Sentenze recenti violenza di genere

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti: dal PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI ANCONA; da Me.Eg. nato a S il (Omissis); nel procedimento a carico di quest'ultimo avverso la sentenza del 19/06/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO VALERIO LANNA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale MARIA FRANCESCA LOY, che ha chiesto l'annullamento con rinvio limitatamente alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 16/09/2022, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Fermo ha ritenuto Me.Eg. colpevole dei reati: - di tentato omicidio aggravato, che assorbiva anche il contestato reato di minaccia grave, commesso in danno di An.Fi. (che l'imputato colpiva alla testa con un martello, cagionandogli un "trauma cranico commotivo complicato da esa, frattura pluriframmentaria del parietale di dx, crisi comiziale subentrante da subite lesioni violente", da cui derivava una malattia con prognosi superiore ai novanta giorni, non riuscendo nell'intento per il tempestivo intervento di altro soggetto presente sul luogo, nonché grazie al sopraggiungere dei soccorsi ed al pronto trasporto in ospedale); - di porto senza giustificato motivo di due coltelli da cucina, nonché di una chiave "a pappagallo" e di un martello; - di maltrattamenti in danno della compagna convivente Ma.Th.; - di atti persecutori, parimenti commessi in danno della medesima Ma.Th., alla quale cagionava un perdurante e grave stato d'ansia, ingenerandole un fondato timore per la propria incolumità e per quella della figlia An.Me., costringendola a modificare le proprie abitudini di vita e per l'effetto - ritenuto più grave il reato di tentato omicidio, nonché ritenuta la continuazione fra tutti i reati, ritenuta l'aggravante della premeditazione in ordine al reato in relazione al quale viene individuata la pena base e, infine, tenuto conto della diminuente del rito - lo ha condannato alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare; con condanna al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili, la liquidazione dei quali è stata demandata al giudice civile, oltre che alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza sostenute dalle parti civili medesime; con applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre; con confisca e distruzione, infine, di quanto in sequestro. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Ancona - in parziale riforma della suddetta sentenza gravata - ha riconosciuto all'imputato le circostanze attenuanti generiche, computandole con il criterio della equivalenza rispetto alle contestate e ritenute aggravanti, cosi rideterminando la pena complessiva in anni otto di reclusione e applicando all'imputato la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, revocando la misura di sicurezza della libertà vigilata e, infine, condannando il Me. alla rifusione delle spese sostenute nel grado di giudizio dalle costituite parti civili. 3. Ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, deducendo vizio rilevante ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., sotto il profilo della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche, laddove in motivazione viene mosso un appunto a Ma.Th., persona offesa dei reati di maltrattamenti e atti persecutori, per aver contribuito a esacerbare l'animo dell'imputato, alimentandone le già forti tensioni psicofisiche e per non essersi relazionata con il suo aggressore, in vista dell'opportunità di fare chiarezza. Il primo profilo di illogicità si annida nella presunzione della possibilità, per la vittima, di instaurare un confronto con l'aggressore nei termini sopra indicati. Parimenti illogico è qualificare come rimproverabile la riservatezza della Th., intesa alla stregua di una violazione di un legittimo interesse dell'imputato, ad onta della pericolosità e dell'indole violenta da quest'ultimo inequivocabilmente manifestata. Tali considerazioni, ancora una volta seguendo un percorso concettuale illogico, vengono poste a fondamento di una benevola considerazione, circa la volontà di vendetta che animava il Me.. Contraddittorio è, del resto, ipotizzare la sussistenza di tale obbligo comunicativo e, correlativamente, di un legittimo interesse in capo all'imputato, a fronte di condotte che la Corte stessa ha definito tese al controllo ossessivo, alle minacce di morte, alla umiliazione della compagna. 4. Ricorre per cassazione Me.Eg., a mezzo del difensore avv. Gi.Ga., deducendo undici motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp att. cod. proc. pen.. 4.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione al difetto di imputabilità, censurandosi il mancato esperimento del richiesto supplemento istruttorio. L'imputato, al momento del fatto, non era compos sui, a causa della grave psicopatologia depressiva che lo affliggeva, secondo quanto diagnosticato dalla psicologa nella consulenza di parte. In conseguenza di una condizione di "scissione transitoria acuta", la difesa aveva domandato l'espletamento di un supplemento istruttorio, volto a verificare la capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto. Tali rilievi, unitamente alla stranezza dell'azione sussunta in contestazione (posta in essere per mano di un dottore commercialista di sessantatré anni incensurato) avrebbe dovuto determinare la Corte di appello ad accogliere la richiesta difensiva e, in conseguenza, a disporre l'ulteriore accertamento richiesto. 4.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 56 comma 3, 575, 577 comma 3, 582 e 583 cod. pen., per assenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, in merito all'elemento soggettivo e oggettivo del delitto di tentato omicidio e quanto alla mancata derubricazione del reato di tentato omicidio aggravato in quello di lesioni personali gravi o gravissime, nonché per mancata configurazione dell'ipotesi della desistenza. La Corte territoriale omette di considerare l'atteggiamento evidentemente desistente serbato dall'imputato; questi infatti, piuttosto che continuare a infierire sulla vittima, si è soffermato a discorrere con la terza persona presente, circa le ragioni del gesto. Il tutto avrebbe dovuto determinare la Corte a escludere la sussistenza del dolo omicidiario. Sull'analisi dell'elemento soggettivo del reato avrebbero dovuto avere un peso determinante, peraltro, gli avvenimenti prodromici al fatto, che mostrano come l'imputato sia stato sottoposto a un crescendo di tensioni emotive, in modo particolare dopo che moglie e figlia si erano allontanate da casa, lasciandolo in preda alla collera. L'azione del Me. era, in realtà, solo un gesto dimostrativo, che mirava a produrre esclusivamente lesioni. Tanto vero che Fi. è stato colpito una sola volta, sfortunatamente alla testa e l'imputato gli ha permesso di allontanarsi autonomamente, senza cercare di attingerlo ulteriormente. L'azione delittuosa non è stata interrotta da fattori esterni sopravvenuti, bensì dalla volontà del soggetto attivo, per cui è configurabile la desistenza volontaria. Su tale ultimo punto, la motivazione della sentenza impugnata risulta oltremodo carente. A suffragio della sussistenza di una desistenza volontaria, militano inoltre le dichiarazioni rese da An.Ma., che descrivono compiutamente la condotta tenuta dall'imputato subito dopo il fatto. La descrizione dei fatti resa da tale teste delinea tanto lo scopo puramente dimostrativo dell'azione, quanto l'assenza di una reale intenzione omicida - atteso che Me., ove davvero fosse stato questo il suo intento, avrebbe certo potuto superare qualsivoglia tentativo esterno di interrompere l'azione. 4.3. Con il terzo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'art. 530 cod. proc. pen., relativamente al delitto ascritto sub 3) della rubrica, per mancanza di motivazione, censurandosi in particolare la mancata assoluzione del prevenuto con l'adozione della formula di rito "perché il fatto non sussiste". Non vi è motivazione, né in ordine alla richiesta di assoluzione per il reato ascritto sub b), né per ciò che inerisce alla ricorrenza delle circostanze aggravanti ivi contestate. 4.4. Con il quarto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 572 secondo comma, 81, 609 - bis, 609 - ter primo comma n. 5 - quater cod. pen., oltre che violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per difetto di motivazione in ordine alla determinazione della pena e per violazione dell'art:. 132 cod. pen., oltre che per errata valutazione degli elementi probatori raccolti. La vicenda per la quale è processo deve essere inquadrata, più correttamente, nel contesto di una forte conflittualità fra i coniugi, nella gestione dei rapporti personali e familiari. Pacifico è poi che, nel periodo successivo all'inizio della relazione della madre con Fi., il rendimento scolastico della minore sia calato notevolmente. L'imputato, comunque, non ha mai adottato condotte violente nei confronti della figlia adolescente, limitandosi a tentare di correggerne l'indole ribelle, sicuramente dimostrata dall'uso di droghe leggere. L'imputato era un soggetto in buono stato di salute mentale, per cui il fatto che fosse ossessivo è una affermazione priva di riscontri e frutto di un pregiudizio. La Th., inoltre, non è attendibile quanto alle contestate violenze sessuali, che vengono da lei denunciate al solo fine di radicare la sua posizione all'interno della struttura protetta che la ospitava. Nella sentenza impugnata si compie un vero e proprio atto di fede, in punto di attendibilità del narrato della persona offesa. Con riferimento alla credibilità della donna, basta ricordare come ella abbia, in un primo tempo, negato la relazione sentimentale con Fi., da questi invece affermata. 4.5. Con il quinto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla violenza sessuale e al delitto di atti persecutori. L'unico elemento militante a carico del ricorrente è costituito dalle dichiarazioni rese dalla Th., che non sono state però sottoposte a una previa verifica di attendibilità intrinseca; trattasi, peraltro, di una persona offesa costituita parte civile e che era portatrice, per quanto inerisce alla nascita del presente procedimento, di uno spiccato interesse utilitaristico, originato anche dalla nuova relazione da ella intrapresa. Medesime considerazioni possono esser fatte con riferimento al reato di atti persecutori, essendosi verificato, in realtà, un semplice stato di forte tensione fra ex conviventi, che ha trovato scaturigine anche nella relazione intessuta dalla Th. con Fi.. 4.6. Con il sesto motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), lett. d) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125 cod. proc. pen. e 133 cod. pen., deducendosi nullità della sentenza impugnata, per difetto di motivazione in ordine ai criteri che presiedono alla dosimetria della pena, in violazione dell'art. 133 cod. pen. La Corte anconetana non chiarisce, infatti, in base a quali criteri sia giunta a determinare la quantificazione sanzionatoria. 4.7. Con il settimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, censurandosi il fatto che esse non siano state ritenute prevalenti, in sede di bilanciamento con le contestate aggravanti. 4.8. Con l'ottavo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla disciplina relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il tentativo, rispetto alla fattispecie consumata, nonché dolendosi del difetto di motivazione relativamente al diniego della relativa riduzione di pena non concessa. 4.9. Con il nono motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per quanto attiene alla disciplina della circostanza attenuante della provocazione, ex art. 62 n. 5) cod. pen. È stato trascurato lo stato d'ira nel quale è sprofondato l'imputato, una volta scoperta la relazione, protratta nel tempo, fra la Th. e Fi.. La natura clandestina di tale relazione e quindi, correlativamente, la sussistenza di un inganno prolungato nel tempo, rappresentano un fatto connotato da ingiustizia, conforme a quanto postulato dalla norma per la integrazione della suddetta circostanza. Me. ha scoperto, ad aprile 2021, che la moglie aveva una relazione con Fi. e, nel corso del successivo mese di giugno, è stato da questi affrontato verbalmente; nel settembre 2021, la Th. e la figlia si sono allontanate da casa senza fornire spiegazione alcuna. Esiste, pertanto, un chiaro legame psicologico, fra tale fatto ingiusto (da intendere quale inosservanza di norme sociali e morali comunemente accettate, volte a regolare l'ordinaria convivenza civile) e il gesto successivamente posto in essere. 4.10. Con il decimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all'aggravante della premeditazione. Il giorno dei fatti non vi era alcun appuntamento, fra l'imputato e la vittima, né si evidenzia alcuno studio dei luoghi o delle abitudini di quest'ultima, ad opera del Me.; i due, in realtà, si sono imbattuti per caso. Lo stesso antefatto dimostra l'assenza dell'elemento cronologico, necessario per la configurabilità della premeditazione, dato che tutti gli eventi si sono succeduti freneticamente, nello spazio di poche ore. L'azione di Me. è stata improvvisata, costituendo essa una reazione istintiva dettata dall'ira e assunta di mero impeto, maturata all'esito di una convulsa successione temporale. 4.11. Con l'undicesimo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., per mancanza di motivazione. La Corte non esplicita in base a quali criteri sia pervenuta a quantificare la pena inflitta. 5. La parte civile An.Fi., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha condiviso le osservazioni e le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore Generale di Ancona, sottolineando l'errore motivazionale compiuto dalla Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche La Corte distrettuale, peraltro, ha trascurato di considerare come la violenta e pericolosa condotta familiare tenuta da Me. escluda in radice ogni obbligo -in capo alla ex compagna - di pretesa trasparenza. Già tre mesi prima del tentato omicidio, il Me. si era reso protagonista di condotte violente in danno della Th.. Quanto al ricorso della difesa, la eccepita incapacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto sollecita niente altro che una rilettura degli atti, a fronte di due sentenze tra loro integrate, che motivano sulla chiara assenza dei presupposti necessari per ritenere sussistente l'asserito deficit psichiatrico. Circa la richiesta di derubricazione, si tratta di un motivo interamente versato in fatto, dunque inammissibile in sede di legittimità. L'impugnazione difensiva, oltre ad essere infondata sotto ogni punto, è costellata di valutazioni incentrate sul merito della vicenda processuale. Si chiede, in definitiva, di annullare la sentenza con rinvio, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale e di respingere il ricorso della difesa dell'imputato, confermando la condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e condannando l'imputato, altresì, alla liquidazione delle spese di giudizio relative al grado. 6. La parte civile Ma.Th., con il patrocinio dell'avv. Ro.Ro., ha parimenti presentato nota spese e conclusioni scritte, a mezzo delle quali ha fatto proprie le doglianze contenute nel ricorso del Procuratore generale, segnalando l'errore motivazionale nel quale sarebbe incorsa la Corte di Appello di Ancona, in sede di applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Se si parte dal principio che Me. sia un soggetto estremamente pericoloso, risulta poi contraddittorio reputare legittimo il suo diritto a conoscere di una eventuale relazione extraconiugale della Th., dato che questa - in tal caso - avrebbe dovuto esporsi a un serio rischio per la propria incolumità. Quanto all'impugnazione della difesa dell'imputato, i motivi dal quarto al decimo sono inammissibili, in quanto imperniati su valutazioni di merito e, comunque, da disattendere, al cospetto di una motivazione logica e precisa. Tanto premesso, si chiede di accertare la penale responsabilità dell'imputato, di accogliere il ricorso della Procura Generale presso la Corte di appello di Ancona e di respingere - o di dichiarare inammissibile - il ricorso dell'imputato; il tutto con conferma della condanna al risarcimento del danno in favore della vittima del reato e con condanna alla liquidazione delle spese di giudizio del grado, in favore della difesa di parte civile, secondo quanto sussunto in separata nota. 7. Il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento con rinvio, quanto alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, con declaratoria di inammissibilità quanto al resto. Per ciò che concerne il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, si afferma in sede di requisitoria che la motivazione del provvedimento impugnato è palesemente illogica e deriva da una inaccettabile impostazione culturale. Appare illogico, sempre stando a quanto espresso in requisitoria, ritenere l'imputato colpevole di tutti i reati contestati, per avere serbato un contegno che la stessa Corte definisce come una "sistematica condotta oppressiva verso la compagna" e, parimenti, attribuire alla donna la "colpa" di avere con il suo comportamento "inevitabilmente acuito la rabbia e la sete di vendetta" dell'imputato, che avrebbe avuto "un legittimo interesse" a conoscere le intenzioni della sua compagna. La colpa ascrivibile alla donna consisterebbe, pertanto, nella decisione di troncare la relazione con un uomo "ossessivo, geloso, violento che per anni l'aveva considerata e trattata come una "cosa" di sua proprietà". Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è invece manifestamente inammissibile, in quanto le doglianze prospettate hanno già ricevuto congrua e logica risposta, attraverso una doppia conforme affermazione di responsabilità. Il primo motivo è inammissibile, per essere la relativa doglianza inconciliabile con la scelta operata dal prevenuto, di essere giudicato secondo le forme del rito abbreviato. Parimente inammissibile è il secondo motivo contenuto nell'atto di impugnazione, a fronte di una motivazione corretta e basata sugli esiti della consulenza medico legale. Meramente contestativa e fattuale è la censura relativa alla configurabilità della desistenza. Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per genericità. Quanto al quinto e al sesto motivo essi sono manifestamente infondati, avendo la Corte territoriale congruamente motivato in ordine alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. In ordine al trattamento sanzionatorio, i motivi sono manifestamente infondati, alla luce di quanto affermato in merito alla fondatezza del ricorso del Procuratore generale. 8. La difesa dell'imputato ha presentato memoria di replica alla requisitoria scritta inoltrata dal Procuratore generale, a mezzo della quale ha anzitutto ribadito la infondatezza del ricorso promosso dal Procuratore generale, per avere la Corte di Appello di Ancona correttamente concesso le circostanze attenuanti generiche, computate con il criterio della equivalenza, a fronte delle aggravanti contestate. La Corte territoriale, sul punto, ha legittimamente tratto precisi elementi di valutazione, da circostanze del fatto e da elementi circostanziali, espressivi della complessiva condotta realizzata dal soggetto attivo. Il ricorso del Procuratore generale di Ancona, condiviso dal Procuratore generale della Cassazione, appare generico, non investendo esso, con la necessaria attitudine disarticolante, le argomentazioni della Corte di merito, in ordine al trattamento sanzionatorio. I motivi di ricorso promossi dalla difesa, al contrario, sono fondati e meritevoli di accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato è infondato; da accogliere, invece, è il ricorso del Procuratore generale, inerente al tema delle circostanze attenuanti generiche. 2. La prima doglianza contenuta nel ricorso difensivo attiene al tema della imputabilità e censura, in particolare, la mancata effettuazione di una perizia psichiatrica; la Corte di appello avrebbe errato, in sostanza, nel ritenere l'imputato - pur affetto da una grave psicopatologia depressiva - capace di intendere e di volere (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.1.). Trattasi di censura reiterativa e generica, che si risolve nella mera riproposizione di deduzioni già prospettate in sede di gravame e, in tal sede, adeguatamente affrontate dai Giudici di secondo grado. La Corte distrettuale, infatti, si è compiutamente confrontata con le obiezioni difensive formulate sul punto specifico, offrendo una risposta puntuale e coerente, ossia spiegando come la invocata perizia avrebbe presentato un carattere meramente esplorativo, andando incongruamente a confliggere con il principio generale di presunzione di completezza del giudizio, oltre che con il connotato di eccezionalità dell'istituto della rinnovazione della stessa (così la sentenza di appello, pag. 13). Del resto, vengono addotti - a fondamento dell'istanza - gli esiti di una relazione psicopatologica a firma della dott.ssa Vitelli, nella quale veniva diagnosticata nel Me. la sussistenza della succitata grave psicopatologia depressiva; la Corte, però, ha ritenuto trattarsi di una valutazione del tutto priva di qualsivoglia ancoraggio ad una preesistente documentazione di tipo sanitario, oltre che redatta in assenza di previa valutazione clinica delle condizioni di salute mentale dell'imputato. La stessa condotta - sia processuale, sia in sede di commissione del fatto - è stata giudicata evocativa di una soddisfacente progettualità e di una sicura lucidità, in tal modo risultando sconfessata ogni possibilità di ipotizzare l'esistenza della asserita minorata capacità. In tale contesto, quindi, andare a sondare la capacità mentale del soggetto si risolverebbe nell'espletamento di una perizia esplorativa, fondata su basi esclusivamente congetturali ed ipotetiche. 3. Il secondo profilo di critica formulato dalla difesa attiene - secondo argomentazioni cumulative e, tra loro, strettamente connesse - alla ritenuta sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi del reato di tentato omicidio, oltre che alla mancata derubricazione del fatto nell'ipotesi di lesioni personali volontarie gravi o gravissime; si invoca l'applicazione, infine, dell'istituto della desistenza (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.2.). 3.1. Va evidenziato come tali censure si sviluppino sul piano del fatto e siano essenzialmente finalizzate a sovrapporre una nuova interpretazione delle risultanze probatorie, diversa da quella recepita nell'impugriato provvedimento, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati dall'art. 606 cod. proc. pen.. Tale operazione, con tutta evidenza, fuoriesce dal perimetro del sindacato rimesso al giudice di legittimità. Secondo la linea interpretativa da tempo tracciata da questa Corte regolatrice, infatti, l'epilogo decisorio non può essere invalidato sulla base di prospettazioni alternative, che sostanzialmente si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e differenti canoni ricostruttivi e valutativi dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148). 3.2. Analizzando partitamente i singoli profili di doglianza sussunti nel motivo unitario, può precisarsi quanto segue. La critica incentrata sulla qualificazione giuridica del fatto, che la difesa auspica possa essere ricondotta sotto l'egida normativa del delitto di lesioni personali aggravate, non merita accoglimento. I giudici di merito, infatti, hanno desunto la sussistenza del dolo omicidiario - nel comportamento tenuto dal ricorrente, nei confronti della vittima - attraverso una ponderazione del tutto corretta, in ordine alle concrete modalità esecutive che hanno connotato la condotta incriminata. La Corte ha sottolineato, dunque, la sussistenza del dolo omicidiario, ricavandolo - in via deduttiva - dal ferreo collegamento logico esistente fra i seguenti elementi oggettivi: - la sicura potenzialità lesiva dello strumento adoperato (un martello, che i Giudici di appello hanno - del tutto correttamente - sottolineato esser stato violentemente indirizzato, con la punta, sulla teca cranica, segnatamente contro la regione parietale destra) dell'avversario, così provocando a questi un trauma cranico commotivo e una frattura pluriframmentaria, con una seria possibilità di giungere allo sfondamento del cranio e, quindi, al decesso; - la parte stessa del corpo della vittima, attinta dal colpo; - la violenza stessa del colpo, fattore evocativo di una sicura voluntas necandi. La Corte territoriale, nell'individuare la sussistenza del dolo alternativo di omicidio e lesioni, ha evidenziato inoltre due ulteriori elementi oggettivi, entrambi dimostrativi della ricorrenza di una sicura volontà omicida, ossia: - il fatto che l'imputato, alla presenza dei militari dell'Arma intervenuti in loco, brandisse non più un martello, bensì un coltello a lama larga e gesticolasse in modo esagitato verso la vittima; - la ulteriore minaccia, riferita dal teste Ma., portata da Me. nei confronti di Fi., allorquando il primo aveva minacciato di uccidere quest'ultimo con una pistola. Questo Collegio, quindi, può limitarsi a sottolineare come il convincimento raggiunto dalla Corte distrettuale - in tema di sussistenza del fatto e di qualificazione giuridica dello stesso, in termini di tentato omicidio - sia stato esposto attraverso una struttura motivazionale rigorosamente coerente, oltre che ampia ed esaustiva e, infine, del tutto priva di vuoti narrativi o vizi di contraddittorietà, sia intratestuale che logica. La sentenza impugnata, sul punto, merita di rimanere al riparo da qualsivoglia stigma in sede di legittimità. 3.3. Parimenti inconcludente si rivela l'ulteriore prospettazione difensiva, incentrata sull'inflizione - da parte dell'imputato - di un solo colpo al capo della vittima, a dimostrazione del mancato utilizzo dell'intera gamma di potenzialità offensive che, al momento, l'uomo aveva a disposizione (fatto asseritamente militante nel senso dell'assenza, in capo al Me., di uria concreta e stabile intenzione di carattere genuinamente omicida). La Corte territoriale, sul punto, osserva correttamente come sia irrilevante il dato - di tenore meramente empirico - rappresentato dalla mancata reiterazione dei colpi, a fronte di un gesto di inequivocabile direzione omicidiaria, quale quello di colpire violentemente la vittima alla testa con un pesante martello. In ordine alla specifica tematica, pare utile ricordare il principio di diritto -concordemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità - in forza del quale "In tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'animus necandi assume valore determinante l'idoneità dell'azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata "ex post" ma con riferimento alla situazione che si presentava "ex ante" all'imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso" (Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012). La Corte distrettuale, dunque, ha giustamente valorizzato la micidialità del mezzo adoperato (ossia, il martello), nonché l'uso concreto che - di tale strumento - il soggetto attivo ha fatto, nella fase prettamente attuativa del delitto (attingendo al capo la vittima). L'apparato argomentativo sotteso alla pronunzia impugnata appare, anche sul punto specifico - oltre che frutto del lineare vaglio delle evidenze disponibili - senz'altro ossequioso dei canoni ermeneutici che disciplinano la materia. Il mancato utilizzo, nella loro interezza, delle risorse eteroaggressive al momento disponibili, in definitiva, non si riverbera certo sulla sussistenza della volontà omicidiaria e, consequenzialmente, sulla piena configurabilità del paradigma normativo del tentato omicidio (sul punto si potrà vedere, trattandosi di concetti sovrapponibili, sebbene espressi in tema di tentato omicidio posto in essere mediante accoltellamento, il dictum di Sez. 1, n. 45332 del 02/07/2019, Pesce, Rv. 277151, la quale ha così statuito: "La mancata inflizione di più coltellate non esclude la sussistenza della volontà omicida, qualora sia accertato che, per le modalità operative e per l'arma impiegata, l'azione sia stata idonea a causare la morte della vittima e tale evento non si sia verificato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente"). 3.4. Con riferimento all'ulteriore tema posto dalla difesa, concernente la auspicata ipotizzabilità dell'istituto della desistenza, pare bastevole rammentare come - nella categoria dei reati di danno a forma libera - una volta che risulti oltrepassata la soglia del tentativo compiuto, non possa più discorrersi di desistenza, potendosi al più ravvisare il diverso istituto del recesso attivo. La desistenza può aver luogo, infatti, esclusivamente nella fase del tentativo incompiuto, non risultando essa configurabile allorquando siano stati ormai posti in essere gli antecedenti, da cui origina il meccanismo causale atto a produrre l'evento. La diminuente conseguente al ed. recesso attivo, a sua volta, postula che il soggetto agente tenga una condotta attiva, che valga a scongiurare l'evento (fra tante, si veda Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015, Supino, Rv. 264226). 3.5. Questa Corte, in conclusione, ritiene che il motivo di ricorso sia da disattendere, in quanto meramente reiterativo di deduzioni già svolte durante il giudizio di secondo grado e confutate dalla Corte di appello, con motivazione adeguata e coerente. 4. Con il terzo motivo (enumerato in parte narrativa sub 4.3), la difesa si duole della pretesa carenza motivatoria, con riferimento al reato ascritto sub 3) della rubrica, contestando la mancata assoluzione dell'imputato e la ritenuta sussistente - in relazione a tale ipotesi di reato - dell'aggravante teleologica. Il motivo presenta, però, una marcata connotazione di aspecificità, risolvendosi esso nel muovere una critica solo assertiva alla decisione avversata, attraverso l'utilizzo di argomentazioni del tutto generiche, nonché prive di un concreto ancoraggio all'apparato argomentativo aggredito. Circa il punto focale della questione, ossia relativamente al fatto, ritenuto accertato da doppia affermazione conforme in sede di merito, che Me. circolasse nella pubblica via munito degli strumenti indicati in rubrica (martello e coltelli), la difesa non riesce a spendere critiche dotate di un apprezzabile contenuto, in tal modo finendo per arrestarsi allo stadio della mera enunciazione oppositiva. La Corte territoriale, richiamando la ricostruzione offerta dalla Th., ha ricordato come l'imputato fosse solito condurre sempre con sé - anche quale forma di costante intimidazione e controllo, nei confronti della donna - strumenti quali una chiave inglese o un coltello, con l'intenzione di adoperarli nei confronti di Fi., nel caso lo avesse incontrato. In ordine a questo aspetto puntuale, la difesa ricorrente non riesce ad addurre difformi lumi, trincerandosi, come detto, dietro l'usbergo della critica di carattere esclusivamente confutativo. 5. Con il quarto e il quinto motivo, la difesa si duole della affermazione di penale responsabilità a carico dell'imputato, con riferimento ai delitti di maltrattamenti, atti persecutori e violenza sessuale, commessi in danno di Ma.Th. (motivi rispettivamente enumerati in parte narrativa sub 4.4. e 4.5.). Trattasi anzitutto di doglianze che presentano una connotazione unitaria e che ben si prestano, pertanto, a una trattazione congiunta. Tali motivi si imperniano - in via esclusiva - sulla asserita inattendibilità della persona offesa, in tal modo rivelandosi non autosufficienti e finendo per disinteressarsi della motivazione della sentenza avversata; in quest'ultima sono richiamati, peraltro, anche i riscontri, provenienti da fonti dichiarative e documentali, emersi rispetto alle affermazioni di accusa mosse dalla vittima. 5.1. Stando alla consolidata giurisprudenza di legittimità in punto di vaglio della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato costituisce questione di fatto; tale profilo, pertanto, non può ordinariamente essere censurato ad opera della Corte di cassazione. Le uniche eccezioni, rispetto a tale impostazione ermeneutica di valenza generale, sono costituite dal caso in cui la motivazione della sentenza impugnata risulti viziata da manifeste contraddizioni, oppure si sia rifugiata in mere congetture, che vadano a compendiarsi in ipotesi non fondate sul principio dell'id quod plerumque accidit e che non siano suscettibili di esser sottoposte a verifica empirica, oppure che si affidino ad una regola interpretativa che appaia priva dei requisiti minimi di plausibilità. Soprattutto nel caso in cui la testimonianza della persona offesa rappresenti la principale - pur se non proprio la esclusiva - fonte del convincimento del giudice, diviene dunque essenziale la valutazione da compiere, in ordine alla credibilità della stessa. Come sopra accennato, tale giudizio è evidentemente inerente al merito, in quanto di chiara matrice fattuale e riguardante il modo di essere e la condotta della persona escussa; una valutazione di tal fatta, allora, trova la propria sede di elezione nella dialettica dibattimentale e di merito in genere, mentre è preclusa in sede di legittimità, specialmente nel caso in cui il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile, circa le modalità di svolgimento della sua analisi probatoria (Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609; Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578). Invero, la questione attinente alla attendibilità di un teste rinviene la sua chiave di lettura nel quadro di insieme, di una struttura motivazionale logica, destinata quindi a restare immune da rivisitazioni in sede di legittimità, a meno che essa sia affetta da manifeste contraddizioni. 5.2. La parola della persona offesa, quindi, può assurgere alla dignità di prova, a patto che superi positivamente il vaglio relativo alla sua attendibilità. Infatti, pur non applicandosi alle dichiarazioni rese dalla persona offesa le regole di giudizio dettate dall'art. 192 cod. proc. pen. per la sola chiamata di correo, che postulano la presenza di riscontri esterni, deve comunque sottoporsi la voce della persona offesa ad una rigorosa indagine di credibilità. Ciò, evidentemente, in ragione dell'indubbio interesse, del quale spesso la persona offesa è portatrice e che obbliga il giudicante alla massima cautela, al severo controllo della attendibilità e, possibilmente, alla ricerca di elementi di suffragio (si veda Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 - 01, che ha così statuito: "Le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato che, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi)"; nello stesso senso, si veda Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, Ciotti, Rv. 279070 - 01, a mente della quale: "La deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi"; conforme anche Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 - 01, che ha indicato le caratteristiche che devono presentare gli eventuali elementi di riscontro, atti a supportare la saldezza del racconto della persona offesa dal reato, esprimendosi in questi termini: "In tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione"). 5.3. Esprimendo dunque un giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità, i Giudici di merito si sono adeguatamente soffermati sul profilo attinente alla intima credibilità della narrazione di Ma.Th., desumibile dalla saldezza logica del resoconto offerto e dall'assenza di fratture narrative, così desumendone la tranquillizzante affidabilità della ricostruzione da ella resa. Ha precisato la Corte distrettuale, altresì, come non residui alcun fondato dubbio, circa la piena credibilità della versione dei fatti riportata dalla persona offesa, le cui dichiarazioni sono state giudicate analitiche e particolareggiate, nonché pienamente coerenti sotto l'aspetto diacronico, prive di incertezze dichiarative e, infine, congrue rispetto al tenore delle ulteriori fonti dichiarative. 5.4. La Corte territoriale non ha mancato di sottolineare, inoltre, come la narrazione operata dalla Th. collimi alla perfezione con le ulteriori fonti sia documentali, sia testimoniali, dalle quali ha ricevuto ampio e decisivo suffragio. Vengono valorizzate, in particolare, le dichiarazioni rese da amiche della Th., oltre che da vicini di casa e dalla figlia An. (vengono richiamate le s.i.t. di Mu., Co. e Vi.). Tali dichiaranti riferiscono o de relato, ovvero in quanto portatori di scienza propria, per avere direttamente assistito a episodi rilevanti. 6. Il sesto, l'ottavo e l'undicesimo motivo muovono censure quoad poenam (tali motivi sono enumerati in parte narrativa sub 4.6., 4.8. e 4.11). Più nello specifico, il sesto motivo denuncia la mancata esplicitazione dei criteri posti dalla Corte territoriale a fondamento della decisione assunta, in punto di dosimetria sanzionatoria; l'ottavo motivo critica l'entità della riduzione operata in forza dell'applicazione dell'art. 56 cod. pen., mentre l'undicesimo motivo contiene una generica doglianza rivolta alla quantificazione della pena. 6.1. Tali motivi devono essere dichiarati inammissibili, in quanto i Giudici di merito non hanno affatto omesso di motivare sui punti sopra indicati, avendo adeguatamente valorizzato - in base ai parametri dettati dall'art. 133 cod. pen. - le gravi caratteristiche del fatto e la allarmante personalità del soggetto. Dal complesso della motivazione, in ogni caso, emergono argomentate e analitiche valutazioni negative, circa la personalità dell'imputato. Le valutazioni in punto di quantificazione sanzionatoria risultano sorrette da una struttura motivazionale ampia, congruente, logica e non contraddittoria, mediante la quale sono stati esaustivamente esposti gli elementi in forza dei quali la Corte stessa ha esercitato i propri poteri, in punto di quantificazione della pena. 6.2. Le doglianze difensive, al contrario, risultano inammissibili, perché risolventesi in censure su valutazioni di merito, insuscettibili - come tali - di aver seguito nel presente giudizio di legittimità. Non vi è chi non rilevi, ad ogni modo, come la diminuzione per il tentativo sia stata espressamente calcolata, così come ben determinati risultano gli aumenti di pena operati, in relazione ai reati satellite. 7. Il settimo motivo lamenta l'avvenuto bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche secondo il criterio della equivalenza, piuttosto che della prevalenza, rispetto alle ritenute aggravanti; tale doglianza resta assorbita dall'accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale (il settimo motivo è enumerato in parte narrativa sub 4.7.). Giova sul punto ricordare come la Corte di cassazione possa ritenere assorbite determinate eccezioni, in sede di annullamento con rinvio, allorquando esse appaiano secondarie rispetto ad un macroscopico ed assorbente vizio logico della motivazione, atto a travolgerne la validità, rendendo superfluo l'esame degli aspetti secondari. Si concretizza, in tal caso, una decisione di tenore difforme, rispetto al mero rigetto delle medesime doglianze; verificandosi ciò, il giudice del rinvio sarà comunque tenuto a prendere in considerazione anche il motivo ritenuto assorbito, essendo vincolato - ai sensi dell'art. 546, comma 1, cod. proc. pen. - alla decisione della Corte di cassazione, limitatamente a ciò che concerne le questioni di diritto decise, ma non in ordine a questioni che la Corte non ha deciso, dichiarando i relativi motivi assorbiti in quello accolto con la pronunzia di annullamento (Sez. 5, n. 5509 del 08/01/2019, Castello, Rv, 275344; Sez. 5, n. 39786 del 11/07/2019, Zordan, Rv. 271074; Sez. 2, n. 2812 del 25/10/1991 -dep. 1992, Mastroleo, Rv. 189311). Alla dichiarazione di assorbimento del motivo deve, pertanto, attribuirsi il significato che la questione - formante oggetto del motivo - non è stata decisa ma demandata, senza alcun vincolo, all'esame del giudice di rinvio, il quale è tenuto a pronunciarsi sulla stessa, sempre che abbia formato oggetto anche dei motivi di appello. 8. Con il nono motivo si censura la ritenuta inconfigurabilità della circostanza attenuante della provocazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.9.) - Anche su questo tema, le doglianze difensive si rivelano inconsistenti, avendo la Corte di appello adottato una motivazione adeguata e convincente. Sarebbe stata impropriamente depotenziata - in ipotesi difensiva - la valenza dello stato d'ira, determinato dal disvelamento della relazione, già protrattasi entro un ragguardevole arco temporale, fra la Th. e Fi.; il tratto di ingiustizia di tale situazione, atto a integrare la invocata circostanza, si anniderebbe, in particolare, nel carattere clandestino della relazione stessa, così concretizzandosi un vero e proprio inganno protratto nel tempo, a scapito del prevenuto. 8.1. Questa Corte ha ripetutamente chiarito come - ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione - sia necessaria la ricorrenza dei seguenti elementi: - uno "stato d'ira", costituito da un'alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il "fatto ingiusto altrui"; - un fatto ingiusto altrui, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, da intendersi secondo la accezione di effettiva contrarietà rispetto a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività e in un dato momento storico, piuttosto che con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale; - un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità, che leghi tra loro l'offesa e la reazione (Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894; Sez. 5, n. 55741 del 25/09/2017, R., Rv. 272044; Sez. 5, n. 49569 del 18/06/2014, Mouflih, Rv. 261816). 8.2. Così inquadrata la questione dedotta, occorre domandarsi se la decisione assunta dalla Corte distrettuale presenti vizi argomentativi, ovvero errori nella interpretazione di norme, nel punto in cui ha escluso la concedibilità dell'invocata attenuante della provocazione. Ma contrariamente agli auspici difensivi, la Corte ha fatto corretta applicazione delle regole esegetiche più volte enunciate da questa Corte, laddove ha ritenuto che la condotta della Th., consistita nell'intrecciare una relazione con un altro uomo, non possa costituire - in ottica penalistica - un contegno ingiusto sul versante giuridico, morale o sociale, idoneo a legittimare una mitigazione sanzionatoria, a fronte della azione marcatamente eteroaggressiva per la quale è processo. L'esistenza di tale relazione, le connesse valutazioni e le dinamiche interpersonali collegate a contegni appartenenti a tale tipologia, in sostanza, non possono in alcun modo assurgere alla valenza di fattore provocatorio, essendo temi che esulano dal novero delle condizioni atte a condurre all'applicazione della suddetta circostanza. Si è in presenza, infatti, di dinamiche di natura squisitamente affettiva e interpersonale, inevitabilmente percorse da una corrente invisibile di forte opinabilità e caratterizzate da una percezione strettamente soggettiva, che peraltro non collimano con regole - nemmeno di ordine etico o sociale - generalmente riconosciute e stabili, né sufficientemente cristallizzate e che, pertanto, non possono valere ai fini dell'attenuazione della pretesa punitiva dell'ordinamento (per una fattispecie analoga, si veda Sez. 5, n. 2725 del 13/12/2019, R., Rv. 278556). 9. Con il decimo motivo, la difesa censura la scelta operata in sede di merito, consistita nel reputare integrata la circostanza aggravante della premeditazione (motivo enumerato in parte narrativa sub 4.10). Trattasi di censura di carattere rivalutativo e generico, da giudicare quindi inammissibile. 9.1. Questa Corte di legittimità ha, per il vero, più volte espresso principi in diritto tesi a creare una netta linea di demarcazione, tra la semplice preordinazione (di un reato doloso come l'omicidio volontario, consumato o tentato) e la circostanza aggravante della premeditazione. Tale linea interpretativa - cui il Collegio presta adesione - è stata espressa con particolare chiarezza da Sez. 1 n. 47250 del 9.11.2011, Livadia, rv 251503 (che ha chiarito come - in tema dì omicidio volontario - non rappresenti sicuro indice rivelatore della premeditazione, che si sostanzia in una deliberazione criminosa coltivata nel tempo e mai abbandonata, il mero intervallo riscontrabile tra la preparazione e l'esecuzione, sì come non possono trarsi elementi di certezza dalla predisposizione di un agguato, in quanto ciò attiene alla realizzazione del delitto e non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di quel processo psicologico di intensa riflessione e di fredda determinazione, che connota la indicata circostanza aggravante), nonché da Sez. 1 n. 5147 del 14.7.2015, Scanni, rv 266205 (secondo la quale, la mera preordinazione del delitto - intesa come apprestamento dei mezzi minimi necessari all'esecuzione, nella fase a questa ultima immediatamente precedente - non è sufficiente ad integrare l'aggravante della premeditazione, che postula invece il radicamento e la persistenza costante, per apprezzabile lasso di tempo, nella psiche del reo del proposito omicida, del quale sono sintomi il previo studio delle occasioni ed opportunità per l'attuazione, un'adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive). In effetti, come osservato, tra le altre, da Sez. 5 n. 26406 del 11.3.2014, Morfei, rv 260219, spetta al giudice dì merito cogliere ed apprezzare tutte le peculiarità della fattispecie concreta, posto che anche una sorta di "agguato" può essere frutto di una iniziativa estemporanea accompagnata da dolo, ma non inquadrabile nei caratteri della circostanza aggravante. 