (a titolo di proprietà ) della progettazione, oltre che delle opere realizzate in appalto. Anche nel testo del primo contratto stralcio (testo ripreso anche nei successivi contratti stralcio), stipulato sulla base della delibera del Consorzio n. 4485 del 20 marzo 1992 (ove si precisava che "la realizzazione dei lavori relativi all'intero progetto dovrà essere affidata all'aggiudicataria Associazione Temporanea sopra citata, previa aggiudicazione dei singoli futuri stralci quando verranno ammessi a finanziamento") si ribadisce che l'associazione di imprese è (solo) aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso, essendo l'aggiudicazione definitiva (e quindi il contratto) subordinata "all'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto". 6.5. Si osservi, inoltre, che ogni contratto stralcio stipulato è stato preceduto dalla deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio che, preso atto del finanziamento acquisito, ha disposto l'aggiudicazione definitiva al raggruppamento As.. 6.5. Ne deriva, inoltre, che, per via della suddivisione in stralci successivi, anche gli oneri di progettazione venivano compensati nell'ambito del contratto esecutivo (ciò trova conferma anche nella clausola sopra citata in base alla quale il progetto scaturito dall'appalto concorso non diventa per ciò solo di proprietà del Consorzio ma questo può utilizzarlo - con l'espresso consenso dell'impresa - solo per le domande di finanziamento; pertanto non spetta il compenso per l'attività di progettazione preteso dall'appellante). 6.6. Ne deriva come conseguenza che è infondata la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento imputabile al Consorzio. 7. Anche la domanda di esecuzione in forma specifica è infondata, per le medesime ragioni: ossia per l'assenza di una base giuridica dalla quale desumere un obbligo del Consorzio di addivenire alla stipula del contratto definitivo. Anche il riferimento alla violazione degli obblighi di buona fede nell'esecuzione del contratto appare genericamente dedotto, emergendo dalla documentazione in atti l'attività svolta dal Consorzio per reperire i vari finanziamenti regionali necessari. 8. In tale contesto, va esclusa anche la responsabilità del Consorzio a titolo precontrattuale, non riscontrandosi un affidamento incolpevole tutelabile in capo all'appellante, anche in considerazione della elevata qualificazione professionale delle imprese coinvolte, come già rilevato dal primo giudice. 9. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 10. La disciplina delle spese giudiziali segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del presente grado in favore del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BOLOGNA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del giudice Antonio Costanzo, ha pronunciato, dopo discussione orale ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile n. 7918/2023 R.G. promossa da F_M. ((...)) ((...)); - ATTORE contro GS (..) (..); - CONVENUTA Oggetto: obbligazioni. CONCLUSIONI Per l'attore opponente: "NEL MERITO: - REVOCARE il decreto opposto perché infondato in fatto e diritto per le ragioni esposte in narrativa; - DICHIARARE la non esigibilità del credito ex adverso azionato con il monitorio opposto, in quanto, per i motivi esposti in narrativa, inesistente e pertanto non dovuto; - CONDANNARE la convenuta - opposta al risarcimento del danno ex Art. 96 C.P.C. per il tenuto contegno profondamente lesivo dei principi di buona fede contrattuale che devono animare le parti nonché per l'evidente abuso in mala fede e con colpa grave dello strumento processuale; - Con vittoria di spese e compensi di lite dei quali i difensori si dichiarano distrattari. IN VIA ISTRUTTORIA: Previa remissione della causa in istruttoria, chiede ammettersi prova per testi sui capitoli tutti, nessuno escluso, di cui alla narrativa dell'atto di citazione in opposizione da ritenersi qui integralmente riportati in forma positiva - espunti giudizi e valutazioni -preceduti dalla locuzione "vero che". Chiede, inoltre, chiedersi prova testimoniale sui seguenti capitoli di prova: 1) "vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"; 2) "vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."; 3) "vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n.5 di parte opponente"; 4) "vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro". Si indicano come testi i signori: - B. F., Bologna; - D. Gherardi, Bologna; - F. M., Bologna" Per la convenuta opposta: "Il patrocinio dell'opposta G., facendo seguito alle deduzioni già all'udienza del l'08.5.24 precisa le conclusioni come in memoria di replica istruttoria ex art. 183 c. 6 n. 3 c.p.c. ed in comparsa di costituzione, segnalando che è emersa in sede istruttoria la percezione da parte G. di Euro 3.925,70 - a seguito della vendita forzata dell'abitazione familiare di proprietà di controparte F. nella procedura r.g.e. Trib. Bo. 754/17- che va decurtata dalla sorte indicata nelle conclusioni della comparsa di costituzione di parte G., sorte pretesa che, pertanto, da Euro 40.000 originari è ora pari ad Euro 36.074,30. Peraltro, si segnala che alcuna attività di esecuzione si è compiuta in ragione del decreto ingiuntivo opposto che è immediatamente esecutivo. Inoltre, si evidenzia che proceduralmente ed ai fini dell'accoglimento delle domande di parte opposta Sig.ra G., si ritiene - e si conclude - che il decreto opposto da controparte vada revocato da sentenza che accolga le richieste di parte opposta Sig.ra G. recante solo l'importo di Euro 36.074,30 - invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Si richiamano la conclusioni di cui alla comparsa di risposta: "Per l'ingiungente G. (oggi convenuta) si rassegnano, pertanto, le seguenti conclusioni: - rigettare ogni avversa difesa ed istanza, anche con conferma dell'ingiunzione opposta da controparte, subordinatamente con condanna dell'opponente F. (attore nella presente fase di causa) di corrispondere a parte opposta G. (ingiungente nella monizione per cui è il presente giudizio) Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria); - in ogni caso: con ogni più ampia riserva, vinte le spese di lite e con richiesta di liquidazione dell'attività per gratuito patrocinio nella misura ritenuta di legge dal Giudice in favore dell'Avv. P. M. patrocinatore di parte G., nonché con condanna di controparte per responsabilità aggravata, anche per le affermazioni palesemente contraddittorie e la rilettura degli atti non conforme al contenuto degli stessi con rimessione a giustizia circa la relativa misura". MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Richiamati atti e documenti di causa, noti alle parti; rilevato che l'attore non ha fornito prova scritta a sostegno dell'opposizione; esaminate le conclusioni finali in epigrafe trascritte; si osserva quanto segue. 2. L'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 esecutivo ex art. 642 c.p.c. (emesso, su ricorso depositato il 1 dicembre 2022 che non risulta preceduto la richiesta stragiudiziale, per la somma capitale di euro 40.000,00 oltre accessori) proposta da M. F. con citazione notificata via PEC il 30 maggio 2023 all'ex coniuge S. G. (costituitasi il 27 luglio 2023), va respinta per infondatezza dei motivi dedotti dall'opponente, benché il decreto opposto vada revocato come richiesto, da ultimo, dalla stessa convenuta, avendo essa dato atto, esaurita l'istruttoria, che il debito era inferiore a quello oggetto di ricorso (si richiamano in proposito le conclusioni finali della convenuta). 2.1. La domanda monitoria proposta dall'odierna convenuta si fonda sulla scrittura privata 8 giugno 2020, recante riconoscimento di debito da parte dell'odierno attore e nella quale si legge: "(...) PREMESSO IN FATTO - che nell'ambito della separazione consensuale omologata il 7 luglio 2017 tra i coniugi F. e G. gli stessi pattuivano che: - la figlia della coppia, B., sarebbe stata collocata presso la madre nella casa familiare di X, Via ...4; - il sig. F. avrebbe versato un mantenimento per la figlia di Euro 300 mensili; - Nell'ipotesi di trasferimento a Bologna di moglie e figlia il F., alla data del trasferimento dalla casa coniugale si obbliga a trasferire l'usufrutto a S. G. per una durata non inferiore a 5 anni (clausola 11a verb. Sep), con diritto della Signora G. di locare l'appartamento a terzi (clausola 11c verb. Sep) e, a decorrere dal percepimento dei canoni di locazione il F. avrebbe cessato di corrisponderle l'importo di Euro 300,00 mensili, o a versare la differenza tra il canone percepito e l'importo di Euro 300,00 qualora l'importo del canone percepito fosse stato inferiore (clausola 11c verb. Sep); - in esecuzione dei predetti accordi raggiunti in sede di separazione, F. cedeva gratuitamente e trasferiva a S. G. l'usufrutto vitalizio sulla casa familiare per la durata di anni 8 in data 8 agosto 2017; - successivamente il sig. F. subiva il pignoramento immobiliare n. 754/2017 promosso da Intesa San Paolo Group per mancato pagamento delle rate del mutuo contratto per l'acquisto della casa familiare. Nell'ambito della procedura l'immobile è stato venduto mediante asta giudiziaria ed attualmente è fissata udienza, al 26.6.20, per la precisazione del credito e distribuzione delle somme; - a partire dal 2018 il sig. F., assieme alla figlia B. , si trasferiva nella casa locata dalla nonna paterna, in Via ... , provvedendo dunque lo stesso al mantenimento diretto della figlia, presso di lui collocata; - la signora G., nel mese di novembre/dicembre 2019 sporgeva denuncia ai danni del sig. F. per mancato pagamento dell'assegno di mantenimento della figlia B. e notificava al sig. F. atto di precetto per il pagamento, a titolo di mantenimento, della somma di Euro 10.709,38 che non veniva opposto; - successivamente la signora G. interveniva nel pignoramento immobiliare per la predetta somma privilegiata, oltre che alla somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto. Tutto ciò premesso - il signor F. si impegna a non opporsi alla precisazione del credito della moglie; - il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200; - il sig. F. si impegna a versare alla moglie, entro il giorno 5 di ogni mese sul di lei conto corrente, a partire dal corrente mese di giugno - qualora egli non l'abbia già fatto - la somma di Euro 300 mensili a titolo di mantenimento in favore della stessa sino a che la moglie non avrà reperito una attività lavorativa che le consenta l'autosufficienza; - la signora G. si impegna a ritirare immediatamente la querela presentata ai danni del sig. F., rinunciando sin da ora a costituirsi parte civile in un eventuale procedimento penale nei confronti del marito per le circostanze denunciate". 2.2. Come pacifico in atti e riscontrato dai documenti acquisiti: a) in attuazione dei patti raggiunti in sede di separazione consensuale (verbale 7 giugno 2017) omologata con decreto 7 luglio 2017, con atto redatto dal notaio P. M. data 3 agosto 2017 denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" l'attore aveva costituito in favore della convenuta "a titolo gratuito" l'usufrutto per la durata di (almeno) otto anni sull'immobile in X già adibito a casa familiare ("(...) F. M., in esecuzione dei predetti accordi in sede di separazione, cede e trasferisce a titolo gratuito a G. S. che accetta ed acquista l'usufrutto per la durata di anni 8 (otto) da oggi o se successivo a detto termine fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della figlia minore F. B., della porzione di villetta trifamiliare (...)"): l'immobile era gravato da ipoteca iscritta il 17 novembre 2003 a garanzia di mutuo concesso all'attore da un istituto bancario di originari euro 120.000 (come si legge nell'atto notarile 3 agosto 2017, "F. M. dichiara che sull'immobile in oggetto grava l'ipoteca (...) che la parte acquirente dichiara di tollerare, ben sapendo che, ai sensi e alle condizioni di cui agli artt. 2858 c.c. e seguenti, in caso di mancato pagamento del debito garantito la Banca può promuovere esecuzione forzata sul bene acquistato col presente atto"); b) nel novembre 2017 su iniziativa del creditore ipotecario l'immobile in X già adibito a casa familiare, e sul quale era stato costituito l'usufrutto in favore di S. G., è stato colpito da pignoramento (doc. 9 di parte convenuta): come riportato anche nella scrittura privata 8 giugno 2020, nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. contro M. F. è intervenuta anche l'odierna convenuta sia quale creditrice di somme a titolo di concorso nel mantenimento della figlia (per tale credito al debitore era stato notificato precetto non opposto) sia quale titolare di diritto di usufrutto sull'immobile pignorato (art. 2812 c.c.; v. anche la proposta di piano di riparto 15 giugno 2020 elaborata dall'esperto contabile ausiliario del giudice dell'esecuzione, doc. 6 di parte attrice); c) la prima udienza per l'autorizzazione alla vendita nell'esecuzione immobiliare n. 754/2017 R.G. si è tenuta l'11 marzo 2019; la scrittura privata 8 giugno 2020 è stata sottoscritta dalle parti dopo la vendita forzata dell'immobile pignorato (il decreto di trasferimento era stato il 12 marzo 2020) e prima dell'udienza 26 giugno 2020 fissata per la precisazione dei crediti e la distribuzione del ricavato; con ordinanza 2 luglio 2020 il giudice dell'esecuzione ha dichiarato esaurita l'esecuzione immobiliare e ha ordina il pagamento delle somme come da progetto di distribuzione 15 giugno 2020, progetto che, per quanto qui rileva, prevedeva, una volta soddisfatti i crediti in prededuzione ed il credito assistito da ipoteca, l'attribuzione a S. G. della residua somma di euro 3.925,70 a parziale compensazione della perdita dell'usufrutto il cui valore era stato quantificato nel progetto di distribuzione in euro 72.000,00. Dalla lettura degli atti qui richiamati appare evidente che l'obbligazione assunta dall'attore verso la convenuta con la scrittura privata 8 giugno 2020 era volta a compensare la perdita economica subita da S. F. a seguito dell'estinzione dell'usufrutto costituito in suo favore solo pochi mesi prima del pignoramento (art. 2812, comma 2, c.c.). L'accordo documentato dalla scrittura privata ha natura transattiva in quanto, come si legge nelle premesse del testo, la convenuta era già intervenuta nell'esecuzione immobiliare affermandosi creditrice della "somma di Euro 80.000 pari al valore forfettario del diritto di usufrutto non goduto". Più che eloquente il passaggio in cui si afferma che "il sig. F., con la sottoscrizione della presente, si riconosce debitore nei confronti della moglie della somma di Euro 40.000 a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa patito, da versarsi in rate mensili di Euro 200", mentre l'inadempimento dell'attore ha determinato la decadenza dal beneficio del termine (in tal senso v. il ricorso per decreto ingiuntivo). 3. A sostegno dell'opposizione l'attore deduce la simulazione assoluta dell'accordo di cui alla scrittura privata 8 giugno 2020 perché "attesta un debito totalmente inesistente"; solleva eccezione di inadempimento adombrando una risoluzione per inadempimento della conventa: deduce la nullità dell'accordo sotto vari profili (illiceità della causa; frode alla legge; illiceità del motivo). 4. Così come proposta dall'attore, la prova per testi non può essere accolta, considerati le questioni controverse ed il fondamento della domanda monitoria: il capitolo 1 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. S. nel periodo 2019-2024 ha trovato e/o ricercato una occupazione lavorativa"); il capitolo 2 è generico e inammissibile nella parte in cui contrasta col tenore dell'accordo 8 giugno 2020 ("vero che la sig.ra G. ha richiesto al sig. F. di dichiararsi debitore nei suoi confronti dicendogli che le poteva essere utile far valere dei diritti di credito nei confronti del F. medesimo che era assoggettato all'esecuzione immobiliare Tribunale di Bologna n. 754/2017 Es. Imm."); il cap. 3 è irrilevante e inammissibile nella parte in cui si pone in collegamento col capitolo precedente ("vero che a seguito della richiesta di cui al capitolo che precede, la sig.ra G. predispose la scrittura privata datata 8/6/2020 che le viene rammostrata e che riconosce nel documento n. 5 di parte opponente"); il cap. 4 è generico e irrilevante ("vero che la sig.ra G. dal 2019 a tutt'oggi ha continuamente fatto pressioni nei confronti del sig. F. per ottenere da quest'ultimo somme di denaro"). 5. Non vi è alcuna prova (l'attore non l'ha fornita, art. 1417 c.c.) dell'accordo simulatorio sottostante alla scrittura privata 8 giugno 2020 posta a base del ricorso per decreto ingiuntivo e che, invero, richiama, ponendosi con essi in relazione, i patti conclusi in sede di separazione consensuale, l'atto attuativo 3 agosto 2017, le vicende relative all'esecuzione forzata sull'immobile già adibito a casa familiare. L'eccezione di simulazione assoluta è infondata. Da un lato, manca la prova dell'accordo simulatorio; dall'altro, sono pacifici i fatti posti a fondamento del credito della convenuta (in sintesi, l'estinzione del diritto di usufrutto per effetto dell'espropriazione immobiliare subita dall'attore, art. 2812 c.c.) il cui ammontare è stato definito dalla parti in via transattiva nella misura di euro 40.000,00. 6. L'opponente non ha provato fatti idonei a giustificare la risoluzione dell'accordo consacrato nella scrittura privata 8 giugno 2020: da un lato, non vi è alcun immediato nesso di corrispettività tra l'obbligazione assunta da M. F., previo riconoscimento del proprio debito nella misura di euro 40.000,00 "a titolo di mancato godimento dell'usufrutto e di risarcimento del danno dalla stessa (G., n.d.r.) patito", e l'impegno di S. G. a ritirare la querela presentata (pare a fine 2019) nei confronti dell'allora marito, essendo oltretutto pacifico che l'inadempimento di M. F. rispetto alle obbligazioni verso l'istituto bancario e la espropriazione immobiliare n. 754/17 R.G.E. hanno determinato l'estinzione del diritto di usufrutto, inopponibile al creditore ipotecario (Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. n. 3722), che era stato costituito in favore di S. G. per la durata di otto anni con l'atto pubblico 3 agosto 2017 a ministero notaio P. M. denominato "trasferimento in esecuzione di accordi contenuti nel verbale di separazione consensuale" (in altri termini, in sede di separazione consensuale, come da verbale 7 giugno 2017 omologato il 7 luglio 2017, M. F. aveva assunto una obbligazione attuata con l'atto pubblico 3 agosto 2017 ma di fatto il suo inadempimento verso l'istituto di credito, poi pignorante in forza di credito garantito da ipoteca iscritta nel 2003, ha precluso all'avente diritto S. G. la possibilità di godere dell'immobile in X già casa familiare); dall'altro, è pacifico che S. G., in conformità all'impegno assunto con la scrittura 8 giugno 2020, non si è costituita parte civile nel processo penale contro M. F., processo (n. 5530/20 R.G.N.R. - n. 1662/22 R.G. dibattimento) definito con sentenza di assoluzione sul presupposto che l'inadempimento di obbligazioni civili non integra di per sé gli estremi del reato di cui all'art. 570-bis c.p. (già art. 12-sex/'es, l. n. 898/1970) in relazione all'art. 570 c.p. (la sentenza Trib. Bologna, 27 febbraio - 28 marzo 2023 n. 965 è irrilevante in questa sede, tanto più che l'oggetto della presente causa non riguarda l'omesso versamento dell'assegno dovuto dal padre a titolo di contributo per il mantenimento della figlia come da accordi di separazione), mentre non vi è ragione di contestare all'odierna convenuta l'omessa rimessione di querela (le premesse della scrittura privata 8 giugno 2020 fanno riferimento ad una denuncia, la sentenza penale n. 965/2023 parla sia di querela presentata l'8 gennaio 2020 che di denuncia querela) perché condotta del tutto ininfluente rispetto all'esercizio dell'azione penale quando, come nel caso di specie, si verta in ipotesi di reato procedibile d'ufficio (cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio - 24 febbraio 2020, n. 7277). 7. La questione relativa al contributo al mantenimento della figlia (nata il 7 maggio 2000, dunque ormai maggiorenne al tempo della scrittura 8 giugno 2020) non ha alcuna attinenza con l'obbligazione dedotta in giudizio, sorretta da una causa del tutto autonoma e meritevole di tutela, inerente al mancato godimento da parte della convenuta del diritto che l'attore le aveva riconosciuto in sede di separazione consensuale e volta appunto alla compensazione di quel mancato godimento mediante il pagamento di una somma di denaro (concordato nella misura di euro 40.000,00) di cui M. F. si è dichiarato debitore (v. supra; v. anche il verbale dell'udienza 2 marzo 2023 nel giudizio divorzile 14033/2022 R.G.). 8. Non vi è alcuna nullità dell'accordo sottostante l'impegno assunto da M. F. con la predetta scrittura 8 giugno 2020, accordo che trae origine dall'avventa estinzione del diritto di usufrutto alla costituzione del quale l'attore si era impegnato già in sede di separazione consensuale. 9. In conclusione, l'opposizione, così come proposta dall'attore, è infondata. 10. In comparsa di costituzione la convenuta ha chiesto la conferma del decreto ingiuntivo opposto o in subordine la condanna dell'attore al pagamento della somma di "Euro 40.000 oltre interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione oggi gravata sino al saldo (anche al tasso conseguente alla pendenza di lite giudiziaria)". Nelle conclusioni finali la convenuta ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo e la condanna dell'attore al pagamento di una somma inferiore a quella oggetto di ingiunzione. Nell'esecuzione immobiliare n. 754/17 R.G.E., a seguito della vendita forzata (il decreto di trasferimento è stato emesso il 12 marzo 2020) e dell'approvazione del piano di riparto con ordinanza 7 luglio 2020 del giudice dell'esecuzione, la convenuta aveva ricevuto una somma di denaro (euro 3.925,70) a parziale soddisfacimento del credito da essa vantato in relazione all'estinzione del diritto di usufrutto. Come si legge nelle conclusioni finali, la convenuta chiede la revoca del decreto ingiuntivo con sentenza che condanni l'attore a pagare "solo l'importo di Euro 36.074,30 -invece che Euro 40.000 -, quale elemento di sorte capitale di condanna a carico dell'opponente controparte F. a cui aggiungere tutte le altre voci richieste in sede di comparsa di costituzione dell'opposta G.". Ne conseguono, da un lato, la revoca del decreto ingiuntivo limitatamente ai capi relativi all'ingiunzione di pagare "la somma di Euro 40.000,00" (capo 1) e "gli interessi come da domanda" (capo 2) (nel ricorso era chiesto il pagamento della "somma complessiva di Euro 40.000 oltre agli interessi maturati e maturandi ex lege dall'emissione dell'ingiunzione sino al saldo effettivo"), e non anche la condanna alle spese pronunciata in favore dell'erario (la ricorrente era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato), capo rispetto al quale l'odierna convenuta non ha potere dispositivo; dall'altro, attese le conclusioni finali (che quanto agli accessori richiamano le conclusioni di cui alla comparsa di risposta), la condanna dell'attore al pagamento della somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo. 11. Non vi sono i presupposti per la condanna dell'attore ex art. 96 c.p.c., come invece richiesto dalla convenuta in comparsa di risposta. 12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore dell'erario (artt. 133, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115: "Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato"), in quanto la convenuta è ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato (v., fra le altre, Cass., sez. II, 19 gennaio 2021, n. 777). P.Q.M. Il Tribunale di Bologna in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni diversa domanda, istanza ed eccezione respinta: - rigetta l'opposizione avverso il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858 proposta da F. M. contro G. S.; - revoca il decreto ingiuntivo 7 aprile 2023 n. 1858; - condanna F. M. a pagare a G. S. la somma di euro 36.074,30 oltre interessi legali da calcolarsi ai sensi dell'art. 1284, comma 4, c.c. dal 7 aprile 2023 sino al saldo; - rigetta la domanda di condanna ai sensi dell'art. 96 c.p.c. proposta da G. S. contro F. M.; - liquida le spese processuali a carico di F. M. in euro 3.809,00 per compenso, oltre rimborso forfettario 15%, oltra CPA e IVA come per legge. Bologna, 15 maggio 2024.
N. 28155/22 R.G. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. – Improcedibilità del ricorso FRANCO DE STEFANO Presidente PASQUALINA A.P. CONDELLO Consigliere AUGUSTO TATANGELO Consigliere RAFFAELE ROSSI Consigliere PU. 20/03/2024 Cron. R.G.N. 28155/2022 SALVATORE SAIJA Consigliere - Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso N. 28155/2022 R.G. proposto da: IVAN SIRENA e NADIA MO, elettivamente domiciliati in Roma, Via Bruno Buozzi n. 109, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Mario Militerni, che li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso, domicilio digitale [email protected] - ricorrenti - contro INTRUM ITALY s.p.a., in persona della procuratrice Dora Russo, nella qualità di procuratrice di PENELOPE SPV s.r.l., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Filippo Testa, come da procura in calce al controricorso, domicilio digitale [email protected] - controricorrente – e contro N. 28155/22 R.G. MAGGESE s.r.l., SUGHERIFICIO PIEMONTESE s.r.l. e FALLIMENTO MONDIAL SUGHERO s.r.l. - intimati – avverso la sentenza n. 900/2022 della Corte d’appello di Torino, depositata in data 9.8.2022; udita la relazione sulla causa svolta nella pubblica udienza del 20 marzo 2024 dal consigliere Salvatore Saija; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Anna Maria Soldi, che ha chiesto il rigetto del ricorso; uditi gli avv.ti Antonio Esposito e Lucio Laurita Longo; FATTI DI CAUSA Italfondiario s.p.a., quale procuratore di Intesa San Paolo s.p.a., pignorò beni immobili siti in Canelli di proprietà di Nadia Mo per la quota di 2/3 e di Ivan Sirena per la quota di 1/3, instaurando dinanzi al Tribunale di Asti la procedura esecutiva N. 215/2015 R.G.E., in forza di titolo esecutivo costituito da contratto di mutuo fondiario stipulato con atto notarile del 13.12.2012 tra Sugherificio Sirena s.a.s. di Sirena Ivan & C. e Intesa San Paolo s.p.a.; con detto atto, la Banca erogò la somma di € 200.000,00, a garanzia della cui restituzione Ivan Sirena e Nadia Mo concessero ipoteca sugli immobili ut supra pignorati. Poiché detti beni erano stati già pignorati (procedura esecutiva iscritta al N. 181/2013 R.G.E.), le procedure esecutive vennero riunite; spiegarono intervento la Cassa di Risparmio di Asti s.p.a. (sulla base di n. 3 decreti ingiuntivi), nonché Sugherificio Piemontese s.r.l. e Mondial Sughero s.r.l. In seguito, la procedura più risalente venne dichiarata estinta e l’esecuzione proseguì nel resto. Nadia Mo e Ivan Sirena proposero distinte opposizioni all’esecuzione ex art. 615, comma N. 28155/22 R.G. 2, c.p.c., successivamente riunite, entrambi eccependo: a) la nullità delle clausole determinative degli interessi corrispettivi per contrarietà al divieto di anatocismo, ormai di portata generale in conseguenza delle modifiche apportate all’art. 120 TUB dalla legge n. 157/2013; b) la nullità delle clausole determinative del tasso degli interessi corrispettivi per contrarietà al divieto di usura dettato dall’art. 644 c.p. e dall’art. 2 della legge 108 del 1996; c) la nullità delle clausole di cui agli articoli del contratto di mutuo indicati nell’articolo 1 del medesimo contratto perché non specificamente sottoscritte dal cliente e di conseguenza la nullità dell’intero contratto. La sola Nadia Mo, inoltre, invocò la propria qualità di consumatore ed eccepì la nullità delle clausole determinative del tasso degli interessi moratori in misura manifestamente eccessiva, e quindi da ritenersi abusive ai sensi dell’art. 33 del Codice del consumo. Gli opponenti, infine, eccepirono che Nadia Mo era titolare di diritto di abitazione ai sensi dell’art. 540, comma 2, c.c., sull’immobile censito nel catasto fabbricati del Comune di Canelli al f. 14 par. 306 sub. 3, Viale Risorgimento piano primo, nonché del diritto di uso sui mobili che lo corredavano, deducendo l’opponibilità di tale diritto ai creditori in ragione della trascrizione della sua accettazione nei RR.II. in data 26.10.2015 (dopo la trascrizione del pignoramento) e della precedente registrazione della denuncia di successione nel 2008. Il Tribunale di Asti – nel contraddittorio con Italfondiario s.p.a. (in qualità di procuratore prima di Intesa Sanpaolo s.p.a. e poi di Penelope SPV s.r.l., a sua volta cessionaria di quest’ultima), Cassa Risparmio di Asti s.p.a., nonché con Prelios Credit Servicing s.p.a. (quale procuratore di Maggese s.r.l., a sua volta cessionaria di Cassa di Risparmio di Asti s.p.a.) - con sentenza n. 343/2020 del N. 28155/22 R.G. 23.6.2020 rigettò le opposizioni, condannando gli opponenti alla rifusione delle spese processuali. Ivan Sirena e Nadia Mo proposero appello avverso detta decisione. Costituitesi, resistendo al gravame, Penelope SPV s.r.l. (tramite il procuratore Intrum Italy s.p.a.), Maggese s.r.l. (e per essa Prelios Credit Servicing s.p.a., rappresentata da Prelios Credit Solutions s.p.a.), la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 9.8.2022, rigettò l’appello. Osservò la Corte sabauda: 1) che l’intervento spiegato dalla Cassa di Risparmio di Asti era fondato su tre decreti ingiuntivi regolarmente notificati e che comunque non era possibile dedurre, nel giudizio di merito dell’opposizione esecutiva, motivi non proposti col ricorso originario; 2) che il contratto di mutuo azionato da Banca Intesa non conteneva pattuizioni usurarie, neanche in relazione al tasso di mora, e che ai fini della verifica non era utilizzabile la commissione di estinzione anticipata; 3) che del pari il contratto non recava clausole in contrasto col divieto di anatocismo, anche perché non era applicabile ratione temporis l’art. 120 TUB, come modificato dalla lelle n. 147/2013; 4) che non occorreva la duplice sottoscrizione delle clausole che si assumevano vessatorie, ex art. 1341 c.c., perché il mutuo era stato stipulato con atto notarile e che Nadia Mo non poteva considerarsi consumatore; infine 5) che Nadia Mo, ai fini dell’invocato diritto di abitazione, non aveva dimostrato in quale tra gli immobili pignorati ricadesse l’abitazione coniugale e che comunque ella risultava proprietaria degli immobili per 2/3, acquisiti in parte in successione ereditaria del marito Mario Sirena, ma in parte per acquisto fattone dal figlio Pietro, con conseguente estinzione del diritto invocato. N. 28155/22 R.G. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Ivan Sirena e Nadia Mo, sulla scorta di cinque motivi, cui resiste con controricorso Intrum Italy s.p.a., quale procuratrice di Penelope SPV s.r.l. Le parti hanno depositato memoria. I restanti intimati non hanno resistito. Il P.G. ha depositato requisitoria scritta, chiedendo il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.1 - Non mette conto illustrare i motivi del ricorso, giacché esso è improcedibile ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., non risultando agli atti la copia notificata della sentenza impugnata, pubblicata il 9.8.2022, che i ricorrenti affermano essere stata loro notificata in data 23.9.2022. La difesa dei ricorrenti ha infatti depositato soltanto una copia della sentenza impugnata, estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme all’originale contenuto nello stesso, ma non corredata da alcuna dimostrazione di avvenuta notifica nei loro confronti. Più in dettaglio, per quanto la copia della relata della notifica della sentenza a mezzo PEC sia stata indicata in calce al ricorso come allegato “a)”, dalla correlativa cartella depositata telematicamente dai ricorrenti, e segnatamente dalla sottocartella denominata “doc. a) Copia della notifica a mezzo pec della sentenza impugnata” non è affatto possibile estrapolare nessuna copia notifica della sentenza, o quantomeno la sua relata, la cartella stessa contenendo esclusivamente file relativi alla notifica del ricorso che occupa, o alla procura speciale. Né, del resto, la documentazione occorrente è rinvenibile aliunde nella stessa produzione dei ricorrenti, fermo restando che non può certo attribuirsi alla Corte il compito di ricercare documenti necessari ai fini della decisione del N. 28155/22 R.G. ricorso, ove gli stessi dovessero essere versati in atti alla rinfusa, anziché esattamente corrispondere all’indice contenuto nel ricorso medesimo, o alla stessa denominazione delle cartelle del fascicolo informatico. 1.2 – Ciò posto, sul punto in discussione deve ribadirsi la oramai costante giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio e alla quale si intende dare continuità (di recente, ribadendo consolidati approdi ermeneutici, Cass. n. 15832/2021), che, riguardo alla produzione della copia notificata della sentenza e più in generale di decorrenza dei termini di impugnazione, afferma: “In tema di notificazione del provvedimento impugnato ad opera della parte, ai fini dell’adempimento del dovere di controllare la tempestività dell’impugnazione in sede di giudizio di legittimità, assumono rilievo le allegazioni delle parti, nel senso che, ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza impugnata gli è stata notificata, si deve ritenere che il diritto di impugnazione sia stato esercitato entro il c.d. termine "lungo" di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza, mentre, nella contraria ipotesi in cui l’impugnante abbia allegato espressamente o implicitamente che la sentenza contro cui ricorre gli sia stata notificata ai fini del decorso del termine breve di impugnazione (nonché nell’ipotesi in cui tale circostanza sia stata eccepita dal controricorrente o sia emersa dal diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio), deve ritenersi operante il termine di cui all’art. 325 c.p.c., sorgendo a carico del ricorrente l’onere di depositare, unitamente al ricorso o nei modi di cui all’art. 372, comma 2, c.p.c., la copia autentica della sentenza impugnata, munita della relata di notificazione, entro il termine previsto dall’art. 369, comma 1, c.p.c., la cui mancata osservanza comporta l’improcedibilità del N. 28155/22 R.G. ricorso, escluso il caso in cui la notificazione del ricorso risulti effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato e salva l’ipotesi in cui la relazione di notificazione risulti prodotta dal controricorrente o presente nel fascicolo d’ufficio”. Tale conclusione è ribadita, con alcune precisazioni, i cui presupposti fattuali di applicazione peraltro non ricorrono nella specie, anche dalla più recente giurisprudenza nomofilattica (Cass., Sez. Un., n. 21349/2022). 1.3 - Nella specie, peraltro, il ricorso di Ivan Sirena e Nadia Mo risulta essere stato notificato il 21.11.2022 e quindi ben oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza della Corte d’appello di Torino, avvenuta in data 9.8.2022, così neppure operando l’eccezione all’obbligo di deposito della sentenza (e della relata, se la prima è stata notificata) individuata fin da Cass. n. 17066/2013; né una copia notificata della sentenza stessa, ritualmente formata, risulta comunque dagli atti di causa legittimamente esaminabili da questa Corte. 2.1 - In definitiva, il ricorso è improcedibile, restando conseguentemente esclusa la possibilità, per la Corte, di pronunciare nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., sulle pur rilevanti questioni nomofilattiche poste dal ricorso, tanto essendo possibile fare solo in caso di inammissibilità o infondatezza del ricorso stesso. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza nei rapporti tra i ricorrenti e Intrum Italy s.p.a. n.q., mentre nulla va disposto nei rapporti con gli altri intimati, che non hanno svolto difese. N. 28155/22 R.G. In relazione alla data di proposizione del ricorso (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228). P.Q.M. la Corte dichiara il ricorso improcedibile e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente n.q., che liquida in € 8.500,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno 20.3.2024. Il Consigliere est. Salvatore Saija Il Presidente Franco De Stefano
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7197 del 2017, proposto da Je. Du. e Do. Du., rappresentati e difesi dagli avvocati Ar. Po., Ug. Fr. e La. El. Pr., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ar. Po. in Roma, viale (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 283/2017. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e udito per le parti l'avvocato Ar. Po., anche per delega dell'avvocato Ug. Fr.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Gli appellanti sono proprietari di un appartamento presente all'interno del complesso residenziale e turistico denominato "Sa. Gi.", posto nel territorio comunale di (omissis). Il suddetto complesso è composto da diversi appartamenti terra-tetto, la metà dei quali con destinazione residenziale e l'altra metà turistico-ricettiva. L'appartamento di proprietà dei ricorrenti ricade nell'area turistico-ricettiva del complesso. 2 - Con comunicazione di avvio del procedimento n. 6022 del 20.11.2014, il Comune di (omissis) ha contestato di aver illegittimamente modificato la destinazione d'uso dell'unità abitativa di cui sono proprietari gli appellanti "da turistico alberghiera in residenziale, in violazione della disciplina urbanistica di zona e della convenzione urbanistica che ha regolato l'edificazione del comparto". In data 31.3.2015 il Comune ha concluso il procedimento, ritenendo sussistenti i presupposti per la violazione dell'art. 30 DPR 380/2001 e con provvedimento prot. n. 1560/2015 ha ordinato "di non utilizzare le unità immobiliari ad uso residenziale esclusivo, facendo obbligo agli stessi di garantirne l'uso turistico-alberghiero con affidamento a soggetto gestore e pertanto di garantire il rispetto della convenzione urbanistica 25 maggio 1993 e dello strumento regolatore vigente", avvertendo che "decorsi 90 giorni dalla notifica", "qualora non maturino le condizioni per la revoca del presente provvedimento, si procederà alla acquisizione al patrimonio disponibile del Comune". 3 - Gli appellanti hanno impugnato tale provvedimento avanti il Tar per la Lombardia, sezione di Brescia, che con la sentenza indicata in epigrafe ha respinto il ricorso. 4 - Gli originari ricorrenti hanno proposto appello avverso tale pronuncia per i motivi di seguito esaminati. 4.1 - Con il primo motivo gli appellanti censurano la sentenza nella parte in cui ha rigettato il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso. Per l'appellante, il Tar avrebbe erroneamente negato che la Convenzione del 1993, posta a fondamento del provvedimento impugnato e l'ivi previsto vincolo alberghiero a RTA, siano ad oggi inefficaci e decaduti. Per gli appellanti il Tar, nel richiamare la disciplina del Piano di Governo del Territorio, oltre a contraddirsi in punto di motivazione, avrebbe integrato la motivazione dell'ordinanza di confisca, la quale si fonderebbe esclusivamente sul contenuto della Convenzione e non sulle norme del PGT. Gli appellanti sostengono che la Convenzione sarebbe decaduta, in quanto questa prevedeva un termine di validità di 5 anni decorrente dalla stipula dell'atto (cfr. art. 13 Convenzione) avvenuta nel 1993. Tale termine sarebbe spirato nel 25.05.1998. Da tale data sarebbe iniziato a decorrere il termine di 10 anni entro il quale l'Amministrazione avrebbe potuto esigere l'adempimento degli obblighi e delle prescrizioni contenute nella Convenzione. Tale termine sarebbe spirato il 25.05.2008. Inoltre, la Convenzione del 1993 non potrebbe più ritenersi valida anche perché con essa è stato costituito un vincolo di destinazione turistico-alberghiera ai sensi della L. 217/1983. La richiamata normativa è stata abrogata dalla successiva L. 135/2001 e non potrebbe essere presa a presupposto per procedimenti e atti adottati dopo la sua abrogazione. Gli appellanti invocano anche l'art. 23 ter del d.P.R. n. 380/2001, introdotto dal d.l. n. 133/2014, in forza del quale nessuna norma urbanistica potrebbe confermare la sub-destinazione a RTA, ma solo una macro destinazione turistico ricettiva. 5 - La censura è infondata. Nel 1993 veniva definitivamente approvato il piano attuativo relativo al comparto sito in (omissis) ed azzonato come D4, meglio individuato come P.L. n. 25, in località (omissis). Nella zona in esame era ammessa, previa approvazione di piano esecutivo, la realizzazione di strutture per complessivi 20.000 mc. a volumetria definita, dei quali il 65% con destinazione alberghiera, il 30% con destinazione residenziale ed il 5% con destinazione commerciale. In esecuzione dei provvedimenti approvativi del piano attuativo veniva stipulata Convenzione urbanistica 25 maggio 1993 n. 44363 (rep. notaio Pa.) tra il Comune di (omissis) ed i lottizzanti Soc. An. To. Li. Im. & Tu. s.r.l., Soc. Tu. del Ga. s.r.l., Gi. On. e Al. Pa.. L'art. 12/a della convenzione urbanistica contemplava un vincolo di destinazione sugli edifici con destinazione alberghiera ed in particolare statuiva che "i lottizzanti si impegnano a mantenere a destinazione turistico- alberghiera gli immobili edificandi nel comparto ed evidenziati con la simbologia "X" (contornata in rosso) nella planimetria 1-A allegata alla presente convenzione sub "F", debitamente controfirmata dalle parti" e statuiva altresì che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale". In esecuzione della Convenzione urbanistica veniva rilasciata concessione edilizia, avente ad oggetto l'edificazione di "albergo residenziale", e veniva rilasciata la licenza di pubblico esercizio con classificazione "categoria 4 stelle" alla Immobiliare Sa. Gi. s.r.l., relativa ad "albergo residenziale di 97 unità abitative". Negli anni sono stati perfezionati svariati atti traslativi della proprietà con intestazione a vari soggetti di unità immobiliari all'interno delle strutture, aventi destinazione di residenza turistica alberghiera. Tutti gli atti traslativi hanno sempre contemplato il richiamo alla convenzione urbanistica di cui all'atto 25.05.93 n. 44363 rep. notaio Pa., rendendo pertanto edotti i singoli acquirenti della esistenza del vincolo di destinazione turistico-alberghiera. Anzi, gli atti traslativi richiamavano il "Regolamento del Villaggio Turistico", qualificando la struttura come "Albergo residenziale", con ogni onere connesso alla specifica destinazione della struttura. I predetti atti traslativi hanno dunque sistematicamente individuato le unità immobiliari oggetto di compravendita quali unità "facenti parte del complesso denominato Vi. Tu. Al. Re. Sa. Gi.", con contestuale indicazione anche dell'obbligo di rispettare l'annesso Regolamento del Vi. Tu. Al. Re. Sa. Gi., che ribadiva la natura dell'immobile quale residenza turistico-alberghiera. L'art. 27 del Regolamento precisava che "il condominio S. Gi. nasce come albergo residenziale e come tale è strutturato per la locazione degli appartamenti. I proprietari che volessero utilizzare tale servizio dovranno concordarne di volta in volta il costo con la società di gestione". 5.1 - Riassumendo, è stato pacificamente dimostrato che: a) l'edificazione del complesso Sa. Gi. venne autorizzato nel 1993 solo ed in quanto veniva edificata una struttura destinata come RTA (residenza turistica alberghiera) con un indice edificatorio assai superiore rispetto a quello previsto per l'edificazione ad uso residenziale; b) la convenzione urbanistica del 1993, collegata al piano di lottizzazione, richiamava la disciplina propria delle RTA, imponeva tale destinazione e faceva obbligo ai lottizzanti (e ai loro aventi causa) di destinare le strutture a quello scopo; c) la concessione edilizia rilasciata nel 1994 confermava tale destinazione funzionale; d) tutti gli atti di acquisto (originari o successivi delle unità immobiliari) confermavano la destinazione turistico ricettiva delle unità immobiliari e richiamavano il contenuto della convenzione urbanistica e della concessione edilizia. Ne deriva che la modifica della destinazione da alberghiera in residenziale deve ritenersi illegittima. 5.2 - Avuto riguardo alle censure svolte dall'appellante va infatti precisato che la destinazione turistica ricettiva è categoria funzionale del tutto diversa ed autonoma rispetto alla destinazione residenziale. La giurisprudenza ha precisato che "la possibilità di vincolare in tal modo la destinazione d'uso di un immobile emerge anche dall'art 23 ter n. 1-bis del D.P.R. 380/01, che prevede la destinazione la turistico-ricettiva distinguendola da quella residenziale, così disciplinandola quale destinazione urbanistica avente funzionalità differente da quella residenziale" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 agosto 2022, n. 6824). 6 - Il giudizio di illeceità della modifica di destinazione d'uso non risulta incrinato dalle doglianze degli appellanti. In primo luogo, deve precisarsi come sia del tutto inconferente l'argomento facente leva sull'abrogazione della legge n. 217/1983 in tema di vincolo alberghiero, essendo pacifico che la licenza edilizia era stata rilasciata per un determinato uso dell'immobile. Per altro, la destinazione dell'area a tale uso (turistico) risulta conforme agli strumenti urbanistici vigenti. È il loro utilizzo residenziale, piuttosto che turistico, a porsi in contrasto con il titolo autorizzatorio, in forza del quale è stato realizzato l'immobile, nonché con l'attuale disciplina dell'area. 6.1 - Non appare condivisibile neppure il rilievo facente leva sulla supposta scadenza della convenzione di lottizzazione in forza della quale sono stati realizzati gli immobili. Invero, nel caso in esame, non viene in rilievo alcun obbligo soggetto ad un termine di adempimento, bensì la destinazione impressa all'area, la quale resta attuale e vigente sino alla sua modifica da parte di un nuovo strumento urbanistico che la regoli diversamente. In giurisprudenza si afferma che "il piano particolareggiato (a voler ritenere ascrivibile a tale genus anche il Piano di lottizzazione) diventa sì inefficace decorso il termine di dieci anni, ma rimane fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (art. 17 l. n. 1150 del 1942). La disposizione esprime il principio secondo cui la maglia pianificatoria delineata dal Piano...rimane comunque efficace sino all'adozione di un diverso strumento urbanistico attuativo, quand'anche il piano che la prevede non possa più trovare attuazione per decorso del tempo. In altra prospettiva, la scadenza decennale di un piano riguarda le sole previsioni vincolistiche, ferma restando l'efficacia delle previsioni propriamente pianificatorie" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 aprile 2021, n. 3257). In conformità ai principi innanzi ricordati, nello specifico, la convenzione urbanistica prevedeva che "Una diversa utilizzazione degli immobili citati non può essere realizzata se non nei casi previsti dalla legge e sempre che lo consenta il P.R.G. Ciò in quanto la destinazione alberghiera deve intendersi strettamente correlata a quanto prescrive il Piano Regolatore Generale" (art. 12/a). 6.2 - Alla luce della disamina delle vicende che hanno interessato l'immobile, appare del tutto condivisibile anche la considerazione del Tar per cui la presenza del vincolo di destinazione era conosciuta, o poteva essere conosciuta utilizzando l'ordinaria diligenza, anche dagli aventi causa dei costruttori, che risultano aver sempre rispettato l'obbligo di richiamare gli effetti della convenzione in ogni atto di vendita. 6.3 - Non rileva, poi, che il mutamento della destinazione d'uso sia stato realizzato con o senza l'esecuzione di opere. Sul punto, come più volte statuito in giurisprudenza, va ricordato che "il mutamento della destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, ove realizzato senza permesso di costruire, è sanzionabile con la misura ripristinatoria. (Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). La circostanza che la modifica non abbia comportato la realizzazione di opere edilizie è dunque irrilevante, in quanto l'art. 23 ter D.P.R. 380/01 definisce come mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale (Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2021, n. 1857). Ai sensi dell'art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, inoltre, il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, costituisce una variazione essenziale rispetto al titolo edilizio" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6823). 7 - Con il secondo motivo gli appellanti censurano la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il primo motivo di ricorso con cui avevano lamentato la violazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001. Per gli appellanti la sentenza sarebbe viziata, poiché il Tar non avrebbe preso in considerazione che il provvedimento impugnato è stato notificato solo agli appellanti e non a tutti i condomini del complesso immobiliare. L'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 sanzionerebbe la trasformazione del territorio e non il singolo abuso edilizio, pertanto, la lottizzazione abusiva non potrebbe essere fatta valere solo per alcuni e non per tutti i condomini del complesso edilizio. I soggetti non sanzionati sarebbero quelli che avrebbero, dopo l'avvio del procedimento, "confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a destinazione turistico-alberghiera conferendone la gestione a soggetto qualificato". Sul punto, gli appellanti sostengono che se l'Amministrazione comunale ritiene che la legittima destinazione urbanistica del complesso Sa. Gi. sia quella di RTA, a gestione unitaria, non apparrebbe legittima la contestazione mossa nei confronti di alcuni soltanto dei proprietari delle unità comprese nel piano la lottizzazione abusiva. Sotto altro profilo, gli appellanti evidenziano che il Giudice di prime cure non avrebbe tenuto conto della disciplina legislativa (regionale e statale) in punto di variazioni essenziali rilevanti ai fini della lottizzazione abusiva, per cui nel caso di specie il Comune avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria. Per gli appellanti, posto che, nel caso di specie, non sarebbe stata realizzata alcuna opera e l'abuso consisterebbe nel mutamento di destinazione d'uso, la sanzione non poteva consistere nella confisca degli immobili ma, al più, avrebbe dovuto essere irrogata una sanzione di natura pecuniaria. 7.1 - Con il terzo motivo gli appellanti lamentano l'erroneità della pronuncia gravata per omessa pronuncia sul secondo motivo di impugnazione del ricorso di primo grado con cui avevano lamentato la carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Al riguardo, parte appellane deduce che il provvedimento impugnato sarebbe stato genericamente motivato sul solo rilievo che la destinazione del complesso immobiliare Sa. Gi. sarebbe stata abusivamente mutata da turistico-alberghiera a residenziale, senza svolgere alcun ulteriore approfondimento istruttorio. Per l'effetto, il Comune avrebbe sanzionato con la confisca anche soggetti che, vista l'impossibilità di utilizzare gli immobili come RTA, li avevano chiusi per anni. 8 - Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, devono trovare accoglimento nei termini di seguito esposti. L'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che: "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio". La norma disciplina due diverse ipotesi di lottizzazione abusiva. Ricorre la lottizzazione abusiva cd. "materiale" con la realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione. Si ha invece lottizzazione abusiva "formale" o "cartolare" quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne sono già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita - o altri atti equiparati - del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l'ubicazione e la previsione di opere urbanistiche, o per altri elementi, evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio. L'interesse protetto dalla norma è quello di garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell'amministrazione. Avuto riguardo al caso di specie, si osserva che la giurisprudenza ha ritenuto che configura il reato di lottizzazione abusiva anche la modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il frazionamento di un complesso immobiliare, di modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione (cfr. Corte Cass. n. 38799 del 16/9/2015). 8.1 - Tenuto conto della specificità del presente giudizio deve anche precisarsi che ciò che qualifica la lottizzazione abusiva è la trasformazione complessiva di un determinato lotto in violazione della destinazione a suo tempo impressa dall'amministrazione; invero, l'art. 30 cit. sanziona la trasformazione globale di un'area e non il singolo intervento edilizio, differenziandosi dagli artt. 31 e ss. che riguardano, invece, l'abuso relativo alla singola opera abusiva; ne deriva che la lottizzazione abusiva dovrebbe ragionevolmente essere contestata a tutti i proprietari dell'area interessata dall'illegittima trasformazione e non solo ad alcuni di essi, proprio perché ciò che viene in rilievo è l'illegittima destinazione impressa all'intera area - o, nel caso di specie, all'intera struttura originariamente destinata ad albergo residenziale - in spregio agli strumenti urbanistici. Alla luce di tale precisazione emerge una prima criticità del provvedimento impugnato nel momento in cui vi si prospetta, per la medesima struttura di cui si contesta la modifica dell'originaria destinazione d'uso, una violazione diretta solo a taluni proprietari e non ad altri, pur titolari di unità abitative facenti parte dell'originaria struttura turistica. Al riguardo, non appare convincente il rilievo del Comune volto a differenziare la posizione di coloro che avrebbero "confermato la volontà di destinare le proprie unità immobiliari a destinazione turistico-alberghiera conferendone la gestione a soggetto qualificato". Invero, tale discrimine, che tra l'altro non oblitera l'originaria violazione posta in essere da coloro che hanno fruito delle unità immobiliare a scopo abitativo in violazione della disciplina dell'area, non appare idoneo a giustificare l'evidenziata anomalia. La contestazione, diretta solo ad alcuni proprietari, si rivela invece contraddittoria, riflettendosi, per l'effetto, sulla tenuta dei presupposti del provvedimento, che avrebbe dovuto interessare - nel momento in cui si accerta la violazione di cui all'art. 30 cit., da ritenersi riferita alla struttura globalmente intesa, e non un singolo abuso relativo a ciascuna unità abitativa - tutti i soggetti proprietari delle unità immobiliari del complesso turistico nelle medesime condizioni degli appellanti. 8.2 - Oltre all'aspetto che precede, anche la considerazione globale dei fatti che caratterizzano la fattispecie in esame e di seguito illustrati portano ad incrinare in modo decisivo la prospettazione comunale facente leva sull'art. 30 cit, ferma l'eventuale integrazione di singole violazioni alla stregua degli art. 31 e ss. del TU Edilizia. In particolare, deve essere posto in evidenza che la stessa amministrazione negli anni 2000, 2005 e 2010 ha rilasciato ai soggetti gestori dell'albergo licenze alberghiere incompatibili con la gestione unitaria a RTA di tutto il complesso, segnatamente per otto camere doppie, sedici suites e diciotto appartamenti, a fronte di una pretesa destinazione alberghiera che avrebbe dovuto coinvolgere la totalità delle novantasette unità (vedasi al riguardo anche la relazione comunale da ultimo depositata in giudizio, che conferma tale circostanza e dove si dà atto del fatto che le licenze sono state "rimodulate" dalla medesima Amministrazione Comunale, con il rilascio di titoli per 8 camere doppie, 16 suite e 18 appartamenti). In definitiva, risulta confermato che, da anni, il complesso Sa. Gi. non è stato gestito come RTA unitaria. Non solo, risulta che il Comune di (omissis) ha percepito per anni ICI e IMU sul presupposto della natura di "appartamenti residenziali" delle unità abitative; ha applicato la tassa per lo smaltimento dei rifiuti come "residenze"; ha addirittura concesso la residenza a taluni proprietari negli appartamenti. Tali circostanze stridono in modo insuperabile con la successiva contestazione per cui l'utilizzo residenziale di talune unità immobiliare - ma, inspiegabilmente, non di tutte, come innanzi già sottolineato - integrerebbe un'ipotesi di lottizzazione abusiva. Non solo, in base alle circostanze innanzi riferite è possibile finanche ipotizzare che il mancato funzionamento della struttura turistica nella sua consistenza originaria sia stato, negli anni, indirettamente incoraggiato dalla stessa amministrazione. In tale prospettiva deve anche osservarsi che, a monte delle predette circostanze, non appare in sintonia con la destinazione recettiva del complesso, unitariamente considerato, l'avvenuto frazionamento in singole unità intestate a distinti proprietari, anche in tal caso avallato dal Comune, tenuto conto della giurisprudenza per cui "l'unitarietà della struttura e dell'attività gestionale delle residenze turistico-alberghiere appare del tutto incompatibile con qualsiasi ipotesi di frazionamento della proprietà del complesso immobiliare in cui esse operano (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29 maggio 2008, n. 2584)" (Cons. St. 998 del 7.2.2020). 8.3 - Le circostanze che precedono fanno emergere, sotto i diversi profili innanzi delineati, l'ambiguità dell'atteggiamento comunale in riferimento alla struttura per cui è causa, minando i presupposti della contestazione portata dal provvedimento impugnato. Come anticipato, questa appare invece contraddittoria e, in ogni caso, sorretta da una motivazione deficitaria, siccome non spiega, in concreto, le ragioni della contestazione mossa ai sensi dell'art. 30 cit., non potendosi a tal fine ritenere sufficiente il mero richiamo a precedenti giurisprudenziali, stanti le peculiarità del caso di specie innanzi evidenziate. 9 - L'accoglimento dell'appello sotto il profilo che precede rende superfluo l'esame delle ulteriori censure dedotte con l'appello. Per quanto si è sopra rilevato scrutinando il primo motivo, resta non di meno confermato il carattere abusivo, e quindi illecito, delle avvenute modifiche alla destinazione d'uso prevista, da ciò conseguendone la necessità che, all'indomani della presente decisione, il Comune ponga in essere un'attività amministrativa che valga a rimuovere l'illecito ovvero i suoi presupposti, in ogni caso ripristinando la legalità . Ad una valutazione complessiva della vicenda le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta accoglie l'appello e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, annullando l'atto impugnato. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CATALDI Michele - Presidente Dott. LENOCI Valentino - Consigliere Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere Dott. LUME Federico - Consigliere rel. Dott. CHIECA Danilo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11148/2017 R.G. proposto da: FRATELLI Za. Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Pa.Fr., in forza di procura in calce al ricorso ed elettivamente domiciliata in Roma alla via (...) presso l'avv. An.Ma. - ricorrente - contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore; - intimata - avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 5545/65/2016 pronunciata in data 29/09/2016 e pubblicata in data 27/10/2016, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 19/04/2024 dal consigliere dott. Federico Lume; udito il PM, in persona del sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avv. Ga.St. per la ricorrente; udito l'avv. Da.Pi. per l'Avvocatura dello Stato. FATTI DI CAUSA 1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia (CTR), sezione staccata di Brescia, accoglieva l'appello dell'ufficio contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo (CTP) che aveva parzialmente accolto le impugnazioni proposte dalla società contribuente, con distinti ricorsi poi riuniti, contro tre avvisi di accertamento per maggior Ires e Irap relativi agli anni di imposta 2008, 2009 e 2010, con cui, per quanto in questa sede rileva, era negata la detassazione prevista dall'art. 6, commi 13-19, della L. n. 388 del 2000, c.d. Tremonti ambientale. In particolare, i giudici di appello respingevano l'eccezione di nullità della notifica dell'avviso di accertamento, riproposta dalla società contribuente, e, nel merito, ritenevano che la pretesa tributaria fosse fondata, dovendosi la detassazione applicare solo agli investimenti volti a prevenire, ridurre o riparare un danno all'ambiente cagionato dalla propria attività di impresa e non agli investimenti realizzati dalle imprese che si occupano di prevenire, riparare o ridurre danni cagionati da altre imprese, altrimenti risultando detta agevolazione incompatibile con la disciplina comunitaria in tema di aiuti di Stato; considerazione confermata dal riferimento al criterio incrementale previsto dalla norma in forza del quale il costo agevolabile è solo quello della differenza tra il valore dell'investimento ambientale e quello non ambientale; disapplicavano altresì le sanzioni in ragione della presenza di obiettive condizioni di incertezza normativa. 2. Contro tale decisione propone ricorso la società contribuente sulla base di quattro motivi. Agenzia delle entrate, cui il ricorso è stato notificato in data 27/042/05/2017, è rimasta intimata. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28/04/2023, per la quale la ricorrente ha depositato memoria, e poi rinviato alla pubblica udienza, fissata per il 19/04/2024, per la quale la ricorrente ha depositato nuova memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo d'impugnazione, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 29 d.l. n. 78 del 2010 e dell'art. 60 D.P.R. n. 600 del 1973, lamentando l'erroneità della decisione della CTR laddove ha ritenuto valida la notificazione mediante servizio postale, nonostante nel caso di specie si trattasse di un atto impoesattivo c.d. primario, per il quale la norma evidenziata prescrive, a pena di inesistenza dell'avviso, la notificazione mediante l'intermediazione di un agente della notificazione. Con il secondo motivo, proposto in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la società deduce la violazione degli artt. 6, commi da 13 a 19, della L. n. 388 del 2000, lamentando l'erroneità della decisione laddove ha riconosciuto la competenza dell'Agenzia delle entrate nella funzione di controllo sull'esistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'agevolazione in esame. Col terzo motivo deduce la violazione dell'art. 6, comma 15, della L. n. 388 del 2000, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., censurando la sentenza: a) perché, laddove ha ritenuto che per poter godere del beneficio di cui alla Tremonti ambientale gli investimenti devono contribuire alla riduzione dei danni ambientali prodotti dalla stessa impresa, avrebbe introdotto un requisito non previsto dal tenore letterale della disposizione, violando la regola dell'interpretazione letterale imposta dalla natura eccezionale delle norme di agevolazione; b) ove avrebbe violato un giudicato interno formatosi a seguito della mancata contestazione da parte dell'Agenzia sulla natura degli investimenti; c) ove avrebbe violato il c.d. approccio incrementale, in quanto nel caso di specie i cespiti acquistati costituiscono un unicum inscindibile interamente ed esclusivamente funzionale al trattamento e al recupero dei rifiuti in cui non c'è una singola parte avente funzione ambientale. Col quarto motivo la società deduce la violazione degli artt. 3, 23, 53, 97 della Costituzione e dell'art. 10 della L. n. 212 del 2000, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., laddove la sentenza della CTR ha implicitamente rigettato la doglianza di violazione del legittimo affidamento della società, derivante dall'aver questa regolarmente adempiuto all'onere di comunicazione degli investimenti ambientali, previsto dall'art. 30 della L. n. 179 del 2002 che aveva sostituito il comma 17 dell'art. 6, al Ministero delle attività produttive, che nulla aveva osservato in merito nonostante il tempo trascorso. 1.1. Occorre premettere che l'Agenzia intimata, senza contestazione delle controparti, ha partecipato, tramite l'Avvocato dello Stato presente in udienza, alla discussione della controversia innanzi a questo Collegio, esercitando la facoltà processuale espressamente consentita, nella fattispecie de qua, dal secondo periodo del primo comma dell'art. 370, cod. proc. civ., in base al principio per cui nel giudizio di legittimità, l'Agenzia delle entrate intimata, anche quando non abbia contraddetto il ricorso mediante rituale controricorso, ha pur sempre la facoltà di partecipare alla discussione orale avvalendosi dell'Avvocatura dello Stato, senza necessità che a quest'ultima sia rilasciata una specifica procura per il singolo giudizio (Cass. 25/01/2024, n. 2465). 2. Il primo motivo, relativo alla validità della notifica a mezzo postale dell'avviso di accertamento c.d. impoesattivo, nella vigenza dell'art. 29 del d.l. n. 78 del 2010 (essendo pacifico in fatto che l'avviso di accertamento impugnato è stato notificato a mezzo posta direttamente dall'agenzia fiscale senza l'intermediazione di ufficiale giudiziario ovvero di messo notificatore), è infondato e va rigettato, secondo quanto già deciso dalla Corte in casi analoghi, con orientamento cui va dato ulteriore seguito (Cass. 03/12/2020, n. 27634; Cass. 02/12/2021, n. 38010; Cass. 27/07/2022, n. 23435; Cass. 17/04/2023, n. 10109). L'art. 29, comma 1, lett. a) del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella L. n. 122 del 2010, così dispone: "Le attività di riscossione relative agli atti indicati nella seguente lettera a) emessi a partire dal 1 ottobre 2011 e relativi ai periodi d'imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, sono potenziate mediante le seguenti disposizioni: a) l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l'intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all'obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. L'intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni ai sensi dell'articolo 8, comma 3-bis del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, dell'articolo 48, comma 3-bis, e dell'articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e dell'articolo 19 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, nonché in caso di definitività dell'atto di accertamento impugnato ... ". Orbene, anche a voler definire "primario" l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni contenente "anche l'intimazione ad adempiere", e "secondario" l'eventuale successivo atto da notificare al contribuente "in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento", la disposizione in esame, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non introduce alcuna distinzione tra l'uno e l'altro tipo di atto quanto a modalità di notificazione e sicuramente nessuna limitazione per gli atti "primari". La disciplina della "notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente" è infatti contenuta nell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, che prevede espressamente, nella prima parte del comma 1, che essa "sia eseguita" (di regola) "a mezzo della posta, direttamente dagli uffici finanziari" e solo "ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall'Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge". Tale disposizione non è stata abrogata e nemmeno può intendersi derogata dall'art. 29 del d.l. n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, sicché la tesi sostenuta dal ricorrente, che ciò lascia presumere, non ha fondamento. È ben vero che l'art. 14 della legge n. 890 del 1982 prevede che "Sono fatti salvi i disposti di cui agli artt. 26, 45 e seguenti del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta", ma tale disposizione non si pone affatto in conflitto con la modalità di notificazione prevista nella prima parte della medesima disposizione (direttamente a mezzo posta), limitandosi a lasciare inalterata la facoltà dell'amministrazione finanziaria di procedere comunque alla notificazione dei vari atti tributari con modalità alternative alla prima, ovvero quelle previste dalle norme espressamente elencate nel citato art. 14 o da quelle "relative alle singole leggi di imposta". Pertanto, diversamente da quanto si sostiene nel motivo di ricorso in esame, l'art. 29, comma 1, lett. a), seconda parte, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, non fa altro che attribuire all'amministrazione finanziaria la facoltà di effettuare la notificazione degli atti "in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento", emanati successivamente a questo, "anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento", senza in alcun modo incidere sulle modalità di notificazione degli avvisi di accertamento, vietandone la notificazione diretta a mezzo posta. Come precisato da Cass. n. 38010 del 2021 cit., in linea generale, la notificazione di un atto impositivo non è affatto un elemento costitutivo di esistenza giuridica/validità del medesimo, bensì esclusivamente una sua condizione di efficacia (cfr. ex multis, Cass. 24/08/2018, n. 21071) e nel caso di specie non vi è peraltro ragione per affermare che l'idoneità a trasformarsi in titolo esecutivo solo dopo 60 giorni dalla notificazione stessa, a differenza dell'iscrizione a ruolo che, ai sensi dell'art. 12, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973, ha effetto immediato, ne rappresenti invece un elemento costitutivo. Infatti, è la stessa disposizione legislativa che chiarisce che con la novità normativa si è inteso aggiungere una nuova modalità di formazione di un titolo esecutivo legittimante la riscossione esattoriale, laddove il d.l. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. b), prevede appunto espressamente che "la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell'esecuzione forzata". Da quanto detto consegue che deve ribadirsi il principio per cui "è legittima la notificazione degli avvisi di accertamento emessi nei confronti del contribuente, effettuata direttamente dall'Agenzia delle entrate a mezzo raccomandata postale, anche nel caso di avvisi impoesattivi, osservandosi al riguardo che in tale ipotesi non è richiesta né può essere pretesa la redazione della relata di notificazione, né altro adempimento che non sia espressamente previsto dalle norme concernenti il servizio postale ordinario" (cfr. Cass. 14/11/2019, n. 29642, secondo cui "In caso di notificazione a mezzo posta dell'atto impositivo eseguita direttamente dall'Ufficio finanziario ai sensi dell'art. 14 della L. n. 890 del 1982, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario ex art. 149 cod. proc. civ., sicché non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, senza necessità dell'invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cod. civ., la quale opera per effetto dell'arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione"). 3. Il secondo motivo è infondato. Ed infatti, questa Corte ha già scrutinato la questione riconoscendo in capo all'Agenzia delle entrate la competenza esclusiva in ordine alla verifica dei presupposti di legittimità dell'agevolazione prevista dalla c.d. Tremonti ambientale (Cass. 19/12/2022, n. 37152). In particolare l'art. 62 del D.Lgs. 30/07/1999, n. 300 stabilisce che all'Agenzia delle entrate "sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi, con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali sia attraverso l'assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l'evasione fiscale (..)" (comma 1) e che la stessa Agenzia "è competente in particolare a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti (..)" (comma 2). Tali disposizioni conferiscono perciò all'Agenzia tutte le funzioni e i poteri in materia di imposizione fiscale, cioè tutte le funzioni e i poteri strumentali all'adempimento delle obbligazioni tributarie verso l'erario, a meno che siffatti funzioni e poteri siano assegnate ad altre amministrazioni da specifiche disposizioni "siano assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi". Nella specie i compiti attribuiti al Ministero delle Attività Produttive relativamente agli incentivi fiscali in argomento si limitano al censimento degli investimenti ambientali, con soli scopi statistici. Occorre solo aggiungere a tali considerazioni che è il meccanismo stesso di funzionamento della detassazione in parola, che opera attraverso una variazione dell'imponibile nella dichiarazione dei redditi, a deporre nel senso della natura tributaria dell'agevolazione. Occorre quindi dare continuità al principio di diritto per cui "che in tema di agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 388 del 2000, in relazione ad investimenti destinati a prevenire, ridurre o riparare danni ambientali determinati dall'attività svolta dal contribuente, tutta l'attività di controllo circa la spettanza dell'agevolazione spetta, in virtù dell'art. 62 del D.Lgs. n. 300 del 1999, all'Agenzia delle Entrate, quale titolare di tutte le funzioni e dei poteri strumentali all'adempimento delle obbligazioni tributarie verso l'erario, mentre sono attribuiti al Ministero delle Attività produttive solo compiti di raccolta di dati statistici, attraverso il censimento degli investimenti stessi". 4. Il terzo motivo non è fondato, alla luce delle recenti decisioni di questa Corte sullo specifico tema, cui occorre dare continuità. Cass. 23/12/2020, n. 29365 ha già evidenziato infatti che, ai fini della spettanza di tale beneficio, occorre che l'investimento (rectius: l'immobilizzazione immateriale con esso acquistata) sia necessario per prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dall'attività dell'impresa che lo realizza (come correttamente ritenuto dalla CTR) ma non i danni causati dall'attività di soggetti terzi (come sostenuto dalla ricorrente). Al riguardo, si è infatti osservato che la concessione dell'agevolazione de qua a favore della generalità delle imprese (piccole e medie) - e non, quindi, di altri soggetti che non esercitano attività di impresa - si fondava, in tutta evidenza, sull'implicito presupposto della dannosità per l'ambiente di tale attività, alla quale la stessa dannosità è inerente; per tale ragione, risulta chiaro che, nel definire gli investimenti cui si applicava l'agevolazione come quelli necessari per prevenire, ridurre e ripianare "danni causati all'ambiente", il legislatore intendeva fare riferimento ai danni all'ambiente inerenti all'attività dell'impresa investitrice, cioè ai danni causati da tale sua attività; l'accoglimento della tesi opposta, del resto, comporterebbe che l'agevolazione di cui ai commi da 13 a 19 dell'art. 6 della legge n. 388 del 2000 si tradurrebbe in un'agevolazione all'attività stessa delle imprese il cui oggetto sia costituito, come nel caso della società ricorrente, da un'attività di prevenzione, riduzione e riparazione di danni causati all'ambiente da terzi - e i cui investimenti sono, perciò, strutturalmente generalmente diretti a prevenire, ridurre e riparare danni all'ambiente - esito che, oltre che contrastare con l'indicata intenzione del legislatore, sarebbe suscettibile di trasformare l'agevolazione de qua in un aiuto di Stato, in contrasto con gli articoli da 87 a 89 del Trattato CEE (e, successivamente, con gli articoli da 107 a 109 TFUE), stante il vantaggio che essa potrebbe comportare a favore del detto settore di imprese rispetto ai concorrenti di altri Paesi dell'Unione europea, con la conseguente alterazione (o minaccia di alterazione) della concorrenza; la diversità tra la situazione dell'impresa che realizzi un investimento diretto a prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente da terzi e la situazione dell'impresa che realizzi un investimento diretto a prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dalla propria attività giustifica - contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente - il fatto che, a fronte dell'acquisto di un'identica immobilizzazione materiale, il relativo costo non sia detassato nel primo caso e lo sia, invece, nel secondo. In tale arresto si è peraltro specificato che, ovviamente, l'interpretazione seguita non preclude alle imprese il cui oggetto sia costituito da un'attività di prevenzione, riduzione e riparazione di danni causati all'ambiente da terzi di beneficiare dell'agevolazione in relazione agli investimenti necessari per prevenire, ridurre e riparare danni causati all'ambiente dalla propria attività, il che però non è stato dedotto dalla società ricorrente e deponendo in senso contrario la stessa assunzione in fatto che gli investimenti realizzati fossero tutti integralmente detassabili, in quanto costituenti un unicum inscindibile funzionale al miglioramento del funzionamento dell'impresa e quindi, indirettamente, della tutela ambientale. Tali principi sono stati espressamente ribaditi di recente, all'esito di pubblica udienza, da Cass. 23/08/2023, n. 25157 e Cass. 22/12/2023, n. 35919, dandosi anche atto di alcuni precedenti parzialmente dissonanti (Cass. 14/10/2022, n. 30225 e Cass. 29/12/2022, n. 38043), evidenziandosi altresì che le norme di agevolazione fiscale hanno carattere eccezionale e derogatorio e, come tali, sono di stretta interpretazione (ex plurimis, Cass. 12/06/2020, n. 11337, Cass. 12/12/2019, n. 32635, Cass. 10/05/2019, n. 12500, Cass. 21/06/2017, n. 15407), e che la materia dell'imposizione tributaria fa parte del c.d. "nucleo duro" delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura autoritativa del rapporto tra il contribuente e la collettività è predominante (Corte EDU, Ferrazzini c. Italia), laddove "le scelte in questa materia implicano normalmente una ponderazione di problemi politici, economici e sociali che la Convenzione lascia alla competenza degli stati firmatari, poiché le autorità interne sono evidentemente nella posizione di valutare meglio tali aspetti che non la Corte" (Corte EDU, Belmonte c. Italia). Né è rilevante il regolamento 651/2014, invocato dalla ricorrente in memoria, in quanto norma sopravvenuta a quella in esame, e che comunque fa salvo il principio che i costi ammissibili corrispondono ai costi d'investimento supplementari necessari per realizzare un investimento che conduca ad attività di riciclaggio o riutilizzo rispetto a un processo tradizionale di attività di riutilizzo e di riciclaggio di analoga capacità che verrebbe realizzato in assenza di aiuti. Deve infine evidenziarsi che il motivo è altresì infondato laddove deduce un giudicato interno, in quanto l'oggetto dell'appello era proprio relativo alla mancanza dei presupposti per godere dell'agevolazione, in ragione della natura degli investimenti, come emerge inequivocabilmente dalla parte narrativa della sentenza impugnata. 5. Il quarto motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. 5.1. Il motivo è inammissibile in riferimento alle norme costituzionali. Con riguardo alle questioni di costituzionalità, deve essere, in primo luogo, rilevato che non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale (art. 23, L. 11/03/1958, n. 87), mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo in quanto, in riferimento alle questioni di legittimità costituzionale in via incidentale l'iniziativa spetta esclusivamente al giudice, le parti potendo presentare soltanto delle deduzioni nel processo dinanzi alla Corte costituzionale ed, eventualmente, limitarsi a sollecitare anche motivatamente il giudice a sollevare la questione di costituzionalità; peraltro, ai sensi dell'art. 24, terzo comma, L. n. 87 del 1953, la questione di costituzionalità di una norma non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che prospettata d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, purché essa risulti rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali che siano state ritualmente dedotte nel processo (in senso conforme vedi, tra le altre: Cass. 16/04/2018, n. 9284; Cass. 24/02/2014, n. 4406; Cass. 29/10/2003, n. 16245; Cass. 18/02/1999, n. 1358; Cass. 22/04/1999, n. 3990). Ne deriva l'inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato come diretto esclusivamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale (come accade nella specie) oppure a censurare il concreto esercizio del potere che compete al Giudice in materia, non potendo essere configurato al riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l'annullamento da parte di questa Corte (Cass., Sez. U., 29/03/2013, n. 7929; Cass. 16/04/2018, n. 9284). Peraltro, un simile motivo può essere esaminato come sollecitazione al giudice (anche a questa Corte) a sollevare una questione di legittimità costituzionale, attività consentita alle parti, come si è detto, ma che nel caso di specie risulta del tutto priva di alcuna specifica illustrazione. 5.2. Il motivo è altresì infondato con riferimento alla violazione dell'art. 10 della L. n. 212 del 2000. In primo luogo, il principio del legittimo affidamento opera in tema di sanzioni ma non incide sulla debenza dell'imposta (e nel caso di specie le sanzioni sono state escluse); infatti anche ove il contribuente si sia conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'Amministrazione finanziaria, è esclusa soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall'adempimento dell'obbligazione tributaria, in base al principio di tutela dell'affidamento, espressamente sancito dall'art. 10, comma 2, della L. n. 212 del 2000 (Cass. 09/01/2019, n. 370; Cass. 18/05/2016, n. 10195, secondo cui in tema di sanzioni tributarie la tutela dell'affidamento incolpevole del contribuente, sancita dall'art. 10, commi 1 e 2, della L. n. 212 del 2000, costituisce espressione di un principio generale dell'ordinamento tributario, che trova origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. e, in materia di tributi armonizzati, in quelli dell'ordinamento dell'Unione europea, sicché deve ritenersi che la situazione di incertezza interpretativa, ingenerata da risoluzioni dell'Amministrazione finanziaria, anche se non influisce sulla debenza dell'imposta, deve essere valutata ai fini dell'esclusione dell'applicazione delle sanzioni). In secondo luogo, come evidenziato nell'esame del secondo motivo, questa Corte ha già chiarito che in tema di agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 388 del 2000 tutta l'attività di controllo circa la spettanza dell'agevolazione spetta all'Agenzia delle entrate, per cui il silenzio serbato dal Ministero delle Attività produttive non può avere alcuna rilevanza ai fini del formarsi di un legittimo affidamento. 6. Ne segue il rigetto del ricorso. Le spese (l'Agenzia delle entrate, come visto in precedenza, ha discusso la causa) seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell'Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 3.700,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Rel. Dott. DI GIURO Gaetano - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Po.Co. (CUI (Omissis)) nato a B (ROMANIA) il (Omissis) avverso l'ordinanza del 06-07-2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI; lette le conclusioni del PG, PIERLUIGI PRATOLA, che ha chiesto il rigetto del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe, resa il 6 luglio 2023, la Corte di appello di Napoli ha rigettato l'istanza proposta nell'interesse di Po.Co. avente ad oggetto la rideterminazione della pena inflittagli dal Tribunale di Bucarest con la sentenza emessa il 13 maggio 2019, riconosciuta per l'esecuzione in Italia, ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161, in virtù della sentenza della Corte di appello di Napoli del 6 ottobre 2022. Il giudice dell'esecuzione, ponendo alla base della sua analisi quest'ultima sentenza, che aveva stabilito il rifiuto della consegna di Po.Co. alle Autorità rumene, in relazione al mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Bucarest per l'esecuzione della pronuncia del 13 maggio 2019 di condanna del medesimo alla pena di anni undici, mesi sei di reclusione, e aveva stabilito che la pena stessa, detratto il presofferto, fosse eseguita in Italia, conformemente al diritto interno, ne ha analizzato le connotazioni e ha ritenuto conclusivamente che, tenendo per fermo il limitato potere di adattamento riservato al giudice dello stato di esecuzione, correttamente la pena stessa era stata stimata compatibile con il quadro normativo interno relativo alle sanzioni contemplate per i reati per l'integrazione dei quali Po.Co. era stato tratto a giudizio e condannato dall'Autorità giudiziaria rumena. 2. Avverso tale ordinanza il difensore di Po.Co. ha proposto ricorso per cassazione chiedendone l'annullamento sulla base di un unico, articolato motivo con cui denuncia la violazione degli artt. 666 cod. proc. pen., 25 e 27 Cost., 10 della legge 25 luglio 1988, n. 334, nonché l'apparenza e l'illogicità della motivazione. Relativamente ai richiamati riferimenti normativi e considerato anche il principio cardine di cui all'art. 2 cod. pen., in forza del quale vanno applicati al reo le disposizioni più favorevoli con riguardo alla legge del tempo del commesso reato, nonché quello del ne bis in idem sostanziale, sotteso alla disciplina di cui agli artt. 15 e 84 cod. pen., la difesa afferma che della disposizione di cui all'art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69, coniugata con il citato art. 10, comma 2, della legge n. 334 del 1988 (di ratifica della Convenzione di Strasburgo in data 21 marzo 1983, relativa alla disciplina del trasferimento delle persone condannate), non è stata fatta retta applicazione nel caso in esame. In tal senso il ricorrente sostiene che la pena inflitta dall'Autorità giudiziaria rumena, verificata in rapporto alle fattispecie incriminatrici del diritto italiano, è illegale, in quanto non tiene conto dei principi richiamati, con particolare riguardo: alla successione delle leggi nel tempo, in riferimento al reato di cui all'art. 319 cod. pen.; ai principi di cui agli artt. 438 e 442 cod. proc. pen., assimilabili allo sconto di pena previsto dall'ordinamento rumeno per situazione equiparata al rito abbreviato italiano; al principio del ne bis in idem sostanziale, violato laddove la Corte di appello ha riferito la condanna inflitta a Po.Co. a sette reati, laddove una parte dei reati era stata ritenuta assorbita da quello di cui all'art. 319 cod. pen. In rapporto a tali temi, secondo la difesa, la Corte di appello avrebbe dovuto far emergere, con un semplice calcolo aritmetico, il palese errore compiuto nel calcolo delle diminuzioni e degli aumenti di pena, una volta fissata la pena base. 3. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, opponendosi alle prospettazione difensive i limiti insuperabili scaturenti dal riconoscimento nell'ordinamento interno della sentenza straniera, anche con riguardo all'entità della pena irrogata, in relazione al contenuto generico dell'impugnazione, priva di specifiche argomentazioni a supporto della dedotta sproporzione della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso si rivela infondato e deve essere, pertanto, rigettato per le ragioni di seguito precisate. 2. È utile osservare, integrando le indicazioni della parte narrativa, che la Corte di appello, a ragione della determinazione assunta con il provvedimento in esame, ha richiamato, in premessa, la sentenza emessa dalla medesima Autorità giudiziaria interna il 6 ottobre 2022. Con tale decisione era stato sancito il rifiuto della consegna di Po.Co. alle Autorità rumene, in relazione al mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Bucarest il 13 maggio 2022 per l'esecuzione della sentenza già indicata, e aveva contestualmente stabilito che la pena inflitta a Po.Co. dai giudici rumeni con la decisione del 13 maggio 2019, pari ad anni undici, mesi sei di reclusione, per i reati puniti dall'ordinamento italiano in forza degli artt. 416, 110, 318 e 319 cod. pen. (associazione per delinquere, corruzione per l'esercizio della funzione, corruzione per atto contrario ai propri doveri di ufficio, commessi in Romania, fra il 2013 e il 2015), fosse eseguita in Italia, conformemente al diritto interno. Il giudice dell'esecuzione - preso atto che l'istanza del condannato era intesa alla rivisitazione della pena in esecuzione mediante l'applicazione dell'art. 133 cod. pen. affinché essa fosse resa compatibile con la pena massima prevista dalla legge italiana, secondo la difesa da individuarsi nell'entità finale di anni otto, mesi dieci, giorni venti di reclusione, sulla base della deduzione che di tale eccedenza non si era avveduta la Corte di appello all'atto dell'emissione della sentenza di riconoscimento - ha considerato non fondata la domanda, in quanto Po.Co. era stato condannato in Romania per la commissione di sette reati, corrispondenti alle fattispecie suindicate, secondo le imputazioni pure riportate nel dettaglio. Valutate le pene irrogate e quelle previste dall'ordinamento interno, il giudice dell'esecuzione ha ritenuto che la Corte di appello, all'atto del riconoscimento, si era attenuta all'interpretazione costante del quadro normativo di riferimento, secondo cui la Corte di appello, laddove si determini a rifiutare la consegna allo Stato di emissione e disponga l'esecuzione della pena detentiva in Italia, ai sensi dell'art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, possiede un limitato potere di adattamento, volto alla riduzione della pena stessa, solo ove emerga che essa è superiore a quella massima edittale prevista dalla normativa interna, alla stregua dell'espressa previsione dell'art. 8, par. 2, della decisione quadro 2008-2009-GAI, recepito nell'art. 10, comma 5, D.Lgs. n. 161 del 2010. In questa cornice - ha evidenziato il giudice dell'esecuzione - nel diritto interno la violazione dell'art. 319 cod. pen. risultava punita con la pena massima di anni dieci di reclusione; e, nella verifica della sanzione, corrispondente a tale pena, irrogata dall'Autorità giudiziaria rumena, come poi recepita con la sentenza di riconoscimento, andava poi tenuto conto della pena relativa agli altri sei reati, con l'effetto che la suindicata pena finale inflitta dall'Autorità giudiziaria rumena, pur considerando il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non risultava affatto incompatibile con la legge italiana, né sproporzionata rispetto ai reati accertati come commessi da Po.Co. In ogni caso - si è precisato nel provvedimento impugnato - la rilevata compatibilità non avrebbe potuto consentire adattamenti ammissibili da parte del giudice interno, con riferimento all'istituto della continuazione. 3. Nel quadro così definito, occorre in primo luogo evidenziare il dato  emerso con nettezza dall'analisi che precede - per cui la sentenza in data 13.05.2019 del Tribunale di Bucarest è stata già oggetto di riconoscimento con precedente sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli il 6.10.2022 con cui, rifiutata la consegna di Po.Co. in esecuzione del mandato di arresto europeo n. 27 emesso il 13.05.2022 dal Tribunale di Bucarest ed era stato, in corrispondenza, disposto che la pena irrogata con la suddetta sentenza, anni undici, mesi sei di reclusione, con detrazione del periodo di arresti domiciliari a cui era stato sottoposto Po.Co. dal 7.09.2015 al 25.06.2017, fosse eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno. La sentenza della Corte di appello del 6.10.2022 non consta sia stata impugnata e, in ogni caso, la sua irrevocabilità risulta incontestata. 3.1. Tale dato non è senza conseguenze. In via generale, opera il principio di diritto, da riaffermarsi, secondo cui non possono essere dedotte con incidente di esecuzione le questioni relative al merito del giudizio di riconoscimento delle sentenze penali straniere di cui agli artt. 730 e ss. cod. proc. peno (Sez. 6, n. 37496 del 16-09-2022, (Omissis), Rv. 283934 -01; Sez. 6, n. 44601 del 15-09-2015, S., Rv. 265882 -01). Occorre specificare, dunque, che pure quando si verta in tema di riconoscimento di sentenza straniere, in sede di esecuzione, valgono i principi generali relativi alla sfera di inviolabilità del giudicato, in base ai quali in sede di esecuzione sono deducibili esclusivamente i vizi attinenti al titolo esecutivo e non è possibile riproporre eccezioni relative al giudizio, a meno che si tratti di inesistenza del titolo esecutivo (quando la sentenza sia stata emessa a non iudice) oppure di illegittimità intrinseca - e, quindi, illegalità e inesigibilità - della pena, allorché la stessa non sia prevista dalla legge o ecceda, per specie o quantità, il limite legale (Sez. 1, n. 46923 del 21-10-2022, (Omissis), Rv. 283783 Â01; Sez. 6, n. 315 del 28-01-1998, (Omissis), Rv. 210374 -01). Tale punto fermo limita già la giuridica possibilità di accesso alle doglianze prospettate dal ricorrente. È da ricordare che pure in sede di rifiuto della consegna il potere-dovere di intervento dell'Autorità giudiziaria richiesta è circoscritto, dovendo in particolare osservarsi che, in tema di mandato di arresto europeo, qualora sia rifiutata la consegna allo Stato di emissione e sia disposta, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 69 del 2005, l'esecuzione in Italia della pena detentiva inflitta al cittadino italiano, il potere di adattamento in capo alla corte di appello è limitato alla riduzione della stessa, ove essa risulti superiore a quella massima edittale prevista dalla normativa interna. Quando procede al riconoscimento per l'esecuzione in Italia della sentenza di condanna emessa da altro Stato membro dell'Unione europea, la corte di appello deve osservare il precetto di cui all'art. 10, comma 5, D.Lgs. n. 161 del 2010, in virtù del quale, se la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate con la sentenza di condanna sono incompatibili con quelle previste in Italia per reati simili, la corte di appello procede al loro adattamento e, in ogni caso, la durata e la natura della pena o della misura di sicurezza adattate, da un lato, non possono essere inferiori alla pena o alla misura di sicurezza previste dalla legge italiana per reati simili, dall'altro non possono essere più gravi di quelle applicate dallo Stato di emissione con la sentenza di condanna, mentre poi la pena detentiva e la misura di sicurezza restrittiva della libertà personale non possono essere convertite in pena pecuniaria. Pertanto, ove ci si muova nell'ambito del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie degli Stati membri, ai fini della loro esecuzione nell'Unione europea, ai sensi del D.Lgs. n. 161 del 2010, l'Autorità di esecuzione non può sottoporre la decisione da riconoscere a un controllo di merito, ovvero contestarla nella sua affidabilità, trattandosi di un sindacato che, in via generale, le è precluso dall'art. 696-quinquies cod. proc. pen., sindacato che, di converso, è onere dell'interessato attivare dinanzi alle competenti autorità dello Stato di emissione (Sez. 6, n. 13169 del 03-03-2022, G., Rv. 283140 -01). Soltanto qualora, pur se si sia esaurita la fase del riconoscimento, il titolo esecutivo risulti affetto esso stesso da vizi - fra i quali si annovera in mancato rispetto dei vincoli fissati dall'ordinamento per la legalità della pena - la corte di appello, in funzione di giudice dell'esecuzione, dispone, nei limiti sopra indicati, del potere-dovere di porre rimedio a tali vizi e, con riguardo alla pena, a impedire che abbia corso il riconoscimento della pena, principale e accessoria, che sia stato operato senza osservare i limiti stabiliti dall'ordinamento interno, anche ove il suo dispiegamento si sia basato su un'errata qualificazione giuridica, in tal caso provvedendo alla rideterminazione di tale pena, sempre che essa sia stata fissata in misura superiore a quella massima prevista dalla normativa interna (Sez. 6, n. 3324 del 12-12-2022, dep. 2023, P. Rv. 284335 -01). 3.2. Così definito l'ambito nel quale il giudice dell'esecuzione aveva titolo a intervenire, non è risultato in alcun modo che nello svolgere il relativo compito la Corte di appello abbia obliterato la - soltanto predicata dal ricorrente  esorbitanza sanzionatoria della pena detentiva irrogata a Po.Co. dal Tribunale di Bucarest e confermata in misura inalterata nella sentenza di riconoscimento. La difesa ha dedotto in modo non fondato che la cornice edittale del reato più grave, quello di cui all'art. 319 cod. pen., ossia la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, sia stata considerata senza tener conto del principio di cui all'art. 2 cod. pen., cui si riconnette il limite confermato. Si rileva che, con riguardo a tale fattispecie, con la legge 27 maggio 2015, n. 69, entrata in vigore il 14 giugno 2025, la pena detentiva comminata è stata fissata in quella della reclusione da sei a dieci anni. Si considera, in pari tempo, che, per come riportata nella sentenza di riconoscimento e, di conseguenza, per come analizzata anche dal giudice dell'esecuzione, la condotta ascritta Po.Co. ha riguardato anche fatti accaduti e ruoli rivestiti fino all'agosto 2015, ossia nel tempo di piena vigenza della norma suindicata, fatti che, con incensurabile verifica di merito, sono stati ritenuti commessi dall'attuale condannato. Sotto questo aspetto non si vede, pertanto, in qual senso il giudice del riconoscimento avesse omesso il controllo di compatibilità fra pena irrogata e pena massima stabilita dall'ordinamento italiano, COSI come lo stesso ricorrente non ha articolato censure specifiche in merito agli altri addendi che hanno formato la pena complessiva recepita con la sentenza di riconoscimento: sicché, non emergendo profili di illegalità della pena resa eseguibile in Italia, deve ritenersi corretto l'esito della verifica compiuta - in tale necessariamente circoscritto ambito - dal giudice dell'esecuzione: tali non possono considerarsi quella che ha propugnato l'applicazione della riduzione di pena stabilita dall'ordinamento interno per il rito abbreviato in relazione a una soggettiva assimilazione di istituti processuali diversi afferenti allo Stato di condanna e allo Stato di esecuzione, né quella che, muovendo dal preteso assorbimento di alcune ipotesi di reato in quello più grave, ha inammissibilmente sollecitato al giudice dell'esecuzione l'adozione di un diverso sviluppo dosimetrico della pena involgente una rivalutazione della sanzione da parte sua, indipendentemente dall'indimostrato accertamento dell'esorbitanza di quella irrogata dai limiti edittali stabiliti dalla normativa interna. 3.3. Né potrebbe ravvisarsi alcuna illogica dismissione, da parte dello stesso giudice dell'esecuzione, del suo compito di controllo della legalità del titolo esecutivo con riferimento alla sua affermazione della non applicabilità da parte del giudice del riconoscimento dell'istituto della continuazione. Anche tale snodo rinviene il suo giuridico fondamento nel principio di diritto secondo cui, nella fase di riconoscimento per l'esecuzione in Italia della sentenza di condanna emessa in altro Stato membro dell'Unione europea, è preclusa l'applicazione dell'istituto della continuazione, atteso che, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 161 del 2010, la possibilità di applicare l'art. 81 cod. pen. è estranea ai criteri ivi indicati per il riconoscimento della sentenza di condanna, dato il vincolo a cui deve attenersi il giudice italiano per rispettare la durata e la natura della pena stabilita dallo Stato di condanna, salvo il caso della loro incompatibilità con la legge italiana, caso che non contempla anche la facoltà di applicare il suddetto istituto (Sez. 6, n. 52235 del 10-11-2017, (Omissis), Rv. 271578 -01). Ed è aggiungere, in relazione al corrispondente parametro normativo pure invocato dal ricorrente, che anche nella determinazione della pena ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge 3 luglio 1989, n. 257, contenente le norme di attuazione della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, adottata il 21 marzo 1983 e ratificata con legge 25 luglio 1988, n. 334, si è ritenuta preclusa al giudice dello Stato di esecuzione l'applicazione dell'istituto della continuazione, non potendo ritenersi operante per analogia il disposto dell'art. 671 cod. proc. pen., estraneo ai criteri fissati dall'art. 10 della Convenzione stessa, che vincola lo Stato di esecuzione quanto alla natura giuridica e alla sanzione, come stabilite dallo Stato di condanna, salvo il limite della compatibilità con la legge di quest'ultimo in riferimento alla natura ed alla durata stesse (Sez. 5, n. 3597 del 15-11-1993, (Omissis), Rv. 197023 -01, in fattispecie relativa al riconoscimento di sentenza resa dalla Centrai Criminal Court di Londra). 3.4. Pertanto, il giudice dell'esecuzione ha, sotto gli enucleati aspetti, compiuto correttamente e con argomentazioni prive di vizi logici il controllo di compatibilità della pena inflitta all'estero con quella prevista dall'ordinamento interno per reati similari, non essendo emersi profili di illegalità della sanzione irrogata dall'Autorità giudiziaria rumena e recepita dall'Autorità giudiziaria italiana con il provvedimento di rifiuto di consegna e di connesso riconoscimento del titolo giudiziario rumeno. Né, con riferimento alle ulteriori deduzioni difensive, può rilevarsi la prospettazione di concrete e precise questioni idonee a censurare la verifica  conclusa con esito positivo - della legalità della pena effettuata dal giudice dell'esecuzione. 4. Corollario delle considerazioni svolte è che l'impugnazione deve essere rigettata. Alla reiezione del ricorso segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2024 Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CALASELICE Barbara - Relatore Dott. POSCIA Giorgio - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Mi.Gi. nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 08/03/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere BARBARA CALASELICE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore To.St. che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. uditi i difensori, avv.ti L. Pe. e R. Qu. che hanno concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO Con la sentenza impugnata, la Corte di assise di appello di Napoli ha confermato la condanna, pronunciata dalla Corte di assise in sede, in data 14 dicembre 2021, nei confronti di Mi.Gi., in relazione al concorso nel reato di omicidio pluriaggravato di Ma.Pa., nonché per il ferimento di Va.An., con le circostanze aggravanti di aver commesso il fatto con premeditazione, nonché della modalità camorristica e del fine di agevolare il clan Am.-Pa., sottogruppo della Gr.Vi., perché l'omicidio veniva consumato allo scopo di eliminare Ma.Pa. che aveva minacciato di collaborare con la giustizia, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 1 cod. pen. (capo A: artt. 110, 575, 577 n. 3 e 4 in relazione all'art. 61 n. 1, 416-bis. l, cod. pen.; artt. 110, 82, comma primo e secondo, 582, 585, 416-bis. 1 cod. pen.). Veniva, altresì, confermata la penale responsabilità dell'imputato per i relativi reati concernenti le armi usate per il delitto (capo B: artt. 81, comma secondo, 110, 61 n. 2, cod. pen., artt. 10, 12 e 14 legge 497 del 1974), aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991. 1.1. Il primo giudice aveva condannato l'imputato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno, oltre alle pene accessorie di legge, fondando l'affermazione di responsabilità sulle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza installato nei pressi del luogo teatro dei fatti, delle dichiarazioni di Va.An., testimone oculare, vittima del ferimento per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione nel reato, nonché sulla base delle risultanze degli accertamenti autoptici. Ancora, vengono poste a base della condanna le intercettazioni svolte all'epoca dei fatti, le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tra i quali Ce.Ca., Ac.An., Ma.Fa., ma in particolare quelle di Gu.Ro., reputate riscontrate dalle dichiarazioni, tra gli altri, di Pa.Ma. e Va.An., quest'ultimo esaminato in dibattimento ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., in base alle quali si individuava, peraltro, la causale dell'omicidio in dinamiche interne al clan nel quale Ma.Pa. militava e al quale appartenevano anche l'esecutore materiale e il mandante Mi.Gi.. Questi, inserito nel clan La. con un ruolo centrale nella gestione del commercio degli stupefacenti, a seguito della faida di camorra del 2004-2005 era passato nelle file del clan Am.-Pa.. Il movente, sulla base del contenuto delle intercettazioni e di un foglio con annotazioni reperito addosso alla vittima dopo l'agguato, nonché delle dichiarazioni dei collaboratori, veniva individuato in circostanze riconducibili al gruppo camorrista al quale apparteneva Ma.Pa. e al timore che questi si determinasse a collaborare con l'autorità giudiziaria. L'omicidio, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado, era avvenuto mentre Va.An. stava accompagnando la vittima a un incontro chiarificatore a proposito delle lamentele dello stesso Ma.Pa. circa il fatto che gli Am.-Pa. non lo remunerassero, a suo parere, in maniera adeguata. La Corte territoriale ha rigettato le eccezioni di nullità della sentenza, per essere stata dichiarata l'assenza dell'imputato, alle udienze del 6 luglio e del 15 settembre 2021, anche se questi, ristretto agli arresti domiciliari, aveva rappresentato le proprie condizioni di salute e la sua impossibilità a comparire alle udienze. Inoltre, i giudici di secondo grado hanno reputato le dichiarazioni di Gu. attendibili e credibili, nonché riscontrate da quelle rese da Pa.Ma., Il., Es.Ca., Ce.Ca. e Va.An., queste ultime apprezzate, in particolare, come lineari e prive di elementi contraddittori, confermando anche il trattamento sanzionatorio irrogato dal primo giudice. 2. Ricorre tempestivamente, avverso la descritta sentenza, l'imputato, per il tramite dei difensori, avv. L. Pe. e R. Qu., con distinti atti di impugnazione, per motivi di seguito riassunti, nei limiti necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il ricorso a firma dell'avv. L. Pe. denuncia sei vizi. 2.1.1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. La sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione quanto alle tesi difensive, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso nel reato di omicidio e in quello di lesioni personali cagionate ad Va.An.. Si contesta travisamento della prova nonché violazione del canone di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., rispetto al quale, si riportano dettagliatamente i principi interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. La penale responsabilità di Mi.Gi. è ritenuta esclusivamente sulla base delle dichiarazioni di Gu.Ro. che sarebbero riscontrate, secondo i giudici di merito, da quanto esposto da Va.An., presente all'agguato. Le altre dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, invece, farebbero esclusivamente riferimento al contesto in cui si sono verificati i fatti e vengono utilizzate dai giudici di appello per sostenere l'attendibilità di Gu. o il presunto ruolo di rilievo di Mi.Gi. nel clan di riferimento. Tuttavia, la Corte territoriale non avrebbe chiarito quale riscontro individualizzante a tali dichiarazioni fosse reperibile, quanto alla partecipazione di Mi.Gi. nella veste di mandante, affidandosi esclusivamente al contenuto delle dichiarazioni di Gu., non idonee, già intrinsecamente, a fondare la configurabilità della partecipazione del ricorrente al reato in qualità di mandante. La Corte territoriale non affronterebbe, approfonditamente, il tema della credibilità soggettiva dei dichiaranti e risponderebbe in modo soltanto apparente alla critica difensiva relativa all'inaffidabilità del narrato di Va.An. e di come questo non potesse costituire riscontro rispetto alle dichiarazioni di Gu.. Circa l'attendibilità di Va.An., la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le specifiche censure difensive, contenute sia nei motivi principali di appello, sia nella memoria depositata nel giudizio di secondo grado, con riferimento alle contraddizioni del narrato in sede di escussione dibattimentale e anche rispetto alle affermazioni rese nella fase delle indagini preliminari. Va.An., secondo la Corte territoriale, avrebbe riferito che era stato Mi.Gi. a chiedere espressamente di andare a prendere Ma.Pa. e di condurlo dagli Am.