9.2. La Corte distrettuale, raccogliendo tali indicazioni dell'organo nomofilattico, ha realizzato, come si è detto, una logica attribuzione di peso ai numerosi elementi di valutazione e conoscenza emersi. Con motivazione logica, dettagliata e puntuale, i Giudici di secondo grado hanno desunto la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, da una variegata congerie di dati probatori, di eterogenea genesi, ma tra loro collimanti alla perfezione. Si è così sottolineata l'insorgenza del proposito criminoso in tempo di gran lunga antecedente, rispetto alla materiale attuazione dello stesso, collocandosi l'origine dell'odio di Me. nei confronti di Fi. a prima del 6 settembre 2021, epoca in cui la Th. e la figlia uscirono dal domicilio domestico, per trovare rifugio presso una struttura protetta. Ed è la stessa donna che delinea plasticamente l'esistenza di una ideazione aggressiva profondamente radicatasi nell'animo dell'imputato, allorquando riferisce come questi fosse solito condurre con sé strumenti eventualmente adoperabili per l'offesa, destinati a diventargli utili in tal senso, nel caso di incontro - pur casuale - con Fi.. La stessa dichiarante ricorda le frasi spesso rivoltegli dall'imputato, il quale ripetutamente manifestava propositi violenti, nei confronti di colui che considerava il proprio "avversario". Una intenzione di rivalsa che, già lungamente covata e ormai ben sedimentata nella mente dell'uomo, assume i connotati ossessivi della ferma e irrevocabile determinazione - secondo quanto giustamente evidenziato dalla Corte territoriale - all'indomani della scoperta, da parte di Me., dell'esistenza di una relazione della Th. con Fi. (scoperta avvenuta attraverso accesso ai profili social di quest'ultima, come da produzione documentale versata nell'incarto processuale). La sentenza impugnata, pertanto, individua la sussistenza tanto dell'elemento cronologico, quanto del requisito ideologico, idonei a integrare la ritenuta circostanza aggravante. Coglie quindi nel segno, la Corte territoriale, quando sottolinea la singolare permanenza nel tempo del proposito, restato immune ad ogni occasione di ripensamento e combaciante con l'esistenza di una poderosa causale, da lungo tempo covata dall'imputato e nutrita di un crescente rancore. La prova conclusiva del fatto che il tentato omicidio altro non sia stato, se non l'epilogo di un inarrestabile climax di livore e ostilità, che si erano ormai definitivamente impossessati dell'imputato, viene tratta dalla Corte territoriale dal messaggio telefonico inviato da Me. alla Th. il 3 novembre 2021, una volta perpetrata l'aggressione in danno di Fi., allorquando l'uomo le scrive, tra l'altro, la frase "io sono un uomo di parola: quello che dico faccio". 9.3. Il ricorso, del resto, è decentrato rispetto alla motivazione della sentenza e, in tal modo, finisce per non tenere conto nemmeno della possibilità di ipotizzare una "premeditazione condizionata". Tale figura, invece, ha sempre trovato piena cittadinanza presso la giurisprudenza di legittimità (si veda il dictum di Sez. 1, n. 32746 del 17/06/2020, Gambettola, Rv. 279933 - 01, a mente della quale: "In tema di premeditazione, non osta alla configurabilità dell'aggravante il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"; nello stesso senso si era espressa Sez. 1, n. 19974 del 12/02/2013, Zuica, Rv. 256180 - 01, secondo la quale: "Non osta alla configurabilità dell'aggravante della premeditazione il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo"). La figura della premeditazione condizionata combacia in modo millimetrico, del resto, proprio con la ricostruzione prospettata anche dalla difesa nell'atto di impugnazione. La stessa difesa ricorrente, infatti, afferma come - nella concreta fattispecie - la decisione di uccidere sia insorta nella mente del Me. dopo l'allontanamento volontario della convivente e della figlia e a seguito del convincimento, formatosi nel prevenuto, che esse si trovassero da Fi.. Il proposito criminoso, ormai irrevocabilmente formato, ha determinato Me. a muoversi in strada munito di strumenti alla bisogna adoperabili per l'offesa, appunto in attesa di imbattersi eventualmente nel Fi., come poi avvenuto. 9.4. Sul punto, insomma, pare a questo Collegio che vi sia stata - ad opera della Corte distrettuale - ampia e doviziosa risposta, rispetto ad ogni censura formulata dalla difesa in sede di gravame. 10. Il ricorso del Procuratore generale aggredisce la scelta effettuata dalla Corte territoriale, in punto di concessione delle circostanze attenuanti generiche (motivo enumerato in parte narrativa sub 3). L'impugnazione merita accoglimento. 10.1. Giova brevemente premettere, ai fini dell'inquadramento ermeneutico, come l'istituto delle circostanze attenuanti generiche sia improntato alla valutazione complessiva della personalità dell'autore del delitto, letta nei prisma delle circostanze di realizzazione della condotta, con la finalità di meglio individualizzare la misura concreta della pena inflitta. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62 - bis cod. pen., inoltre, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa o ritenuta dal giudice, con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, tanto che la stessa motivazione, a patto che si riveli congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione. 10.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha reputato concedibile tale attenuazione sanzionatoria, in forza di considerazioni, di seguito sintetizzate, che risultano prive della necessaria coerenza logica e argomentativa. In primo luogo, la Corte territoriale aveva precedentemente escluso - in sede di diniego della auspicata attenuante della provocazione - il fatto che la relazione intrapresa dalla Th. con Fi. rappresentasse un fatto ingiusto; aveva dettagliatamente descritto la condotta dell'imputato, anzi, come la continua e irrefrenabile manifestazione di indole violenta, possessiva, gelosa e minacciosa. Ponendosi in tale prospettiva, dunque, Me. era stato delineato come un soggetto aduso a contegni tesi alla sopraffazione, alla brutale prevaricazione nei confronti della compagna, che veniva da lui continuamente sottoposta ad angherie e vessazioni. Così delineato il quadro delle relazioni al tempo esistenti fra i due, davvero distonico e sfornito di aggancio alla logica, poi, è pensare che la Th. potesse intavolare un franco e pacato confronto con Me. e pretendere che potesse a questi rivelare, apertamente e serenamente, le proprie scelte relazionali. Opzioni che sono, peraltro, di tipo personalissimo e che, rientrando nell'alveo della insindacabile sfera intima di ciascuno, non possono giustificare alcuna forma di "legittimo interesse" in capo a terzi. La motivazione che la Corte territoriale ha posto a fondamento della decisione di riconoscere le circostanze attenuanti generiche, in pratica, opera una sorta di incongruo ribaltamento dei ruoli, quasi invertendo i termini della reciproca interazione instauratasi fra i protagonisti della vicenda; il tutto, si colloca in una prospettiva di insanabile contrasto, rispetto alla ricostruzione sposata - dalla stessa Corte di appello - nel corso dell'intera trama motivazionale. Contraddittorio è poi discorrere di un interesse legittimo (concetto che appare di vaga significazione, oltre che privo di un concreto substrato contenutistico) che sarebbe stato vantato dal Me., peraltro descritto dalla stessa Corte territoriale, invece, quale soggetto collerico, brutale e vendicativo. In linea generale, infine, è illogico far assurgere sentimenti quali la rabbia e la sete di vendetta ad elementi valutabili - se non positivamente - quantomeno in termini di attenuata negatività, tanto da farne discendere la concessione di benefici, trattandosi, al contrario, di stati d'animo comunque riprovevoli e affatto inevitabili. 11. Alla luce delle considerazioni che precedono, viene disposto l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale, limitatamente al punto concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche e con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Perugia; viene disatteso, invece, il ricorso presentato nell'interesse di Me.Eg.. La liquidazione delle spese spettanti alle costituite parti civili è rimessa alle statuizioni definitive. Ricorrendone le condizioni, infine, deve essere disposta l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente alle attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Rigetta il ricorso dell'imputato e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Rimette la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili al definitivo. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETRUZZELLIS Anna - Presidente Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Rel. Consigliere Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. PARDO Ignazio - Consigliere Dott. CERSOSIMO Emanuele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: 1. Am.Ma. nato a F il (Omissis) 2. Be.Ni. nato a C il (Omissis) 3. Ca.Ma. nato a L il (Omissis) 4. Ca.Al. nato a S il (Omissis) 5. Fo.Sa. nato a V il (Omissis) 6. Gi.An. nato a S il (Omissis) 7. Li.Ma. nata a R il (Omissis) 8. Ma.Fr. nato a P il (Omissis) 9. Ol.Ro. nato a R il (Omissis) 10. Pe.Sa. nato a C il (Omissis) 11. Pe.Al. nato a C il (Omissis) 12. Po.An. nato a L il (Omissis) 13. Ri.Fi. nato a M il (Omissis) 14. Sa.Do. nato a C il (Omissis) 15. Bi.Lo. nato a L il (Omissis) avverso la sentenza del 25/10/2022 della CORTE DI APPELLO DI ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Piero Messini D'Agostini; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Gaeta, che ha concluso per l'annullamento con rinvio con rideterminazione del trattamento sanzionatorio e inammissibilità nel resto del ricorso di Pe.Al., per il rigetto del ricorso di Ri.Fi. e per la inammissibilità dei residui ricorsi; uditi i difensori avv. Di.Me. per Ca.Al., avv. Da.To. e avv. Pi.Po. per Am.Ma., avv. Fr.Ta. per Pe.Sa. e - in sostituzione dell'avv. Gi.Gi. - per Pe.Al., avv. Ma.Gi. per Ol.Ro. e - in sostituzione dell'avv. Ga.Co. - per Pe.Sa., avv. Ma.Me. per Ri.Fi., avv. Ma.Ca. per Ri.Fi. e - in sostituzione dell'avv. De.Ma. - per Gi.An., avv. Sa.Pi. - in sostituzione dell'avv. De.Mi. - per Be.Ni., avv. Ma.Sq. per Li.Ma., avv. Be.In. per Ma.Fr. e Po.An., avv. An.No. per Sa.Do. e - in sostituzione dell'avv. Fr.Pe. - per Fo.Sa. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 25 ottobre 2022 la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia di primo grado emessa il 23 gennaio 2018 dal Tribunale di Macerata ad esito del giudizio ordinario, per quanto qui rileva, così provvedeva: - quanto a Am.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni, sette mesi di reclusione e 1.400 Euro di multa) per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo (capi 1, 2 e 3 dell'imputazione); - quanto a Be.Ni., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui al capo 39 - bis (violazione di una misura di prevenzione) perché estinto per prescrizione; rideterminava la pena in dieci anni, tre mesi di reclusione e 2.150 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 19 (estorsione consumata), 20 e 22 (estorsioni tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ca.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni, sette mesi di reclusione e 1.400 Euro di multa) per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3 dell'imputazione; - quanto ad Ca.Al., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui agli artt. 56 cod. pen. e 74, comma 4, D.P.R. n. 309/1990 (capo 45) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in otto anni, otto mesi di reclusione e 4.300 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 1, 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 19, 21, 22, 24, 25, 26, 28, 32 e 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso), 41, 42 e 43 (detenzione e cessione di sostanza stupefacente); - quanto a Fo.Sa., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sei anni di reclusione e 750 Euro di multa) per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6; - quanto ad Gi.An., confermava la condanna per il reato di tentata estorsione in concorso contestato al capo 20, ma escludeva le aggravanti ex artt. 416 - bis.1 e 628, terzo comma, n. 3, cod. pen., rideterminando così la pena in due anni di reclusione e 350 Euro di multa; - quanto a Li.Ma., confermava la pena inflitta dal Tribunale (quattro anni e un mese di reclusione) per il reato, pluriaggravato, di incendio in concorso, contestato al capo 27; - quanto a Ma.Fr., confermava la pena inflitta dal Tribunale (dieci anni, quattro mesi di reclusione e 2.400 Euro di multa) per i reati di cui ai capi 2 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 20 (tentata estorsione), 25 e 33 (estorsioni consumate) e 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ol.Ro., confermava la pena inflitta dal Tribunale (sette anni di reclusione e 1.500 Euro di multa) per i reati di estorsione aggravata in concorso, contestati ai capi 33 e 38; - quanto a Pe.Sa., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato contestato al capo 37 (violazione di una misura di prevenzione) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in quattordici anni, sette mesi di reclusione e 5.550 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi ai capi 1, 2, 3, 9 e 11 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e comuni da sparo, munizioni ed esplosivo), 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 32, 33, 35, 38 (estorsioni consumate o tentate), 27 (incendio), 31 (violazione di domicilio), 40 (direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso); - quanto ad Pe.Al., dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui agli artt. 56 cod. pen. e 74, comma 4, D.P.R. n. 309/1990 (capo 45) perché estinto per prescrizione e per l'effetto rideterminava la pena in undici anni, sei mesi, quindici giorni di reclusione e 4.100 Euro di multa in relazione ai residui reati di cui ai capi 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 17, 19, 20, 21, 22, 23, 25, 28, 32, 33, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto ad Po.An., confermava la pena inflitta dal Tribunale (nove anni e dieci mesi di reclusione) per i reati di cui ai capi 1 e 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di un'arma da guerra e di esplosivo), 27 (incendio) e 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso); - quanto a Ri.Fi., assolveva l'imputato dal reato di estorsione in concorso di cui al capo 23 e per l'effetto rideterminava la pena in otto anni e un mese di reclusione per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo, due delle quali con matricola abrasa (capi 11, 12, 13 e 14), e per il reato di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso (capo 40); - quanto a Sa.Do., confermava la condanna per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6, ma escludeva l'applicazione della recidiva, rideterminando così la pena in quattro anni di reclusione e 500 Euro di multa; - quanto a Bi.Lo., confermava la pena inflitta dal Tribunale (tre anni di reclusione e 750 Euro di multa) per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). In ordine alla esistenza dell'associazione mafiosa, la Corte di appello ha osservato che "il sodalizio sarebbe sorto tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, operante, dapprima nelle province del maceratese e, successivamente, dalla primavera del 2009 per l'effetto dell'incrementazione del gruppo criminale capeggiato da Ma.Sc. e Sa.Pe. con i componenti di quello retto da Ga.Ab., anche nel territorio dell'ascolano. Il consorzio, dedito alle estorsioni, si avvaleva della forza di intimidazione del gruppo (derivante dal sistematico ricorso ad aggressioni fisiche ed alle minacce - anche attraverso l'impiego di armi -, al danneggiamento dei locali - anche per il tramite di azioni incendiarie -, alla scelta dei partecipi di mostrarsi alle loro vittime sempre in gruppo e senza travisamenti) nonché della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivava" (pag. 19). 2. Hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, i suddetti imputati, chiedendo l'annullamento della sentenza. 3. Il ricorso proposto nell'interesse di Am.Ma. è articolato in due motivi, riguardanti i reati di cui ai capi 1, 2 e 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo). 3.1. Mancanza e illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità. La sentenza riconosce che Pe. ha appreso i fatti dall'altro dichiarante Ma.Sc., cosicché il contributo del primo, soggetto intrinsecamente inattendibile, sfugge alla regola secondo cui nella categoria dei riscontri possono rientrare soltanto gli elementi di prova estranei alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto fenomeno della circolarità. Dalle dichiarazioni spontanee rese dal coimputato Ca. dinanzi alla Corte di appello, completamente trascurate nella sentenza impugnata, è emerso che gli contatti di Am. furono con Sc. e che egli non incontrò mai Pe.. Non esiste alcun riscontro individualizzante alle dichiarazioni accusatorie di Sc.; il metodo seguito in entrambe le pronunce di merito proietta il risultato probatorio ottenuto per il coimputato Ca. sulla persona di Am. anche se questi viene chiamato in causa solo da Sc.. 3.2. Violazione di legge e mancanza della motivazione in relazione all'assenza del dolo specifico richiesto per l'applicazione dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa. 3.3. Con motivi nuovi, tempestivamente depositati, la difesa ha ripreso e ampliato le argomentazioni svolte con il ricorso, denunziando la violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., quanto al primo motivo, e la mancanza e illogicità della motivazione, quanto al secondo, avuto riguardo anche alla inesistenza del sodalizio mafioso, presupposto necessario per l'applicazione della suddetta circostanza aggravante. 4. Il ricorso presentato nell'interesse di Be.Ni. è articolato in due motivi, relativi ai reati di cui ai capi 19 (estorsione consumata), 20 e 22 (estorsioni tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso). 4.1. Violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine ai requisiti che determinano la "mafiosità" dell'associazione. Gli accertamenti in fatto dei giudizi di merito indicano che ci si trova al cospetto di una organizzazione in fase embrionale priva di una fama criminale propria, incapace di esprimere una forza intimidatrice autonoma e di produrre una condizione di assoggettamento diffuso e radicato diversa dalla semplice accondiscendenza alle richieste che caratterizza i reati - fine, incapace altresì di indurre le vittime all'omertà quale effetto diretto del metus esercitato dal sodalizio e non quale scelta di convenienza. L'assenza di una fama criminale del gruppo è dimostrata da una serie di elementi, fra i quali la brevissima durata del sodalizio, i cui capi sono stati arrestati dopo sei mesi in ragione delle dichiarazioni rese dalle persone offese Ro. e Me.. Il gruppo non era ancora pienamente formato e coeso e soprattutto non veniva identificato dalle vittime, che conoscevano solo la fama criminale di Sc. e aderivano alle richieste degli estorsori, pur se rivolte in forma collettiva, non perché percepissero la fama dell'associazione ma solo a causa del contingente atto di minaccia o violenza che stavano subendo. Conseguentemente il sodalizio non esercitava alcuna forza intimidatrice promanante da una fama criminale inesistente. La sentenza, tra gli indici di "mafiosità" riscontrabili nel caso di specie, ha indicato una serie di elementi non rilevanti ai fini della qualificazione dell'associazione ai sensi dell'art. 416 - bis cod. pen., quali la presenza numerica dei partecipanti alle spedizioni punitive, l'accresciuta disponibilità di armi, il mancato travisamento del volto nel corso delle operazioni, il ricorso non solo a condotte violente ma anche a minacce talvolta subdole, l'omessa denuncia da parte delle vittime. Non vi era neppure un ambito territoriale di diretto controllo da parte del sodalizio: le condotte del gruppo, per lo più estorsive, ricadevano su pochi locali, individuati sulla base di pregressi rapporti tra i rispettivi titolari e la famiglia Sc.; i singoli reati - fine non evidenziano affatto logiche territoriali o settoriali; le vecchie conoscenze continuavano a pagare sulla base del rapporto personale con alcuni degli estorsori, le nuove conoscenze iniziavano a pagare sulla spinta di quello specifico atto di violenza o minaccia posto in essere dagli esecutori materiali. Le risultanze processuali dimostrano il difetto anche delle condizioni di assoggettamento e di omertà. Vari soggetti (As., Ca., Me. e Ro.) beneficiavano del compimento, da parte dell'associazione, di atti che comportavano vantaggi per le loro attività; contro ogni senso logico, coloro che commissionavano al gruppo azioni di recupero crediti o di eliminazione dei concorrenti, invece di concorrere con gli esecutori, sono stati considerati vittime, ancor più delle altre, quando invece l'accondiscendenza alle richieste di pagamento provenienti dal sodalizio rappresentava il prezzo per le azioni commissionate o comunque per gli stessi vantaggiose. Vi era poi una categoria di coloro che operavano in contesti illeciti (Pa., Ne., La., Ce. e Ri.) verso i quali l'associazione riscuoteva debiti scaturenti da attività illecita o quote di proventi di dette attività: pertanto si tratta di soggetti che non amavano rapportarsi con le forze di polizia, indipendentemente dalla esistenza di un metus rilevante nei confronti del gruppo. Quanto alle finalità perseguite, il sodalizio, lungi dal volere affermare un polo di potere alternativo a quello statale, obiettivo tipico dell'associazione mafiosa, operava per lo più per conto terzi per il recupero crediti ovvero proseguiva nel compimento di attività estorsive già in atto da parte dei singoli associati. 4.2. Erronea applicazione dell'art. 416 - bis.1 cod. pen., contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alle modalità e agli scopi perseguiti nell'esecuzione delle condotte estorsive di cui ai capi 19, 20 e 22 dell'imputazione. In assenza di un'associazione riconducibile alla fattispecie prevista dall'art. 416 - bis cod. pen., va esclusa la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, mentre le modalità operative dei suddetti episodi, in danno di As., Pa. e Ne., non erano connotate dal metodo mafioso, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello sulla base di elementi inconferenti. 5. Il ricorso proposto nell'interesse di Ca.Ma. denuncia erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 133 cod. pen., e vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena che la Corte avrebbe dovuto determinare nel minimo edittale al fine di renderla proporzionata al fatto e congrua rispetto alla personalità dell'agente. 6. Il ricorso proposto nell'interesse di Ca.Al. è articolato in quattro motivi. 6.1. Violazione di legge per la mancata applicazione della circostanza attenuante prevista dall'art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., prevista per i collaboratori di giustizia. Le dichiarazioni del ricorrente, anche se intervenute quando il processo di primo grado era in corso, sono state fondamentali per la pronuncia di una sentenza di condanna. Egli ha riferito dettagli importanti su ciascuno degli imputati, indicando i capi dell'organizzazione e i ruoli svolti dai vari partecipi, svelando anche particolari di rilievo inerenti alle attività illecite dell'associazione criminale, dalla quale il collaboratore si è definitivamente allontanato. 6.2. Violazione di legge per l'eccessivo trattamento sanzionatorio, non avendo i giudici di merito motivato in ordine "alla scelta del calcolo dell'aumento di pena in relazione al reato satellite". 6.3. "Mancata continuazione tra la impugnata sentenza e quella già irrevocabile emessa dalla Corte di Appello di Ancona in data 29.05.2017": la difesa aveva prodotto l'ordine di esecuzione della relativa pena, avendo così dimostrato l'irrevocabilità della sentenza (depositata dal difensore all'odierna udienza con l'attestazione del passaggio in giudicato). 6.4. "Impugnazione dell'applicazione della misura della libertà vigilata all'esito della fine della pena detentiva irrogata", misura "illegittima ed ingiusta". 7. Il ricorso proposto nell'interesse di Fo.Sa. denuncia "omessa, contraddittoria e illogica valutazione degli elementi di riscontro alla chiamata in correità" e "travisamento dei fatti per errata valutazione delle prove" in ordine all'affermazione di responsabilità per il reato di cessione in concorso di un'arma contestato al capo 6. La motivazione è illogica a fronte dell'assoluzione per il reato di detenzione di sostanza stupefacente di cui al capo 7, considerato che il tema probatorio essenziale delle due imputazioni era unico e inscindibile: secondo il racconto di Sc., la vendita della mitraglietta sarebbe stato il mezzo utilizzato per procurarsi la cocaina, che avrebbe rappresentato parte del prezzo pagato da Pe. e Sc. per concludere la trattativa. In violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., l'imputato è stato condannato nonostante la mancanza di riscontri alle dichiarazioni di Sc., in forza della quale vi è stata assoluzione per il reato di detenzione della sostanza stupefacente. La Corte d'appello ha erroneamente ritenuto quali riscontri esterni: una conversazione ambientale intercettata tra Ca. e Pe., la cui lettura, però, "non è la sola logicamente resistente a critiche"; la testimonianza dell'ispettore Di Clemente, priva di carattere individualizzante; i tabulati telefonici, peraltro non presenti nel fascicolo, che non sono in grado di confermare il coinvolgimento di Fo. nella vicenda della cessione della mitraglietta. 8. Il ricorso proposto nell'interesse di Gi.An., condannato per il reato di cui al capo 20, è articolato in due motivi. 8.1. Violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla ritenuta responsabilità per la partecipazione con altri alla tentata estorsione. L'imputato non è mai stato riconosciuto dalla persona offesa e a suo carico non vi è alcuna intercettazione. La sentenza impugnata attribuisce erroneamente un solido valore probatorio al riconoscimento postumo effettuato dalla ispettrice Ma., mancando fondamentali riscontri sulla individuazione di Gi. a Fano, luogo del presunto delitto, e sul suo ipotetico ritorno a San Benedetto del Tronto. Vi sono incongruenze sul veicolo usato e sulla collocazione temporale dell'evento. La chiamata in correità del collaboratore di giustizia Ab. è stata connotata da inesattezze e contraddizioni ed è pertanto inattendibile. 8.2. Violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato in capo all'imputato, del tutto all'oscuro della condotta che gli altri avrebbero tenuto e dell'ingiusto profitto perseguito. 9. Il ricorso proposto nell'interesse di Li.Ma., condannata per il reato di incendio contestato al capo 27, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sotto due diversi profili. 9.1. In primo luogo, quanto alla circostanza aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen., i giudici di merito non hanno verificato la presenza in capo all'imputata del dolo specifico di agevolare l'associazione mafiosa "come soggetto singolo e non come compagna del Po."; la stessa sentenza impugnata riconosce che la Li. nulla aveva mai saputo del nascondiglio delle armi. Quanto al metodo mafioso, nessun testimone ha dichiarato di avere visto la ricorrente intenta ad appiccare il fuoco nel locale: "pertanto, alla stessa non può nemmeno essere contestata l'aggravante" prevista dal citato articolo. 9.2. In secondo luogo, ritenuta infondata l'eccezione di nullità proposta ex art. 195, comma 7, cod. proc. pen. in ordine alla deposizione del teste Bu., la Corte non ha considerato che lo stesso ha riferito di avere appreso da una persona rimasta ignota che dopo l'incendio si erano allontanati quattro "giovani", vale a dire persone di sesso maschile, a conferma che l'imputata non prese parte all'episodio contestato. 10. Il ricorso presentato nell'interesse di Ma.Fr. propone tre questioni preliminari e lamenta violazione di legge in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati fine per i quali vi è stata condanna, contestati ai capi 2 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 20 (tentata estorsione), 25 e 33 (estorsioni consumate). 10.1. La Corte di appello ha erroneamente disatteso: la richiesta di perizia sull'esplosivo volta ad accertarne la provenienza e l'efficienza; l'eccezione relativa alla illegittima revoca di testi della difesa da parte del Tribunale; la richiesta di trascrizione di "alcune intercettazioni telefoniche". 10.2. In ordine al reato di detenzione dell'esplosivo (capo 2) Pe. ha scagionato Ma., all'oscuro sia dell'acquisto che della detenzione, circostanza non smentita neppure dalla conversazione ambientale in carcere fra i due, valorizzata dai giudici di merito, dalla quale non si evince il contributo causale apportato dal ricorrente. 10.3. Sul tentativo di estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20) l'istruttoria dibattimentale "ha mostrato una dinamica istruttoria completamente diversa dalla ipotesi accusatoria". Il teste Gu. ha reso dichiarazioni divergenti da quelle di Pa., dalla deposizione del quale, comunque, risulta che egli non si sentì in alcun modo coartato a seguito della condotta di Pe., cui nei giorni successivi chiese un incontro. Sono contraddittorie e inattendibili le dichiarazioni di Sc. sulla vicenda, nella quale è tuttalpiù ravvisabile il reato di percosse, ascrivibile solo a Pe.; Ma. non fornì alcun contributo morale o materiale, essendo stato per gran parte del tempo all'interno della propria autovettura ed essendo intervenuto solo dopo l'aggressione di Pe. a Pa., rimanendo fermo, come dichiarato dal collaboratore Ga.Ab.. Ritenuta la responsabilità anche di Ma., la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere la circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen.. 10.4. Anche per l'episodio relativo alla contestata estorsione ai danni di En.Ge. e @32.Gi.Ri. (capo 25) "l'istruttoria dibattimentale ed in particolare gli esiti delle attività tecniche hanno tuttavia mostrato fatti diversi da quelli sostenuti dall'accusa". Le dichiarazioni di Sc. in merito non hanno alcun rilievo, mentre dalle intercettazioni è risultato che Ca. cercò Ce. e Ri. per ottenere il pagamento di un debito che questi avevano nei confronti di tale Ta.Sm., detenuto, la cui natura era ignorata da Ma.. Dalla deposizione di Ri. è emerso che, in occasione dell'incontro del 15 settembre 2009, vi fu non già una premeditata aggressione bensì una discussione relativa al pagamento di una somma di denaro, poi degenerata, con la conseguenza che tuttalpiù potrebbero ravvisarsi i reati di lesione personale e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, improcedibili per difetto di querela. Dalle dichiarazioni di Pe. e dalle intercettazioni si evince un coinvolgimento marginale di Ma., al quale andrebbe in ogni caso riconosciuta la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza. 10.5. Quanto alla estorsione in danno di Ro. (capo 33), l'aggressione e le minacce furono poste in essere da Pe., Sc. e Ab., mentre Ma. e Pe. si recarono a casa della vittima a bordo di un'altra autovettura e non parteciparono in alcun modo all'azione intimidatoria e alla richiesta di denaro. Ma. non fornì alcun contributo morale o materiale; diversamente opinando, la Corte di appello avrebbe dovuto comunque riconoscere la circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen.. 10.6. In generale, "la sola circostanza che il Ma., così come altri correi, fosse, secondo l'ipotesi accusatoria, partecipe della associazione contestata al capo 40 non è sufficiente per ritenere lo stesso responsabile anche dei singoli reati - fine che si assume commessi dall'organizzazione criminale". Quanto ai tre collaboratori di giustizia, Ma.Sc., condannato all'ergastolo (come il padre Gi.) per una strage, ha compiuto una scelta opportunistica che comporta propalazioni "mendaci, fantasiose, più colorite". Egli consumava droghe e psicofarmaci, sostanze che lo rendevano instabile, schizofrenico, incapace di rapportarsi con la realtà circostante. Anche l'altro collaboratore Ga.Ab. era assuntore di sostanze psicotrope; egli appartiene a una famiglia di pentiti e aveva a disposizione un telefono cellulare quando era detenuto nel carcere di Pesaro, ove ebbe un colloquio con Ma.Sc., circostanza rilevante al fine di valutarne l'attendibilità. 11. Il ricorso presentato nell'interesse di Ol.Ro., condannato per due estorsioni aggravate in concorso (capi 33 e 38), è articolato in sei motivi. 11.1. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 33: Ol. era del tutto estraneo alle dinamiche operative del gruppo delinquenziale che costituì la precondizione per la richiesta estorsiva ad Ar.; inoltre egli intervenne quando il reato in danno della persona offesa era già stato consumato. 11.2. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso contestato al capo 38: il fatto costituisce una mera duplicazione di quello contestato al capo 33, riferendosi alla imposizione rivolta da Pe. a Gi.Ro. di non porre all'incasso gli assegni postdatati consegnatigli dal ricorrente quale pagamento differito delle tre autovetture affidategli in conto vendita da quest'ultimo. 11.3. Erronea applicazione della legge penale là dove la sentenza non ha riqualificato in tentativo di estorsione il fatto di cui al capo 33: gli stessi elementi di prova illustrati nelle pronunce di merito smentiscono che si sia trattato di una estorsione consumata. 11.4. Erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante ex art. 628, terzo comma, n. 3, cod. pen.. 11.5. Erronea applicazione della legge penale e mancanza della motivazione in relazione alla sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1. cod. pen.. 11.6. Erronea applicazione della legge penale e mancanza della motivazione in ordine alla richiesta difensiva di una rideterminazione in melius della pena. 12. Il ricorso presentato nell'interesse di Pe.Sa. è articolato in ventitré motivi, riguardanti - quelli specifici in punto di affermazione di responsabilità - i reati di cui ai capi ai capi 1, 2, 3, 9 e 11 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e comuni da sparo, munizioni ed esplosivo), 20, 21, 22, 23, 24, 25, 33, 35, 38 (estorsioni consumate o tentate), 27 (incendio), 40 (direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso). 12.1. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 420 - ter cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale illegittimamente rigettato le richieste di rinvio delle udienze del 29 settembre 2014 e del 6 giugno 2016 per legittimo impedimento a comparire, rispettivamente, di Pe. e del suo difensore. Nel primo caso l'imputato era affetto da una patologia che ne impediva la cosciente partecipazione all'udienza; nel secondo è irrilevante la circostanza che l'impedimento del difensore fosse preesistente alla sua nomina, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale. 12.2. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 494 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, essendo stato precluso a Pe. di rendere spontanee dichiarazioni sulla base di un'aprioristica e infondata valutazione del Tribunale sul fatto che l'imputato avrebbe intralciato l'istruzione dibattimentale in corso, ripresa poi nella sentenza impugnata. 12.3. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 178, comma 1, lett. c), del codice di rito), in relazione all'art. 438 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La Corte di appello, reiterando l'errore del Tribunale, ha ritenuto inidonea la richiesta di rito abbreviato condizionato riproposta al giudice dibattimentale mediante l'allegazione alla lista testimoniale di quella originaria, respinta dal G.u.p., e ha poi ritenuto insussistenti le condizioni per la celebrazione del processo con detto rito senza alcuna valutazione né ex ante relativamente alla verifica della ricorrenza dei requisiti di novità e decisività delle prove richieste dall'imputato in sede di udienza preliminare né ex post alla luce dell'istruzione dibattimentale svolta. 12.4. Inosservanza ed erronea applicazione "della legge penale" per la mancata assunzione di una prova decisiva nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza impugnata ha condiviso le argomentazioni della prima pronuncia nonostante vi fosse una serie di prove decisive che avrebbero determinato una decisione diversa da quella adottata, la cui assunzione era stata chiesta al primo giudice e da questi negata: l'escussione di alcuni testi a discarico, la trascrizione delle intercettazioni, l'espletamento della perizia sul materiale esplosivo, l'acquisizione per estratto dei registri tenuti dai direttori delle carceri ove erano detenuti i collaboratori di giustizia. 12.5. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (art. 191 del codice di rito), in relazione all'art. 493, comma 3, cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al rigetto della eccezione proposta in appello sulla utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali rese dai collaboratori di giustizia in assenza del consenso prestato dalla difesa. 12.6. Mancanza della motivazione in ordine alla omessa pronuncia della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen.. La Corte non ha valutato la richiesta di uno dei difensori intesa a ottenere il nuovo esame del collaboratore Ab., che aveva manifestato l'intenzione di precisare alcune circostanze. 12.7. Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 416 - bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso (capo 40). Avuto riguardo al giudizio di attendibilità di Ma.Sc. e Ga.Ab., sulle dichiarazioni dei quali si è in sostanza fondato il giudizio di responsabilità, è illogico e congetturale il passaggio della motivazione là dove si è tentato di giustificare i numerosi errori in cui sono incorsi i due collaboratori, facendo leva sulla mole considerevole degli argomenti trattati e sulla distanza temporale tra i fatti e l'esame degli stessi in dibattimento. La Corte di appello ha omesso di svolgere un'approfondita indagine sulla credibilità di Sc. e di Ab., specie in ragione di una serie di circostanze evidenziate dalla difesa: i collaboratori si erano incontrati in due occasioni all'interno del carcere ove erano ristretti; Ab. aveva avuto a disposizione un telefono cellulare, in concomitanza con i primi due interrogatori, che gli aveva permesso di parlare anche con il cognato Ri. dell'intento di collaborare; i due avevano forti ragioni di contrasto con gli altri membri del presunto sodalizio e in particolare con Pe. che avevano deciso di uccidere. La sentenza impugnata ha poi valorizzato elementi per nulla idonei a caratterizzare un sodalizio mafioso, in contrasto con i principi affermati dalla Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite. La forza di intimidazione deve provenire non dalla fama criminale del singolo, ma da quella dell'associazione e sul punto la Corte di appello ha operato un travisamento della deposizione della persona offesa Me., che si era riferita alla sola posizione di Sc., lasciando sullo sfondo quella di Pe., senza fare alcun cenno a una eventuale intimidazione subita da un gruppo criminale; la circostanza che Sc. si fosse raccomandato con Me. di non consegnare alcuna somma di denaro a Pe., se questi gliela avesse chiesta, dimostra che la persona offesa non poteva certo immaginare che i due facessero parte della stessa associazione. Parimenti illogico è il richiamo della sentenza alla estorsione commessa in danno di Ca. là dove ha confuso le minacce provenienti dal solo Sc. con la forza di intimidazione del sodalizio; la circostanza che Sc. avesse dovuto minacciare la persona offesa mostrando una pistola è la negazione stessa della sussistenza di detta forza. Anche in relazione alla estorsione in danno di Ro. la Corte territoriale ha illogicamente valorizzato solo la pericolosità intrinseca degli atti compiuti in danno della persona offesa e la presenza numerica di più soggetti, non integrante una modalità operativa propria di un sodalizio mafioso, senza considerare che la condotta delittuosa nei suoi confronti era nata da una illecita richiesta rivolta dallo stesso Ro. ad alcuni degli odierni imputati per liberare un suo immobile occupato abusivamente da tale Ar.. La circostanza che gli estorsori si presentassero a volto scoperto alle persone offese è la conferma che all'esterno non era percepita la sussistenza di alcuna associazione mafiosa, certamente insussistente quando, in una conversazione intercettata il 2 agosto 2009, Pe. si immaginava la possibilità di "formare un bel gruppo". Anche la preoccupazione espressa dal ricorrente circa una eventuale collaborazione di Po., all'indomani del suo arresto, è la prova dell'assenza di un forte vincolo associativo, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, silente su una specifica deduzione difensiva: le vittime non ipotizzavano la sussistenza di un unico sodalizio, avendo fatto riferimento solo ad alcuni degli imputati, taluni a Sc., altri ad Ab. e Pe., altri ancora non ai capi ma a diversi soggetti che gravitavano in quell'ambiente. Quanto al tema della condizione di assoggettamento e di omertà che sarebbe stata causata dall'esercizio della forza di intimidazione, la Corte di appello ha trascurato il fatto, evidenziato dal G.i.p. nell'ordinanza di custodia cautelare, che le asserite vittime del sodalizio mafioso erano legate "a filo doppio con gli estorsori, spesso ricavando vantaggi anche di natura illecita, quale controprestazione (diretta o indiretta) del "pizzo" versato o richiesto" e, pertanto, che l'atteggiamento omertoso a volte palesato derivava dalla volontà di evitare contatti con le forze dell'ordine, rischiosi per loro stesse. Si risolve in una mera congettura, dunque, il riferimento della sentenza alla mancata denuncia da parte di Ca. e di Me., essendo stata trascurata la circostanza che furono gli stessi a commissionare l'incendio di un locale notturno concorrente; agli imputati si erano rivolti anche Ce. e Ri., i quali dovevano onorare un precedente debito per l'acquisto di sostanza stupefacente, e Ro., che poi aveva sporto denuncia alle forze dell'ordine, così come Di. e Ri.. La sentenza ha distorto il concetto stesso di omertà, avendo anche dato atto che molte vittime si erano ribellate alle pretese degli imputati reagendo alle aggressioni subite (Ne., Ri. e Ce.) o rispondendo in modo strafottente (La.) o canzonatorio (Pa.) ovvero non avevano esaudito le richieste estorsive (Me. e So.). Pertanto, la Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di quei principi giurisprudenziali che richiedono la prova di una estrinsecazione oggettiva del metodo mafioso, tanto più necessario nella ipotesi, quale quella di cui si tratta, in cui l'associazione ha avuto una vita brevissima. 12.8. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi ed esplosivo di cui ai capi 1, 2 e 3. Quanto al delitto contestato al capo 1, le molteplici critiche alla sentenza di primo grado avanzate nell'atto di appello, nel quale si erano indicati numerosi elementi che contraddicevano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, sono rimaste senza risposta. La Corte territoriale ha omesso qualsiasi motivazione in ordine al reato di cui al capo 3, non avendo adeguatamente considerato l'unico profilo probatorio decisivo della vicenda, rilevante anche per il delitto di cui al capo 2, costituito dalla micidialità dell'esplosivo. 12.9. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi di cui al capo 9. La motivazione è carente e congetturale là dove ha ritenuto Pe. responsabile della detenzione di due pistole presso un'abitazione di Civitanova Marche sulla base della inconferente circostanza del rinvenimento, ivi, di suoi documenti falsi nonché di una conversazione intervenuta con Sc. che non dimostra la consapevolezza in capo al ricorrente della presenza delle armi e della sua volontà di concorrere nella detenzione. 12.10. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di detenzione e porto di armi di cui al capo 11. La Corte ha valorizzato le convergenti dichiarazioni di Ab. e Sc., riscontrate da quelle di Ri., nonostante il primo non avesse in realtà coinvolto Pe. nella detenzione della bomba a mano e Ri. avesse poi ritrattato in dibattimento l'iniziale accusa. 12.11. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 20. La sentenza ha erroneamente riconosciuto la sussistenza del tentativo punibile, difettando invece i requisiti della idoneità e della univocità della condotta minacciosa posta in essere in danno di Pa., che reagì sfidando apertamente Pe. e minacciandolo a propria volta. Inoltre, il coinvolgimento di Pe. è stato affermato sulla base di poche conversazioni dal contenuto generico ed equivoco intercorse con Pe. e Ab., a fronte del decisivo rilievo rivestito da quella avuta con Sc., nella quale quest'ultimo aveva espressamente detto che fortunatamente lui e il ricorrente non erano stati coinvolti nella vicenda. 12.12. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 21. La sentenza ha tratto la prova della condotta minacciosa e violenta in danno dei due gestori del ristorante di Martinsicuro, nonché dell'effettivo stato di costrizione di questi ultimi, da poche frasi di una conversazione ambientale tra Pe. e Ca., con una motivazione carente e apodittica che non ha spiegato per quali ragioni sono state ritenute inattendibili le due persone offese, sentite in dibattimento, le quali hanno negato di essere mai state minacciate. 12.13. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di tentata estorsione aggravata di cui al capo 22. Analoghe considerazioni valgono per la tentata estorsione in danno di Ne., la cui prova è stata desunta da una conversazione intercettata dal contenuto fumoso e dalle dichiarazioni dei due collaboratori che hanno riferito di una pronta reazione di Ne. la cui volontà, dunque, non era stata coartata. 12.14. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 23 nonché in relazione alla mancata riqualificazione del fatto nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La sentenza non ha risposto alle censure proposte in appello sulla ritenuta inattendibilità della persona offesa Ri., a fronte della credibilità accordata ai due collaboratori, e non ha considerato che il ricorrente si era sostituito a Fa. nella richiesta di pagamento del credito che quest'ultimo aveva maturato nei confronti di Ri. in quanto Fa. era a sua volta debitore di Pe.. 12.15. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 24. La Corte di appello ha evocato il tema della "mafia silente" ricorrendo a clausole di stile avulse dal caso concreto e omettendo altresì di considerare le deposizioni rese dai due gestori del night club Me. e So., che hanno dichiarato di non essere stati per nulla intimoriti dalla offerta di protezione, poi respinta, loro prospettata dagli imputati. 12.16. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione aggravata di cui al capo 25, desunta dalla circostanza che i tre imputati (Ca., Ma. e Pe.) accusati di avere aggredito Ce. e Ri. si sarebbero recati presso l'abitazione del ricorrente e avrebbero poi con lui commentato l'accaduto in una conversazione dalla quale, però, non risultava affatto il coinvolgimento di Pe. nella vicenda e tantomeno il suo ruolo di mandante. 12.17. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di incendio di cui al capo 27, non risultando comprensibile quale sarebbe stato il contributo apportato da Pe. all'evento. Inoltre, la natura colposa dell'evento non solo era stata riferita dalla persona offesa Ma., ma era stata anche confermata da una perizia dallo stesso richiesta al fine di verificare l'eventuale copertura assicurativa. 