-Pa.a M (cfr. p. 25 della sentenza di appello), con affermazione che non prende in esame circostanze di fatto, evidenziate dalla difesa e che minavano l'attendibilità del dichiarante. Si fa riferimento in particolare: - alle sommarie informazioni testimoniali rese nell'immediatezza dei fatti, in data 2 ottobre 2010, da Va.An. quando questi non aveva dichiarato alcun elemento indiziante a carico di Mi.Gi.; - alla versione, resa nelle indagini preliminari, in sede di interrogatorio del 27 marzo del 2019, verbale acquisito al dibattimento, nel quale lo stesso Va.An. affermava che St.Ra. gli avrebbe riferito della richiesta di Mi.Gi. di recarsi a prelevare Ma.Pa., onde condurlo presso un garage di M in quanto Ri.Ma. voleva parlargli; - all'ulteriore versione, resa nel corso della deposizione testimoniale del 23 novembre 2021, come da verbale di dibattimento che si allega al ricorso in ossequio al principio di autosufficienza; - alle evidenti contraddizioni emerse nel corso della deposizione testimoniale in ordine alla presenza all'interno del garage ove avrebbe parlato con Mi.Gi. riportando per stralcio una parte del verbale; - alla valutazione, già operata dalla Corte di appello di Napoli, con sentenza del 3 dicembre 2020, acquisita al dibattimento, da cui emerge che Va.An. non si era adoperato fattivamente, né per la cattura degli autori, né per ricostruire le vicende criminose tanto che gli era stata negata la circostanza attenuante speciale della collaborazione; - alla dichiarazione di Va.An. che riferisce di una riunione, precedente all'omicidio, nel corso della quale avrebbe portato a conoscenza degli esponenti del clan Am.-Pa. le lamentele avanzate da Ma.Pa., cui avrebbero preso parte Gu., Ce.Ca., Ri.Ma., Ma.Fa. e lo stesso Mi.Gi., che avrebbe anche preso la parola per chiedere cosa volesse da loro Ma.Pa., circostanza smentita dalle dichiarazioni di Ce.Ca.; - al fatto che questa stessa riunione, tenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio, veniva sconfessata dallo stesso Gu.Ro. che, invece, aveva affermato di aver saputo della richiesta di Ma.Pa. di incontrare i vertici del clan solo in occasione dell'incontro con Ri.Ma., avvenuto il giorno prima dell'omicidio. Si tratta di un complesso di circostanze di fatto che la Corte territoriale avrebbe del tutto omesso di considerare nella motivazione relativa alle dichiarazioni di Va.An., senza affrontare il tema delle contraddizioni tra il suo dichiarato e quello di Gu., tema centrale in relazione al momento partecipativo di Mi.Gi. e, in particolare, a quello della credibilità del Va.An.. La Corte territoriale, infatti, non ha spiegato, per la difesa, il motivo della introduzione, nel suo narrato, di circostanze palesemente false quale quella relativa alla riunione tenuta 10-15 giorni prima in cui è collocata la presenza di Mi.Gi. e l'interlocuzione con Ma.Pa. avvenuta in quella sede, riunione che invece non si sarebbe mai verificata. In definitiva, per la difesa, è stata omessa ogni indagine della credibilità soggettiva di Va.An., essendosi la Corte territoriale limitata a riepilogare le dichiarazioni rilasciate nel dibattimento. La sentenza impugnata si è limitata a poche righe, prive di adeguata argomentazione che desse conto del vaglio di affidabilità delle dichiarazioni del dichiarante, in violazione del canone di cui all'art 192 cod. proc. pen. secondo il quale il giudice deve, in primo luogo, risolvere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socioeconomiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati correità e alla genesi della sua confessione. In secondo luogo, deve essere verificata l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce di criteri di precisione coerenza e spontaneità, con infine, l'esame dei riscontri esterni. A questi è possibile fare riferimento soltanto dopo aver chiarito eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterna ad essa. Quanto alla chiamata di Gu.Ro. si evidenzia che questa sarebbe priva di riscontro. Dalla lettura delle dichiarazioni di Gu. che si allegano, rese all'udienza del 15 settembre 2021, emergerebbe il nucleo essenziale del racconto del dichiarante. Secondo la Corte territoriale, anche se era stato Ri.Ma. a dire a Gu. che potevano uccidere Ma.Pa. lungo il tragitto che questi, insieme a To. o biondo, avrebbero fatto per andare al covo, non per questo Mi.Gi. doveva essere considerato estraneo al mandato omicidiario. Secondo Gu., il giorno prima dell'omicidio lui stesso si era recato a casa di Ri.Ma. alla presenza di Mi.Gi. e in quell'occasione era stato proprio Gu. a chiedere l'autorizzazione ad uccidere Ma.Pa., autorizzazione concessa da Mi.Gi. insieme a Ri.Ma.. Si rimarca che però nessuna delle circostanze indicate è oggetto del racconto di Va.An., sicché il nucleo centrale delle dichiarazioni di Gu. non trova conferma nelle dichiarazioni di Va.An.. Anzi, quest'ultimo riferisce di una riunione avvenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio in relazione alla quale aveva accompagnato St.Ra.a M e che, mentre si trovava ad aspettare in macchina, fuori al garage di Sa., St.Ra. che in quel momento stava parlando con Mi.Gi., gli aveva chiesto di andare a prendere Ma.Pa. perché aveva chiesto di parlare con loro, precisando che era stato proprio Mi.Gi. a insistere dicendo "vallo a prendere e fallo venire da noi". Si rileva che nessuna delle circostanze narrate da Gu. viene riferita da Va.An. e che il narrato di Gu., quindi, per la difesa resta privo di adeguato riscontro, in presenza, anzi, del silenzio sulla partecipazione di Mi.Gi. di tutti gli altri collaboratori e, addirittura, di un riscontro negativo proveniente da Ce.Ca.. Tale discrasia viene giustificata in base al fatto che Va.An. era rimasto, sin dal primo momento, estraneo alla fase deliberativa e organizzativa dell'omicidio, affermazione in contrasto con quanto dichiarato dallo stesso Va.An. il quale, anzi, sul movente e la genesi del delitto ha fatto riferimento a una riunione deliberativa tenutasi a suo dire 10-15 giorni prima dell'omicidio. La difesa, infine, ribadisce che, sul punto relativo al mandato omicidi ario, Ce.Ca. ha escluso la presenza di Mi.Gi. e soprattutto il suo intervento di qualsiasi tipo nella fase organizzativa e deliberativa del delitto. Ce.Ca., peraltro, riferisce, nei verbali acquisiti al dibattimento, di una riunione in cui era stato presente e cioè quando Gu. si recò presso il covo di M degli Am.-Pa., per chiedere l'autorizzazione di Ri.Ma.. La Corte territoriale sul punto relativo all'omessa indicazione di Mi.Gi. come presente a tale riunione da parte di Ce.Ca. ha motivato ritenendo che quest'ultimo si fosse limitato a dichiarare la sua presenza a tale riunione senza aver indicato chi fossero gli altri, presenti nel covo, in quella occasione. Su tale punto però la Corte territoriale non solo devia, secondo il ricorrente, il tema della normale indicazione di Mi.Gi., nel corso del suo interrogatorio, ove fosse stato presente alla riunione, ma anche rispetto a quello relativo all'indicazione di Ri.Ma., da parte di Ce.Ca., quale esclusivo mandante. Si esclude poi che le dichiarazioni di Pa.Ma.abbiano, sul tema del mandato, valore di riscontro, trattandosi di circolarità della fonte, perché quanto il dichiarante riferisce è stato appreso dallo stesso Gu.. Si ribadisce che la fonte ha come conoscenza le dichiarazioni dello stesso Gu. e che, comunque, Pa.Ma. espone una sua valutazione quando afferma che la deliberazione di un omicidio non può che provenire da "loro" (i vertici del gruppo, Ri.Ma. e Mi.Gi.) e che di questo non si poteva parlare soltanto con "i ragazzi". Si rimarca, poi, che la motivazione non affronta in alcuna parte il tema dell'indipendenza della chiamata di Pa.Ma., richiamando giurisprudenza sulla circolarità della notizia. Si deduce, in definitiva, il contrasto della motivazione rispetto al materiale probatorio, la mancanza di logicità della stessa in ordine alle censure difensive, il travisamento delle dichiarazioni dei due collaboratori, Va.An. e Gu., nonché la circolarità del patrimonio cognitivo, quanto al mandato omicidiario, privo di riscontro e, anzi, smentito dalle dichiarazioni di Ce.Ca.. 2.1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen., nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1 quanto al contributo concorsuale. Si deduce che non è stata data risposta all'appello nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano un contributo di Mi.Gi., rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risulta conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha riferito che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza di Mi.Gi. era stato proprio Ri.Ma. a dargli il consenso all'omicidio. Anzi Mi.Gi., presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva in prima persona deciso in maniera autonoma ed esclusiva l'omicidio. Rispetto a tale motivo di appello la Corte si sarebbe limitata a esporre le dichiarazioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il..,i quali hanno soltanto riferito sulla presunta posizione verticistica di Mi.Gi.. Si sostiene che la mera istigazione a commettere un delitto è irrilevante se non accompagnata dalla sua effettiva commissione ai sensi dell'articolo 115 cod. pen. Il contributo morale, poi, può ritenersi sussistente nei casi in cui tanto nel momento deliberativo del reato, quanto in quello esecutivo emerga la piena adesione del soggetto, in termini di agevolazione nell'avanzamento dei momenti salienti di preparazione del reato. Tale contributo morale atipico deve rivestire efficienza causale qualificata rispetto alla realizzazione del delitto, diversamente da talune norme che puniscono i meri accordi non portati ad esecuzione allo scopo di tutelare interessi di particolare rilievo. Si evidenzia che la diretta attribuzione ai capi dell'associazione per delinquere della responsabilità per i delitti scopo, commessi dagli associati, determinerebbe una mera responsabilità da posizione in violazione dei principi di materialità e di offensività. I reati associativi sono un'autonoma incriminazione e non è sufficiente la posizione apicale, anche se, nell'associazione, il soggetto rivesta la qualità di promotore o organizzatore, per ritenere la responsabilità di questo anche dei singoli delitti scopo commessi da altri. Tali delitti potranno essere attribuiti ai vertici solo a seguito di un accertamento complesso che tenga conto dell'esistenza di un'effettiva condotta offensiva, incriminata ai sensi dell'art. 110 cod. pen., dovendo risultare la partecipazione psichica del capo del clan alla commissione del fatto. Si richiama giurisprudenza di legittimità (sent. n. 34368/2022) secondo la quale è configurabile il concorso morale nel delitto di omicidio nei confronti dell'appartenente all'organismo di vertice di un'organizzazione criminale di tipo mafioso che presta, tacitamente, il proprio consenso all'esecuzione dello specifico delitto, mantenendo il comportamento silente nel corso di una riunione. Tale principio non sembrerebbe aderente, per la difesa, alle circostanze di fatto acclarate nel presente giudizio laddove, dalla lettura delle dichiarazioni di Gu., emerge che Mi.Gi., ove presente all'incontro, non solo mantenne un atteggiamento passivo ma venne escluso da Ri.Ma., nel momento in cui lo stesso Ri.Ma. autorizzò Gu. all'omicidio di Ma.Pa.. Mi.Gi. sarebbe, anzi, rimasto del tutto estraneo al colloquio fra Gu. e Ri.Ma. e quindi all'oscuro delle decisioni assunte dal capo, essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del clan per avere un colloquio chiarificatore. Si riportano, a tal fine, stralci delle dichiarazioni di Gu. per sostenere il contrasto con il contenuto della deposizione del collaboratore, rispetto alla motivazione della sentenza secondo la quale Mi.Gi. era stato senz'altro d'accordo alla realizzazione dell'agguato e la sua estraneità riguardava soltanto le modalità, i tempi e il modo attraverso i quali compiere l'agguato. Si ritiene, in sostanza, non superato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio. 2.1.3. Con il terzo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, avendo la Corte ritenuto sussistente la recidiva senza dare conto delle ragioni giustificative della decisione. La recidiva viene ritenuta sulla base soltanto dei precedenti del casellario giudiziale, con motivazione della Corte territoriale che si sottrae alle censure difensive. Non è stata valutata dalla Corte territoriale la necessità che i fatti per i quali si procede devono essere espressione di accentuata pericolosità sociale dell'imputato e di una perdurante inclinazione al delitto. La verifica circa il rapporto tra fatto per cui si procede e precedenti condanne è mancata, essendosi concentrata la Corte di assise di appello sui precedenti senza motivare sulla natura, l'epoca, il concreto disvalore di questi, richiamando la decisione Sez. U Calibè. Le argomentazioni della Corte territoriale che si è limitata a ricordare i precedenti di Mi.Gi. sono, dunque, per la difesa, assolutamente in contrasto con i consolidati principi interpretativi della Corte di legittimità. 2.1.4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, circa la misura della pena e di quella degli aumenti ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio. Non è stato applicato il minimo edittale e non sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche. Rispetto alla prima deduzione manca del tutto la motivazione del provvedimento impugnato così come nella giustificazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche non vi sono ragioni specifiche. La sentenza indica soltanto che la determinazione e quantificazione della pena decisa dalla Corte di primo grado appare corretta, essendo stati congruamente determinati gli aumenti per i reati satellite. Si richiama giurisprudenza di legittimità secondo la quale è illegittima la motivazione della sentenza di appello che si limita a condividere il presupposto dell'adeguatezza della pena in concreto irrogata dal giudice di primo grado, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza di fattori attenuanti indicati nei motivi di impugnazione. Alcuna motivazione svolge la Corte territoriale, poi, quanto alla misura degli aumenti di pena determinata per i reati satellite. Si richiama, sul punto, giurisprudenza di legittimità secondo la quale è necessario indicare la ragione specifica dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen. 2.1.5. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 11 giugno 2013. 2.1.6. Con il sesto motivo si denuncia vizio di motivazione quanto al diniego della continuazione tra i fatti sub iudice e la sentenza irrevocabile di cui al quinto motivo di ricorso. La motivazione che svolge la Corte territoriale circa l'insussistenza della continuazione, tra l'ipotesi associativa, già definita con sentenza irrevocabile, e i reati relativi all'omicidio di Ma.Pa., si è limitata a indicare che la difesa non ha fornito elementi concreti per dimostrare che Mi.Gi., già all'epoca della sua partecipazione al clan Am.-Pa., avesse ideato e comunque voluto l'omicidio di Ma.Pa.. Si tratterebbe, infatti, per la Corte territoriale, di un evento occasionale ideato ed attuato sulla base di un'azione epurativa interna al sodalizio, autorizzata dai vertici del clan Am.-Pa. in quel dato momento storico, non essendo sufficiente identificare l'identità del disegno criminoso con l'accertata volontà del soggetto ad agire, nel tempo, come camorrista secondo strategie e logiche proprie dell'adesione al clan. La motivazione, secondo la difesa, non corrisponde ai canoni interpretativi giurisprudenziali in tema di riconoscimento della continuazione e non risponde a quanto evidenziato con il gravame sul punto. La nozione di continuazione non può ridursi a considerare che tutti i reati sono stati dettagliatamente progettati e previsti nelle modalità di esecuzione, nei tempi posto che la norma parla di mero disegno per l'attenuazione del trattamento sanzionatorio. Ciò che occorre è una programmazione e deliberazione iniziale di una pluralità di condotte, con rappresentazione sommaria. Con particolare riferimento ai reati commessi da soggetto partecipe al sodalizio criminoso, si è posta la questione se la previsione del programma delittuoso del sodalizio, elemento costitutivo del reato associativo, significhi l'esistenza di un disegno criminoso comune alla partecipazione al clan e alla commissione di reati rientranti nel programma nell'associazione. La stessa fattispecie associativa richiede, infatti, l'elemento della finalità di compiere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato. Tale programma, proprio perché indeterminato, non integra la responsabilità concorsuale nei reati fine ma, nel momento della condivisione di questo programma, se esiste la finalità della futura commissione di reati che risultano specificati, sussiste anche il vincolo della continuazione. In attuazione di tali principi, si deve ritenere che l'eliminazione fisica di un associato che commetta o che minacci di commettere la più intollerabile forma di tradimento del patto di omertà, cioè quella di collaborare con la giustizia, non può essere considerata un'eventualità imprevedibile. Peraltro, si tratta di un omicidio perpetrato per la messa in pericolo di un elemento cardine della stessa sussistenza del vincolo associativo per il quale è intollerabile che uno degli adepti possa ribellarsi, trattandosi di intrinseca regola. L'omicidio si inserisce nella sequenza caratterizzante le innumerevoli azioni militari del clan di riferimento, rientra quindi nell'unitaria programmazione già anticipata al momento dell'adesione al sodalizio, di più violazioni della legge penale ivi compresi gli omicidi nei confronti di soggetti traditori del patto di omertà. La difesa ha allegato questo dato con la produzione della sentenza irrevocabile. 2.2. Con il ricorso a firma dell'avv. R. Qu., si denunciano sei vizi. 2.2.1. Con il primo motivo si denuncia la nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché nullità derivata della sentenza di condanna, resa in data 8 marzo 2023. L'imputato, sottoposto per questo processo agli arresti domiciliari, è affetto da grave patologia cronica (cardiopatia dilatativa post ischemica, in lista di attesa per trapianto cardiaco, aneurismi dell'aorta addominale e patologie secondarie) che lo rendono soggetto critico ad alta complessità clinica, con necessità di monitoraggio e con rischio di improvvisa evoluzione negativa quoad vitam. Si richiama, all'uopo, la documentazione sanitaria e la memoria difensiva prodotta in sede di riesame, nonché la consulenza tecnica di parte (del dottor Do., specialista in cardiologia e malattie dei vasi), le conclusioni della recente consulenza tecnica di parte resa dal dott. Ta., in vista della celebrazione dell'udienza del giorno 8 marzo 2023. Si richiamano anche le conclusioni cui è giunto il Tribunale di sorveglianza di Bari nel 2015, quando è stato disposto il differimento dell'esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare. Si evidenzia che il Giudice per le indagini preliminari, nel presente procedimento, ha sostituito la misura carceraria con gli arresti domiciliari proprio per le condizioni di salute dell'imputato. Ciò premesso si rileva che, all'udienza del 15 Febbraio 2023, l'imputato ha rappresentato di non poter presenziare per ragioni di salute e la difesa ha depositato certificato medico attestante le patologie e la necessità di ricovero urgente per accertamenti. In quella sede, la documentazione prodotta veniva ritenuta dalla Corte di assise di appello, non attestante l'impossibilità dell'imputato a comparire all'udienza e si disponeva visita immediata del detenuto con certificazione da trasmettere ad horas da parte dell'AsI competente. Si riporta, poi, stralcio della certificazione sanitaria a p. 4 del ricorso e le conclusioni del Procuratore generale circa l'esistenza del legittimo impedimento a comparire dell'imputato, mentre si dà atto che il Collegio pronunciava ordinanza di rigetto dell'istanza di rinvio per impedimento a comparire dell'imputato, dichiarandone l'assenza. Secondo la Corte di appello, il sanitario si sarebbe limitato a riportare le risultanze della precedente documentazione sanitaria e di una sintomatologia soltanto riferita; inoltre l'imputato non si sarebbe conformato alle prescrizioni del medico curante, necessarie all'acquisizione di dati oggettivi, attraverso opportuni esami strumentali e clinici e dalla certificazione prodotta dalla difesa, non essendo emerse, dalla disposta visita medico-legale, condizioni di salute tali da integrare impedimento assoluto a comparire. La motivazione dell'ordinanza, a parere della difesa, trascura di considerare l'esito accertamento cui è pervenuto il sanitario incaricato d'ufficio che ha giudicato le precarie condizioni di salute dell'imputato, idonee a destare un allarme attuale, prescrivendone il ricovero e sconsigliando di sottoporlo a stati emozionali, tanto che lo stesso Procuratore generale aveva ritenuto l'impedimento come assoluto e la necessità di rinviare l'udienza. Anche alla successiva udienza, del 22 febbraio 2023, a fronte della comunicazione nella quale veniva rappresentata la volontà dell'imputato di presenziare, ma la sua impossibilità per ragioni di salute in quanto ricoverato presso il reparto cardiologia dell'ospedale San G con allegata certificazione medica, la Corte di assise di appello non riteneva legittima l'assenza dell'imputato ma rinviava, comunque, l'udienza disponendo che il sanitario che attualmente aveva in cura il paziente, facesse pervenire relazione sanitaria onda indicare le patologie, l'esito degli esami strumentali e dettagliata diagnosi e prognosi, nel caso di avvenuta dimissione le prescrizioni consigliate al paziente. Da ultimo, per l'udienza del giorno 8 marzo 2023, veniva inviata dai Carabinieri relazione contenente la dichiarazione dell'imputato di non presenziare all'udienza, a causa della sua patologia e di uno stato di malessere. La difesa produceva memoriale, a firma dell'imputato, con il quale chiedeva di essere assistito da personale medico infermieristico idoneo per partecipare al processo in condizioni di tranquillità per la sua salute, anche in considerazione del malessere, accusato nei giorni precedenti, che lo aveva costretto a ricovero ospedaliero, nonché della relazione, redatta dal medico legale dottor Ta., nella quale il sanitario curante, rilevato che gli ultimi accertamenti eseguiti presso il presidio ospedaliero avevano confermato una situazione cardiaca peggiorata, riteneva che si trattasse di paziente ad alto rischio, al quale andava evitato ogni impulso emozionale quale la partecipazione all'udienza. La difesa chiedeva, quindi, rinvio per legittimo impedimento. Inoltre, si dava atto della relazione sanitaria pervenuta, come richiesta dalla Corte di assise d'appello, dalla AsI competente che rispondeva ai quesiti posti, in merito alla prognosi, in assenza di trapianto cardiaco, circa l'esito sfavorevole senza indicare una tempistica di decesso. Si indicavano per le condizioni del malato, l'esistenza di un rischio di scompenso ricorrente e refrattario, motivo per cui la prognosi era indicata come gravata da un rischio di morte elevato. Quanto alle possibilità terapeutiche, veniva indicato il trapianto cardiaco come unica possibilità di sopravvivenza. La difesa, quindi, deduceva l'impossibilità assoluta a comparire e partecipare pienamente al processo e chiedeva rinvio per legittimo impedimento. La Corte territoriale emetteva ordinanza di rigetto osservando che non poteva considerarsi assoluto l'impedimento derivante da una patologia cronica, essendo necessario, per essere ritenuto assoluto, che l'impedimento fosse riferito a una situazione oggettiva, non ascrivibile all'imputato né dallo stesso dominabile o contenibile. Inoltre, si escludeva che la situazione cardiaca fosse peggiorata come risultante dalla relazione del sanitario Ta., per l'assenza di allegazione della cartella clinica e dell'esito degli esami strumentali e diagnostici eventualmente eseguiti. Si segnalava, inoltre, che la Corte aveva consentito all'imputato di raggiungere l'udienza libero e senza scorta, con facoltà ad assumere ogni opportuna cautela per prevenire o contenere stati emozionali, con eventuale negativa incidenza sullo stato di salute del soggetto. Si tratta di motivazione che non sì confronta, a parere della difesa, con l'elevato rischio morte accertato dai medici dell'Asl. Inoltre, lo stesso presidente del Collegio, all'udienza del 22 febbraio 2023, aveva manifestato l'esigenza di un doveroso accertamento di ufficio sulle condizioni di salute dell'imputato per poi ometterne l'esecuzione. Si contesta, inoltre, che non è stato disposto l'accompagnamento con medico legale al seguito, cautela che avrebbe almeno garantito adeguato presidio sanitario, in caso di improvviso aggravamento delle condizioni di salute dell'imputato. Si richiama giurisprudenza di legittimità che ha dichiarato nullo il giudizio di appello per inosservanza degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod, proc. pen., in base alla certificazione acquisita che, pur non attestando l'impossibilità assoluta di deambulare, era comunque relativa a condizioni di salute tali da integrare un legittimo impedimento a partecipare all'udienza, tenuto conto, in quel caso, che il dolore toracico e gli episodi di ipertensione, riscontrati in persona affetta da cardiopatia ischemica cronica, sono stati considerati stato morboso che incide sullo stato di salute e non permette la partecipazione al processo (Sez. 6 rv. 220247). Si richiama inoltre giurisprudenza secondo la quale ai fini del legittimo impedimento non rileva solo l'incapacità di recarsi fisicamente in udienza, ma anche quella di partecipare attivamente al processo, per l'esercizio costituzionale del diritto di difesa. Sicché una volta che si accerti l'impossibilità della partecipazione intesa in questo senso, al giudice corre l'obbligo di rinviare il dibattimento per il tempo necessario a che la causa impeditiva venga a cessare (Sez. 3, n. 10482 del 2016; Sez. 4, n. 25424 del 2020). In definitiva, la difesa si duole del fatto che il 15 febbraio 2023 i giudici, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Procuratore generale di riconoscere la legittimità dell'impedimento, hanno ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità della condizione invalidante, la necessità del ricovero, l'inopportunità della sottoposizione del paziente a stati emozionali, disponendo procedersi oltre in assenza. Ancora, si rileva che, all'udienza del 22 febbraio 2023, nonostante il documentato ricovero dell'imputatola Corte territoriale, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, non riconosceva la legittimità dell'impedimento ma disponeva rinvio, inoltrava richiesta al medico curante di Mi.Gi., senza chiedere una specificazione in ordine alla capacità del paziente a recarsi in giudizio, riservandosi di disporre un accertamento di ufficio, cioè anticipando la necessità di una perizia, mai effettivamente svolta. Da ultimo, il Collegio pur avendo a disposizione i chiarimenti al medico curante, dai quali si doveva ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio morte improvvisa, reiterava le precedenti ordinanze disponendo procedersi oltre pronunciando sentenza. Tanto, avendo autorizzato l'imputato a recarsi personalmente senza scorta all'udienza e con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza da parte del Collegio giudicante dei gravi rischi connessi alle condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare quali cautele dovessero essere ritenute idonee a prevenire e contenere questi stati emozionali, onde consentire a Mi.Gi. di partecipare attivamente e all'udienza, con pienezza delle sue facoltà psicofisiche. 2.2.2. Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per vizio di motivazione, in relazione alla violazione degli artt. 178 lett. c) cod. proc. pen. e 420-ter cod. proc. pen. La difesa con il primo motivo di appello aveva eccepito la nullità relativa alla declaratoria di assenza dell'imputato e dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avevano determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma in realtà alcuna formale rinuncia era stata prodotta, per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta, il rifiuto di trasporto a causa dell'incombente pericolo comportato dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. Alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, Mi.Gi. aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia, pur avendo preso atto delle esigenze implicate dalle condizioni di salute dell'imputato e dalla relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al nucleo traduzioni. La difesa assume che l'onere di assicurare la partecipazione, piena, effettiva e cosciente, dell'imputato al processo non è onere che riguarda il nucleo traduzioni, tanto che il Comandante del Nucleo comunicava alla Corte di non essere in grado di valutare le condizioni di salute del detenuto, chiedendo l'autorizzazione ad accertamenti direttamente tramite l'Ufficio di medicina legale della AsI di competenza, al quale inoltrare la richiesta anche per il trasporto a mezzo ambulanza ove ritenuta necessaria. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, rilevato che era stato disposto il trasporto senza ambulanza quindi con mezzi ordinari, rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con rischio di morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si rileva che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte territoriale, per valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tale iter la Corte di assise di appello ha ritenuto di escludere che nel giudizio di primo grado fosse documentato un effettivo stato di infermità dell'imputato. Si tratta di affermazione contraddetta dalla documentazione versata in atti. Nel fascicolo del dibattimento del primo grado invece era presente tutta la documentazione clinica depositata dalla difesa dalla quale emergeva la gravità del quadro patologico dell'imputato, l'attuale e imminente rischio di morte improvvisa, certificati da molteplici autorità sanitarie. In particolare, il giudice per le indagini preliminari in fase cautelare aveva disposto l'incompatibilità del di indagato con il regime carcerario e la misura cautelare della custodia domiciliare. 2.2.3. Con il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione di Mi.Gi. quale mandante. Nell'ambito del presente procedimento hanno rilasciato dichiarazioni diciassette collaboratori di giustizia ma l'unico che collega alla fase deliberativa la persona dell'imputato è Gu.Ro.. Questi ha riferito che, nell'incontro presso il covo del clan Am.-Pa. con Ri.Ma., per ottenere il nulla osta all'esecuzione dell'omicidio era presente anche Mi.Gi. il quale sapendo che Ma.Pa. aveva chiesto di poter interloquire con i vertici del sodalizio, aveva suggerito di commettere l'omicidio dopo questo incontro. Tuttavia, Ri.Ma. avrebbe preso in disparte Gu. intimandogli di non badare a quanto detto da Mi.Gi., così estromettendolo dalla discussione e prendendosi, in prima persona, la responsabilità in esclusiva dell'ideazione del piano omicidiario. L'imputato rimasto estraneo, quindi, al colloquio tra Gu. e Ri.Ma., era all'oscuro delle decisioni assunte dal capo essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del gruppo presso il covo onde avere un colloquio chiarificatore. Si riportano a p. 20 e ss. stralci delle dichiarazioni rese da Gu. al dibattimento, in data 15 settembre 2021, all. 12. La circostanza che viene riportata in sentenza secondo la quale Mi.Gi. non voleva condizionare la decisione di uccidere all'esito dell'incontro con Ma.Pa. ma che questa decisione era stata assunta, dovendosi attuare solo dopo questo incontro chiarificatore, per la difesa è frutto di un'interpretazione soggettiva fatta comunque dal collaboratore Gu.. In particolare, tra i capi del gruppo Am.-Pa., nell'ottobre del 2010, il dichiarante nomina esclusivamente Ri.Ma. e Ce.Ca. ci. '71 senza menzionare Mi.Gi.. In seconda battuta, invece, l'imputato viene indicato come consigliere di Ri.Ma.. La difesa, però, sostiene che, secondo le emergenze processuali, Ri.Ma. era unico vertice del clan, che non emerge alcun ruolo di consigliere rivestito da Mi.Gi., non essendo questi mai stato condannato per aver rivestito un ruolo di vertice, come promotore o organizzatore dell'associazione. Il nullaosta per uccidere Ma.Pa. proveniva da Ri.Ma., in quanto si trattava dell'unica persona che poteva deliberare una decisione del genere. In ogni caso, si sostiene che, nel momento in cui il Gu. si era allontanato dall'abitazione di Mi.Gi., questi era rimasto del tutto all'oscuro circa le determinazioni assunte da Ri.Ma. e che, anzi, l'imputato era rimasto nella convinzione che Ma.Pa. sarebbe stato condotto da loro per essere ascoltato in merito alle rivendicazioni nei confronti del clan. Si rimarca che si era dedotto, con i motivi di appello, che non vi fosse prova della presenza di Mi.Gi. all'incontro tra Ri.Ma. e Gu., secondo il narrato di Ce.Ca. reso nel corso dell'interrogatorio reso in data 28 luglio 2014 (di cui si riportano stralci da pagina 24 e ss. del ricorso). Ce.Ca., peraltro, è elemento di vertice del sodalizio e in stretti rapporti con il capo Ri.Ma.. Questi è stato presente all'incontro deliberativo e ha affermato la presenza, a quell'incontro, del solo Ri.Ma., risultando testimone del nullaosta rilasciato da quest'ultimo a Gu. per l'esecuzione dell'omicidio. Peraltro, si sostiene nel ricorso che l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu., dall'altra, è sicuramente lo stesso e che, quindi, se effettivamente Mi.Gi. fosse stato presente a quell'incontro, Ce.Ca. non avrebbe esitato a riferirlo. A tali rilievi, devoluti con l'atto di gravame, la Corte di assise di appello ha risposto ritenendo che Ce.Ca. non era stato dettagliato perché non era stato richiesto dagli inquirenti quali fossero gli altri soggetti presenti. Su tale punto la difesa evidenzia che, invece, l'oggetto dell'interrogatorio riguardava l'indicazione degli appartenenti al clan che avevano preso parte alla deliberazione omicidiaria, dettagliando i ruoli, il grado di partecipazione e ogni altro elemento utile a individuare i responsabili. Non si comprende, quindi, come mai Ce.Ca., considerato braccio destro di Ri.Ma., nonostante la sua presenza alla richiesta di nullaosta all'omicidio avanzata da Gu., non abbia fatto riferimento a qualsiasi tipo di apporto di Mi.Gi.. A fronte di tale dubbio la motivazione della Corte di assise di appello, per la difesa, si presenta superficiale ed elusiva, senza confrontarsi adeguatamente con le contraddizioni concernenti la prova della partecipazione alla deliberazione del delitto da parte di Mi.Gi.. 2.2.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alla valutazione di attendibilità soggettiva di Va.An. e alla idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. La difesa sottolinea che il procedimento a carico dell'imputato originariamente archiviato è stato riaperto nel 2019 a seguito delle dichiarazioni rese da Va.An. nel corso delle indagini che lo vedevano indagato per altri titoli di reato e che riguardavano il suo coinvolgimento inconsapevole nell'omicidio di Ma.Pa.. Si tratta di dichiarazioni che hanno costituito l'unico elemento di riscontro alle affermazioni di Gu., a carico di Mi.Gi.. Le motivazioni di merito, a parere del ricorrente, non avrebbero valutato la credibilità soggettiva di Va.An. e la Corte di assise di appello offrirebbe di tali dichiarazioni, una lettura parcellizzata e parziale. Si richiama altra pronuncia della Corte di appello di Napoli nella quale Va.An. è stato considerato meritevole delle circostanze attenuanti generiche escludendo la circostanza attenuante della collaborazione ritenendo che alcuna collaborazione concreta e fattiva fosse stata assicurata ed escludendo un apporto significativo da parte del medesimo Va.An. per catturare gli autori del reato e per ricostruire le vicende criminose ed illecite del clan. Secondo il difensore, poi, la credibilità soggettiva di Va.An. rispetto alle accuse a carico dell'odierno ricorrente sono caratterizzate addirittura dal richiamo a circostanze che si sono rivelate false. Le prime dichiarazioni, rese nell'immediatezza dei fatti, non avevano espresso alcuna affermazione di coinvolgimento di Mi.Gi.. Solo a distanza di nove anni, nel corso dell'interrogatorio avente ad oggetto altre attività delittuose, Va.An. ha precisato che gli era stato detto da St.Ra., da parte di Mi.Gi., di prelevare Ma.Pa. e di portarlo a M nel covo del clan perché Ri.Ma. gli voleva parlare. Infine, si sottolinea che solo nel corso del dibattimento Va.An. riferisce, per la prima volta, di una presunta interlocuzione diretta tra lui e Mi.Gi., nonché di una riunione, di 10 o 15 giorni precedenti all'omicidio, in cui Va.An. si sarebbe recato presso il covo di Ri.Ma., per rappresentare una richiesta di incontro da parte di Ma.Pa., riunione alla quale era presente anche Mi.Gi.. Tanto, rendendo una dichiarazione inconciliabile con quella di Gu. secondo la quale questi avrebbe appreso, per la prima volta, dell'omicidio in occasione dell'incontro col Ri.Ma. tenutosi il giorno precedente all'esecuzione. A fronte di tali critiche, le argomentazioni della Corte di assise di appello sarebbero contraddittorie perché, da un lato, l'episodio viene menzionato per avvalorare la credibilità di Va.An., dall'altro, rispondendo a specifica doglianza ci si limita ad affermare che il punto non è dirimente. Si riporta giurisprudenza di legittimità circa la frazionabilità del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e si rimarca che è stato accertato in dibattimento che Va.An. ha mentito proprio in relazione al coinvolgimento dell'imputato, avendo attribuito a Mi.Gi. la presenza e anche l'interlocuzione nel corso di una riunione avente ad oggetto circostanze rilevanti nella ricostruzione del piano omicidiario, riunione risultata mai avvenuta e, quindi, palesandosi una falsità della dichiarazione incidente sicuramente sulle altre parti del narrato. Peraltro, si rimarca che lo stesso Va.An. in dibattimento avrebbe affermato che tutto quanto ha preso sulla fase deliberativa, organizzativa, esecutiva del delitto era avvenuto tramite St.Ra.. Del resto, la riunione con i vertici del sodalizio sarebbe stata smentita dagli altri collaboratori che sono indicati come presunti partecipi oltre a Mi.Gi.. Infine, si rimarca che quand'anche Va.An. avesse ricevuto direttamente da Mi.Gi. l'incarico di andare a prelevare la vittima, lo stesso Mi.Gi. era risultato all'oscuro, anche secondo le dichiarazioni di Gu., delle determinazioni assunte da Ri.Ma. di uccidere Ma.Pa. nel tragitto per arrivare al covo del clan. Si esclude pertanto che si sia raggiunta la cosiddetta convergenza del molteplice, difettando un riscontro esterno e individualizzante in relazione alla partecipazione di Mi.Gi. alla riunione deliberativa dell'omicidio con il ruolo di mandante. Anzi, l'unico collaboratore che ne assume la presenza resterebbe Gu., smentito addirittura, su tale punto, da quanto dichiarato da Ce.Ca.. 2.2.5. Con il quinto motivo,si denuncia inosservanza dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione istruttoria in appello. La difesa, al fine di risolvere i censurati contrasti tra dichiarazioni dei collaboratori, aveva avanzato istanza di rinnovazione istruttoria procedendo a nuovo esame di Gu. e Va.An.. Secondo la sentenza di primo grado, Gu. avrebbe interloquito con Ri.Ma. sulla questione in più occasioni e con la presenza di persone diverse. Si tratta però di ricostruzione smentita da Ce.Ca. che afferma chiaramente di essere stato presente alla richiesta del nullaosta all'omicidio. La Corte di assise di appello, invece, secondo la difesa, si limita a sostenere che Ce.Ca. non avrebbe elencato tutti i presenti all'incontro perché tale circostanza non gli era stata richiesta. La rinnovazione dell'esame dibattimentale, secondo la difesa avrebbe consentito di comprendere per quali ragioni Va.An. avesse raccontato di un incontro, antecedente e propedeutico all'omicidio, smentito dagli altri partecipanti, onde verificare se tali dichiarazioni fossero state frutto di una deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di mera fallacia del ricordo. Quindi sarebbe stato anche utile l'esame per comprendere se le parole attribuite a Mi.Gi., il giorno dell'omicidio, gli erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta. Invece, la Corte di assise di appello non ha instaurato il contraddittorio tra le parti per interloquire sul punto e ha omesso di pronunciare la relativa ordinanza dibattimentale, in violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen., rispondendo con motivazione apparente, senza giustificare la conclusione di superfluità e di irrilevanza della richiesta rinnovazione istruttoria. 2.2.6. Con il sesto motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 81, comma secondo, cod. pen. e vizio di motivazione circa il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati contestati e quelli giudicati con sentenza definitiva del 15 aprile 2015. Nei motivi di appello la difesa aveva chiesto, in via gradata, l'applicazione della continuazione tra i reati contestati e quelli oggetto della sentenza della Corte di appello di Napoli dell'I 1 giugno del 2013, divenuta definitiva in data 15 aprile del 2015, depositata nel corso del giudizio di primo grado, con la quale l'imputato era stato condannato per partecipazione ad associazione denominata clan Am.-Pa. e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, già riconosciuta la continuazione con precedente condanna emessa dalla Corte di assise di appello di Napoli. A tal fine si era rappresentato che l'omicidio commesso in danno di Ma.Pa. non era un evento occasionale ed estemporaneo ma costituiva fedele e coerente esecuzione del programma criminoso del sodalizio, potendo considerarsi preordinato, nelle sue linee essenziali, fin dall'inizio tenuto conto che l'associazione aveva di mira l'obbligo di omertà tra gli associati e che, invece, Ma.Pa. aveva dimostrato di voler violare il patto di omertà. L'eliminazione fisica dell'associato che commette o minaccia di commettere tradimento al patto originario, non può che essere considerato un'eventualità prevedibile, compresa nel programma fin dall'inizio elaborato. La motivazione della Corte territoriale, invece, sostiene che la difesa non ha indicato alcun elemento dimostrativo dell'ideazione dell'omicidio già al momento dell'adesione di Mi.Gi. al clan. A tal fine la difesa evidenzia che, secondo la giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente l'unicità del disegno criminoso è sufficiente l'accertamento di una rappresentazione preventiva della serie di reati come facenti parte di un unico programma, anche se le singole fattispecie possono costituire l'aspetto esecutivo solo eventuale di questo programma, perché legate allo svolgimento dei fatti così come si sarebbero potuti verificare. 3. Le difese hanno fatto pervenire tempestive richieste di trattazione orale, ex art. 23, comma 8, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, quanto alla disciplina processuale, in forza dell'art. 1 del D. L. 1 aprile 2021, n. 44, come convertito, nonché dall'art. 16, comma 1 e 2,D.L. 30 dicembre 2021 n. 228, convertito dalla legge n. 15 del 25 febbraio 2022. All'odierna udienza, all'esito della discussione, le parti presenti hanno concluso nel senso riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Gli atti di impugnazione sono infondati. 2.Il ricorso proposto con atto a firma dell'Avv. L. Pe. è infondato. 2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Si contesta violazione e falsa applicazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. Per la difesa, la sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione e, comunque, da travisamento della prova, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso di persona nei reati da parte dell'imputato. Si contesta, inoltre, violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per asserita non conformità della motivazione ai criteri interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U, ricorrente Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. Vi sarebbe, come utile elemento a carico, a parere della difesa, solo la dichiarazione accusatoria di Gu.Ro. e il narrato di Va.An., risultando le altre fonti dichiarative relative solo a circostanze di contorno e si contesta, comunque, il giudizio sulla loro credibilità soggettiva. Circa la dedotta carente valutazione della credibilità soggettiva di Gu., il Collegio osserva che si tratta di dichiarante diretto perché partecipe nella veste di esecutore materiale all'omicidio Ma.Pa.. Tale giudizio è espresso (cfr. p. 19 e ss.), nella sentenza di secondo grado, con ragionamento completo e ineccepibile, affermando che il ruolo apicale di Gu. non era mai stato messo in discussione nemmeno dalla difesa con l'atto di appello, che la sua capacità di interloquire anche per gli omicidi del clan, con i vertici del sodalizio, tra cui annoverava anche il ricorrente, era emersa senza contestazioni, rimarcando peraltro l'assenza di specifica deduzione quanto all'esistenza di ragioni di astio, rancore e vendetta da parte di Gu. verso l'imputato, trattandosi, in ogni caso, di reato di omicidio per il quale erano stati già condannati, come esecutori materiali, lo stesso Gu., Ma., Gr.Al., nonché Ri.Ma., Ce.Ca. e Pa.Ma. nella qualità di mandanti. Circa la dedotta mancata verifica della credibilità soggettiva di Va.An., a fronte delle evidenziate contraddizioni del narrato tra ciò che è stato dichiarato dal collaboratore nelle indagini e quanto riferito, nove anni dopo, prima in sede di interrogatorio reso al Pubblico ministero il 27 marzo 2019 (acquisito agli atti) e, poi, al dibattimento, il 23 novembre 2021, come da verbale allegato in ossequio al principio di autosufficienza, questo Collegio osserva che i giudici di secondo grado non si sono sottratti a tale esame (cfr. p. 23 e ss.). Va.An. viene indicato, con ragionamento completo e privo di contraddizioni, come affiliato al gruppo degli Am.-Pa. dal 2004, braccio destro di St.Ra., gestore delle piazze di spaccio delle ed.(Omissis). Questi, secondo la motivazione lineare e priva di illogicità manifesta della Corte territoriale, ha raccontato, conformemente al narrato di Gu., dei partecipi all'azione di fuoco dalla parte del clan della Gr.Vi., ha riferito della genesi dell'agguato e dell'insoddisfazione di Ma.Pa. nutrita verso i vertici di tale fazione, manifestata proprio a Va.An. chiedendo a quest'ultimo e a St.Ra. di poterne parlare direttamente con Ri.Ma.. Lo stesso Va.An. ha ricordato, secondo i giudici di secondo grado, dell'accordo siglato, tra gli Am.-Pa. e Gu., per uccidere Ma.Pa. approfittando della richiesta di incontro che proprio Ma.Pa. aveva fatto arrivare, tramite Va.An., ai vertici della fazione Am.-Pa., riportando una dinamica dei fatti che i giudici di merito hanno reputato convergente, con ragionamento immune da illogicità manifesta, con le risultanze investigative acquisite. Va.An., peraltro, secondo i giudici di secondo grado, racconta di due incontri, un primo, avvenuto in M, al quale aveva partecipato Mi.Gi. (assieme a Ce.Ca., Ri.Ma., Gu. e Ma.: cfr. p. 24), un secondo, verificatosi dopo circa dieci - quindici giorni. In quest'ultima occasione, secondo la ricostruzione recepita dalla sentenza impugnata, Va.An. aveva accompagnato St.Ra. a M e mentre lo stava aspettando in auto, fuori al garage di Sa. (detto An. il chiattone), si era sentito chiamare da St.Ra. che, in quel momento, a sua volta, stava parlando con Mi.Gi., dicendo che doveva andare a prendere Ma.Pa. per portarlo da loro, circostanza sulla quale proprio Mi.Gi. aveva insistito. La Corte di assise di appello, peraltro, con ragionamento non manifestamente illogico, reputa coerente con la dinamica dei rapporti interni ai due gruppi che Va.An. abbia riferito pochi particolari sul mandato omicidiario, trattandosi di fase organizzativa alla quale questi era rimasto estraneo. La Corte territoriale, in ogni caso, ha risposto (cfr. p. 26) alla deduzione svolta dall'appellante circa la presunta contraddittorietà delle dichiarazioni di Va.An., con ragionamento completo e non manifestamente illogico, dunque non censurabile nella presente sede di legittimità. Va.An., in definitiva, sin dal primo momento, secondo la ricostruzione convergente dei provvedimenti di merito, ha ricondotto anche all'odierno ricorrente l'incarico di andare a prelevare Ma.Pa. e la Corte territoriale reputa coerente che la scelta sia ricaduta proprio su Va.An., in quanto affiliato agli Am.-Pa., risultando persona di cui Ma.Pa. si sarebbe potuto fidare. Circa la non decisività dell'eccezione relativa alla carenza di riscontri (da parte di Ce.Ca. e Gu.) alle dichiarazioni di Va.An. riguardo alla seconda riunione descritta, la Corte territoriale, poi, a p. 27 della pronuncia, rende adeguata spiegazione, con ragionamento lineare e logico che, dunque, in questa sede non può essere rivisitato. Quanto all'eccezione relativa al diverso giudizio svolto, in altro procedimento, sul peso della collaborazione di Va.An., si osserva che le conclusioni cui giunge la Corte territoriale risultano in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità secondo il quale (tra le altre, Sez. 1, n. 8799 del 23/01/2018, dep. 2019, Petruolo, Rv. 276166) il giudizio di credibilità del dichiarante e di attendibilità delle dichiarazioni deve essere l'esito di una motivata valutazione autonoma del giudicante e non può essere soddisfatto dal mero rinvio a quanto avvenuto in separati procedimenti che si risolva in un acritico recepimento di valutazioni operate da altri giudicanti. Circa la dedotta carenza di riscontri esterni alla chiamata in correità di Gu., si osserva che già la sentenza di primo grado (come, poi, quella impugnata), sottolineava come lo stesso Gu. non avesse affermato che solo Ri.Ma. era d'accordo all'uccisione di Ma.Pa.. Anzi, si era sottolineato che la direttiva, impartita da Ri.Ma. di uccidere la vittima designata mentre lo andavano a prendere per portarlo al covo, riguardava solo il momento e le modalità dell'omicidio. Gu., infatti, aveva precisato che all'eliminazione di Ma.Pa. era d'accordo anche l'imputato il quale, presente in quel momento, aveva soltanto espresso la proposta, quanto alle modalità esecutive, prima di sentirlo e, poi, di ucciderlo, inquadrando l'omicidio in un più ampio contesto, cioè in un accordo tra gli Am.-Pa.e la fazione della V. In definitiva, secondo le convergenti motivazioni delle sentenze di merito (nel senso che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 - 01), il ricorrente aveva dato l'ordine a Va.An., assieme a St.Ra., di andare a prendere Ma.Pa. e, comunque, aveva partecipato alla deliberazione dell'uccisione solo esprimendo, quanto alla concreta modalità di esecuzione, la preferenza che a tale epilogo si giungesse dopo l'audizione della vittima designata e non durante il tragitto, come disposto da Ri.Ma.. Peraltro, anche rispetto all'asserita omessa indicazione, da parte di Ce.Ca., della presenza di Mi.Gi. alla riunione, svoltasi alla presenza del collaboratore Ce.Ca., in cui Gu. aveva chiesto a Ri.Ma., nel covo di M degli Am.-Pa., l'autorizzazione a compiere l'agguato, la Corte territoriale rende una giustificazione (Ce.Ca., per i giudici di secondo grado, avrebbe riferito soltanto in relazione alla propria posizione) immune da illogicità manifesta che la difesa attacca con ragionamento in fatto che pretenderebbe, comunque, la rivisitazione della deposizione di Ce.Ca., operazione inibita al Giudice di legittimità. Con riferimento alle dichiarazioni di Pa.Ma., individuate dalla difesa ricorrente quale riscontro non utile per circolarità della fonte, si osserva che Pa.Ma., secondo la parte della deposizione riportata dalla difesa, ha affermato, in più punti, che quanto riferiva era stato appreso dal suo clan, non dallo stesso Gu. ("dal mio clan, dai miei capi"). Inoltre, la difesa riporta, nel ricorso, stralci del verbale di dichiarazioni, rese in data 15 settembre 2021 (verbale che si allega al ricorso per l'autosufficienza), anche se il dichiarante sembra concludere nel corso del controesame, o almeno nello stralcio riportato dalla difesa, di un ordine arrivato da Ri.Ma.. Va anche precisato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che il Collegio richiama in quanto condivisibile (Sez. 1, n. 34712 del 02/02/2016, Ausilio, Rv. 267528; Sez. 2, Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744), in tema di chiamata in correità, gli altri elementi di prova da valutare, ai sensi dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante, non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi a norma dell'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che essi siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria. Detti riscontri possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all'imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova "autosufficiente" perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (conf. Sez. 6, n. 45733 del 2018, Rv. 274151; Sez. 4, n. 5821 del 2004, dep. 2005, Rv. 231301; Sez. U, n. 20804 del 2013, Rv. 255143). Così delimitata la nozione di riscontro, si osserva che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha esaminato, puntualmente, elementi di fatto aventi tale spessore. A ciò si aggiunga che, pacificamente, questa Corte di legittimità considera che il riscontro utile, a mente dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., può provenire anche da dichiarazioni di altri collaboratori (tra le altre, Sez. 1, n. 41238 del 26/06/2019, Vaccaro, Rv. 277134; Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145) posto che ben possono plurime chiamate in reità o correità, anche de relato, rappresentare reciproco riscontro sul fatto e sulla sua riferibilità all'incolpato. Infine, si rileva che, con riferimento ai riscontri esterni alla chiamata di Gu.Ro., nulla viene rilevato con il motivo di ricorso, con riferimento al movente, circa il ritrovamento del biglietto, addosso alla vittima, relativo alle somme che pretendeva il Ma.Pa. (cfr. p. 19 della sentenza di primo grado, circostanza ribadita anche dalla sentenza di appello) e in ordine al contenuto di conversazioni captate, riportate nella sentenza di primo grado, oltre a tutte le risultanze di prova generica, quanto all'azione delittuosa, circa la dinamica dell'agguato, i veicoli utilizzati e, nel complesso, alle modalità di esecuzione, circostanze considerate di pieno conforto alle dichiarazioni eteroaccusatorie di Gu.. Infine, deve essere rimarcato che il travisamento della prova in caso di ed. doppia conforme affermazione di responsabilità, per essere ammissibile, secondo il costante indirizzo di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi, Rv. 258438) può essere dedotto con il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto, come oggetto di valutazione, nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Inoltre il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo, specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la decisiva forza dimostrativa del dato probatorio, fermi restando il limite del devolutum e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774), decisività che non si rinviene, nella specie, analizzando il complessivo ragionamento, non manifestamente illogico, dei giudici di merito. 