12.18. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata applicazione dell'attenuante ex art. 114 cod. pen. per il reato di estorsione di cui al capo 28. 12.19. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di estorsione aggravata di cui ai capi 33, 35 e 38, dei quali uno tentato, commessi in danno di Ro.. Anche a fronte della eccepita inattendibilità di Ab. e Sc., la Corte territoriale ha superato il dato obiettivo dell'assenza di telefonate tra la persona offesa e Pe., desumendo la sua responsabilità da quelle intercorse tra quest'ultimo e i correi senza neppure illustrarne il contenuto. 12.20. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. La circostanza dell'agevolazione mafiosa è stata erroneamente applicata per i reati di estorsione e per quelli concernenti le armi, nonostante detta aggravante sia destinata a colpire le condotte degli estranei e non già degli intranei all'associazione. Quanto al metodo mafioso, la Corte di appello ha confuso gli elementi tipici del reato estorsivo con quelli dell'utilizzo del suddetto metodo, indicando una serie di elementi inconferenti. 12.21. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'applicazione dell'aggravante dell'avere commesso il fatto durante la sottoposizione del ricorrente alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La sentenza ha omesso di motivare sulla contestata sussistenza dell'aggravante, ritenendo erroneamente che l'onere motivazionale fosse venuto meno a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza. 12.22. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti, giudizio espresso invece per Ca., il cui contributo alle indagini era stato nella sostanza il medesimo di quello apportato da Pe.. 12.23. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla entità della pena inflitta. La Corte territoriale avrebbe dovuto valorizzare il comportamento collaborativo del ricorrente e il suo ottimo comportamento processuale, avendo egli ammesso la propria responsabilità per molti reati contestati. La sentenza non ha in alcun modo motivato in ordine alla quantificazione dei singoli aumenti, dovuti alla continuazione, e alla entità della pena decurtata per i reati di cui ai capi 37 (estinto per prescrizione), 31 e 32 (stralciati). 13. Il ricorso presentato nell'interesse di Pe.Al. è articolato in dodici motivi, riguardanti - quelli specifici in punto di affermazione di responsabilità - i reati di cui ai capi 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo), 19, 21, 22, 23, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 40 (partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso). 13.1. Nullità dell'ordinanza dibattimentale di rigetto dell'istanza di rinvio per legittimo impedimento del difensore emessa dal Tribunale di Macerata all'udienza del 20 giugno 2016; vizio motivazionale sul punto. Il difensore aveva indicato l'impossibilità di nominare sostituti processuali e comunque non aveva neppure l'onere di farlo, in presenza di motivi di salute, come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. 13.2. Violazione della legge penale (art. 110 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). Mentre per la prima partita di esplosivo consegnata (capo 2) risulta dimostrato il coinvolgimento del ricorrente nella fase successiva all'acquisto, in relazione alla seconda tranche di esplosivo di circa 7 kg (capo 3) non emerge alcuna sua partecipazione, desunta invece dai giudici di merito sulla base di un travisamento del contenuto di una conversazione intercettata, nella quale Pe. chiedeva a Ca. solo se l'esplosivo acquistato avesse o meno degli inneschi, rendendosi tuttalpiù connivente, non avendo poi apportato alcun contributo al successivo spostamento dell'esplosivo. La sentenza impugnata, inoltre, erroneamente attribuisce a Ma.Sc. una inesistente chiamata in correità di Pe. per questo fatto. 13.3. Violazione di legge (artt. 110 cod. pen. e 192 cod. proc. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per l'estorsione in danno della famiglia As. (capo 19). La Corte di appello ha confermato la condanna di Pe. sulla base della chiamata in correità di Sc. e del contenuto di una conversazione tra gli stessi intercorsa nonché di altra conversazione tra il ricorrente e Ca.. Il collaboratore, dopo essersi corretto circa la presenza di Pe., in quel momento in carcere, all'incontro in cui si decise di compiere l'estorsione, ha dichiarato in modo contraddittorio che il ricorrente percepì guadagni dall'attività estorsiva, circostanza rimasta priva di riscontri. Dalle suddette conversazioni, poi, si evince solo che Pe. era a conoscenza delle attività estorsive e tuttalpiù partecipava alla spartizione dei conseguenti guadagni, circostanze che non dimostrano affatto la sua messa a disposizione per il controllo dei locali e delle persone offese, che infatti hanno dichiarato di non conoscerlo neppure. 13.4. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione contestata al capo 21, in danno di due gestori di un ristorante. Dagli atti non emerge che Pe. abbia partecipato alla organizzazione dell'azione violenta e minacciosa posta in essere all'interno del ristorante né che egli abbia tenuto la condotta indicata in sentenza, impedendo l'intervento o l'accesso di clienti o dipendenti; quella del ricorrente fu solo una connivenza non punibile. 13.5. Violazione di legge (art. 110 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ne. (capo 22). La Corte di appello anche in questo caso ha motivato la responsabilità per il reato - fine riportando elementi che al più potrebbero rilevare ai fini della dimostrazione dell'inserimento dell'imputato nel contesto criminale associativo. La responsabilità concorsuale del ricorrente è stata desunta dalla sua mera presenza sul luogo del commesso delitto. 13.6. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la estorsione contestata al capo 23, in danno di An.Ri., supportata solo dalla chiamata in correità di Sc., considerato che la persona offesa ha dichiarato di non conoscere le altre due persone che accompagnavano lo stesso Sc. e Pe. quando fu malmenata. Le due conversazioni intercettate richiamate dai giudici di merito non dimostrano affatto che Pe. fosse stato delegato per riscuotere il denaro estorto. 13.7. Violazione di legge (artt. 81 e 629 cod. pen.) in relazione alla considerazione autonoma del reato contestato al capo 35 rispetto a quello del capo 33; mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ro.. Dalla ricostruzione del fatto da parte dei giudici di merito risulta che Sc. e Ab., dopo le richieste estorsive soddisfatte parzialmente dalla persona offesa con la consegna delle chiavi della sua auto, ripresero a minacciarla per ottenere il pagamento dell'intero preteso con la condotta contestata al capo 33: si tratta, dunque, di una unica azione delittuosa. Diversamente opinando, Pe. sarebbe comunque estraneo al reato contestato al capo 35, poiché il suo concorso è stato affermato solo in base alla partecipazione alle richieste estorsive formulate il 28 agosto 2009 e contestate nel distinto e autonomo capo 33 dell'imputazione. 13.8. Violazione della legge penale (art. 416 - bis cod. pen.), mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi tipici previsti dal suddetto articolo (capo 40). In contrasto con i principi enunciati nella sentenza Modaffari delle Sezioni Unite, la Corte di appello ha affermato che "non è necessaria la prova che l'impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dall'art. 416 bis c.p.". A supporto della ritenuta mafiosità dell'associazione, la sentenza impugnata ha indicato una serie di elementi inconferenti in quanto non dimostrativi della concreta ed effettiva radicalizzazione territoriale del sodalizio e, quindi, della sua autonoma e attuale capacità intimidatoria: il numero dei partecipanti alle "spedizioni punitive", la violenza a volte efferata mostrata nella consumazione dei reati - fine, l'agire a volto scoperto. Travisando le risultanze processuali, la sentenza ha richiamato le estorsioni in danno della famiglia As. e di Ca. per affermare che in tali occasioni sarebbero state proferite minacce velate e subdole tipiche della cosiddetta mafia silente. Anche dalla conversazione del 2 agosto 2009 intercorsa tra Ca. e Pe., riportata nella sentenza di primo grado, si evince che gli stessi associati erano ben consapevoli che il gruppo da poco costituito non avesse ancora acquisito una compiuta forza criminale, dato conclamato dal brevissimo periodo in cui operò il sodalizio. Quanto all'altro elemento tipico della fattispecie, la violenza e la minaccia poste in essere da più persone riunite con modalità particolarmente gravi sono state erroneamente elevate a prova della sussistenza di assoggettamento e omertà; in sostanza, la sentenza impugnata non ha spiegato perché la costrizione (assoggettamento e omertà) eventualmente ingeneratasi nelle vittime sia da attribuirsi alla fama criminale del gruppo in sé piuttosto che alle modalità particolarmente violente adottate nella perpetrazione dei vari reati - fine contestati. 13.9. Violazione della legge penale (art. 416 - bis.1 cod. pen.), mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi tipici dell'aggravante del metodo mafioso prevista dal suddetto articolo, mentre l'esclusione di quella dell'agevolazione discende dalla inesistenza dell'associazione mafiosa. La sentenza ha indicato nell'episodio dell'estorsione in danno di Ed.As. la tipica esplicazione dei tratti propri della metodologia mafiosa, quando invece i responsabili, per costringere la vittima, si avvalsero non della forza intimidatoria di un'organizzazione criminale bensì di un'arma e della sottrazione delle chiavi della macchina, evocando poi Ma.Sc., ben noto alla persona offesa, quale il soggetto cui rivolgersi. A supporto della ritenuta sussistenza del metodo mafioso la sentenza ha richiamato una serie di circostanze quali l'elevato numero di partecipanti alle azioni criminose, il possesso di armi da parte dell'associazione, il mancato travisamento dei correi nelle operazioni criminose, il fare tracotante e prevaricatore adottato dai medesimi nella commissione dei vari reati - fine: si tratta di elementi inconferenti per le ragioni già esposte per contrastare la ritenuta mafiosità dell'associazione. Il vizio denunciato ha particolare pregnanza in relazione al reato di estorsione contestato al capo 33, in quanto la sussistenza dell'aggravante è stata riconosciuta solo in ragione del fatto che i correi si presentarono "in numero assai superiore rispetto alle reali esigenze del caso concreto". 13.10. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per la tentata estorsione contestata al capo 44, in danno di Lo.La., affermata in base al contenuto di intercettazioni ambientali travisato nelle sentenze di merito. Emerge chiaramente dalle intercettazioni che Pe., utilizzando con Ca. una scusa (il denaro gli sarebbe servito in quanto era appena uscito dal carcere), cercò di evitare che l'altro ricorresse alla violenza nei confronti di La.. 13.11. Violazione della legge penale per la illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. sulla sottrazione al bilanciamento di alcune circostanze aggravanti (fra le quali quella, applicata nel caso di specie, dell'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen.) alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen., norma che non richiama la particolare disciplina prevista per alcune circostanze aggravanti della rapina. 13.12. Mancanza o contraddittorietà della motivazione in punto di determinazione della pena base inflitta all'imputato. Il Tribunale, con un errore non emendato dalla Corte di appello, per un verso ha affermato di dover applicare il minimo edittale del reato satellite di cui all'art. 416 - bis cod. pen., ma per altro verso da detto minimo (sette anni di reclusione) si è discostato in modo rilevante. 14. Il ricorso presentato nell'interesse di Po.An. è articolato in quattro motivi, riguardanti i reati di incendio (capo 27) e di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (capo 40). 14.1. Violazione di legge (in relazione agli artt. 192 e 195, comma 7, cod. proc. pen.), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per il reato di incendio in concorso. La deposizione del teste Bu. è inutilizzabile in quanto è rimasta ignota la persona che gli avrebbe riferito dell'allontanamento dal luogo dell'incendio di quattro ragazzi, visti solo salire su un'auto, poi identificata dalle forze dell'ordine in quella di Po. nonostante non fosse stata fermata. Il ricorrente aveva quell'auto dal 2002, cosicché non poteva averla ricevuta come prezzo di un delitto commesso nel 2009, circostanza non valutata dalla Corte di appello, la quale ha poi erroneamente considerato come elemento di riscontro la chiamata in correità di Sc., che ha dichiarato di essere stato il mandante dell'incendio, rendendo però dichiarazioni molto vaghe e "per sentito dire" sugli autori e sulle modalità con le quali esso sarebbe stato commesso. 14.2. Gli stessi vizi, sulla base delle argomentazioni svolte nel primo motivo, vengono denunciati in relazione al riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen.. 14.3. Violazione di legge (art. 192 cod. proc. pen.) e vizio motivazionale in ordine alla sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso. Po. avrebbe comunque prestato un contributo solo occasionale per quell'unico incendio ed egli era all'oscuro delle dinamiche associative. 14.4. Violazione di legge (art. 192 cod. proc. pen.) e vizio motivazionale in relazione al reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso. La sentenza non ha indicato prove del contributo causale stabile di Po. all'associazione, essendosi egli limitato a custodire temporaneamente armi ed esplosivo, ricevendo un corrispettivo. Gli associati lo consideravano un "collaboratore esterno" che non faceva domande e in cambio di denaro svolgeva semplici compiti. Inoltre, l'ipotesi accusatoria si fonda in larga parte sulle dichiarazioni del collaboratore Ma.Sc., condannato all'ergastolo (come il padre Gi.) per una strage, che ha compiuto una scelta opportunistica tale da comportare propalazioni "mendaci, fantasiose, più colorite". Egli consumava droghe e psicofarmaci, sostanze che lo rendevano instabile, schizofrenico, incapace di rapportarsi con la realtà circostante. Anche l'altro collaboratore Ga.Ab. era assuntore di sostanze psicotrope; egli appartiene a una famiglia di pentiti e aveva a disposizione un telefono cellulare quando era detenuto nel carcere di Pesaro, ove ebbe un colloquio con Ma.Sc., circostanza rilevante al fine di valutarne l'attendibilità. 15. Il ricorso presentato nell'interesse di Ri.Fi. è articolato in sette motivi, inerenti ai reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo (capi 11, 12, 13 e 14) e di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso (capo 40). 15.1. Violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla integrazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 416 - bis cod. pen.. Per ritenere la mafiosità dell'associazione, operante per soli cinque o sei mesi, la Corte di appello ha erroneamente valorizzato la mera "connotazione finalistica", destinata a restare confinata nel foro interiore ovvero nelle criminali aspirazioni degli associati, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, pure richiamati in motivazione. Gli stessi episodi citati in sentenza (estorsione consumata in danno di Me. e tentata in danno di Pa.) contraddicono l'assunto della Corte territoriale sulla dimostrata mafiosità del sodalizio, che pure va esclusa alla luce dell'incrociarsi dei propositi dichiaratamente omicidiari volti alla reciproca eliminazione fisica tra gli associati. 15.2. Violazione della legge penale processuale (art. 192 cod. proc. pen., con particolare riguardo al comma 3), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sulla ritenuta partecipazione dell'imputato all'associazione di tipo mafioso, con specifico riferimento alla valutazione delle dichiarazioni rese dai coimputati Ma.Sc. e Ga.Ab., separatamente giudicati. La sentenza ha ritenuto che quella di Ri., mai coinvolto in alcuna interlocuzione con gli altri associati e dagli stessi mai evocato, fosse stata una partecipazione "silente" e, in sostanza, "da remoto", vista la sua permanenza in Sicilia quantomeno nell'agosto del 2009. Il ricorrente è stato assolto con formula piena dall'unico reato - fine, dovendosi escludere, dunque, che egli possa avere fornito un appoggio finanziario e logistico con la propria concessionaria di auto. La prova della sua partecipazione deriva unicamente dalle dichiarazioni dei due collaboratori e la Corte di appello, con affermazioni generiche e apodittiche, non ha considerato che quelle rese dal cognato Ab. sono smentite da una serie di circostanze: quest'ultimo ignorava la disponibilità da parte di Ri. di alcune armi, che il ricorrente fece ritrovare, il cui possesso risaliva ad epoca ampiamente precedente alla nascita del sodalizio; esse non furono mai utilizzate per le attività criminali del gruppo; Ab. in altri processi ha ritrattato le accuse nei confronti di Ri. e plurimi sono i giudizi assolutori favorevoli all'imputato, nei quali le dichiarazioni del collaboratore sono state ritenute inattendibili. La sentenza impugnata ha svilito tali risultanze e ha escluso l'inattendibilità di Ab. ritenendo non pertinente una valutazione "sulle qualità morali della sua persona", quando invece occorreva dare rilievo decisivo a una circostanza dallo stesso riferita: i rapporti con Ri. si erano interrotti dal 2008 in avanti, vale a dire prima della nascita dell'associazione. 15.3. In relazione alla condanna per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra (capi 11 e 12), mancata assunzione di una prova decisiva (perizia sulla natura di arma da guerra e sulla idoneità all'impiego della bomba a mano tipo ananas), supportata da motivazione contraddittoria e manifestamente illogica. Le considerazioni della sentenza impugnata sulla idoneità all'impiego hanno impropriamente sostituito una necessaria verifica tecnica sull'arma, cui già era stata subordinata la richiesta di rito abbreviato respinta dal G.u.p.; l'istanza è poi stata riproposta in dibattimento, ai sensi dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. e sul rigetto vi è stata una specifica doglianza formulata nell'atto di appello. 15.4. Quanto ai reati in materia di armi (capi 11, 12, 13 e 14), violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante ex art. 416 - bis.1 cod. pen. Tutte le armi erano possedute dal ricorrente da epoca largamente precedente alla nascita dell'associazione e la motivazione non indica alcuna prova della sua finalità di agevolare l'associazione mafiosa, evocando poi la disponibilità di un silenziatore che non trova alcun riscontro nei verbali di perquisizione e sequestro delle armi a carico di Ri.. 15.5. In subordine rispetto ai primi due motivi, violazione della legge penale (artt. 42, 43 e 59, secondo comma, cod. pen.), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta applicabilità nei confronti del ricorrente dell'aggravante ex art. 416 - bis, quarto comma, cod. pen., in assenza di un accertamento circa la componente psicologica e volontaristica riferibile all'imputato, mai intercettato e - come riconosciuto in sentenza - "mai stato nominato, contattato, visto o soltanto sospettato di aver concorso nei reati commessi dagli altri imputati". 15.6. In ulteriore subordine, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al solo giudizio di equivalenza fra circostanze eterogenee, nonostante l'intervenuta assoluzione in appello dal reato di estorsione pluriaggravata. 15.7. In subordine, violazione della legge penale, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., fondato su una erronea interpretazione del concetto di "dissociazione" e sull'assenza del presupposto dell'ammissione di responsabilità non previsto dalla norma. 16. Il ricorso proposto nell'interesse di Sa.Do., condannato per il reato di concorso nella cessione di un'arma con munizionamento (capo 6), è articolato in cinque motivi. 16.1. In primo luogo, si denunciano contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine al disallineamento e all'incongruità delle decisioni sui reati di cui ai capi 6 e 7, intrinsecamente collegati tra loro, anche con riguardo al vaglio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dal collaboratore di giustizia Ma.Sc.. La sentenza impugnata ha riconosciuto l'assenza di riscontri alla versione resa dal suddetto collaboratore circa il fatto che fosse stata convenuta una contropartita in stupefacente per la vendita della mitraglietta e ha assolto l'imputato per il reato di detenzione della cocaina in ipotesi acquistata, ma poi, in modo contraddittorio, ha ritenuto dimostrato che Sa. e gli altri presunti venditori dell'arma si sarebbero recati la sera stessa a Civitanova Marche per lamentarsi della qualità della cocaina ricevuta: in questo modo Sc. è stato ritenuto non credibile sulla cessione della droga ma meritevole di apprezzamento su una circostanza derivante proprio dalla dazione dello stupefacente. 16.2. Il ricorrente, poi, con i successivi due motivi, censura la sentenza impugnata per violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione della credibilità del collaboratore di giustizia Ma.Sc. e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni nonché all'esistenza di riscontri esterni individualizzanti. A fronte delle specifiche contestazioni della difesa sulle contraddizioni presenti nel racconto di Sc., relative a precise circostanze (data di commissione del fatto, individuazione dei fornitori, confezionamento della mitraglietta, richiesta dell'arma e trattative, prezzo della transazione, trasporto e collocamento dell'arma, mezzo utilizzato), la Corte di appello ha risposto in modo generico e superficiale. 16.3. Con il quarto e il quinto motivo il ricorso lamenta violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione dei riscontri individualizzanti sul ruolo di Sa.Do., anche con riferimento al vaglio della credibilità di Ma.Sc. e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. La Corte territoriale ha ritenuto utilizzabile la deposizione dell'ispettore Di Clemente nonostante essa fosse riconducibile a un'annotazione ex art. 357 cod. proc. pen. che faceva riferimento a una fonte confidenziale e ha utilizzato quale riscontro alla chiamata in correità una conversazione ambientale tra Ca. e Pe. in forza di una interpretazione basata su motivazioni incongrue e illogiche là dove è stato identificato in Sa. "quell'altro ragazzo". La sentenza ha poi erroneamente osservato che le dichiarazioni rese in interrogatorio da Ca., contestate dalla difesa, non sarebbero state considerate dal primo giudice nel compendio probatorio e ha utilizzato le risultanze dei tabulati telefonici come riscontro individualizzante, spiegando in modo poco plausibile e contrastante con alcune recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità "la non perfetta coincidenza del collocamento temporale e spaziale dei telefoni in uso agli imputati coinvolti". 16.4. Con i successivi due motivi il ricorrente censura il vizio motivazionale e la violazione di legge (artt. 192, comma 3, e 526, comma 1, cod. proc. pen.) in ordine alla valutazione dei tabulati telefonici, non acquisiti, quali riscontro individualizzante alle propalazioni del collaboratore di giustizia. Una serie di dati incontrovertibili contrasta con la ricostruzione dei giudici di merito: il 2 maggio 2009 Fo., Sa. e Pe. sono transitati nei pressi del paese di Moie, dove sarebbe avvenuto lo scambio, ma il pomeriggio dello stesso giorno i tre non erano insieme né si trovavano a Moie. La Corte, poi, non ha valorizzato un dato rilevante, costituito dalla mancata individuazione della posizione del collaboratore, i cui dispositivi mobili non sono stati tracciati. La sentenza impugnata definisce le risultanze dei tabulati "elementi indiziari ambigui" ma poi li considera illegittimamente come riscontro individualizzante, in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. che respinse la richiesta di misura cautelare proposta nei confronti di Sa.. Fra gli atti del fascicolo, infine, mancano i tabulati, essendo presente solo lo schema redatto dalla teste di P.G. Ma. che non consente un pieno esercizio del diritto di difesa. 17. Il ricorso proposto nell'interesse di Bi.Lo., condannato per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3), è articolato in due motivi. 17.1. Manifesta illogicità della motivazione per travisamento della prova con riferimento alla ritenuta consapevolezza dell'imputato circa il contenuto del pacco contenente l'esplosivo, ricevuto nel locale pubblico ove egli lavorava. La Corte di appello ha arbitrariamente interpretato una conversazione oggetto di captazione ambientale intercorsa fra i coimputati Ca. e Sc., dalla quale si evince, invece, che Bi. non sapeva affatto di essere stato "usato" dal suo conoscente per tenere presso di sé dell'esplosivo. La sentenza ha poi omesso di considerare le testimonianze della moglie e dei suoceri del ricorrente, malgrado esse abbiano confermato che si trattava di uno scatolone aperto, che nella cucina del bar era ingombrante, all'interno del quale si vedeva un televisore. 17.2. Omessa motivazione con riferimento alla eccepita prescrizione dei reati. Considerato un errore materiale il riferimento al secondo comma dell'art. 99 cod. pen. nel capo d'imputazione, la prescrizione per entrambi i reati (detenzione illegale e porto illegale di esplosivo) è maturata prima della pronuncia della sentenza impugnata, come eccepito in una memoria difensiva con una deduzione alla quale la Corte di appello non ha dato risposta. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi proposti nell'interesse di Pe.Al. e Pe.Sa. vanno accolti limitatamente alla misura della pena inflitta e conseguentemente la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Il ricorso di Bi.Lo. è fondato limitatamente al reato di detenzione di esplosivo, estinto per prescrizione già prima della sentenza di appello che pertanto va annullata senza rinvio con eliminazione della relativa pena. Il ricorso di Be.Ni. va rigettato perché proposto con motivi infondati. Sono inammissibili tutti gli altri i ricorsi perché proposti con motivi generici, non consentiti o manifestamente infondati. 1. Alcuni principi di diritto rilevanti. Pare opportuno richiamare preliminarmente alcuni principi di diritto che sono pertinenti ai fini della risoluzione di una serie di questioni poste nei ricorsi di vari imputati, in modo da evitare ripetizioni nell'esame delle singole posizioni. 1.1. In ordine a reiterate censure mosse alla struttura motivazionale della pronuncia impugnata, va evidenziato che dalla stessa si evince chiaramente che la Corte di merito ha puntualmente esaminato le doglianze difensive proposte con gli appelli, con una motivazione solo in parte per relationem, peraltro legittima quando - come nel caso di specie - risulta che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le ha ritenute coerenti con la propria decisione (Sez. U, n. 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664; Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, Caratelli, Rv. 274996; Sez. 2, n. 55199 del 29/05/2018, Salcini, Rv. 274252; Sez. 6, n. 53420 del 04/11/2014, Mairajane, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014, Barone, Rv. 261248). Va poi ricordato che la sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, specie quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella pronuncia di primo grado (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv, 191229; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615). Pertanto, in presenza di una doppia conforme anche nell'iter motivazionale, il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle partì e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi in modo logico e adeguato le ragioni del proprio convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez, 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593; Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841). Neppure la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all'accertamento dei fatti che si riferiscono all'imputazione, determina la nullità della sentenza di appello per mancanza di motivazione se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione, circostanza riscontrabile nella sentenza impugnata, che ha esaminato ed espressamente confutato le deduzioni difensive negli aspetti fondamentali. In sede di legittimità, dunque, non è censurabile ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. la sentenza per il silenzio su una specifica doglianza proposta con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della motivazione (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022, dep. 2023, Lakrafy, Rv. 284096; Sez. 3, n. 43604 del 08/09/2021, Cincolà, Rv. 282097; Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Dulan, Rv. 275057; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro, Rv. 275500; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Camello, Rv. 256340). Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, qualora le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all'esito di una verifica sulla completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna, Rv. 267723; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445). 1.2. Vari ricorsi hanno denunciato la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.; tuttavia, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione della suddetta norma per censurare l'omessa o erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, poiché i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) dello stesso articolo nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-04; Sez. 6 n. 4119 del 30/04/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni Spa, Rv. 278196; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567). Detta violazione, pertanto, può essere fatta valere soltanto nei limiti indicati dalla lettera e) della stessa norma, ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame. In vari ricorsi, però, il vizio di motivazione è stato denunciato con una generica deduzione, in contrasto con il principio secondo il quale i vizi della motivazione si pongono "in rapporto di alternatività, ovvero di reciproca esclusione, posto che - all'evidenza - la motivazione, se manca, non può essere, al tempo stesso, né contraddittoria, né manifestamente illogica e, per converso, la motivazione viziata non è motivazione mancante" (così Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518; nello stesso senso v. Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037). Anche le Sezioni Unite, nella citata sentenza Filardo, hanno ribadito che "il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione" (in senso conforme, da ultimo, v. Sez. 4, n. 8294 del 01/02/2024, Della Monica, Rv. 285870). 1.3. Numerosi ricorsi, in più motivi, pur avendo formalmente espresso censure riconducibili alle categorie del vizio di motivazione, non hanno effettivamente denunciato una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica, bensì una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata del materiale probatorio. Con varie argomentazioni, infatti, sono state proposte doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti, tese a sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio in un senso stimato più plausibile; tuttavia, la valutazione dei dati processuali e la scelta, tra i vari risultati di prova, di quelli ritenuti più idonei a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento (Sez. 3, n. 17516 del 30/10/2018, dep. 2019, Di Francesco, Rv. 275596; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623; Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Va ribadito, dunque, che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos, Rv. 283370; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217). Anche da ultimo questa Corte ha precisato che il controllo sulla motivazione in sede di legittimità è circoscritto, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., alla "verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione insindacabile e, pertanto, intangibile in sede di legittimità: 1) l'esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l'hanno determinata; 2) l'assenza di manifesta illogicità dell'esposizione, ossia la coerenza delle argomentazioni esposte rispetto al fine che le hanno determinate; 3) la non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo dell'atto impugnato o da altri atti del processo, se specificamente indicati nei motivi di gravame" (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556). Inoltre, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione, la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto un'ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto - reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento a dati sostenibili, cioè desunti dai risultati probatori, e non a elementi meramente ipotetici seppur plausibili (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647; Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260409). 1.4. Diversi ricorsi hanno poi lamentato un travisamento della prova, delle "risultanze processuali" o "dei fatti". Il travisamento della prova, però, introdotto quale ulteriore criterio di giudizio della contraddittorietà estrinseca della motivazione dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento. Ai fini della configurabilità del vizio del travisamento della prova è altresì necessario che la relativa deduzione abbia un oggetto chiaro e definito, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto; va escluso, pertanto, che integri il suddetto difetto un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, Lo Presti, Rv. 264481, non mass, sul punto; Sez. 1, n. 51171 del 11/06/2018, Piccirillo, Rv. 274478; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087). Detto vizio, inoltre, può avere rilievo solo quando l'errore sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale (Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774). In caso di doppia conforme, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo quando il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite, in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777; Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 2, n. 7896 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217). 1.5. In vari ricorsi sono stati proposti motivi riguardanti questioni nuove non oggetto dei motivi di appello. Secondo il diritto vivente, alla luce di quanto disposto dall'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, Martorana, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Li Vigni, Rv. 269368). Pertanto, "deve ritenersi sistematicamente non consentita (non soltanto per le violazioni di legge, per le quali cfr. espressamente art. 606, comma 3, c.p.p.) la proponibilità per la prima volta in sede di legittimità, con riferimento ad un capo e ad un punto della decisione già oggetto di appello, di uno dei possibili vizi della motivazione con riferimento ad elementi fattuali richiamabili, ma non richiamati, nell'atto di appello: solo in tal modo è, infatti, possibile porre rimedio al rischio concreto che il giudice di legittimità possa disporre un annullamento del provvedimento impugnato in relazione ad un punto della decisione in ipotesi inficiato dalla mancata/contraddittoria/manifestamente illogica considerazione di elementi idonei a fondare il dedotto vizio di motivazione, ma intenzionalmente sottratti alla cognizione del giudice di appello. Ricorrendo tale situazione, invero, da un lato il giudice della legittimità sarebbe indebitamente chiamato ad operare valutazioni di natura fattuale funzionalmente devolute alla competenza del giudice d'appello, dall'altro, sarebbe facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della sentenza d'appello con riguardo al punto della decisione oggetto di appello, in riferimento ad elementi fattuali che in quella sede non avevano costituito oggetto della richiesta di verifica giurisdizionale rivolta alla Corte di appello, ma siano stati richiamati solo ex post a fondamento del ricorso per cassazione" (così Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, non mass, sul punto). Va poi precisato che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra tra quelle su cui la Suprema Corte può decidere ex art. 609 cod. proc. pen. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta con il ricorso per cassazione purché per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto, cosicché il giudice di legittimità può procedere alla riqualificazione giuridica solo quando esso è stato storicamente ricostruito dai giudici di merito (cfr. Sez. 2, n. 1462 del 30/01/2018, Lunardi, Rv. 272091; Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 5, n. 23391 del 17/03/2017, Alama, Rv. 270144; Sez. 1, n. 3763 del 15/11/2013, dep. 2014, Torrisi, Rv. 258262; Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013, Piacentini, Rv. 254543). 2. Le intercettazioni. Come si vedrà, le risultanze delle molteplici intercettazioni (di conversazioni telefoniche o tra presenti) hanno avuto un rilievo fondamentale nella decisione dei giudici di merito soprattutto quale riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ma.Sc. e Ga.Ab., fonti di prova primarie quanto al reato associativo. È opportuno ricordare, allora, che l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia'criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, non può essere sindacata dalla Corte di cassazione se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite. In questa sede, dunque, è possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il contenuto sia stato indicato in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164). È consolidato anche il principio secondo cui gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l'imputato costituiscono fonte di prova diretta, soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno, con l'avvertenza che, ove tali elementi abbiano natura indiziaria, essi dovranno essere gravi, precisi e concordanti, come disposto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, Acampa, Rv. 278611; Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, Valorosi, Rv. 278314; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, dep. 2016, Ambroggio, Rv. 265747; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260842). Il medesimo principio è stato affermato anche in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso (Sez. 6, n. 32373 del 04/06/2019, Aiello, Rv. 276831, non mass, sul punto; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 268414; Sez. 5, n. 42981 del 28/06/2016, Modica, Rv. 268042; Sez. 1, n. 40006 del 11/04/2013, Vetro, Rv. 257398). Avuto specifico riguardo al reato ex art. 416 - bis cod. pen., la Corte di cassazione ha affermato che "i contenuti informativi provenienti da soggetti intranei all'associazione mafiosa, frutto di un patrimonio conoscitivo condiviso derivante dalla circolazione all'interno del sodalizio di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune degli associati (...) sono utilizzabili in modo diretto, e non come mere dichiarazioni de relato soggette a verifica di attendibilità della fonte primaria" (così Sez. 2, n. 10366 del 06/03/2020, Muià, Rv. 278590; da ultimo, in senso esattamente conforme, v. Sez. 2, n. 48448 del 31/10/2023, Genovese, Rv. 285587), con la precisazione che, qualora gli associati abbiano evocato dati appresi da altre persone, il giudice, pur non essendo tenuto ad applicare la disciplina di cui all'art. 195 ccd. proc. pen., deve valutare rigorosamente la genuinità delle affermazioni captate e, laddove persistano dubbi, deve individuare elementi di riscontro (Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980). Nel caso di specie, a fronte della chiarezza delle espressioni utilizzate nelle conversazioni intercettate, in vari ricorsi si è proposta una lettura del loro significato alternativa a quella dei giudici di merito, inammissibile in assenza di una interpretazione manifestamente illogica o irragionevole. 3. Le chiamate in correità. Il tema delle chiamate in correità di Ma.Sc. e Ga.Ab. è stato affrontato ampiamente nelle sentenze del Tribunale (pagg. 39 - 46) e della Corte d'appello (pagg. 173 - 182), che hanno richiamato principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità applicandoli al caso concreto, a partire da quello statuito dalle Sezioni Unite Marino (n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Rv. 192465) circa la valutazione "a tre tempi" del giudice di merito, chiamato a verificare: la credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio - economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti con il chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all'accusa nei confronti del chiamato; l'attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; la presenza di elementi estrinseci di riscontro alla stessa. Quanto al primo aspetto, il tentativo di minare la credibilità dei due dichiaranti alla luce del loro pregresso percorso criminale e dell'assenza di una effettiva resipiscenza si scontra con il principio, pure richiamato nella sentenza impugnata, secondo il quale, in tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il cosiddetto pentimento, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche e all'intento di conseguire vantaggi di vario genere, non presuppone una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un'intrinseca attendibilità delle sue propalazioni: ne consegue che l'indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona - e quindi sulla genuinità del suo pentimento - quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle sue dichiarazioni (Sez. 1, n. 5438 del 07/11/2019, dep. 2020, Birra, Rv. 278470; Sez. 6, n. 46483 del 30/10/2013, Scognamiglio, Rv. 257389; Sez. 5, n. 50589 del 30/09/2013, Martinelli, Rv. 257832; Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Ritorto, Rv. 253709). Laddove sia emerso un interesse concreto a rendere dichiarazioni etero - accusatorie inquinate, per malanimo, astio, rancore o intese collusive, tale da rendere legittimo il sospetto concreto di inattendibilità delle propalazioni accusatorie, il giudice deve usare maggiore cautela e applicare con criterio di rigore gli ulteriori parametri valutativi offerti dall'esperienza e dalla logica (Sez. 6, n. 48320 del 12/04/2022, Manna, Rv. 284074), compito al quale il Tribunale e la Corte di appello si sono comunque attenuti, pur avendo radicalmente escluso la presenza di indici sintomatici di un intento calunnioso in capo a Sc. e ad Ab., non desumibili neppure dal loro pregresso contrasto con Pe. "in ragione dell'iniziale mancata spartizione dei guadagni relativi alla vicenda As.", poi risoltosi, a dire degli stessi collaboratori, "come peraltro attestato dalla prosecuzione dell'attività criminale in comune, nel rispetto dei patti" (pagg. 43 - 44 della sentenza di primo grado). Logicamente i giudici di merito hanno evidenziato che i due dichiaranti hanno in primo luogo accusato sé stessi, confessando anche reati del tutto ignoti all'autorità giudiziaria: per i fatti per cui è processo Sc. ed Ab., ad esito del giudizio abbreviato, sono stati condannati alle pene, rispettivamente, di sei anni e sei mesi di reclusione e di cinque anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione, con sentenza divenuta irrevocabile il 15 maggio 2015 (Sez. 6, n. 31304 del 2015). Quanto all'attendibilità intrinseca, è incensurabile la valutazione espressa nelle due sentenze circa la costanza e la precisione delle dichiarazioni rese dai due collaboratori, l'assenza di sostanziali modifiche nel loro nucleo essenziale, le fisiologiche incertezze o contraddizioni su aspetti marginali in ragione del tempo trascorso e della mole di episodi riferiti da Sc. e da Ab. nel corso dell'esame dibattimentale, protrattosi rispettivamente per otto e per tre udienze. La sentenza impugnata ha ribadito la inesistenza di una intesa fraudolenta fra i due dichiaranti, finalizzata ad accusare terzi, e di una contaminazione fra le loro dichiarazioni, evidenziando i tempi diversi dell'inizio della loro collaborazione e le modalità dei due contatti avuti nel carcere di Pesaro ove vennero ristretti nell'ottobre del 2009, dopo il loro arresto: i colloqui furono appositamente favoriti e intercettati dagli inquirenti per captare i primi commenti dopo l'esecuzione delle misure cautelari; agli atti vi sono le relative trascrizioni, dalle quali, evidentemente, non è emersa alcuna collusione fra i due, considerato che le difese, per ipotizzare un accordo, hanno evocato solo il dato storico degli incontri fra Sc. ed Ab. e non già il contenuto dei colloqui. Risulta pertinente, dunque, il principio secondo il quale le dichiarazioni accusatorie rese da imputati dello stesso reato, per costituire prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, quando esse siano dotate di intrinseca attendibilità, soggettiva e oggettiva, e - in assenza di specifici elementi di sospetto di accordi fraudolenti o reciproche suggestioni - siano concordanti nel loro nucleo essenziale, essendo irrilevanti eventuali divergenze relative solo a elementi circostanziali del fatto (Sez. 1, n. 10561 del 28/10/2020, dep. 2021, Scicchitano, Rv. 280741). Peraltro - come si vedrà - per numerosi episodi le dichiarazioni di Sc., promotore e capo del sodalizio, sono riscontrate non dalle dichiarazioni di Ab., agli stessi estraneo, ma da riscontri di diversa natura. Proprio il tema dei riscontri è stato enfatizzato nella sentenza impugnata, che ne ha sottolineato la molteplicità e rilevanza, avuto riguardo soprattutto alla mole di conversazioni intercettate all'oscuro degli interlocutori, oltre che, in alcuni casi, alle dichiarazioni delle persone offese, alle ammissioni degli imputati (non ricorrenti in relazione all'affermazione di responsabilità per diversi reati), all'attività di osservazione della polizia giudiziaria, all'esito di perquisizioni, alle risultanze dei tabulati telefonici. In proposito va ricordato che le Sezioni Unite, nella sentenza Aquilina (n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. 