2.2. Il secondo motivo è infondato. Si deduce violazione e falsa applicazione di legge penale, nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1, quanto al contributo concorsuale offerto da Mi.Gi.. Si deduce che non è stata data risposta a quanto devoluto con l'atto di appello, nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano, in ogni caso, alcun contributo di Mi.Gi. rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risultava conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha affermato, secondo il ricorrente, che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza dell'imputato, era stato Ri.Ma. a dargli il consenso a compiere l'omicidio. Anzi il ricorrente, presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva deciso, in maniera autonoma ed esclusiva, l'attuazione dell'omicidio. Del resto, per il ricorrente, il richiamo operato dalla Corte territoriale alle deposizioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il. sarebbe superfluo perché questi avevano riferito solo sulla (presunta) posizione verticistica dell'imputato. Su tale punto, il Collegio osserva che è noto l'indirizzo di legittimità secondo il quale il reato non può consistere nella mera intenzione e che "il disposto dell'art. 115 cod. pen. sulla non punibilità dell'accordo criminoso costituisce non altro che una applicazione dell'anzidetto principio generale: nel senso che, come non è rilevante la sola intenzione del soggetto monoagente per la configurabilità di un reato, così, di regola, non è rilevante l'intenzione rimasta nella fase di solo accordo tra più soggetti in ordine alla forma concorsuale nella commissione di un reato. Ma, appunto per la precisata limitazione alla sola fase intenzionale dell'accordo, si è ben fuori della previsione dell'art. 115 cod. pen. allorquando a quella fase siano seguiti, comunque, atti concreti a realizzare l'accordo" (cfr. Sez. 6, n. 36534 del 10/11/2020, Di Pancrazio, Rv. 280119 - 01, in mot.). Del resto, le Sezioni Unite di questa Corte, ricorrente Aquilina (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. cit.) hanno affermato il condivisibile principio secondo il quale non costituisce riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità de relato con cui si attribuisce all'accusato il ruolo di mandante di un omicidio l'esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto. Si osserva però, che le sentenze di merito non escludono in alcuna parte del loro ragionamento, lineare e logico, la convergenza da parte dell'imputato, con il proposito omicida pacificamente attribuito a Ri.Ma.. Queste segnalano, soltanto, che il ricorrente odierno aveva manifestato che la materiale eliminazione di Ma.Pa. doveva avvenire solo dopo averlo sentito, una volta che l'incaricato lo avesse condotto al cospetto di appartenenti agli Am.-Pa., nel covo di M. I giudici di merito a ciò aggiungono che era stato Ri.Ma. a prendere l'iniziativa di fare presente a Gu. che l'agguato doveva avvenire nel percorso che avrebbe condotto Ma.Pa. al covo, quindi durante tale tragitto (cfr. pp. 18 e 24 della sentenza di primo grado). Questo, invero, è un tema saliente quanto alla configurabilità del mandato omicidiario ascritto al ricorrente e che viene ribadito da entrambe le decisioni di merito, punto delle motivazioni che, in definitiva, il motivo di ricorso non affronta direttamente né con argomenti specifici, soffermandosi a valorizzare un solo segmento del narrato, quello nella parte in cui Gu.Ro. riferisce che Ri.Ma. lo aveva preso in disparte, alla presenza del Mi.Gi., ma senza che questi potesse sentire, per dirgli dell'eliminazione di Ma.Pa. durante il tragitto. In definitiva, osserva questo Collegio che, secondo i convergenti provvedimenti di merito i quali vanno, ovviamente, letti nel loro complesso, il consenso all'omicidio richiesto da Gu., proviene anche da Mi.Gi., secondo il narrato dello stesso Gu. (da eseguire dopo averlo portato al cospetto dei vertici del clan), ma è Ri.Ma. che fissa le modalità esecutive, momento e luogo dell'agguato (durante il tragitto, senza prima sentire le rimostranze di Ma.Pa., quando Va.An. era andato a prenderlo con il suo motorino per portarlo nel covo del gruppo). La difesa, poi, trascura il significativo dato, che risulta dalla sentenza di primo grado (cfr. p. 19), secondo il quale sarà lo stesso Gu., dopo l'agguato, a parlarne con Mi.Gi., nel covo di M, il quale quasi verrà rimproverato del fatto che la vittima designata avrebbe dovuto essere portata prima a parlare da loro. La pronuncia illustra anche che era stato spiegato a Mi.Gi. da Gu. che a decidere detta modalità era stato Ri.Ma., spiegazione alla quale il medesimo Mi.Gi. aveva annuito senza altro aggiungere. Su tale punto, si osserva, poi, che secondo i provvedimenti di merito le affermazioni del dichiarante Pa.Ma. confermano quanto esposto da Gu., posto che questi afferma di essere stato al corrente del fatto che Gu. era andato a M a parlare con i vertici del clan Am.-Pa., Ri.Ma. e Mi.Gi., per ricevere il consenso all'eliminazione di Ma.Pa., componente della Gr.Vi. e che questi minacciava di collaborare in quanto non soddisfatto dei suoi introiti. Tali circostanze che, secondo la difesa, lo stesso Pa.Ma. assume di aver appreso da Gu. sono però convergenti con il narrato di tutti gli altri dichiaranti che, quanto al movente, sono conformi a quanto affermato da Gu. (si veda quanto indicano le sentenze di merito essere stato riferito da Ac.An., Ma.) nel senso che, per l'omicidio, questi doveva avere il consenso dei vertici del clan Am.-Pa., tra cui, senz'altro, secondo i collaboratori di giustizia, doveva annoverarsi Mi.Gi.. Quindi, non manifestamente illogica è la motivazione della sentenza impugnata laddove afferma che non sarebbe stato possibile e, comunque, non coerente con il narrato di Gu., concludere nel senso che era stato Ri.Ma. ad escludere del tutto Mi.Gi. dalla decisione di eliminare Ma.Pa.. Circa la qualità del concorso, non solo morale, nella specie si ravvisa, come in modo ineccepibile hanno fatto i giudici di merito, anche il concorso materiale per avere Mi.Gi. organizzato l'agguato, concordando la strategia utile (mandando un insospettabile, Va.An., a prelevarlo) a fare in modo che Ma.Pa., nascosto in quanto latitante in un luogo noto a pochi, uscisse allo scoperto. Infine, si rileva con ragionamento che questo Collegio riporta anche alle residue doglianze esposte con il primo motivo di ricorso, che la difesa sollecita la rilettura di fonti di prova che allega e che, nel valutare singoli segmenti delle dichiarazioni accusatorie, in parte indicate come non riscontrate, non ne illustra, specificamente, la decisività ai fini di una diversa, più favorevole decisione per l'imputato, tenuto conto, peraltro, che le fonti dichiarative a carico, prese in considerazione dai giudici di merito, sono molteplici e che il riscontro, secondo la già citata giurisprudenza di legittimità, può essere rinvenuto anche nell'incrocio reciproco delle dichiarazioni eteroaccusatorie (cfr. Sez. 1, n. 46176 del 2018, Vaccaro, non massimata; Sez. U, del 29/11/2012, dep. 2013, ricorrente Aquilina, Rv. cit. secondo cui "la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore"). I rilievi, peraltro, sono, in parte, versati in fatto e, in parte, sovrapponibili ai motivi di appello cui la Corte territoriale, nel complesso, ha risposto con ragionamento ineccepibile e immune da illogicità manifesta anche in relazione ai dettagliati argomenti devoluti, in cui si prende in esame l'attendibilità estrinseca dei collaboratori, l'attendibilità intrinseca e i riscontri. Su tale punti, poi, si osserva in via generale, che il giudice di appello non deve prendere in esame, nel rispondere all'atto di impugnazione, ogni specifica argomentazione, purché svolga, come ha fatto nella specie la Corte di assise di appello, il complessivo giudizio, secondo i canoni interpretativi fissati da Sez. U, ricorrente Aquilina, sulle dichiarazioni dei collaboratori, secondo le prescritte cadenze argomentative che nella specie appaiono lineari ed immuni da illogicità manifesta e che, nel loro complesso, finiscono per risultare incompatibili con le censure dedotte con il gravame. Infine, si osserva che coerente, rispetto al canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, previsto dall'art. 533 cod. proc. pen., risulta la motivazione, sia nel contenuto che nella forma utilizzata dall'estensore. Il criterio di attribuzione della responsabilità, cui ha fatto ricorso la Corte d'assise di appello, si fonda, infatti, su parametri del tutto in linea con quello normativo di indispensabile valutazione della colpevolezza penale. Si tratta, come è noto, di parametro di verifica, obbligatoriamente prescritto dall'art. 533 cod. proc. pen. che, connesso alla presunzione di innocenza o non colpevolezza, richiede il superamento dell'oltre ogni ragionevole dubbio e non già la mera plausibilità o la semplice verosimiglianza, sia pur dotata di forte plausibilità, della ricostruzione adottata, così assicurando lo standard richiesto dal legislatore, in conformità all'art. 27 Cost. (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in mot.). Proprio in adesione a tale canone di giudizio, i giudici di appello hanno ragionato in termini di certezza della colpevolezza, senza accedere ad alcun dubbio, né ai fini del ritenuto concorso di persona nei reati, il ragionamento svolto procede in termini di mera verosimiglianza, criterio insufficiente all'affermazione di responsabilità, ma conclude per la penale responsabilità del ricorrente in termini di assoluta certezza. 2.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato. La Corte territoriale (cfr. p. 29) ha respinto la richiesta difensiva di esclusione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, dando conto con ragionamento ineccepibile, non manifestamente illogico, dei precedenti penali per fatti anche gravi (dal 2000 al 2004) dell'imputato e dell'incremento di pericolosità che quello sub iudice rappresenta, motivazione espressa che, dunque, si sottrae alle censure difensive perché conforme ai noti canoni interpretativi fissati in punto recidiva, da questa Corte di legittimità. Con precipuo riguardo alla recidiva si afferma, invero, che il giudice può adempiere all'onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell'aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all'art. 99 cod. pen. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130; Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341). 2.4. Il quarto motivo è infondato. La misura della pena complessiva e di quella irrogata a titolo di aumento ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio, in relazione ai reati satellite, nonché il diniego delle circostanze attenuanti generiche sono statuizioni che trovano esauriente e adeguata motivazione, in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità. Si valorizza, infatti, l'esistenza di precedenti penali e, quindi, si valuta la personalità dell'agente, nonché la specificità del fatto in contestazione rispetto alla quale, in più parti della motivazione della sentenza, si rimarca la consistente gravità. Quindi, la Corte territoriale ha dato conto, in più punti del complessivo dispiegarsi della motivazione, delle ragioni che sostengono le determinazioni sull'entità della pena irrogata anche per le singole porzioni di pena ex art. 81 cod. pen., non palesandosi siffatta commisurazione abnorme o ingiustificata. In tal senso, il richiamo alla gravità dei fatti soddisfa lo standard declinato dall'art. 133 cod. pen. (Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 , dep.2014, Waychey, Rv. 258410, N. 9120 del 1998 Rv. 211582) e giustifica, altresì, la negazione delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n.24995 del 14/05/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378, N. 45623 del 2013 Rv. 257425, N. 933 del 2014 Rv. 258011), trattandosi di un dato polivalente, incidente sui diversi aspetti della valutazione del complessivo trattamento sanzionatorio. Del resto, sotto il profilo dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen., dettagliatamente specificati dalla Corte territoriale anche quanto alla continuazione interna (cfr. p. 30), la censura non è specifica perché si limita al richiamo alla nota giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) secondo la quale in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, senza precisare la ragione della censura, tenuto conto dell'entità contenuta degli aumenti ex art. 81 cod. pen. e senza, specificamente, dedurre un (eventuale) carente rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati o un superamento dei limiti di legge. Peraltro, è noto che la sussistenza di circostanze attenuanti, rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen., è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di tal ché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in sede di legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6, n.7707 del 04/12/2003, dep. 2004, Rv. 229768; Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931), a condizione che la valutazione tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, n.23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172). In particolare, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente nemmeno lo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986; conf. n. 44071 del 2014 Rv. 260610). 2.5. Il quinto e sesto motivo sono infondati. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli, resa in data 11 giugno 2013 divenuta irrevocabile in data 15 aprile 2015 e con il sesto motivo, si deduce vizio di motivazione su tale punto. Il Collegio osserva che la motivazione sulla mancanza di allegazione circa la sussistenza del disegno criminoso tra reato associativo, al quale Mi.Gi. ha aderito sicuramente prima dell'omicidio risalente al 2010 (cfr. p. 29 della sentenza di secondo grado dove si dà atto, peraltro, che a carico di Mi.Gi. risulta altra sentenza di condanna per partecipazione ad associazione mafiosa, fatti commessi dal 2000 al 2004) è conforme ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di continuazione tra reato associativo e reati fine. Invero, è noto che grava sul condannato che invochi l'applicazione della disciplina del reato continuato, l'onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno, non essendo sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti e all'identità dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario, quanto di un'abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione degli illeciti (tra le altre, Sez. 1, n. 35806 del 20/04/2016, D'Amico, Rv. 267580). Del resto, la prova del medesimo disegno criminoso è stata esclusa dal giudice del merito con adeguata analisi (cfr. p. 28 della sentenza impugnata), estrinsecata attraverso una motivazione non manifestamente illogica, seppure succinta, ma immune da violazione di legge e coerente con i principi giurisprudenziali (Sez. 6, n. 4680 del 20/01/2021, Raiano, Rv. 280595; Sez. 5, n. 54509 del 08/10/2018, Lo Giudice, Rv. 275334; 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Am., Rv. 259481) secondo i quali non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al suo rafforzamento, non erano programmabili al momento dell'ingresso nel sodalizio, perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali. Non è manifestamente illogica la motivazione resa, sul punto, dalla Corte territoriale nella parte in cui valorizza la natura estemporanea della deliberazione omicidiaria, in quanto attuata nei confronti di un affiliato che manifestava dissenso perché si reputava mal "retribuito". Peraltro, si tratta di eliminazione descritta come utilizzata, secondo delle strategie del clan del tutto contingenti, per sugellare l'alleanza tra gli Am.-Pa.e la fazione della ed. V, vicende e dinamiche specifiche, sviluppatesi senz'altro in epoca successiva all'adesione di Mi.Gi. al sodalizio. Infatti, la complessiva prova raccolta, di cui hanno reso conto le sentenze di merito, ha fatto emergere che l'omicidio era stato deliberato anche come espressione di un patto tra le fazioni della ed. Gr.Vi. e gli Am.-Pa., quindi inserendo il fatto in un più ampio contesto di accordi interni tra le due costole dell'organizzazione camorristica, secondo dinamiche, alleanze e in base a uno scenario complessivo degli equilibri tra gruppi, senz'altro diverso da quello che si presentava al momento dell'affiliazione al clan di riferimento da parte di Mi.Gi.. A fronte di tale ricostruzione recepita nei provvedimenti di merito, quindi, la minaccia di pentimento che la difesa valorizza in via esclusiva, intendendola quale manifestazione evidente dalla violazione del patto di omertà insisto, naturalmente e in via generale, nella decisione di aderire a un sodalizio di stampo mafioso ex art. 416-bis cod. pen., resta sullo sfondo e non può essere valorizzata ai fini di reputare il giudizio di merito, svolto in punto continuazione tra i reati sub iudice e quelli oggetto di precedente giudicato, del tutto arbitrario o motivato con ragionamento viziato da illogicità manifesta, unico vulnus rilevabile in questa sede di legittimità. 3.Il ricorso proposto dall'Avv. R. Qu. è infondato. 3.1. Le eccezioni di nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché quella di nullità derivata della sentenza di appello, resa in data 8 marzo 2023, dedotta con il primo motivo di ricorso sono infondate. In ordine all'ordinanza del 15 febbraio 2023, la difesa si duole del fatto che la Corte di assise di appello, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Sostituto Procuratore generale di udienza di riconoscere la legittimità dell'impedimento a comparire dedotto dall'imputato per ragioni di salute, in base alla documentazione prodotta, ha ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità di condizioni invalidanti con necessità di ricovero e l'inopportunità della sottoposizione a stati emozionali, disponendo procedersi nell'assenza dell'imputato. L'esame dei verbali di udienza e delle ordinanze pronunciate all'esito, oggetto di impugnazione - preliminare e doveroso in ragione della natura delle eccezioni formulate (nel senso che, in materia processuale, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto e che, nella ricerca degli eventuali errores in procedendo, opportunamente denunciati con specifico motivo di ricorso, occorre verificare, ex actis, l'osservanza della legge processuale: Sez. U., n. 42792 del 31/10/2001, Rv 220092) - ha consentito di acclarare, quanto all'ordinanza in questione, che la certificazione sanitaria prodotta, in uno agli esiti dell'accertamento del sanitario pubblico, condotto ad horas, non hanno attestato condizioni di salute tali da rappresentare assoluto impedimento a comparire all'udienza del 15 febbraio 2023, come esposto con ragionamento non manifestamente illogico, dalla Corte territoriale procedente. Invero, è noto che l'art. 420-ter cod. proc. pen., nel disciplinare le conseguenze dell'impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, prevede, al primo comma, quando sia certo l'impedimento a comparire, che quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta all'udienza e risulta che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d'ufficio, rinvia ad una nuova udienza. Al riguardo questa Corte ha, da tempo, chiarito che l'assoluta impossibilità a comparire, derivante da infermità fisica dell'imputato, determinante il diritto al rinvio dell'udienza, a salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato, costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost., non va intesa come impedimento esclusivamente meccanico dell'imputato a fare ingresso nell'aula d'udienza, in quanto la facoltà di comparire, che è estrinsecazione dell'esercizio del diritto di difesa, implica che l'imputato sia in grado di presenziare al processo a suo carico in modo vigile e attivo (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913 - 01; Sez. 3, n. 47975 del 26/06/2012, Liccardo, Rv. 253991 - 01; Sez. 5, n. 15646 del 05/02/2014, Coviello, Rv. 259841 - 01). Tale impedimento deve essere ravvisato anche quando derivi da una malattia a carattere cronico o ingravescente, purché determini un impedimento effettivo, legittimo e di carattere assoluto, purché riferibile a una situazione non dominabile dall'imputato e a lui non ascrivibile, dunque incolpevole (Sez. 6, n. 39930 del 30/10/2001, Puzzo, Rv. 220247 - 01; Sez. 5, n. 39217 del 11/07/2008, Crippa, Rv. 242327 - 01; Sez. 3, n. 10482 del 15/12/2015, dep. 14/03/2016, Ingoglia, Rv. 266494 - 01). La patologia che costituisce legittimo impedimento ex art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., è, dunque, soltanto quella che impedisce fisicamente all'interessato di presentarsi all'udienza se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Rasile, Rv. 259287; Sez. 6, n. 11678 del 19/03/2012,, Bracchi, Rv. 252318), situazione cui la giurisprudenza ha assimilato quella che comporti la possibilità di presentarsi in udienza senza consentire, però, una partecipazione vigile e attiva (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913; Sez. 6, n. 12836 del 04/02/2005, Quistelli, Rv. 231720). Ai fini del legittimo impedimento, non possono assumere rilievo, per converso, patologie, anche gravi e fastidiose, che tuttavia consentirebbero all'interessato di presentarsi in udienza (Sez. 6, n. 4284 del 10/01/2013, G., Rv. 254896; Sez. 5, n. 44845 del 24/09/2013, Hrvic, Rv. 257133), né può rappresentare legittimo impedimento assoluto (cfr. Sez. 6, n 54424 del 27/04/2018, Calabro, Rv. 274680 - 07), la prescrizione di "riposo assoluto" (nel precedente citato si è ritenuto che il certificato medico che si limiti ad attestare la generica necessità di "riposo assoluto" non comporta l'impossibilità di partecipare all'udienza, trattandosi di prescrizione che non implica, in caso di mancata osservanza, il rischio di un danno o di un pericolo grave per la salute del soggetto). Si deve evidenziare, invero, che, nel caso in esame, la Corte di assise di appello ha dato atto non solo dell'esistenza di condizioni di salute croniche (Mi.Gi. risultava, all'epoca dell'accertamento, cardiopatico in lista di attesa per trapianto), natura della patologia, di per sé, non in grado di escludere il carattere assoluto dell'impedimento a comparire per ragioni di salute (Sez. 3, n. 6357 del 16/10/2018, dep. 2019, Santi, Rv. 275000 - 01) ma soprattutto che, alla visita praticata dal sanitario pubblico, non erano emerse patologie da ultimo lamentate e che, comunque, per quelle pregresse, il ricovero era stato consigliato per accertamenti e si era segnalata soltanto come non opportuna e quindi non interdetta in assoluto la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, peraltro soltanto genericamente indicati. Nel caso in esame, in ogni caso, la Corte territoriale, preliminarmente, ha dato atto della rinuncia a comparire dell'imputato (cfr. seconda pagina del verbale dell'udienza del 15 febbraio 2023). Quindi, la Corte d'assise di appello ha reso conto, a fronte della produzione di documentazione sanitaria attestante, secondo il difensore, l'impedimento a comparire per il giorno dell'udienza, che questa indicava l'esistenza di bronchite acuta in atto con affezione febbrile, senza indicazione del grado. Inoltre, detta documentazione, secondo quanto riportato nel verbale di udienza, ha attestato che il sanitario aveva prescritto riposo assoluto per dieci giorni, senza altro indicare circa la concreta impossibilità dell'imputato a presenziare. Sicché, risulta dagli atti che la Corte territoriale ha disposto l'accertamento ad horas, da parte di sanitario dell'ASI, competente per territorio. Emerge, inoltre, da quanto esposto dai giudici di secondo grado, che l'imputato, nel giorno dell'accertamento coincidente con quello di udienza, all'atto della visita condotta dal sanitario pubblico all'uopo officiato, non ha presentato lo stato febbrile indicato (con stato febbrile pari a 36 ), né è stato attestato dal sanitario che aveva eseguito l'accertamento, una condizione di impedimento assoluto a presenziare all'udienza. In particolare, si attesta che l'imputato è indicato come soggetto in lista di attesa per trapianto di cuore, con diagnosi di cardiopatia dilatativa post ischemica, soggetto ad ossigenoterapia al bisogno. Il sanitario ha dato conto di sintomi riferiti (all'atto della visita, notevole spossatezza, con difficoltà respiratoria, precordialgia con dolore irradiato alla spalla sinistra), precisando che si trattava di sintomatologia già presente nelle giornate precedenti, come da certificato del medico curante di Mi.Gi. che ne aveva richiesto il ricovero urgente in cardiologia per accertamenti, come consigliato, all'esito, anche dallo stesso sanitario pubblico, il quale ha precisato la mera inopportunità di sottoporre a stati emozionali l'imputato. Quindi, in linea con l'indirizzo interpretativo sopra riportato, l'ordinanza censurata, in modo ineccepibile, ha evidenziato che non erano risultate confermate le patologie dedotte da ultimo come contingente impedimento a comparire (bronchite con stato febbrile), che, comunque, la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, vista la pregressa patologia cardiologica, era stata indicata dal sanitario pubblico come non opportuna, ma non impedita assolutamente e che il ricovero era stato consigliato, sulla base di sintomatologia riferita, soltanto per svolgere accertamenti strumentali e clinici, così non considerando, con ragionamento non manifestamente illogico, l'impedimento dedotto come assoluto quanto alla comparizione in udienza. In relazione alla successiva ordinanza, del 22 febbraio 2023, la difesa rileva che la Corte di assise di appello, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, nonostante il documentato stato di ricovero dell'imputato, ha disposto il rinvio del dibattimento, inoltrando la richiesta di chiarimenti al sanitario che aveva in cura l'imputato, circa le sue condizioni di salute. Ciò, senza interessare il citato sanitario in ordine a chiarimenti relativi alla capacità di presenziare in giudizio, comunque, riservandosi, all'esito, di disporre un accertamento di ufficio - dunque anticipando la necessità di una perizia medica - accertamento, però, nel prosieguo mai disposto. Questo Collegio rileva che, nel caso al vaglio, deve riscontrarsi l'inammissibilità dell'eccezione formulata rispetto a tale ordinanza, posto che la Corte di assise di appello ha rinviato la celebrazione dell'udienza proprio per acquisire dettagliata relazione, attraverso il medico curante prof. Ta., avente ad oggetto la diagnosi e la prognosi, l'eventuale dimissione, la terapia adottata, le prescrizioni mediche disposte per il paziente (cfr. verbale di udienza del 22 febbraio 2023). Ciò, quindi, anche al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per procedere ad eventuale accertamento peritale. Orbene, rispetto a tale ordinanza che ha, comunque, disposto il rinvio del dibattimento, la difesa non illustra l'interesse all'impugnazione del provvedimento, unitamente alla sentenza, tenuto conto che, in quell'udienza sono stati disposti soltanto gli indicati accertamenti sanitari, onde acclarare le condizioni di salute dell'imputato, all'attualità con rinvio del dibattimento. Tanto, a fronte di certificazione attestante il ricovero in atto, ma indicata dalla Corte d'assise di appello, con ragionamento immune da illogicità manifesta, come generica quanto all'impossibilità del detenuto domiciliare. Risulta, infatti, allegata al verbale di udienza, certificazione dell'Ospedale San Giuliano in G, che, a fronte della cardiopatia dilatativa post ischemica già diagnosticata al paziente - risultando l'imputato ivi ricoverato in data 20 febbraio 2023 - aveva precisato, quanto alla trasportabilità di Mi.Gi., che questa non era "indicata" per le condizioni del paziente. Su tale ultimo punto, si osserva che è principio affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale è legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l'istanza di rinvio per impedimento dell'imputato a comparire sulla base di un certificato medico attestante il ricovero in ospedale, privo di indicazioni in ordine all'effettiva, assoluta impossibilità di comparire o, comunque, di partecipare lucidamente ed attivamente al processo (Sez. 5, n. 44317 del 21/05/2019, Bianculli, Rv. 277849 - 01; Sez. 6, n. 36373 del 04/04/2014, Casciello, Rv. 260614). Il mancato espletamento di perizia medico - legale, poi, da parte della Corte territoriale nel prosieguo, è questione genericamente dedotta e che, invero, attinge un potere discrezionale dell'Autorità giudiziaria procedente. Sul punto, si rimarca che è principio pacifico affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale, in tema di impedimento a comparire dell'imputato, è legittimo il provvedimento con il quale il giudice, acquisito il certificato medico prodotto dal difensore, valuti, anche indipendentemente da verifiche fiscali e facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, purché debitamente esposte nella motivazione, l'insussistenza di una condizione tale da comportare l'impossibilità per l'imputato di comparire in giudizio, se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 5, n. 44369 del 29/04/2015, Romano, Rv. 265819 - 01; Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Basile, Rv. cit., in cui la patologia certificata dal Pronto Soccorso consisteva in un attacco d'asma, con dimissioni disposte dopo 42 minuti dal ricovero, senza alcuna specificazione in ordine all'impossibilità di presentarsi in udienza). Quanto all'ordinanza resa all'udienza del giorno 8 marzo 2023, si osserva che, secondo la difesa, il Collegio procedente, pur avendo a disposizione i richiesti chiarimenti del medico curante dell'imputato, Prof. Ta., oltre a un memoriale depositato dal medesimo Mi.Gi., documenti dai quali si doveva necessariamente ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio di morte improvvisa, si procedeva in assenza, giungendo a pronunciare la sentenza che ha definito il secondo grado di giudizio. Tanto, limitandosi la Corte territoriale ad indicare di aver autorizzato l'imputato, detenuto agli arresti domiciliari, a recarsi in udienza libero e senza scorta, con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza, da parte del giudicante, di gravi rischi connessi alle peggiorate condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare le cautele idonee a prevenire e contenere detti stati emozionali, onde assicurare la partecipazione attiva al dibattimento, con pienezza delle facoltà psico-fisiche del soggetto. Questo Collegio osserva che, diversamente da quanto opinato con il ricorso, l'ordinanza resa dalla Corte di assise di appello rende conto della patologia cronica dell'imputato, che questi era stato dimesso in data 1 marzo 2013, rifiutando di sottoporsi a coronariografia. L'ordinanza evidenzia, inoltre, che non era risultato alcun aggravamento delle condizioni di salute accertate e che non era stata allegata documentazione sanitaria relativa all'intervenuto ricovero e agli esiti degli eventuali accertamenti svolti in quella occasione (cartella clinica e esito esami strumentali e diagnostici), precisando che unico fattore di rischio che si poteva ricavare dalla relazione sanitaria prodotta, era l'incidenza di impulsi emozionali idonei a determinare un eventuale peggioramento delle condizioni di salute, impulsi individuati, secondo la prospettazione difensiva, sic et simpliciter nella partecipazione al dibattimento. In definitiva, la Corte di assise di appello ha riscontrato, con ragionamento non manifestamente illogico, l'assenza di prova circa il dedotto impedimento assoluto a comparire, non risultando acclarato un peggioramento delle condizioni di salute di Mi.Gi., rilevando, peraltro, che unica - eventuale - causa di peggioramento di dette condizioni di salute veniva indicata nella presenza all'udienza, per la quale, in ogni caso, la stessa Corte territoriale aveva autorizzato il detenuto agli arresti domiciliari ad intervenire libero e senza scorta, Né risulta, specificamente, dedotta l'inosservanza di ogni opportuna cautela, di tipo sanitario, per prevenire l'eventuale incidenza negativa della comparizione rispetto alle condizioni di salute pregresse, in quanto non consentita o negata dall'Autorità giudiziaria procedente. 3.2. Il secondo motivo è infondato. La difesa eccepisce la nullità della sentenza per vizio di motivazione con riferimento al primo motivo di appello, con il quale si deduceva la nullità della declaratoria di assenza dell'imputato, dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avrebbero determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma che, in realtà, alcuna formale rinuncia era stata prodotta per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta il rifiuto alla traduzione a causa del dedotto, incombente, pericolo derivante dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. La difesa, poi, eccepisce che alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, l'imputato aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio, chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise, interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia a comparire, pur avendo preso atto delle esigenze di salute dell'imputato e della relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al Nucleo traduzioni. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, visto che ne era stata disposta la traduzione con i mezzi ordinari (senza ambulanza), rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con problemi di possibile morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si lamenta, infine, che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte di assise, onde valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tali articolate deduzioni, la Corte di assise di appello ha escluso l'eccepita nullità (cfr. p. 16 e ss. della sentenza di secondo grado). Questo Collegio osserva, in via generale, con riguardo all'art. 420-ter cod. proc. pen. che è noto che (Sez. U, n. 35399 del 2010, Rv. 247837-01; Rv. 247836-01 e Rv. 247835-01), nel giudizio ordinario, deve sempre essere assicurata, in mancanza di espressa rinunzia, la presenza dell'imputato. Sicché, in applicazione della norma generale citata, qualora l'imputato non si presenti e, comunque risulti o appaia probabile che la sua assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice anche d'ufficio deve disporre il rinvio della trattazione. La rinuncia a presenziare è indubbiamente un atto personale dell'imputato. Tuttavia, non sono previste formule sacramentali o ad substantiam actus. Spetta, piuttosto, al giudice di merito valutarne la forma, il contenuto e la sua provenienza (Sez. 1, n. 11943 del 12/01/2016, Nacci, Rv. 266616 - 01, in motivazione). Non si può, poi, prescindere dal legittimo e naturale affidamento che ciascuno può riporre sugli effetti e le conseguenze che derivano dal formale compimento di determinati atti o, in generale, da specifici comportamenti processuali delle parti. Regola siffatta vale vi è più, nel rapporto imputato-difensore. Infatti, lo stesso legislatore, consapevole della peculiarità del binomio processuale testé indicato, ha espressamente previsto l'estensione al difensore dei diritti dell'imputato, con l'unica eccezione che si tratti di posizioni giuridiche processuali riservate personalmente a quest'ultimo. Ogni possibile situazione di conflitto è, comunque, superabile riconoscendosi all'imputato il potere di togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore (art. 99 cod. proc. pen.), prima che sia intervenuto un provvedimento del giudice. Sicché, in modo ineccepibile i giudici di merito danno conto nei verbali delle udienze, di aver prestato affidamento sul contenuto della dichiarazione del difensore e sull'effettiva e fedele trasmissione della volontà del detenuto rappresentato con mandato fiduciario dal professionista presente in udienza, come da dichiarazione resa all'udienza del 12 settembre 2021 (cfr. p. 4 del verbale di udienza). Deve annotarsi come, nella specie, non si sia al cospetto dell'esercizio da parte del difensore d'una facoltà personalissima dell'imputato, volontà autonomamente espressa dal professionista nell'esercizio del potere di difesa tecnica ed in "rappresentanza" del titolare. Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il difensore si è limitato a comunicare il volere del suo assistito, senza porre in essere un atto rappresentativo in senso stretto, esternando una sua volontà che produce effetti nell'altrui sfera giuridica. In quella udienza (12 settembre 2021), infatti, rispetto all'interlocuzione delle parti, sollecitata dal Collegio circa l'interpretazione della volontà dell'imputato manifestata al responsabile del Nucleo Traduzioni come rinuncia a comparire, la difesa ha espressamente dichiarato : "va bene l'interpretazione che ne dà la Corte su questo la difesa non ha nulla da osservare solo chiede, come ha già indicato la Corte, di voler rappresentare questo problema all'autorità preposta perché ne faccia l'uso che ritiene ... che è necessario". Inoltre, si osserva che anche all'udienza del 12 ottobre 2021 (cfr. p. 4 del verbale stenotipico, circa l'intervento del difensore di fiducia, Avv. Qu.) risulta che la difesa presente ha esposto che la dichiarazione resa dall'imputato al Nucleo traduzioni doveva essere ritenuta quale rinuncia a comparire all'udienza. Del resto, secondo l'impostazione della giurisprudenza sovranazionale (cfr. sentenza Hermi c. Italia della Corte EDU) legittimamente, il giudice può ravvisare, interpretando il comportamento dell'imputato, la sussistenza di una rinuncia a comparire all'udienza. Su tale punto, questa Corte ha, altresì, chiarito (Sez. 2, n. 40846 del 9/10/2007, Ambrosino, Rv. 237961 - 01) che è legittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di rinvio dell'udienza, motivato adducendo l'intrasportabilità dell'imputato detenuto, se l'assenza di questi sia dipesa dal suo rifiuto alla traduzione predisposta, non giustificata da documentazione medica circa l'incompatibilità di detta traduzione con lo stato patologico lamentato. Ciò posto, si osserva che, con ragionamento non manifestamente illogico e completo, la Corte territoriale ha escluso che, nel giudizio di primo grado, sia emerso un documentato e comprovato stato di salute dell'imputato allegato, all'atto dell'esecuzione della traduzione disposta, per le udienze indicate, dall'Autorità giudiziaria procedente, tale da rendere assoluto il suo impedimento a comparire alle udienze. In ogni caso, si rileva che l'eccezione devoluta anche nella presente sede, non si confronta con il dato, emergente dalla complessiva motivazione della Corte di assise di appello e comunque, dai verbali del giudizio di primo grado, dai quale emerge che, nel corso del dibattimento di primo grado, la difesa, sollecitata a interloquire sulla questione relativa alla manifestazione della volontà dell'imputato quale rinuncia a comparire, nonché circa le modalità di traduzione dell'imputato all'udienza, nulla aveva eccepito ed anzi aveva confermato la rinuncia a comparire, intervenendo comunque chiedendo alla Corte d'assise di sollecitare gli organi competenti rispetto alle modalità di traduzione. La Corte territoriale, peraltro, rende conto che, a fronte delle varie comunicazioni provenienti dal Nucleo traduzioni alla Corte di assise (cfr. atti), non risultava idonea certificazione sanitaria, allegata dal detenuto agli arresti domiciliari circa condizioni di salute implicanti un impedimento assoluto a partecipare al processo, con riferimento ai giorni di udienza. Né a tale documentato stato specificamente dedotto per i giorni dell'udienza fa riferimento, specificamente, il ricorrente. Tanto, quindi, pur a fronte della già descritta patologia cronica che necessitava di intervento di trapianto, da cui l'imputato risultava affetto, patologia nota, come deduce il ricorrente, risultando il detenuto agli arresti domiciliari per la presente causa per ragioni di salute. 3.3. Il terzo motivo è inammissibile. La difesa denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione dell'imputato nella veste di mandante. In primo luogo, si deve richiamare la motivazione già resa in relazione ai primi due motivi del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., ai Par. 2.1. e 2.2. risultando, parte delle deduzioni svolte, corrispondenti a quelle proposte dal codifensore. In secondo luogo, si osserva che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (tra le molte altre, Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944). Il motivo, nel suo complesso, invero, richiede una rivalutazione delle dichiarazioni di Gu. che, in parte, riporta per stralcio e che allega (cfr. p. 20 e ss. del ricorso). Inoltre, la censura non tiene in conto che la motivazione convergente dei provvedimenti di merito annovera, secondo quanto riferito anche da altri collaboratori, diversi da Gu., tra i vertici del clan Am.-Pa., non solo Ri.Ma. e Ce.Ca. classe '71, ma anche Mi.Gi.. Peraltro, la difesa sottolinea un dato, quello dell'immediato allontanamento dell'imputato dal covo di M degli Am.-Pa., mentre la motivazione della sentenza di primo grado sottolinea che, dopo l'esecuzione, Gu. aveva incontrato Mi.Gi. in quella sede e che questi gli aveva contestato che la vittima designata non era mai arrivata al covo ("questo è perché lo dovevate portare qua"), contestazione alla quale Gu. aveva spiegato le direttive sulle modalità di esecuzione del delitto, ricevute dal Ri.Ma., rispetto alle quali lo stesso Mi.Gi. nulla aveva replicato annuendo. La difesa, poi, sollecita una diversa interpretazione, da parte di questa Corte, del silenzio serbato dal collaboratore Ce.Ca. rispetto alla circostanza della presenza di Mi.Gi. alla riunione (pur non espressamente negata) in senso favorevole all'imputato. Tale operazione è, come noto, inibita al Giudice di legittimità e, comunque, la censura non tiene conto del fatto che già il giudice di primo grado ha esposto, sulla base dell'esame del complesso delle fonti dichiarative, che più erano stati gli incontri preliminari all'omicidio di Ma.Pa. mentre, per la difesa, l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu. dall'altra, dovrebbe essere sicuramente lo stesso. 3.4. Il quarto motivo è infondato. Si lamenta vizio di motivazione in ordine all'attendibilità soggettiva di Va.An. e all'idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. Il Collegio osserva che si tratta di censure, in sostanza, corrispondenti a quelle svolte nel ricorso a firma dell'avv. L. Pe., nei motivi primo e secondo, sicché si richiamano tutte le argomentazioni già espresse ai Par. 2.1. e 2.2. Circa l'inattendibilità acclarata in altro procedimento, che peraltro nemmeno risulta in questo caso perché la Corte di appello, nel diverso procedimento richiAm., non si sofferma sull'inattendibilità o scarsa credibilità del narrato del dichiarante ma sulla specifica reticenza del racconto (cfr. p. 11 della sentenza della Corte di appello di Napoli del 3 dicembre 2020), la giurisprudenza di legittimità è nel senso che questa non vincola il giudizio di attendibilità e credibilità del chiamante in reità o correità in altro processo. Peraltro, in questo caso, si fa riferimento a sentenza di merito della quale non si precisa, con il ricorso, se si tratti di provvedimento divenuto definitivo. In ogni caso, si osserva che della prima riunione, deliberativa dell'omicidio, la Corte di assise nemmeno tiene conto, in modo decisivo, ai fini della condanna di Mi.Gi., rilevando l'apporto dell'imputato assicurato attraverso il rafforzamento del proposito di Ri.Ma., oltre che nella condotta materiale di aver partecipato ad organizzare la strategia operativa dell'agguato, perché Ma.Pa. da tempo era nascosto come latitante in un luogo che pochi conoscevano, allo scopo di farlo uscire allo scoperto. 3.5. Il quinto motivo è inammissibile. In primo luogo, si osserva che la richiesta di prova, svolta ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen. risulta avere contenuto esplorativo, posto che la difesa ha chiesto il nuovo esame dibattimentale di Gu. e Va.An., già escussi nel corso del giudizio di primo grado, per apprendere circostanze peraltro nemmeno indicate con univocità nel ricorso (cioè se le parole attribuite a Mi.Gi. il giorno dell'omicidio erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta, se la partecipazione all'incontro antecedente e propedeutico all'omicidio, fosse o meno frutto di deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di una fallacia del ricordo). La Corte territoriale, in ogni caso, rispetto a tale richiesta, ha reputato la prova non indispensabile per la decisione motivando, sebbene in modo sintetico, a p. 27 e ss. della pronuncia impugnata. In secondo luogo, non si ravvisa alcuna violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. posto che, nel giudizio d'appello, il rispetto del contraddittorio richiede che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all'assunzione di una prova, mentre non impone che l'interlocuzione sia effettiva (Sez. 5, n. 32427 del 11/05/2015, Rv. 268848 - 01, fattispecie relativa alla acquisizione di documentazione nel dibattimento di secondo grado, in cui la Corte ha considerato realizzato il contraddittorio a seguito della sollecitazione del giudice alle parti a concludere e, quindi, ad interloquire anche sull'acquisizione della documentazione, senza ritenere, invece, necessario che fosse disposta con ordinanza la rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale). In ogni caso, lo stesso art. 603 comma 5 cod. proc. pen. non statuisce alcuna nullità, che deve essere tassativa, per il fatto che non intervenga subito il provvedimento, rimandandone l'adozione unitamente al merito. Nel caso di specie, peraltro, la risposta alla sollecitata integrazione istruttoria è negativa nel senso del rigetto, provvedimento tempestivamente impugnato con il ricorso. Su tale ultimo punto, si rimarca che la rinnovazione, ancorché parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli Srl, Rv. 275114 - 01; Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009, dep. 2010, Pizzuti, Rv. 246859 - 01). Comunque, è noto che, in punto rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, può essere censurata la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello tra le altre, Sez. 6, n. 1256/14 del 28 novembre 2013, Cozzetto, Rv. 258236). In tal senso, deve allora rilevarsi come il ricorso, non solo non abbia disvelato le ragioni della presunta decisività delle escussioni di cui non è stato ammesso l'espletamento dal giudice dell'appello ma, altresì, non si è confrontato con il complesso della motivazione nella parte in cui la sentenza ha evidenziato l'esatto contrario, in ragione della ritenuta completezza dell'istruttoria svolta. 3.6. Il sesto motivo pone censure corrispondenti ai motivi quinto e sesto del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., sicché si richiamano le argomentazioni svolte nel Par 2.5. È appena il caso di precisare che è noto che l'esistenza di un disegno unitario, requisito di natura psicologica e, quindi, interiore all'agente, postula la rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati soltanto nelle loro linee essenziali, come dedotto dalla difesa. Ma è altrettanto pacifico che tale rappresentazione deve sussistere sin dall'inizio dell'attività illecita. È necessario, cioè, che l'autore abbia previsto e deliberato in via generale l'iter criminis e che i reati attraverso i quali attuarlo, nella loro oggettività, si devono presentare compatibili giuridicamente e posti in essere in un contesto temporale di successione o contemporaneità. Ciò che la disciplina normativa richiede è, dunque, un disegno unitario non generico ma, anzi, sufficientemente preciso e rintracciabile sin dalla commissione del primo reato, pur senza pretendere che tutti i singoli reati siano stati progettati e previsti nelle specifiche connotazioni modali e temporali delle condotte. A tal fine l'analisi da condurre non può prescindere dall'effettiva disamina della sentenza irrevocabile che ha giudicato le singole vicende, per verificare la ricorrenza o meno degli indici che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi in ordine alla riconducibilità delle singole violazioni all'esecuzione di una medesima, unitaria e originaria risoluzione criminosa, disamina che, nella specie, ha condotto come detto al citato Par. 2.5., ad escludere la sussistenza di un unitario programma iniziale che comprendesse anche i delitti per i quali si procede. 4. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali del presente giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Cosi deciso in data 18 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1702 del 2021, proposto da Au. Po. Sa. (C.A.) Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Au. Zi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione - Salerno, sez. I, n. 740/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e udito per la parte appellante l'avvocato Zi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale della Campania - sezione staccata di Salerno ha respinto il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo proposto dalla cooperativa C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa. (d'ora innanzi anche C.A.) contro il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per l'annullamento del decreto ingiuntivo del T.A.R. Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione Prima, n. 1260/2015 del 20/11/2015, recante intimazione alla C.A. di pagamento, in favore del Ministero, della somma di euro 192.445,37, oltre interessi, a far data dalla messa in mora, e fino al soddisfo, nonché delle spese e dei compensi della procedura, liquidati in complessivi euro 750,00, oltre accessori di legge. 1.1. Nella sentenza è premesso che: - la presente controversia rinviene la sua scaturigine nei decreti legge emessi tra il 1990 e 1995 con cui lo Stato italiano riconobbe, con distinti provvedimenti normativi, alle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto di terzi, per gli esercizi fiscali 1992-1993-1993, un credito d'imposta da fare valere ai fini del pagamento dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, dell'imposta locale sui redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché in sede di versamento delle ritenute alla fonte operate dai sostituti d'imposta, sulle retribuzioni dei dipendenti e sui compensi da lavoro autonomo; - successivamente in esecuzione delle decisioni della Commissione delle Comunità europee n. 93/496/CEE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, e delle sentenze della Corte di Giustizia Europea del 29 gennaio 1998 e del 19 maggio 1999, che avevano dichiarato l'illegittimità degli aiuti di Stato concessi sotto forma di credito di imposta agli autotrasportatori negli anni 1992-1993-1994, lo Stato italiano era stato condannato a recuperare gli importi illegittimamente erogati; - nell'anno 2000 la Commissione europea, pertanto, aveva attivato nei confronti dello Stato la procedura di infrazione ex art. 228 TCE a causa della mancata esecuzione della sentenza della Corte di giustizia del 29 gennaio1998, non avendo proceduto al recupero degli aiuti illegittimamente concessi; - per evitare la procedura di infrazione, nell'anno 2002, sentite anche le associazioni di categoria dell'autotrasporto, allo scopo di dare esecuzione alle pronunce richiamate, era stato emanato il decreto legge 20 marzo 2002, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, recante "Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto", con cui erano state dettate le modalità per il recupero delle somme già destinate agli autotrasportatori sotto forma del riconoscimento di un credito di imposta per gli anni 1992,1993 e 1994; - in applicazione delle suddette disposizioni, il Ministero dei Trasporti, con nota del 23/03/2007 (ricevuta in data 06/04/2007) prot. n. 0028659, aveva richiesto alla società ricorrente la restituzione del credito d'imposta relativo al triennio 1992-1993-1994, per l'importo complessivamente determinato in Euro 192.445,37; - successivamente, nell'anno 2013, il Ministero dei Trasporti aveva proposto domanda monitoria innanzi al Tribunale Ordinario di Salerno iscritta al n. 1204/2013 R.G. ottenendo l'emissione del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 0973/2013, ritualmente opposto dalla odierna ricorrente; - all'esito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il Tribunale Ordinario di Salerno aveva pronunciato, in data 28/02/2014, la sentenza n. 0723/2014, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione e revocando l'opposto decreto ingiuntivo; - il Ministero, allora, aveva ottenuto dal T.A.R. il decreto ingiuntivo n. 1260/2015 con cui era stato intimato alla odierna ricorrente il pagamento della somma di Euro 192.445,37 oltre interessi a far data dalla messa in mora, nonché le spese di procedura liquidate in complessivi Euro 750,00 oltre accessori di legge. 1.2. Avverso il predetto decreto ingiuntivo, la C.A. ha proposto ricorso in opposizione notificato al Ministero resistente in data 19/02/2016 e depositato in data 03/02/2016, con cui ha eccepito: 1) in via pregiudiziale: Inefficacia del decreto n. 1260/2015 per violazione degli artt. 643 comma 2 e 644 c.p.c.; 2) in via pregiudiziale: Inammissibilità del ricorso per decreto ingiuntivo avanti il T.A.R. per formazione del giudicato e acquiescenza del Ministero alla sentenza declinatoria di giurisdizione con indicazione del giudice tributario, come quello dotato di potestas iudicandi; 3) in via pregiudiziale: Nullità e/o illegittimità del decreto ingiuntivo n. 1260/2015 per difetto di giurisdizione del giudice adito per non appartenere la presente controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo; prevalenza del richiamo alla natura tributaria del credito sulla configurazione dell'attività di recupero dell'aiuto di Stato; 4) Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato; 5) Estinzione del credito per decadenza e/o prescrizione ex art. 57 D.p.r.633/1972 e/o 43 D.p.r. 600/1973 e degli artt. 17 e 25 D.p.r. 602/1973; 6) Nel merito: Infondatezza del credito ingiunto; 7) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa. Difetto assoluto della esistenza del diritto. Assoluta carenza di prova dell'esistenza del diritto; 8) Nullità e/o illegittimità del D.I. n. 1260/15 per violazione dell'art. 633, comma 1, n. 1 c.p.c. Assoluto difetto dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito. Carenza di prova scritta; 9) Profili di illegittimità costituzionale del D.L. 36/2002 conv. nella legge n. 96/2002 per contrasto con il parametro di cui all'art. 3 Cost.; 10) Illegittimità del Regolamento CE n. 1998/06. 