255145), richiamando la valutazione "a tre tempi" del giudice di merito richiesta nella sentenza Marino, hanno precisato che "detta sequenza non deve essere - per così dire - rigorosamente rigida, nel senso cioè che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate. In particolare, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, devono essere valutate unitariamente, "discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e non indicando l'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria" (...) In sostanza, devono essere superate eventuali riserve circa l'attendibilità del narrato, vagliandone la valenza probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti" (in senso conforme, successivamente, cfr. Sez. 1, n. 22633 del 05/02/2014, Pagnozzi, Rv. 262348 nonché Sez. 4, n. 34413 del 18/06/2019, Khess, Rv. 276676). Inoltre, le dichiarazioni accusatorie che non costituiscono la prova principale della penale responsabilità degli accusati, bensì mera integrazione e conferma di altre prove di diversa ed autonoma natura, richiedono una verifica meno rigorosa e non esigono riscontri esterni ulteriori (Sez. 6, n. 40144 del 11/07/2019, Vadacca, Rv. 277368; Sez. 1, n. 48421 del 19/06/2013, Strano, Rv. 257972). I giudici di merito hanno applicato con rigore questi principi; già il Tribunale, ad esempio, è pervenuto all'assoluzione degli imputati chiamati in correità da Sc. per i tentativi di incendio del night club "Eden" (capi 29 e 30) e per la detenzione di cocaina (capo 7), dopo avere ritenuto le dichiarazioni del collaboratore del tutto genuine, ma riscontrato l'assenza di riscontri esterni individualizzanti. 4. L'associazione di tipo mafioso. Per il reato associativo, contestato al capo 40, sono stati condannati Pe., con ruolo apicale, Be., Ca., Ma., Pe., Po. e Ri., quali partecipi. I ricorsi di Ca. e Ma. non hanno ad oggetto il suddetto capo, mentre Po. ha contestato soltanto la ritenuta sua partecipazione all'associazione e Ri. ha proposto solo con il ricorso il motivo sulla insussistenza della mafiosità della stessa, cosicché i motivi scrutinabili in questa sede in ordine alla esistenza di un sodalizio ex art. 416 - bis cod. pen. sono esclusivamente quelli proposti negli altri tre ricorsi (Be., Pe. e Pe.), peraltro in buona parte comuni, circostanza che consente una trattazione unitaria del tema. La sentenza impugnata, riassunta la motivazione sul punto del Tribunale, ha svolto ampie argomentazioni per disattendere le censure svolte negli atti di appello (pagg. 183 - 209), in larga parte riproposte nei ricorsi, senza incorrere in violazione di legge o in una motivazione illogica o contraddittoria. Alcuni ricorsi hanno evocato la sentenza Modaffari delle Sezioni Unite (n. 36958 del 27/05/2021, Rv. 281889) là dove si è ribadito che il cardine della fattispecie di cui si tratta "è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non è, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà (....). Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come "fama criminale", che rappresenta una sorta di "avviamento" grazie al quale l'organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all'associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (...). La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l'associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione che rappresenta l'elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell'associazione (...). L'assoggettamento e l'omertà, pur essendo in concreto difficilmente scindibili in quanto il primo costituisce la naturale premessa della seconda, assumono in astratto una precisa autonomia concettuale: per assoggettamento, infatti, deve intendersi lo stato di sottomissione alla volontà del gruppo e al suo potere; per omertà, invece, il rifiuto, dettato essenzialmente dal timore di vendette e di ritorsioni, a collaborare con gli organi dello Stato in situazioni che non necessariamente devono assumere i caratteri dell'assolutezza e dell'invincibilità". La Corte di appello ha ben considerato detti principi, calandoli nella situazione specifica, contrassegnata dalla presenza di una "mafia atipica". La giurisprudenza di legittimità è da tempo consolidata nel senso che il reato previsto dall'art. 416 - bis cod. pen. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette tradizionali, consistenti in grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle cosiddette mafie atipiche, costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi del metodo mafioso da cui derivano assoggettamento ed omertà. Non è necessaria, dunque, la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento, essendo sufficiente, invece, che l'organizzazione abbia conseguito fama criminale, utilizzando metodologie proprie di sodalizi di stampo mafioso, e che abbia manifestato una concreta e reale capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale, così producendo un assoggettamento omertoso nell'ambito oggettivo e soggettivo, pur eventualmente circoscritto, in cui opera (Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, Fasciani, Rv. 278745; Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555; Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, Albanese, Rv. 277913; Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, Forieri, Rv. 276894; Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120). Anche in recentissime pronunce, questa Corte, aderendo ai suddetti principi, ha ribadito che, ai fini della qualificazione ai sensi dell'art. 416 - bis cod. pen. di una nuova e autonoma formazione criminale con tali caratteristiche, è necessario accertare se il sodalizio: a) abbia conseguito fama e prestigio criminale autonomi e distinti da quelli personali dei singoli partecipi, in guisa da esser capace di conservarli anche nel caso in cui questi ultimi fossero resi innocui; b) abbia in concreto manifestato capacità di intimidazione, ancorché non necessariamente attraverso atti di violenza o di minaccia, nell'ambito oggettivo e soggettivo, pur eventualmente circoscritto, di sua effettiva operatività; c) abbia manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale e abbia conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel territorio in cui l'associazione è attiva (cfr. Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Casamonica, Rv. 285908; Sez. 6, n. 14444 del 21/02/2023, P., Rv. 284579; Sez. 2, n. 11118 del 20/12/2022, dep. 2023, Casamonica, Rv. 284339: con questa ultima pronuncia la Corte ha annullato la decisione con cui si era ritenuta necessaria, per ravvisare la mafiosità del sodalizio, l'esistenza di una condizione di assoluta omertà nel territorio di riferimento). I giudici di merito hanno evidenziato che le vittime delle estorsioni e degli altri fatti delittuosi, pur consapevoli - alcuni di loro - della fama criminale di Sc. e Pe., con i quali in passato avevano avuto rapporti di vario genere, colsero la presenza e subirono la forza di intimidazione di un gruppo più vasto, organizzato, determinato, armato, in ragione dapprima dell'ingresso di vari altri soggetti (Ca., Po., Ri., Pe. e Ma.) e poi della fusione con il sodalizio capeggiato da Ab.. In questo senso la sentenza impugnata ha legittimamente inquadrato la partecipazione di più componenti dell'unico sodalizio alle "spedizioni punitive" (magari in presenza anche di un affiliato di un gruppo potenzialmente rivale, come nel caso del pestaggio di Da.) come elemento confermativo del fatto che le persone offese, in larga parte gravitanti nel medesimo o in affini settori imprenditoriali, percepivano le intimidazioni e le violenze come provenienti da un gruppo criminale che faceva ricorso sistematico al metodo mafioso, analizzato dai giudici di merito alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in quel determinato ambito sociale e territoriale. Proprio l'utilizzo costante di detto metodo, riscontrato nella commissione dei reati - fine con motivazione incensurabile (come si vedrà), è stato l'elemento dirimente per i giudici di merito al fine di riconoscere il carattere mafioso dell'associazione: "a qualificarla in tal senso non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli, ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica il più grave trattamento sanzionatorio" (pag. 198 della sentenza impugnata). Risultano infondate, dunque, le censure difensive volte a evidenziare l'ambito territoriale ristretto in cui avrebbe operato il sodalizio, che pure - come già evidenziato dal Tribunale e ribadito nella sentenza impugnata (pag. 188) -rivolse "le proprie mire a danno dei componenti di una certa collettività", quali i titolari di locali notturni, ristoranti, stabilimenti balneari ovvero commercianti di autovetture, commettendo i più rilevanti reati - fine (estorsioni o incendi per ottenere il "pizzo" per la protezione ai locali o per beneficiare dei proventi dell'attività illecita altrui ovvero per recuperare dei crediti) che sono quelli tipici di un sodalizio mafioso. Tutti i ricorrenti che hanno trattato questo tema hanno enfatizzato la circostanza della breve durata del sodalizio, ma ciò hanno fatto come se tutto fosse nato in occasione del più volte evocato incontro alla "Tazza d'oro", nella primavera del 2009, che suggellò l'unione del gruppo capeggiato da Ma.Sc. e Pe.Sa. (la cui alleanza risaliva ad un periodo precedente, tra la fine del 2008 e gli inizi del 2009) con quello sambenedettese di Ga.Ab.. Si trattò, evidentemente, di un "salto di qualità" - come già sottolineato dal Tribunale (pag. 378) - ma l'associazione poteva in quel momento già contare su uomini, mezzi e organizzazione. In proposito si è da ultimo affermato che la finalità di "commettere delitti" ex art. 416 - bis cod. pen. coincide con lo "scopo di commettere più delitti" di cui al precedente art. 416, cosicché "la sola sussistenza, anche sopravvenuta, del metodo mafioso di cui si avvalgono strumentalmente i sodali per la perpetrazione dei reati - fine vale, già di per sé, a qualificare come mafiosa un'associazione, anche preesistente" (così Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, cit.). L'interruzione dell'attività del gruppo criminale fu poi causata solo dall'arresto o dal fermo dei capi e di alcuni partecipi (Sc., Pe., Pe., Ab. e Ma.), avvenuti fra il 30 settembre e il 9 ottobre 2009, dopo che Po. era stato arrestato all'inizio di agosto, e ovviamente non era stata preventivata dagli imputati, che pure avevano ipotizzato azioni eclatanti dimostrative della forza dell'associazione con l'utilizzo dell'armamento a disposizione (armi da guerra e da fuoco, chili di esplosivo, una granata) al fine di rimarcare il proprio predominio criminale nella zona, come risulta dalle coerenti e precise dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, rilevanti per comprendere la effettiva natura del sodalizio. La difesa di Pe., sulla base di una lettura solo parziale di una conversazione intercettata il 2 agosto 2009, ha evidenziato che l'imputato si immaginava soltanto la possibilità di "formare un bel gruppo"; da essa, invece, con logica e incensurabile interpretazione, i giudici di merito hanno tratto ben diverse conclusioni: "Pe. afferma: "ci conoscono" con ciò dando ad intendere che il gruppo aveva acquisito una notorietà criminale tale da incutere notevole timore nei settori operativi di interesse e dal dissuadere le vittime a denunciare i misfatti, soggetti com'erano alle ritorsioni degli altri sodali dell'associazione, se il denunciato fosse stato tolto di mezzo perché arrestato; detta risultanza è indicativa dell'esteriorizzazione della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà derivatane. In secondo luogo Pe. fornisce la dimostrazione della continuità dell'associazione criminale e della persistenza del vincolo associativo, a prescindere dalle pause di operatività a cui fosse stato costretto il singolo associato tratto in arresto" (nota 35 a pag. 185 della sentenza impugnata). Altrettanto parziale è stata la lettura della deposizione resa in dibattimento da Me. là dove si è richiamata la sola circostanza, riferita dal teste, che Sc. si fosse raccomandato con lui di non consegnare alcuna somma di denaro a Pe., se questi gliela avesse chiesta: ciò avrebbe dimostrato che la persona offesa non poteva certo immaginare che i due facessero parte della stessa associazione. La Corte di appello, però, ha ricordato che Me. ha dichiarato che dalla primavera del 2009 Sc. cominciò ad accompagnarsi con Pe., presentatogli come "un suo nuovo socio in affari", facendogli capire che l'altro "era in affari con lui per estorcere denaro; la circostanza che Pe. i soldi non glieli avesse mai chiesti non dipendeva dal fatto che non avesse "titolo" per farlo (un titolo ovviamente contrario all'ordine pubblico per illiceità della causa), perché Me., se del caso, avrebbe dovuto semplicemente rispondere a Pe. che non aveva i soldi, non che non avesse l'autorità per pretenderli" (pag. 199). Il fatto che Sc. intendesse garantirsi anche profitti esclusivamente personali (come successo pure nella vicenda della estorsione in danno degli As.) non è di per sé incompatibile con la sussistenza del sodalizio mafioso. A fronte di elementi dimostrativi della forza di intimidazione del gruppo, specificamente indicati nella sentenza impugnata, è privo di rilievo il riferimento anche a elementi neutri, quali l'entità della violenza ovvero l'avere agito gli autori dei delitti a volto scoperto. La Corte territoriale, a proposito della condizione di assoggettamento e di omertà delle vittime, ha poi confermato "come la scelta di non denunciare non dipendesse dalla pochezza del torto ricevuto, ma dal notevole timore delle conseguenze a cui sarebbero andati incontro, convincimento viepiù desumibile dalle giustificazioni pretestuose rese da molte vittime sul perché non si fossero rivolte alle forze dell'ordine: Ri. precisava che la richiesta di intervento delle ff.oo. sarebbe stata una scelta che mal avrebbe influito sulla sua attività economica; Ce. minimizzava perché la vicenda si era limitata alla "rottura di un paio d'occhiali"; Ar. chiariva di essere persona che "desidera stare tranquilla" e di non volere seccature; Ri., pur avendo dichiarato di conoscere le potenzialità criminali dei suoi aguzzini, si giustificava affermando di sapere di essere "in difetto"; Me., il quale, di fronte alla minaccia di ricevere lo stesso trattamento del "Co.", si apprestò a saldare le sue pendenze, senza nemmeno pensare di rivolgersi alla polizia; Ca. dichiarava di aver pagato senza praticamente ricevere alcuna minaccia da parte di Sc. (e quando mai un soggetto si decide a farlo se non ha un debito verso il pretendente?); Da. perfino negava di essere stato anche solo colpito, circostanza risultante dalle dichiarazioni di buona parte degli odierni imputati a cui è contestato il delitto di cui al capo 21" (pag. 202). I ricorsi di Be., Pe. e Pe. sono sul punto reiterativi di doglianze già disattese con adeguate argomentazioni dalla Corte territoriale, che ha ben evidenziato le tipiche modalità mafiose con le quali agirono gli associati nei confronti delle vittime, quasi tutte piegatesi alle richieste estorsive. Ro., dopo avere subito un delicato intervento chirurgico, si decise a denunciare le minacce e violenze ricevute solo perché sottoposto a continue e pressanti richieste di denaro, proseguite incessantemente dopo l'episodio del 28 agosto 2009, mentre Me. non si rivolse alle forze dell'ordine, ma si limitò a rispondere a domande degli inquirenti che lo sentirono a sommarie informazioni testimoniali dopo le indicazioni ricevute da una fonte confidenziale. Il fatto che qualche persona offesa gestisse affari illeciti o potesse avere tratto vantaggio dai delitti commessi dagli associati non inficia affatto - ha logicamente affermato la sentenza impugnata - la valutazione sulla condizione di assoggettamento e omertà delle vittime, che in alcuni casi si rivolsero loro per recuperare crediti nei confronti di debitori insolventi o per ottenere la liberazione di un immobile di proprietà: ciò "non faceva che incrementare la pericolosità del gruppo e la sua forza di intimidazione perché l'esecuzione degli incarichi delittuosi (quali incendi ed aggressioni) su mandato dell'estorto costituisce un'arma di ricatto da parte dell'associazione, da usare nei confronti del mandante per richieste estorsive sempre maggiori". Emblematico il caso dell'aumento del "pizzo" mensile preteso dal gruppo dopo l'esecuzione di incendi, quando Me. comprese che, se non avesse pagato, avrebbe "fatto la stessa fine del Co.. Questa contiguità di interessi illeciti tra estorti ed estorsori finisce per rinsaldare il legame perverso tra persecutori e vittime, indotte ad assecondare le richieste estorsive, ben sapendo a cosa sarebbero andate incontro se avessero resistito ed essendo ormai prive della libertà morale di denunciare i soprusi" (pag. 205). Anche la isolata reazione di Pa., il quale, sfuggito all'agguato del 1 settembre 2009 (preparato dal gruppo, che intendeva recuperare un credito vantato da Eg.Te.), si scontrò duramente con Pe. in una conversazione telefonica, è stata dai giudici di merito collocata nel particolare contesto di uno scontro fra uno dei capi del sodalizio e un soggetto che voleva mantenere la fama di un "duro" dei quartieri spagnoli di Napoli. Numerose, infine, sono le conversazioni intercettate valorizzate nelle due sentenze di merito a conforto della valutazione sulla condizione di assoggettamento delle vittime e sulla omertà loro e degli stessi associati, come dimostrato - ha evidenziato la Corte di appello - anche dalla conversazione tra Ca. e la fidanzata quando il primo si disse sicuro che Po., arrestato il 5 agosto 2009 per la detenzione di una pistola mitragliatrice, non avrebbe parlato né fatto i nomi dei complici perché aveva "troppa paura" (pag. 208). In effetti Po. si avvalse della facoltà di non rispondere (pag. 58 della sentenza di primo grado). 5. Le aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. In relazione ai reati indicati nei capi attinti dai ricorsi sono state riconosciute le due circostanze aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa per le estorsioni e l'incendio e soltanto la seconda per i delitti in materia di armi. Va premesso che il primo comma dell'art. 416 - bis.1 cod. pen., secondo il quale la pena è aumentata da un terzo alla metà per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo "commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo", prevede indubbiamente due distinte circostanze aggravanti, erroneamente considerate, invece, dai giudici di merito quali una unica aggravante, rilevante sotto il profilo oggettivo e per quello finalistico. La precisazione è importante perché nel trattamento sanzionatorio il Tribunale ha considerato una unica circostanza, cosicché risultano privi di interesse i motivi di ricorso che censurano l'applicazione di una sola delle due aggravanti, quando contestate e applicate entrambe. Secondo giurisprudenza consolidata (di recente v. Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Arlotta, Rv. 282602), l'aggravante del metodo mafioso, in quanto riferita alle modalità di realizzazione dell'azione criminosa, ha natura oggettiva ed è valutabile a carico di tutti i concorrenti che siano stati a conoscenza dell'impiego del metodo mafioso ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa, alla luce di quanto disposto dall'art. 59, secondo comma, cod. pen. (per il medesimo principio affermato con riferimento alla circostanza aggravante di cui all'art. 416 - bis, sesto comma, cod. pen. v. Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259589). Le Sezioni Unite hanno statuito che, a differenza di quella del metodo mafioso, l'aggravante dell'agevolazione ha natura soggettiva e richiede la sussistenza del dolo specifico di agevolare l'organizzazione criminale di riferimento, finalità che però non presuppone necessariamente l'intento del consolidamento o rafforzamento del sodalizio criminoso; l'agente deve quindi deliberare l'attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa, fondando tale rappresentazione su elementi concreti, inerenti, in via principale, all'esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all'art. 416 - bis cod. pen. e all'effettiva possibilità che l'azione illecita si inscriva tra le possibili utilità ricavabili da tale compagine, anche se non essenziali, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell'associazione (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734). Entrambe le circostanze sono configurabili anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti all'associazione mafiosa, come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D'Ambrosca, Rv. 274280; Sez. 2, n. 20935 del 07/04/2017, Ariostini, Rv. 269642; Sez. 6, n. 9956 del 17/06/2016, dep. 2017, Accurso, Rv. 269717; Sez. 1, n. 3137 del 19/12/2014, dep. 2015, Terracchio, Rv. 262486). Sono infondati, evidentemente, i motivi con i quali è stata contestata la ritenuta sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa laddove proposti sulla base della inesistenza del sodalizio mafioso. In ordine a quella del metodo mafioso, riservata all'esame dei motivi riguardanti il punto la valutazione specifica delle singole censure, può sin d'ora essere ricordato il principio secondo il quale detta aggravante è configurabile quando si ponga in essere un comportamento minaccioso tale da richiamare alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio mafioso e da esercitare sulle vittime del reato una particolare coartazione psicologica (v. Sez. 5, n. 14867 del 26/01/2021, Marciano, Rv. 281027; Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, Marando, Rv. 273190; Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271102; Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900). In generale, la motivazione della sentenza impugnata è stata dettagliata là dove ha evidenziato le plurime circostanze che consentono di ricondurre le modalità delle azioni del sodalizio a un protocollo operativo tipico delle organizzazioni mafiose, "circostanze idonee ad esercitare quella maggiore incisività che la condotta intimidatoria, posta in essere con metodo mafioso, ha nei confronti della libera determinazione della vittima" (pag. 215). 6. Ricorso Am.. L'imputato è stato condannato per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3. 6.1. Senza alcun fondamento il ricorrente ha denunciato la mancanza e illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità. Nelle ampie argomentazioni della sentenza impugnata (pagg. 215 - 220) non sono riscontrabili i suddetti vizi. Per contro, il ricorso in larga parte non si è confrontato con la motivazione, risultando generico: va ribadito che sono inammissibili i motivi che riproducono le censure dedotte in appello e che contestino, in termini meramente assertivi e apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (v., ad es., Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521; Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, Cipolletta, Rv. 281112; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Ro., Rv. 276970; Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710). La difesa non ha censurato la valutazione della Corte di appello sull'attendibilità di Sc., le cui dichiarazioni sono state particolarmente puntuali anche in ordine al ruolo svolto da Am. nella cessione della mitraglietta (capo 1) e nella detenzione dell'esplosivo (capi 2 e 3), ma ha sostenuto che le stesse non sarebbero riscontrate (per il primo episodio) ovvero lo sarebbero apparentemente (per gli altri due), stante la circolarità del riscontro costituito dalle dichiarazioni di Pe.. Il ricorrente, però, ha del tutto obliterato i diversi riscontri specificamente indicati nella sentenza impugnata, costituiti dalle risultanze delle intercettazioni e dei tabulati telefonici, che hanno confermato pienamente l'attendibilità delle dichiarazioni auto - accusatorie ed etero - accusatorie del collaboratore, secondo la puntuale valutazione dei giudici di merito. La sentenza non ha considerato espressamente le dichiarazioni spontanee rese in appello dal coimputato Ca., ma le ha implicitamente ritenute ininfluenti, come si evince dalla complessiva struttura argomentativa della motivazione (sul punto v. quanto detto sub par. 1.1.). Peraltro, le dichiarazioni rese tardivamente da un soggetto sottrattosi all'esame in contraddittorio non sono idonee a svalutare ed alterare il quadro probatorio complessivamente considerato e, in particolare, l'efficacia probatoria di una chiamata in correità purché sorretta - come nel caso di specie - da ampi e pregnanti riscontri (v. Sez. 2, n. 30653 del 24/09/2020, Capasso, Rv. 279911 nonché Sez. 1, n. 25239 del 20/05/2001, Mitici, Rv. 219432). 6.2. Il motivo inerente alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa non era stato proposto in appello e quindi non era consentito, come osservato in precedenza (sub par. 1.5.). 6.3. Il ricorso, pertanto, è inammissibile. La inammissibilità della impugnazione si estende ai motivi nuovi, ai sensi dell'art. 585, comma 4, del codice di rito. 7. Ricorso Be.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40), per l'estorsione consumata in danno di Ezio As. e di Ed.As., gestori del locale "Babaloo" e di molti altri (capo 19) e per le tentate estorsioni nei confronti di Ma.Pa. (capo 20) e di Gi.Ne. (capo 22). 7.1. Della infondatezza del motivo inerente alla mafiosità dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 4.). 7.2. Il motivo inerente all'applicazione della circostanza aggravante del metodo mafioso per le tre estorsioni è assai generico, a fronte delle specifiche argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (pagg. 227 - 229). Inoltre, la erronea applicazione dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa è stata sostenuta solo sul rilievo (infondato) della insussistenza del reato ex art. 416 - bis cod. pen., cosicché - come si è detto (sub par. 5.) - anche l'esclusione del metodo mafioso non avrebbe avuto alcun effetto concreto. 7.3. Il ricorso, pertanto, va rigettato. 8. Ricorso Ca.. L'imputato è stato condannato per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo, contestati ai capi 1, 2 e 3. Con un unico motivo la difesa ha lamentato la mancata determinazione della pena nel minimo edittale. Il ricorso è palesemente inammissibile per la estrema genericità del motivo, nel quale sono state del tutto obliterate le argomentazioni della Corte di appello (pag. 235) a sostegno della correttezza della pena inflitta a Ca. dal primo giudice, peraltro determinata, quanto alla pena base per il reato ex art. 4 della legge n. 895 del 1967 (capo 3), in misura ampiamente inferiore al medio edittale, prima dell'aumento minimo di un terzo per l'aggravante dell'agevolazione mafiosa e di un solo mese di reclusione per la circostanza ex art. 112 cod. pen.. 9. Ricorso Ca.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, per reati in materia di armi e di stupefacenti, per una serie di estorsioni (consumate o tentate) e per violazione di domicilio. I motivi di ricorso non riguardano l'affermazione di responsabilità. 9.1. È del tutto generica la prima censura, inerente al mancato riconoscimento della circostanza attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen., poiché ha omesso di confrontarsi con le argomentazioni in ragione delle quali la Corte d'appello ha disatteso il motivo di gravame (pag. 236), considerata la irrilevanza, ai fini di cui si tratta, della collaborazione offerta in altro procedimento e delle dichiarazioni rese nel presente processo a distanza di sei anni dai fatti, "nel momento in cui era in corso l'audizione dei testi a discarico, quando ormai il quadro probatorio a suo carico era ampiamente delineato". La Corte di merito, infatti, si è attenuta ai principi affermati dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale per un verso l'esame del giudice sulla ricorrenza dei presupposti della speciale attenuante della dissociazione non può che essere limitato a quanto riferito dall'imputato nel singolo procedimento in ordine ai reati oggetto dello stesso (di recente v. Sez. 2, n. 46385 del 15/10/2021, Zizzo, Rv. 282439) e per altro verso l'applicazione della suddetta circostanza richiede una concreta e fattiva attività di collaborazione dell'imputato, volta a evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti (cfr., ad es., Sez. 1, n. 52513 del 14/06/2018, L., Rv. 274190 nonché Sez. n. 48646 del 19/06/2015, Marti, Rv. 265851). 9.2. Anche il secondo motivo è del tutto generico, essendosi lamentato un inesistente difetto di motivazione sull'aumento per la continuazione "in relazione al reato satellite" (senza alcuna specificazione, pur in presenza di una condanna per quattordici reati), a fronte di una specifica motivazione presente nella sentenza impugnata (pag. 237). 9.3. La richiesta di applicazione della disciplina della continuazione esterna, respinta dalla Corte territoriale per il dato formale della carenza di prova sulla irrevocabilità della sentenza che ha definito l'altro processo, era in radice inammissibile perché proposta solo nel corso del giudizio di appello e non con i motivi di gravame. Infatti, la richiesta di applicazione della continuazione criminosa in relazione a un reato oggetto di sentenza di condanna è ammissibile, con la presentazione dei motivi nuovi di appello, solo qualora la stessa sia divenuta irrevocabile dopo la scadenza del termine per proporre impugnazione (Sez. 2, n. 7132 del 11/01/2024, D'Antoni, Rv. 285991; Sez. 1, n. 6348 del 14/10/2022, dep. 2023, Cantone, Rv. 284409; Sez. 2, n. 33098 del 01/07/2021, De Mitri, Rv. 281915; Sez. 2, n. 37379 del 18/11/2020, Arcadu, Rv. 280424). Nel caso di specie la sentenza della Corte di appello di Ancona in relazione alla quale è stata richiesta la continuazione esterna è divenuta irrevocabile il 17 aprile 2018, ancor prima del deposito della motivazione della sentenza del Tribunale di Macerata. Pertanto, il ricorrente avrebbe potuto e dovuto avanzare la richiesta con l'atto di appello. A Ca. non sarà comunque precluso chiedere in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 671 del codice di rito, l'applicazione della disciplina del reato continuato, in quanto in sede di cognizione la continuazione non è stata riconosciuta solo per un motivo formale (la mancata dimostrazione della irrevocabilità della pronuncia della suddetta sentenza). 9.4. Il motivo relativo all'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata non era stato proposto in appello e quindi non era consentito, come osservato in precedenza (sub par. 1.5.). 9.5. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 10. Ricorso Fo.. L'imputato è stato condannato per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6. Il ricorso denuncia "omessa, contraddittoria e illogica valutazione degli elementi di riscontro alla chiamata in correità" e "travisamento dei fatti per errata valutazione delle prove", disvelando così la natura delle censure proposte, volte a ottenere una inammissibile diversa valutazione delle prove, ed evocando solo formalmente un vizio della motivazione, peraltro indicato cumulativamente, in contrasto con i principi enunciati nella parte generale (sub par. 1.2. e 1.3.). La sentenza impugnata, con ampie argomentazioni (pagg. 238 - 245), conformi a quelle del primo giudice, ha evidenziato gli elementi di riscontro alle dichiarazioni di Sc., estremamente precise, in relazione alla cessione della mitraglietta avvenuta il 2 maggio 2009, giorno in cui effettivamente il collaboratore fu avvistato insieme a Pe., come riferito dall'ispettore Di Clemente. Le risultanze dei tabulati telefonici, sulle quali ha riferito in dibattimento l'ispettrice Ma., sono state esaminate analiticamente dai giudici di merito, che hanno ben spiegato le ragioni per le quali si è accertato che anche Fo., chiamato in correità da Sc., si trovasse quel giorno in zone compatibili con gli incontri descritti dal collaboratore, avvenuti prima a Moie e poi a Civitanova. Il ricorrente ha lamentato la mancata acquisizione agli atti di copia dei tabulati dei quali ha riferito l'ispettrice (la cui relazione è stata prodotta), ma non risulta - né la difesa lo ha dedotto - che le parti ne abbiano chiesto la produzione. Inoltre, il ricorso riporta una lunghissima serie di dati (interlocutori, celle, orari) dai quali si evince che detti tabulati sono stati nella disponibilità delle parti. Anche in quésto caso si è proposta una rilettura delle risultanze dei tabulati, in assenza di travisamenti del dato probatorio, così come per una conversazione tra Ca. e Pe., intercettata il 2 agosto 2009, ritenuta dai giudici di merito un altro fondamentale riscontro individualizzante a carico di Fo. là dove gli interlocutori parlano di un viaggio fatto a Moie per un affare concluso con "dei siciliani", nel corso della quale vengono fatti anche i nomi di battesimo di Fo. (Sa.) e di Ar. (Ro.), quest'ultimo non ricorrente contro la sentenza di appello che ne ha confermato la condanna. La deduzione difensiva secondo la quale l'interpretazione della conversazione "non è la sola logicamente resistente a critiche", essendovene un'altra "opposta e altrettanto solida", contrasta con i principi enunciati sub par. 2. La motivazione della sentenza impugnata è incensurabile anche là dove evidenzia che il primo giudice ha creduto alla versione di Sc. sulla cocaina come parziale contropartita della vendita della mitraglietta,, ma ha ritenuto di assolvere Fo., Sa. e Ar. in mancanza di un riscontro specifico sulla detenzione della droga, contestata al capo 7, osservando anche che comunque si sarebbe trattato di uso personale o di consumo di gruppo (pag. 85 della sentenza di primo grado). La Corte di appello ha ribadito che è "del tutto credibile la versione di Sc. sull'incontro, sollecitato dai venditori, avvenuto nella serata del 2.05.2009, a causa della cattiva qualità della merce (cocaina) ricevuta in pagamento per la mitraglietta" (pag. 239) e ha correttamente osservato che l'assoluzione dei tre imputati per il reato ex art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 non pregiudica in alcun modo l'affermazione di responsabilità per la cessione dell'arma, in presenza di un solido quadro probatorio. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 11. Ricorso Gi.. L'imputato è stato condannato per il concorso nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa., contestato al capo 20. 11.1. È del tutto generica la censura proposta in ordine alla valutazione, da parte dei giudici di merito, dell'attendibilità della chiamata in correità proveniente da Ga.Ab., che sarebbe "costellata di numerose inesattezze e destituita di ogni fondamento fattuale, come emerso dalle numerose contraddizioni che hanno contraddistinto la deposizione del medesimo collaboratore di giustizia". Nel ricorso, infatti, non vi è neppure alcuna indicazione delle presunte contraddizioni. La sentenza impugnata ha poi ricordato i precisi riscontri costituiti dall'attività di osservazione del personale della Polizia di Stato, svolta il 1 settembre 2009, che consentì di riconoscere con certezza in Gi. il conducente dell'autovettura, già dallo stesso utilizzata in passato, fermatasi in un autogrill lungo l'autostrada A14, dopo il casello di Civitanova Marche, prima di proseguire per Fano ove avvenne l'agguato al quale Pa. riuscì a sottrarsi; anche in occasione della fuga alla guida dell'Audi 80, che ripartì a forte velocità e a fari spenti, fu visto Gi.. A fronte della precisa ricostruzione del fatto (pagg. 246 - 248) il ricorrente ha proposto censure generiche e di merito. 11.2. È inammissibile il secondo motivo di ricorso con cui si è dedotta la insussistenza del dolo in capo all'imputato, che sarebbe stato del tutto all'oscuro della condotta che gli altri avrebbero tenuto e dell'ingiusto profitto perseguito. Il motivo non era stato proposto in appello, nel quale si erano solo contestate la partecipazione dell'imputato all'evento e comunque l'assenza di un suo apporto causale. La Corte di appello, non investita sul punto dal gravame, non ha trattato il profilo del dolo, che non può essere introdotto per la prima volta in questa sede, come si è visto (sub par. 1.5.). In particolare, nel giudizio di legittimità non può essere contestata la carenza dell'elemento psicologico qualora in appello sia stata dedotta la insussistenza della condotta sotto il profilo oggettivo e viceversa (v. Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, Menna, Rv. 266202 nonché, da ultimo, Sez. 3, n. 15116 del 28/03/2024, Iannacone, non mass.). 11.3. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 12. Ricorso Li.. L'imputata è stata condannata per il concorso nel reato di incendio dello stabilimento balneare "Co.", contestato al capo 27. I due motivi possono essere congiuntamente esaminati, premesso che il ricorso, pur deducendo in rubrica la insussistenza delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen., censura poi la motivazione (peraltro con una generica denuncia del vizio) anche là dove è stata riconosciuta la responsabilità concorsuale dell'imputata per l'incendio. Non sussiste la denunciata violazione di legge, in relazione al disposto dell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen., avuto riguardo alla deposizione del teste Bu., che ha riferito di avere ricevuto da un ragazzo, poi allontanatosi, un biglietto con l'indicazione del numero di targa dell'autovettura a bordo della quale erano fuggite quattro persone subito dopo aver appiccato il fuoco. Secondo la giurisprudenza di legittimità di gran lunga prevalente, condivisa dal Collegio, il divieto di utilizzazione di cui all'art. 195, comma 7, cod. proc. pen. non opera allorquando il teste indiretto non sia in grado di indicare, al di là del solo nome di battesimo, la persona da cui abbia appreso la notizia dei fatti illeciti, giacché tale indicazione non va intesa come informazione completa sui dati anagrafici e sull'indirizzo della fonte, bensì come dato oggettivo in forza del quale risulti indubitabile la sua reale esistenza quale soggetto costituente fonte originaria e diretta della notizia (Sez. 6, n. 12982 del 2:0/02/2020, L., Rv. 279259; Sez. 5, n. 29177 del 15/02/2016, De Blasi, Rv. 267698; Sez. 2, n. 13927 del 04/03/2015, Amaddio, Rv. 264015; Sez. 6, n. 37370 del 14/05/2014, Romeo, Rv. 260251; Sez. 1, n. 32963 del 11/05/2010, Guerrisi, Rv. 248235). È priva di ogni fondamento la deduzione secondo la quale, poiché il testimone oculare ha riferito che si era trattato di quattro "giovani", si dovrebbe escludere la presenza di una persona di sesso femminile. L'autovettura, peraltro, era di proprietà della Li. e la sentenza dà anche atto della sua individuazione da parte di una pattuglia di Carabinieri mentre viaggiava verso nord, in orario perfettamente compatibile con il tragitto percorso dal luogo dell'incendio (Porto San Giorgio) e anche con l'abitazione dell'imputata e di Po.: si tratta di rilevanti elementi di riscontro alla chiamata in correità di Sc. richiamati con specifiche argomentazioni dalla Corte d'appello (pagg. 252 - 254), in larga parte obliterate dalla ricorrente. L'incendio dello stabilimento balneare - hanno evidenziato i giudici di merito - è stata espressione del tipico metodo mafioso; peraltro, la sussistenza dell'aggravante, sotto questo profilo, è stata contestata nel ricorso solo sul presupposto della estraneità dell'imputata all'episodio contestato. Senza fondamento, infine, la difesa ha sostenuto che l'aggravante dell'agevolazione mafiosa sarebbe stata riconosciuta in quanto l'imputata era la compagna di Po., avendo i giudici di merito evidenziato, invece, che dopo l'arresto di quest'ultimo ella tenne contatti con alcuni appartenenti al gruppo e avrebbe dovuto fungere da intermediaria per il recupero dell'esplosivo, rinvenuto dalla Polizia proprio grazie alla sua conversazione in carcere con il fidanzato intercettata in data 11 agosto 2009. Si è poi detto (sub par. 5.) che l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun rilievo. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 13. Ricorso Ma.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40) e per il concorso nella detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 2), nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20), nelle estorsioni consumate in danno degli impresari locali En.Ge. e @32.Gi.Ri. (capo 25) e del commerciante Gi.Ro. (capo 33). 13.1. Sono prive di fondamento le deduzioni proposte in via preliminare nel ricorso. La sentenza impugnata ha escluso la necessità di disporre la perizia sull'esplosivo ritenendo già acquisita una prova certa della consistenza esplosiva di quanto rinvenuto, ricavata sulla base di molteplici elementi, specificamente indicati (pagg. 168 - 170), obliterati nel ricorso, ciò anche a prescindere dal rilievo, anch'esso ignorato dalla difesa, secondo il quale "il materiale sequestrato aveva una precisa data di scadenza, ampiamente decorsa", per cui la perizia non avrebbe apportato alcun risultato utile. È manifestamente infondata la censura in ordine alla revoca dell'ammissione di alcune testimonianze, ritenute superflue, disposta dal primo giudice, che sul punto aveva reso un'ampia motivazione a sostegno della decisione adottata (pagg. 26-29), confermata e rafforzata da quella della Corte di appello (pagg. 160-165), la quale ha evidenziato il pieno rispetto dei diritti delle difese, che hanno potuto esaminare sessantacinque testimoni indicati nelle proprie liste nel corso di quattordici udienze. Il Tribunale non aveva affatto ritenuto "assolutamente indispensabili" tutti i testimoni indicati da Ma., Pe. e Pe., ma ne aveva disposto l'esame, non ritenendo, in sede di ammissione delle prove, che queste fossero manifestamente superflue o irrilevanti (art. 190, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dall'art. 495, comma 1, dello stesso codice). Ad esito dell'esame dei numerosissimi testi indicati dalle parti il Collegio ha revocato l'ammissione di alcune testimonianze, ai sensi dell'art. 495, comma 4, cod. proc. pen., con ordinanza adeguatamente motivata assunta in contraddittorio. La stessa censura è anche generica perché il ricorrente non ha indicato i nomi dei testimoni ritenuti decisivi e neppure il motivo per il quale sarebbe stato ancora rilevante assumere la loro deposizione. È del tutto generica, poi, la deduzione secondo la quale sarebbe stato assolutamente necessario "trascrivere alcune intercettazioni telefoniche". Peraltro, in tema di intercettazioni, non è necessaria la trascrizione delle registrazioni nelle forme della perizia: in primo luogo, la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta; in secondo luogo, l'art. 271, comma 1, cod. proc. pen. non richiama la previsione dell'art. 268, comma 7, cod. proc. pen. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l'inutilizzabilità; infine, la mancata trascrizione non è espressamente prevista né come causa di nullità né è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall'art. 178 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 2507 del 28/10/2021, dep. 2022, Schiariti, Rv. 282696; Sez. 5, n. 12737 del 17/02/2020, Rv. 278863; Sez. 1 n. 41632 del 03/05/2019, Chan, Rv. 277139; Sez. 6, n. 25806 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259675; Sez. 2, n. 13463 del 26/02/2013, Lagano, Rv. 254910; da ultimo cfr. Sez. 1, n. 10907 del 17/01/2024, Lacalaprice, non mass.). 13.2. Il ricorrente non ha proposto un motivo relativamente all'affermazione di responsabilità per la partecipazione all'associazione mafiosa, ma ha censurato la doppia conforme di condanna per i quattro reati - fine; tuttavia, per un verso ha denunciato l'inosservanza dell'art. 192 cod. proc. pen. come violazione di legge e per altro verso ha sollecitato una rilettura delle prove, in contrasto con i principi ricordati nella parte generale sub par. 1.2. e 1.3., circostanze che rendono il motivo inammissibile. In ogni caso, i motivi proposti involgono tutti il merito, proponendo una diversa ricostruzione dei fatti, alternativa a quella conforme dei giudici di merito, e sono anche reiterativi di censure già vagliate e disattese dalla Corte territoriale (pagg. 256 - 258) con motivazione immune da vizi, neppure indicati dal ricorrente. Con deduzioni svolte nella parte finale del ricorso, ma non oggetto di uno specifico motivo, la difesa ha contestato l'attendibilità delle dichiarazioni di Sc. e di Ab., in ordine alla quale si richiama quanto osservato in precedenza sub par. 3. Quanto alla prima parte di esplosivo consegnata da Am. e Ca. a Pe. e a Sc., la chiamata in correità di quest'ultimo nei confronti di Ma., incaricato insieme a Pe. di trovare un nascondiglio sicuro dopo che la seconda tranche era stata sequestrata nell'abitazione di Po. il 12 agosto 2009, è stata riscontrata da una conversazione intercettata in carcere tra gli stessi Ma. e Pe., nella quale - ha evidenziato la sentenza impugnata - il riferimento criptico alle "salsicce" alludeva all'esplosivo, confezionato proprio in tale forma, nella comune e condivisa consapevolezza della sua esistenza e del suo occultamento. La Corte di appello ha poi motivato anche sulla inattendibilità manifesta delle versioni rese dagli stessi due imputati. 13.3. In ordine alla tentata estorsione di cui al capo 20, la difesa ha riproposto una tesi, peraltro tutta in fatto, ritenuta infondata nella sentenza impugnata: "non risponde alle risultanze istruttorie l'assunto secondo cui Ma. sarebbe rimasto fermo, all'interno della propria autovettura; piuttosto, nel momento in cui Pa. sfuggiva alla presa del Pe., anche Ma. fuoriusciva dall'auto cercando di dare manforte al Pe., salvo poi desistere entrambi dall'inseguimento una volta resisi conto che Pa. si era rifugiato all'interno dell'Intralotto chiedendo aiuto al gestore del bar. Ed è evidente il notevole contributo fornito dal Ma. anche perché, oltre ad essersi posto alla guida della BMW, aveva parcheggiato l'auto "di muso" per uria pronta ripartenza ed aveva fatto da "esca" per Pa., distraendolo per consentire al Pe. di prenderlo di sorpresa. Fungendo da "esca", colloquiando con Pa. per distrarlo in modo tale che Pe. potesse catturarlo, il contributo è particolarmente rilevante anche sul piano morale, per l'intensità del dolo che la complessiva condotta rivela" (pag. 257). 13.4. La formulazione della doglianza inerente alla estorsione contestata al capo 25 ("l'istruttoria dibattimentale ed in particolare gli esiti delle attività tecniche hanno tuttavia mostrato fatti diversi da quelli sostenuti dall'accusa") rende palese la radicale inammissibilità del motivo. Peraltro, i giudici di merito hanno richiamato come riscontri esterni alle dichiarazioni accusatorie di Sc. varie conversazioni intercettate dalle quali risulta che Ma. era ben a conoscenza del motivo della "spedizione punitiva" nei confronti di Ce. e Ri. (il ritardo nei pagamenti di crediti illecitamente pretesi), concordata con Ca. e Pe. per il giorno 15 settembre 2019, e che ciascuno dei tre, successivamente, "vantava la propria attiva partecipazione nel pestaggio delle vittime" (pag. 258). 13.5. Quanto alla estorsione in danno di Ro. (capo 33), il ricorso, in palese contrasto con la ricostruzione dei giudici di merito, effettuata sulla scorta delle concordi dichiarazioni della persona offesa e dei due collaboratori di giustizia, cerca di sminuire il ruolo di Ma. a quello di semplice autista di una delle due autovetture che si recarono a casa di Ro. per riscuotere il denaro, quando invece è pacifico che egli fu presente anche all'aggressione avvenuta in precedenza a Civitanova, facendo parte del numeroso gruppo organizzato per l'agguato del 28 agosto 2009. In violazione del principio di autosufficienza, il ricorrente ha solo trascritto un estratto dell'esame dibattimentale di Ab., obliterando, ad esempio, che quest'ultimo ha dichiarato che Ma. e Pe., diretti a casa di Ro. dopo l'aggressione, "dovevano fungere da supporto; qualora avessero incontrato una pattuglia o un posto di blocco, loro avrebbero dovuto cercare di farsi fermare ed evitare che venisse bloccata la Mercedes sulla quale viaggiavano Ab. e Sc., assieme a Ro.", che durante il tragitto era stato minacciato di morte da Sc. (pag. 299 della sentenza di primo grado). 13.6. La incensurabile ricostruzione dei tre episodi estorsivi da parte dei giudici di merito rende evidente l'infondatezza della doglianza circa il mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall'art. 114 cod. pen., configurabile solo quando l'apporto del concorrente abbia assunto una importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso (Sez. 4, n. 35950 del 25/11/2020, Indelicato, Rv. 280081; Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, dep. 2016, Barbato, Rv. 266461; Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, Caradonna, Rv. 264455; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, Di Domenico, Rv. 256035; Sez. 2, n. 9743 del 22/11/2012, dep. 2013, Cannavacciuolo, Rv. 255356). 13.7. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. nonostante un legittimo impedimento dell'imputato o del difensore, non determina una nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. qualora in quella udienza non sia stata svolta alcuna attività processuale (Sez. 6, n. 33261 del 03/06/2016, Lombardo, Rv. 267670; Sez. 1, n. 479 del 17/11/2015, dep. 2016, Iero, Rv. 265854; Sez. 3, n. 30466 del 13/05/2015, Calvaruso, Rv. 264158; Sez. 5, n. 8365 del 26/09/2013, dep. 2014, Piscioneri, Rv. 259033; da ultimo v. Sez. 4, n. 35287 del 15/06/2023, Micera, non mass.). Anche in ordine all'omesso rinvio dell'udienza del 6 giugno 2016 per legittimo impedimento del difensore la decisione del Tribunale, condivisa dalla Corte di appello, risulta incensurabile, alla luce del principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, nel caso di istanza di rinvio del difensore per impedimento professionale, a questi già noto all'atto dell'accettazione della nomina finalizzata all'espletamento dell'incarico in relazione al quale si richiede il rinvio, non può ritenersi operante la disposizione dell'art. 420 - ter, comma 5, cod. proc. pen., perché tale norma, per come è formulata, intende dare rilevanza e apprestare tutela solo agli impedimenti che sopravvengono all'atto di nomina e all'accettazione del mandato difensivo (Sez. 3, n. 38193 del 27/04/2017, U., Rv. 270951; Sez. 5, n. 41000 del 23/05/2014, Eleuteri, Rv. 261252; Sez. 2, n. 25754 del 11/06/2008, Staibano, Rv. 241457; Sez. 5, n. 174 del 10/11/2005, dep. 2006, Bonini, Rv. 23387; più di recente v. Sez. 3, n. 13259 del 27/01/2019, Todorovic, non mass.). 15.2. È priva di ogni fondamento la doglianza inerente alle dichiarazioni spontanee dell'imputato, che intendeva parlare ancor prima di rispondere se intendesse o meno sottoporsi all'esame, esame che comunque iniziò in quella stessa udienza, dopo quello di alcuni coimputati (v. pagg. 15 - 16 sentenza di primo grado). Non si verificò, dunque, alcuna lesione del diritto di difesa, in quanto Pe. fu nelle condizioni di rendere (anche) spontanee dichiarazioni in qualsiasi momento. 15.3. É altrettanto infondata la deduzione difensiva in ordine alla mancata ammissione del rito abbreviato condizionato. La Corte ha correttamente osservato che la richiesta risultava allegata solo alla prima lista testimoniale depositata e non era di agevole individuazione; in ogni caso essa andava riproposta in udienza dall'imputato personalmente o dal difensore munito di procura speciale, nel contraddittorio delle parti, prima dell'apertura del dibattimento. Risulta pure condivisibile il riferimento alla manifesta incompatibilità della escussione di quaranta testimoni "con le finalità di economia processuale proprie del procedimento" (art. 438, comma 5, cod. proc. pen., nella formulazione all'epoca vigente), considerato anche che la prova sollecitata dall'imputato con la gli ulteriori atti di disposizione necessari per ottenere la realizzazione della pretesa nella sua integralità (Sez. 2, n. 6569 del 10/11/2020, dep. 2021, Raffone, Rv. 280655). L'estorsione fu consumata, risultando la condotta di Ol. di quel giorno inserita nel contesto complessivo, non potendosi avere riguardo, dunque, solo alle sue richieste personali. Per questa ragione è privo di fondamento il motivo inteso a ottenere la riqualificazione giuridica del fatto nella ipotesi tentata, peraltro anch'esso proposto per la prima volta con il ricorso. 14.2. Neppure i motivi concernenti la sussistenza delle circostanze aggravanti ex artt. 416 - bis.1 e 628, terzo comma, n. 3 cod. pen. erano stati proposti in appello. In questo caso si è al di fuori della qualificazione giuridica del fatto propriamente intesa, cosicché si tratta di motivi non consentiti in questa sede (v. sub par. 1.5.). 14.3. In appello, invece, era stato proposto un motivo inerente alla dosimetria della pena, formulato, però, in termini del tutto generici ("era indispensabile una rivalutazione della dosimetria della pena"), considerato anche che il primo giudice (pag. 403) aveva determinato, quanto a quella detentiva, nel minimo la pena base per il più grave reato sub 33, in un mese di reclusione l'aumento per l'aggravante ex art. 112 cod. pen. e in tre mesi l'aumento per la continuazione con il reato sub 38, previa la non applicazione della recidiva e in assenza di aumento per la seconda aggravante a effetto speciale. Il motivo, dunque, era inammissibile per genericità, cosicché l'omessa risposta della sentenza impugnata resta priva di rilievo. 14.4. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 15. Ricorso Pe.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale promotore e organizzatore (capo 40), per i reati in materia di armi (capi 1, 2, 3, 9 e 11) nonché per estorsione consumata o tentata (capi 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 32, 33, 35, 38), incendio (capo 27) e violazione di domicilio (capo 31). Per i delitti di cui ai capi 19, 26, 28, 31 e 32 non è stato proposto uno specifico motivo di ricorso. Con i primi sei motivi sono state proposte eccezioni processuali. 15.1. In ordine all'omesso rinvio dell'udienza del 29 settembre 2014 in presenza di un legittimo impedimento dell'imputato risulta dirimente il rilievo che in detta udienza non venne svolta alcuna attività processuale (data l'ora tarda, poiché il Tribunale aveva disposto una visita fiscale), non essendosi così prodotta alcuna lesione al diritto di difesa, come osservato dalla Corte di appello. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'omesso rinvio dell'udienza. 14. Ricorso Ol.. L'imputato è stato condannato per le estorsioni in danno di Gi.Ro., contestate ai capi 33 e 38. 14.1. È manifestamente infondato (e non consentito là dove presuppone una diversa ricostruzione del fatto) il motivo riguardante il concorso di Ol. nella estorsione consumata il 28 agosto 2009. La Corte di appello ha logicamente osservato che "poco importa che nello sviluppo temporale della vicenda del giardino pubblico di Civitanova Marche Ol. fosse comparso alla fine, dopo che Ro. era già stato più che abbondantemente "pressato"; Ol., sfruttando la condotta intimidatrice già espressa dagli altri, facendosi "forte" di quella condotta accerchiatrice, dopo avergli precisato che non doveva avere più nulla a pretendere, aveva personalmente intimato a Ro. di non azzardarsi ad incassare gli assegni in sospeso, che avrebbe dovuto richiamare uno dei titoli ricevuti da Ol. che già era stato portato in banca da Ro. (cfr. pure pagg. 58 - 59 fono - registrazione ud. 24.04.2012 e pag. 295 sentenza gravata) e che non gli avrebbe più pagato nemmeno l'Audi Cabrio". L'imputato, dunque, apportò "il proprio personale contributo nella coartazione della volontà della p.o. Ro., rincarando la "dose" delle pretese economiche oggetto delle richieste estorsive, facendogli presente che non avrebbe pagato nemmeno l'Audi, intendendo così trarre notevole profitto economico dalla condotta estorsiva, dell'ordine di decine di migliaia di Euro" (pagg. 259 - 260). Il ricorrente ha nella sostanza obliterato le argomentazioni della sentenza impugnata, riproponendo senza fondamento la tesi della mancanza di un contributo concorsuale e deducendo per la prima volta in sede di legittimità che le condotte contestate ai capi 33 e 38 dovrebbero essere sussunte in un unico reato. Il motivo, pur riguardando in senso lato la qualificazione giuridica del fatto, non può essere scrutinato in quanto richiederebbe accertamenti in fatto (v. sub par. 1.5.), non risultando dall'imputazione né dalla ricostruzione dei giudici di merito se le molteplici richieste intimidatorie di cui al capo 38 fossero semplicemente reiterative, quanto all'oggetto della illecita pretesa, di quelle fatte a Ro. in occasione dell'aggressione del 28 agosto 2009, cui seguì, quella sera stessa, la consegna di due assegni dell'importo di 12.500 Euro ciascuno e dell'autovettura Mercedes intestata alla moglie. Infatti, può dirsi integrato un unico delitto di estorsione solo nel caso in cui l'agente, dopo la realizzazione parziale dell'illecito profitto, ponga in essere nuove violenze o minacce allo scopo di costringere la persona offesa a eseguire richiesta di giudizio abbreviato condizionato deve essere integrativa e non sostitutiva rispetto al materiale già raccolto e può considerarsi "necessaria" solo quando risulti indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico - valutativo per la deliberazione (Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229175; Sez. 1, n. 10016 del 13/07/2018, dep. 2019, Maxim, Rv. 274920; Sez. 4, n. 39492 del 18/06/2013, A., Rv. 256833). La difesa, poi, ha evocato il criterio integrativo costituito dalle indicazioni sopravvenute all'assunzione delle prove, richiamandolo solo genericamente senza alcuno specifico riferimento al caso di cui si tratta. 15.4. È manifestamente infondato anche il motivo riguardante la mancata assunzione di prove decisive. In ordine alla revoca dei testi, alla trascrizione delle intercettazioni e alla perizia sull'esplosivo si richiama quanto osservato in precedenza, trattando del ricorso di Ma. (sub par. 13.1.). Quanto all'omesso confronto fra i due collaboratori di giustizia e Pe., correttamente la Corte di appello ha ricordato che il mezzo di prova del confronto non costituisce adempimento imposto obbligatoriamente, atteso che, a fronte della insanabile divergenza tra le contrastanti versioni fornite dai dichiaranti, spetta al giudice apprezzare, secondo il proprio libero convincimento, il grado di attendibilità dell'una piuttosto che dell'altra dichiarazione (Sez. 6, n. 37691 del 16/08/2022, B., Rv. 283935; Sez. 6, n. 20269 del 20/04/2016, S., Rv. 266747; Sez. 1, n. 40290 del 26/06/2013, Giannizzari, Rv. 257247). La difesa, poi, ha lamentato la mancata acquisizione per estratto dei registri tenuti dai direttori delle carceri ove erano detenuti i due collaboratori di giustizia, ai sensi dell'art. 16 - sexies, comma 2, del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82), secondo il quale "il giudice, a richiesta di parte, dispone altresì l'acquisizione di copia per estratto del registro tenuto dal direttore del carcere in cui sono annotati il nominativo del detenuto o internato, il nominativo di chi ha svolto il colloquio a fini investigativi, la data e l'ora di inizio e di fine dello stesso, nonché di copia per estratto del registro di cui al comma 3 dell'articolo 18 - bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, per la parte relativa ai colloqui a fini investigativi intervenuti con il collaboratore". È evidente, però, in ragione del limitato contenuto del documento, che detta acquisizione non avrebbe avuto alcun rilievo al fine di verificare "con quali soggetti i collaboratori sono venuti a contatto durante i 180 giorni" nonché "la loro genuinità, la loro spontaneità e la veridicità delle dichiarazioni", scopo cui mirava la richiesta difensiva. 15.5. È generico e manifestamente infondato il motivo riguardante la presunta utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali rese dai collaboratori di giustizia in assenza del consenso prestato dalla difesa. Alla eccezione proposta la Corte di appello ha risposto osservando che "la prova si è formata nel dibattimento, nella pienezza del contraddittorio delle parti, con la possibilità per il giudice di primo grado (ed indirettamente per lo stesso giudice di appello) di saggiare la credibilità soggettiva e l'attendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia attraverso l'ascolto della loro diretta narrazione, nel corso delle plurime udienze nelle quali si svolgevano l'esame del P.M. ed il controesame delle difese" (pag. 155), escludendo così implicitamente che le dichiarazioni predibattimentali dei collaboratori fossero state dal Tribunale utilizzate a fini probatori e non già solo, a seguito delle contestazioni, per la valutazione della credibilità del teste, come espressamente previsto dall'art. 500, comma 2, del codice di rito (Sez. 2, n. 35428 del 08/05/2018, Caia, Rv. 273455; Sez. 2, n. 13910 del 17/03/2016, Migliaro, Rv. 266445; Sez. 3, n. 20388 del 17/02/2015, Q.H., Rv. 264035). Il ricorrente neppure ha indicato in quali parti della decisione dette dichiarazioni, invece, sarebbero state utilizzate a fini di prova. 15.6. È del tutto generica la doglianza con la quale si lamenta l'omessa rinnovazione della istruzione dibattimentale con il nuovo esame del collaboratore Ga.Ab., sentito lungamente in primo grado, il quale "aveva manifestato l'intenzione di precisare alcune vicende del procedimento". Va ribadito, inoltre, che l'istituto previsto dall'art. 603 del codice di rito -come affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820) - ha carattere eccezionale e ad esso "può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente allorché il giudice ritiene, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione". Anche successivamente le Sezioni Unite hanno ribadito che in detta norma sono previste evenienze procedimentali "che si traducono nella previsione di poteri, non già di doveri, di rinnovazione in capo al giudice d'appello, valorizzando il metodo dell'oralità nelle specifiche ipotesi della non decidibilità allo stato degli atti (comma 1), ovvero della assoluta necessità di provvedere ex officio all'integrazione del quadro probatorio (comma 3)" (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, non mass, sul punto). 15.7. Della infondatezza del motivo di ricorso riguardante l'attendibilità delle chiamate in correità e il carattere mafioso dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 3. e 4.). Tutti i motivi successivi (dall'ottavo al ventitreesimo), che pure verranno esaminati, scontano in partenza un profilo di inammissibilità - come si è detto sub par. 1.2. - là dove hanno denunciato cumulativamente la "mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione". 15.8. Quanto ai reati in materia di armi contestati nei primi tre capi d'imputazione, risulta del tutto generico il motivo inerente alla motivazione sul delitto relativo all'acquisto della mitragliatrice (capo 1), avendo la difesa omesso di indicare le presunte contraddizioni nelle dichiarazioni di Sc., asseritamente ignorate dalla Corte di merito, e obliterato i riscontri costituiti "dalla convergente lettura dei tabulati e dagli altri elementi evidenziati dal giudice di prime cure" (pagg. 73 - 83), richiamati per relationem nella sentenza impugnata (pag. 268). In ordine ai reati di cui al capo 3, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, la sentenza impugnata ha richiamato non solo la confessione dell'imputato per i reati sub 2, relativi alla detenzione e al porto della prima tranche di esplosivo, ma anche, sia pure sinteticamente, gli elementi di prova (dichiarazioni di Sc. e risultanze delle intercettazioni) inerenti ai reati di detenzione e porto della seconda tranche di esplosivo che - come ricordato in motivazione - Pe. e Sc. decisero di affidare a Po., presso l'abitazione del quale fu poi rinvenuta e sequestrata il 12 agosto 2009. Il ricorrente neppure ha specificato quali doglianze difensive la Corte di appello avrebbe trascurato di esaminare, a fronte di una motivazione della prima sentenza che ha indicato plurimi elementi dimostrativi della responsabilità di Pe. (riassuntivamente indicati alle pagg. 107 - 108). È priva di fondamento anche la deduzione secondo cui la questione della "micidialità dell'esplosivo" non sarebbe stata "minimamente presa in considerazione" nella motivazione: la sentenza, infatti, ha esaminato ampiamente il tema (pagg. 168 - 170) là dove ha spiegato le ragioni per le quali non è stata disposta una perizia sull'esplosivo. 15.9. Non è affatto illogica la motivazione con la quale la Corte territoriale ha confermato la condanna di Pe. per il concorso, insieme a Sc., nella detenzione e nel porto di due armi comuni da sparo, reati contestati al capo 9, rinvenute in un appartamento di Civitanova Marche (il cosiddetto bunkerino), nel quale fu sequestrato un documento falsificato con la fotografia di Pe.. Da questa ultima circostanza e dal tenore di una conversazione tra Sc. e Pe., intercettata in carcere il 30 settembre 2009, la sentenza impugnata ha tratto ulteriori elementi dimostrativi del fatto che l'abitazione fosse nella disponibilità di entrambi e che le due armi (una pistola calibro 38 e una 7.65) -che il ricorrente, peraltro, ammise di avere visto nel "bunkerino" - fossero anch'esse detenute da entrambi, come riferito in modo circostanziato da Sc., la cui chiamata in correità è stata del tutto obliterata nel ricorso. 15.10. È immune dai vizi (cumulativamente) denunciati anche la motivazione con la quale la Corte territoriale ha confermato la condanna dì Pe. per il concorso, insieme a Sc. e Ri., nella detenzione e nel porto della bomba a mano tipo ananas, reati contestati al capo 11, valorizzando le coerenti chiamate in correità di Sc. e Ab. e quella iniziale di Ri.. Il ricorrente sostiene che Ab. non avrebbe coinvolto Pe. ma la deduzione è contrastante con quanto risulta chiaramente esposto già dal primo giudice (pag. 129) e il motivo è generico nel momento in cui non è indicato e dimostrato un travisamento della prova "per invenzione" del dato probatorio. I giudici di merito, poi, hanno indicato le ragioni per le quali hanno ritenuto inattendibile la ritrattazione di Ri., con motivazione specifica e immune da vizi (pagg. 130 - 131 della sentenza di primo grado e pag. 270 di quella impugnata). 15.11. È manifestamente infondato anche l'undicesimo motivo, relativo alla condanna per il concorso nella tentata estorsione in danno di Ma.Pa. (capo 20). Quest'ultimo riuscì a sfuggire all'aggressione organizzata dal gruppo al fine di riscuotere il suo debito nei confronti di Te. dandosi a una precipitosa fuga e rifugiandosi in un bar, dopo essersi divincolato dalla presa di Pe., scena che fu osservata dagli operanti della polizia giudiziaria: le deduzioni circa la inidoneità della minaccia e la non univocità degli atti sono chiaramente prive di ogni fondamento; non rileva, evidentemente, il fatto che nella successiva telefonata fra Pa. e Pe., dopo il fallito agguato, le frasi minacciose e di sfida vennero pronunciate da entrambi. In ordine al coinvolgimento di Pe. la chiamata in correità di Ab. -ha osservato la Corte di merito (pagg. 271 - 272) - è stata riscontrata da varie conversazioni telefoniche intercorse fra il ricorrente e Pe., indicative del coinvolgimento del primo nella fase organizzativa e preparatoria, non smentito da quella fra Sc. e Pe., indicata nel ricorso, pure considerata dal primo giudice, che però ha richiamato una serie di altre telefonate, subito successive al fatto, tra Pe., Sc. e Pe. (pagg. 168 - 170). La sera stessa, peraltro, gli operanti della polizia giudiziaria videro che Pe. e Ma. si recarono a casa di Pe. per spiegare il fallimento dell'azione (pag. 178). Con questi dati il ricorso non si è confrontato e dunque sul punto risulta anche generico. 15.12. Sono manifestamente infondate le censure alla motivazione con la quale è stata confermata la condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del ristorante "Il braciere", sito in Martinsicuro (capo 21), ove pacificamente si recarono, la mattina del 3 agosto 2009, Pe., Ca., Sc., Pe. e Ab., circostanza non contestata nel ricorso. La difesa, però, ha censurato la valutazione della sentenza là dove si è dato credito alla chiamata in correità da parte dei due collaboratori di giustizia e non alle deposizioni rese in dibattimento dalle due persone offese, le quali "avevano espressamente negato di essere mai state minacciate e di aver mai pagato alcunché a Pe. o agli altri correi". Questa seconda circostanza non è in discussione, tant'è che gli imputati sono stati condannati per estorsione tentata e non consumata, mentre la prima -ha osservato la Corte di appello (pag. 274) - è smentita da una conversazione tra Pe. e Ca., intercettata dopo il fatto, dalla quale si desume chiaramente la violenza dell'azione commessa nei confronti di Da. e Io. (al primo - secondo quanto dichiarato da Sc. - venne rotto il naso, essendo stato "massacrato" da Ca. e Pe., come riportato a pag. 192 della sentenza di primo grado). 15.13. Generico e privo di ogni fondamento è il tredicesimo motivo, relativo all'altro tentativo di estorsione (capo 22) commesso in danno di Gi.Ne. sempre il 3 agosto 2009 dai medesimi soggetti che si erano recati al ristorante "Il braciere", ai quali si aggiunse Be.. La difesa sostiene che i due collaboratori "avevano affermato che Ne. non si era fatto per nulla intimidire, ma aveva prontamente reagito", cosicché non vi sarebbe stata alcuna minaccia "idonea a ingenerare una effettiva coartazione della vittima". La Corte di appello, però, ha richiamato espressamente (pag. 275) l'ampia descrizione dell'episodio da parte del Tribunale (pagg. 185 - 187) per come riferito da Ab. e Sc.: il primo ha dichiarato che Ne. "fu presso a pugni e schiaffi" proprio da Pe., il secondo che "fu massacrato di botte da S.R. Pe., il quale lo pestò in maniera barbara" (pag. 192 della sentenza di primo grado). La brutalità della violenza risulta in modo evidente dai dialoghi intercettati all'interno dell'autovettura sulla quale, dopo l'aggressione, erano risaliti Ca. e Pe., dialoghi richiamati dal Tribunale (pagg. 186-187) a riscontro delle due chiamate in correità. 15.14. É generico e manifestamente infondato anche il successivo motivo, riguardante l'estorsione consumata in danno di An.Ri. (capo 23). La difesa ha contestato l'omessa risposta della sentenza alla deduzione svolta in appello circa le contraddizioni in cui sarebbero incorsi i due collaboratori di giustizia, senza indicarle nel ricorso, in contrasto con il principio secondo il quale la censura di omessa valutazione da parte del giudice di appello dei motivi articolati con l'atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell'impugnazione e la decisività del motivo negletto al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 264879; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 258962; più di recente v. Sez. 3, n. 37726 del 28/09/2022, Proietti, non mass.). Il ricorso evoca (genericamente) a discarico le dichiarazioni della persona offesa, che però ha affermato di avere subito violenza, circostanza ammessa dallo stesso Pe., come ricordato dalla difesa. Il motivo è generico in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, avendo la Corte di appello escluso la integrazione del meno grave reato previsto dall'art. 393 cod. pen., configurabile solo quando l'agente sia animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, essa non può essere del tutto arbitraria ovvero sfornita di una possibile base legale, come ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027), in conformità alla precedente costante giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362; Sez. 2, n. 8096 del 04/02/2016, Anglisani, Rv. 266203; Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589). La sentenza impugnata ha evidenziato la manifesta sproporzione fra l'entità del credito di Fa. azionato da Pe. e quanto da quest'ultimo preteso e ottenuto (la consegna di 6.000 Euro e di due autovetture del valore di 73.000 Euro): con questa argomentazione dirimente il ricorso non si è confrontato. 15.15. Sono manifestamente infondate e generiche le censure alla motivazione con la quale è stata confermata la condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del night club "Sesto Senso" (capo 24). I giudici di merito (più diffusamente il Tribunale a pagg. 216 - 223) hanno richiamato la chiamata in correità di Sc., le dichiarazioni parzialmente confessore di Ca. e le ammissioni dello stesso Pe., che "ha dichiarato di aver voluto estorcere del denaro al "Sesto Senso", precisando di non aver avuto tempo per portare a conclusione quel proposito" (pag. 221), in contrasto, però, con le precise dichiarazioni di Me. al quale nell'occasione fu fornito il numero di cellulare proprio di Pe., che si recò nel locale insieme a Sc. e a Ca., come anche da questi ultimi ricordato. Dalla ricostruzione del fatto effettuata nelle due sentenze risulta chiara la carica intimidatoria sottesa all'azione dei tre associati, dovendosi ribadire che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre che essere esplicita, palese e determinata, può essere manifestata anche in maniera indiretta, ovvero implicita e indeterminata, purché sia idonea a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera (cfr., ad es., Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, Zaccardi, Rv. 282521; Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261553; Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012, dep. 2013, Lavitola, Rv. 254797) e che l'idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio operato ex ante, essendo priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima dopo la formulazione della minaccia (Sez. 2, n. 24166 del 20/03/2019, Maggiorelli, Rv. 276537; Sez. 2, n. 3934 del 12/01/2017, Liotta, Rv. 269309; Sez. 2, n. 41167 del 02/07/2013, Tammaro, Rv. 256728; Sez. 2, n. 12568 del 05/02/2013, Aiello, Rv. 255538). La difesa ha contestato la valutazione della sentenza impugnata evocando le deposizioni delle due persone offese, richiamate "puntualmente alle pagine 200 e 201 dei motivi di gravame", incorrendo così nel vizio di cui si è detto nel paragrafo precedente. 15.16. La motivazione della sentenza non è affatto illogica (né contraddittoria né tantomeno mancante) là dove ha confermato la condanna di Pe. anche per il concorso nella estorsione consumata in danno degli impresari Ce. e Ri. (capo 25). Il coinvolgimento di Pe. è stato affermato dai giudici di merito sulla base della chiamata in correità di Sc. (il quale "ha ricordato che si trattò di un'azione dimostrativa decisa da lui e da S.R. Pe. in quanto Ce. e Ri. facevano gli impresari all'interno di locali che appartenevano al loro "giro", per cui dovevano corrispondere una "quota" sui loro guadagni" - pag. 236 della sentenza di primo grado), riscontrata dall'incontro svoltosi presso l'abitazione del ricorrente con Ca., Ma. e Pe. poco prima della violenta aggressione da parte dei tre, nonché dal tenore della conversazione fra Ca. e Pe. intercettata dopo il fatto: con logica e, pertanto, insindacabile interpretazione le sentenze di merito hanno desunto anche da questa telefonata il pieno concorso del ricorrente nel fatto delittuoso. 15.17. É manifestamente infondato anche il diciassettesimo motivo, inerente alla condanna per l'incendio dello stabilimento balneare "Co." (capo 27), fondata in primo luogo sulla chiamata in correità di Sc., che ha dichiarato di avere ideato l'azione insieme a Pe.Sa., incaricando dell'esecuzione Po. e la Li.. Trattando degli appelli proposti dai due esecutori materiali, la sentenza impugnata ha spiegato (come si è già visto sub par. 12.) le ragioni per le quali si deve ritenere che l'incendio fu certamente doloso, cosicché, esaminando il gravame di Pe., legittimamente la Corte di merito si è limitata a escludere il rilievo delle dichiarazioni della persona offesa circa la natura colposa dell'evento. I giudici di merito hanno logicamente valutato quale riscontro al coinvolgimento del ricorrente le chiarissime espressioni che furono rivolte a Me. - secondo quanto riferito dal teste - durante un incontro successivo al fatto avuto con Sc. e Pe., ad esito del quale la persona offesa capì che gli stessi erano responsabili dell'incendio del vicino stabilimento balneare e che avrebbero incendiato anche il suo locale se non avesse continuato a versare il "pizzo". II Tribunale ha evidenziato che Pe., peraltro, "non ha mai negato il proprio coinvolgimento diretto nella vicenda estorsiva ai danni di Me." (pag. 252), tant'è che la relativa condanna (per il reato contestato al capo 26) non ha formato oggetto del ricorso in esame, ciò a conferma della genuinità delle dichiarazioni dello stesso Me., richiamate quale riscontro nella sentenza impugnata (pag. 279). 15.18. É manifestamente infondato il motivo con il quale la difesa lamenta la mancata applicazione dell'attenuante ex art. 114 cod. pen. per il reato di estorsione consumata in danno di Ma.Ca., gestore di un locale notturno (capo 28). La sentenza ha richiamato la ricostruzione del fatto operata dal Tribunale, neppure contestata nel ricorso, e ha logicamente escluso che l'avere accompagnato Sc. a riscuotere mensilmente il "pizzo" costituisse una condotta di importanza obiettivamente minima e marginale, in conformità al principio giurisprudenziale richiamato in precedenza (sub par. 13.6.). 15.19. È generico e privo di fondamento il motivo relativo alla ritenuta responsabilità per i reati di estorsione aggravata, dei quali uno tentato, commessi in danno di Gi.Ro. (capi 33, 35 e 38). Anche in questo caso il ricorrente ha fatto generico riferimento a doglianze proposte nei motivi di appello, pure in relazione alla presunta inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie di Ab. e Sc., riscontrate da plurime conversazioni intercettate fra gli imputati, alcune delle quali richiamate dalla Corte di appello (pag. 280), che ha poi logicamente osservato che l'assenza di telefonate fra Pe. e Ro. non esclude affatto il coinvolgimento del primo nella vicenda estorsiva, aliunde dimostrato. 15.20. È privo di fondamento e generico anche il ventesimo motivo, riguardante l'applicazione delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen.. Si è già ricordato (sub par. 5.) che entrambe le circostanze sono configurabili anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti all'associazione mafiosa, come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite; è infondata, pertanto, la deduzione difensiva secondo la quale l'aggravante dell'agevolazione mafiosa non può essere applicata per i reati commessi dagli associati. È generica, poi, la doglianza inerente all'applicazione della circostanza del metodo mafioso, neppure riferita ai singoli reati; peraltro si è visto (sub par. 5.) che anche l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun effetto concreto. 15.21. È generico anche il motivo successivo, relativo all'applicazione della circostanza aggravante dell'avere commesso il fatto durante la sottoposizione del ricorrente alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (art. 9 della legge n. 575 del 1965). La difesa ha censurato la motivazione della sentenza impugnata sulla ritenuta irrilevanza in concreto dell'applicazione di detta circostanza, ma neppure ha specificato nel ricorso per quali reati detta circostanza sarebbe insussistente, essendosi limitata ad affermare che il giudice di appello l'avrebbe dovuta escludere "per molte delle fattispecie delittuose per cui Pe. è stato condannato". 15.22. È manifestamente infondata la doglianza difensiva in ordine al giudizio di equivalenza fra attenuanti generiche e aggravanti. Secondo il diritto vivente, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell'equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto" (Sez. U, n. 10713 del 25/2/2010, Contaldo, Rv. 245931; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450; nel medesimo senso, da ultimo, v. Sez. 4, n. 13380 del 14/02/2023, Caponio, non mass.). Il Tribunale ha spiegato puntualmente le ragioni per le quali ha ritenuto di riconoscere le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza al solo Ca. e non a Pe., Bi., Pe. e Ri. (pagg. 396-397), con motivazione espressamente condivisa dalla Corte di appello, che ha poi sottolineato la "notevolissima caratura criminale dell'imputato, quale rivelatasi nella presente vicenda, per il ruolo di protagonista della vita dell'associazione, per la immanente presenza in ogni azione anche senza parteciparvi direttamente, costituendo Pe. un punto di riferimento costante per gli altri sodali che lo contattavano di continuo" (pag. 280). Peraltro, un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti (quanto a quelle "bilanciabili") sarebbe stato comunque precluso dal disposto dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., essendo stata contestata e applicata al ricorrente la recidiva reiterata (specifica e infraquinquennale). 15.23. In ordine alla (sola) determinazione della pena inflitta la sentenza deve essere annullata con rinvio, risultando fondato il motivo proposto nel ricorso di Pe. (l'undicesimo) sulla illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen. e, quindi, sulla sottrazione al bilanciamento della circostanza aggravante dell'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen., applicata nel caso di specie. L'impugnazione di Pe. giova anche a Pe., concorrente nel reato di estorsione contestato al capo 33 dell'imputazione (il più grave sul quale per entrambi è stata determinata la pena base con applicazione anche della suddetta circostanza), non essendo fondata su motivi esclusivamente personali (art. 587, comma 1, cod. proc. pen.). Nella parte dedicata al trattamento sanzionatorio il Tribunale, richiamando la posizione di alcuni imputati colpevoli di estorsione pluriaggravata e del reato associativo (fra i quali proprio Pe. e Pe.), correttamente ha individuato il delitto più grave nella estorsione pluriaggravata contestata al capo 33, punito con pena edittale più alta nel massimo, specificando però che la pena irrogata in concreto non poteva essere inferiore a quella minima prevista all'epoca dei fatti per il reato associativo (pag. 399), in conformità al principio secondo il quale, in caso di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l'individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l'irrogazione dì una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati-satellite (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347; Sez. 3, n. 18099 del 15/11/2019, dep. 2020, Niang, Rv. 279275). Il Tribunale ha riconosciuto le attenuanti generiche a Pe. e Pe. con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti ritenute "bilanciabili" (quelle della recidiva e del fatto commesso con armi e da più persone riunite e - per il primo - da persona sottoposta alla misura della sorveglianza speciale), sottraendo espressamente dal giudizio di comparazione, sia in dispositivo sia in motivazione, "l'aggravante di cui all'art. 628, co. 3 n. 3), richiamata dall'art. 629 c.p., nonché la circostanza di cui all'art. 7 della L. n. 203/1991" (ora art. 416 - bis.1 cod. pen.), in quanto appartenenti "al genus delle cosiddette "aggravanti blindate", non potendo essere poste in bilanciamento con le attenuanti" (pagg. 398-399). Con l'atto di appello Pe. aveva lamentato che erroneamente il primo giudice avesse ritenuto che il divieto di bilanciamento previsto dall'art. 628, quinto comma, cod. pen. per alcune aggravanti della rapina operasse anche per il reato di estorsione aggravato dalle medesime circostanze. Come lamentato dalla difesa, la Corte di appello non ha ben colto (o comunque esaminato a fondo) il senso della censura, avendo osservato che "il rinvio operato dal secondo comma dell'art. 629 cod. pen. all'ultimo capoverso dell'art. 628 cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti applicabili al delitto di estorsione, deve infatti intendersi comprensivo di quelle nuove ipotesi aggravate per le quali la stessa novella n. 94 prevede il divieto di bilanciamento, consistendo la 'ratio legis' nell'esigenza di creare nuove ipotesi aggravate, ferme restando le aggravanti già codificate in precedenza" (pag. 292). È pacifico, infatti, che il rinvio operato dal secondo comma dell'art. 629 cod. pen. all'ultimo comma dell'art. 628 cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti applicabili al delitto di estorsione, sia da qualificare di natura formale o dinamica, e deve intendersi riferito, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009, all'attuale terzo comma della disposizione normativa prevista per il delitto di rapina (Sez. 2, n. 13239 del 23/03/2016, Ciancimino, Rv. 266662; Sez. 2, n. 18742 del 17/01/2014, Zubcic, Rv. 259651; Sez. 5, n. 2907 del 23/10/2013, dep. 2014, Cammarota, Rv. 258463; di recente v. Sez. 7, n. 38951 del 27/09/2022, Coppola, non mass.); la questione proposta nell'appello (e ora nel ricorso) era diversa, attenendo - come detto - alla sottrazione o meno al giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. delle aggravanti indicate nell'ultimo comma dell'art. 628 cod. pen. non solo per il reato di rapina ma anche per quello di estorsione. Da ultimo questa Corte, con valutazione condivisa dal Collegio, ha affermato che il rinvio operato, quanto alle aggravanti applicabili al delitto di estorsione, dall'art. 629, comma secondo, cod. pen. all'art. 628, ultimo comma, cod. pen. deve intendersi riferito, a seguito delle modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, all'attuale comma terzo dell'art. 628 cod. pen. ma non al comma quinto, che sottrae al giudizio di comparazione le aggravanti di cui ai numeri 3, 3 - bis, 3 - ter e 3 - quater di tale disposizione: nel silenzio normativo, non può ritenersi esteso in malam partem al delitto di estorsione il peculiare regime previsto per il bilanciamento tra circostanze nel delitto di rapina (Sez. 2, n. 49940 del 10/10/2023, P., Rv. 285464). Nella determinazione della pena per il più grave reato di estorsione di cui al capo 33, il Tribunale ha espressamente ribadito che a Pe. venivano riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, "fatta eccezione per le circostanze di cui all'art. 7 della L. n. 203/1991 e 628, co. 3, n. 3), 629 c.p." (pag. 404). Il primo giudice, dunque, nel determinare la pena per il più grave reato di estorsione commesso in danno di Ro. (otto anni, nove mesi di reclusione e 1.700 Euro di multa), ha tenuto conto della presenza di due aggravanti ritenute privilegiate, entrambe a effetto speciale, erroneamente per quella prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen.: i vari passaggi nel calcolo della pena non sono specificati, ma in precedenza si era precisato che in presenza di più circostanze aggravanti a effetto speciale si sarebbe fatto ricorso al disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. (pag. 398). Qualora si fosse correttamente sottoposta al giudizio di bilanciamento con le attenuanti anche la suddetta aggravante della violenza commessa da un associato la pena per il reato di cui al capo 33 sarebbe stata inferiore in una misura che non può essere determinata in questa sede, non essendovi alcun elemento indicativo del peso che, nella valutazione del giudice di merito, ha rivestito la seconda circostanza a effetto speciale erroneamente ritenuta privilegiata. La posizione di Pe., però, presenta una particolarità rispetto a quella di Pe., al quale, per il più grave delitto di estorsione sub 33, è stata inflitta la pena di sette anni, dieci mesi, quindici giorni di reclusione e 1.700 Euro di multa, superiore al minimo edittale di sette anni di reclusione previsto all'epoca per il partecipe all'associazione mafiosa (art. 416 - bis, primo comma, cod. pen.), risultando l'aggravante "bilanciabile" dell'associazione armata elisa dal riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza. Il Tribunale, infatti, non ha considerato che per Pe., organizzatore e promotore del sodalizio, la pena minima all'epoca prevista per il reato ex art. 416 - bis, secondo comma, cod. pen. era di nove anni di reclusione, superiore, dunque, a quella inflitta per il più grave reato di estorsione. L'errore commesso dal primo giudice, peraltro in contrasto con le corrette premesse esposte in linea generale, non può tuttavia essere "compensato" in assenza di impugnazione dell'accusa, superandosi così la violazione di legge denunciata nel ricorso del concorrente Pe.. In questo senso si sono di recente espresse le Sezioni Unite di questa Corte, statuendo che l'accoglimento dell'impugnazione del solo imputato in ordine a una delle componenti del trattamento sanzionatorio non può essere neutralizzato da improprie forme di "compensazione" con altro punto ad esso inerente, quale l'erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, Rv. 280539: nel caso di specie si è affermato che il giudice di appello, investito dell'impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l'illegittima riduzione della pena ai sensi dell'art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale e, dunque, di favore per l'imputato). 15.24. La sentenza impugnata, pertanto, va annullata con rinvio limitatamente alla determinazione della pena, restando assorbite le doglianze espresse nell'ultimo motivo sul medesimo punto. 16. Ricorso Pe.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale partecipe (capo 40), e per i delitti di cui ai capi 2, 3 (detenzione e porto in luogo pubblico di armi, munizioni ed esplosivo), 17, 19, 20, 21, 22, 23, 25,, 28, 32, 33, 35, 44 (estorsioni consumate o tentate), 31 (violazione di domicilio). Specifici motivi di ricorso sono stati proposti per i reati contestati ai capi 3, 19, 21, 22, 23, 35, 40 e 44. 16.1. È generico, e quindi inammissibile, il motivo riguardante l'omesso rinvio da parte del Tribunale dell'udienza del 20 giugno 2016 per legittimo impedimento del difensore per motivi di salute. La Corte ha espressamente richiamato, condividendole, le argomentazioni espresse sul punto nell'ordinanza del primo giudice (trascritta nella nota 20 di pagina 17) che, prima ancora di rilevare la mancata indicazione della impossibilità di nominare sostituti processuali (irrilevante in ragione di quanto statuito da Sez. U, n. 41432 del 21/07/2016, Sarrapochiello, Rv. 267747), aveva osservato che il certificato medico prodotto dal difensore era del tutto generico, prescrivendo solo un periodo di "riposo e cure", non consentendo così di apprezzare la persistenza di una patologia tale da determinare l'assoluta impossibilità per il difensore di comparire in udienza. In proposito va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'assoluto impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, conseguente a una patologia, deve risolversi in una situazione tale da precludere all'interessato di partecipare all'udienza se non a prezzo di un grave rischio per la propria salute, potendo fare il giudice ricorso, per la valutazione di tali requisiti, anche a nozioni di comune esperienza, indipendentemente da una verifica medico - fiscale (Sez. 5, n. 15407 del 24/02/2020, Stretti, Rv. 279088; Sez. 3, n. 48270 del 07/06/2018, P., 274699; Sez. 5, n. 3558 del 19/11/2014, dep. 2015, Margherita, Rv. 262846; Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Basile, Rv. 259287; Sez. 6, n. 4284 del 10/01/2013, G., Rv. 254896; da ultimo v. Sez. 4, n. 7207 del 23/01/2024, Benazzi, non mass.). In ogni caso, con la dirimente osservazione del primo giudice, richiamata nella sentenza impugnata, il ricorso non si è confrontato. 16.2. È generico e infondato il motivo inerente all'affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo di cui al capo 3, nel quale, peraltro, come in quelli successivi, la motivazione è stata genericamente - e in modo perplesso - censurata per "mancanza o contraddittorietà". La difesa, ricordato che Pe. è reo confesso per la detenzione e il porto della prima tranche di esplosivo che egli stesso fece ritrovare (capo 2), ha riproposto la tesi della connivenza non punibile, disattesa nella sentenza impugnata con lineare motivazione (pag. 281). Il riferimento alla chiamata in correità di Sc. va riferito non già alle sue dichiarazioni bensì al contenuto della conversazione intercettata fra lo stesso e Ca., richiamata dal Tribunale (pag. 106), dove il primo indicò Pe. quale possibile nuovo custode dell'esplosivo. Il dato è stato ignorato dalla difesa, che ha poi proposto una inammissibile lettura alternativa della telefonata tra Ca. e Pe. intercettata nella notte tra il 3 ed il 4 agosto 2009, nel corso della quale il secondo, senza che l'altro dicesse alcunché, si informò subito sugli inneschi e - nella logica e incensurabile interpretazione dei giudici di merito - rivelò la sua piena adesione all'acquisto anche della seconda parte dell'esplosivo, necessario, come la precedente, per la commissione di atti intimidatori del sodalizio. 16.3. È infondato il motivo inerente alla condanna per il concorso nella estorsione in danno della famiglia As. (capo 19). Entrambe le sentenze hanno evidenziato, senza incorrere in alcun vizio motivazionale, che Pe. non solo partecipava alla suddivisione dei proventi dell'attività estorsiva, ma che egli, pur quando si trovava in carcere (fino alla fine di luglio del 2009) aveva preventivamente aderito al piano criminoso, realizzatosi sino al settembre dello stesso anno. La chiamata in correità di Sc. è stata riscontrata da una serie di conversazioni intercettate, indicate anche dalla Corte d'appello (pagg. 283-284), delle quali, anche in questo caso, il ricorrente ha proposto una interpretazione alternativa, non consentita. 