1.3. Il tribunale - dato atto della resistenza del Ministero e dell'attività istruttoria svolta dal collegio mediante ordine rivolto al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di esibire, ai sensi dell'art. 63, comma 2, c.p.a. e dell'art. 210 c.p.c., la documentazione comprovante l'avvenuta erogazione in favore della opponente del contestato aiuto di Stato che si intendeva recuperare e, di conseguenza, la titolarità del diritto di credito azionato nonché ogni altro atto e dato utile ai fini della determinazione del relativo quantum - ha, in limine, disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall'opponente, ritenendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non vincolante la sentenza con cui il Tribunale di Salerno, in data 28.2.2014 (erroneamente indicata come 2.8.2014), aveva declinato la giurisdizione in favore del giudice tributario. 1.3.1. Ha quindi respinto l'eccezione di inefficacia del decreto per omessa notifica del ricorso, ritenendo che, ai sensi degli artt. 643 e 644 c.p.c., l'omessa allegazione del ricorso non potesse comportare l'inefficacia del decreto che era stato ritualmente notificato. 1.4. Nel merito, dopo avere ricostruito la disciplina degli aiuti di Stato, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria e da quella interna, il tribunale ha respinto tutti i restanti motivi di opposizione a decreto ingiuntivo ed ha reputato non sussistenti "margini per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di costituzionalità per contrasto del D.l. 36/2002 con gli artt. 3 e 41 della Costituzione". Ancora, ha disatteso la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato CE, relativamente al Regolamento CE n. 1998/2006, come interpretato e richiamato dall'amministrazione. 1.5. Respinto perciò il ricorso in opposizione proposto dalla C.A. s.r.l. - Cooperativa Au. Po. Sa., il T.a.r. ha confermato il decreto ingiuntivo emesso nei confronti di quest'ultima su richiesta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 1.5.1. Le spese processuali sono state compensate per giusti motivi. 2. La C.A. ha proposto appello con quattro motivi. 2.1. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha depositato atto di costituzione di mera forma. 2.2. All'udienza dell'8 marzo 2024 la causa è stata discussa e assegnata a sentenza, previo deposito di memoria dell'appellante. 3. Col primo motivo la Cooperativa appellante si duole del mancato accoglimento dell'eccezione di rito, concernente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. 3.1. Si critica la sentenza di primo grado che, a fondamento della ritenuta giurisdizione esclusiva, ha posto l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 e ha disatteso la statuizione della sentenza del Tribunale di Salerno del 28 febbraio 2014 di indicazione del giudice tributario, come giudice fornito di giurisdizione. 3.1.1. Quanto alla richiamata disposizione, che, intervenendo sull'art. 133 del codice del processo amministrativo, vi ha aggiunto la lettera z-sexies, l'appellante sostiene che -in base a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5-6 luglio 2004, n. 204 e dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 29 gennaio 2014, n. 6 - la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussisterebbe soltanto laddove vi sia una correlazione ovvero un intreccio tra diritti dei singoli e interessi pubblici, tale da giustificare ex art. 103 Cost., l'eccezione alla giurisdizione ordinaria sui diritti soggettivi; nel caso di specie, sarebbero in rilievo soltanto diritti soggettivi, atteso che la p.a. ha il compito di procedere al recupero degli aiuti di Stato, senza effettuare alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid e il quomodo dell'erogazione, con esclusione dell'esercizio di un potere amministrativo. La conseguenza sarebbe l'operatività dei "normali" criteri di riparto della giurisdizione, fondati sulla natura delle situazioni soggettive azionate. Aggiunge l'appellante che in materia di aiuti di Stato vi sarebbe un indirizzo giurisprudenziale diffuso secondo cui quando il recupero dei contributi discende in modo diretto e automatico dall'accertamento di presupposti vincolanti si sarebbe in presenza di posizioni di diritto soggettivo, sottratte alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, IV, 29 dicembre 2006, n. 8225 e id., III, 8 settembre 2015, n. 4192, citate nel ricorso in appello). Viene poi citata la sentenza del Tribunale civile di Roma n. 20770/2012 del 26/31 ottobre 2012, che ha ritenuto devoluto alla giurisdizione del giudice tributario il recupero degli aiuti di Stato erogati sotto forma di crediti di imposta, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato all'art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001. 3.1.2. L'appellante evidenzia che i principi espressi in tale ultimo precedente di merito (il quale peraltro richiama la sentenza n. 9841/2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) sono stati condivisi, in riferimento al caso di specie, dal Tribunale ordinario di Salerno che, con la sentenza 28 febbraio 2014, n. 723, nel pronunciare il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice tributario, relativamente al primo dei decreti ingiuntivi emessi su richiesta del M.I.T. nei confronti della C.A., aveva valorizzato la natura tributaria dell'aiuto di Stato, erogato mediante credito d'imposta, fruibile quindi esclusivamente nell'ambito del rapporto tributario e rientrante nell'area delle "agevolazioni" i cui provvedimenti di revoca o di diniego possono essere impugnati dinanzi al giudice tributario ai sensi della lettera h) dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992. 3.2. Il motivo è infondato. L'art. 49, comma 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, così come modificato dall'art. 35, comma 3, della legge 7 luglio 2016, n. 122, ha aggiunto, all'art. 133 c.p.a. la seguente disposizione, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: "z sexies) le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era "all'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999"), a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Trattandosi di norma processuale - in mancanza di una disposizione transitoria nella legge n. 234 del 2012 - essa, in base al principio tempus regit actum, è applicabile a tutte le controversie introdotte dopo la sua entrata in vigore. Poiché non è in contestazione che la presente controversia riguardi un decreto ingiuntivo richiesto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato e poiché il decreto ingiuntivo opposto è stato richiesto e ottenuto dopo l'introduzione della modifica del codice del processo amministrativo, trova applicazione l'art. 133, lett. z sexies c.p.a. 3.2.1. L'appellante non contesta l'applicabilità ratione temporis di tale disposizione, ma sembra sostenere che, malgrado la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la disposizione sarebbe derogata dalla natura di diritto soggettivo della posizione della società ricorrente dedotta in giudizio, poiché la controversia non concernerebbe l'esercizio di un potere amministrativo. L'assunto è infondato. Va condivisa la tradizionale impostazione secondo cui, in tema di aiuti di Stato, la situazione soggettiva dei beneficiari è di interesse legittimo quando l'erogazione dei contributi comporti valutazioni ed apprezzamenti discrezionali, mentre è di diritto soggettivo quando le disposizioni comunitarie e nazionali determinano in modo diretto ed automatico obbligazioni di diritto pubblico. Tuttavia nel caso di specie, in cui l'aiuto di Stato è consistito in crediti d'imposta utilizzabili in presenza di presupposti vincolanti ed in cui è in contestazione l'obbligazione di restituzione del beneficio già accordato, la controversia ha ad oggetto di diritti soggettivi di natura patrimoniale. Tuttavia, proprio in ragione delle incertezze in tema di individuazione del giudice avente giurisdizione derivanti in concreto dalla possibile varietà delle forme di erogazione dell'aiuto di Stato e dalla diversità dei soggetti concedenti, l'art. 49 della legge n. 234 del 2012 ha previsto la giurisdizione esclusiva come incondizionata, precisando che la devoluzione al giudice amministrativo opera "a prescindere dalla forma dell'aiuto e del soggetto che l'ha concesso". Inoltre, l'art. 50 della stessa legge ha stabilito che "I provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea possono essere impugnati davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio". In definitiva si tratta di una materia "particolare", ai sensi dell'art. 103 della Costituzione, indicata come devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo da apposita legge, della cui tenuta costituzionale non pare legittimo dubitare (cfr. in tale senso, anche Cass. S.U., ord., 13 dicembre 2016 n. 25516). Alla norma in commento non si attagliano le censure che hanno portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa oggetto della sentenza della Corte Costituzionale 5-6 luglio 2004, n. 204: questa decisione è da ritenersi impropriamente richiamata dall'appellante. Peraltro, nell'atto di appello non è esplicitata alcuna questione di illegittimità costituzionale, malgrado la stessa sia stata specificamente affrontata ed esclusa dalla sentenza di primo grado (nella cui condivisibile motivazione è detto, a proposito dell'art. 49 della legge n. 234/2012, che "La varietà delle forme di aiuto e l'intreccio di norme, di ordinamenti, di amministrazioni e di situazioni giuridiche concrete, spiega, in termini costituzionali (art. 103 Cost.), la scelta da parte del legislatore della attribuzione della giurisdizione esclusiva ad un giudice unico delimitando, d'altro canto, alcuni confini di tale giurisdizione, operando quest'ultima entro un ambito preciso poiché gli atti ed i provvedimenti nazionali di recupero sono adottati, per definizione dell'art. 48 e dell'art. 49 l. 234/2012, "in esecuzione" di una decisione di recupero della Commissione europea."). Non è pertinente nemmeno il richiamo da parte dell'appellante della sentenza dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato del 29 gennaio 2014, n. 6 poiché tale decisione atteneva al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche per le quali non vi è un'apposita previsione di giurisdizione esclusiva. Le altre sentenze richiamate dall'appellante riguardanti il riparto di giurisdizione in materia di recupero degli aiuti di Stato, comprese quelle che hanno ritenuto la giurisdizione del giudice tributario (cfr. Cass. S.U. 5 maggio 2011, n. 9841), attengono tutte a controversie instaurate prima dell'entrata in vigore dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012 (mentre non è rilevante il precedente di questo Consiglio di Stato, III, 8 settembre 2015, n. 4192 poiché non concernente il recupero di aiuti di Stato, ma la concessione di aiuti comunitari). 3.2.2. La sentenza del Tribunale civile di Salerno del 28 febbraio 2014, n. 723, indicando come giudice avente giurisdizione il giudice tributario, si è basata sulla giurisprudenza non più attuale, senza tenere conto della norma sopravvenuta dell'art. 49 della legge n. 234 del 2012. Comunque il Tribunale di Salerno si è pronunciato in merito ad un decreto ingiuntivo, pur riguardante il medesimo credito di recupero di aiuti di Stato, diverso dal decreto ingiuntivo oggetto del presente giudizio di opposizione, in quanto il Ministero, dopo la declinatoria di giurisdizione, ha avanzato un nuovo ricorso per decreto ingiuntivo al giudice amministrativo, avente la giurisdizione esclusiva. Giova precisare, riguardo alla detta sentenza del Tribunale di Salerno, che non è stata riproposta in appello l'eccezione di giudicato sollevata come motivo di ricorso in primo grado, né è stato censurato il rigetto del T.a.r., che (in linea con la giurisprudenza di legittimità di cui a Cass. S.U. 2 marzo 2018, n. 4997 e altre) ha escluso la portata vincolante delle sentenze del giudice di merito che declinano la giurisdizione senza decidere nel merito e ha precisato che, anche quando la pronuncia sulla giurisdizione si coniughi con una di merito, l'efficacia di giudicato presuppone l'identità, non solo soggettiva, ma anche oggettiva di cause; evenienza, quest'ultima da escludere per quanto detto sulla diversità dei decreti ingiuntivi opposti. 3.3. Il primo motivo di appello va quindi respinto. 4. Prima di trattare dell'eccezione di prescrizione, di cui al secondo motivo, conviene, per comodità espositiva, dire dei motivi terzo e quarto di appello, da trattare congiuntamente perché connessi. 4.1. Col terzo motivo, l'appellante denuncia violazione e falsa applicazione del d.l. 20 marzo 2002, n. 36 ed eccesso di potere e carenza di istruttoria per aver omesso il Ministero di compiere le necessarie e adeguate attività di verifica preordinate all'accertamento del credito d'imposta oggetto di recupero. Richiamato il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. VI, 29 gennaio 1998 (punti 18-21) in tema di accertamenti da effettuarsi presso le singole imprese destinatarie degli aiuti e di effettiva possibilità per lo Stato italiano di recuperare il credito di imposta utilizzato, l'appellante sostiene che l'attività istruttoria poi compiuta dal Ministero non solo non appare conforme all'istruttoria prevista ex lege, ma neppure proverebbe e dimostrerebbe in maniera irrefutabile che la Cooperativa ricorrente abbia effettivamente utilizzato - e in quale misura - nel periodo 1992-1994 il credito d'imposta oggetto di recupero. Il Ministero si sarebbe limitato ad accertare soltanto il possesso da parte della ricorrente di un certo numero di mezzi per l'esercizio dell'attività di autotrasporto, pervenendo, fra l'altro, anche a tale riguardo, a conclusioni inattendibili. In particolare, ad onta di quanto dichiarato nelle informative fornite alla Commissione, nell'operato e nelle produzioni ministeriali non vi sarebbe traccia del coinvolgimento degli uffici competenti (centri di servizio, uffici delle imposte dirette, uffici IVA) e tanto meno della complessiva attività ricostruttiva e di verifica del credito d'imposta effettivamente utilizzato, come confermato dalla scarna e non intellegibile documentazione offerta ex adverso in comunicazione. 4.1.1. Con riferimento al d.l. 20 marzo 2002, n. 36, convertito dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, emanato a distanza di anni dalle decisioni della Corte di Giustizia imponenti l'obbligo di recupero, l'appellante sostiene che il Ministero ha adottato il provvedimento amministrativo di quantificazione del credito d'imposta da restituirsi da parte della C.A. a conclusione di un accertamento difforme da quanto previsto dalla normativa speciale, svoltosi in sede istruttoria con gravi lacune, con evidenti incongruenze e incompletezza dei dati tecnici relativi alla posizione fiscale della ricorrente, necessari a supporto dell'atto amministrativo adottato e dei relativi conteggi. Dopo aver premesso che l'onere della prova incomberebbe, nel caso di specie, sull'amministrazione procedente, la Cooperativa osserva che, comunque, dato il decorso del termine di cui all'art. 2220 cod. civ. relativo all'obbligo di tenuta delle scritture contabili, l'impresa non era in condizioni di ricostruire il proprio storico contabile e fiscale, per gli anni 1992-1994, senza peraltro che nel caso di specie si possa richiamare in senso contrario l'art. 22, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sulla conservazione oltre il termine delle scritture contabili in caso di avvio di un procedimento di verifica, in quanto quest'ultimo non era stato medio tempore instaurato. Quindi, ad avviso dell'appellante, non sarebbero più accertabili né esisterebbero evidenze né dell'effettivo numero degli automezzi di proprietà dell'impresa oggetto di accertamento, né dell'effettivo periodo di possesso, né dei corrispondenti crediti d'imposta, né delle dichiarazioni dei redditi di quegli anni. 4.1.2. In conclusione, i provvedimenti amministrativi che hanno determinato il credito d'imposta oggetto di recupero sarebbero affetti da carenza istruttoria e motivazionale relativamente al credito d'imposta concretamente fruito. 4.2. Col quarto motivo si critica la sentenza nella parte in cui ha ritenuto assolto da parte del Ministero dei Trasporti l'onere probatorio circa l'effettiva percezione da parte di C.A. dell'aiuto di Stato illegittimo, nonché circa il quantum effettivamente fruito a titolo di "bonus fiscale". Secondo l'appellante il credito d'imposta utilizzato sarebbe stato considerato dal T.a.r. solo in via presuntiva superiore all'importo de minimis di cui all'art. 3 del Regolamento Europeo n. 1407/2013 (fissato in Euro 100.000 nell'arco di tre esercizi finanziari), pur in assenza di idonea documentazione a supporto. 4.2.1. Ancora, ad avviso dell'appellante, la sentenza sarebbe contraddittoria perché, dopo aver ritenuto onerata della prova di non aver fruito del credito d'imposta la Cooperativa, ha poi genericamente affermato che il Ministero aveva compiutamente assolto all'onere della prova con la produzione dei documenti di cui all'ordinanza n. 1005/2018. Dopo aver ribadito che l'onere della prova della fruizione del beneficio spettava al Ministero, l'appellante contesta che la documentazione prodotta nel corso del giudizio consentisse di ritenere provata l'effettiva fruizione del beneficio fiscale, così come dell'importo ingiunto col d.i. opposto, per le ragioni illustrate in ricorso. Prosegue, quindi, escludendo che si possa configurare un'inversione dell'onere della prova in capo a C.A., per i motivi pure illustrati in ricorso. Conclude ribadendo le eccezioni formulate ab initio in punto di infondatezza del credito azionato, mancante dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità in violazione dell'art. 633, comma 1, c.p.c., e tale rimasto anche all'esito della fase a contraddittorio pieno. 4.3. I motivi - che si completano con ulteriori rilievi concernenti l'uso asseritamente illegittimo da parte del Ministero delle prerogative riconosciutegli dalla normativa speciale del d.l. n. 36 del 2002 - sono infondati. 4.3.1. In punto di fatto va premesso che, a seguito delle decisioni della Commissione delle Comunità Europee e delle successive sentenze della Corte di Giustizia (su cui si tornerà ), e dell'apertura della procedura d'infrazione attivata nel 2002 ai sensi dell'art. 228 TCE, è stato emanato il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (Disposizioni urgenti per ottemperare ad obblighi comunitari in materia di autotrasporto), convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, col quale sono stati individuati criteri e modalità per effettuare il recupero delle somme indebitamente erogate agli autotrasportatori. Il compito è stato affidato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che - tenuto conto che, per effetto delle disposizioni legislative richiamate all'art. 1, il credito fiscale era stato istituito in favore delle imprese esercenti l'autotrasporto di merci per conto terzi iscritte all'Albo nazionale di cui alla legge 6 giugno 1974, n. 298 e s.m.i. ed era stato commisurato al numero degli automezzi utilizzati nella loro attività caratteristica (con importo stabilito in percentuale rispetto al costo effettivo dei carburanti e lubrificanti, al netto di IVA, e con l'individuazione di limiti massimi per ciascuna delle quattro categorie in cui erano stati ripartiti i veicoli) - doveva individuare i soggetti beneficiari e gli importi da restituire, inserendoli in un apposito elenco, secondo modalità tecniche da stabilirsi con decreto dirigenziale. Il Ministero doveva quindi comunicare agli interessati l'inserimento nell'elenco, per eventuali osservazioni, e successivamente comunicare le modalità di pagamento degli importi determinati; in mancanza del pagamento, era prevista la richiesta ministeriale dell'emissione del decreto ingiuntivo. 4.3.1. Risulta dagli atti depositati in primo grado dall'Avvocatura distrettuale dello Stato che gli elenchi sono stati formati utilizzando gli elementi desumibili dalla banca dati del Ministero dei Trasporti quanto all'individuazione dei soggetti passivi dell'attività di recupero e del numero di veicoli da ciascuno dei posseduti, ripartiti per classi di appartenenza; gli importi da recuperare, unitari e complessivi, suddivisi per anno di riferimento, sono stati determinati prendendo come base la quota dovuta per ciascun veicolo, in relazione alla fascia di appartenenza (calcolata ripartendo le somme complessivamente disponibili per ciascuno degli anni in contestazione, secondo i criteri specificati negli atti prodotti dal Ministero), moltiplicata per il numero di veicoli posseduti da ogni singola impresa. 4.4. Il metodo di calcolo è, in effetti, di tipo probabilistico-induttivo e si spiega - in riferimento alla previsione dell'art. 249, comma 4, del TCE, che obbliga lo Stato membro ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione di recupero di aiuti di Stato illegali - con l'esigenza di superare le difficoltà di recupero (già rappresentate in sede giudiziaria alla Corte di Giustizia, come da relative sentenze, e successivamente fatte oggetto di consultazioni, oltre che con la Commissione europea, con le associazioni di categoria dell'autotrasporto) con criteri di calcolo che consentissero di contenere i tempi dei relativi accertamenti e assicurassero la parità di trattamento dei soggetti passivi dell'azione di recupero, garantendone la partecipazione al relativo procedimento. Dato ciò, non sono fondate le doglianze di parte appellante, sia perché la Cooperativa, già in ambito procedimentale, avrebbe potuto confutare i dati posti a fondamento del calcolo degli uffici del Ministero, sia perché quest'ultimo, nel corso del giudizio, ha dato prova dell'effettiva utilizzazione del credito d'imposta da parte della C.A. per gli anni in contestazione. 4.4.1. Quanto al primo profilo, fermo restando che l'amministrazione era vincolata al compimento dell'istruttoria imposta dalle richiamate disposizioni del d.l. n. 36/2002 (cui hanno dato attuazione i decreti dirigenziali 29 gennaio 2007 n. 291 e 10 ottobre 2007 n. 3442), il Ministero dei Trasporti risulta avervi adempiuto (sia pure non nel rispetto dei termini che era stati fissati, senza tuttavia previsione di sanzioni per l'inosservanza), mediante l'adozione nei confronti della C.A. dei seguenti atti (tutti prodotti in primo grado): 1) nota prot. 56269 del 27 novembre 2006 di comunicazione di avvio di procedimento di recupero; 2) nota prot. 28659 del 23 marzo 2007 con indicazione degli importi da restituire; 3) decreto prot. 04561 del 20 dicembre 2007 di determinazione dell'importo da restituire senza interessi; 4) nota prot. 6806 del 24 gennaio 2008 recante modalità e termini di pagamento; 5) nota prot. 18658 dell'11 agosto 2011 di invito a provvedere al pagamento, in mancanza del quale si sarebbe provveduto con domanda di ingiunzione. A seguito della ricezione della nota del 23 marzo 2007, che nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo la ricorrente dichiara di aver avuto in data 6 aprile 2007, la Cooperativa inviò le proprie osservazioni, delle quali dà atto il decreto ministeriale del 20 dicembre 2007. Tuttavia, non si attivò per smentire, mediante la produzione di idonea documentazione, né i dati (tratti dalle banche dati del Ministero) concernenti il possesso dei mezzi di trasporto né il dato (pur presuntivo) dell'utilizzazione del credito d'imposta nei limiti consentiti. In proposito non è fondato l'assunto dell'appellante di non essere stata in grado di ricostruire analiticamente il proprio storico contabile e fiscale in ordine agli anni d'imposta in contestazione per il decorso del termine decennale di conservazione delle scritture contabili di cui all'art. 2220 cod. civ. In senso sfavorevole alla difesa della Cooperativa depone l'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che impone al contribuente la conservazione delle scritture contabili obbligatorie sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta. Sull'interpretazione della norma si è pronunciata, in riferimento proprio alla fattispecie oggetto del presente contenzioso, la sentenza della Corte di Cassazione, V, 27 febbraio 2003, n. 5899, secondo cui il detto art. 22, comma 2 "va interpretato nel senso che l'ultrattività dell'obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all'art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dall'art. 8, comma 5, della L. n. 212 del 2000, opera solo se l'accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza. Ne deriva, diversamente, la protrazione dell'obbligo per una durata direttamente dipendente dalla volontà dell'Ufficio attesa la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamento nei termini di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. In questo caso, a fronte della concessione degli aiuti negli anni 1992, 1993, 1994, poi dichiarati illegittimi con le decisioni della Commissione... n. 93/496/CE del 9 giugno 1993 e n. 97/270/CE del 22 ottobre 1996, si deve ritenere che la legittimità degli aiuti e quindi la pendenza dell'accertamento tributario, essendo aiuti di Stato fiscali fosse sub iudice appunto dalle date in cui la Commissione ne ha contestato la contrarierà al diritto Unionale. E tale pendenza, in allora esistente e tuttora perdurante, sino alla definizione del giudizio, rendeva e rende, non essendo definito l'accertamento, perdurante l'obbligo del contribuente di conservare la documentazione contabile ad esso connessa.". Siffatta conclusione - ritenuta dalla sentenza coerente con i principi dell'ordinamento tributario - è vieppiù condivisibile in un contesto, quale quello degli aiuti di Stato, in cui è richiesto all'operatore economico beneficiario di un aiuto di collaborare con l'autorità amministrativa per consentire la verifica della legittimità di tale fruizione (cfr. Cons. Stato, III, n. 2401/15 e le altre sopra citate). Tenendo conto delle censure dell'appellante, è bene precisare che non si tratta di un'inversione dell'onere della prova sulla fruizione del beneficio, dato che questa è da ritenersi provata per il tramite delle presunzioni che il d.l. n. 36/2002 ha basato sulla qualità del soggetto passivo dell'azione di recupero e sul possesso dei mezzi di trasporto, cui era correlato il credito d'imposta; piuttosto spettava al beneficiario fornire la prova contraria alla presunzione di legge, dimostrando di non aver fruito affatto del credito d'imposta, oppure di averne fruito entro il limite del c.d. de minimis, o comunque in misura inferiore a quella presunta ex lege. 4.4.2. Non solo la C.A. non ha fornito tale prova negativa, ma - a seguito dell'istruttoria disposta dal collegio in primo grado - è stata l'amministrazione - per il tramite di apposita nota dell'Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Salerno e relativi allegati contenenti le "copie dichiarazioni dei redditi quadri R" estratte dall'anagrafe tributaria - a fornire la prova che negli anni 1992 - 1993 - 1994 la Cooperativa ha effettivamente utilizzato i crediti d'imposta "per le imprese autotr. merci conto terzi" in misura del tutto compatibile (ed anzi superiore) rispetto a quella calcolata col metodo induttivo introdotto dal legislatore e richiesta col decreto ingiuntivo. Le generiche contestazioni di utilizzabilità delle risultanze dell'anagrafe tributaria, già formulate in primo grado dalla C.A., e riproposte in appello, vanno disattese per le ragioni già ritenute dal T.a.r. ("La Corte di legittimità ha già chiarito, con ferma giurisprudenza, che le risultanze dell'anagrafe tributaria sono assistite da una presunzione di identità con i dati presenti nel modello cartaceo sottoscritto dal contribuente; ne consegue che, ove sia eccepita una discordanza di dati in sede di gravame, non è l'Amministrazione finanziaria a dover fornire la prova della conformità, ma il contribuente a dover dimostrare la difformità, ai sensi dell'art. 2697 c.c., comma 2, trattandosi di deduzione dell'inefficacia del fatto costitutivo della pretesa tributaria azionata, ed essendo egli onerato, in base all'ordinaria diligenza, di conservare una copia del modulo cartaceo anche oltre il termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 (cfr.: Cass. 11/12/2013, n. 27712; Cass. 30/8/2013, n. 20047; Cass. 10/1/2013, n. 385; 27/7/2012, n. 13440)"), che qui si confermano in quanto non validamente confutate dall'appellante (oltre che corroborate da giurisprudenza successiva: cfr. Cass. V, 12 luglio 2018, n. 18403). 4.5. Il terzo ed il quarto motivo di appello vanno quindi respinti. 5. Col secondo motivo si lamenta la violazione e la falsa applicazione del regolamento (CE) n. 659/1999, quanto all'errata individuazione del dies a quo della prescrizione, e conseguentemente l'errato calcolo di quest'ultima. Viene criticata la sentenza appellata nella parte in cui, premessa l'operatività del termine ordinario decennale di prescrizione, ha affermato che "la decisione comunitaria in ordine al recupero dell'aiuto erogato ha acquisito definitività in ragione della sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata nell'anno 1998... il termine per il recupero degli aiuti illegittimamente erogati ha iniziato a decorrere da tale anno" e che "prima della notifica dell'opposto decreto ingiuntivo, tale termine è stato interrotto dal Ministero resistente, una prima volta, con nota prot. N. 28659 del 23/3/2007, - con cui informava l'odierna opponente dell'avvio della procedura di recupero -, e, successivamente, sia con la nota prot. n.6806 del 24/01/2008, - con cui comunicava alla società "C.A." le modalità di pagamento dell'importo da restituire -, sia con nota n. 18659 dell'11 Agosto 2011, con cui costituiva in mora la società ricorrente.". 5.1. L'appellante segnala un primo errore, nell'individuazione della decorrenza utile del termine di prescrizione dalla conclusione del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia con la sentenza del 1998. Sostiene che l'art. 15, comma 2, del regolamento CE n. 659/1999 non attribuisce al procedimento davanti alla Corte di Giustizia ed alla sentenza conclusiva di tale procedimento un'efficacia interruttiva della prescrizione, bensì ricollega alla pendenza del procedimento un'efficacia sospensiva del periodo limite (i.e. della prescrizione), mantenendo ferma la regola che "il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti". Applicando correttamente la disposizione comunitaria in esame, secondo l'appellante, si avrebbe che sommando il primo periodo decorso dalla notifica della decisione della Commissione all'avvio del procedimento avanti la Corte di Giustizia e il secondo periodo decorrente dalla pronuncia della Corte di Giustizia al primo atto interruttivo della prescrizione da parte del MIT, del quale vi sarebbe prova dell'invio e della ricezione - che l'appellante fissa nel mese di marzo 2011 - si sarebbe consumato il "periodo limite" richiamato dalla disposizione comunitaria, con conseguente prescrizione della pretesa avente ad oggetto il recupero delle somme portate dal credito d'imposta qualificato aiuto di Stato. 5.1.2. L'appellante segnala quindi un secondo errore della sentenza, perché, decidendo come sopra, si sarebbe posta di fatto in contrasto con l'orientamento della Corte di Cassazione, la cui consolidata giurisprudenza è nel senso che, agli effetti del recupero di benefici, sgravi o crediti d'imposta costituenti aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, opera il termine ordinario di prescrizione decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., decorrente dalla notifica alla Repubblica Italiana della decisione comunitaria di recupero (Cass. civ. sez. lav., 14 febbraio 2019, n. 4432 ed altre, indicate in ricorso). 5.2. Il motivo è fondato per quanto riguarda l'azione di recupero degli aiuti erogati col credito d'imposta utilizzato nell'anno 1992, mentre è infondato per le due annualità successive. Tale conclusione è dovuta alle ragioni che di seguito si espongono, solo in parte di accoglimento delle censure dell'appellante. 5.2.1. La sentenza di primo grado è corretta nella parte in cui ricostruisce il rapporto esistente tra l'azione della Commissione europea in tema di recupero di aiuti illegali, disciplinata ratione temporis dal Regolamento (CE) n. 659/1999 (cui è succeduto il Regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio del 13 luglio 2015), e la procedura di recupero regolata dal diritto nazionale. Alla prima si riferisce l'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, intitolato "Periodo limite" che prevede quanto segue: "1. I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un periodo limite di 10 anni. 2. Il periodo limite inizia il giorno in cui l'aiuto illegale viene concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti. Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell'aiuto illegale interrompe il periodo limite. Ogni interruzione fa ripartire il periodo da zero. Il periodo limite viene sospeso per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee. 3. Ogni aiuto per il quale è scaduto il periodo limite è considerato un aiuto esistente.". La disposizione regola l'istituto della prescrizione in ambito comunitario, come fatto palese dall'analoga previsione contenuta nel successivo Regolamento (UE) 2015/1589, nel cui articolo 17 il "periodo limite" è indicato in rubrica come "Prescrizione" ed è precisato nel paragrafo primo che "I poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti ad un termine di prescrizione di dieci anni". In proposito la Corte di Giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunal Administrativo e Fiscal (Tribunale amministrativo e tributario) di Coimbra in Portogallo, ha confermato che l'art. 17, par. 1, del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015, recante modalità di applicazione dell'art. 108 TFUE, dev'essere interpretato nel senso che il termine di prescrizione di dieci anni, che tale disposizione prevede per l'esercizio dei poteri della Commissione europea in materia di recupero degli aiuti, si applica soltanto ai rapporti tra la Commissione e lo Stato membro destinatario della decisione di recupero adottata da tale istituzione. Essa ha anche precisato, per un altro profilo, che contrasta con l'art. 16, par. 2, del regolamento, secondo il quale all'aiuto da recuperare si aggiungono gli interessi, e con il principio di effettività, di cui al par. 3 dello stesso articolo, l'applicazione di un termine di prescrizione nazionale al recupero di un aiuto qualora tale termine sia scaduto prima ancora dell'adozione della decisione della Commissione che dichiara tale aiuto illegale e ne ordina il recupero, oppure sia scaduto, principalmente, a causa del ritardo con cui le autorità nazionali hanno dato esecuzione a tale decisione (sentenza del 30 aprile 2020 in causa C-627/18). Si tratta di un indirizzo della Corte di Giustizia, contenuto anche in altre precedenti decisioni (Corte di Giustizia, 20 marzo 1997, C-24/95; Corte di Giustizia, 23 gennaio 2019, C-387/17). 5.2.2. La giurisprudenza interna ha espresso principi conformi alla giurisprudenza comunitaria. Infatti, con riferimento all'art. 15 del Regolamento (CE) n. 659/1999 (ma anche con decisioni riguardanti il Regolamento del 2015 tuttora in vigore) si è affermato che il termine ivi previsto per la decisione di recupero degli aiuti di Stato concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri. L'azione appena detta presuppone l'accertamento, da parte della Commissione, dell'illegalità dell'aiuto e va tenuta distinta dall'azione di recupero in ambito interno. L'azione dello Stato membro nei confronti del beneficiario dell'aiuto illegale è infatti disciplinata dall'art. 14 (Recupero degli aiuti) del Regolamento n. 659/1999 (cui corrisponde l'art. 16 del Regolamento n. 2015/1589), che prevede quanto segue: " 1. Nel caso di decisioni negative relative a casi di aiuti illegali la Commissione adotta una decisione con la quale impone allo Stato membro interessato di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l'aiuto dal beneficiario (in seguito denominata "decisione di recupero"). (...) 3. Fatta salva un'eventuale ordinanza della Corte di giustizia delle Comunità europee emanata ai sensi dell'articolo 185 del trattato, il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. A tal fine e in caso di procedimento dinanzi ai tribunali nazionali, gli Stati membri interessati adottano tutte le misure necessarie disponibili nei rispettivi ordinamenti giuridici, comprese le misure provvisorie, fatto salvo il diritto comunitario.". In proposito la Corte di Cassazione in numerose sentenze - in prevalenza riferite alla materia tributaria, per aiuti di Stato incompatibili goduti con agevolazioni fiscali, ed alla materia contributiva, per aiuti di Stato incompatibili goduti con sgravi contributivi - ha affermato quanto segue: - se è vero che il termine dell'art. 15 del Regolamento n. 659/1999 concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri, quel termine non è senza conseguenze nell'ambito nazionale dei rapporti tra Stato e beneficiario dell'aiuto; proprio perché l'adozione da parte della Commissione di una decisione che dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il recupero, determina, per il beneficiario dell'aiuto illegittimamente attribuito, la cessazione dello stato di incertezza che giustifica l'esistenza di un termine di prescrizione, divengono rilevanti nell'ordinamento nazionale l'interruzione del termine di prescrizione che è connessa all'inizio dell'azione della Commissione e la sospensione del medesimo termine per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, previste nel regolamento comunitario (così in motivazione Cass. 19 novembre 2010, n. 23418); in proposito si è precisato che, a ragionare diversamente, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, coincidendo il termine ordinario di prescrizione nel diritto nazionale (dieci anni ex art. 2946 c.c.) con il termine di prescrizione assegnato dal diritto comunitario alla Commissione per iniziare l'azione di recupero degli aiuti (dieci anni ex art. 15 del regolamento n. 659 del 1999), l'impossibilità dell'effettivo recupero dell'aiuto illegale ben potrebbe essere la regola e non l'eccezione (così Cass. n. 23418/2010 cit.; Cass. sez. lav. 21 marzo 2013, n. 7162 ed altre successive); - alcune massime della Corte di Cassazione contengono poi l'affermazione perentoria della disapplicazione delle norme interne in tema di prescrizione (così Cass. n. 23418/2010, secondo cui "in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva", riportata anche nella sentenza qui appellata e ripresa da Cons. Stato, III, 13 maggio 2015, n. 2401 ed altre, su cui infra); si tratta però di un'affermazione che non va intesa in senso assoluto: essa va combinata con l'orientamento - su tale punto univoco - della stessa Cassazione secondo cui l'azione di recupero in ambito interno è soggetta alla regola ordinaria della prescrizione decennale; - tuttavia, in ragione di quanto sopra, la decorrenza del termine di prescrizione va "spostata" dalla data dell'erogazione del beneficio alla data di notifica allo Stato italiano della decisione della Commissione che dichiara l'illegittimità dell'aiuto (così, tra le altre, Cass. V, 12 settembre 2012, n. 15207, nella quale si precisa che "In tema di recupero di aiuti di Stato, l'azione di recupero è soggetta al termine ordinario di prescrizione stabilito dall'artt. 2946 cod. civ., in quanto idoneo a garantire sia l'interesse pubblico di assicurare l'effettività del diritto comunitario mediante il ripristino dello "status quo ante" alla violazione della concorrenza, sia l'interesse privato ad evitare l'esposizione ad iniziative senza limiti di tempo, non essendo invece applicabile il termine di cui all'art. 15 del Regolamento CEE del Consiglio del 22 marzo 1999, n. 659, il quale si riferisce esclusivamente ai rapporti tra Commissione e Stato membro. Ne consegue che il momento di inizio del termine di decorrenza della prescrizione va individuato non nella data della fruizione dell'aiuto, ma in quella della notifica della decisione della Commissione allo Stato membro, essendo solo da quel momento l'aiuto erogato qualificabile come illegale"; cfr., nello stesso senso, Cass. V, 22 luglio 2015, n. 15414; Cass. sez. lav., 22 giugno 2017, n. 15491; Cass. sez. lav., 27 luglio 2020, n. 15972; Cass. V, 22 giugno 2022, n. 20173; e numerose altre fino alla più recente Cass., V, 27 febbraio 2023, n. 29549, in fattispecie coincidente con quella oggetto del presente giudizio, decisa dal giudice tributario, non risultando posta la questione di giurisdizione). Giova precisare che, mentre la giurisprudenza meno recente della Corte di Cassazione è stata nel senso di riconoscere l'effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia (cfr. le sentenze su citate, a far data dalla sentenza n. 23418/2010), si è da ultimo affermato il contrastante principio per cui, pur decorrendo la prescrizione decennale dalla notifica della decisione della Commissione allo Stato membro e, cioè, dal momento in cui l'aiuto erogato è qualificabile come illegittimo, il termine di prescrizione non subirebbe interruzione o sospensione a seguito dell'impugnazione alla Corte di Giustizia, da parte dello Stato, della decisione della Commissione (così Cass. sez. III, 25 luglio 2022, n. 23058, seguita da Cass. n. 29549/2023 cit.). 5.3. Si ritiene di dover disattendere tale ultimo orientamento e di dover invece ribadire, con riferimento alla vigenza del Regolamento (CE) n. 659/1999 e della normativa interna applicabile ratione temporis al caso di specie (vale a dire quella precedente, come si dirà, l'entrata in vigore della legge n. 234 del 2012), i seguenti criteri interpretativi: - le norme interne sulla prescrizione vanno disapplicate nel periodo compreso tra l'erogazione dell'aiuto di Stato e l'intervento della Commissione che, in caso di aiuto non notificato, ha il termine di dieci anni decorrente da tale erogazione per attivarsi ai sensi del ridetto art. 15; invero, se in tale periodo decorresse il termine parimenti decennale della prescrizione di diritto interno, la decisione della Commissione rischierebbe di essere vanificata, compromettendo il rispetto dell'obbligo da parte dello Stato italiano, destinatario della decisione di recupero, ai sensi dell'art. 249, quarto co. Trattato CE, di adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione della decisione; - di conseguenza soltanto dalla notificazione della decisione della Commissione allo Stato italiano (o, in mancanza, dalla sua pubblicazione sulla G.U.U.E.) inizia a decorrere il termine ordinario di prescrizione decennale; - tuttavia (contrariamente al più recente indirizzo della Cassazione) l'impugnazione da parte dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Giustizia della decisione di recupero della Commissione non può essere senza effetti interni, sia pure indiretti: essa mantiene sub iudice la qualificazione di illegittimità degli aiuti di Stato oggetto del procedimento comunitario e rende quindi non ancora definitivo l'obbligo dello Stato italiano di provvedere al recupero, pur se ordinato dalla Commissione; - l'effetto che lo Stato membro può provocare chiedendo la verifica da parte dell'organo giurisdizionale europeo della decisione della Commissione è quello sospensivo (arg. ex art. 15, comma 2, del Regolamento che distingue tra effetto interruttivo dell'azione della Commissione ed effetto sospensivo del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia): la pendenza del procedimento sospende quindi l'obbligo di recupero, sicché -contrariamente a quanto ritenuto dal T.a.r. - la sentenza della Corte di Giustizia che lo conferma non segna l'avvio di un nuovo termine di prescrizione ma soltanto la ripresa del suo decorso; - una volta emessa la sentenza della Corte di Giustizia che conferma la decisione di recupero della Commissione, in ambito interno lo Stato italiano si viene definitivamente a trovare nella situazione di cui all'art. 2935 cod. civ., che consente ai soggetti competenti secondo l'ordinamento nazionale di fare valere, nei confronti dei beneficiari dell'aiuto illegittimo il diritto alla restituzione, cui corrisponde, in ambito sovranazionale, l'obbligo di recupero comminato dagli organi comunitari. 5.3.1. Quest'ultima affermazione comporta che le norme interne sulla prescrizione applicabili ratione temporis nel caso di specie non vadano del tutto disapplicate. La loro applicazione, nei limiti ed alle condizioni sopra specificati, non appare in violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia in materia di necessario adempimento degli Stati all'obbligo di recupero degli aiuti illegali; essa, infatti, nel rispetto del principio di "effettività " non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'attuazione degli obblighi comunitari poiché fissa allo scopo un (ulteriore) termine decennale, atto a garantire l'applicazione effettiva del diritto comunitario, in quanto ragionevolmente coincidente con lo stesso termine che l'art. 15 assegna agli organi comunitari per l'accertamento dell'illegalità dell'aiuto non notificato. Si tratta inoltre - come osservato dai numerosi precedenti della Corte di Cassazione in subiecta materia - di un termine che, in ossequio al principio della certezza del diritto (rilevante anche in ambito unionale), considera l'interesse del beneficiario dell'aiuto a non vedersi esposto senza limiti di tempo all'azione di restituzione dello Stato. In tal modo viene altresì assicurato il rispetto dei principi di "equivalenza" e di "non discriminazione", in quanto all'azione diretta ad attuare l'obbligo di matrice comunitaria si applicano le norme nazionali in materia di prescrizione stabilite per le analoghe azioni di carattere nazionale. 5.3.2. Riguardo all'applicazione delle norme interne in tema di prescrizione va tuttavia precisato che l'art. 51 (Estinzione del diritto alla restituzione dell'aiuto di Stato oggetto di una decisione di recupero per decorso del tempo) della legge 24 dicembre 2012, n. 234, come modificato dall'art. 35 della legge 7 luglio 2016, n. 122, prevede quanto segue: "Indipendentemente dalla forma di concessione dell'aiuto di Stato, il diritto alla restituzione dell'aiuto oggetto di una decisione di recupero sussiste fino a che vige l'obbligo di recupero ai sensi del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (n. d.r. nella versione originaria il riferimento era al regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999)". La norma è interpretabile nel senso dell'imprescrittibilità del diritto alla restituzione dell'aiuto in esecuzione di una decisione di recupero di aiuti di Stato illegittimi. Essa tuttavia non è applicabile nel presente giudizio, sicché la questione interpretativa non necessita di approfondimento. Invero, il precedente art. 48 del capo VIII (Aiuti di Stato) della stessa legge n. 234 del 2012 è riferito alle procedure di recupero riguardanti le decisioni di recupero adottate in data successiva a quella di entrata in vigore della legge (19 gennaio 2013), mentre nel caso di specie le decisioni di recupero sono di gran lunga anteriori e la procedura di recupero non è quella prevista, in via generale, dall'art. 48, ma quella, in particolare, dettata dal già detto d.l. n. 36/2002. In ogni caso, alla data di entrata in vigore dell'art. 51, il diritto alla restituzione degli aiuti illegali corrisposti sotto forma di credito d'imposta per l'anno 1992, come si dirà, era da reputarsi già estinto per prescrizione, sicché ne risulta impedita l'applicazione della norma con effetti retroattivi (arg. ex art. 11 disp. att.c.c.). 5.3.3. La questione dei rapporti tra il Regolamento (CE) n. 659/1999 e le norme interne in tema di prescrizione è stata affrontata da diverse pronunce del Consiglio di Stato tutte relative alla stessa fattispecie di aiuti di Stato, consistiti in sgravi contributivi. Le sentenze dichiarano di porsi in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, valorizzandone l'affermazione della disapplicazione delle norme in tema di prescrizione, tuttavia andando oltre la portata effettiva di tale affermazione, di cui si è detto sopra. Ne risulta affermata una sorta di imprescrittibilità interna dell'azione di recupero degli aiuti di Stato nei confronti dei beneficiari (così Cons. Stato, III, n. 2401/2015 cit., punto 9, nonché Id., III, nn. 3016/2015, 3035/2015, 3596/2015, 3599/2015, 3601/2015 e 3677-3679/2015). Con riguardo alla stessa vicenda oggetto dei precedenti appena citati, la medesima Sezione III ha però inteso precisare che "l'obbligazione restitutoria sorta in capo ai beneficiari degli sgravi contributivi non ha fonte immediatamente legale, ma presuppone il perfezionamento di una apposita fattispecie costitutiva, rappresentata dall'adozione del provvedimento di recupero, all'esito del procedimento disciplinato dall'art. 1, commi 351-354, l.n. 288/2012. Ne consegue che proprio l'interposizione, tra il momento di fruizione dell'aiuto di Stato e quello dell'insorgenza dell'obbligo di recupero, di un provvedimento amministrativo, inteso a verificare, all'esito di un apposito procedimento amministrativo e della relativa istruttoria, la sussistenza dei presupposti per il recupero quali delineati dalla decisione della Commissione e dalle successive pronunce del giudice comunitario, impone di escludere che il dies a quo del termine prescrizionale possa coincidere, come sostenuto dalla parte appellante, con la pubblicazione della suddetta decisione e che, a quella data, il credito restitutorio dello Stato fosse immediatamente esigibile, nelle more del compimento della istruttoria "caso per caso", volta appunto a verificare la sussistenza dei presupposti per il recupero." (Cons. Stato, III, 19 dicembre 2017, n. 5976). 5.4. In primo grado, l'Avvocatura distrettuale dello Stato - al fine di resistere all'eccezione di prescrizione sollevata dalla ricorrente - ha sostenuto un'interpretazione analoga, osservando che il dies a quo del termine di prescrizione, nel caso di specie, sarebbe da individuare - in forza del noto brocardo actio nondum nata non praescribitur - nel giorno in cui è stata emanata la normativa preordinata al recupero delle somme erogate, cioè il d.l. 20 marzo 2002, n. 36 (del quale si è detto trattando dei motivi terzo e quarto di appello), momento in cui sarebbe sorto il diritto di credito dello Stato al recupero dei contributi erogati. 5.4.1. L'assunto non è condivisibile perché, nel caso in oggetto, le decisioni della Commissione e le pronunce del giudice comunitario non hanno condizionato l'esigibilità del credito restitutorio dello Stato all'accertamento di determinati presupposti (come nel caso preso in esame dai citati precedenti di questo Consiglio di Stato), ma ne hanno imposto il recupero immediato ed incondizionato. La successione e il contenuto delle pronunce in ambito comunitario sono sintetizzabili come segue: 1) la prima decisione della Commissione europea riguarda i crediti d'imposta per l'annualità 1992 ed è stata adottata il 9 giugno 1993 (decisione n. 93/496/CEE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta a valere sull'imposta sul reddito o sulle imposte comunali o sull'IVA, indebitamente introdotto con il decreto ministeriale 28 gennaio 1992 a favore degli autotrasportatori professionisti in Italia, e l'ordine di recuperare l'aiuto entro due mesi dalla notifica della decisione e "secondo le norme procedurali e sostanziali di diritto interno"; 2) la decisione non è stata impugnata dallo Stato italiano; è stata invece la Commissione delle Comunità Europee a promuovere, ai sensi dell'art. 93 n. 2 del Trattato CE, un ricorso, depositato il 18 agosto 1995, diretto a far dichiarare che, non avendo adottato le misure necessarie per adeguarsi alla decisione della Commissione 9 giugno 1993, 93/496/CEE, relativa all'aiuto di Stato n. C 32/92 (ex N N 67/92) - Italia (Credito d'imposta a favore degli autotrasportatori professionisti) (GU L 233, pag. 10), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE; il ricorso è stato deciso con sentenza della Corte (sesta sezione), 29 gennaio 1998, nella causa C-280/95, con la quale è stato dichiarato che, non essendosi conformata alla decisione della Commissione, "la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE"; 3) la seconda decisione della Commissione delle Comunità Europee riguarda i crediti d'imposta per le annualità 1993-1994 ed è stata adottata il 22 ottobre 1996 (decisione n. 97/270/CE), contenendo la dichiarazione di illegittimità e di incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto concesso sotto forma di credito d'imposta e l'ordine di recuperare l'aiuto, da rimborsare "secondo le regole di procedura e di applicazione della legislazione italiana"; 4) la decisione è stata impugnata dallo Stato italiano, con ricorso depositato il 10 gennaio 1997, ai sensi dell'art. 173 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 230 CE) e l'impugnativa è stata respinta con la sentenza della Corte (Sesta Sezione), 19 maggio 1999 in causa C-6/97, con la quale è stata, tra l'altro, esclusa l'impossibilità di recuperare l'aiuto. La portata delle pronunce della Commissione e della Corte è tale da consentire di configurare come immediatamente esigibile il credito di rimborso dell'aiuto mediante richiesta ai trasportatori italiani che avevano usufruito del bonus fiscale (cfr. punto 33 della sentenza del 1999) sì da doversi escludere, ai fini del decorso iniziale della prescrizione, che si dovesse attendere che lo Stato dettasse regole apposite per il recupero del singolo aiuto, quali sono state poi introdotte -peraltro al solo fine di agevolare il computo delle somme da richiedere - dal d.l. del 2002. 