16.4. È privo di ogni fondamento il motivo relativo alla condanna per il tentativo di estorsione in danno dei due gestori del ristorante "Il braciere" (capo 21), del quale si è già trattato (sub par. 15.12.) ricordando le intercettazioni richiamate dai giudici di merito attestanti la violenza dell'azione posta in essere la mattina del 3 agosto 2009 da Pe., Ca., Sc., Pe. e Ab., ideata e organizzata da tutti, secondo quanto dichiarato da Sc.. Il compito specifico svolto nell'occasione da Pe. ("sorvegliava la porta d'ingresso") è stato ricordato da Ab., secondo quanto riportato nella sentenza di primo grado (pag. 190). 16.5. È manifestamente infondato anche il motivo relativo all'affermazione di responsabilità per la tentata estorsione in danno di Gi.Ne. (capo 22), episodio già esaminato (sub par. 15.13.), verificatosi anch'esso il 3 agosto 2009: le dichiarazioni di Ab. e Sc. e le conversazioni intercettate nell'immediatezza sono state richiamate dai giudici di merito a dimostrazione del pestaggio subito dalla persona offesa, organizzato e realizzato dallo stesso gruppo protagonista dell'aggressione ai gestori del ristorante, cui si aggiunse Be.. Il contributo anche materiale apportato da Pe. anche a questa spedizione, ricordato nella sentenza impugnata (pag. 287), è stato obliterato dalla difesa, restando ovviamente irrilevante il fatto che fu Pe. a malmenare violentemente la vittima. 16.6. È privo di ogni fondamento anche il motivo riguardante la conferma della condanna per la estorsione in danno di Ri. (capo 23). La circostanza che la persona offesa, quando fu aggredita a Civitanova Marche, non conoscesse i due uomini che accompagnarono Sc. e Pe. non vale certamente a smentire l'attendibilità della chiamata in correità da parte del primo, corroborata da una serie di conversazioni intercettate tra Ri. e Pe., il quale chiamò in causa direttamente Pe., indicandolo come suo referente per la riscossione del denaro. Va ribadito sul punto che l'accordo preventivo fra ideatore del reato e il suo rappresentante incaricato della riscossione e il contributo fornito da quest'ultimo, essenziale al fine del conseguimento della somma estorta, consentono di valorizzare l'apporto dato dal delegato all'incasso del provento del delitto quale condotta concorsuale nel reato di estorsione, a prescindere dal fatto che il suo ausilio si sia limitato alla fase finale dell'attività delittuosa (Sez. 2, n. 36115 del 27/06/2017, Pacilli, Rv. 271005; Sez. 1, n. 41177 del 24/11/2006, Del Vecchio, Rv. 235997; Sez. 2, n. 10778 del 25/01/2002, Curto, Rv. 221123; di recente v. Sez. 6, n. 39152 del 31/05/2023, La Rosa, non mass.). Anche in questo caso il ricorrente ha proposto una non consentita rilettura del fatto e delle intercettazioni. 16.7. È generico il motivo con il quale la difesa ha contestato l'affermazione di responsabilità per la tentata estorsione in danno di Ro. di cui al capo 35, successiva alla estorsione consumata nei confronti della stessa persona offesa, verificatasi il 28 agosto 2009 (capo 33), in relazione alla quale non vi è stato motivo di ricorso. I giudici di merito hanno indicato una serie di conversazioni intercettate, precedenti e successive all'aggressione svoltasi in un giardino pubblico di Civitanova, da cui, con logica motivazione, è stata tratta la prova di un coinvolgimento di Pe. non limitato alle richieste estorsive espresse in occasione dell'agguato, dopo il quale, in una telefonata fra Sc. e Pe., quest'ultimo disse all'altro "che la vicenda non era chiusa, anzi occorreva terminare con calma il lavoro" (pag. 302 della sentenza di primo grado). Solo con il ricorso per cassazione la difesa ha sostenuto che quelle contestate ai capi 33 e 35 avrebbero integrato una unica azione delittuosa. Si tratta di una deduzione analoga a quella esaminata nel ricorso di Ol. (sub par. 14.1.) a proposito delle estorsioni contestate ai capi 33 e 38 e anche in questo caso il motivo non può essere scrutinato in quanto richiederebbe accertamenti in fatto (v. sub par. 1.5.), non risultando dall'imputazione né dalla ricostruzione dei giudici di merito se le successive richieste intimidatorie di cui al capo 35 fossero semplicemente reiterative, quanto all'oggetto della illecita pretesa, di quelle fatte a Ro. in occasione dell'aggressione del 28 agosto 2009, cui seguì, quella sera stessa, la consegna di due assegni dell'importo di 12.500 Euro ciascuno e dell'autovettura Mercedes intestata alla moglie. 16.8. Della infondatezza del motivo di ricorso riguardante il carattere mafioso dell'associazione si è trattato in precedenza (sub par. 4). 16.9. In ordine all'applicazione delle aggravanti ex art. 416 - bis.1 cod. pen., si è già osservato (sub par. 5.) che è infondato il motivo con il quale - come nel caso di Pe. - è stata contestata la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa sulla base solo della dedotta inesistenza del sodalizio mafioso, considerata la incensurabilità della decisione con la quale i giudici di merito, invece, hanno riconosciuto integrato il reato ex art. 416 - bis cod. pen.. È generica e non consentita la doglianza relativa al metodo mafioso, con la quale si è censurata la "mancanza o contraddittorietà della motivazione con le risultanze processuali"; peraltro si è detto che anche l'esclusione di una sola delle aggravanti previste dall'art. 416 - bis.1 cod. pen. non avrebbe avuto alcun rilievo, poiché il Tribunale, nel determinare il trattamento sanzionatorio, ha considerato quale unica circostanza le due diverse aggravanti indicate nel citato articolo. 16.10. È manifestamente infondato il motivo inerente al concorso di Pe. nella tentata estorsione in danno di Lo.La. (capo 44), debitore di Ca. per una fornitura di sostanza stupefacente, in quanto fondato sulla lettura alternativa di una serie di conversazioni intercettate fra Ca. e Pe. che, con logica e incensurabile motivazione, i giudici di merito hanno interpretato come indicative del preventivo sostegno fornito dal ricorrente al correo. Dalla conversazione ambientale intercettata all'interno dell'auto è poi emerso - come evidenziato nelle sentenze di primo grado (pag. 339) e di appello (pag. 291) - che Ca. minacciò e malmenò La. alla presenza di Pe. e che quest'ultimo disse al debitore che i soldi richiesti servivano a lui in quanto era appena uscito dal carcere. 16.11. È fondato - come si è visto trattando del ricorso di Pe. (sub par. 15.23.) - il motivo con il quale la difesa ha dedotto la violazione di legge per la illegittima estensione analogica della disposizione di cui al quinto comma dell'art. 628 cod. pen. sulla sottrazione al bilanciamento di alcune circostanze aggravanti (fra le quali quella, applicata nel caso di specie, dell'art. 628,, terzo comma, n. 3 cod. pen.) alle ipotesi di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen. 16.12. La sentenza impugnata, pertanto, va annullata con rinvio quanto alla determinazione della pena, restando assorbite le altre doglianze espresse nell'ultimo motivo di ricorso sul medesimo punto. 17. Ricorso Po.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo, quale partecipe (capo 40), e per quello di incendio (capo 27), oltre che per la detenzione e porto in luogo pubblico di un'arma da guerra con munizionamento e di esplosivo (capi 1 e 3), delitti non oggetto dei motivi di ricorso. 17.1. È manifestamente infondato il motivo inerente alla responsabilità di Po. per il concorso nell'incendio, episodio del quale si è trattato esaminando il ricorso della Li. (sub par. 12.). Si è già detto, dunque, della infondatezza della eccezione circa la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal teste Bu., che costituiscono un riscontro assai rilevante alla chiamata in correità di Sc., il quale di quell'incendio fu il mandante e non riferì affatto "per sentito dire". I giudici di merito hanno osservato che - diversamente da quanto sostenuto nel ricorso - Bu. ha dichiarato di avere ricevuto dal teste il biglietto con l'indicazione della targa della Golf fuggita dal luogo dell'incendio (risultata di proprietà prima dello stesso Po. e poi della convivente) dopo che quel giovane aveva visto le quattro persone appiccare il fuoco prima di salire in macchina. Anche l'attività di osservazione svolta quella sera da una pattuglia di Carabinieri, che notò l'autovettura mentre viaggiava verso nord, in orario perfettamente compatibile con il tragitto percorso dal luogo dell'incendio e anche con l'abitazione dell'imputata e di Po., costituisce un ulteriore, rilevante elemento di riscontro alle precise dichiarazioni di Sc.. 17.2. Non è consentito il motivo inerente all'omesso riconoscimento della circostanza attenuante ex art. 112 cod. pen. perché non proposto in appello (v. sub par. 1.5.). 17.3. L'incendio dello stabilimento balneare il cui gestore si rifiutava di pagare il "pizzo" - hanno evidenziato i giudici di merito - è stata espressione del tipico metodo mafioso; l'avvertimento fu ben compreso da Me., gestore anche di un locale vicino, il quale si rese conto che, se non avesse continuato a pagare, avrebbe "fatto la stessa fine del Co." (Me. fu inizialmente indagato per concorso nell'incendio, ma nei suoi confronti fu poi emesso decreto di archiviazione). L'episodio delittuoso, dunque, fu chiaramente volto ad agevolare l'associazione mafiosa, della quale Po. non era affatto all'oscuro, essendo stato considerato un partecipe. 17.4. È incensurabile, infatti, la motivazione della sentenza impugnata, adesiva alle argomentazioni del Tribunale, la quale ha ben indicato le prove del contributo causale fornito stabilmente all'associazione da Po., uomo di fiducia di Pe. e custode di armi ed esplosivo. I giudici di merito hanno anche richiamato conversazioni intercettate a conferma della intraneità di Po. al sodalizio, in relazione alla quale risulta decisiva la doppia chiamata in correità di Sc. e Ab., la cui attendibilità è stata censurata nel ricorso con argomentazioni che - come visto in precedenza (sub par. 3.) - risultano infondate. 18. Ricorso Ri.. L'imputato è stato condannato per il reato associativo (capo 40) e per i delitti di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra e di armi comuni da sparo contestati ai capi 11, 12, 13 e 14. 18.1. Si è già detto (sub par. 4.) della infondatezza del motivo sul carattere mafioso dell'associazione, peraltro proposto inammissibilmente da Ri. per la prima volta con il ricorso (in appello si era contestata la sussistenza di un'associazione, essendosi sostenuto che nel caso di specie sarebbe stato ravvisabile solo un concorso di persone nella commissione di più delitti). 18.2. Anche in ordine alla partecipazione del ricorrente al sodalizio mafioso risultano decisive le chiamate in correità di Sc. e del cognato Ab., secondo il quale - ha ricordato la Corte territoriale (pag. 300) - Ri., pur non partecipando personalmente alle singole azioni delittuose, "era disponibile" per l'associazione, "dava appoggio finanziario ed anche logistico" con la sua concessionaria di auto e custodiva le armi per conto della stessa. La ritrattazione delle accuse da parte di Ab. in altri processi è risultata generica e incerta e sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata e incensurabile motivazione (pagg. 180-182), in conformità al principio secondo il quale la ritrattazione di dichiarazioni accusatorie rese in precedenza da parte di un collaboratore di giustizia non costituisce elemento in grado di escluderne l'attendibilità, potendo il giudice legittimamente riconoscere valore probatorio alle stesse, a condizione che eserciti su di esse un controllo più incisivo, esteso ai motivi della variazione del dichiarato, potendo anche ritenere che la ritrattazione si traduca in un ulteriore elemento di conferma delle originarie accuse (Sez. 6, n. 35680 del 30/05/2019, Caggiano, Rv. 276693; Sez. 1, n. 41585 del 20/06/2017, Maggi, Rv. 271252; di recente v. Sez. 2, n. 7809 del 10/01/2023, Cormaci, non mass.). Il ricorso, poi, nulla osserva in ordine alle dichiarazioni accusatorie di Sc. nei confronti di Ri., il cui allontanamento dalle Marche durante il solo mese di agosto del 2009 (come riferito dall'ispettrice Ma.) non è elemento ostativo alla sua ritenuta partecipazione all'associazione. 18.3. È inammissibile il motivo con il quale si è lamentata, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva (perizia sulla natura di arma da guerra e sulla idoneità all'impiego della bomba a mano tipo ananas), quanto ai reati di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra (capi 11 e 12). Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, hanno statuito che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936). 18.4. È privo di fondamento anche il motivo riguardante la sussistenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa per i reati in materia di armi (capi 11, 12, 13 e 14). La sentenza ha puntualmente spiegato (pagg. 302-305) le ragioni per le quali, sulla scorta delle dichiarazioni dei due collaboratori, si debba ritenere che il ricorrente detenesse le armi per conto del sodalizio mafioso: "autonomia del possesso di armi da parte di Ri. non significa esclusività del possesso, tanto che Ab. sapeva dove erano le pistole" (quelle da lui fatte ritrovare nascoste nell'intercapedine di un muro della stanza da bagno dell'abitazione del ricorrente). I giudici di merito hanno poi ricordato le puntuali e conformi dichiarazioni di Sc. e di Ab. in ordine al coinvolgimento di Ri. nella detenzione della bomba a mano tipo ananas, prima detenuta per il tramite di Sabini e poi custodita per conto di Pe. e dello stesso Sc., il quale pure gli disse che l'ordigno, successivamente rinvenuto all'interno di un'autovettura del ricorrente, sarebbe servito per un attentato incendiario in danno di un locale. 18.5. Ritenuta immune da vizi la decisione dei giudici di merito sulla partecipazione di Ri. all'associazione mafiosa e sulla custodia delle armi per conto della stessa, risulta manifestamente infondato il successivo motivo relativo all'applicabilità nei confronti del ricorrente dell'aggravante ex art. 416 - bis, quarto comma, cod. pen., con il quale si è dedotto un presunto difetto di accertamento circa la componente psicologica. 18.6. Il Tribunale ha spiegato puntualmente le ragioni per le quali ha ritenuto di riconoscere le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza al solo Ca. e non a Pe., Bi., Pe. e Ri. (pagg. 396 - 397). La Corte di appello ha condiviso la motivazione del primo giudice e ha mantenuto il giudizio di equivalenza pur a seguito della modifica del reato più grave (stante l'assoluzione per l'estorsione di cui al capo 20), determinando la pena nel minimo edittale, con un "trattamento sanzionatorio congruo ed adeguato ai concreti aspetti della vicenda criminosa ed alla personalità del reo": si tratta di una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito. 18.7. È priva di ogni fondamento anche l'ultima censura, relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante ex art. 416 - bis.1, terzo comma, cod. pen.: la sentenza impugnata ha osservato che Ri. "si è ben guardato in dibattimento dall'offrire un contributo che potesse nuocere ai coimputati, in particolare a Pe. S.R., cercando di riversare le responsabilità a carico di Ab.Ga., svalutandone la personalità" (pag. 307) e che è mancata una fattiva attività di collaborazione dell'imputato, volta ad evitare che l'attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori e a coadiuvare gli organi inquirenti nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori dei delitti. 18.8. Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 19. Ricorso Sa.. L'imputato è stato condannato per il reato di cessione in concorso di un'arma con munizionamento, contestato al capo 6. Vari motivi sono sovrapponibili a quelli proposti nel ricorso di Fo. e le osservazioni svolte in precedenza (sub par. 10.) sono pertinenti sotto vari profili: quanto alla compatibilità fra la condanna per la cessione della mitraglietta e l'assoluzione per la detenzione dello stupefacente, non derivante da un giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie di Sc.; quanto alla dedotta assenza in atti dei tabulati e alla inammissibilità della lettura alternativa proposta; quanto alla inammissibilità di una diversa interpretazione di conversazioni intercettate. La difesa, poi, ha censurato la ritenuta attendibilità delle dichiarazioni di Sc., ritenendo la motivazione superficiale e generica; tuttavia, la Corte territoriale, così come già il Tribunale (pagg. 75 - 76), ha affrontato il problema delle presunte contraddizioni (pagg. 239 - 240) e il ricorso è esso stesso generico in quanto ha richiamato semplicemente l'oggetto delle ipotetiche divergenze segnalate in appello senza confrontarsi con le risposte della Corte. Quanto alla testimonianza resa in dibattimento dall'ispettore Di Clemente, riscontro alle dichiarazioni di Sc. (che neppure conosceva i venditori dell'arma), la sentenza ha osservato che nessun difensore, nel corso dell'esame, ha mai chiesto al teste di indicare la fonte dell'informazione, ammesso che si trattasse di una fonte confidenziale (pag. 241): ne consegue la piena utilizzabilità della deposizione. Anche le risultanze dei tabulati telefonici sono state correttamente utilizzate come riscontro, atteso che i contatti tra le utenze intercettate consentono di trarre dati obiettivi quali la frequenza e loro collocazione temporale e di luogo (Sez. 6, n. 45933 del 22/10/2015, Sorgente, Rv. 265067; Sez. 1, n. 34658 del 13/03/2015, Gagliardi, Rv. 264599; Sez. 1, n. 29383 del 24/06/2009, Sergi, Rv. 244303; di recente v. Sez. 1, n. 34894 del 29/03/2022, Cubeddu, Rv. 283498, non mass, sul punto). La difesa ha evidenziato che la sentenza, con riferimento ai tabulati, ha parlato di "elementi indiziari ambigui" (pag. 244); tuttavia, dal séguito della motivazione si comprende che con quella espressione la Corte intendesse evidenziare che non si trattava "di una prova autosufficiente", quale non è un riscontro a una chiamata di correo, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744; Sez. 6, n. 38994 del 06/06/2017, Giacino, Rv. 271081; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260607; da ultimo v. Sez. 5, n. 10873 del 15/02/2024, Runci, non mass.). Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile. 20. Ricorso Bi.. L'imputato è stato condannato per i reati di concorso in detenzione illegale e porto in luogo pubblico di esplosivo (capo 3). 20.1. È non consentito e comunque manifestamente infondato il motivo in tema di responsabilità con il quale si censura una "errata interpretazione delle risultanze probatorie" e una "arbitraria interpretazione" di una intercettazione di una conversazione ambientale, in contrasto con i principi ricordati nella parte generale sub par. 1.3. e 2. La sentenza impugnata (pag. 311), aderendo alla motivazione di quella di primo grado (pagg. 105 - 106), ha dato valore decisivo, al fine di ritenere la piena consapevolezza di Bi. circa il contenuto del pacco contenente l'esplosivo, ricevuto nel locale pubblico ove egli lavorava, al dialogo tra Ca. e Sc., durante il quale il primo, ignaro di essere intercettato, rappresentava all'altro tutta la preoccupazione di Bi., persona fidata, che evidentemente aveva accettato di custodire la partita di esplosivo ricevuta da Ca.Ma., sia pure per breve tempo e con l'intenzione di liberarsene quanto prima. Già il Tribunale aveva chiaramente motivato in ordine alla evidente inattendibilità delle dichiarazioni rese dai familiari di Bi.. 20.2. È parzialmente fondato il motivo inerente alla prescrizione dei reati. Considerato un mero errore materiale il riferimento al secondo comma dell'art. 99 cod. pen. nel capo d'imputazione, trattandosi di recidiva semplice (come confermato anche dal certificato del casellario giudiziale), in assenza di aggravanti a effetto speciale applicate all'imputato, i calcoli dei termini di prescrizione effettuati dalla difesa sono corretti: ai sensi degli artt. 157, primo comma, e 160, secondo comma, cod. pen., il tempo necessario a prescrivere va quantificato in dieci anni per il reato di detenzione illegale (punito ex art. 2 della legge n. 895 del 1967 con pena massima di otto anni) e in dodici anni e sei mesi per quello di porto illegale (punito ex art. 4, primo comma, della stessa legge con pena massima di dieci anni). Il ricorrente, tuttavia, ha ignorato tutte le cause di sospensione della prescrizione, previste dall'art. 159 cod. pen., risultanti dalla analitica e lunga parte relativa allo svolgimento del processo della prima sentenza, per complessivi 602 giorni, come specificato dalla Corte di appello (pag. 226). In base a questa precisa indicazione, non censurata, la prescrizione è maturata per il reato di detenzione illegale nell'aprile 2021 e per quello di porto nell'ottobre 2023, quindi per il primo delitto ampiamente prima della sentenza di appello, emessa il 25 ottobre 2022, per il secondo ampiamente dopo. Il motivo, dunque, è fondato limitatamente alla prescrizione del reato di detenzione illegale dell'esplosivo, per il quale il Tribunale, con statuizione confermata in appello, ha determinato la pena in mesi tre di reclusione ed Euro 250 di multa, che conseguentemente va eliminata con annullamento senza rinvio, ai sensi dell'art. 620, comma 1, lett. l), del codice di rito. Resta ferma la determinazione della pena (di anni due, mesi nove di reclusione ed Euro 500 di multa) per il residuo e più grave reato di porto illegale, contestato nello stesso capo 3, in relazione al quale il ricorso è inammissibile. Ciò in applicazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/5/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966). Si è poi precisato che detto principio va applicato solo nei casi in cui il ricorso - come nella fattispecie - sia ritenuto inammissibile in relazione al capo avente ad oggetto il reato considerato dai giudici di merito come il più grave, per il quale sia determinata la pena base (Sez. 2, n. 16022 del 22/03/2023, Sili, Rv. 284524). 21. Annullamenti e condanna alle spese. La sentenza impugnata, pertanto, viene annullata, nei ristretti limiti di cui si è detto, soltanto nei confronti di Bi. (senza rinvio), di Pe. e Pe. (con rinvio). Al rigetto della impugnazione proposta da Be. segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Alla inammissibilità delle altre impugnazioni proposte segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bi.Lo., limitatamente al reato di detenzione di esplosivo contestato al capo 3) perché estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi tre di reclusione ed Euro 250 di multa. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Ridetermina la pena per il residuo reato di cui al capo 3) in anni due, mesi nove di reclusione ed Euro 500 di multa. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Pe.Sa. e Pe.Al., limitatamente alla misura della pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d'appello di Perugia. Rigetta nel resto i ricorsi. Rigetta il ricorso di Be.Ni., che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di Am.Ma., Ca.Mi., Ca.Al., Fo.Sa., Gi.An., Li.Ma., Ma.Fr., Ol.Ro., Po.An., Ri.Fi., Sa.Do., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 ciascuno in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 10 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente - Dott. PAZIENZA Vittorio - Relatore Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRÌ Ubalda - Consigliere Dott. MAGRO Maria Beatrice - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: Du.Gh., nato in M il Omissis avverso la sentenza emessa il 24/05/2023 dalla Corte d'Appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione del Consigliere Vittorio Pazienza; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Stefano Tocci, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria di replica del difensore del ricorrente, avv. Ch.Be., che ha concluso insistendo per l'accoglimento dei motivi di ricorso RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 24/05/2023, la Corte d'Appello di Venezia ha confermato la sentenza emessa con rito abbreviato dal G.u.p. del Tribunale di Rovigo, in data 30/04/2019, con la quale Du.Gh. era stato condannato alla pena di giustizia in relazione ai delitti di maltrattamenti e violenza sessuale continuata in danno della moglie Pu.An.. 2. Ricorre per cassazione il Du.Gh.. a mezzo del proprio difensore, deducendo: 2.1. Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta attendibilità della persona offesa. Si censura la sentenza per essersi la Corte basata, quanto alle accuse di violenza sessuale, unicamente sulle dichiarazioni della Pu.An. contenute nella denuncia-querela in atti, e per aver ritenuto inattendibile quanto successivamente dichiarato dinanzi al G.u.p., con una motivazione carente e illogica. Si evidenzia, in particolare, l'assenza di massime di esperienza idonee a suffragare tale motivazione frazionata, con un sostanziale acritico richiamo alle considerazioni svolte dal primo giudice, che aveva definito "una ritrattazione" le successive dichiarazioni: e ciò in assenza di prove di pressioni o minacce da parte del Du.Gh.. Si evidenzia altresì la contraddittorietà di tale percorso argomentativo rispetto alla concessione delle attenuanti generiche, fondata tra l'altro su una ricomposizione della situazione familiare. 2.2. Vizio di motivazione con riferimento alla sollecitata applicazione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza. Si lamenta l'assenza di motivazione sul punto, nonostante la deduzione, con i motivi di appello, di elementi idonei alla modifica del giudizio di bilanciamento (buon comportamento processuale, rispetto delle misure cautelari applicate, costante mantenimento della famiglia, sottoposizione a visite psichiatriche). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve essere perciò rigettato. 2. Per ciò che riguarda il primo ordine di censure, è opportuno prendere le mosse dal consolidato indirizzo interpretativo di questa Suprema Corte, secondo cui "in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento" (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747 -01). In tale prospettiva ermeneutica, che si condivide e qui si intende ribadire, le doglianze difensive non superano lo scrutinio di ammissibilità, risolvendosi nella censura del merito delle valutazioni operate dalla Corte d'Appello (in piena sintonia con il primo giudice), e nella reiterata prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, il cui apprezzamento in questa sede è evidentemente precluso. D'altra parte, la Corte d'Appello ha adeguatamente esposto le ragioni poste a base della conferma della condanna anche per il delitto di violenza sessuale continuata e pluriaggravata in danno della moglie, evidenziando che la credibilità della persona offesa - che la stessa difesa aveva ritenuto di non contestare con i motivi di appello, quanto alle accuse di maltrattamenti - doveva ritenersi pacifica anche quanto all'imputazione sub B), avuto riguardo all'assenza di contraddizioni intrinseche e alla posizione di debolezza, anche economica, in cui la persona offesa si trovava rispetto al marito: situazione, quest'ultima, che doveva essere adeguatamente considerata nella valutazione delle dichiarazioni, di tutt'altro segno, rese dalla donna nel corso del giudizio di primo grado. A fronte di dettagliate descrizioni delle violenze, ricostruite dalla persona offesa ed inquadrate nel contesto di violenza e sopraffazione che connotava il rapporto coniugale e che - si ripete - non è stato posto in discussione dalla difesa (che aveva esplicitamente escluso, nell'atto di appello, di voler censurare la condanna per il delitto di maltrattamenti: cfr, pag. 2 della sentenza impugnata), le dichiarazioni rese in sede processuale dalla Pu.An., volte a negare qualsiasi violenza nei rapporti sessuali (ricondotti al desiderio del Du.Gh. di "fare pace") sono state considerate dalla Corte territoriale (cfr. pag. 4) un "maldestro" tentativo di sminuire la condotta del marito. Tra l'altro, la Corte ha precisato che qualsiasi incertezza sulla verbalizzazione delle precedenti dichiarazioni doveva essere esclusa, dal momento che la Pu.An. aveva in precedenza riferito, alla psicologa del centro antiviolenza presso cui era seguita, le connotazioni anche sessuali delle violenze subite (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). Si tratta, all'evidenza, di un percorso argomentativo del tutto immune da criticità deducibili in questa sede, che la difesa ha ritenuto di confutare sostenendo che le conclusioni raggiunte dai giudici di merito, in ordine alla "valutazione frazionata" delle dichiarazioni, non erano sorrette da a cuna massima di esperienza. Al riguardo, e al di là delle già richiamate considerazioni della Corte d'Appello in ordine alla "matrice economica" probabilmente alla base della ritrattazione della Pu.An. quanto alle violenze subite, la tesi difensiva sembra non considerare che l'attendibilità della persona offesa risulta ulteriormente rafforzata dal fatto che le violenze lamentate si inserivano in un contesto di gravi sopraffazioni ed angherie, che connotavano il menage coniugale e che la difesa,, come già più volte ricordato, ha ritenuto di non contestare già in fase di appello. In tale quadro, sembra anzi possibile ribaltare l'argomentazione difensiva, nel senso che risulterebbe palesemente contraria ali'id quod plerumque accidit l'ipotesi di un rapporto coniugale costantemente e pacificamente connotato, per molti anni, da violenze e sopraffazioni di ogni genere, che la Pu.An. sarebbe stata costretta a subire salvo che nell'ambito dei rapporti sessuali di coppia. 3. La residua doglianza è infondata. La Corte territoriale ha in termini sintetici disatteso le richieste difensive in punto di trattamento sanzionatorio, ritenendo rispettati i parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. da parte del primo giudice e non ritenendo sussistere elementi di novità idonei a supportare una decisione di riforma, con conseguente "reiezione di ogni ulteriore e diversa istanza difensiva sul punto" (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). Ritiene il Collegio che tale motivazione debba essere ritenuta sufficiente, avuto anche riguardo alla sostanziale inconsistenza degli elementi addotti a sostegno di una diversa valutazione: il comportamento processuale (connotato da una confessione limitata all'accusa meno grave), il rispetto della misura cautelare applicata (costituente il mezzo per evitare aggravamenti), la partecipazione al processo (elemento totalmente neutro), il mantenimento economico di moglie e figli (condotta doverosa per evitare ulteriori conseguenze sanzionatone), la sottoposizione a visite psichiatriche (elemento anch'esso già inidoneo a fondare una valutazione di prevalenza delle attenuanti). 4. Le considerazioni fin qui svolte impongono il rigetto del ricorso, e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI PALERMO, Te.Sa., nato a P il (omissis), Sc.Lu., nato a P il (omissis), Ma.Vi., nato a P il (omissis), Di.Pi., nato a P il (omissis), Ur.En., nato a P il (omissis), Lu.Pi., nato a P il (omissis), Mi.Al., nato a P il (omissis), Mi.Pa., nato a P il (omissis), Mi.Lo., nato a P il (omissis), Te.Ca., nato a P il (omissis); avverso la sentenza del 11/04/2022 della Corte d'appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FULVIO BALDI, il quale ha concluso chiedendo che: a) in accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, la sentenza impugnata venga annullata con rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio nei confronti di Mi.Al.; b) la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio nei confronti di Mi.Lo. limitatamente alle statuizioni civili in favore delle associazioni che non si erano costituite e che il ricorso dello stesso Mi.Lo. sia dichiarato inammissibile nel resto; c) la sentenza impugnata sia annullata con rinvio nei confronti di Te.Sa. e di Sc.Lu. limitatamente al trattamento sanzionatorio e che i ricorsi degli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. siano dichiarati inammissibili nel resto; d) i ricorsi di Di.Pi., Lu.Pi., Ma.Vi., Mi.Al., Mi.Pa., Te.Ca. e Ur.En. siano dichiarati inammissibili; udito l'Avv. FE.DA., in sostituzione dell'Avv. AL.GA., in difesa della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti gli altri ricorsi e la conferma delle statuizioni civili e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'Avv. ET.BA., il quale si è associato alle conclusioni del Pubblico Ministero e ha depositato conclusioni scritte e nota spese per tutte le parti civili che rappresenta, in proprio o in sostituzione; udito l'Avv. AN.BA., in difesa di Te.Sa., il quale, dopo la discussione, ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., sempre in difesa di Te.Sa., il quale si è riportato integralmente ai motivi di ricorso e si è associato alle conclusioni del codifensore; udito l'Avv. DI.BE., in difesa di Sc.Lu., il quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., in difesa di Sc.Lu., Lu.Pi. e Te.Ca., il quale ha insistito nei motivi dei ricorsi, dei quali ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in sostituzione dell'Avv. EL.GA., in difesa di Mi.Lo., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Ur.En., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Mi.Al., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi di ricorso, del quale ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Di.Pi. e di Mi.Pa., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi dei ricorsi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 11/04/2022, la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 28/09/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, emessa in esito a giudizio abbreviato: 1) confermava la condanna di Te.Sa. alla pena di 16 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di: a) promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; 2) confermava la condanna di Sc.Lu. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; e) violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno di cui al capo 27 dell'imputazione (aggravata ex art. 416-bis 1 cod. pen.). La Corte d'appello di Palermo, inoltre, unificati dal vincolo della continuazione i reati sub iudice con quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, e ritenuto più grave quello di cui al capo 1) dell'imputazione, aumentava la pena inflitta allo Sc.Lu. per i fatti già giudicati di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione e, per l'effetto, dichiarava che la pena complessiva diveniva pari a 22 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; 3) confermava la condanna di Ma.Vi. per il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424, secondo comma, cod. pen.) in concorso di cui al capo 21) dell'imputazione, riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per tale reato, "tenendo conto della riqualificazione della recidiva allo stesso contestata in reiterata"; 4) confermava la condanna di Di.Pi. alla pena di 12 anni di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; c) traffico illecito di sostanze stupefacenti (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione; 5) assolveva Ur.En. dal reato di usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e confermava la condanna dello stesso imputato per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione (art. 418, secondo comma, cod. pen.), riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'Ur.En. (pena sospesa), tenuto conto della predetta assoluzione e della considerazione come non contestata, con riferimento al reato di assistenza agli associati, la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen.; 6) confermava la condanna di Lu.Pi. alla pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso, aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen., di cui al capo 12) dell'imputazione; 7) assolveva Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto e confermava la condanna dello stesso 7Mi.Al. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. Riduceva a 11 anni e 8 mesi di reclusione la pena irrogata all'imputato; 8) confermava la condanna di Mi.Pa. alla pena di 11 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; 9) riqualificata la condotta di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso contestata a Mi.Lo. al capo 2) dell'imputazione in concorso esterno in tale associazione, ed escluse, nei confronti dello stesso Mi.Lo., le circostanze aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., rideterminava in 8 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per il predetto reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione; 10) confermava la condanna di Te.Ca. alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione per il reato di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 2. Avverso l'indicata sentenza della Corte d'appello di Palermo, hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo e, per il tramite dei propri rispettivi difensori, Te.Sa., Sc.Lu., Ma.Vi., Di.Pi., Ur.En., Lu.Pi., Mi.Al., Mi.Pa., Mi.Lo. e Te.Ca. 3. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo, che è relativo alla posizione del solo Mi.Al., è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente deduce la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato, nel dispositivo, di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione (art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ora art. 512-ò/s cod. pen.) e nella parte in cui ha rideterminato la pena applicata allo stesso Mi.Al.in 11 anni e 8 mesi di reclusione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe: a) in primo luogo, da un lato, nel dispositivo, dichiarato di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione e non di non applicare alcun aumento di pena per tale reato e, dall'altro lato, nella motivazione, motivato in realtà nel senso che l'appello del Mi.Al. era fondato solo "limitatamente alla dosimetria della pena" (pag. 165 della sentenza impugnata) e della conferma della responsabilità dello stesso Mi.Al. anche per il predetto reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pagg. 170 e 171 della sentenza impugnata); b) in secondo luogo, da un lato, affermato, come si è detto, che l'appello del Mi.Al. era fondato in ordine alla "dosimetria della pena" e, dall'altro lato, in realtà confermato la pena di 11 anni e 8 mesi di reclusione che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per i reati di cui ai capi 2) e 15) dell'imputazione, al netto dell'aumento di pena per il reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pag. 476 della sentenza impugnata). 4. I ricorsi di Te.Sa. Te.Sa. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. An.Ba.. 4.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a undici motivi. 4.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis , primo, secondo, terzo, quarto e quinto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di promozione, organizzazione e direzione di un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 4.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce che, dalle risultanze processuali, non sarebbero emersi fatti concreti e specifici dimostrativi né dell'esteriorizzazione, da parte dei sodali, della forza di intimidazione del vincolo associativo, né della condizione di assoggettamento e di omertà in capo ai terzi, né di una ripartizione di ruoli e di rispettati vincoli gerarchici tra gli associati. Il Te.Sa. rappresenta che tali elementi dell'associazione di tipo mafioso non potrebbero essere logicamente ritenuti esistenti, contrariamente a quanto mostrerebbe di ritenere la Cotte d'appello di Palermo, sulla base né dei precedenti penali propri e di alcuni dei coimputati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., né delle asseritamente "datate" "indeterminate" e "generiche" propalazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. - atteso anche che esse "nulla aggiungono su fatti concreti ed attuali" -, né di "alcuni incontri effettuati tra i vari coimputati e dai loro reciproci contatti", né dei tre modesti contestati episodi estorsivi di cui ai capi 5), 9) e 11) dell'imputazione, con riguardo a due dei quali era peraltro intervenuta l'assoluzione dell'unico imputato, mentre del terzo non era il Te.Sa. a risponderne. 4.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe stato invece necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione del Te.Sa. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità dei predetti collaboratori e dell'attendibilità delle loro dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse dichiarazioni -, tenuto anche conto del fatto che il Ga.Vi. e il Fl.Se. aveva appreso quanto da loro riferito da terzi (da Sa.Ni. per quanto riguarda il Ga.Vi. e da Di.Gi. e da La.To. per quanto riguarda il Fl.Se.), con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa, le quali, invece, non erano mai state sentite. Il ricorrente rappresenta poi specificamente: a) quanto alle dichiarazioni del Ga.Vi., che esse non avrebbero "offerto alcuno spunto investigativo, né hanno fatto riferimento a fatti specifici con riguardo al comportamento contestato al Sig. Te.Sa. nel capo di imputazione 1) e nell'arco temporale delineato da questa contestazione", sicché esse costituirebbero "un mero dato neutro", "atteso che l'asserita vicinanza in passato del Sig. Te.Sa. ai Sig.ri Ta. non è comprovante dell'attuale e concreta sua intraneità nel presunto sodalizio mafioso nell'arco temporale delineato nel capo di incolpazione 1)"; b) quanto alle dichiarazioni del Fl.Se., che questi si sarebbe "limitato a riferire notizie risalenti nel tempo - già coperti da giudicato - limitatamente al fatto che terze persone nominavano qualche volta in maniera vaga e astratta il nome del Sig. Te.Sa., senza pertanto descrivere fatti specifici" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare che il Fl.Se. aveva affermato di conoscere il Te.Sa. solo di nome, che aveva appreso dai menzionati Di.Gi. e La.To. La sentenza impugnata sarebbe poi affetta da contraddittorietà e da illogicità "nella parte in cui il propalante Sig. Fl.Se. collocava il Sig. Te.Sa. in una famiglia mafiosa diversa (Br.) da quella in cui si presume faccia parte (Co.)". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni dei due menzionati collaboratori di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, il Te.Sa. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con Sc.Lu., il Vi. e Mu.Gi., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità di esso a costituire prova della propria partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) il significato delle conversazioni del 4/12/2015, del 11/12/2015 e del 12/12/2015 presso Largo (omissis) - inteso dalla Corte d'appello di Palermo nel senso che l'imputato aveva il "ruolo di coordinatore delle attività estorsive ai danni dei commercianti della zona" (così il ricorso) - sarebbe stato frainteso, atteso, in particolare, che dalle stesse conversazioni non emergerebbe la consegna di denaro provento dell'attività estorsiva da parte del Di.Gi. e da parte del Gi.Sa. al Te.Sa., che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato la "massima di esperienza secondo cui è incompatibile con l'assunzione del ruolo di dirigente di una consorteria criminosa che un soggetto subordinato e dedito alla riscossione del c.d. "pizzo" possa pretendere autonomamente e contravvenendo alle direttive il raddoppio di una presunta pretesa estorsiva" e che il Te.Sa. "assiste ai racconti dei suoi interlocutori in modo passivo e inerme, tali da dimostrare che non dava direttive o ordini sul da farsi ai propri sottoposti; così derivando un travisamento della prova"; b) con riguardo alla conversazione dell'11/11/2017, la Corte d'appello di Palermo "non riscontrava la circostanza che la persona imputata si fosse limitato semplicemente a dire, senza particolare interesse, al Sig. Ca. che i Sig.ri Ca. e Mi. avrebbero fatto meglio a curarsi ognuno il proprio orticello senza calpestarsi i piedi, piuttosto che usare il suo nome indebitamente senza escogitare, a differenza di quanto prospettato dal Decidente, eventuali ritorsioni, ma soprattutto senza impartire alcuna direttiva e senza esercitare alcun controllo del territorio" e che la stessa Corte d'appello non avrebbe considerato che al Te.Sa. non era stato contestato il reato di cui all'art. 291-quater del D.P.R. 23 gennaio 1972, n. 43, in ordine al quale gli altri imputati erano stati assolti; c) con riguardo alle conversazioni del 8/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Sc.Lu., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); d) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione ai danni di commercianti, che lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e che, dall'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "il Sig. Te.Sa. richiedeva al Sig. De.Gi. la restituzione dei propri soldi personali perché non era soddisfatto della gestione di quest'ultimo a causa delle ingenti perdite e dei presunti ammanchi di cassa"; e) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il Sig. Te.Sa. chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara all'odierno imputato", cioè "una situazione prettamente e squisitamente personale" del Te.Sa., "il quale aveva l'esclusivo interesse a chiedere spiegazioni sul motivo che ha portato i rapinatori a percuotere l'impiegata dell'esercizio commerciale in cui si è perpetrata al rapina". In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 4.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , primo e secondo comma, cod. pen., nonché agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione come partecipazione a tale associazione anziché come direzione e organizzazione della stessa. Dopo avere citato diverse sentenze della Corte di cassazione sul tema, il Te.Sa. deduce che dalle prove che sono state valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo non emergerebbero elementi tali da fare ritenere che egli avesse assunto un ruolo apicale, "attivo e dinamico", all'interno della famiglia mafiosa di Co. e lamenta il carattere anapodittico e manifestamente illogico della motivazione della sentenza impugnata là dove essa argomenta in ordine all'assunzione di detto ruolo. A proposito delle singole prove valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta: a) la non decisività e la non persuasività delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., atteso che essi "non hanno rivelato fatti specifici e concreti comprovanti la contestazione"; b) che l'attribuito ruolo apicale non potrebbe trovare fondamento logico neppure nel contenuto delle intercettazioni telefoniche e tra presenti "in ordine ai presunti incontri avvenuti tra il Sig. Te.Sa. e altri sospettati sodali", né nell'impiego di denaro in presunte attività nel settore del gioco e delle scommesse; c) che, in particolare, con riguardo alla conversazione del 04/12/2015 (riportata alle pagg. 95-96 della sentenza impugnata), in essa il Gi.Sa. e il Di.Gi. "riferivano all'odierno impugnante delle pretese estorsive di soggetti non meglio identificati e di avere agli stessi consegnato delle somme di denaro di presunta provenienza illecita, cosicché la dimostrazione dell'asserito ruolo apicale assunto dal Sig. Te.Sa. è smentita", atteso che "se il Sig. Te.Sa. avesse assunto una posizione apicale in seno alla consorteria mafiosa, non avrebbe avuto senso che i Sig.ri Di.Gi. e Gi.Sa. consegnassero il denaro proveniente da attività predatorie ad altri soggetti, né che questi ultimi avessero avuto l'autorità di pretendere somme più ingenti"; d) che il ruolo apicale dell'imputato non potrebbe essere desunto neppure dall'incontro con i rapinatori della sala bingo "Taj Mahal", atteso che "in quell'occasione il Sig. Te.Sa. aveva soltanto l'interesse a rimproverare i rapinatori per il loro comportamento aggressivo e violento posto in essere nei confronti di una giovane impiegata di detta impresa, che era molto amica" sua e che dalle emergenze processuali non risulterebbe "dimostrato che altri soggetti presunti appartenenti alla famiglia di Vi. si siano recati dallo stesso al fine di chiedere spiegazioni in ordine all'esecuzione di detta rapina, atteso che, ammesso e non concesso, la stessa comunque non è stata commissionata dalla presunta famiglia mafiosa di Co., né tanto meno può imputarsi alla figura dell'odierno impugnante, il quale è allo scuro di tutto". Il ricorrente lamenta ancora che: a) la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che la figura del Te.Sa. non era emersa nell'ambito del procedimento penale cosiddetto "Cupola 2.0", nel quale risultavano diversi incontri tra esponenti della consorteria mafiosa, tra i quali Se.Mi., indicato come il nuovo capo della ricostituita commissione provinciale di "Cosa Nostra", il che contrasterebbe che l'assunto secondo cui il Te.Sa. sarebbe stato "a capo della famiglia de qua") b) i collaboratori di giustizia Co., Bi. e Ma., così come "gli altri citati in sentenza", "nulla riferiscono di posizioni apicali in ordine all'odierno appellante". 4.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente lamenta il carattere astratto, generico, apparente, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata, la quale si rivelerebbe inconsistente e carente nella valutazione dei fatti processuali e avrebbe travisato il significato delle conversazioni intercettate. A proposito degli elementi di prova valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta, con riguardo al delitto presupposto e alla provenienza dallo stesso del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro.", che: a) la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con la deduzione difensiva secondo cui i reati di estorsione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti, indicati nel capo 13) d'imputazione, non avevano trovato riscontro, atteso che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva assolto Sc.Lu. dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti e che tale reato, così come quello di estorsione, non era stato contestato al Te.Sa. (così come allo Sc.Lu. non era stata addebitata alcuna condotta estorsiva); b) la stessa Corte d'appello non avrebbe "consideralo il fattore temporale secondo cui tali fatti-reato siano oltretutto successivi al tempus commissi delicti della presunta condotta di autoriciclaggio"; c) la sentenza impugnata non avrebbe neppure considerato "l'irrisorietà del valore economico dei presunti profitti illeciti riconducibili ai reati presupposti contestati ai capi 5), 9) e 11) (ad imputati diversi dal Sig. TE.Sa. e dal Sig. Sc.Lu.)", con la conseguente irrisorietà dei profitti illeciti che la presunta organizzazione criminale avrebbe potuto ricavare dalla commissione di tali reati; d) non potrebbe "imputarsi come delitto presupposto la fattispecie prevista dall'art. 416-bis c.p. se non si prova in concreto se effettivamente dalla perpetrazione del reato associativo si siano ricavati profitti illeciti"; e) diversamente da quanto anapoditticamente ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, come sarebbe risultato dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dalla conversazione del 21/11/2017, "in realtà il mercato dei giochi e delle scommesse nel territorio in cui presumibilmente operava il sodalizio criminoso era dominato da diverse imprese operanti nel settore delle scommesse, su tutte la ditta "Am.Fi. Giochi di Am.Fi." e, viceversa, che la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"; f) non sarebbe "dirimente" neppure il fatto che l'imputato fosse disoccupato e privo di un patrimonio in conseguenza dell'applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, atteso che le argomentazioni dei giudici di merito non avevano "dimostrato (...) che la presunta somma di denaro oggetto di contestazione fosse di sicura provenienza illecita e non invece, secondo una lettura alternativa, frutto di un prestito di un parente o amico dell'imputato, ovvero di una somma di denaro che non era stata precedentemente sequestrata nell'ambito del procedimento di prevenzione"; g) la Corte d'appello di Palermo, con l'interpretare la frase intercettata "i piccioli della gente" nel senso che nell'impresa "Ca.Ro." erano stati investiti i soldi di provenienza illecita prelevati dalla cassa dell'associazione mafiosa, avrebbe travisato il significato di detta frase, la quale andrebbe invece "intesa nel senso che gli interlocutori (Sig.ri Te.Sa. e Sc.Lu.), non soddisfatti della gestione da parte del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". Con riguardo "all'aspetto soggettivo" del reato, il ricorrente deduce che non sarebbe stato dimostrato che l'imputato "abbia presumibilmente trasferito una somma di denaro nella ditta "Ca.Ro.", con consapevolezza e volontà, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della sua provenienza". Il ricorrente conclude affermando l'insufficienza delle risultanze delle effettuate intercettazioni a giustificare una sua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. 4.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato - e, poi, anche sulla distinzione tra sospetti e indizi e sulla valutazione della prova indiziaria - il ricorrente lamenta il carattere carente, anapodittico, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata. Anzitutto, con riguardo all'elemento materiale dei reati, il ricorrente deduce: a) quanto a quello di cui al capo 14) dell'imputazione: a.1) il già evidenziato (nell'ambito dell'esposizione del terzo motivo) travisamento, per le ragioni che si sono pure dette, della frase "i piccioli della gente"; a.2) che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con il dato dal quale sarebbe risultato che l'imputato (come anche lo Sc.Lu.) aveva prestato una somma di denaro a De.Gi., il quale gestiva l'impresa "Ca.Ro." che operava nell'ambito del noleggio di slot machines e, quindi, del gioco e delle scommesse, così travisando i fatti e la prova allorquando imputava la riconducibilità di detta impresa allo stesso imputato, il quale, "allorquando si accorgeva della mala gestio del Sig. De.Gi. gli richiedeva indietro il proprio denaro personale che gli aveva in precedenza dato a credito, stante lo stato di insolvenza che da lì a poco stava travolgendo il Sig. De.Gi.", con la conseguenza che, date tali circostanze, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "bypassato di accertare" se l'imputato fosse il gestore occulto dell'impresa de qua; b) quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, che la Corte d'appello di Palermo "non delinea alcun contributo causale e/o morale" dell'imputato "nella costituzione della società (...) Srl" - in particolare, non avrebbe "spiegato sulla base di quali elementi e circostanze desumeva che il contratto di locazione (dell'immobile di corso (omissis), n. (omissis)) fosse stato stipulato nell'interesse e per conto dell'odierno ricorrente" - e non avrebbe considerato che (...) Srl "non è stata mai avviata", in quanto "non aveva mai ricevuto l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di noleggio di slot machines, né (...) aveva nel suo patrimonio aziendale dette macchinette e tutta l'attrezzatura necessaria per l'assistenza tecnica". Il ricorrente deduce poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che il trasferimento fraudolento di valori è un reato a concorso necessario e a dolo specifico, con la conseguenza che, "non sussistendo la responsabilità penale nei confronti degli altri concorrenti necessari (atteso che il Ca.Ro. non era stato imputato e il La.Pa. e il Na.Gi. erano stati assolti per carenza del dolo specifico), ne deriva il venire meno della stessa anche nei confronti dell'odierno ricorrente dal momento che il delitto de quo non può ritenersi integrato con il venir meno del concorso necessario e del dolo specifico in capo agli altri concorrenti nel reato". Secondo il ricorrente, sarebbe carente, anche in capo a sé, l'elemento psicologico dei reati, atteso che "dal compendio probatorio non è possibile desumere elementi idonei a fornire la prova logica di commettere il fraudolento trasferimento dei beni allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione". 4.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto il concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione. Il ricorrente rappresenta in proposito che, come aveva dedotto nel non esaminato quinto motivo del proprio atto di appello, ai fatti contestati in detti capi d'imputazione - dovendosi ritenere che, come era stato dedotto nel non esaminato motivo del proprio atto di appello, la ridefinizione del fatto di cui al capo 13) da parte del giudice di primo grado violasse l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. - sarebbe applicabile la sola fattispecie di autoriciclaggio, di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., attesi, da un lato, la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" contenuta nell'art. 512-bis cod. pen. e, dall'altro lato, che la fittizia intestazione dell'impresa "Ca.Ro." aveva costituito "un segmento della più articolata condotta di autoriciclaggio", che sarebbe nella specie un reato a formazione progressiva, con la conseguenza che il più grave reato di autoriciclaggio dovrebbe assorbire il reato di trasferimento fraudolento di valori. 4.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il Te.Sa. rappresenta in proposito che tra i due reati si configurerebbe invece un concorso apparente di norme, in quanto quello di associazione di tipo mafioso, che costituirebbe, nella specie, un'ipotesi di reato complesso, punirebbe già la condotta di impiego, sostituzione e trasferimento in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali del denaro o delle altre utilità provenienti dallo stesso reato, al fine di ostacolarne l'identificazione della loro provenienza delittuosa, come sarebbe confermato, oltre che dalla stessa definizione di associazione di tipo mafioso fornita dal terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. e dalla comune ratio dei due reati, dalle previsioni di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. -comma nel quale "sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi" e che integrerebbe "una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base" - e al settimo comma dello stesso articolo, con la conseguenza che l'associato non potrebbe rispondere del reato di autoriciclaggio del denaro proveniente dalla commissione del delitto di associazione di tipo mafioso, pena la violazione dei principi del ne bis in idem sostanziale e del favor rei, oltre che dei principi di legalità costituzionale e convenzionale. Secondo il ricorrente, inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, il concorso apparente di norme non potrebbe essere negato per il solo fatto che, nella specie, non è prevista una clausola di riserva. Il Te.Sa. rappresenta ancora che il concorso tra i due reati in considerazione sarebbe stato escluso anche dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259587-01). Il ricorrente chiede che, qualora l'adita Corte di cassazione dovesse ravvisare un contrasto giurisprudenziale sul punto, la questione venga rimessa alle Sezioni unite. 4.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di tale circostanza aggravante, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione contraddittoria, generica e carente, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale, non avendo adeguatamente considerato che, dal compendio probatorio, non era risultato che egli avesse mai fatto uso di armi o che gliene fossero state sequestrate in occasione delle perquisizioni personale e domiciliare che erano state eseguite in occasione della sua sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, né che altri coimputati o la famiglia di Co. avessero fatto uso o disponessero di armi nel periodo di tempo di cui all'imputazione, ciò che non era emerso neppure dall'esito delle attività di intercettazione. Il ò1Te.Sa. rappresenta che non potrebbero deporre in senso contrario né il riferimento, fatto dalla Corte d'appello di Palermo, a "vicende passate, da collocare addirittura a molti anni prima e riguardanti anche le vicende di altre compagini associative" - in particolare, il rinvenimento, molti anni addietro, di munizioni all'interno di un autoarticolato di uno dei coimputati -, trattandosi di episodi che non lo riguardavano specificamente e ormai "coperti" da sentenza definitive, né la circostanza che il coimputato Ro. avesse fatto riferimento, in una conversazione con il padre, ad alcune armi (peraltro mai ritrovate), atteso che la disponibilità delle stesse non poteva essere attribuita alla famiglia di Co., dato che il Ro. non ne era partecipe. La Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato neppure da quali elementi si potesse desumere che egli era a conoscenza dell'esistenza di armi a disposizione della famiglia o per quali ragioni tale esistenza si dovesse ritenere da lui ignorata per colpa. 4.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema di tale circostanza aggravante, il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di essa, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione carente, contraddittoria e illogica, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente deduce che, dall'acquisito compendio probatorio, non sarebbero emersi - né la Corte d'appello di Palermo avrebbe dato adeguatamente conto di tale emersione - né l'investimento, da parte propria, nell'economia lecita, dei proventi dell'attività illecita del sodalizio criminoso, né che tale investimento "avesse assunto una misura e/o una quantità tale da controllare o tentare di controllare precisi settori merceologici nel territorio di riferimento", in modo da alterare le regole che governano l'economia, la concorrenza e la correttezza dei rapporti commerciali, dovendosi ritenere ricorrere, al più, una mera infiltrazione nel tessuto economico. Il ricorrente deduce in particolare in proposito che: a) come risulterebbe dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dall'intercettata conversazione del 21/11/2017, nel territorio di riferimento il mercato dei giochi e delle scommesse era in realtà dominato da diverse imprese, su tutte la "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.", mentre l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite; b) dal quadro probatorio non sarebbe emerso che l'associazione mafiosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti e dal settore del gioco e delle scommesse, mentre la Corte d'appello di Palermo avrebbe al riguardo omesso di considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione perpetrato dalla consorteria mafiosa ai danni di commercianti e che il coimputato Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990; c) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al ritenuto investimento, da parte dell'organizzazione mafiosa, di proventi illeciti nelle imprese che operavano nel settore del gioco e delle scommesse, tenuto conto che dalle emergenze processuali non sarebbe emerso che le imprese "Ca.Ro." e (...) Srl "siano finanziate dai proventi illeciti della presunta compagine associativa e, conseguentemente, che abbiano assunto una posizione predominante - che come abbiamo visto è del tutto smentita avendo il Giudicante travisato la prova - nel mercato del gioco e delle scommesse nel territorio di pertinenza della famiglia di Co."; d) la Corte d'appello di Palermo avrebbe travisato il significato dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, nella quale il Te.Sa., alla presenza dello Sc.Lu., aveva in realtà chiesto al De.Gi. di restituirgli i propri soldi personali in quanto non era soddisfatto della gestione dello stesso De.Gi. a causa delle ingenti perdite e degli ammanchi di cassa, come sarebbe confermato anche da un'ulteriore conversazione intercettata tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., anch'essa travisata, "in cui il ricorrente voleva restituito il suo denaro", nonché dalla frase "io ci ho messo un sacco di soldi", mentre la frase "i piccioli della gente" sarebbe stata male interpretata dalla Corte d'appello di Palermo, dovendosi essa intendere non nel senso che nell'impresa erano stati investiti i soldi di provenienza illecita tratti dalle casse dell'associazione criminosa ma nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu., "non soddisfatti della gestione del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". 4.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. 4.1.9.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente, dopo avere evidenziato che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416 bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", "ponendosi così in continuazione con la precedente condotta associativa", anche sulla premessa che il predetto reato è un reato permanente e, quindi, unico, costituendo "un segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo - costituito da fasi di detenzione o da condanne -", deduce l'incompatibilità tra la "presenza di un unicum delittuoso" o, comunque, la continuazione, e la recidiva. 4.1.9.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l'inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte d'appello di Palermo si sarebbe basata genericamente sulla semplice circostanza che la condotta tenuta dall'imputato sarebbe indicativa di una maggiore colpevolezza e propensione all'illecito, senza tenere conto del "comportamento" dello stesso imputato e del contesto sociale ed economico in cui i reati erano stati commessi. A tale proposito, il ricorrente deduce che il quartiere palermitano di Co. "versa in un precario degrado economico e sociale, nel quale mancano i servizi essenziali e in cui vive un'ampia fascia di popolazione in stato di semi-povertà" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare "in ordine alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, oltre all'eventuale occasionalità della ricaduta, al fine di stabilire propensione a delinquere da parte dell'impugnante". 4.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, senza motivare, abbia implicitamente ritenuto la sussistenza delle aggravanti dell'agevolazione mafiosa e del metodo mafioso, nonostante non fosse "dato rilevare alcun elemento tale da dimostrare (...) che il Te.Sa. abbia agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra", né che lo stesso abbia assunto un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso". Il ricorrente rappresenta al riguardo che: a) nell'intercettata conversazione del 01/07/2016, il Te.Sa. chiedeva al De.Gi. la restituzione di propri soldi personali, come sarebbe risultato anche da un'altra conversazione tra lo stesso Te.Sa. e lo Sc.Lu.; b) non sarebbe significativa, al fine di ritenere l'aggravante dell'agevolazione mafiosa, la frase "tutti i soldi in comune sono", atteso che essa "può interpretarsi nel senso che i soldi che il Sig. Te.Sa. ed altri presunti soci avevano conferito nell'impresa venivano gestiti in comune in quanto facenti parte del capitale sociale"; c) la frase "io ci ho messo un socco di soldi" significava che il Te.Sa. aveva "consegnato una propria somma di denaro rilevante e non di una moltitudine di persone, né di una presunta associazione delittuosa"; d) la frase "i piccioli della gente" andava intesa nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu. facevano presente al De.Gi. che egli "si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa", con la conseguenza che "il presunto interesse per il settore delle scommesse non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso"; e) l'asserito rapporto di conoscenza tra Te.Sa., Sc.Lu. e De.Gi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa". 4.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente motivato la determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di associazione di tipo mafioso sia degli aumenti per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, pervenendo a irrogare, per tutti tali reati, delle pene eccessive e inadeguate, in relazione all'effettiva gravità dei fatti e ala "scarsa pericolosità del soggetto agente", "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". 4.2. Il ricorso a firma dell'avv. An.Ba. è affidato a cinque motivi. 4.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., e la mancanza della motivazione con riguardo alla mancata applicazione di quest'ultima disposizione in tema di concorso tra più circostanze aggravanti a effetto speciale. Il ricorrente rappresenta che il proprio motivo di appello sul trattamento sanzionatorio era stato "implementato e illustrato con motivi nuovi espressamente incentrati sulla applicabilità al ricorrente dell'art. 63 comma 4 c.p." e lamenta che, in ordine a tale aspetto, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso qualsiasi motivazione. Il Te.Sa. deduce che per ciascuna delle aggravanti a lui attribuite, cioè quelle di cui ai commi quarto e sesto dell'art. 416-bis cod. pen. e la recidiva reiterata specifica, da ritenere tutte a effetto speciale, il giudice di primo grado aveva applicato il relativo aumento di pena, così non osservando il disposto del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 4.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e sesto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente rappresenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe preso posizione sul fatto che tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla sentenza del 01/12/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo sui partecipanti alla ricostituita "commissione". Ciò rappresentato, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata e, premessa l'inammissibilità del riferimento al fatto notorio che sarebbe stato operato dalla Corte d'appello di Palermo, deduce l'inadeguatezza della predetta motivazione in ordine all'effettivo reimpiego di profitti illeciti e l'improprietà del richiamo "alle sale "Bingo" ed alla raccolta di scommesse" (così il ricorso), in quanto esse costituirebbero "singole iniziative", non rappresenterebbero ""strutture produttive" capaci di generare "beni o servizi" del genere tutelato dall'aggravante" e sarebbero gestite in modo solo apparentemente legale ma, in realtà, illecito. Il ricorrente contesta altresì l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "è con riferimento a "Cosa Nostra", e non alle singole unità operative, che deve essere valutata (...) anche l'esistenza delle contestate circostanze aggravanti". 4.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e quarto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata al riguardo, lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe affermato la sussistenza della menzionata circostanza aggravante "su un piano meramente presuntivo anziché essere derivata da circostanze accertate in giudizio", facendo inammissibilmente leva sul fatto notorio e, comunque, argomentando in modo inadeguato in ordine sia alla materiale disponibilità di armi da parte dei partecipanti alla specifica struttura associativa in cui si sarebbe concretamente realizzata la condotta partecipativa sia in ordine alla consapevolezza di detta disponibilità, nonché trascurando il fatto che nessuno dei contestati reati-fine era stato commesso con l'uso di armi. 4.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 648-ter 1 cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la già ricordata sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo non avrebbe escluso il concorso tra il delitto di autoriciclaggio e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di autoriciclaggio abbia a oggetto denaro beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Il Te.Sa. lamenta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, ai fini della prova della provenienza del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro." da un delitto non colposo, del fatto che l'imputato "non disponeva di propri capitali" (così il ricorso), atteso che tale argomentazione, "oltre a sottendere un inammissibile ribaltamento dell'onere probatorio", trascurerebbe il fatto che "la gran parte delle disponibilità finanziarie facenti capo alle organizzazioni mafiose proviene dall'esercizio di lecite attività imprenditoriali e che nulla esclude l'eventualità - per i singoli affiliati - di conseguire proventi da attività sommerse o da illeciti di natura contravvenzionale". Il ricorrente rappresenta in proposito come la Corte d'appello di Palermo abbia trascurato il fatto che, come era stato riferito dal collaboratore di giustizia Ga.Vi., egli era titolare di un'officina ("lavorava, aveva tipo una cosa di meccanico di macchine lattoniere, una cosa del genere"), ancorché tale attività fosse esercitata in forma "sommersa". 4.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 99 cod. pen., inosservanza della legge penale e vizio della motivazione con riguardo all'applicazione della recidiva reiterata specifica "a due segmenti di un'unica condotta anziché a due distinti reati". Dopo avere rammentato che il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416-bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non abbia motivato in ordine alla doglianza, che era stata sollevata con il proprio atto di appello, secondo cui lo stesso contestato reato non costituiva un reato autonomo ma "il successivo segmento della condotta giudicata nel 2001" - con sentenza di condanna che aveva determinato T'interruzione" ma non la "cessazione" della permanenza - con la conseguenza che la commissione del reato in contestazione non poteva costituire il presupposto per l'applicazione della recidiva. 5. I ricorsi di Sc.Lu. Sc.Lu. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. Di.Be.. 5.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a tredici motivi. 5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis, primo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 5.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte, in ordine a tale aspetto, da Te.Sa., nel ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.1.1. 5.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe invece stato necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione dello Sc.Lu. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità del predetto collaboratore e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse -, tenuto anche conto del fatto che il So.Sa. avrebbe appreso quanto da lui riferito da terzi, con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa. Il ricorrente rappresenta poi specificamente che: a) il So.Sa. si sarebbe limitato a riferire che aveva dedotto che lo Sc.Lu. era intraneo alla consorteria mafiosa perché era "compare di Pi.", che egli identificava come il capo mandamento di V, sostenendo che era stato lo Sc.Lu. a fare incontrare il Pi. con il Ta.Pi., senza, tuttavia, specificare "il motivo, il giorno e il luogo", così rendendo una dichiarazione astratta e generica; b) lo stesso So.Sa. aveva altresì riferito di avere appreso che lo Sc.Lu. aveva collocato delle slot machines nel Comune di V, coinvolgendolo anche in una presunta condotta estorsiva "mai accertata e riscontrata processualmente". Poiché, con tali dichiarazioni, il So.Sa. non avrebbe in realtà fatto riferimento ad alcun fatto specifico in ordine alle condotte contestate all'imputato nel capo 1) dell'imputazione e nell'arco temporale in esso indicato e poiché le circostanze riferite dal collaboratore di giustizia non avevano trovato riscontro nel processo, né il Pi. e il Ta.Pi. erano stati sentiti, ne discenderebbe che le stesse dichiarazioni si dovrebbero ritenere costituire "un mero dato neutro" e che anche la valutazione di attendibilità delle medesime si dovrebbe ritenere "superficiale". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni del menzionato collaboratore di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con il Te.Sa., il Su., il Bi., il Cl., il Ta., il Na. e il Sa., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità dello stesso a costituire prova della propria partecipazione all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) con riguardo alle conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Te., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); b) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che lo Sc.Lu. non era stato ritenuto responsabile di alcun reato di estorsione ai danni di commercianti ed era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, e che, da II'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "gli interlocutori richiedevano, ognuno per la propria parte, i propri soldi al Sig. De.Gi."; c) l'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi, rispettivamente, 13), 14) e 15) dell'imputazione, non poteva costituire una conferma della partecipazione alla consorteria mafiosa, "in quanto si trattava di condotte delittuose di matrice esclusivamente personale e singola e non relative a un programma associativo"; d) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il coimputato chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara e amica del coimputato", e lo Sc.Lu. aveva mantenuto una mera "presenza (...) passiva", non intervenendo nella conversazione intrattenuta dagli altri soggetti presenti; e) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato "l'episodio dell'incendio delle autovetture della ditta di onoranze funebri del ricorrente", il quale episodio, come era stato evidenziato nel proprio atto di appello, "deponeva in senso contrario ad una presunta intraneità (...) nel sodalizio criminoso", dovendosi ritenere del tutto singolare che un sodale ritenuto vicino al capo mandamento di Br. potesse subire un atto incendiario di tal genere davanti alla propria abitazione, in quello che era reputato essere il territorio di riferimento dell'associazione mafiosa cui sarebbe appartenuto. In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel terzo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.3. Con l'aggiunta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato il fatto che la famiglia dello Sc.Lu. era titolare di un'agenzia di onoranze funebri, della quale l'imputato era un impiegato e, quindi, che questi disponeva di entrate lecite, finendo così con l'attribuire allo Sc.Lu. delle entrate di denaro di provenienza illecita alle quali, in realtà, egli non aveva mai fatto riferimento nelle conversazioni intercettate. 5.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quarto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.4. Con l'aggiunta che l'acquisito compendo probatorio deporrebbe "per un proscioglimento" dello Sc.Lu. dal reato di cui al capo 15) dell'imputazione in quanto: a) egli non avrebbe intrattenuto alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa., asseriti fittizi intestatari di (...) Srl; b) non sarebbe mai stato contattato per problematiche attinenti all'attività imprenditoriale; c) non avrebbe intrattenuto rapporti con gli esercenti presso i quali avrebbero dovuto essere installate le slot machines; d) non era menzionato nelle intercettate conversazioni riguardanti (...) Srl 5.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), e), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quinto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.5. Con la precisazione che il ricorrente deduce che la Corte di cassazione, a seguito della presentazione di un motivo nuovo non dedotto in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ancorché soltanto nei limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dal giudice di merito. 5.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni identiche a quelle dedotte da Te.Sa. nel sesto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.6. 5.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 75, comma 2, del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e agli artt. 43, 47 e 81, secondo comma, cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato dì violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione. Nel citare diversa giurisprudenza della Corte EDU, della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Corte di cassazione sul tema di detto reato, il ricorrente rappresenta che: a) "in assenza del contenuto dei dialoghi intrattenuti tra i coimputati nel corso di incontri conviviali", difetterebbe "la prova della "pericolosità" di tali episodici incontri", i quali, anche per il fatto di essere "saltuari" e "caratterizzati dalla spontaneità, senza una pregressa programmazione", non sarebbero stati "finalizzati a violare alcuna prescrizione imposta dal Giudice della prevenzione"; b) dal compendio probatorio era emerso che egli si era recato più volte nella propria casa di villeggiatura nel Comune di A, unitamente al proprio nucleo familiare, "senza per tale motivo mettere in concreto pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice de qua". Il ricorrente lamenta quindi che la Corte d'appello di Palermo non abbia escluso la sussistenza del reato in applicazione del principio di necessaria offensività, cioè senza verificare se il proprio comportamento avesse messo in pericolo o leso il bene giuridico tutelato "così da essere connotato da un'eloquente volontà di ribellione all'obbligo imposto in modo da vanificare lo scopo della misura", in assenza di "indicazioni univoche e chiare in ordine alla condotta posta in essere (...) da cui possa evincersi che la violazione sia avvenuta in concreto con l'intenzione di sottrarsi ai controlli ed al fine di tenere condotte illecite". 5.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel settimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.7. 5.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nell'ottavo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.8. Il ricorrente evidenzia altresì: a) che egli non era stato riconosciuto responsabile di alcun reato di estorsione perpetrato dalla presunta associazione mafiosa ai danni di commercianti ed era stato assolto, oltre che dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione; b) la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale andrebbe anch'essa intesa nel senso che sia lo Sc.Lu. sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro, "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". 5.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. Il ricorrente - nell'evidenziare che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al due luglio 2019 (precedente condanna (...) di Sc.Lu. in data 24.05.2006)" e che la Corte d'appello di Palermo ha riconosciuto la continuazione tra i reati sub iudice e quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007 - deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel nono motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.9. 5.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel decimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.10. Con riguardo ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente evidenzia anche la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale confermerebbe anch'essa che sia lui sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". Con riguardo al reato di cui al capo 27) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anche la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione della Corte d'appello di Palermo, la quale avrebbe del tutto omesso di confrontarsi con la doglianza difensiva secondo cui le violazioni delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno sarebbero state poste in essere "nel proprio esclusivo interesse e non con il proprio fine di agevolare l'associazione criminale "cosa nostra" (paradigmatici, in tal senso, i riferimenti alla frequentazione della propria abitazione di villeggiatura sita ad A o, ancora, di ristoranti e agriturismi, in alcun modo riconducibili alla consorteria)". 5.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. "in ordine all'illegittima individuazione del reato più grave, alla quantificazione della pena e del calcolo stabilito per il reato continuato e le circostanze aggravanti". Il ricorrente deduce anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite", e lamenta che la stessa Corte d'appello "non ha specificamente motivato circa la determinazione della pena, omettendo di indicare, nel dettaglio, non solo i singoli aumenti per ciascuno dei reati posti in continuazione previo "scorporo", allo scopo di verificare la proporzionalità dei singoli aumenti, di ciascuno di essi ma, altresì, le ragioni giustificative degli aumenti operati", avendo "optato per un aumento non contenuto né proporzionato rispetto alla pena base". In secondo luogo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe errato nell'individuare quale reato più grave quello sub iudice di cui al capo 1) dell'imputazione "in ragione dell'inasprimento della pena edittale, nonché della contestata recidiva ex art. 99 comma IV c.p.", atteso che, al fine di detta individuazione, "avrebbe dovuto comparare la gravità in concreto delle singole condotte e non limitarsi a fare una rilevazione relativa alla pena vigente nel singolo momento in cui i reati posti in continuazione sono stati commessi"; comparazione sulla base della quale il reato più grave avrebbe dovuto essere ritenuto quello associativo già giudicato, "perché la condotta posta in essere dall'odierno imputato aveva un disvalore maggiore, per la caratura dei soggetti coinvolti, per i fatti e le dinamiche emersi nell'ambito del pregresso processo, per l'intensità del dolo e la durata della condotta delittuosa, per la commissione del reato-fine di estorsione, per il ruolo ricoperto in seno alla famiglia di Co.". 5.1.12. Con il dodicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 63, quarto comma, 81, secondo comma, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione con la quale la Corte d'appello di Palermo, in ragione dell'"assenza di elementi positivamente valutabili" e "della elevata offensività della condotta ascritta all'imputato", ha confermato il diniego allo stesso delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente rappresenta al riguardo come la gravità del reato non si possa ritenere di ostacolo alla concessione del detto beneficio e come la Corte d'appello di Palermo, nel negarlo, avrebbe omesso di valutare gli elementi positivi, che erano stati evidenziati dalla propria difesa, della sua età anziana, delle sue gravi condizioni di salute (che avevano portato alla sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e che ne comprovavano la "scarsa pericolosità"), della sua "situazione familiare", del suo contesto socio-ambientale di vita e del "percorso rieducativo intrapreso (...) nell'espiazione della pena". Sotto un secondo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare in ordine al percorso logico-giuridico che aveva seguito nel determinare la misura della pena irrogata, la quale sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti e non idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo". Sotto un terzo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe erroneamente applicato il quarto comma dell'art. 63 cod. pen. Lo Sc.Lu. rammenta che la misura della pena è stata così determinata: a) pena base 12 anni di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del quarto comma dello stesso articolo; b) aumento di un terzo (quindi, di 4 anni di reclusione, arrivando così a 16 anni di reclusione) per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; c) ulteriore aumento di 2 anni di reclusione, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata specifica (arrivando così a 18 anni di reclusione). Ciò rammentato, il ricorrente afferma l'erronea applicazione del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. in quanto la Corte d'appello di Palermo, a norma di tale comma, "avrebbe potuto operare solo un aumento facoltativo di un terzo". Sotto un quarto profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo: a) avrebbe omesso di argomentare in ordine agli aumenti di pena, ai sensi del secondo comma dell'art. 81 cod. pen., "in modo distinto per i reati meno gravi"; b) nel riconoscere la continuazione con i reati già giudicati con la menzionata sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, non avrebbe "operato una riduzione degli aumenti per i reati-satellite posti in continuazione, così apparendo irragionevole e sproporzionato un simile trattamento sanzionatorio dal momento che veniva, in sede di appello, ritenuto responsabile di una condotta sanzionata in maniera più mite e, per l'effetto, dovevano essere rivisti gli aumenti per le altre condotte poste in continuazione"; c) ribadisce che, come già dedotto con l'undicesimo motivo, la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite". 5.1.13. Con il tredicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 132, 133, 202, 203, 228, 230 e 233 cod. pen. e all'art. 27 Cost., per avere la Corte d'appello di Palermo confermato l'applicazione, nei propri confronti, delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, con l'affermare al riguardo che "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma uno n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore a dieci anni di reclusione e quindi in misura non inferiore ad anni tre", si sarebbe sottratta all'obbligo - che sarebbe previsto anche per l'applicazione di misura di sicurezza nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., ai sensi dell'art. 417 dello stesso codice - di motivare in ordine al positivo accertamento della pericolosità sociale del condannato. Inoltre, la citata motivazione della Corte d'appello di Palermo non potrebbe valere per la misura di sicurezza del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo, atteso che "l'applicazione di quest'ultima misura è discrezionale, cosicché il Giudice di merito avrebbe dovuto motivare sul punto le ragioni di una siffatta condanna"; motivazione che, invece, difetterebbe anche in ordine alla pericolosità sociale del condannato Sc.Lu. 5.2. Il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. è affidato a undici motivi. 5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. Il ricorrente sostiene anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo la partecipazione all'associazione mafiosa", atteso che tale partecipazione deve essere, invece, "dimostrata, senza avvalersi di automatismi e presunzioni, nella sua concretezza e con riferimento al periodo della imputazione". A proposito di tale necessaria dimostrazione, il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe indicato, in concreto, in che modo gli elementi da essa valorizzati potessero dimostrare la sua partecipazione all'associazione, nei necessari termini di un ""apporto quotidiano"" e di un "inserimento stabile ed organico", e contesta, in particolare, che tale dimostrazione potesse risultare sulla scorta del contenuto delle dichiarazioni che erano state rese dal collaboratore di giustizia So.Sa. durante il suo interrogatorio del 19/06/2016 e dei propri incontri con altri presunti sodali, atteso anche che tali incontri, il più delle volte, erano rimasti ""muti"", in quanto non accompagnati da intercettazioni. Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, in termini accusatori, del contenuto dell'intercettata conversazione del 30/01/2015 tra egli stesso e Da.Cl. - nel corso della quale quest'ultimo diceva allo Sc.Lu.: "se tu hai bisogno di me, nel mio piccolo" - e deduce in proposito che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato quale valenza si potesse attribuire, al fine di provare la propria reintroduzione nel sodalizio, al "mero riconoscimento di disponibilità da parte di un conoscente dello Sc.Lu., una volta che quest'ultimo aveva scontato il proprio periodo di detenzione" (disponibilità che "peraltro (...) avrebbe potuto essere stata legata a convinzioni dell'interlocutore dello Sc.Lu. ingenerate dalla sue condotte pregresse, oggetto del precedente giudizio)". Lo Sc.Lu. sostiene poi, con riguardo alla valorizzazione dei propri incontri con altri soggetti che avrebbero asseritamente fatto parte del sodalizio, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, la mancata conoscenza delle conversazioni che ebbero luogo durante tali incontri, per non essere state le stesse intercettate, renderebbe "gli stessi logicamente inutilizzabili, potendo questi ultimi avere avuto - come è effettivamente accaduto - un tenore di tutt'altro tipo, totalmente estraneo alle logiche ed alle dinamiche dell'associazione mafiosa". Né, sempre contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, si comprenderebbe "come il distanziamento tra gli interlocutori o il fatto che alcuni incontri siano avvenuti in appartamenti o in luoghi privati possa essere sintomatico di una afferenza delle conversazioni effettuate alle questioni tipiche del sodalizio". Quindi, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "adottato un ragionamento prettamente presuntivo, conferendo valore probatorio a dati del tutto privi di tale significato". Il ricorrente sostiene ancora che, come aveva rappresentato nel proprio atto di appello, i cui rilievi sarebbero stati ignorati dalla Corte d'appello di Palermo, nelle rare occasioni in cui furono effettuate delle intercettazioni delle conversazioni che ebbero luogo nel corso dei menzionati incontri, "queste si rivelano in concreto poco comprensibili o comunque neutre". Dopo avere rammentato che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto come egli fosse rimasto estraneo alle fattispecie estorsive che erano state contestate ad altri coimputati e fosse stato assolto dal reato dì traffico illecito di sostanze stupefacenti, oltre che dai reati di trasferimento illecito di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, lo Sc.Lu. contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui tale rilievo non coglierebbe nel segno "avendo l'imputato riportato condanna per i delitti di cui agli artt. 648-ter e 512-bis c.p. contestati ai capi 13), 14) e 15)", atteso che queste ultime fattispecie di reato si dovevano ritenere avere "matrice esclusivamente personale, in alcun modo elevabili a elementi di conferma di una partecipazione dell'odierno ricorrente al sodalizio mafioso", e che la risposta della Corte d'appello di Palermo allo stesso rilievo sarebbe comunque "approssimativa e dunque solo apparente". Il ricorrente deduce infine che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe riconosciuto adeguato rilievo all'episodio dell'incendio delle autovetture intestate all'impresa di onoranze funebri a lui riconducibile, episodio che si porrebbe "in palese contrasto con l'impostazione della Corte, secondo la quale l'imputato sarebbe un soggetto molto vicino al capo mandamento di Br.". Lo Sc.Lu. contesta la motivazione resa al riguardo dalla Corte d'appello di Palermo ("potendo invece l'episodio inserirsi agevolmente nel gioco dei rapporti di forza all'interno della famiglia mafiosa"), in quanto fondata "sulla base di una ipotesi (...) non supportata - e non sorretta dal punto di vista motivazionale - da elemento alcuno". 