5.4.2. Dopo le pronunce della Corte di Giustizia e l'entrata in vigore di tale normativa speciale si colloca il primo atto interruttivo della prescrizione nei confronti della C.A. Si tratta della nota prot. n. 28659 del 23 marzo 2007, con la quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti informava la Cooperativa dell'avvio della procedura di recupero. In proposito va respinta la censura dell'appellante - peraltro esplicitata soltanto in appello - secondo cui la nota non sarebbe conosciuta dalla destinataria, perché non è stata fornita la prova in giudizio della ricezione da parte della Cooperativa. La smentita si rinviene per tabulas nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo, dove è detto che la nota è stata ricevuta dalla ricorrente il 6 aprile 2007 e negli atti prodotti in primo grado dal Ministero opposto, dai quali si evince che detta nota venne seguita dalla risposta dell'interessata che fece pervenire delle osservazioni procedimentali (delle quali si dà atto nel decreto del Ministero dei Trasporti del 20 dicembre 2007 prot. 4561). Seguirono poi gli ulteriori atti di interruzione del corso della prescrizione e di messa in mora specificati sopra e nella sentenza di primo grado. 5.4.3. Orbene, considerato che la decisione della Commissione riguardante gli anni 1993-1994 è intervenuta il 22 ottobre 1996 ed è stata impugnata con ricorso del 10 gennaio 1997, che ha dato luogo alla sentenza del 19 maggio 1999, tenendo conto del periodo precedente la proposizione del ricorso e dell'effetto sospensivo determinato dalla pendenza del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia fino a tale ultima data, è da escludere che alla data del primo atto interruttivo del 23 marzo/6 aprile 2007 fosse decorso il periodo di prescrizione di dieci anni, né questo era decorso quando con la nota del 24 gennaio 2008 n. 6806 erano comunicate alla CAPS le modalità di pagamento dell'importo da restituire. 5.4.4. I dati di fatto sopra riportati inducono invece a diversa conclusione con riferimento all'annualità 1992, atteso l'ordine di recupero intimato con la decisione della Commissione del 9 giugno 1993. Considerato che questa non è stata mai impugnata dallo Stato italiano, dovrebbe ritenersi che dalla data della sua comunicazione (non nota, ma di certo anteriore al 26 agosto 1993, data della prima informativa indirizzata dallo Stato italiano alla Commissione della quale è detto nella sentenza del 1998, punto 6) fossero decorsi più di dieci anni quando intervenne l'atto interruttivo (23 marzo/6 aprile 2007). Peraltro, anche a voler attribuire - interpretando estensivamente il testo dell'art. 15 del Regolamento - effetto sospensivo alla pendenza del procedimento introdotto dinanzi alla Corte di Giustizia, non dallo Stato membro, ma dalla Commissione (per farne accertare l'inadempimento dell'obbligo di recupero), nel caso di specie il periodo di sospensione andrebbe dal 18 agosto 1995 (data del ricorso della Commissione) fino alla sentenza del 29 gennaio 1998. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ed in accoglimento del motivo di appello, occorrerebbe aggiungere al periodo di oltre nove anni compreso tra tale ultima data (29 gennaio 1998) e l'atto interruttivo del marzo/aprile 2007, il periodo decorso nell'inerzia dello Stato italiano dal 26 agosto 1993 fino al 18 agosto 1995, col complessivo superamento del termine decennale. In sintesi, sia tenendo conto della mancata impugnativa della decisione del 9 giugno 1993 da parte dello Stato sia considerando utile l'impugnativa della Commissione, si avrebbe che l'azione di recupero per il credito d'imposta riferito all'annualità 1992, in ambito interno, era prescritta quando venne avanzata la richiesta di rimborso nei confronti della C.A. 6. Va pertanto accolto il secondo motivo di appello, limitatamente alla prescrizione del recupero delle somme dovute per l'anno 1992, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l'opposizione va accolta parzialmente quanto all'eccezione di prescrizione sollevata con riferimento alle somme ingiunte in restituzione per l'anno 1992. Per l'effetto, ai sensi degli artt. 118 c.p.a. e 653, comma 2, c.p.c., il decreto ingiuntivo va revocato e la società C.A. va condannata a corrispondere al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti la somma corrispondente alle due annualità predette (Euro 83.263,10 + Euro 66.044,38), escluso l'importo corrispondente all'annualità 1992 (Euro 43.137,89), oltre interessi come già richiesti col decreto ingiuntivo. 7. L'accoglimento parziale dell'appello e dell'opposizione a decreto ingiuntivo consente di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di opposizione, nonché della fase monitoria. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei limiti specificati in motivazione e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, revoca il decreto ingiuntivo opposto e condanna la Cooperativa appellante al pagamento in favore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti degli importi specificati in motivazione, oltre interessi legali come già richiesti col decreto ingiuntivo. Compensa interamente tra le parti le spese dei due gradi del giudizio di opposizione e della fase monitoria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2842 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Pi., con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia; contro Ente Strumentale Cri, Agenzia Entrate Riscossione Roma, non costituiti in giudizio; Ente strumentale alla Croce Rossa Italiana, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sezione terza) n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Ente strumentale alla Croce Rossa Italiana; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Riccardo Carpino; Nessuno è comparso per le parti costituite. FATTO e DIRITTO 1. L'appellante ha impugnato in primo grado la cartella esattoriale -OMISSIS-/00 del valore di Euro 18.429,55 riguardante un credito (a titolo di recupero spettanze retributive) vantato nei suoi confronti da parte della amministrazione di appartenenza (Croce Rossa Italiana); cartella conseguente, nello specifico, alla mancata ottemperanza all'invito al pagamento n. 54003 del 18 novembre 2016 e notificato il successivo 24 novembre 2016. La decisione oggetto di gravame, in sede di giudizio di primo grado, dopo avere affermato la giurisdizione del giudice amministrativo in materia, ha dichiarato il ricorso inammissibile. In particolare, il giudice di primo grado ha preliminarmente rigettato l'eccezione di giurisdizione sollevata dall'appellata qui non costituita. Nel merito, ha ritenuto che le doglianze del ricorrente si sono concentrate sul merito della pretesa impositiva e non sulla successiva fase di riscossione; ha pertanto dichiarato l'inammissibilità del ricorso sulla base di giurisprudenza costante (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. VI, 31 ottobre 2017, n. 25995), per cui la cartella di pagamento avente titolo in un precedente avviso di accertamento non impugnato può essere contestata solo per vizi propri, non già per vizi suscettibili di rendere nullo o annullabile il presupposto avviso di accertamento (o invito di pagamento, come nella specie) a suo tempo non debitamente gravato. 2. Propone ora appello per i seguenti motivi: I) Erroneità e difetto di motivazione nonché contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata per avere dichiarato inammissibile (per mancata tempestiva impugnazione dell'accertamento) il ricorso in materia di pubblico impiego non contrattualizzato (giurisdizione esclusiva) avente ad oggetto sia la cartella di pagamento che il sotteso diritto alla restituzione dell'asserito indebito pagamento di retribuzione per mansioni superiori corrisposte al dipendente in virtù di atto transattivo II) Travisamento dei fatti. 2.1 I due motivi sono trattati dall'appellante nel medesimo capo. In particolare, l'appellante censura la valutazione del Tar nella parte in cui mentre afferma di poter esaminare la vicenda alla stregua del giudice dell'esecuzione, arresterebbe poi la sua disamina alla sola cartella di pagamento, affermando che si è verificata la decadenza per mancata tempestiva impugnazione dell'avviso precedente la cartella; in tal senso ritiene che nella fattispecie opererebbe il termine di prescrizione civilistico ai fini dell'impugnazione dell'avviso di pagamento. Inoltre, rileva l'inesistenza del credito sulla scorta della stessa relazione del Ministero dell'economia e delle finanze per cui sarebbe illegittima l'annullamento della transazione conclusa in relazione alla questione controversa (promozioni illegittimamente adottate del personale della CRI). Il motivo è infondato. Nel caso in questione la successione temporale dei fatti, come emerge dagli atti di causa è la seguente: - l'appellante a seguito delle tre Ordinanze commissariali n. -OMISSIS- ha sottoscritto una transazione al fine di correggere le irregolarità riscontrate relativamente alla gestione del trattamento retributivo del Corpo Militare, emerse a seguito di un'indagine contabile-amministrativa eseguita dal Servizio Ispettivo di Finanza pubblica (S.I.Fi.P.), del Ministero dell'Economia e Finanze; - in sede di autotutela, con l'O.P. n. -OMISSIS- del 30 giugno 2008 sono state annullate le citate OO.CC. e disposto il recupero delle somme indebitamente corrisposte a seguito delle stesse; - all'appellante, con nota prot. CRI n. 9729 del 7 luglio 2008 è stato inviato l'atto di messa in mora e interruzione dei termini di prescrizione per il recupero della somma di euro 17.887,06 (corrisposta a seguito di atto transattivo sottoscritto con l'Amministrazione, annullato con l'O.P. n. -OMISSIS- del 30/06/2008); - con ulteriore prot. n. 54003 del 18 novembre 2016 gli è stato comunicato l'avvio del procedimento di ripetizione delle somme illegittimamente percepite a seguito di atto transattivo; - le comunicazioni sopra richiamate del 7 luglio 2008 e dell'18 novembre 2016 non sono state impugnate. Sulla scorta di giurisprudenza consolidata rispetto alla cartella esattoriale, è possibile dedurre soltanto fatti estintivi o impeditivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, come il pagamento, la prescrizione, salvo il caso, della mancata notifica dell'atto presupposto, potendo in tal caso essere recuperata la relativa tutela (cfr. Cassazione civile sez. VI - 17 aprile 2015, n. 7829; analogamente Consiglio di Stato sez. V - 15/12/2016, n. 5279 in relazione a pretese tributarie la cartella esattoriale è mero atto di riscossione ex art. 36 bis n. 600 del 1973, suscettibile d'impugnazione solo per vizi propri). Nello specifico l'appellante solleva questioni relative alla presunta illegittimità di atti non impugnati - quale il richiamato annullamento della transazione - che pertanto non possono essere fatti valere tramite l'impugnazione della cartella. Va ancora rilevato che il ricadere - come nella fattispecie in esame - la controversia sulla cartella in materia di rapporto di pubblico impiego non privatizzato nell'ambito della giurisdizione esclusiva (come rilevato nella decisione di primo grado in un capo non impugnato della sentenza e quindi passato in giudicato) comporta che il giudice ammnistrativo sia competente anche in materia di diritti. Ma ciò non può determinare, come sostiene l'appellante, che una regola sulla giurisdizione comporti un diverso atteggiarsi delle regole processuali, per cui ne deriverebbe una legittimazione ad agire nel termine di prescrizione civilistico; nella fattispecie in esame, venendo in rilievo un atto amministrativo "non espressione di condizione di pariteticità " opera la regola generale dell'art. 29 c.p.a. per cui il ricorso va notificato nel termine di sessanta giorni. In considerazione di quanto sin qui evidenziato il ricorso di primo grado è inammissibile nei termini appena descritti. 3. Al rigetto dell'appello non segue la condanna alle spese di lite vista anche la peculiarità dei diversi interessi contrapposti delle parti in causa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei termini dì cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità . Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Emanuela Loria - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere Riccardo Carpino - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10822 del 2021, proposto dai signori Da. Lu. ed altri, Lu. S.r.l., rappresentati e difesi dall'avvocato Sa. Ni. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Em. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti dei signori Gi. Zi. ed altri, nonché della società Im. Gi. & C. s,a,s, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituiti in giudizio. per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia Sezione Seconda n. 01056/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 marzo 2024 il consigliere Giuseppe Rotondo e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il ricorso in esame ha ad oggetto la domanda proposta dal Comune di (omissis): a) di accertamento dell'inadempimento da parte degli originari proponenti il programma integrato di intervento denominato (omissis)/ Via (omissis) - Via (omissis), delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di (omissis) in data 10 dicembre 2008; b) di condanna di tutte le parti evocate in giudizio, in solido tra loro, a corrispondere al Comune di (omissis) i costi preventivati per il completamento dei lavori ammontanti a euro 387.700,69, oppure la somma di giustizia, da determinarsi anche previa CTU, corrispondente ai costi (per spese tecniche, di direzione lavori e collaudo, e per opere, forniture, noli, pubblicazione bandi e ricerca contraente e per ogni altra ragione prodromica, conseguente e connessa) che il Comune di (omissis) dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis) in conseguenza dell'inadempimento dell'obbligazione infrastrutturativa gravante sugli originari sottoscrittori della convenzione accessoria al (omissis)/Via (omissis)-Via (omissis), con interessi dalla data della domanda. 2. Il giudizio trae origine da un programma integrato di intervento, approvato ai sensi degli artt. 92 ss. l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, denominato "PII n. (omissis) - Piazza (omissis)/Via (omissis)" (di seguito, (omissis)). Le parti proponenti (Si. Co. s.r.l., Gi. Zi. ed altri) sottoponevano al Comune di (omissis) una istanza di programma integrato di intervento. L'intervento prevedeva l'assegnazione di una consistente volumetria da dislocare incrementalmente nell'ambito di un piano attuativo in itinere. La proposta di Piano prevedeva, inoltre, l'assunzione di una obbligazione infrastrutturativa da parte dei proponenti. La richiesta veniva valutata positivamente dagli organi comunali e definitivamente approvata dal Consiglio comunale con deliberazioni n. 33 del 26 giugno 2008 e n. 47 del 9 settembre 2008. Seguiva la sottoscrizione della convenzione attuativa in data 10 dicembre 2008. I sottoscrittori della convenzione si impegnavano ad attuare, quale standard qualitativi connessi all'attuazione del piano, la sistemazione della Piazza (omissis), con inizio lavori entro 30 giorni ed ultimazione entro 180 giorni dalla data di stipula della convenzione. Le opere da attuare consistevano: 1. nella pavimentazione della piazza con manto in porfido; 2. nella realizzazione dell'illuminazione della suddetta piazza; 3. nel rifacimento del manto d'usura della Via (omissis); 4. nella realizzazione di un tratto viario e dei sotto-servizi meglio descritte nel computo metrico estimativo allegato al progetto e approvato dal consiglio comunale. A garanzia della regolare esecuzione dei lavori, i soggetti attuatori hanno prestato polizza fideiussoria a favore del Comune emessa da "It. S.p.A." per l'importo di Euro. 431.500,00. In seguito (nel 2009) venivano approvati il progetto preliminare, definitivo ed esecutivo delle opere di urbanizzazione da realizzare. Le volumetrie assegnate venivano immediatamente realizzate, non altrettanto le opere relative alla parte pubblica. Verificato che i soggetti attuatori non avevano eseguito i lavori di urbanizzazione di cui sopra nei tempi stabiliti, l'ufficio tecnico comunale chiedeva, in data 20 febbraio 2010, alla società garante It. s.p.a. l'escussione della polizza, per eseguire le opere in via sostitutiva. Sennonché, la società garante risultava nel frattempo dichiarata fallita con provvedimento del 24 settembre 2009 del Tribunale di Roma. In data 15 marzo 2010, il Comune richiedeva in via formale ai soggetti attuatori (Si. Co. s.r.l., Zi. Gi. ed altri) la ricostituzione della garanzia prevista dall'art. 10 della convenzione. Con successiva nota comunicava ai soggetti attuatori l'avvio di un procedimento amministrativo ai sensi dell'art. 8 della convenzione, volto alla declaratoria della decadenza della convenzione. Il Comune inviava una ulteriore comunicazione, intimando ai soggetti attuatori: i) di produrre la suddetta garanzia, previa rimodulazione dell'importo della polizza; ii) di eseguire i lavori di completamento previsti dalla convenzione stessa. I lottizzanti contestavano le quantificazioni operate dall'amministrazione. Ricostituita la garanzia fideiussoria con la compagnia RA. s.p.a., il Comune procedeva infruttuosamente alla sua escussione. Ritenuti superati i termini previsti per l'attuazione degli obblighi connessi all'attuazione del PII- (omissis), il Comune dichiarava la decadenza del PII- (omissis). Senza esito rimanevano anche le diffide ad eseguire le opere di urbanizzazione mancanti, inviate tra il 28 ottobre 2010 e il 2 novembre 2010, inviate in data 15 dicembre 2010 anche all'indirizzo degli aventi causa degli originari proponenti. 3. Con ricorso iscritto al n. r.g. 1258/2011, il Comune adiva il T.a.r. per la Lombarida. Nel corso del giudizio, Tribunale di Milano dichiarava il fallimento della società Si. Co. s.r.l. Con ordinanza n. 1538/2914, il T.a.r. per la Lombardia dichiarava l'interruzione del processo. Con decreto n. 833/2014, il T.a.r. per la Lombardia, preso atto della mancata riassunzione del giudizio da parte di nessuna delle parti costituite, dichiarava l'estinzione del giudizio. 4. Con ricorso iscritto al nrg 799 del 2017, il Comune proponeva ricorso al T.a.r. per la Lombardia per l'accertamento dell'inadempimento delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta in data 10 dicembre 2008, con la conseguente condanna di tutte le parti private, in solido tra loro, a corrispondergli la somma corrispondente ai costi che lo stesso Comune dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis). Il Comune, sul presupposto che gli obblighi di urbanizzazione sono inquadrabili alla stregua di obbligazioni propter rem per cui l'Amministrazione deve ritenersi legittimata ad agire sia nei confronti degli originari stipulanti, sia nei confronti di coloro che hanno acquistato le rispettive unità immobiliari successivamente alla stipula e alla trascrizione della convenzione relativa al PII, evocava in giudizio i proprietari attuali delle unità immobiliari in ragione dell'asserito "collegamento immediato e diretto dei suddetti obblighi con la proprietà ", stante che "l'acquirente subentra nella posizione negoziale degli originari proponenti". Produceva, altresì, relazione tecnica per la stima dei costi preventivati per il completamento delle opere che venivano quantificati in euro 387.700,69. Nessuno si costituiva per le controparti. 5. Con sentenza n. 1056/2021, del 27 aprile 2021, il T.a.r. per la Lombardia accoglieva il ricorso e, per l'effetto, condannava le parti intimate, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale in favore del Comune per l'importo complessivo di Euro 387.700,69 oltre rivalutazione e interessi dalla data di proposizione del giudizio e fino al saldo. 6. Hanno appellato i signori indicati in epigrafe. 6.1. Gli appellanti censurano la sentenza per: I) error in iudicando - difetto di legittimazione passiva: a) la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui ha ritenuto provata la legittimazione passiva degli odierni appellanti, quali acquirenti degli immobili oggetto degli interventi previsti dal PII e dalla successiva convenzione sottoscritta tra gli originari attuatori ed il Comune di (omissis); b) gravava sul Comune di (omissis), l'onere di provare che gli odierni appellanti erano effettivamente subentrati nella posizione degli originari proponenti del PII; c) con la dichiarazione di decadenza della convenzione, l'Amministrazione ha deciso di risolvere di diritto il rapporto convenzionale, in tal modo precludendosi la possibilità di chiedere l'adempimento delle obbligazioni ivi dedotte, così come previsto dall'art. 1453 c.c.; II) error in iudicando - violazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 30 c.p.a.: a) il Comune avrebbe chiesto l'adempimento della convenzione, mentre il T.a.r. ha condannato gli appellanti al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di un importo pari ai costi che il Comune dovrà sostenere per effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti dall'art. 4 della convenzione. III) error in iudicando - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1453 c.c.. Insussistenza del diritto al pagamento del danno nella somma pari ai costi che il Comune di (omissis) dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis): a) l'obbligo dedotto in convenzione, cui sono tenuti i soggetti attuatori (ed eventualmente i loro aventi causa), consisterebbe in un obbligo di fare, ovvero realizzare le opere secondo quanto previsto dal PII, ma non un obbligo di dare, ovvero corrispondere il controvalore delle opere in caso di mancata realizzazione; b) l'Amministrazione comunale, in ipotesi di domanda di condanna all'adempimento della convenzione, avrebbe potuto chiedere solo la condanna alla realizzazione delle opere infrastrutturative (obbligazione principale), ma non la condanna al pagamento della somma che il Comune dovrà sostenere per l'esecuzione delle predette opere in via sostitutiva; c) sarebbe precluso al Comune di (omissis) la possibilità di richiedere l'adempimento della convenzione, stante quanto previsto dall'art. 1453 c.c., applicabile alle convenzioni urbanistiche in ragione del richiamo, di cui all'art. 11, comma 2, l. n. 241/1990, ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e di contratti in quanto compatibili. IV) error in iudicando - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1227 c.c. Concorso di colpa del creditore nella causazione del danno. a) la sentenza impugnata è viziata nella parte in cui, nella quantificazione del danno, non ha tenuto conto del concorso del fatto colposo del Comune di (omissis) nel cagionarlo: i) il Comune di (omissis) avrebbe atteso oltre un anno dalla sottoscrizione della convenzione e dalla scadenza dei predetti termini di inizio e conclusione dei lavori per pretendere l'adempimento dai soggetti attuatori ed escutere infruttuosamente la fideiussione per intervenuto fallimento della società IT. s.p.a.; ii) agli atti del giudizio di primo grado non risulterebbe alcun documento che dimostri l'intervenuta escussione da parte del Comune di (omissis) della fideiussione prestata dalla RA. s.p.a., né delle ragioni della infruttuosità della richiesta di pagamento; iii) sarebbe addebitabile al Comune il ritardo nell'approvazione del progetto esecutivo, intervenuta solo con deliberazione G.C. n. 207 del 15 dicembre 2009, a distanza di oltre un anno dalla sottoscrizione della convenzione e della scadenza dei termini per la consegna dei progetti dalle parti private. 7. In prossimità dell'udienza, le parti hanno depositato memorie conclusive e di replica. 8. All'udienza del 7 marzo 2024, la causa è stata trattenuta per la decisione. 9. Con il primo motivo, gli appellanti sostengono che erroneamente il T.a.r. non avrebbe rilevato il difetto di legittimazione passiva degli istanti. 9.1. Il motivo è infondato. 9.2. La qualificazione (operata dal T.a.r.) in termini di obligatio propter rem delle obbligazioni scaturenti dalla convenzione urbanistica è da reputare corretta. È, infatti, ravvisabile un rapporto creditorio caratterizzato da una connessione tra l'obbligazione e la cosa, per cui risulta debitore colui il quale nei confronti della cosa gode di una posizione di diritto reale. Secondo la nozione più accreditata, l'obbligazione reale di ampio e diverso contenuto positivo o negativo è connessa con il diritto, di cui il debitore è titolare: diritto del quale l'obbligazione segue le vicende, in considerazione della sua funzione, trovando la propria ragione d'essere nella titolarità del diritto, come conseguenza del principio secondo il quale chi gode di determinati vantaggi non può non subire gli eventuali riflessi negativi. L'obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione riguardano, pertanto, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione, nonché i loro aventi causa. La realizzazione degli oneri di urbanizzazione grava infatti, quale obbligazione propter rem, sui terreni di cui sia stata prevista la trasformazione urbanistica. 9.3. Tanto più che, nella vicenda in esame, l'articolo 3 della convenzione ha espressamente previsto che "i soggetti attuatoti privati assumono, altresì, nei confronti del Comune di (omissis), per sé e per i propri aventi causa, tutti gli obblighi autorizzativi e di carattere economico meglio dettagliati negli articoli successivi", con la conseguenza che gli acquirenti successivi sono subentrati nella posizione giuridica degli originari proponenti, acquisendone diritti e obblighi (ferma la responsabilità solidale dei lottizzanti con gli acquirenti dei suddetti oneri). 10. Parte appellante sostiene che l'Amministrazione avrebbe prodotto solo la convenzione sottoscritta tra gli originari attuatori e il Comune, ma non anche i contratti di acquisto degli immobili da parte degli appellanti, con la conseguenza che non sarebbe stata fornita la prova che gli odierni appellanti fossero effettivamente subentrati nella posizione degli originari proponenti del PII. 10.1. La censura non è fondata. 10.2. In primo luogo, sono stati gli stessi appellanti a qualificarsi proprietari e comproprietari degli immobili ricadenti nel piano integrato e di essere aventi causa degli originari proponenti (vedi I motivo di appello, paragrafo I.a, al rigo 15 e 16 - I motivo di appello, par. I.b, al rigo 6-7-8-9). La circostanza è, di per sé, dirimente ove si consideri che l'oggetto del giudizio concerne, non già l'accertamento di diritti reali bensì, l'obbligazione realizzativa delle opere di urbanizzazione previste nella convenzione accessoria al piano integrato. 10.3. Sotto altro profilo, il Comune ha documentato di avere inviato a ciascuno dei singoli proprietari delle unità immobiliari comprese nel compendio oggetto di piano una comunicazione di avvio di un procedimento di controllo circa la regolarità dell'immobile, indicando le originarie obbligazioni inerenti le infrastrutture e l'esigibilità della pretesa nei loro confronti quali aventi causa degli originari proponenti, ribadendo agli stessi la responsabilità solidale tra gli originari sottoscrittori della convenzione e le parti acquirenti degli immobili. 11. Gli appellanti ritengono di non essere obbligati in quanto avrebbero acquistato antecedentemente alla firma della convenzione. 11.1. Il Collegio osserva che la suindicata circostanza fattuale è stata solo genericamente affermata nell'atto di appello (v. I motivo, par. I.a), senza alcuna allegazione documentale in grado di comprovarla (onere incombente sulla parte deducente, in ossequio al principio di vicinanza alla fonte di prova). 11.2. In ogni caso, essa è irrilevante poiché : a) gli appellanti si sono avvalsi del titolo edilizio rilasciato ai dante causa: b) l'opponibilità ai terzi dei vincoli e degli oneri derivanti dalla convenzione deriva dalla sua trascrizione: in tal modo, la pubblicità diventa lo strumento attraverso il quale si giustifica l'estensione soggettiva degli impegni assunti dai proponenti, trasferendosi in capo ai proprietari delle unità immobiliari anche in assenza di uno specifico atto di accollo. 12. Con un ulteriore sub motivo (I motivo, par. I.b), parte appellante sostiene che, a seguito della dichiarazione di decadenza della convenzione, l'Amministrazione avrebbe deciso di risolvere di diritto il rapporto convenzionale, in tal modo precludendosi la possibilità di chiedere l'adempimento delle obbligazioni ivi dedotte, così come previsto dall'art. 1453 c.c. Venuto meno il rapporto convenzionale, nessuna pretesa il Comune potrebbe vantare nei confronti degli acquirenti degli immobili oggetto dell'intervento del Piano non essendo la stessa più esigibile nei loro confronti. 12.1. Il motivo è infondato. 12.2. Il Comune ha chiesto (come era in sua facoltà ), non già l'adempimento dell'obbligazione di fare (questa sì, probabilmente preclusa, in ragione della portata precettiva dell'art. 1453 c.c., a seguito della declaratoria di decadenza), né ha proposto azione di risoluzione del contratto (anche questa preclusa dalla intervenuta decadenza) bensì, previo accertamento dell'inadempimento (rispetto alle obbligazioni rimaste inadempiute), il risarcimento dei danni conseguenti alla mancata esecuzione degli obblighi negoziali, quest'ultimi limitatamente al danno emergente (spese occorrenti per realizzare le opere in sostituzione). Questo Consiglio ha, peraltro, già avuto modo di affermare che "le previsioni della convenzione di lottizzazione costitutive di obbligazioni propter rem (quali l'obbligo da parte del lottizzante di realizzare le opere e la conseguente cessione delle aree), rilevano a tempo indeterminato e producono effetti anche dopo il decorso del decennio di efficacia della convenzione stessa" (Cons. Stato, sez. IV, 13 giugno 2023, n. 5806) 12.3. Peraltro, nessun obbligo gravava sul Comune di agire prioritariamente o esclusivamente mediante l'azione di adempimento; tanto più che l'ente aveva già diffidato infruttuosamente i lottizzanti, aveva richiesto in via formale ai soggetti attuatori (Si. Co. s.r.l., Zi. Gi. ed altri) la ricostituzione della garanzia prevista dall'art. 10 della convenzione, aveva altresì comunicato ai soggetti attuatori l'avvio di un procedimento volto alla declaratoria della decadenza della convenzione, ai sensi dell'art. 8 della convenzione medesima, aveva tentato di escutere la fideiussione, e infine dichiarata la decadenza della convenzione senza che i proprietari avessero mai sollevato contestazioni al riguardo. 13. Con il secondo motivo di appello, gli istanti hanno dedotto la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato: la sentenza ha condannato gli appellanti al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di un importo pari ai costi che il Comune dovrà sostenere per effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti dall'art. 4 della convenzione, nel mentre il Comune di (omissis) non avrebbe agito per il risarcimento del danno, bensì, previo accertamento dell'inadempimento degli intimati alle obbligazioni infrastrutturative previste dal PII, avrebbe chiesto l'adempimento della convenzione mediante pagamento dell'importo necessario a coprire i costi che l'Amministrazione dovrebbe sostenere per effettuare l'intervento in via sostitutiva. 13.1. Il motivo è infondato. 13.2. Come sopra anticipato, il Comune ha chiesto non già l'adempimento della convenzione né l'esecuzione in forma specifica del contratto, bensì : a) di "accertare l'inadempimento da parte degli originari proponenti il programma integrato di intervento denominato (omissis)/Via (omissis)- Via (omissis), delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di (omissis) in data 10 dicembre 2008; b) di condannare tutte le parti private a corrispondere, in solido tra loro, al Comune di (omissis) la somma di euro 387.700,69 o comunque la somma di giustizia (...) che il Comune di (omissis) dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis) in conseguenza dell'inadempimento dell'obbligazione infrastrutturativa gravante sugli originari sottoscrittori della convenzione accessoria la (omissis) Via (omissis) - Via (omissis), con interessi dalla data della domanda". 13.4. Tanto si evince, al di là della qualificazione delle domande, dalla esposizione dei fatti, laddove il Comune precisa e ribadisce (v. par. 3, pagina 12 del ricorso di primo grado) che l'azione proposta in giudizio postula "l'accertamento - previa CTU - dell'effettivo inadempimento rispetto all'obbligazione di provvedere ad eseguire le opere di riqualificazione della Piazza (omissis). Come si evince dalla relazione tecnica che si allega e dall'apparato fotografico, i lavori sulla piazza sono stati solamente eseguiti parzialmente ed i costi preventivati per il completamento ammontano a euro 387.700,69, come da relazione tecnica che si allega. Le parti qui convenute andranno quindi condannate in solido tra loro a corrispondere tale somma al Comune di (omissis), il quale - previe le formalità di ricerca del contraente privato-qualificato - provvederà ad attuare in via sostitutiva tali interventi su area di proprietà comunale mai transitata nel possesso delle parti private". 14. Con il terzo motivo di appello, gli istanti deducono la "Insussistenza del diritto al pagamento del danno nella somma pari ai costi che il Comune di (omissis) dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis)". 14.1. Sostengono che "l'obbligo dedotto in convenzione, cui sono tenuti i soggetti attuatori (ed eventualmente i loro aventi causa), è un obbligo di fare, ovvero realizzare le opere secondo quanto previsto dal PII, ma non un obbligo di dare, ovvero corrispondere il controvalore delle opere in caso di mancata realizzazione". 14.2. Il Comune di (omissis) avrebbe dovuto, pertanto, richiedere la condanna all'adempimento della convenzione mediante realizzazione delle opere ivi dedotte e, solo nel caso in cui i debitori non avessero dato esecuzione alla pronuncia, procedere all'esecuzione in danno. 14.3. Il motivo è infondato. 14.4. Il Comune, ancor prima di agire per l'inadempimento e il conseguente risarcimento dei danni, aveva ormai dichiarato la decadenza della convenzione (rimasta inoppugnata), in tal modo facendo cessare unilateralmente l'efficacia dell'atto convenzionale, in conseguenza dell'inadempimento della controparte. 15. Ragion per cui non avrebbe potuto agire per l'esatto adempimento, ovvero per l'adempimento dell'obbligazione di fare, ostandovi l'articolo 1453 c.c. 16. Con il quarto motivo, gli appellanti eccepiscono il concorso di colpa dell'amministrazione nella causazione del danno. 16.1. Anche questo motivo è infondato. 16.2. I lottizzanti avrebbero dovuto presentare il progetto esecutivo entro 30 giorni dalla sottoscrizione della convenzione (art. 4 della convenzione). 16.3. Non consta in atti che tale termine sia stato rispettato. 16.4. Di contro, dalla versata documentazione (vedi parte motiva della delibera c.c. n. 207/2009) si evince che il progetto esecutivo delle opere di che trattasi è stato presentato dall'arch. Guzzetti (incaricato dai lottizzanti) soltanto in data 5 ottobre 2009, con successive integrazioni del 23 novembre 2009 e del 14 dicembre 2009, e quindi approvato dal consiglio comunale in data 15 dicembre 2009, con delibera dichiara immediatamente esecutiva. 16.5. Nessun ritardo, pertanto, è imputabile all'ente locale. 16.6. In ogni caso e comunque, anche a far decorrere dalla data del 15 dicembre 2009 il termine di 180 giorni pattuito in convenzione per la realizzazione dei lavori di Piazza (omissis), rileva la circostanza che il Comune, a fronte dell'inerzia dei lottizzanti, ha notificato tempestive diffide ad adempiere con note inviate "tra il 28 ottobre 2010 e il 2 novembre 2010" nonché in "data 15 dicembre 2010", senza sortire alcun effetto. 16.7. Il comportamento dell'amministrazione è stato, pertanto, improntato a leale collaborazione tant'è che è stata tentata (infruttuosamente) anche l'escussione della polizza fideiussoria. 16.8. Ricostituita la medesima (con altra Compagnia), anche il secondo tentativo di escussione non è andato a buon fine. 17. Gli appellanti sostengono che l'amministrazione non avrebbe fornito la prova della seconda escussione. 17.1. Il Collegio osserva che la circostanza non ha particolare rilevanza in quanto l'escussione della polizza, essendo posta a garanzia della prestazione, è una facoltà del creditore e non un obbligo né, tantomeno, una condicio iuris per l'esecuzione in danno. 18. Deve concludersi, pertanto, per l'imputabilità dell'inadempimento alla parte appellante, da considerarsi responsabile ai sensi dell'art. 1218 c.c., poiché non risulta che abbia posto in essere, secondo una puntuale diligenza, tutto quanto era in sua potestà per impedire che si concretizzasse la mancata esecuzione delle proprie obbligazioni. 19. Per le ragioni che precedono, l'appello è, in parte qua, infondato. Per l'effetto, va confermata la sentenza di primo grado con la quale è stato accertato e dichiarato l'inadempimento, da parte dei privati, delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di (omissis) in data 10 dicembre 2008. 20. Parte appellata (originaria ricorrente) ha chiesto, altresì, nel giudizio di primo grado, la condanna di tutte le parti evocate in giudizio, in solido tra loro, a corrisponderle i costi preventivati per il completamento dei lavori ammontanti a euro 387.700,69. 21. Il T.a.r., con la sentenza impugnata, ha condannato le parti intimate, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale in favore del Comune per l'importo complessivo di Euro 387.700,69 oltre rivalutazione e interessi. 21.1. Parte appellante ha censurato la sentenza sul presupposto che "In ogni caso... il risarcimento del danno non può essere pari ai costi da sostenersi per realizzare le opere di urbanizzazione in via sostitutiva, non avendone l'Amministrazione fornito la prova" (v. motivo di appello III.b, penultimo capoverso). 22. Il Collegio osserva, sul punto, che il costo iniziale dei lavori relativi alla sistemazione della piazza (posti a carico delle parti private: v. art. 4 della convenzione sottoscritta del 10 dicembre 2008) è stato determinato con deliberazioni di giunta comunale 8 settembre 2009, n. 149 (recante approvazione del progetto preliminare delle opere di urbanizzazione), di giunta comunale n. 158, del 29 settembre 2009 (recante approvazione del progetto definitivo delle predette opere di urbanizzazione), di giunta comunale n. 207 del 15 dicembre 2009 (recante approvazione del progetto esecutivo delle medesime opere per l'importo di euro 395.014,00). 23. I progetti di cui sopra sono stati redatti dalle parti private e consegnati al Comune che li ha approvati. 24. La quantificazione originaria dei costi per la realizzazione delle opere, quale determinata in sede di progettazione, non può, pertanto, porsi in discussione. 25. La questione che si pone, tuttavia, concerne la quantificazione dei costi relativi alle opere rimaste incompiute e che il Comune deve realizzare. 25.1. Al riguardo, l'amministrazione comunale ha fornito un sufficiente principio di prova in ordine ai costi da sostenere per il completamento dei lavori, mediante allegazione di dettagliata perizia tecnica descrittiva delle voci di spesa da fronteggiare. 26. Lo stesso Comune ha, poi, precisato (v. pagina 12 del ricorso di primo grado) che "i lavori sulla piazza sono stati solamente eseguiti parzialmente ed i costi preventivati per il completamento ammontano a euro 387.700,69, come da relazione tecnica che si allega" o, comunque, nella "somma di giustizia, da determinarsi anche previa CTU, corrispondente ai costi (...) che il Comune di (omissis) dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza (omissis) in conseguenza dell'inadempimento dell'obbligazione infrastrutturativa gravante sugli originari sottoscrittori della convenzione accessoria al (omissis) Via (omissis)-Via (omissis)". 27. Assolto da parte del Comune l'onere del principio di prova in ordine ai fatti dedotti in ricorso, il Collegio ritiene, al fine di decidere in ordine al predetto punto rimasto controverso (sopra par. 25-26: quantificazione esatta dei costi relativi alle opere di urbanizzazione rimaste incompiute), di disporre verificazione affidandola al Provveditore interregionale per la Lombardia e l'Emilia-Romagna-Dipartimento per le opere pubbliche, o a dipendente da quest'ultimo designato, purché dotato delle necessarie competenze. 28. Il verificatore dovrà dare risposta al seguente quesito: i) calcoli il verificatore l'ammontare dei costi per il completamento dei lavori di adeguamento della Piazza (omissis) del Comune di (omissis), meglio descritti e indicati nell'articolo 4 della convenzione stipulata il 10 dicembre 2008, tenuto conto anche delle spese tecniche, direzione lavori, collaudo e oneri connessi alla esecuzione delle opere di completamento. A tale fine: - il verificatore dovrà comunicare alle parti costituite la data ed il luogo dell'inizio delle operazioni peritali entro trenta giorni dalla comunicazione della presente sentenza; - le parti hanno facoltà di nominare tecnici di fiducia i cui nominativi dovranno essere previamente comunicati al verificatore entro la data di inizio delle operazioni peritali; i tecnici potranno assistere, unitamente ai difensori, agli eventuali sopralluoghi e fare inserire le loro osservazioni nei relativi verbali; - previo rituale avviso dell'inizio delle operazioni alle parti, il verificatore ha facoltà di procedere, ove ritenuto opportuno, alle acquisizioni di elaborati e documenti ritenuti opportuni presso il Comune di (omissis); gli uffici del Comune di (omissis) collaboreranno con il verificatore e gli presteranno ogni ausilio necessario, con l'avvertenza che, in caso contrario, qualora il verificatore dovesse segnale nella relazione la loro mancata collaborazione, il Collegio potrà trarre argomenti di prova dalla condotta del Comune, ai sensi dell'art. 64, comma 4, c.p.a. e/o tenerne conto ai fini della liquidazione delle spese di lite; - il verificatore dovrà depositare la propria relazione preliminare entro 60 giorni dall'inizio delle operazioni peritali; - le parti costituite possono comunicare al verificatore le proprie eventuali osservazioni alla relazione preliminare entro il termine di 15 giorni dal ricevimento della predetta relazione preliminare; - il verificatore depositerà nella Segreteria di questo Consiglio la propria relazione finale sui quesiti posti dal Consiglio entro il successivo termine di trenta giorni; dovranno costituire oggetto di specifico esame e riscontro anche le eventuali osservazioni delle parti. Le spese per il verificatore saranno regolate successivamente con separato provvedimento, previa richiesta e presentazione di notula del professionista. 29. Per quanto sin qui esposto e argomentato, il collegio, parzialmente decidendo sul ricorso n. 10822/2021, così provvede: a) respinge l'appello proposto avverso il capo di sentenza che ha accertato l'inadempimento a carico dei privati delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di (omissis) in data 10 dicembre 2008; b) dispone verificazione, nei sensi suindicati, in merito alla quantificazione dei costi necessari per il completamento delle opere di riqualificazione della Piazza (omissis). 30. Regolazione delle spese di giudizio al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, parzialmente decidendo sull'appello nrg 10822/2021: a) respinge l'appello proposto avverso il capo di sentenza n. 1056/2021, del 27 aprile 2021, e per l'effetto conferma la decisione del T.a.r. per la Lombardia che ha accertato l'inadempimento a carico dei privati delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di (omissis) in data 10 dicembre 2008; b) dispone verificazione, nei sensi e modalità di cui motivazione, per la quantificazione dei costi relativi al completamento delle opere di riqualificazione della Piazza (omissis). Spese al definitivo. Manda alla Segreteria della Sezione affinché sottoponga il fascicolo al Presidente titolare per la fissazione dell'udienza di merito, da calendarizzare successivamente al deposito della verificazione. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. CASA Filippo - Presidente Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio Augusto - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere Dott. CAPPUCCIO Daniele - Consigliere Dott. TOSCANI Eva - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PM e/ Ra.Al. nato a P il (Omissis) avverso l'ordinanza del 26/04/2023 del GIUD. SORVEGLIANZA di CATANIA udita la relazione svolta dal Consigliere EVA TOSCANI; lette le conclusioni del PG, Gi.Li., che ha chiesto l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in preambolo, il Magistrato di sorveglianza di Catania, dichiarava "manifestamente inammissibile" l'opposizione, proposta dalla condannata Ra.Al., avverso il provvedimento, col quale lo stesso giudice aveva dichiarato non luogo a provvedere sull'istanza di conversione in libertà controllata della pena pecuniaria di 4.000,00 euro di ammenda, inflitta con sentenza del 5 novembre 2009, emessa dal Tribunale di Catania, irrevocabile il 16 ottobre 2012, e aveva contestualmente rilevato l'opportunità di trasmettere gli atti al Pubblico ministero richiedente la conversione, al fine di "pronunciarsi in ordine alla intervenuta prescrizione quinquennale, anche tenuto conto della notifica della cartella esattoriale". A ragione della decisione il Magistrato di sorveglianza poneva "quanto già espressamente motivato da questo Mds con provvedimento in data 3 /2/2923". 2. Avverso detto provvedimento ricorre per cassazione il Pubblico ministero, lamentando la violazione degli art. 173 cod. Pen. e 212 e 227-ter D.P.R. n. 115 del 2002. Rileva il Pubblico ministero ricorrente che nei confronti della condannata, previa iscrizione al ruolo del debito erariale, in data 15 giugno 2015 era stata notificata cartella esattoriale e che tale circostanza che attesta l'intervenuto inizio dell'esecuzione per il recupero dell'importo dovuto. Sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte indicata nel ricorso, reputa tale evenienza idonea a impedire gli effetti della decorrenza del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. Pen. . 3. Con requisitoria scritta depositata in data 4 dicembre 2023, il Sostituto Procuratore generale, Gi.Li., ha l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. I presupposti fattuali della vicenda esecutiva in esame sono pacificamente attestati in atti nei seguenti termini: ad Ra.Al., destinataria di condanna alla pena di 4.000,00 euro di ammenda, giusta sentenza del 5 novembre 2009, emessa dal Tribunale di Catania, irrevocabile il 16 ottobre 2012, previa iscrizione al ruolo del debito erariale, è stata notificata, in data 15 giugno 2015, la cartella esattoriale, con esito "irreperibilità relativa", riguardante il medesimo debito che la stessa non risulta aver adempiuto. 2. Tanto premesso in punto di fatto, può senz'altro aderirsi alla prospettazione del Pubblico ministero ricorrente, che ha richiamato l'insegnamento di legittimità secondo cui "Ai fini dell'estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo rileva, quale fatto impeditivo, il solo momento dell'inizio dell'esecuzione, non venendo in conto né il modo - coattivo o spontaneo - in cui tale inizio ha avuto luogo né le successive concrete tempistiche dell'esecuzione medesima. (Fattispecie in cui è stato escluso che la pena dell'ammenda inflitta al condannato si fosse estinta per decorso del tempo in ragione dell'avvenuta notifica della cartella esattoriale prima del compimento del termine di legge)" (Sez. 1, n. 22312 del 08/07/2020, Vitobello, RV. 279453). Questa Corte, con orientamento che qui si condivide e si ribadisce, ha difatti chiarito che in tema di estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, rileva, quale fatto impeditivo, il solo momento dell'inizio dell'esecuzione, a partire dal quale le concrete modalità e le scansioni temporali della procedura stessa risultano irrilevanti. In altri termini, l'inizio dell'esecuzione, che realizza la pretesa alla riscossione del credito dello Stato, è sufficiente a evitare l'estinzione della pena e nessuna rilevanza - in mancanza di una previsione legislativa in tal senso - assume la circostanza che tale inizio sia avvenuto coattivamente, oppure con la collaborazione del condannato (Sez. 3 n. 17228 del 3/11/2016, dep. 2017, Ghidini, RV. 269981). Come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità civile (Sez. 6 civ., n. 21178 del 2/03/2017, RV. 645484; Sez. 3 civ., n. 14528 del 10/06/2013, RV. 626687), nel sistema attuale, gli uffici giudiziari recuperano le somme derivanti da provvedimenti divenuti esecutivi, procedendo direttamente, dopo l'iscrizione delle stesse sul registro, alla formazione ed alla trasmissione dei ruoli, senza effettuare nessuna richiesta bonaria di pagamento al debitore, essendo tale adempimento demandato all'agente della riscossione, che vi provvede con un'intimazione a pagare comunicata unitamente alla cartella di pagamento. La richiesta di pagamento nel termine di un mese costituisce un adempimento richiesto per la regolarità formale della procedura, cioè inerente al quomodo dell'azione esecutiva esattoriale, condotta dal concessionario del servizio di riscossione, cui compete la procedura di riscossione, che è preceduta dalla notificazione della cartella di pagamento, adempimento che tiene luogo del precetto di pagamento proprio della procedura di esecuzione forzata, disciplinata dal codice di procedura civile. In conformità a tale disciplina, l'esecuzione di pena pecuniaria non si realizza al momento del passaggio in cosa giudicata della sentenza di condanna, che rappresenta il titolo esecutivo, bensì allorché il debito erariale viene iscritto a ruolo, oppure, secondo una tesi alternativa, quando venga notificata la cartella esattoriale; in ogni caso, l'inizio della procedura di recupero coattivo è sufficiente ad evitare l'estinzione della pena perché manifesta la pretesa punitiva dello Stato, la cui assenza dà luogo alla prescrizione, a prescindere poi dalle specifiche vicende successive dell'effettivo recupero di quanto dovuto. 3. Sotto altro, concorrente profilo, va rilevato che l'ordinanza impugnata ha assertivamente reputato l'opposizione "manifestamente inammissibile", richiamandosi alle motivazioni del proprio precedente provvedimento, senza in alcun modo confrontarsi con il tema posto dal Pubblico ministero opponente, ovverosia quello del rapporto tra la prescrizione quinquennale e l'avvenuta notifica della cartella esattoriale, così rendendo una motivazione meramente apparente. 4. S'impone, per le esposte ragioni, l'annullamento del provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame al magistrato di sorveglianza di Catania. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Magistrato di sorveglianza di Catania. Così deciso, il 20 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA in nome del Popolo Italiano LA CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sezione Prima Penale Composta dai signori: 1 - dott. Anna Maria Dalla Libera Presidente 2 - dott. Guido Taramelli Consigliere relatore 3 - dott. Roberto Gurini Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA nella causa penale trattata con il rito dibattimentale; contro (...) Elettivamente domiciliato c/o lo studio del difensore avv. (...) di Milano Difensori di fiducia avv. (...), entrambi del Foro di Milano LIBERO PRESENTE IMPUTATO B) del reato di cui agli articoli 81 cpv, 110 e 326 c.p., poiché, quale (...), ricevuta una proposta di incontro privato da parte del dr. sost. proc. in Milano titolare del p.p. (...)/17 mod. 21 r.g.n.r., rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia degli atti indicati ai capo sopra riportato e riferendogli che il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto (...), concorreva nel reato descritto al capo che precede, rafforzando il proposito criminoso di ed entrando così in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo. Ciò faceva al di fuori di una procedura formale - non essendo applicabile quella descritta dalle circolari n. 510 del 1994 e n. 13682 del 1995 dettate dal CSM in merito alla trasmissione, da parte del p.m. procedente, di informazioni relative ad un procedimento penale a carico di un magistrato, da indirizzare formalmente al comitato di Presidenza del CSM - e senza che vi fosse una ragione ufficiale che legittimasse (...) a disvelare atti coperti dal segreto investigativo anziché investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell'indagine. In esecuzione di un medesimo disegno criminoso, una volta ricevuti i citati documenti segreti, violando i doveri inerenti alle proprie funzioni ed abusando della sua qualità di (...), pur avendo l'obbligo giuridico ed istituzionale di impedirne l'ulteriore diffusione, ne rivelava il contenuto a terzi, e segnatamente: consegnava al (...), informalmente e senza alcuna ragione ufficiale, ma allo scopo di "metterlo in allarme circa la frequentazione dei consiglieri (...) e (...), copia degli atti in questione, dopo averlo informato del loro contenuto, incaricandolo di custodirli e di consegnarli al comitato di Presidenza qualora glieli avesse richiesti; riferiva al (...), sempre in assenza di una ragione ufficiale, ma per suggerirle di "prendere le distanze dai consiglieri (...) e (...)", il contenuto delle dichiarazioni rese dall'invitandola a leggerle; riferiva, in assenza di una ragione d'ufficio, al dichiarato scopo di ottenere un giudizio sull'attendibilità dell'Avv. (...), le medesime circostanze al (...), facendogli leggere le dichiarazioni del predetto; informava di quanto appreso dal dr (...) il (...), consegnandogli copia degli atti sopra indicati, al di fuori di qualunque ufficialità al punto che (...), ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute, immediatamente distruggeva detta documentazione; riferiva confidenzialmente analoghe circostanze anche al consigliere del C.S.M., consentendogli la lettura di passi dei verbali; riferiva al (...), in assenza di qualunque ragione d'ufficio, dì un'indagine segreta su una presunta loggia massonica aggiungendo che "in questa indagine è coinvolto"; riferiva al senatore (...), in assenza di qualunque ragione istituzionale e nell'ambito di un colloquio privato, allo scopo di spiegare il motivo dei contrasti insorti con il consigliere (...) che vi era un'indagine in corso su una presunta loggia coperta cui avrebbe fatto parte il citato consigliere; riferiva, in violazione dell'obbligo di segretezza, il contenuto dei verbali resi da (...) alle collaboratrici amministrative (...) e (...); riferiva inoltre, in violazione dell'obbligo di segretezza e al di fuori di una formale procedura, al primo (...) dell'esistenza di atti di un'indagine penale presso la Procura di Milano, nell'ambito della quale (...) aveva riferito dell'esistenza di una loggia coperta in cui sarebbero stati implicati numerosi esponenti delle istituzioni, tra cui i (...) e (...). In Milano e Roma, da aprile a settembre 2020. APPELLANTE avverso la sentenza emessa dal Tribunale collegiale di Brescia, in data 20 giugno 2023, che dichiarava (...) responsabile dei reati a lui ascritti e, concesse attenuanti generiche, ritenuto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Concedeva all'imputato il benefìcio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato di casellario giudiziale. Condannava l'imputato al risarcimento del danno cagionato alla costituita parte civile, che si liquidava definitivamente in euro 20.000,00. Condannava altresì l'imputato alla refusione delle spese di lite sostenute dalla parte civile, (...), che si liquidavano in euro 5.000,00 oltre accessori di legge. PARTE CIVILE (...), domiciliato ex lege dal difensore Fa.Re. Foro di Messina Assistito e rappresentato dall'avv. Fa.RE. del Foro di Messina In esito all'odierna udienza dibattimentale; Udita la relazione del Consigliere dr. Gu.TA.; Udita la requisitoria del S.P.G. dr. En.Be.CE., che ha chiesto la conferma della impugnata sentenza; Udita la difesa della Parte Civile, che ha concluso come da note difensive depositate; Udita la difesa dell'appellante, che si è riportata ai motivi di appello, chiedendone l'accoglimento; la Corte osserva: MOTIVI DELLA DECISIONE La sentenza di primo grado La decisione della Corte di Appello Tanto premesso, ritiene questa Corte territoriale di non condividere le doglianze dell'impugnazione. La produzione documentale delle parti Deve, anzitutto, darsi formalmente atto dell'acquisizione della copiosa documentazione prodotta dalle parti nel corso del giudizio di appello. Sono documenti venuti in essere per lo più successivamente alla sentenza impugnata e che hanno ad oggetti fatti, che hanno un'evidente connessione con alcune circostanze oggetto del presente processo, così da renderli necessari al fine del decidere. Il concorso dell'extraneus nel reato di cui all'art.326 c.p. Ritiene, in prima battuta, questa Corte territoriale di affrontare la tematica concernente l'asserita inesistenza del concorso dell'extraneus nel delitto di rivelazione del segreto d'ufficio commesso dall'intraneus; in tesi difensiva il reato si sarebbe perfezionato nel momento in cui la notizia segreta sarebbe stata rilevata dall'intraneus al primo, di tal che la successiva condotta dell'extraneus costituirebbe un post factum non punibile. Nel caso di specie, peraltro, non potrebbe sussistere un concorso di reato nel proposito criminoso altrui, ai sensi dell'art. 110 c.p., dal momento in cui il dott. (...) è stato assolto giustappunto per mancanza di finalità illecita. Né sarebbe stata contestata l'ipotesi mediata di cui all'art.48 c.p. in ordine all'induzione dolosa di taluno mediante inganno a commettere per errore il reato. Osserva, al riguardo, il collegio che le contestazioni dell'appellante non tengono conto della giurisprudenza della Corte di Cassazione sul tema. Invero afferma la Suprema Corte che "integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus" di una notizia segreta, riferitagli come tale, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore? (Cass pen., sez.V, 17.11.2020, n.1957). Da ciò si evince che, se la condotta dell'intraneus si consuma nel momento in cui svela all'extraneus la notizia riservata, la condotta di quest'ultimo di successiva rivelazione ad altri di detta circostanza costituisce tutt'altro che un post factum non punibile, ma determina la realizzazione di altra e ulteriore condotta di rivelazione distinta da quella dell'originario autore del reato. E, nel caso di specie, è incontestato e incontestabile che il dott. (...) ha messo a conoscenza delle notizie acquisite in via riservata dal dott. (...) una serie di soggetti terzi non esaustivamente limitata ai nominativi elencati nel capo di incolpazione (si pensi ad esempio al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. (...) al collega della corrente di (...), dott. (...)). Non solo, ma ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell'extraneus è anche necessario che questi non si sia limitato a ricevere la notizia, ma abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto (cfr Cass. pen., sez.VI, 17.4.2018, n.34928). Ed anche sul punto risulta in modo incontrovertibile dalla citata sentenza della Corte di Appello di Brescia del 3.11.2022, che il dott. (...) ha effettivamente indotto il dott. (...) a rivelargli le propalazioni dell'avv.to (...) in ordine alla sussistenza della cd. "Loggia Ungheria" in ragione della prospettazione - tutt'altro che fondata, per come si dirà - che il segreto investigativo, non essendo opponibile al C.S.M., per ciò stesso non poteva esserlo nei confronti del singolo consigliere, che ne faceva parte. Ne consegue che non vi era alcuna necessità da parte della Pubblica accusa di costruire la contestazione secondo lo schema dell'autorità mediata ai sensi dell'art.48 c.p. per punire l'extraneus a titolo di concorso nel reato, posto che è sufficiente che questi, dopo avere agevolato la rivelazione del segreto da parte del suo depositario, ne abbia disvelato il suo contenuto a terzi. Né assume rilievo l'intervenuta assoluzione del dott. (...), posto che la stessa non è avvenuta per insussistenza del fatto, ma per carenza dell'elemento soggettivo. Sul tema si rileva che "ai fini della configurabilità della responsabilità dell'extraneus" per concorso nel reato proprio, è indispensabile, oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato, che l'intraneus" esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per l'eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità" (Cass. pen., sez. II, 17.10.2018, n. 219). Ed, invero, la formula assolutoria adottata dai giudici di merito del processo svoltosi a carico del dott. (...) opera esclusivamente sul piano personale, posto che la mancanza di colpevolezza è stata ancorata all'affidamento non colpevole della prospettazione proveniente dall'autorevole componente del C.S.M. dell'epoca secondo cui egli, in quanto tale, era pienamente autorizzato a ricevere notizie coperte da segreto investigativo. A ciò aggiunge la Corte bresciana che, nemmeno poteva ipotizzare il dott. che il destinatario delle sue rivelazioni, vincolato all'obbligo del segreto delle notizie apprese nella veste di (...), non avrebbe mantenuto il segreto, riferendo la notizia e consegnando gli atti ad altri. L'assoluzione dell'intraneus sul piano personale e non oggettivo impone, pertanto, di verificare la necessità di pervenire alla medesima soluzione per l'extraneus senza poterne escludere automaticamente la colpevolezza. Vale al riguardo il principio di diritto, secondo cui l'assoluzione per difetto dell'elemento soggettivo in capo al concorrente "intraneo" nel reato proprio non esclude di per sè la responsabilità del concorrente "estraneo", che resta punibile nei casi di autorità mediata di cui all'art. 48 c.p., o in tutti gli altri casi in cui la carenza dell'elemento soggettivo riguardi solo il concorrente "intraneo" e non sia quindi a lui estensibile (Cass pen., sez. IV, 20.4.2018 n.36730; sez. IV, 28.9.2017 n. 57706; sez. IV, 8.7.2016, n. 6872). L'oggetto della rivelazione del segreto d'ufficio Alla luce delle contestazioni dell'appellante deve, quindi, affrontarsi il tema relativo all'oggetto materiale della condotta di rivelazione del segreto necessaria a integrare la sussistenza del reato. A tal proposito si assume, in chiave difensiva, che la condotta addebitabile in astratto al dott. non potrebbe ricomprendere altro che quella della materiale consegna dei verbali o dell'integrale esibizione degli stessi, in quanto la secretazione si è riferita unicamente a tali atti, per come apposta dal pubblico ministero procedente e non già alla mera notizia della loro esistenza. Così non è. A ben vedere, infatti, viene riproposta una tematica già disattesa dal Tribunale, che, con argomentazione esaustiva, ha affermato come oggetto del reato sia l'informazione e non già il corpo materiale mediante la quale questa è veicolata. La norma di cui aU'art.326 c.p. non parla, infatti, di atti, ma di notizie, con ciò rimandando al contenuto dell'atto investigativo e non già alla veste formale con la quale viene trasmesso, di tal che il reato è integrato allorché vengano riportate notizie inerenti all'ufficio pubblico ricoperto e che siano destinate a rimanere segrete, a prescindere dalla forma con le quali vengano rivelate. E, nel caso di specie, è indubbio che il dott. (...) abbia portato a conoscenza di una selezionata platea di soggetti, più o meno qualificati, informazioni riservate quali: la notizia dell'esistenza di un indagine; l'indicazione dell'autorità procedente; il contenuto delle dichiarazioni rese da un soggetto in tale indagine, nella parte in cui indicava chi erano i partecipi di una loggia massonica, con indicazione specifica di alcuni dei soggetti accusati; il nominativo della fonte dichiarativa. Non appare poi seriamente contestabile che, al momento della loro rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) e da questi a terzi, tali notizie erano coperte da segreto istruttorio, essendo state secretate dal pubblico ministero procedente ai sensi dell'art. 329 co. III c.p.p. nel cd. procedimento contenitore (...) della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano; senza contare poi, che a far data dal 12.5.2020, tali notizie avevano dato vita ad un'autonoma iscrizione nel registro degli indagati, per applicazione della ed. "legge Anselmi" limitatamente al nominativo dei tre soggetti rei confessi - (...), e (...) -, con conseguente obbligo del segreto ai sensi dell'art. 329 co. I c.p. E per quanto in tesi difensiva ci si ostini a sostenere che, alla data del 4.5.2020, epoca della rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) non vi era stata ancora alcuna iscrizione nel registro degli indagati per effetto delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di (...) ben ci si guarda dal confrontarsi con le analoghe condotte tenute dall'imputato verso i terzi dopo la data del 12.5.2020, a iscrizione già avvenuta, e protrattesi sinanco al settembre 2020. Il contenuto della rivelazione al (...) Il contenuto dell'oggetto della rivelazione involge, quindi, la necessità di valutare la contestazione in fatto introdotta dall'appellante con i motivi aggiunti in merito alle rivelazioni effettuate dal dott. (...) a fine estate 2020 al (...) all'epoca (...). La prospettazione dell'appellante vuole che il ricordo del parlamentare sia fallace, nella parte in cui questi avrebbe ricordato che il dott. (...) nel mostrargli i verbali contenenti il nome di (...) da parte di un soggetto, che stava collaborando con l'autorità giudiziaria e che tacciava il magistrato di appartenere ad una loggia segreta di tipo massonico, avrebbe fatto riferimento ad un'indagine di una non meglio precisata "Procura del Nord". Ad avviso del deducente il teste avrebbe fatto confusione, sovrapponendo al suo ricordo le notizie, nel frattempo, apprese dalla stampa, posto che non avrebbe avuto senso logico che il dott. (...) avesse mostrato i verbali al teste, sul cui frontespizio era riportata l'intestazione "Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano" per fare cenno ad una indagine presso una non meglio precisata "Procura del Nord"; a ciò si aggiunge che il dott. (...) giammai avrebbe potuto fare cenno ad un'indagine, che non sapeva nemmeno se avesse avuto corso. Sul punto osserva il collegio che il ricordo sbiadito appare essere quello del dott. (...) ("ma perché avrei dovuto farlo?...Che cosa aggiungeva... non lo ricordo, ma logicamente lo nego"), piuttosto che del teste (...), il quale ha ricordato con precisione tempi e modalità con le quali il (...) lo ha messo al corrente dell'esistenza della notizia riservata sul conto del collega (...). E a conferma della veridicità del suo racconto, il teste ha tratteggiato le modalità del suo incontro con l'imputato, in termini di atteggiamento prudenziale del suo contraddittore, in tutto sovrapponibile a quello descritto dagli altri destinatari delle sue rivelazioni e in relazione ai quali non viene sollevata alcuna contestazione circa la veridicità di quanto da loro riferito. Il teste (...) peraltro, ha specificato che l'imputato gli avrebbe fatto vedere dei fogli velocemente, non consentendogli di leggere altro che il nome di (...), il che rende del tutto possibile che il concentrato sul nominativo indicatogli dal suo interlocutore, non si sia soffermato sull'intestazione dei documenti a lui esibiti in fretta e furia. A ciò si aggiunge che, peraltro, la questione riguarda un particolare del tutto secondario, non smentito altrimenti dall'imputato e che rende ben possibile il fatto che il dott. (...) abbia volutamente cercato di non essere troppo preciso con la sua controparte, diversamente da come si era comportato con altri soggetti con cui aveva più confidenza; significativo, a tal proposito, è il fatto che l'imputato, in tale occasione e a differenza di altre occasioni, non abbia riferito al parlamentare nemmeno il nominativo del cosiddetto collaborante, che, nella sua prospettazione, era la fonte dichiarativa delle accuse mosse nei confronti del dott. (...) Non solo, ma, a ben vedere, l'accenno da parte del dott. (...) all'esistenza di un'indagine presso una "Procura del Nord" emerge parimenti anche dalla deposizione del teste (...), a conferma del fatto che il riferimento ad una determinata area geografica da parte del prevenuto per indicare l'organo inquirente, che aveva raccolto o stava raccogliendo le accuse sulla presunta appartenenza del dott. (...) ed altri ad una loggia segreta, è stata indicazione tutt'altro che eccentrica. Nè la genericità di tale indicazione inficia la sussistenza del reato di rivelazione del segreto, posto che, comunque, sono stati portati a conoscenza di un terzo non legittimato a riceverne la notizia dati coperti da segreto, quali l'esistenza di un'indagine, l'oggetto della stessa con il relativo titolo di reato e il nominativo di uno di coloro che vi erano implicati. Irricevibile è, poi, la considerazione, secondo la quale il dott. Non avrebbe mai potuto parlare di un'indagine in corso, in quanto non sapeva nemmeno se quell'indagine fosse partita o meno. La tesi difensiva si scontra con le affermazioni stesse del dott. (...), il quelle, in sede di esame, ha espressamente dichiarato il contrario, sostenendo che, dopo avere parlato con il (...), il (...) aveva proceduto all'iscrizione, come poi confermatogli di lì a breve, sempre nel maggio 2020, dal dott. (...). Peraltro e a riscontro di tale considerazione vi è il dato oggettivo emergente dall'annotazione di P.G. dell'8.6.2021 a firma del per (...) come riportato nella sentenza di assoluzione del dott. (...) emessa della Corte di Appello di Brescia il 3.11.2022, secondo cui, il 19.5.2020, si registra un contatto telefonico tra il dott. (...) e il dott. (...). Posto il dato pacifico secondo il quale tra i due non vi era alcun rapporto di frequentazione abituale, né di amicizia, appare del tutto evidente che l'unica ragione d'essere di tale comunicazione sia stata quella di uno scambio di informazioni in merito all'eventuale sblocco di quella situazione di stallo all'indagine a suo tempo segnalata dal dott. (...) all'autorevole collega. L'iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura della Repubblica di Milano del 12.5.2020 Sul tema della natura del reato di pericolo del delitto di rivelazione del segreto d'ufficio l'appellante ripropone la tesi dell'inesistenza del danno all'indagine per effetto delle sue condotte rivelatone, che, anzi, piuttosto che danneggiare l'attività investigativa, l'avrebbero promossa per effetto dello sprone operato dal (...) nei confronti del (...) grazie al suo fattivo intervento, così da mettere il procedimento "sui binari della legalità". Nessuno degli interessati sarebbe, peraltro, venuto a conoscenza delle notizie riservate comunicate dal dott. (...) concernenti le propalazioni dell'avv.to (...), che, viceversa, sono state oggetto di divulgazione coram populo per effetto della comunicazione in forma anonima dei verbali di interrogatorio ai due giornalisti (...) e (...) e della trasmissione in diretta su Radio Radicale della seduta dell'assemblea plenaria del C.S.M. del 18.2.2021, nella quale il (...) aveva riferito di avere ricevuto un plico contenente i predetti verbali con una nota accompagnatoria, nella quale si accusava sostanzialmente il (...) e lo stesso (...) di omissioni investigative. Quanto al tema fattuale introdotto dall'appellante, che ripetutamente rivendica a suo merito l'iscrizione del 12.5.2020 della notizia di reato per violazione dell'art.2 delle legge 17/85 da parte del (...) è bene sgombrare il campo da possibili suggestioni di parte, che sembrano peraltro avallate dalla sentenza assolutoria della Corte di Appello di Brescia emessa nei confronti del dott. (...) (pg.38-40). A tenore della citata pronuncia la prospettazione del dott. (...) - secondo cui l'impressione che la decisione da parte dei colleghi di pervenire finalmente all'iscrizione nel registro degli indagati dei nominativi dei tre rei confessi per applicazione della cd. "legge Anselmi", per come decisa nella riunione presso la (...) e materialmente effettuata il sarebbe stata determinata da un input esterno - è confermata da quanto riferito dal dott. (...), dal dott. (...) e dai tabulati telefonici dell'utenza in uso al dott. (...) Invero i predetti elementi probatori collocherebbero con certezza l'intervento del (...) presso il (...) prima dell'8.5.2020, così che, ragionevolmente, si dovrebbe supporre che tale iscrizione sia stata la conseguenza logica del suo antefatto. Così non può essere. Il teste (...) ha, infatti, dichiarato che, una volta informato dal dott. (...) della situazione di possibile impasse esistente presso la (...) aveva avuto nel mese di maggio un colloquio telefonico con il dott. (...), che gli era sembrato avere le idee particolarmente chiare sull'indagine menzionatagli e, successivamente, il 16 giugno, era tornato con lui sull'argomento in occasione di un incontro di persona a Roma. Dal canto suo il teste (...) ha collocato tale contatto telefonico alla data del 25 maggio 2020, confermando poi il colloquio avvenuto di persona a Roma il successivo 16 giugno. Ha escluso, viceversa, che negli sms del 7 maggio 2020, scambiatisi con il dott. (...), l'argomento trattato fosse stato quello avente ad oggetto l'indagine sulla cd. "Loggia Ungheria", spiegando, viceversa, che oggetto di tali messaggi era il ben più urgente disegno di legge del Ministro sulla scarcerazione dei mafiosi a seguito della pandemia per "Covid 19". Del tutto inconferente sul punto appare, viceversa, la deposizione del teste (...), che ha ancorato il ricordo delle confidenze ricevute dal dott. (...) - con le quali questi gli aveva esternato la sua preoccupazione per l'indagine a carico del collega osteggiata dalla Procura della Repubblica di Milano e, nell'occasione, gli aveva fatto vedere i verbali, rappresentandogli di averne già fatto parola con il dott. (...) e il dott. (...) nel primo giorno del suo rientro a Roma dopo il lockdown. A ben vedere, infatti, tale data non è quella riportata nella citata sentenza della Corte di Appello di Brescia -indicata, all'evidenza per un mero errore materiale nell'8 maggio 2020, così da indurre a collocare il colloquio tra il dott. (...) e il dott. (...) tra il 4 e il 6 maggio-, ma è l'8 giugno 2020, posto che il teste indica con precisione proprio tale data per il suo rientro a Roma dopo il lockdown, specificando che questo era avvenuto in ritardo rispetto alla ripresa dei lavori in presenza presso il (...) risalente al 4 maggio 2020, in ragione delle gravi problematiche connesse (...) (vds deposizione teste (...) udienza 23.2.2023 pg. 14). Orbene e a prescindere dalla considerazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia, che, nell'archiviare la posizione del dott. (...) per il reato di cui all'art. 328 c.p. ritiene implausibile che un'eventuale comunicazione riservata sul procedimento "Ungheria" possa essere stata affidata a dei semplici messaggi di testo susseguitisi nell'arco di pochissimi secondi, come quelli documentati il 7 maggio 2020 tra i due Procuratori, in ottica difensiva dovrebbe ipotizzarsi che il teste (...) affermi il falso per ragioni di comprensibile autotutela. Rileva il collegio, tuttavia, come non vi siano elementi concreti che smentiscano quanto affermato dal teste, tanto più che la sua spiegazione ha una sua dignità storica alla luce del tragico periodo emergenziale, che, all'epoca, il Paese stava attraversando e che ben può spiegare come i vertici operativi delle più importanti sedi investigative d'Italia potessero confrontarsi sulle tematiche di maggiore attualità nell'imminenza della cessazione del primo periodo di sospensione dei termini processuali. Non solo, ma è lo stesso dott. (...) - a meno di non volere ritenere che anche il (...), questa volta senza interesse alcuno, abbia anch'egli dichiarato il falso- a corroborare la deposizione del (...), allorché riferisce di avere avuto sul tema della "Loggia Ungheria" un colloquio telefonico con il dott. (...) e non già un semplice scambio di sms, come quello per l'appunto registrato il 7 maggio 2020. Peraltro il teste (...) ha dichiarato solo di essersi informato dell'esistenza dell'indagine e del suo contenuto e non già di avere ordinato una qualche iscrizione, rimanendo peraltro confortato dalle rassicuranti risposte ricevute dal suo interlocutore. A ciò si aggiunga che è la stessa cronistoria delle attività investigative sorte a seguito delle rivelazioni dell'avvocato (...) per come ripercorsa dal decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia a smentire l'assunto dell'appellante e a far ritenere che l'iscrizione nel registro degli indagati di (...), e (...) sia stata decisa a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...). Invero già il 29 aprile 2020 il dott. (...), ricevuta la scheda di iscrizione spedita dal dott. (...), aveva indetto una riunione per discutere del procedimento penale e di eventuali iscrizioni, riunione poi postergata al giorno successivo e ulteriormente rinviata al giorno 8 maggio 2020 per cause indipendenti dalla volontà del medesimo accusato. Da ciò si desume che l'iscrizione dei nominativi dei tre rei confessi di appartenere alla ed. "Loggia Ungheria" sia stata maturata prima e, comunque, a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...) e sia stata, viceversa, il frutto di quel confronto tra investigatori determinato dalla improvvisa iniziativa del dott. (...) e dalla sua eccentricità - al sol considerare che la scelta degli otto nominativi da iscrivere riportati nella scheda di iscrizione appariva del tutto casuale e priva di logica, per come emerge anche dalle affermazioni dello stesso teste (...). La natura di reato di pericolo del reato di rivelazione del segreto d'ufficio Quanto alla natura di reato di pericolo del reato di cui all'art.326 c.p. si osserva, poi, come ormai sia pacifica la giurisprudenza sulla natura del reato in contestazione, all'indomani dell'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, con la nota sentenza n.4694 del 27.10.2011, con cui si è affermato che "il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta". Al collegio pare di particolare pregnanza il passaggio motivazionale della sentenza citata, nella parte in cui, dopo avere affermato che le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art.326 c.p. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, viene evidenziato che quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (cfr Cass pen., sez.VI, 11.10.2005, n.42726). Se così è, è evidente che, nel momento in cui è lo stesso art.329 c.p.p. a indicare che, come nel caso di specie, gli atti di indagine sono atti coperti da segreto tout court e che, anche quelli non più coperti da segreto, possono essere secretati con decreto motivato del pubblico ministero in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, la valutazione circa la sussistenza del pericolo della loro divulgazione è già stata fatta, a monte, dalla norma primaria senza che possa essere rimesso all'interprete la valutazione del rischio. Da ciò consegue che le rivelazioni rese dal dott. (...), in quanto concernenti atti coperti da segreto ex art.329 c.p., erano, per ciò stesso, potenzialmente pericolose per l'indagine a prescindere dalla loro successiva e ulteriore divulgazione. Peraltro, per come condivisibilmente affermato dal giudice di prime cure, la fuga di notizie mediante la trasmissione dei plichi anonimi ai giornalisti (...) e (...) e, non a caso, al consigliere (...), non può certo considerarsi una vicenda estranea e avulsa dalla responsabilità dell'imputato in termini anche di prevedibilità e permea di significato la nozione di pericolo concreto evocato dalla norma incriminatrice. Sul punto lo stesso decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Perugia della posizione di (...) e altri per il reato di cui all'art.2 della cd. "legge Anselmi" condivide le difficoltà evidenziate dal P.M. nella richiesta di archiviazione, già di per sé non semplici per il titolo di reato -che non consentiva di attivare intercettazioni- e per l'unicità della fonte dichiarativa -che riferiva principalmente di circostanze apprese de relato-, in ragione della fuga di notizie "senza eguali precedenti, che ha inevitabilmente inciso sullo sviluppo delle investigazioni negativamente" (pg.39). Senza peraltro trascurare, sempre sul pericolo concreto di inquinamento probatorio, quanto riportato dal Tribunale in merito al fatto che il dott. (...) aveva consegnato per la loro lettura i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) al collega consigliere, dott. (...), soggetto menzionato dallo stesso legale come uno dei destinatari, a suo insaputa, dei favori della "Loggia Ungheria" per intralciare un'indagine promossa da un pool di magistrati di Roma, tra cui vi era lo stesso dott. (...) (vds deposizione teste (...) del 15.11.2022). Il contemperamento tra le esigenze investigative e il perseguimento delle finalità del C.S.M. La questione in oggetto discende ancora una volta dal principio affermato dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora le notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta). Posto che il segreto investigativo, in tesi difensiva, non sarebbe opponibile al C.S.M. e, per ciò stesso, al singolo consigliere, che di tale consesso faccia parte e che i terzi, a cui la notizia è stata riferita, erano soggetti autorizzati a riceverle per i loro fini istituzionali, il reato non sussisterebbe. Questo collegio non condivide la tesi propugnata. L'assunto, secondo il quale il segreto investigativo non è opponibile al singolo consigliere dell'organo di autogoverno della magistratura, in quanto il segreto investigativo non sarebbe opponibile al C.S.M., poggia su una forzatura interpretativa, che, per quanto suggestiva, è da ritenersi erronea. E', innanzitutto, indubbio che la secretazione accordata al segreto investigativo riceve una tutela particolarmente rafforzata dalla sua previsione con legge primaria, quale giustappunto sono gli artt. 326 c.p. e 329 c.p.p. Nel contemperare, poi, le opposte esigenze di tutela investigativa da parte degli organi inquirenti e di necessità per il C.S.M. di apprendere fatti, che possano avere rilievo per la tutela dei suoi fini istituzionali, si sono succedute una serie di circolari, per come ampiamente riportate dal Tribunale. Si tratta questa volta di una serie di norme di rango secondario, che disciplinano casi, modalità e tempi con i quali gli Uffici di Procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al C.S.M. atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività. E poiché si tratta di norme di carattere secondario che derogano ad un principio generale stabilito da norma di rango superiore, queste sono, per ciò stesso, norme di stretta interpretazione e la cui valutazione non può, per ciò stesso, essere rimessa alla soggettiva valutazione dell'interprete. Orbene richiamando sul punto quanto argomentato dal Tribunale, si può ritenere che il (...) non abbia alcun accesso incondizionato e immediato agli atti di indagine, per come, viceversa, sostenuto dall'appellante. Già con deliberazione n.510 in data 15 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura aveva disposto che il pubblico ministero procedente desse immediata comunicazione al Consiglio di tutte le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possano rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Con la successiva deliberazione del 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il C.S.M. ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità, in linea di principio, del segreto investigativo, prevedendo, tuttavia, la rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza. Infine la successiva circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995 ("Informative concernenti procedimenti penali a carico di magistrati'') ha specificato che le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio vengano comunicate dai Procuratori Generali e dai Procuratori della Repubblica con plico riservato al Comitato di Presidenza, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Sul punto ritiene il collegio come non vi possano essere fraintendimenti sull'organo deputato a interloquire con il C.S.M. a proposito dell'opponibilità o meno del segreto investigativo. Per quanto la sezione disciplinare del C.S.M. nel procedimento a carico del dott. (...) nel giungere al proscioglimento limitatamente ad uno degli addebiti formulatigli, ha fatto riferimento a problematiche di natura interpretativa, posto che la circolare 510/1994 fa riferimento al pubblico ministero che procede, mentre le successive e, da ultimo la 13682/1995, parlano di Procuratore delle Repubblica e di Procuratore Generale, non si vede francamente perché non si dovrebbe assecondare l'ultima e più recente indicazione dello stesso organo di autogoverno, del tutto conforme a quei principi di stretta interpretazione valevoli per le eccezioni al principio generale, peraltro introdotto da norme di rango inferiore e, per di più, coerente con la successiva introduzione di un modello fortemente gerarchizzato della Procura della Repubblica per effetto del D.Lgs. 20.2.2006, n.106 recante "Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del Pubblico Ministero, a norma dell'art. 1 comma 1, lett. d) della legge 2005 n.150". Confortano tale ricostruzione ermeneutica, del resto, le affermazioni stesse del teste dott. (...), il quale ha specificato che, nelle sue funzioni di (...) riceve generalmente le notizie dalle (...) il che comporta, che già a monte, è stato vagliato il tema della non opponibilità dell'atto di indagine al C.S.M. Diversamente se l'atto non perviene dall'organo deputato a interloquire con il C.S.M., egli stesso - o anche le singole commissioni in sede di istruttoria- avvia una preliminare interlocuzione con la competente Procura della Repubblica per comprendere la natura di tali atti e se questi siano o meno coperti da segreto investigativo. E, nel caso di specie, va ricordato quanto di fatto è avvenuto all'indomani delle rivelazioni al (...) del dott. (...) circa la ricezione dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), allorché è stata addirittura (...) a chiedere gli atti di indagine alla (...) che, puntualmente, ne ha rifiutato la consegna, opponendo il segreto. Il C.S.M., pertanto, non ha alcun accesso incondizionato agli atti di un'indagine. Infatti le Procure possono omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi e ciò, lo si ribadisce, alla luce del principio di gerarchia esistente tra le fonti normative primarie poste a tutela delle indagini e quelle di rango subordinato che disciplinano l'attività del C.S.M. Non solo, ma anche a voler opinare il contrario, e cioè che possa spettare al pubblico ministero procedente opporre il segreto investigativo e non già al Procuratore della Repubblica, di tal che, se è questi a disvelare la notizia, vi sarebbe implicitamente il suo consenso alla rivelazione dell'atto di indagine, nel caso di specie non si potrebbe nemmeno ritenere sussistente la legittimazione del dott. (...) al disvelamento degli atti di indagine secretati, trattandosi solo del contitolare del procedimento penale n. (...) in quanto in co-assegnazione con la dott.ssa (...) E posto che la circolare 510 non fa alcun riferimento a poteri disgiunti, ma solo al pubblico ministero che procede, l'eventuale discovery agli atti investigativi sarebbe dovuto provenire necessariamente da entrambi i titolari del procedimento e non già da uno solo di essi. Quindi, nel caso di specie, il dott. (...) non era in alcun modo autorizzato a ricevere atti e notizie coperti dal segreto investigativo, anche perché il suo contraddittore non aveva comunque legittimazione alcuna a tal proposito. Ma vi è di più. Per come puntualizza il giudice di prime cure, le circolari menzionate sono particolarmente restrittive anche per quanto riguarda l'oggetto e le modalità di trasmissione al C.S.M. delle notizie coperte da segreto. Quanto all'oggetto delle informative queste devono, infatti, concernere notizie di reato iscritte ex art. 335 c.p.p. o anche a mod. 45, ove si ravvisino fatti privi di rilievo penale "che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio". L'invio degli atti deve avvenire, poi, mediante plico riservato con destinatario il (...) La migrazione di atti coperti da segreto deve, dunque, avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia e giammai può avvenire attraverso quelle comunicazioni riservate e confidenziali, di cui tutti i testi hanno parlato, per come espressamente riportato nella sentenza impugnata. Non solo, ma anche a voler sostenere che non necessariamente i verbali contenenti le dichiarazioni "esplosive" dell'avv.to (...) dovevano essere spediti in plico chiuso al (...) vi era la necessità che quanto da essi rappresentato venisse formalmente acquisito al protocollo del (...) per l'inoltro al (...), cosa che viceversa non è in alcun modo avvenuto. E in tale modo la violazione delle circolari è stata tutt'altro che formale, ma è stata sostanziale, in quanto con l'agire sotto traccia è stato impedito alla Procura della Repubblica di Milano di poter opporre il segreto investigativo, per come avrebbe fatto sicuramente, secondo quanto manifestato dal teste (...) e avvenuto, poi concretamente, da parte del Procuratore della Repubblica di Perugia, una volta che l'indagine era stata spostata per competenza nel capoluogo umbro. Né, infine, convince la tesi secondo la quale i soggetti terzi, cui sarebbe stata destinata da parte del dott. (...) la notizia "riservata", l'avrebbero dovuta conoscere per i propri fini istituzionali. A prescindere dalle considerazioni spese a proposito dell'opponibilità del segreto investigativo al C.S.M., l'inconsistenza della tesi difensiva si evidenzia, in maniera eclatante, con riferimento alla comunicazione dell'indagine alle collaboratrici di ufficio dell'imputato, dott.sse (...) e (...); non si vede, francamente, la ragione per la quale costoro dovessero essere messe al corrente del contenuto accusatorio riportato nei verbali dell'avv.to (...), tanto più che si trattava di atti che mai erano stati formalmente acquisiti dal C.S.M. e che, pertanto, non erano atti dell'ufficio. Peraltro costoro non solo sono state messe a conoscenza dell'asserita esistenza della loggia massonica ventilata dal legale e dei soggetti che ne erano coinvolti, ma sono anche state compiutamente edotte dei meccanismi di condizionamento che questa avrebbe posto in essere per favorire la nomina di alcune cariche istituzionali di particolare rilievo, così da arrivare, addirittura, a convincersi che la mancata conferma del dott. (...) nell'incarico di consigliere del C.S.M., al raggiungimento dell'età pensionabile, fosse stata determinata, giustappunto, dalla trame di detta associazione segreta. Senza peraltro dimenticarsi del soggetto del tutto estraneo al C.S.M. o del (...), anch'egli non facente certo parte all'epoca dell'organo di autogoverno della magistratura. L'assenza di alternative comportamentali Questa Corte territoriale dissente, poi, dalla tesi difensiva più volte richiamata, che rimarca come il dott. (...), venuto suo malgrado a conoscenza delle scottanti dichiarazioni dell'(...) consapevole del possibile attacco che poteva essere sferrato all'ordine giudiziario e sconcertato per le oscure manovre, che avrebbero indotto a non investigare oltre sulla cd. "Loggia Ungheria", non avesse altra alternativa che quella di rispedire al mittente il dott. (...). Si assume, viceversa, che l'imputato abbia avvertito la gravità della situazione denunciata ed, anziché disinteressarsi della questione, si sia fatto carico di tale pesante fardello al fine di rimuovere un'indagine apparentemente incagliata e rimettere il procedimento nei binari della legalità. Orbene ed anche a non volere condividere la tesi esposta dal (...), secondo cui non poteva certo sfuggire ad un magistrato così esperto la problematicità delle dichiarazioni accusatorie rese dall'avv.to (...) rappresentative di una congerie di circostanze slegate una dall'altra, fondate per lo più su notizie apprese de relato e per la quale la competenza territoriale era di altro distretto, appare impensabile che una persona professionalmente attrezzata come il dott. (...) non si sia rappresentata che la strada per porre rimedio alla riferita inerzia dei vertici della Procura della Repubblica di Milano non era certo quella di rivolgersi al (...), le cui competenze, all'evidenza, esulano dal provvedere alle iscrizioni delle notizie di reato. E', infatti, l'art. 6 del già citato D.Lgs. 106/2006 che pone in capo al Procuratore Generale della Corte di Appello il compito, tra gli altri, di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale e l'osservanza delle disposizioni relative all'iscrizione delle notizie di reato. Al riguardo il dott. (...) assume che tale soluzione non gli sarebbe venuta in mente (vds deposizione (...) udienza (...)) e che aveva ritenuto sufficiente avere il supporto di una persona esperta e autorevole, come il dott. (...), peraltro, (...). A ben vedere nemmeno nel procedimento, che lo vedeva imputato, il dott. (...) ha dato una qualche plausibile giustificazione di una dimenticanza tanto eclatante, tant'è che nelle stesse sentenze, che pur hanno avallato la sua versione, non si rinviene alcuna giustificazione in ordine alla ragione per la quale questi non abbia ritenuto di percorrere la strada maestra tracciata dall'ordinamento per porre rimedio all'asserito ostracismo del Procuratore della Repubblica di Milano al suo anelito investigativo e, cioè, quella di rivolgersi al soggetto istituzionale che, per disposizione normativa, ha il compito di vigilanza ed ha gli strumenti per intervenire, ivi compreso il potere di avocazione previsto dall'art.412 c.p.p. Non solo, ma lo stesso dott. (...), il quale ha creduto alla versione del collega -sostanzialmente sulla scorta della sua sola parola, non avendo egli mosso alcun passo formale sino ad allora, nemmeno quello di procedere alla identificazione dei ed "ungheresi"-, non è stato in grado di illustrare se avesse compreso la ragione compiuta, per la quale il dott. (...) si era rivolto a lui e non già al (...) o a chi, in quel periodo, ne faceva le veci. Se, tuttavia, si può anche non pretendere che l'imputato si faccia carico di giustificare l'incedere altrui, una spiegazione plausibile la si sarebbe aspettata in merito alla sua personale decisione di avallare la scelta del più giovane collega e di non indirizzarlo al (...) o di consigliarlo in tal senso (vds deposizione (...), udienza 24.5.2022 pg.87). Sul tema la spiegazione resa dal dott. (...) e, cioè che, all'epoca, la (...) era retta (...) soggetto noto per alcuni suoi macroscopici errori giuridici e tale da non riscuotere affidamento (udienza (...) esame (...)), non appare per nulla appagante. Si tratta, all'evidenza, di una giustificazione di facciata per avallare la scelta di disattendere le chiare indicazioni ordinamentali di sistema, che prescindono, proprio perché sono poste a presidio del corretto funzionamento di insieme dell'organizzazione giudiziaria, dalle capacità personali del singolo; ciò a maggior ragione, nel caso di specie, ove la questione concernente la potenziale tardività di un'iscrizione nel registro degli indagati rispetto all'emersione della fonte dichiarativa e l'adozione dei conseguenti provvedimenti, non era certo una problematica così difficile da risolvere e tale da richiedere l'intervento di un giurista particolarmente raffinato. L'imputato e il (...) A ciò deve aggiungersi che, per quanto l'imputato si sia speso nel sostenere di essersi dato da fare per risolvere la questione dello stallo investigativo presso la Procura della Repubblica di Milano, andando direttamente dal (...), senza percorrere la via formale, così da evitare che il dott. (...) potesse venire a conoscenza delle accuse mosse a suo carico, nessuno dei componenti del predetto ha affermato di avere avuto l'intendimento che il dott. (...) volesse che la notizia riferita uscisse dall'ambito prettamente confidenziale, con il quale gli era stata riportata. Tralasciando la circostanza per la quale il dott. (...) non ha compulsato il (...) il dott. (...), il cui collocamento a riposo è comunque avvenuto ben dopo il 4 maggio 2020, risultando il suo pensionamento dopo la metà del mese di luglio 2020, ai singoli componenti del (...) che pur è organo collegiale, l'imputato si è rivolto partitamente, attraverso contatti de visu, informalmente e con modalità, a ben vedere, diverse a seconda del tipo di interlocutore, con il quale di volta in volta si interfacciava. Al (...), dott. (...), il dott. (...), verosimilmente sfruttando il suo ascendente di magistrato di lungo corso rispetto ad un cd. "avvocato di provincia", per come si è autodefinito il teste, sollecita l'attivazione presso il (...) consegna brevi manu i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), così da accreditare la sua versione, ma si guarda bene dal riferirgli di mettersi in contatto con gli altri componenti del Comitato; sul punto il teste (...) ha dichiarato che l'imputato gli aveva detto che avrebbe parlato lui con il (...) per cui aveva inteso che tanto bastava, visti i poteri di indagine che a questi competevano. Viceversa con il dott. (...) e, successivamente, con il dott. (...), una volta che questi era divenuto subentrando al dott. (...), il dott. (...) risulta molto più accorto, tant'è che al (...) non rappresenta di avere già parlato dell'indagine milanese con il (...) e di averlo in qualche modo sollecitato ad andare dal (...). Il teste (...), peraltro, ha specificato che il collega non si era rivolto a lui (...), ma gli aveva esternato solo una sorta di preoccupazione per lo stallo dell'indagine milanese, ragion per cui egli si era determinato di conseguenza, senza farne cenno alcuno al dott. (...) inoltre, nell'occasione, nessun cenno gli era stato fatto alla fonte della notizia confidenziale, né tanto meno alla disponibilità dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...). Lo stesso teste (...) ha escluso che il dott. (...) si fosse a lui proposto in quanto (...) interpretando piuttosto il gesto del collega come un atto di cortesia verso un compagno di concorso di vecchia data, così da anticipargli un possibile problema che avrebbe potuto insorgere e prepararlo all'evenienza; ed anche in questo caso, a detta del teste, nessuna menzione gli era stata fatta dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) e del fatto che questi erano stati già consegnati al dott. (...), né tanto meno che di tali riservate notizie gli (...) del (...) fossero già al corrente. Si è, quindi, in presenza di un comportamento, che, in qualche modo, appare funzionale ad evitare la circolarità della notizia tra i componenti di un organo che è collegiale e che funziona come tale e che, di conseguenza, appare tanto più eccentrico e lontano dall'affermazione dell'imputato di essersi voluti rivolgere al (...). Non solo, ma quel che colpisce del comportamento del dott. (...) è che con i colleghi, quali il dott. (...) e il dott. (...), egli è risultato particolarmente "abbottonato", tanto da non riferire loro quale fosse la sua fonte di informazione. E ciò è tanto più singolare se si considera che l'imputato, nelle altre propalazioni, non ha avuto remore con i (...) a lui più vicini a rivelare che la fonte delle sue informazioni era un (...), arrivando sin anco a farne il nome (teste (...)) o ad esibire loro i verbali consegnatigli dallo stesso (testi (...)). La ragione di tale agito nei confronti dei componenti del (...) che a prima vista sembrerebbe avere una certa incoerenza, appare viceversa avere una sua logica e, cioè, quella di evitare che il (...) potesse venire a sapere quale era la fonte della conoscenza della sua indagine, cosa che sarebbe accaduta se questi avesse parlato della circostanza con l'avvocato (...). Posto, infatti, che il dott. (...) nella sua qualità di (...) è anche il titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non appare un fuor d'opera ritenere che il silenzio sul punto del dott. (...) e il suo relazionarsi paratitamente con i singoli componenti del (...) tacendo agli uni quello che era stato detto all'altro, sia stato fatto appositamente per tutelare il dott. (...) dalle conseguenze relative alla sua irrituale iniziativa. Prova ne è che, successivamente all'emersione pubblica del retroscena della vicenda, il (...) ha esercitato, ancorché senza successo per un capo, l'azione disciplinare nei confronti del dott. (...), per come si evince dalla stessa sentenza della Corte di Appello di Brescia che ha assolto quest'ultimo. L'elemento soggettivo del reato Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all'art. 326 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotta e senza che possa aver alcun valore esimente l'eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie (Cass. pen., sez.VI, 13.1.1999, n.2183; sez. VI, 11.2.2002, n.9331). Nel caso di specie nemmeno l'appellante profila la sussistenza di errori sulle proprie e sulle altrui attribuzioni, cosa che, del resto, sarebbe impensabile stante il suo spessore professionale. E' indubitabile, infatti, che il dott. (...), ancorché compulsato dal dott. (...) ai primi di aprile 2020 in ordine alla situazione di impasse nella quale si sarebbe trovato per effetto degli asseriti comportamenti ostruzionistici dei suoi superiori, era ben consapevole di ricevere notizie coperte da segreto investigativo ed in relazione alle quali, giammai, vi sarebbe potuto essere consenso alla loro rivelazione in ragione della mancanza di legittimazione del suo interlocutore per le ragioni sovra rappresentate. Così come ben era cosciente, per come desumibile dalla spiegazione concernente la scelta di non rivolgersi all'(...) che all'epoca reggeva la (...), che questi era il soggetto cui competeva, per legge, di porre rimedio alle eventuali inerzie investigative della Procura della Repubblica. La piena conoscenza dei limiti delle proprie attribuzioni da parte dell'imputato esclude, radicalmente, che egli possa poi avere ritenuto di adempiere un dovere, che in alcun modo l'ordinamento gli attribuiva. E per quanto si voglia opinare circa il fatto che l'imputato si sarebbe trovato a gestire una situazione, per la quale non aveva interesse alcuno, che non era stata da lui sollecitata e che gli veniva rappresentata in termini di estrema gravità, appare difficile sostenere che egli non abbia avuto il tempo di comprendere appieno quanto riferitogli, di valutarlo, di riflettere sul da farsi e di determinarsi conseguentemente. Le stesse differenti modalità di rapportarsi diversamente con i membri del (...) appaiono indicative di una scelta ben ponderata e tutt'altro che casuale. Non può nascondersi, del resto, che i contatti con il dott. (...), a dire dei due protagonisti, risalgono in pieno periodo emergenziale, quando l'isolamento sociale imposto dal potere esecutivo per frenare il contagio aveva determinato un rallentamento dei ritmi di vita e di lavoro quotidiani anche in ambito giudiziario. La stessa attività del C.S.M. in presenza, peraltro, era stata sospesa. Non può allora ritenersi appagante la spiegazione, secondo la quale le successive propalazioni del dott. (...) sarebbero state dettate dalla volontà di riportare la vicenda sui binari della legalità e sventare un gravissimo attacco all'Ordinamento giudiziario. Sarebbe stato sufficiente per questo, cosi da avallare quanto meno la buona fede dell'imputato, che egli avesse indirizzato il dott. (...) alla (...) e, se tale strada nell'ottica personale del dott. (...) non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente, che lui stesso avesse compulsato il (...) nella sua collegialità, rimettendo a tale organo se e in che modo dovesse avvenire la formalizzazione della vicenda e i conseguenti comportamenti da adottare sia per smuovere l'eventuale stallo all'indagine meneghina sia per tutelare i soggetti, che ne erano coinvolti, ivi compresa la figura del dott. (...). Viceversa l'imputato si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell'effetto finale di una fuga di notizie "senza eguali precedenti", già stigmatizzata dall'Autorità giudiziaria umbra. L'imputato e la parte civile Non è compito di questa Corte comprendere la ragione degli agiti del dott. (...), il quale, senza necessità alcuna, ha sapientemente portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull'operato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e sui (...), dottori (...) e (...). Il reato di cui all'art. 326 c.p. è del resto un reato a dolo generico e il movente è, perciò, irrilevante, come lo è la finalità della condotta. E sul punto appare del tutto inutile ritornare sull'argomento relativo agli asseriti moventi personali, che avrebbero spinto il dott. (...) a ottenere e poi divulgare i verbali dell'avv. (...) Già il Tribunale, senza smentita alcuna, ha rimarcato come gli elementi raccolti non abbiano consentito di comprovare con sufficiente certezza che il comportamento del dott. (...) sia stato determinato sin dall'origine dall'animus nocendi nei confronti della parte civile per personalismi e/o intenti ritorsivi verso la stessa in ragione dei dissapori, che si erano via via andati creando, pur a fronte di un'originaria affinità e comunanza di intenti. Né, del resto, vi è dimostrazione che l'imputato già sapesse delle accuse rivolte al collega dall'avv.to (...), al momento della riunione di "corrente" del 3 marzo 2020, nel corso della quale si registra l'aggressione verbale del dott. (...) al dott. (...), reo, ai suoi occhi, di dissentire dalla proposta di sostenere la candidatura del dott. (...) al vertice della (...) Il danno alla parte civile Nel contestare la sussistenza del danno alla parte civile assume l'appellante, che avere informato i (...) di un fatto veritiero, quale l'esistenza di un'indagine per una presunta partecipazione a una loggia segreta, non potrebbe essere inteso nell'accezione di disseminare "tossine denigratorie". A ciò si aggiunge che quasi tutti i testi sentiti avrebbero escluso sostanzialmente di avere cambiato atteggiamento nei confronti del consigliere (...), dopo quanto appreso dall'imputato. Osserva il collegio come, a prescindere dal fatto che l'azione del dott. (...) sia stata tutt'altro che necessitata e che le notizie confidenziali si sono estese ben oltre il perimetro della stretta cerchia (...) non vi siano margini di incertezza sul fatto che l'imputato abbia operato in modo tale da insinuare, quanto meno, il dubbio nella maggior parte dei destinatari delle sue confidenze circa l'appartenenza ad una loggia massonica del dott. (...), così andando a lederne l'onore e il prestigio. Per quanto si voglia contestare che tale incedere integri l'espressione usata dal Tribunale, è indubitabile che attribuire ad un magistrato la possibile appartenenza ad una loggia massonica equivale a consegnargli la patente di soggetto inaffidabile e infedele, in quanto, uniformandosi alle regole della fratellanza, antepone queste a quello dello Stato repubblicano, di cui è servitore. Si tratta di un'accusa gravissima, tenuto conto del ruolo e dalla qualifica professionale rivestiti dal destinatario di questa e che, per ciò stesso, è in grado di minarne la sua credibilità, per come di fatto è avvenuto. E la reazione sdegnata del dott. (...), all'esito della riunione informale tenutasi tra consiglieri del C.S.M., dopo l'intervento al del dott. (...) dell'aprile del (...) in cui la parte civile ha appreso come una buona parte dei consiglieri fosse a conoscenza delle accuse mossegli dall'avv.to (...), è significativa in ragione della comprensione da parte della parte civile del motivo, per il quale, sin dalla primavera precedente, era stato isolato e ciò in ragione dell'opera diffamatoria posta in essere dal dott. (...). Peraltro lo sdegno della parte civile non sorge certo per il fatto di non essere stato avvisato delle accuse potenzialmente calunniose -visto che nei confronti dell'avv.to (...) è stata promossa azione penale giustappunto per il reato di cui all'art. 368 c.p.-, ma perché persone, con cui aveva un rapporto di colleganza ed anche di militanza correntizia, avevano dubitato della sua integrità morale, così da prendere per buona l'accusa di essere un massone e assumere nei suoi confronti un atteggiamento distaccato rispetto ai normali rapporti di confidenza che si creano tra coloro che, generalmente, condividono il lavoro quotidiano. E, per quanto in chiave difensiva, si voglia sostenere che quasi tutti i testi avrebbero affermato di non avere cambiato atteggiamento verso il (...) basta riportare le affermazioni di un teste neutrale come il dott. (...), il quale giustappunto e a riscontro di quanto riferito dalla parte civile, ha ricordato come ben prima di ricevere il plico anonimo, avesse constatato un certo isolamento del collega all'interno del consiglio. Il teste (...) ha, del resto, dichiarato di avere "prudenzialmente" preso le distanze dal collega. Il teste (...) ha ricondotto il suo atteggiamento distaccato già alla vicenda (...), ma certo le confidenze del dott. (...) non devono averlo certo incoraggiato verso la parte civile. Il teste (...) ha ammesso di avere avuto una fisiologica diffidenza verso il collega, anche se poi, cercando di ridimensionare tale affermazione, ha ricondotto tale suo approccio anche con tutti gli altri consiglieri; tale ultima giustificazione, tuttavia, appare incongrua al sol considerare come l'asserito e generalizzato atteggiamento di distacco verso i colleghi mal si concili con l'abitudine di recarsi tutte le mattine presso lo studio del (...) per consumare un cioccolatino e intrattenersi con lui in amabile conversazione, per come riferito dall'imputato medesimo. Il teste (...) ha poi rimarcato che, in ragione della notizia ricevuta, ebbe a tenere un atteggiamento di prudenza verso il dott. (...) Non solo, ma se non bastasse appare vieppiù significativo l'episodio della confidenza fatta al (...). Posto che il dott. (...) non aveva necessità alcuna di indicare nell'asserita appartenenza massonica del collega il motivo per il quale non voleva partecipare al prospettato incontro pacificatore, ben potendo limitarsi a rappresentare l'esistenza di motivi personali che gli impedivano di partecipare al prospettato incontro pacificatore, la ragione di tale incedere risiede altrove. Se, infatti, si tiene a mente che nelle intenzioni del parlamentare vi era la conclamata volontà di proporre al dott. (...) una collaborazione con la (...) è evidente che la rivelazione del dott. (...) sia stata funzionale a scongiurare tale iniziativa. E' poi evidente che se l'intenzione del dott. (...) fosse stata unicamente quella di rimettere la vicenda sui binari della legalità, egli avrebbe ben dovuto acquietarsi, una volta compulsato il (...) e il (...). Il fatto che, viceversa, l'imputato abbia avvertito l'esigenza di continuare a ledere l'onore della parte civile -e non solo- è comprensibile solo nella mirata strategia volta ad isolare la parte civile nei suoi rapporti istituzionali. Sul tema è lo stesso Tribunale a rimarcare l'"entusiasmo" con il quale il dott. (...) ha cavalcato la notizia della possibile appartenenza massonica del dott. (...), frutto di una convinzione che è ben lungi dalla prospettazione difensiva formulata in sede di arringa, secondo cui egli si sarebbe limitato ad avanzare prudenziali dubbi sulle accuse mosse dall'avv.to (...) Basti pensare che egli, di fronte alle titubanze avanzate dal dott. (...), che a pelle escludeva la possibile appartenenza del dott. (...) a logiche massoniche, ribatte con convinzione che "quando i massoni vanno in sonno, rimangono sempre massoni" o all'esigenza di apprendere il grado di affidabilità dell'avv.to (...) quale fonte dichiarativa dal collega (...) che già, nel corso delle sue indagini come pubblico ministero, vi aveva avuto a che fare o all'invito rivolto al dott. (...) di prendere le distanze dal dott. (...), in quanto l'indagine sulla sua possibile appartenenza massonica avrebbe preso una brutta piega per lo stesso. Per tali ragioni, di conseguenza, non può che condividersi l'assunto, secondo il quale il comportamento dell'imputato ha leso la parte civile, oltre che nella sua sfera morale -si pensi alla reazione emotiva e psicologica della persona offesa descritta dai testi (...) e (...) all'indomani della diffusione delle notizie sulla cd. Loggia Ungheria-, anche sotto il profilo della sua reputazione. La contestazione della continuazione tra la rivelazione al (...) e le altre condotte di disvelamento del segreto Da ultimo va affrontata la questione introdotta dall'appellante il 6.12.2023 in sede di motivi aggiunti e con la quale si deduce l'erroneità dell'applicazione dell'istituto della continuazione alla condotta di rivelazione del segreto di ufficio operata dal dott. (...) nei confronti del (...), già (...) della (...) rispetto alle precedenti condotte rivelatorie contestate all'imputato al capo B). Sul punto non può che ritenersi condivisibile l'assunto del Procuratore Generale in merito all'inammissibilità di detto motivo di gravame. E' principio giurisprudenziale condiviso quello per cui "in materia di impugnazioni, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l'ambito del predetto "petitum", introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l'impugnazione" (cfr Cass pen., sez. VI, 30.9.2020, 36206). I motivi nuovi di impugnazione devono, quindi, essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall'impugnazione principale già presentata, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari. E, a tal proposito, va richiamato il costante indirizzo interpretativo secondo il quale i motivi "nuovi" che possono essere presentati dalla parte che ha proposto l'impugnazione fino al quindicesimo giorno precedente l'udienza di trattazione del gravame (art. 585 co. IV c.p.p. in relazione all'art. 167 disp. att. c.p.p.) debbono consistere in una ulteriore illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta rivolta al giudice dell'impugnazione, peraltro sempre nei limiti dei capi o punti della decisione oggetto del gravame. In altri termini con i motivi nuovi non possono impugnarsi parti del provvedimento gravato, che non siano stati oggetto della preventiva impugnazione. Diversamente argomentando verrebbero frustrati i termini, la cui inosservanza è sanzionata con l'inammissibilità dell'impugnazione, prescritta dalla legge per la proposizione del gravame (cfr Cass. pen., sez. IV, 17.1.1997, n.90; Cass. pen., Sez. Unite, 25.2.1998, n. 4683; Cass pen., sez.III, 22.1.2004, n. 14776). Nel caso in esame è oggettivo il dato per cui, nell'impugnazione principale proposta nell'interesse del dott. (...), non è stata dedotta la questione secondo la quale la contestata rivelazione del segreto d'ufficio al (...) non rientrerebbe nel medesimo disegno criminoso volto, in tesi accusatoria, a minare la reputazione del dott. (...), così da isolarlo all'interno dei suoi rapporti di ufficio e interpersonali e che già sarebbe stato il filo conduttore delle altre condotte di rivelazione del segreto in contestazione al capo B) della rubrica imputativa. Di qui l'inammissibilità di tale domanda difensiva proposta nei motivi aggiunti di appello in ragione dell'assoluta novità del suo contenuto rispetto alle ragioni affidate all'impugnazione principale. Per effetto del rigetto integrale del gravame l'appellante va, conseguentemente, condannato al pagamento delle spese processuali e, in ossequio al principio della soccombenza, alla refusione delle spese di assistenza tecnica della parte civile, per come liquidate in dispositivo sulla scorta dei parametri tabellari forensi. PQM Visti gli artt. 592 e 605 c.p.p., conferma la sentenza emessa il 20.6.2023 dal Tribunale di Brescia appellata da (...), che condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali del grado. Condanna (...) al pagamento in favore della parte civile (...) delle spese di rappresentanza, assistenza e difesa, che liquida in euro 946, oltre IVA, CPA e accessori di legge. Visto l'art. 544 co. III c.p.p., indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione. Brescia, 7 marzo 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente - Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. GAI Emanuela - Relatore - Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro M. - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da No.Ma., nato a F (AN), il Omissis Sa.Fr., nato a M (FG), il Omissis avverso la sentenza del 27/09/2023 della Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Emanuela Gai; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte d'appello di Lecce; udito per gli imputati l'avv. Gr. che ha insistito nell'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di Lecce, sezione dist. di Taranto, ha parzialmente riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto, rideterminando la pena inflitta a No.Ma. e Sa.Fr., in anni uno e mesi due di arresto, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 c.p., 54, 1161 cod. nav. (capo A) e 110 c.p., 137, comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 (capo C), per aver abusivamente occupato lo spazio del demanio marittimo ed aver effettuato lo scarico in mare di acque reflue industriali in assenza di autorizzazione. La Corte d'appello di Lecce ha eliminato la pena pecuniaria illegalmente inflitta dal giudice di prime cure in relazione al capo C) e la subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo di risarcimento del danno in favore della parte civile, ai sensi dell'art. 165 cod.pen., ed ha confermato il giudizio di responsabilità penale degli imputati in relazione ai capi A), artt. 110 cod.pen., 54, 1161 cod. nav., perché in concorso tra loro, entrambi quali rappresentanti della società (...) Società Agricola e Srl, occupavano arbitrariamente lo spazio del demanio marittimo già oggetto della concessione n. 39 del 2013, scadente il 28 maggio 2018, e capo C) artt. 110 cod.pen., 137 comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 perché in concorso tra loro, nella qualità sopra indicata, effettuavano arbitrariamente lo scarico in mare di acque reflue industriali. In Taranto accertato il 17 maggio 2019. 2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, e ne hanno chiesto l'annullamento deducendo i seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa lamenta l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 23 bis d.l. n. 137 del 2020, conv. con la l. n. 176 del 2020, artt. 178 cod. proc. pen. Nullità della sentenza. Argomentano i ricorrenti che il giudice di appello avrebbe erroneamente proceduto alla trattazione del processo senza l'intervento delle parti ex art. 23 bis d.l. 137/2020, omettendo di considerare la richiesta di discussione orale contenuta nell'atto di appello. Peraltro, la difesa avrebbe appreso dell'inammissibilità dell'istanza proposta - per violazione delle modalità di presentazione - soltanto con la motivazione della sentenza impugnata, in quanto dal decreto di citazione a giudizio non sarebbe stato possibile ricavare alcun elemento in ordine al fatto che l'udienza sarebbe stata non partecipata, per inammissibilità dell'istanza di trattazione orale precedentemente avanzata. Pur volendo ammettere che la modalità di presentazione utilizzata non fosse aderente al dettato normativo, prosegue la difesa, tale violazione non sarebbe sanzionata con l'inammissibilità e, in ogni caso, s'imporrebbe una lettura costituzionalmente orientata della normativa in parola che comporterebbe l'accoglimento dell'istanza. 2.2. Con il secondo motivo, la difesa lamenta la mancata assunzione di prove decisive nonché il vizio di motivazione con riferimento ad una pluralità di passaggi motivazionali del provvedimento impugnato. - In primo luogo, con riguardo al rigetto della richiesta di escussione dei testimoni Cr., Va. e Gu., laddove il giudice di appello avrebbe ritenuto che tale richiesta non fosse connotata dai requisiti di cui all'art. 603 cod. proc. pen. Si trattava, invero, di tre ufficiali di polizia giudiziaria, tre testimoni inizialmente ammessi e poi revocati, che avrebbero dovuto deporre sulle indagini svolte in ordine ai rapporti esistenti tra la parte civile, gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati e i funzionari del demanio, chiamati a valutare l'istanza di rinnovo della concessione proposta da (...) Srl Attraverso la loro deposizione, la difesa intendeva dimostrare che i ritardi della Pubblica Amministrazione tarantina, tanto in ordine alla ignorata istanza di rinnovo della concessione demaniale quanto in ordine a quella per lo scarico delle acque reflue, erano riconducibili ad un sodalizio tra pubblici ufficiali e diversi soggetti interessati a vario titolo alla concessione di (...) Srl Peraltro, secondo la difesa, non sarebbe condivisibile la tesi sostenuta dal giudice di appello secondo cui i presunti abusi patiti dagli imputati in relazione ai rinnovi avrebbero dovuto essere accertati in altra sede, attenendo invece al presente giudizio la prova che gli imputati avessero un legittimo motivo per tutelare la propria azienda dalle condotte illecite di alcuni pubblici funzionari. - Lo stesso può dirsi, ad avviso della difesa, con riguardo al rigetto della richiesta di escutere il responsabile prò tempore dell'ufficio demanio del Comune di Taranto, attraverso la cui deposizione s'intendeva dimostrare: che quanto accaduto alla concessione di (...) Srl costituisse un unicum nel comune di Taranto; che l'istanza di rinnovo presentato dalla suddetta società 40 giorni prima della scadenza della concessione fosse legittima; che non vi fossero logiche ragioni per le quali il Comune di Taranto non procedesse con l'emissione dei moduli F24 Elide, a fronte di una già accolta richiesta rateizzazione dei canoni scaduti da parte dell'Agenzia del Demanio. Sul punto, la Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto generica ed inutile la deposizione del responsabile dell'ufficio del demanio, reputando sufficiente la mera lettura della motivazione del provvedimento amministrativo sul cui contenuto il testimone avrebbe dovuto essere sentito. Lettura che, peraltro, parrebbe non esservi stata, visto il peso attribuito in motivazione all'omesso pagamento dei canoni scaduti. - La motivazione sarebbe altresì illogica laddove il giudice di appello non avrebbe riconosciuto la nullità del rigetto della richiesta di termine a difesa ed avrebbe rigettato, altresì, la richiesta di rinnovazione istruttoria al fine di escutere il responsabile del procedimento di concessione della AUA della (...) Srl, quale concessionaria confinante con quella di (...) Srl, costituitasi parte civile nel presente giudizio. Si tratterebbe, ad avviso della difesa, di una prova decisiva al fine di dimostrare l'inesistenza del danno patrimoniale asseritamente patito dalla parte civile. - L'illogicità della motivazione si rinverrebbe altresì con riguardo al rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria al fine di produrre documenti utili a dimostrare che il contratto di affitto tra le due società non aveva avuto esecuzione al momento degli accertamenti e che la presenza in loco del Sa.Fr. fosse legata a questioni commerciali. Ad avviso dei ricorrenti, la motivazione addotta dal giudice di appello in ordine alla fittizietà del contratto di affitto troverebbe fondamento su una pluralità di presupposti errati: (i) in primo luogo, il carattere irrisorio del canone previsto nel contratto di affitto dell'azienda, che ammonterebbe, in verità, ad euro 36.000,00 e non 3.000,00 come erroneamente riterrebbe la Corte d'appello; (ii) in secondo luogo, la mancata previa attivazione della domanda di subingresso nella concessione, presupposto che sarebbe smentito dallo stesso dato normativo, l'art. 46, comma 2, Cod. Nav., in forza del quale il contratto di affitto precederebbe necessariamente la domanda di subingresso; (iii) in terzo luogo, la presenza in loco del Sa.Fr. in data 07/06/2019 al momento del controllo e del sequestro, che, lungi dal costituire un indizio in ordine al ruolo di gestore di fatto della (...) Srl rivestito dallo stesso, si giustificava in forza di un formale invito degli agenti della Guardia di Finanza; (iv) infine, con riguardo all'ultimo presupposto, l'avvicendamento nella carica apicale in tempi coincidenti con la stipula del contratto, la difesa rileva come, in realtà, non vi sarebbe stato un avvicendamento reciproco, ma sarebbe stata posta in essere da parte del Sa.Fr. una mera exit strategy nei confronti dei propri soci e congiunti in vista del pensionamento imminente. - Un ulteriore passaggio motivazionale contraddittorio ed illogico censurato dalla difesa sarebbe quello relativo all'elemento psicologico della contravvenzione di cui all'art. 1161 cod. nav. Sul punto, la Corte territoriale, per un verso, condividerebbe la tesi della necessaria consapevolezza di occupare abusivamente l'area demaniale, per altro verso, sosterrebbe l'esistenza di una condotta "quantomeno colposa", in ragione della sussistenza di un dovere di presentazione dell'istanza di rinnovo tre mesi prima della scadenza e della mancata presentazione della richiesta di rilascio della concessione provvisoria. A parere della difesa, la società (...) avrebbe richiesto il rinnovo della concessione quaranta giorni prima della sua scadenza nonché l'autorizzazione all'eventuale contestuale anticipata occupazione. Tali procedimenti amministrativi - in assenza di interferenze esterne - avrebbero dovuto concludersi entro 30 giorni, e quindi prima della scadenza. A nulla varrebbe, sostiene il ricorrente, la tesi sostenuta dalla Corte tarantina secondo cui la richiesta di rinnovo sarebbe stata legittima soltanto se presentata tre mesi prima della scadenza. Il diritto di richiedere il rinnovo della concessione, disciplinato dal Codice della navigazione, dal relativo regolamento esecutivo e dalla legge regionale n. 17 della 2015, non potrebbe essere limitato dalle condizioni pattizie della concessione. Il termine fissato nel provvedimento concessorio, pertanto, dovrebbe ritenersi meramente ordinatorio, in quanto fissato nell'interesse della sola amministrazione procedente e non previsto per legge (Cfr. CdS, Sez. VI, n. 993 del 18/01/2011). L'illogicità del passaggio motivazionale in esame risulterebbe ancor più manifesta laddove si consideri che il giudice di appello, a fronte del riconoscimento della responsabilità degli imputati a titolo doloso in primo grado, avrebbe dovuto procedere ad un'attenuazione di pena in relazione all'affermazione di responsabilità degli stessi "quantomeno a titolo colposo". - Quanto alla responsabilità degli imputati in ordine al capo c), la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe censurabile laddove la Corte tarantina, da un lato, avrebbe superato le valutazioni del consulente tecnico di parte, Dott. Co., attraverso l'utilizzo di indimostrate conoscenze personali in tema di impianti di acquacoltura di tipo RAS, ritenendo irragionevolmente che lo scarico in esame non potesse rientrare nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, estranea al reato di cui all'art. 137 del Codice dell'ambiente, ma rientrasse in quella degli scarichi industriali; dall'altro, avrebbe omesso di valutare alcuni aspetti tecnico-giuridici della sua deposizione. Peraltro, sostiene la difesa, a fronte della prova tecnica da essa fornita in ordine alla riconducibilità dell'impianto di (...) Srl - esistente al momento del sequestro - alla categoria degli scarichi assimilati ai domestici, non sarebbe ammissibile sostenere, in assenza di prove, l'esistenza di una modifica dello scarico negli anni precedenti al sequestro, senza fornire alle parti il diritto di interloquire sul punto. - Ancora, sul reato di cui al capo C), ed in particolare sul carattere abusivo dello scarico, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica e contraddittoria, nonché parziale ed errata nella ricostruzione dei fatti e nell'applicazione della legge penale. A parere della difesa, il carattere abusivo non potrebbe essere meramente legato al dato formale della scadenza dell'autorizzazione concessa, a fronte di ulteriori elementi della condotta imputabile all'(...) Srl, suscettibili di valutazione, quali: l'attivazione in tempi ragionevoli per il rinnovo dell'autorizzazione di uno scarico identico a quello precedentemente assentito; le numerose istanze di sollecito per la conclusione del relativo procedimento amministrativo; la richiesta e il successivo svolgimento di controlli delle acque, a cadenza annuale da parte di Arpa Puglia e a cadenza bimestrale da parte di (...) Srl; la comunicazione degli esiti di tali controlli alla Provincia di Taranto, quale ente preposto ai suddetti controlli ed in grave ritardo nell'evasione della pratica; la consapevolezza dello scarico in mare di un'acqua microbiologicamente migliore di quella prelevata; l'intento del soggetto agente di tutelare l'azienda e i posti di lavoro da un danno ingiusto. Alla luce di tali elementi, la motivazione addotta dal giudice di appello risulterebbe illogica e contraddittoria nella parte in cui sostiene che gli imputati avrebbero volontariamente creato una situazione di illiceità o irregolarità, tale da non consentire il controllo da parte degli organi competenti. - La motivazione del provvedimento impugnato sarebbe altresì illogica e contraddittoria laddove il giudice di appello ha escluso la sussistenza della scriminante di cui all'art. 54 cod. pen., anzitutto, in ragione del fatto che gli eventuali abusi e soprusi patiti dagli imputati avrebbero dovuto essere prospettati alle competenti autorità, non potendosi configurare lo stato di necessità nel caso in cui il soggetto che lo invochi possa sottrarsi alla minaccia ricorrendo alla protezione dell'autorità; in secondo luogo, in ragione del fatto che gli imputati avrebbero concorso a dar causa alla situazione alla quale poi hanno inteso sottrarsi, presentando l'istanza di rinnovo della concessione demaniale oltre il termine ultimo ed essendo rimasti morosi nei tre anni precedenti. A parere della difesa, nel corso dei giudizi di merito non gli sarebbe stato consentito dimostrare tali abusi e soprusi, sui quali, peraltro, avrebbero dovuto deporre i tre carabinieri, di cui era stata chiesta l'audizione. Quanto al secondo profilo, la Corte avrebbe omesso di valutare l'accoglimento dell'istanza di pagamento rateizzato dei canoni scaduti e comunque non si coglierebbe il nesso di causalità tra la tardività dell'istanza ed i soprusi lamentati dagli imputati. - La motivazione sarebbe carente ed illogica anche con riguardo al rigetto della richiesta di oblazione per il reato di cui al capo A), erroneamente ed irragionevolmente fondato sulla permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato e sulla mancata corresponsione dei canoni scaduti. Quanto al primo elemento valorizzato dal giudice di appello, la difesa evidenzia come al momento della richiesta di oblazione, l'area in concessione fosse sottoposta a sequestro già da oltre due anni. Quanto al secondo elemento, la difesa evidenzia, da un lato, che i canoni scaduti farebbero riferimento al periodo di occupazione lecita, non potendo pertanto rientrare nelle conseguenze dannose o pericolose del reato, determinatesi a seguito della scadenza della concessione; dall'altro lato, che l'(...) Srl si sarebbe attivata già dal 2018 per il pagamento dei suddetti canoni, a fronte della mancata predisposizione, da parte del Comune di Taranto, dei modelli F24 Elide per poter effettuare il pagamento rateizzato. Infine, quanto alla valutazione della gravità del fatto operata dal giudice di appello, la difesa lamenta il carattere parziale di tale valutazione a fronte dei profili evidenziati nel motivo di gravame e del tutto pretermessi dal giudice di seconde cure (la complessa vicenda amministrativa, la novella normativa giustificata dalla non chiara precedente formulazione, la condotta degli imputati, le torbide vicende legate alla richiesta di rinnovo della concessione). - La difesa censura il vizio di motivazione anche con riguardo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, del minimo della pena e della particolare tenuità del fatto. Più in particolare, la motivazione sarebbe carente allorquando omette di valutare gli elementi positivi rappresentati dalla difesa, limitandosi a valorizzare gli elementi negativi; la stessa sarebbe apparente laddove fonda il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sulla base della "gravità della condotta"; sarebbe, inoltre, illogica laddove ritiene irrilevante l'incensuratezza dell'imputato No.Ma.. A ciò si aggiungerebbe, a parere della difesa, l'irragionevole svalorizzazione di un dato emerso in dibattimento, ossia il carattere non inquinante dello scarico delle acque reflue, se non addirittura la capacità di restituire al mare un'acqua di qualità migliore di quella prelevata. Quanto al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 131 -bis cod. pen., la motivazione adotta dal giudice di appello sarebbe carente ed illogica, vòlta a liquidare frettolosamente la richiesta avanzata tanto per il Sa.Fr. quanto per il No.Ma., sia per il reato di cui al capo A) che per il reato di cui al capo C). - Infine, la difesa censura il vizio di motivazione con riguardo al riconoscimento del danno patrimoniale subito dalla parte civile. Quanto al reato di cui al capo A), ad avviso del ricorrente, non sarebbe neppure concepibile la produzione di un danno al vicino confinante come conseguenza del reato di occupazione abusiva dello spazio demaniale, e, in ogni caso, non vi sarebbe alcuna prova. Quanto al reato di cui al capo C), la difesa rileva come la (...) Srl non avrebbe potuto patire alcun danno come conseguenza dello scarico abusivo, a fronte dell'impossibilità della stessa di avviare la produzione ed intrattenere rapporti commerciali sino al 2021, data in cui ha ottenuto l'autorizzazione unica ambientale. 3. Il Procuratore Generale ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Occorre muovere dal dettato legislativo e segnatamente dall'art. 23-bis, d.l. 137/2020, conv. in I. 176/2020 (Disposizioni per la decisione dei giudizi penali di appello nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19) ed in particolare, dal comma 4 che prevede che "La richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza ed è trasmessa alla cancelleria della corte di appello attraverso i canali di comunicazione, notificazione e deposito rispettivamente previsti dal comma 2. Entro lo stesso termine perentorio e con le medesime modalità l'imputato formula, a mezzo del difensore, la richiesta di partecipare all'udienza". A sua volta, richiamato comma 2 così stabilisce: "Entro il decimo giorno precedente l'udienza, il pubblico ministero formula le sue conclusioni con atto trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, o a mezzo dei sistemi che sono resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati. La cancelleria invia l'atto immediatamente, per via telematica, ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ai difensori delle altre parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono presentare le conclusioni con atto scritto, trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica, ai sensi dell'articolo 24 del presente decreto". L'art. 16 del d.l. n. 179/2012, conv. in l. 221/2012 (Biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica), al comma 4, cos' recita: "Nei procedimenti civili e in quelli davanti al Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale, le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria." 2. Così ricostruito il quadro normativo si ricava che: l'istanza di discussione orale deve essere presentata entro "il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza". Ciò significa che il termine a ritroso deve essere calcolato dalla udienza e che, dunque, stante il chiaro tenore della disposizione, occorre che l'udienza sia fissata ai sensi dell'art. 601 cod.proc.pen. Dalla data di fissazione dell'udienza decorrono a ritroso i termini per la richiesta di discussione orale. Ne consegue che non può ritenersi validamente presentata una istanza di trattazione orale contenuta nell'atto di impugnazione. In secondo luogo, l'istanza deve essere presentata con le modalità previste dal comma 2 che, a sua volta, richiama il disposto di cui all'art. 16 comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e dunque per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi della corte d'appello. Tale previsione si collega, evidentemente, con la disposizione secondo cui l'istanza deve essere presentata entro il termine di quindici giorni prima della data di udienza fissata per la discussione davanti alla Corte d'appello. E sempre in coerenza con il quadro normativo sopra delineato, il decreto di citazione a giudizio in grado di appello, dopo avere fissato l'udienza di discussione così scriveva: "Sia la richiesta di discussione in presenza che eventuali rinunce a comparire, dovranno essere inviate con tempestività e/o nei termini di legge alla seguente email [email protected]". 3. La Corte territoriale ha disatteso la doglianza difensiva, muovendo dal presupposto che "il citato art. 23 bis, co. 2, d.l. cit., prevede che le richieste in parola siano depositate sulle piattaforme a tanto deputate presso la Corte d'appello investita del gravame", e rilevando che, nel caso di specie, "la richiesta di discussione orale era stata formulata nell'atto di appello depositato presso il Tribunale di Taranto che aveva curato la trasmissione degli atti alla Corte di appello, sicché non è stata rispettata la modalità di cui al citato art. 23 bis, co. 2, d.l. cit., con conseguente inammissibilità dell'istanza", (pag. 9 sentenza di appello). Ora, se è pur condivisibile l'argomentazione difensiva secondo cui non è prevista alcuna causa di inammissibilità, non di meno, non ricorre alcuna nullità della sentenza come dedotto. La Corte d'appello ha correttamente deciso la causa con il rito cartolare, in assenza di una valida istanza di trattazione orale, sulle conclusioni del Procuratore generale che erano state comunicate ai difensori delle parti, tramite pec in data 18/09/2023. Nessuna lesione del diritto di difesa è stata compiuta. La decisione cartolare, in assenza di valida istanza di discussione orale, è stata corretta, né ricorre nullità della sentenza per lesione del diritto di difesa che discende unicamente dalla mancata comunicazione, in via telematica, al difensore dell'imputato delle conclusioni del Procuratore generale (ex multis, Sez. 2, n. 47308 del 11/10/2023, Rv. 285349 - 01), situazione non ricorrente nel caso in esame. 4. Il motivo di merito con il quale i ricorrenti deducono la mancata assunzione di prove decisive e l'illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità penale dei ricorrenti, è meramente riproduttivo delle stesse censure già valutate dai giudici del merito e da quei giudici disattese con motivazione diffusa, puntuale e corretta in diritto ed è anche diretto a richiedere una rivalutazione delle prove in chiave diversa da quella operata dai giudici del merito che non è consentito in questa sede. Anche le censure sul diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod.pen. e sul risarcimento del danno risultano manifestamente infondate. 5. Procedendo con ordine logico nella disamina della censura - unica e articolata come sopra riassunta ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod.proc.pen., risulta, in primo luogo, manifestamente infondata la doglianza in punto mancata assunzione di una prova decisiva, assunzione testimoniale come articolata nel motivo. Va premesso che, secondo l'accertamento in punto di fatto non qui rivisitabile, a seguito di una segnalazione di presunta abusive attività di piscicoltura alla località Sabbione di San Vito, su una porzione di demanio marittimo nel quale esercitava la suddetta attività la (...) società cooperativa cui la (...) società agricola e Srl aveva ceduto l'azienda, era stata accertata l'occupazione abusiva del demanio marittimo in quanto la concessione atta a consentire l'occupazione era, all'epoca dei fatti, scaduta e non rinnovata. Si trattava in particolare della concessione numero 39 del 2013, scaduta il 28 maggio 2018 e mai rinnovata, non potendo la domanda di rinnovo della concessione da parte di Sa.Fr. costituire atto equipollente alla concessione, nonché lo scarico di acque reflue industriali effettuate dall'impianto di pescicoltura privo di autorizzazione originariamente concessa dalla provincia e scaduta dal 2013 e, per l'effettori imputati erano condannati per i reati di cui agli artt. 110 cod.pen. e 54-1161 cod. nav. (capo A) e artt. 110 cod.pen. e 137 comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 (capo C). 6. Ciò premesso, va, anzitutto, rilevato che le prove testimoniali di cui si assume la mancata assunzione quale prova decisiva erano state ammesse ai sensi dell'art. 495 cod.proc.pen. e poi revocate ed erano dirette, come espressamente riferiscono i ricorrenti, alla dimostrazione di un complotto ordito ai danni dei ricorrenti da parte di soggetti interessati nel medesimo ambito di attività. La corte territoriale, investita della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria e di riforma dell'ordinanza dibattimentale che aveva revocato i testi Cr., Va. e Gu., ha rilevato dapprima l'assertività circa la sussistenza di un complotto che, in tesi difensiva, doveva essere smascherato dall'assunzione delle testimonianze ammesse e poi revocate perché superflue e nuovamente richieste in appello in sede di rinnovazione dell'istruttoria, e ha respinto in quanto non necessaria ai fini della decisione la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria. Più in particolare, ha evidenziato, a chiare lettere, la corte territoriale che l'occupazione arbitraria era pacifica dal momento che, all'atto della verifica, la concessione demaniale marittima n. 39 del 2013 era scaduta e non rinnovata, nè poteva ritenersi fondata l'osservazione difensiva a mente della quale al momento del controllo il termine di efficacia della suddetta concessione doveva essere intendersi prorogato di diritto, sino al 31 dicembre 2020, ai sensi dell'articolo 18 comma 1, decreto legge 194 del 2000 e come convertito nella legge n. 25 del 2010. In particolare, rammentato che la fattispecie di occupazione abusiva punita dall'articolo 1161 del codice della navigazione si realizza quando sia carente un valido titolo concessorio e di conseguenza anche quando la stessa si protragga oltre la scadenza del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 16495 del 25/03/2010, Massacesi, Rv. 246773 - 01; Sez. 3, n. 29910 del 23/06/2011, Rv. 250664 - 01), hanno argomentato i giudici territoriali che: 1) doveva essere esclusa l'operatività automatica della proroga del termine della concessione, presupponendo una espressa richiesta da parte del soggetto interessato al fine di consentire la verifica da parte dell'autorità competente dei requisiti per il rilascio del rinnovo che non era sussistente, circostanza non contestata dagli imputati (cfr. pag. 15), che, comunque, non avrebbe potuto operare, in quanto presuppone la regolarità della corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza (Sez. 3, n. 404 del 14/12/2022, Rv. 283919 - 01); 2) la richiesta di rinnovo della concessione era stata presentata un mese prima della scadenza (aprile 2018), là dove la normativa richiede la presentazione della richiesta tre mesi prima, ma, soprattutto, 3) che non era stata presentata richiesta di rilascio di concessione provvisoria prevista dal regolamento attuativo del codice della navigazione e 4) che il soggetto richiedente era rimasto moroso nel pagamento dei canoni nei tre anni precedenti, da cui la conclusione che l'occupazione protrattasi oltre il termine di scadenza della concessione integrava il reato contestato. Allo stesso modo, anche lo scarico delle acque reflue era privo di autorizzazione perché quella rilasciata era scaduta dal 2013 e mai rinnovata, dovendo il rinnovo essere richiesto un anno prima della scadenza, in assenza dei requisiti per mantenere provvisoriamente lo scarico fino all'adozione del nuovo provvedimento, in mancanza di presentazione tempestiva di domanda di rinnovo. La decisione della corte territoriale di rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'assunzione delle prove testimoniali volte alla dimostrazione di un complotto ai danni degli imputati è corretta difettando del requisito di decisività delle prove richieste e non ammesse a contrastare gli elementi di accusa posti a base dell'affermazione della responsabilità. In disparte l'osservazione dei giudici del merito che non erano state assunte iniziative giudiziarie, che non sarebbe elemento decisivo, rileva, il Collegio, la correttezza della decisione dei giudici territoriali che sulla scorta dell'accertamento di fatto, come sopra delineato, hanno ritenuto dimostrato che la condotta di occupazione abusiva dopo il termine di scadenza della concessione era conseguente al mancato rilascio di titolo che consentisse l'occupazione per ragioni imputabili unicamente ai ricorrenti (vedi supra). Sulla base delle stesse ragioni che traggono fondamento dagli accertamenti di fatto come sopra compendiati, la corte territoriale ha correttamente ritenuto integrato il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo, di cui agli artt. 54- 1161 cod. nav., che si configura anche in caso di occupazione protrattasi oltre la scadenza del titolo, a nulla rilevando l'esistenza della pregressa concessione e la tempestiva presentazione dell'istanza di rinnovo (Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011, Rv. 250976 - 01) ritenendo integrato l'elemento materiale, stante la dimostrata protrazione dell'occupazione sine titulo, e la consapevolezza di tale arbitraria occupazione in assenza di un titolo che legittimava la continua occupazione al maturare della scadenza del titolo concessorio (capo A) e del reato di scarico di acque reflue in assenza di autorizzazione, di cui all'art. 137, comma 1 del D.Lgs. n. 152 del 2006, derivanti dall'attività di pescicoltura nelle acque marine (capo C) non essendo assimilabili alle acque domestiche (su cui vedi infra). Né era prospettabile la causa di giustificazione dello stato di necessità in assenza dei suoi presupposti applicativi. 7. Sul punto la censura dei ricorrenti che deduce vizio della motivazione là dove la sentenza avrebbe superato le valutazioni del consulente tecnico di parte, Dott. Co., attraverso l'utilizzo di indimostrate conoscenze personali in tema di impianti di acquacoltura di tipo RAS, ritenendo irragionevolmente che lo scarico in esame non potesse rientrare nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, estranea al reato di cui all'art. 137 del codice dell'ambiente, ma rientrasse in quella degli scarichi industriali, risulta anch'essa manifestamente infondata. L'esclusione della riconducibilità dello scarico in esame nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, ai sensi dell'art. 101, comma 7, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo cui l'assimilazione è possibile allorché vi sia una densità di allevamento pari o inferiore al chilogrammo per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo, che deve essere dimostrata da chi invoca la deroga, era stata argomentata sul rilievo che il dott. Co., consulente delle difese, non aveva elaborato alcun documento scritto ed essendosi limitato ad effettuare tre accessi all'impianto nel 2022, non era stato in grado di affermare, sulla scorta di elementi oggettivi, che il parametro di ingresso della portata d'acqua fosse rispettato negli anni 2018-2019. Secondo i giudici del merito, i ricorrenti non avevano adempiuto all'onere dimostrativo di provare che le caratteristiche dell'impianto di piscicoltura, necessario per ritenere applicabile la disciplina derogatoria di assimilazione alle acque reflue domestiche, risultando, al contrario, che tenuto conto delle dimensioni dell'impianto, del numero dei pesci riproduttori e degli avannotti rivenuti dalla G. di F. al momento dell'apposizione dei sigilli e del fatto che verbalizzanti avevano dato atto che durante il controllo i canali di scolo in maniera continuativa incessante riversavano acque nel mare, era da escludersi l'assimilazione delle sue acque di scarico a quelle domestiche (cfr. pag. 20). Si tratta di una logica motivazione che, fondata su dati obiettivi ricavati dagli atti e non su elementi conoscitivi personali del giudice, non è sindacabile in questa sede. 8. In conclusione, tutte le articolate e parcellizzate censure di vizio di motivazione in relazione all'affermazione della responsabilità penale in capo ai ricorrenti appaiono prive di fondamento in quanto manifestamente infondate. Con logica motivazione i giudici del merito sono pervenuti all'affermazione della responsabilità penale dei ricorrenti per i reati di occupazione arbitraria del demanio marittimo e di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione che, in quanto fondato sui fatti come accertati, non è sindacabile in questa sede. Va rammentato, infatti, che è consolidato principio, affermato da questa Corte, quello secondo cui la indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare la esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (ex multis Cass. S.U. n. 6402/97). 9. Il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è sorretto da adeguata e non manifestamente illogica motivazione. A pag. 23, i giudici territoriali hanno argomentato l'inesistenza di elementi positivi di valutazione nei confronti dei ricorrenti, e, tenuto conto dell'irrilevanza dello stato di incensuratezza del No.Ma. (mentre il Sa.Fr. è soggetto gravato da precedenti penali specifici che già da soli sono sufficienti ad escludere la mitigazione del trattamento sanzionatorio), hanno valorizzato la gravità dei fatti evidenziando la perdurante occupazione dello spazio demaniale, le criticità riscontrate nell'operazione negoziale di cessione dell'azienda da Acquacultura Ionica alla Maricultura Pugliese Group, meglio descritte a pag. 22, che facevano apparire del tutto fittizia la cessione, l'entità dello scarico di acque reflue in mare, elementi di valenza preponderante negativa ai fini del riconoscimento delle circostanze di cui all'art. 62 bis cod.pen. Come questa Corte ha più volte affermato, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900) nell'ambito dei quali la mera incensuratezza non può costituire una valida ragione per il riconoscimento. Non di meno, il riconoscimento o meno di tale circostanza è un giudizio di fatto che compente alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, in presenza di congrua motivazione. La censura sul trattamento sanzionatorio che lamenta la mancata determinazione della pena nella misura del minimo edittale è per un verso aspecifico e, per altro verso, manifestamente infondato in presenza di una motivazione resa dai giudici del merito che, sulla scorta dei criteri di cui all'art. 133 cod.pen. (cfr. pag. 24), è pervenuta all'irrogazione della pena inflitta. 10. Per le stesse ragioni di gravità del fatto (vedi supra), i giudici territoriali hanno escluso la particolare tenuità dell'offesa ed hanno congruamente argomentato l'esclusione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis cod.pen. (cfr. pag. 21). 11. Infine, nell'accogliere il motivo relativo alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno in assenza di una sua quantificazione non essendo sufficiente una condanna generica (S.U. n. 37502 del 2022), non di meno ha confermato la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile (...), vicino confinante, danneggiata dalla condotta abusiva di allevamento su un'area senza titolo e con scarico non autorizzato commessa dagli imputati, che avevano continuato a sversare nel medesimo bacino marittimo di sostanze potenzialmente inquinanti tali da limitare inevitabilmente lo svolgimento di analoghe attività da parte di altri nello stesso specchio d'acqua. 12. Si impone il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 22 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9032 del 2023, proposto da Agea - Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura e Ader - Agenzia delle Entrate Riscossione, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); contro Società Agricola Sc. Gi. e Pi. Ch. S.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Pa. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 331/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Società Agricola Sc. Gi. e Pi. Ch. S.S.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2024 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Ma. Di Be. e Pa. Bo.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - L'Azienda appellata ha impugnato avanti il Tar per la Lombardia, sezione di Brescia, le intimazioni di pagamento n. 019 2021 90003234 09/000 e n. 019 2021 90017171 89/000 con le quali è stato chiesto, rispettivamente, il pagamento della somma di Euro361.981,74, a titolo di prelievo supplementare e interessi per la campagna 2005/2006, e dell'importo di Euro54.578,88, a titolo di prelievo supplementare e interessi per la campagna 2008/2009. 2 - Il Tar adito, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto il ricorso: - quanto all'intimazione di pagamento n. 019 2021 90017171 89/000, alla luce della ritenuta fondatezza del primo motivo di ricorso; - quanto all'intimazione di pagamento n. 019 2021 90003234 09/000, alla luce della ritenuta prescrizione del credito. 3 - Agea ha proposto appello avverso quest'ultima statuizione, deducendo che il Giudice di prime cure avrebbe erroneamente ritenuto che il processo amministrativo, definitosi con la pronuncia del Tar per il Lazio n. 791/2015, non avrebbe efficacia interruttivo-sospensiva della prescrizione, in quanto avrebbe deciso un ricorso avente ad oggetto non la campagna 2005/2006, ma la diversa campagna 2004/2005. Secondo l'appellante, tale rilievo soffre di un errore di fatto dal momento che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo Giudice, la sentenza n. 791/15 decide un ricorso relativo proprio all'annata 2005/2006, e non alla diversa campagna 2004/2005. 3.1 - L'appello è fondato. Le aziende appellanti - nel giudizio poi sfociato nella sentenza del Tar per il Lazio n. 191/15 - hanno impugnato i risultati della compensazione nazionale e la determinazione del prelievo supplementare per il periodo di produzione lattiera 2005/2006, e non 2004/2005, come si evince inequivocabilmente dal ricorso che ha dato luogo al giudizio di primo grado n. 9135/2006. Il Tar, nella sentenza impugnata, è stato indotto in errore dal refuso contenuto nella citata sentenza n. 791, la quale però deve essere riferita all'annata 2005/2006, essendo a tale periodo che si riferiscono i provvedimenti ivi impugnati e come del resto rilevato dalla sentenza resa in sede di appello, che correttamente si riferisce al periodo di produzione lattiera 2005/2006 (cfr. Cons. St. 2425/2022). Deve inoltre osservarsi che, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellata, il predetto giudizio riguarda la determinazione del prelievo supplementare dovuto da ciascuna azienda ricorrente, specificamente determinato nei rispettivi atti impugnati. 3.2 - Tale esito rende irrilevante il secondo motivo di appello, con il quale l'Agea prospetta che la prescrizione non sarebbe comunque maturata alla luce di altri idonei atti interruttivi; risultano conseguente parimenti irrilevanti i documenti a tal fine prodotti. 4 - L'accoglimento dell'appello di Agea implica la necessità di esaminare i motivi di ricorso svolti in primo grado dall'Azienda appellata, non esaminati dal Tar e ritualmente riproposti in questa sede. 4.1 - Con il primo motivo si deduce la prescrizione del credito (limitatamente alla parte in cui non sono state accolte le censure relative all'applicazione del termine quadriennale di prescrizione). Alla luce dell'accoglimento dell'appello, la censura è infondata; invero, indipendentemente dalla durata del termine prescrizionale applicabile nel caso di specie, il giudizio relativo alla sussistenza del credito azionato con l'intimazione di pagamento impugnato nel presente giudizio è stato definitivamente accertato solo con la sentenza n. 2425/2022 di questo Consiglio. E' dunque evidente come non possa essere maturata la prescrizione del credito (cfr. art. 2945 c.c.). 5 - L'appellata deduce inoltre: - il contrasto tra normativa interna e quella comunitaria in relazione all'intero meccanismo di determinazione del prelievo supplementare, con l'effetto che le somme richieste a titolo di prelievo supplementare alla società agricola ricorrente sono frutto di una compensazione illegittima e, pertanto, non sono dovute, con conseguente illegittimità dei provvedimenti impugnati; - l'eccesso di potere per carenza di istruttoria; l'eccesso di potere come conseguenza della violazione della legge penale con riferimento agli artt. 479 e 323 c.p.; la violazione dell'art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dell'art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU; il contrasto con gli esiti dell'istruttoria svolta in sede penale. A tal fine, l'appellata richiama il provvedimento 5.6.2019 del GIP presso il Tribunale di Roma, che ha rilevato "la prova della totale inattendibilità e falsità dei dati del sistema". Per tale ragione, secondo l'Azienda, era essenziale verificare preliminarmente la correttezza e la legittimità degli importi di prelievo di cui oggi l'Amministrazione richiede il pagamento. Solo attraverso una puntuale istruttoria da eseguirsi con un processo di calcolo matematico sarà possibile accertare la reale incidenza dell'inserimento di eventuali dati falsi e le concrete ricadute sulla determinazione del prelievo supplementare imputato con le cartelle esattoriali di cui è stato intimato il pagamento. 5.1 - Le censure, che possono essere esaminata congiuntamente, sono inammissibili. Quello che viene in rilievo non è un autonomo atto impositivo, bensì un invito di pagamento prodromico all'esecuzione forzata, impugnabile unicamente per vizi propri. Più volte la Corte di Cassazione ha statuito che un'intimazione di pagamento riferita ad una cartella di pagamento notificata e non impugnata può essere contestata solo per vizi propri e non già per vizi suscettibili di rendere nulla od annullabile la cartella di pagamento presupposta (ex multis, Cass. civ., sez. VI, ord. n. 3743 del 2020). I rilievi dell'Azienda agricola attengono a tematiche afferenti alla determinazione sostanziale del debito, non già ad irregolarità proprie della fase esecutiva di competenza del soggetto esattore, da cui l'inammissibilità degli stessi. In altri termini, siccome il ricorso ha ad oggetto l'intimazione di pagamento emessa dall'Agenzia delle Entrate - Riscossione - ovvero atti appartenenti alla fase esecutiva della riscossione del prelievo dovuto - non è possibile rimettere in discussione la legittimità del credito, così come determinata in un precedente atto non impugnato, o che si è comunque consolidato. Gli atti relativi alla fase esecutiva (cartella esattoriale, intimazione di pagamento), pur devoluti alla giurisdizione esclusiva amministrativa ai sensi dell'art. 133 c.p.a., sono soggetti alle norme, alle preclusioni ed ai principi regolanti la riscossione mediante ruolo. L'art. 8 quinquies del decreto legge 10 febbraio 2009 n. 5 - convertito con legge 9 aprile 2009, n. 33 - ha infatti stabilito che "a decorrere dal 1° aprile 2019, la riscossione coattiva degli importi dovuti relativi al prelievo supplementare latte, nei casi di mancata adesione alla rateizzazione e in quelli di decadenza dal beneficio della dilazione di cui al presente articolo, è effettuata ai sensi degli articoli 17, comma 1, e 18, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46" (decreto, quest'ultimo, recante il "Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo"). Come già rilevato dalla giurisprudenza (Cons. St. 3910/2022) "in quanto concernenti l'an e il quantum del debito accertato dall'Autorità amministrativa nell'esercizio delle sue potestà pubbliche, le tematiche reiterate nel presente giudizio accedono a posizioni di interesse legittimo (Cass., Sez. Un., ord. nn. 31370 e 31371 del 2018) ed originano da provvedimenti autoritativi, emessi dall'Autorità amministrativa nell'esercizio delle sue potestà pubbliche, come tali soggetti al regime del termine decadenziale che rende definitivo e non più contestabile l'atto non tempestivamente impugnato". La stessa giurisprudenza ha precisato che "la definitività dell'imputazione del prelievo preclude la possibilità per il ricorrente di avvalersi degli effetti degli arresti della Corte di Giustizia, i quali trovano un limite non valicabile nella formazione della inoppugnabilità dell'atto". 6 - Il rigetto delle censure innanzi esaminate comporta il rigetto anche del quarto motivo riproposto (IV. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e carenza di motivazione sotto molteplici profili. Violazione di legge in relazione agli artt. 8-ter e 8-quinquies del decreto legge 10.2.2009 n. 5, convertito in legge 9.4.2009 n. 33 ed ai principi di buon andamento e trasparenza della P.A. di cui all'art. 97 Cost. Violazione di legge in relazione agli artt. 3 e 10 della legge 7.8.1990 n. 241), con il quale si lamenta un eccesso di potere per difetto di istruttoria in relazione al provvedimento impugnato, posto che nessuna attività di verifica sarebbe stata posta in essere dall'Agenzia procedente e da AGEA prima dell'emissione dell'intimazione di pagamento. Al riguardo, è infatti sufficiente ricordare che l'atto prodromico di accertamento del credito si è consolidato a danno dell'Azienda agricola, ne deriva come la successiva attività di riscossione assume i caratteri della necessità e vincolatività, senza alcun ulteriore margine di apprezzamento circa la legittimità del credito ingiunto. 7 - Deve infine essere disatteso anche l'ultimo motivo (Violazione di legge in relazione agli artt. art. 3-bis, 6, 6-ter del d.lgs. 7.3.2005 n. 82; all'art. 16-ter del d.l. 18.10.2012 n. 179 ed all'art. 3-bis della legge 21.1.1994 n. 53: nullità della cartella impugnata per inesistenza ovvero nullità insanabile della notifica) con il quale si lamenta che l'Agenzia ha notificato l'intimazione dall'indirizzo (omissis), che non figura nei registri Reginde, ipa, pp.aa, ini-pec, poiché gli unici due indirizzi PEC presenti nei citati pubblici elenchi riferibili all'Agenzia delle entrate- Riscossione sono: (omissis) e (omissis). Pertanto la notifica della cartella esattoriale sarebbe insanabilmente nulla, in quanto l'Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non ha utilizzato la PEC attribuita all'Agenzia delle Entrate - Riscossione". Come già argomentato in caso analoghi, anche accedendo alla prospettazione di parte ricorrente, non può essere obliato che opererebbe, comunque, la sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c., della pretesa nullità della notifica (cfr. Cons. Stato, sez. III, 16/11/2021, n. 7630). In proposito, è sufficiente richiamare il principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di notifica della cartella di pagamento, l'inesistenza è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità, sanabile con efficacia ex tunc per raggiungimento dello scopo" (Corte Cass. n. 21865 del 2016). Ed ancora: "La nullità della notifica della cartella esattoriale, atto avente duplice natura di comunicazione dell'estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e all'atto di precetto nel rito ordinario, è suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo ai sensi degli artt. 156 e 160 c.p.c., atteso l'espresso richiamo, operato dall'art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, alle norme sulle notificazioni del codice di rito." (Corte Cass. n. 384 del 2016). 8 - Per le ragioni esposte deve trovare accoglimento l'appello di Agea e, in parziale riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso avverso l'intimazione di pagamento n. 019 2021 90003234 09/000. 8.1 - Le spese di lite del doppio grado di giudizio, ad una valutazione complessiva della vicenda, possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta accoglie l'appello e, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge in parte il ricorso di primo grado. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Marco Poppi - Consigliere
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