5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta anzitutto che sarebbero inconferenti, alla luce della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, i riferimenti, operati dalla Corte d'appello di Palermo, "alla "notorietà" della stabile dotazione di armi da parte del sodalizio "cosa nostra" per giustificare, in ossequio ad inaccettabili automatismi, l'applicazione dell'aggravante al singolo appartenente". Il ricorrente deduce poi che gli elementi addotti dalla stessa Corte d'appello di Palermo al fine di "corroborare il c.d. fatto notorio della disponiblità di armi da parte di "cosa nostra"" sarebbero "incongrui", tanto da configurare una motivazione meramente apparente, in quanto basata su "di un ragionamento meramente presuntivo". Il ricorrente rappresenta al riguardo, anzitutto, che sarebbero "privi di concreto valore probatorio" gli elementi costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Va.Pa. e dal contenuto di alcune intercettate conversazioni tra soggetti asseritamente facenti parte del sodalizio (tra Va.Pa., Ro. e Li.Ma.; tra Di.Sa. e la cognata Pi.Ma.; tra Di.Sa. e il cognato Co.Sa.), atteso che si trattava di "affermazioni rese da soggetti terzi, in alcun modo riconducibili allo Sc.Lu. ed alle quali non ha fatto peraltro seguito alcun riscontro concreto" -avendo la stessa sentenza impugnata dato atto che la perquisizione che era stata effettuata nell'abitazione dei Ro. aveva avuto esito negativo - e, quindi, di elementi inidonei a dimostrare che lo Sc.Lu. avesse avuto contezza diretta della dotazione di armi o l'avesse colpevolmente ignorata. Parimenti, sarebbero inidonei a giustificare l'applicazione della circostanza aggravante de qua il contenuto dell'intercettata conversazione tra Ro.Pa. e suo padre Ro.Pi. e il fatto che, a seguito dell'arresto del Ta.Pi., lo Sc.Lu. e Te.Sa. avrebbero sostituito lo stesso Ta.Pi. nella gestione degli affari inerenti alla famiglia di Co.. Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) la Corte d'appello di Palermo ha confermato la sua assoluzione dal delitto di direzione e promozione dell'associazione mafiosa, ruolo che, comunque, non potrebbe, da sé solo, costituire prova della disponibilità di armi da parte del sodalizio e della consapevolezza di ciò da parte dell'imputato; b) quanto alla menzionata intercettata conversazione tra Ro.Pa. e Ro.Pi., in cui egli viene menzionato, si tratterebbe "di una intercettazione dal contenuto decisamente lacunoso e vago, in alcun modo idonea a provare l'asserita disponibilità di armi da parte dell'odierno ricorrente o comunque la mera consapevolezza, da parte di quest'ultimo, in ordine al relativo possesso da parte degli altri associati", e che sarebbe assolutamente illogico considerare quale elemento a proprio carico una captazione nel corso della quale gli stessi interlocutori definiscono "minchiate" i racconti su armi nella disponibilità dello Sc.Lu. o, comunque, del sodalizio. 5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, disattendo anche la citata giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della menzionata circostanza aggravante: a) avrebbe omesso "di fornire l'indicazione di una prova puntuale e concreta dell'immissione, da parte dell'odierno ricorrente, di capitale di provenienza delittuosa nelle attività economiche" del settore delle slot machines, ritenendo dimostrata tale immissione sulla base di captate affermazioni proprie ("I picciuli della gente... G.") e di Te.Sa. ("tutti i soldi in comune sono") "generiche e decontestualizzate"; b) avrebbe affermato in modo del tutto sommario e anapodittico, in assenza di richiami a prove concrete, che l'attività a sé riconducibile avrebbe alterato la concorrenza e il mercato delle cosiddette "macchinette", finendo per prevalere sulle altre presenti nello stesso territorio. Posto che la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato anche quanto da essa considerato in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente richiama anche le doglianze, "da intendersi qui riportate", svolte nei successivi motivi relativi a tali affermazioni di responsabilità. 5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere argomentato che, con riguardo a tale affermazione di responsabilità, non ricorrerebbe una cosiddetta "doppia conforme" e avere in particolare precisato che la Corte d'appello di Palermo ha individuato, quale delitto presupposto dell'autoriciclaggio, esclusivamente quello di associazione mafiosa, il ricorrente contesta anzitutto l'errata applicazione dell'art. 648-ter 1 cod. pen. con riguardo all'affermazione della stessa Corte d'appello secondo cui "appare sufficiente che agli stessi imputati sia stato contestato (...) il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.", atteso che, così ritenendo, si verrebbe a "creare una sorta di automatismo tra la contestazione del reato associativo e l'investimento in attività economiche - con modalità tali da integrare il delitto di autoriciclaggio - dei proventi del delitto associativo (che avrebbero dovuto essere, quantomeno, previamente individuati)". In secondo luogo, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe motivato in modo solo apparente in ordine all'elemento del reato di autoriciclaggio costituito, in particolare, dall'immissione di utili di provenienza illecita derivanti dalla partecipazione al sodalizio mafioso nell'attività economica relativa alla gestione delle slot machines. In terzo luogo, il ricorrente deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di tenere conto di due doglianze, che erano state prospettate nel proprio atto di appello e che avrebbero dovuto indurre a escludere la propria responsabilità, costituite dalla rappresentazione dei fatti che: a) non gli era imputato l'investimento di una somma di denaro determinata (come era per il coimputato Te.Sa.) ma di "una somma non meglio specificata" (così il capo d'imputazione); b) la propria famiglia era titolare di una nota agenzia di pompe funebri, presso la quale egli era impiegato, fonte di redditi acclarati, consistenti e, evidentemente, leciti. 5.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15 dell'imputazione. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, in contrasto con l'orientamento della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, avrebbe ritenuto la propria responsabilità per i predetti due reati sulla base del solo preteso esercizio, da parte propria, di un potere gestorio dei beni - il quale sarebbe stato peraltro comunque affermato sulla base di una motivazione meramente apparente - in difetto, non solo di accertamenti di natura patrimoniale, ma anche di elementi specifici, non indicati nella motivazione della sentenza impugnata, idonei a dimostrare la provenienza delle risorse asseritamente investite e la riconducibilità di esse all'imputato. Con specifico riguardo al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, il ricorrente afferma l'inidoneità degli elementi valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo ai fini della conferma della sua affermazione di responsabilità. In particolare, con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, lo Sc.Lu. deduce che queste sarebbero "poco chiare, inserendosi spesso in contesti connotati da tratti incerti ed espressioni incomprensibili, per tali ragioni, in alcun modo idonee a sorreggere l'accusa" e, specificamente, che, come era stato osservato nel proprio atto di appello, restato, sul punto , senza risposta: a) la frase di Te.Sa. "tutti i soldi in comune sono", "si inserisce in tutta evidenza in un quadro poco chiaro, tra espressioni prive di significato e riferimenti a un "ragazzo" che non c'è più e ad altri terzi soggetti"; b) le frasi del Te.Sa. "Cioè come... ci ho messo un sacco di soldi" e dello Sc.Lu. "Io non ce ne metto più" costituirebbero "una evidente riproposizione indiretta di quanto detto dal De.Gi., il quale sosteneva per l'appunto di avere immesso denaro nella società e di non volerne mettere più, tant'è che Te.Sa. concludeva asserendo "Non ce ne mettono più? Ma stiamo impazzendo?""; c) la frase "i picciuli della gente" sarebbe "poco chiara", sicché da essa non sarebbe "possibile dedurre - se non con un inaccettabile salto logico (...) - la prova di una qualsivoglia immissione di capitale nell'impresa da parte degli imputati". Il ricorrente contesta ancora la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, del fatto che, dopo un incontro nel magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", egli e il Di.Pi. venivano trovati dalla Polizia in possesso, rispettivamente, di Euro 950,00 e di Euro 2.050,00, atteso che si tratterebbe "di somme con tutta evidenza non particolarmente ingenti, delle quali i due soggetti potevano ovviamente disporre per altre ragioni (...) certamente non collegate all'incontro precedentemente intercorso". Con riguardo al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe desunto la propria responsabilità dal fatto che egli "abbia messo in contatto Mi.Al. con Nu.Gi., titolare del magazzino di Corso (omissis) n. (omissis), così agevolando la ricerca di un locale ove esercitare l'attività di impresa e favorendo la stipulazione del contratto di locazione tra le parti" (così il ricorso), il che, tuttavia, evidenzierebbe un proprio ruolo "notevolmente limitato e marginale", del tutto inidoneo a dimostrare che egli avesse un interesse in (...) Srl, che vi avesse investito risorse proprie e ne fosse l'effettivo titolare. Il ricorrente contesta poi l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui dalle risultanze istruttorie si desumerebbe che i capitali per la costituzione della menzionata società furono forniti dallo Sc.Lu. e da Te.Sa. ed evidenzia al riguardo che: a) le risultanze istruttorie non lo riguardavano, salvo che per la già contestata "questione dell'affitto dei locali"; b) il valorizzato dialogo "in cui si parlava di tale F.", avrebbe un "contenuto assai vago e poco comprensibile" e la Corte d'appello di Palermo non chiarirebbe "da dove dovrebbe risultare che gli interlocutori si riferiscano alla (...), all'epoca (1.7.2016) neppure costituita". La Corte d'appello avrebbe poi del tutto trascurato quanto era stato rilevato nel proprio atto di appello riguardo ai fatti che egli: a) "non intratteneva alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa."; b) "non veniva mai contattato per problematiche riguardanti l'attività"; c) "non aveva mai avuto rapporti con i titolari delle attività commerciali presso le quali erano state collocate le macchinette"; d) "non veniva mai menzionato, neppure nei dialoghi concernenti la società valorizzati in chiave accusatoria". 5.2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione della recidiva, nonostante il riconoscimento della continuazione con i reati per i quali era stata pronunciata sentenza passata in giudicato (resa nell'ambito del procedimento cosiddetto "Ghiaccio"). Il ricorrente deduce - citando anche, in tale senso, Sez. 5, n. 5761 del 11/03/2010, dep. 2011, Melfitano, Rv. 249255-01 - l'incompatibilità tra recidiva e continuazione, come risulterebbe dal fatto che la continuazione è istituto "volto a considerare, agli effetti penali ed in un'ottica di minor disvalore, quale un unico reato plurime condotte poste in essere dall'agente, anche in tempi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso", e contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la compatibilità tra i due istituti sarebbe confermata dal quarto comma dell'art. 81 cod. pen., atteso che tale disposizione "non riguarda in alcun modo l'applicazione della recidiva per il secondo reato in continuazione e non attiene affatto, dunque, alla questione della compatibilità tra recidiva e continuazione". Lo Sc.Lu. evidenza poi che, nel caso di specie, "si è in presenza - come riconosciuto nella stessa statuizione impugnata - di un'unica condotta permanente di fatto protrattasi nel tempo, proseguendo "senza soluzione di continuità" (così a pag. 483 della sentenza) anche dopo la prima condanna, rispetto alla quale la contestazione di due diversi reati è legata esclusivamente ad una fictio iurìs", sicché, "specie in considerazione di ciò, l'applicazione della recidiva avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica motivazione, mentre la Corte vi dedica solo poche righe, con considerazioni di solo stile, che rendono la motivazione meramente apparente". 5.2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione di tutte le aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. e della recidiva, in violazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo nella parte in cui questo aveva applicato gli aumenti di pena prima per la circostanza aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., poi per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dello stesso articolo e, infine, per la recidiva, laddove, invece, ai sensi del quarto comma dell'art. 63 cod. pen., "solo uno dei tre aumenti (...) sarebbe stato, in astratto, legittimo, mentre per l'ulteriore aumento, meramente facoltativo per espressa previsione di legge, la scelta di applicarlo avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata", "specie in considerazione del fatto che la difesa aveva lamentato l'immotivata valutazione compiuta sul punto dal primo giudice". 5.2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche con riferimento all'art. 125 dello stesso codice, l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. con riguardo ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine al proprio motivo di appello (il quarto) con il quale aveva dedotto l'insussistenza, con riferimento ai due menzionati reati di trasferimento fraudolento di valori, della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. (che, nel capo d'imputazione, gli era stata contestata sia come metodo mafioso sia come agevolazione mafiosa). 5.2.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel confermare tale diniego, avrebbe motivato in modo solo apparente, non avendo considerato quanto la propria difesa "aveva posto all'attenzione della (stessa) Corte", cioè che "i precedenti penali non possono essere utilizzati quale presupposto sulla base del quale negare la concessione delle attenuanti" e che la propria "posizione (...) fosse già stata ampiamente ridimensionata". Lo Sc.Lu. lamenta altresì la violazione del divieto di bis in idem sostanziale per avere la Corte d'appello di Palermo valutato due volte la propria ricaduta nel reato, sia per applicare "la relativa circostanza" (id est: la recidiva) sia per escludere le circostanze attenuanti generiche. 5.2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo all'applicazione di una pena asseritamente eccessivamente elevata, in violazione degli artt. 81 e 133 cod. pen. Il ricorrente lamenta che la "conferma della pena inflitta" sarebbe "viziata" in quanto gli sarebbe stato "riconosciuto un ruolo non significativo all'interno del sodalizio criminale "cosa nostra"" e che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato in ordine alla congruità della pena irrogata e sugli aumenti per la continuazione se non ricorrendo a mere clausole di stile, quale si dovrebbe ritenere l'argomentazione "tenuto conto dei criteri soggettivi e oggettivi di cui all'art. 133 c.p." (pag. 484 della sentenza impugnata). 5.2.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma dell'applicazione delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma 1 n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore ad anni dieci di reclusione e dunque non inferiore ad anni tre" e deduce in proposito che tale motivazione sarebbe, anzitutto, incompleta, in quanto afferisce alla sola misura di sicurezza della libertà vigilata, e, in secondo luogo, errata, in quanto non terrebbe conto dei principi, affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui, dopo la novella di cui all'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nell'applicazione delle misure di sicurezza, esclusi qualsiasi automatismo e presunzione, è sempre necessario accertare in concreto la pericolosità del condannato. Il denunciato vizio di motivazione sarebbe "ancor più grave" con riguardo all'applicazione del divieto di soggiorno di cui all'art. 233 cod. pen., atteso che tale misura di sicurezza è, per espressa previsione normativa, facoltativa. 5.2.12. In conclusione del proprio ricorso, lo Sc.Lu. chiede che, nel caso di annullamento della sentenza impugnata cui consegua una rideterminazione della pena per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., venga annullata anche la statuizione della stessa sentenza che ha individuato tale reato come il più grave tra quelli posti in cntinuazione. 6. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., I'"insufficienza della motivazione". Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe "esplicitato chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove (che sorreggevano la sua decisione) consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente (...) senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito" e senza considerare le specifiche doglianze che erano state avanzate dall'imputato. Il ricorrente, "(i)n via subordinata", "chiede la riforma dell'impugnata sentenza escludendo l'aumento per la contestata recidiva". 7. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a quattro motivi. 7.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen. e all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione e traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 7.1.1. Quanto al primo reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni che erano state rese dai collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi. Quanto, in particolare, a quelle di quest'ultimo, la Corte d'appello di Palermo, col ritenere che egli avrebbe indicato l'imputato come alter ego del suocero Sc.Lu. (pag. 155 della sentenza impugnata), non avrebbe considerato che le dichiarazioni del Bi. "sono state di altro tenore". Ciò in quanto il Bi.: "dichiara di conoscerlo fotograficamente, quando, in realtà, lo scambia per un altro"; solo "dopo averne sentito il nome", afferma che il Di.Pi. "è contiguo al suocero" (così il ricorso), concetto, quello di contiguità, che "non equivale ad intraneità", la quale richiede "il fattivo contributo per l'intera organizzazione"; afferma che "non gli risulta (che egli sia) uomo d'onore" (così il ricorso); riferisce che il Di.Pi., quando lo Sc.Lu. "parlava con determinati soggetti o in di lui presenza", si allontanava, senza che, peraltro, dal contenuto delle effettuate intercettazioni tra presenti, fosse emerso che egli fosse a conoscenza del contenuto dei dialoghi, neanche per essergli stato riferito dal suocero. Secondo il ricorrente, pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che non lo avrebbero indicato come uomo d'onore, ma soltanto come vicino al suocero Sc.Lu., sarebbero state "più che riscontrate, (...) interpretate". Il Di.Pi. sottolinea ancora come la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di valorizzare il dato che il collaboratore di giustizia Co. aveva affermato di non conoscerlo. In secondo luogo, il Di.Pi. contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento che egli avrebbe accompagnato il suocero Sc.Lu. nei luoghi di presunti incontri con altri sodali. Il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, egli non si era mai trattenuto all'esterno dei predetti luoghi, garantendo la sicurezza degli incontri, atteso che, come sarebbe emerso dai foto-filmati, egli lasciava il suocero nei luoghi degli incontri, andava via e tornava poi a riprenderlo, con la conseguenza che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "attribuito un dato probatorio diverso da quello reale". Il ricorrente rappresenta che nessuna delle conversazioni tra presenti intercettate avrebbe "valenza investigativa" e, in particolare, che "non si ha una sola intercettazione in cui il di lui suocero si sfoghi o renda partecipe il Di.Pi. del contenuto di tali fantomatiche riunioni mafiose". Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 7.1.2. Quanto al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalia persona offesa dal reato An.Ni. il 22/11/, "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato", atteso che, da quanto era emerso dal compendio probatorio, egli "si è convinto di potere accettare l'offerta risarcitoria propostagli dalla persona offesa, ritenendo di avere subito un ingiusta (s/c) per il furto subito". 7.1.3. Quanto al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il ricorrente deduce la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione là dove la Corte d'appello di Palermo afferma: "e che l'acquisto effettuato dal Di.Pi. avvenisse nell'interesse della famiglia di Co. è dimostrato da alcune conversazioni intercettate e segnatamente quella del 15.11.2017 h. 11,18 prog. 96, (...) tra Te.Sa. e Sc.Lu. in cui i due fanno riferimento a un debito di un soggetto nei confronti di Sc.Lu. per il rifornimento di un panetto" (pag. 159). I menzionati vizi della motivazione discenderebbero, secondo il ricorrente, dai fatti che: a) lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti; b) "viene valorizzata l'ipotesi di un debito per un panetto, quando al Di.Pi. viene contestato il primo comma dell'art. 73 D.P.R. 309/90, ovvero droga pesante". 7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 7.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 7.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sul tema - i quali, a suo avviso, farebbero emergere l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale -, sull'assunto che "non è possibile caratterizzare ipso iure un'associazione come armata se ciò non sia provato da ingenti quantità di armi di disponibilità comune. Quindi dovrà essere provata l'esistenza della conservazione delle armi unitamente all'esatta individuazione del luogo interessato e si aggiunge anche del reale utilizzo delle armi da parte dell'imputato", lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante relativamente alla propria posizione, in quanto la Corte d'appello di Palermo avrebbe, "in maniera palesemente generica, (...) enunciato cosa si intende e quando ricorre tale aggravante senza tuttavia, soffermarsi e fornire, quindi una motivazione riguardo al ricorrente". 7.3.2. Quanto alla seconda delle menzionate circostanze aggravanti, il ricorrente deduce che la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 12644/2016 N.R. cosiddetto "Mare Dolce 1" e la sentenza della Corte d'appello di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 2390/2020 cosiddetto "Mare Dolce 2" avrebbero escluso la sussistenza della predetta aggravante, sicché, poiché tali procedimenti sarebbero "strettamente connessi" a quello sub iudice, non si comprenderebbe "la differenza di trattamento motivazionale tra le tre sentenze, pur facendo parte dello stesso troncone di indagine". Dopo avere argomentato che "non è possibile imputare oggettivamente il reinvestimento di somme di denaro ai singoli consociati in mancanza di una verifica circa la disponibilità economica concreta", il ricorrente lamenta poi che "(n)on si ha in atti alcuna motivazione riguardo le doglianze difensive, riguardanti proprio la figura" dello stesso ricorrente. 7.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'"omessa motivazione in relazione all'art. 378 c.p.". Il Di.Pi. deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "omesso di motivare l'ipotesi delittuosa alternativa prospettata dalla difesa, in punto di diritto, ovvero quella di favoreggiamento che rispecchiava pienamente, l'eventuale condotta illecita posta in essere dal ricorrente in difformità dalla prospettazione accusatoria della di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente espone anzitutto i tratti differenziali tra i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso e di favoreggiamento personale, anche con riferimento all'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 378 cod. pen., precisando che quest'ultimo reato sarebbe caratterizzato dalla coscienza e volontà di aiutare taluno degli associati ad eludere le investigazioni dell'autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa, senza che l'agente, con il suo comportamento, contribuisca all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione criminosa nel suo complesso, di questa non facendo, perciò, patte. Il ricorrente sostiene poi che, "anche a voler seguire l'impostazione accusatoria, alla luce delle risultanze d'indagine, non v'è chi non veda l'assoluta insussistenza dell'aggravante a effetto speciale di cui all'art. 7 L. 203/91" (recte: del d.l. 13 maggio 1991, n. 152), atteso che "gli elementi a carico dell'odierno imputato non costituiscono espressione dell'aiuto arrecato all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", bensì ad un singolo soggetto anche se negativamente qualificato"; il che "non può di per sé solo comportare un vantaggio per l'organizzazione e costituire prova della volontà di agire a tale fine". Il Di.Pi. sostiene quindi che sarebbe "di palmare evidenza che l'amicizia, i rapporti, le frequentazioni tra Sc.Lu. e l'odierno ricorrente sono maturati e si sono consolidati fuori da Cosa Nostra, esclusivamente per ragioni di natura familiare" e che a nulla rileverebbero "le eventuali dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, considerato che si tratta o di testimonianza indiretta o comunque, afferisce sempre a fatti singoli non ricollegabili all'associazione mafiosa". 8. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a due motivi. 8.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418, secondo comma, cod. pen., e all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis 1 cod. pen.), la mancanza o, comunque, la manifesta illogicità della motivazione relativamente alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione. Dopo avere rammentato di essere stato assolto dall'imputazione dì usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e che, con riferimento al menzionato reato di assistenza agli associati, la Corte d'appello di Palermo aveva ritenuto non contestata l'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. - il che renderebbe ancor più illogiche le conclusioni della sentenza impugnata di conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato (non aggravato) di assistenza agli associati - il ricorrente, a proposito di tale affermazione di responsabilità, lamenta che la Corte d'appello si sarebbe limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa, non avendo mai (...) preso parte a nessuno di questi incontri" (cioè quelli che si svolgevano presso la sua abitazione di Palermo in via Fratelli Campo, n. 33). Il ricorrente deduce altresì che nella sentenza impugnata non sarebbe emersa "la coincidenza temporale dell'attività di assistenza" da lui prestata "con l'operatività dell'associazione", come richiesto da Sez. 6, n. 17704 del 03/03/2004, Barillà, Rv. 228501-01. 8.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce "(violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 62-bis c.p.". 8.2.1. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare con riguardo alla mancata concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche e trascurato di operare "qualsivoglia riferimento al tratteggiato positivo contegno assunto dal ricorrente, al certificato del casellario giudiziale (che ne ha permesso la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), che certamente avrebbe meritato disamina critica e adeguata valorizzazione". 8.2.2. L'Ur.En., inoltre, "lamenta l'eccessività della pena inflitta, la quale, invero, avrebbe dovuto esser mantenuta entro i minimi edittali e, comunque, contenuta in limiti più ristretti", e rappresenta che "la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta al ricorrente, il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso; i rilievi afferenti la personalità, nonché il di lui il ruolo, e, in ultimo, la scelta di richiedere la definizione del procedimento ex artt. 438 e ss. c.p.p. (...) inducono a ritenere relativamente contenuti i profili di meritevolezza della pena". 9. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a tre motivi. 9.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110 e 416-bis 1 cod. pen., all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune pronunce della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente asserisce che la motivazione della sentenza impugnata riguardo alla sua affermazione di responsabilità sarebbe carente, insufficiente, anapodittica, contraddittoria, astratta e generica e farebbe ricorso "a vere e proprie congetture". Il Lu.Pi. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato il fatto, che era stato evidenziato nel proprio atto di appello, che egli, il 05/10/2017, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, con la conseguenza che egli "non aveva per questo preso parte né alla compravendita di droga né alla successiva e solo presunta vendita di stupefacente "in data antecedente e prossima all'ottobre 2017"" (tale essendo il tempus commissi delicti indicato nel capo d'imputazione). Ciò posto, il ricorrente deduce che l'affermazione della propria responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio, non potrebbe essere fondata sulla base "di due sporadici viaggi in Calabria, peraltro in epoca lontana da quella indicata nel capo d'imputazione", e rappresenta specificamente al riguardo: a) quanto agli incontri dei 03/02/2017 e del 05/02/2017, il quale ultimo "secondo la tesi accusatoria era finalizzato per ritirare e trasportare la sostanza stupefacente acquistata", che ciò sarebbe smentito "dal quadro probatorio", segnatamente, dal fatto che la perquisizione personale alla quale egli fu sottoposto, insieme con la sua compagna di viaggio, durante il suo ritorno dalla Calabria, aveva dato esito negativo; b) che non avrebbe valore dirimente il fatto che egli, il 08/02/2017, "si fosse incontrato con i calabresi", "dal momento che dalla piattaforma probatoria non si è appurato alcuno scambio di sostanze di stupefacenti, atteso che non è stato mai identificato il soggetto con cui si presume avesse un appuntamento l'impugnante, ma soprattutto sulla scorta del fatto che il servizio di pedinamento ad un certo punto veniva interrotto dagli agenti di P.G.". La motivazione della Corte d'appello di Palermo sarebbe poi anapodittica e illogica là dove valorizza il contenuto dell'intercettata conversazione del 08/04/2017 tra il Lu.Pi. e Di.Pi., la quale sarebbe stata travisata, atteso che "dal tenore della stessa non si evincono né l'oggetto della compravendita, né l'identità dei venditori e/o acquirenti, ma solo un proposito di carattere generale di cui non si ha alcuna evidenza in ordine alla sua concreta attuazione". Il travisamento della prova da parte della Corte d'appello di Palermo si evincerebbe dalla successiva captata conversazione del 30/11/2017 tra il Mi.Al. e Di.Pi., "in cui quest'ultimo riferiva al suo interlocutore di non essere a conoscenza di precedenti accordi tra tali Ba. e altri soggetti" (così il ricorso) e dalla quale sarebbe stato agevole ricavare che era proprio il coimputato (Di.Pi.) ad affermare che sia lui sia il Lu.Pi. non avevano partecipato ad alcun traffico di sostanze stupefacenti e che il Lu.Pi. "fosse estraneo atteso il suo stato detentivo". Dopo avere rammentato alcuni principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di cosiddetta "droga parlata" e di valutazione della prova indiziaria, il ricorrente riassume le proprie doglianze lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe respinto le deduzioni difensive che evidenziavano la mancanza di ogni concreta possibilità di ritenere la conclusione di un accordo tra palermitani e calabresi sulla base di argomentazioni anapodittiche, senza attribuire valore al fatto che egli era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, fondando la propria decisione su "lacunose" intercettazioni, di un periodo (febbraio e aprile del 2017) non prossimo all'ottobre 2017, e trascurando il contenuto della menzionata intercettata conversazione tra il Di.Pi. e il Mi.Al. nella quale il primo disconosceva la conclusione di precedenti accordi con i Ba. Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 9.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., con riguardo alla conferma della sussistenza, nel reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, della circostanza aggravante di cui al suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nel richiamare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo - omettendo di confrontarsi con la doglianza, avanzata nel proprio atto di appello, secondo cui sarebbe emerso che egli e i suoi complici avevano agito esclusivamente per il proprio interesse economico e che i loro interlocutori calabresi, per riscuotere le somme a essi dovute, non si erano mai rivolti ad altri soggetti afferenti a "Cosa nostra" - avrebbe reso una motivazione apparente e anapodittica, non avendo individuato un "quid pluris" che consentisse di ritenere che la propria condotta fosse diretta, oggettivamente e soggettivamente, ad agevolare il sodalizio mafioso e non a perseguire l'interesse dei singoli coimputati. Il Lu.Pi. sostiene che non sarebbe "dirimente", in senso contrario, l'intercettata conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu. in quanto, contrariamente a quanto avrebbe ritenuto la Corte d'appello di Palermo, da detta conversazione "non si evince nessun tipo di connessione con il delitto imputato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse per il traffico di sostanze stupefacenti non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso". Inoltre, l'asserito pregresso semplice rapporto di conoscenza tra il Ba. e Di.Pi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa e in alcun modo può costituire prova della volontà di agire a tal scopo". 9.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e della pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 9.3.1. Quanto alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Lu.Pi. nell'espiazione della pena". 9.3.2. Quanto alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, il ricorrente deduce che la determinazione della misura di essa sarebbe "sfornita di qualsiasi motivazione che dia contezza del percorso logico-giuridico seguito dal Giudice ex art. 133 c.p., con la conseguenza che lo stesso si è sottratto del tutto all'obbligo di motivare", e che la stessa pena sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravita dei fatti" e inidonea ad assicurare la rieducazione e il reinserimento sociale del reo, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", elementi che avrebbero dovuto indurre a irrogare una pena "in misura notevolmente ridotta". 10. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'Avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 10.1 Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 512-bis cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui, a capo 2) dell'imputazione e per il reato di trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. 10.1.1 Quanto all'affermazione di responsabilità per il primo di tali reati, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamene motivato in ordine al suo inserimento nel sodalizio e al contributo casuale che egli avrebbe dato allo stesso. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione da parte della corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratoti di giustizia "nel Va.Pa., Bi.Fi. e Ga.Vi., e deduce che nessuno di tali collaboratori lo avrebbe "additato (...) quale uomo d'onore" e, ,n particolare , quanto a„e dichiarazioni rese da Va.Pa. nell'interrogatorio del 21/04/2015, che questi affermò soltanto che il Mi.Al. "si occupava di aggiustare le macchinette" (cioè le slot machines) e che "non era a conoscenza che e stesse venissero imposte a, vari esercenti" (così il ricorso), sicché dalle stesse dichiarazioni sarebbe risultata soltanto la "competenza tecnica dell'imputato", che nulla ha a che fare con l'essere associato mafioso"; b) quanto alle dichiarazioni rese da Bi.Fi. - Il quale aveva riferito notizie che aveva appreso da Te.Sa. - che il collaboratore non lo aveva neppure riconosciuto in fotografia, che sarebbe "anomalo che il Te.Sa. abbia parlato del Mi.Al., indicandolo, addirittura, con nome e cognome, senza, tuttavia farglielo conoscere", che il Bi.Fi., "non indica in che contesto è emerso tale nome" del Mi.Al., che lo stesso collaboratore non sarebbe "neppure sicuro" avendo dichiarato "credo sia la persona incaricata per conto di Cosa Nostra di Corso dai Mille nell'ambito del gioco"; c) quanto alle dichiarazioni rese da Ga.Vi., che questi, nell'interrogatorio del 29/03/2018, dichiarò di avere conosciuto l'imputato nel 2001-2002 "in una mangiata" e che, ai tempi, lo stesso era "vicino", in particolare, a Sc.Fa., senza tuttavia specificare che cosa intendesse per vicinanza, e che la Corte d'appello dl Palermo non avrebbe considerato che 2001 sino alla data dell'arresto vi sono state varie operazioni di P.G., anche lo stesso 1Te.Sa. e Sc.Lu. sono stati arrestati negli anni indicati per reati di criminalità organizzata, senza che la figura del Mi.Al. sia mai emersa". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, della partecipazione ad alcuni incontri con sodali (in particolare, con Te.Sa. e con Sc.Lu.), e deduce che, in nessuna delle intercettate conversazioni alle quali aveva partecipato, "si ha un abbassamento di voce, o mezze parole", e che dalle stesse conversazioni sarebbero emerse delle "mere consulenze tecniche dettate dalla conoscenze (...) nel settore" delle slot machines. Il Mi.Al. lamenta poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era un dipendente dell'impresa "Ca.Ro." e, prima, dell'impresa "Stellar Games" di Lo.Ro., come era stato documentato dalla propria difesa, anche mediante la produzione di buste paga. Il Mi.Al. contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo abbia tratto conferma della sua appartenenza al sodalizio criminoso "dalla contestazione dei reati fine che esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". 10.1.2. Quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel ritenere che Ca.Ro. sarebbe stato "un prestanome per conto del ricorrente" (così il ricorso), di Te.Sa. e di Sc.Lu., non avrebbe considerato che Ca.Ro. "non era mai stato sentito a Sit, né alcun procedimento era stato aperto nei suoi confronti". Il ricorrente deduce che Ca.Ro. "era il reale intestatario della ditta" e che, ancorché il mi.Al. avesse "trattato la locazione di un immobile" destinato a sede della società intestata al Ca.Ro., tuttavia lo stesso imputato aveva "sempre operato per costui e mai in proprio", come si ricaverebbe dal contenuto delle intercettate conversazioni del 06/06/2016 tra il Mi.Al. e il De.Gi., in cui il primo comunicava al secondo che doveva informare il proprio titolare o che il Ca.Ro. si sarebbe incontrato di persona con il De.Gi., e del 31/01/2017, in cui "sarà il di lui datore di lavoro (cioè il Ca.Ro.) che incaricherà direttamente il Mi.Al. per capire cosa era successo e non diversamente". Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo, da un lato, lo ha condannato per il reato di trasferimento fraudolento di valori, dall'altro lato, avrebbe contraddittoriamente assolto "coloro che (...) aveva ritenuto essere intestatari fittizi per l'odierno appellante". 10.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 62-bis cod. pen., la mancanza della motivazione "o comunque la genericità della stessa" con riguardo alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che, a tale riguardo, la Corte d'appello di Palermo si sarebbe "limitata ad un implicito giudizio di gravità del fatto reato ascritto", senza fare comprendere le ragioni della propria decisione, la quale non avrebbe tenuto adeguatamente conto dei parametri indicati nell'art. 133 cod. pen. e, in concreto, del fatto che "le condizioni di vita familiari e sociali, la scarsa entità di dolo, le modalità dell'azione", "la marginalità del ruolo contestato" e la "personalità dell'imputato" avrebbero dovuto indurre a concedere il beneficio richiesto. 10.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 10.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 10.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 11. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 11.1. Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 11.1.1. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Dopo avere rappresentato che nessuno dei collaboratori di giustizia avrebbe dichiarato di conoscerlo, salvo il solo Bi.Fi., il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni di tale collaboratore di giustizia, atteso che questi, in sede di riconoscimento fotografico, lo avrebbe scambiato "per il genero di Sc.Lu." e, comunque, non avrebbe "parlato di intraneità, ma di contiguità dello stesso, non a Cosa Nostra, ma a Sc.Lu., indicandolo come suo dipendente presso le onoranze funebri", e non avrebbe mai raccontato l'episodio del "bigliettino che il Mi.Pa. avrebbe destinato proprio al collaboratore di giustizia Bi.Fi.". Il ricorrente sostiene che, se fosse stato "analizzato dettagliatamente tale dato", la Corte d'appello di Palermo non avrebbe potuto avvalorare la tesi accusatoria del ruolo di intermediario che egli avrebbe svolto, atteso che tale presunto ruolo sarebbe desumibile solo dai video-filmati, "senza che vi sia stato alcun riscontro effettivo". Il ricorrente rappresenta altresì che, dalle dichiarazioni del Bi.Fi., sarebbe emerso che "Di.Pi. (sic), quando lo Sc.Lu. parlava con determinati soggetti o in di lui presenza, si allontanava, né emerge dal contenuto delle intercettazioni ambientali, anche successivi agli accompagnamenti monitorati, riscontrare l'ipotesi investigativa, ovvero che il Di.Pi. (sic) era conoscitore del contenuto di tali dialoghi per racconto, anche de relato da parte dei di lui suocero o da chissà chi". Quanto alla valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, degli "accompagnamenti del suocero (sic) nei luoghi di presunti incontri", il ricorrente deduce che "il Tribunale ha riprodotto tutti i fotofilmati in cui il Mi.Pa. accompagnava, Sc.Lu. in diversi luoghi, senza, tuttavia, mai soffermarsi o allontanarsi di poco, per mantenersi nei paraggi", che, in quasi tre anni di attività di indagine, "gli accompagnamenti monitorati sono pochissimi, senza che si rilevi un'attiva partecipazione (dell'imputato) in Cosa Nostra" e che lo stesso imputato "non era l'unico soggetto ad accompagnare Sc.Lu. in diversi luoghi, tutti monitorabili". Secondo il ricorrente, quest'ultimo dato avrebbe dovuto essere valorizzato dalla Corte d'appello di Palermo, al fine di stabilire "se il contributo apportato dal Mi.Pa., con la sua condotta, all'organizzazione mafiosa, era di tale indispensabilità tale per cui senza il di lui supporto non era possibile raggiungere gli scopi della stessa". Il ricorrente afferma quindi che la sentenza impugnata sarebbe affetta da "un enorme vuoto motivazionale" in ordine all'analisi del proprio ruolo e del proprio contributo all'associazione criminosa tali da potere ritenere l'intraneità alla stessa associazione. Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 11.1.2. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa dal reato An.Ni., "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato" e che sarebbe illogica la valorizzazione, che sarebbe stata operata dalla Corte d'appello di Palermo a pag. 181 della sentenza impugnata, del "coinvolgimento del ricorrente nell'acquisto di stupefacente presso una famiglia calabrese che non ha mai costituito oggetto di contestazione". 11.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 11.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 11.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 11.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (sempre il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 12. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA., è affidato a cinque motivi. 12.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo all'affermazione della sua responsabilità per il reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. Il ricorrente asserisce che la motivazione di tale affermazione di responsabilità sarebbe illogica, lacunosa, apparente e basata su mere supposizioni. Il Mi.Lo. lamenta anzitutto che la Cotte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era il portiere dello stabile di via (omissis) n. (omissis), in P, sicché "la sua presenza non era dovuta ad organizzare incontri ma a svolgere il lavoro di portiere" sicché il fatto che, dai filmati delle telecamere di videosorveglianza, si vedesse che alcuni soggetti, entrando nel condominio, gli si avvicinavano, "era assolutamente normale". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento del "recapito del "pizzino" del Bi.Fi. in data 17.2.2016" (pag. 197 della sentenza impugnata). Il Mi.Lo. contesta in particolare le argomentazioni della Corte d'appello di Palermo secondo cui l'affermazione del Bi.Fi. di non conoscerlo si spiegherebbe con i fatti che tale collaboratore di giustizia "lo ha incontrato fugacemente solo una volta e non emerge che dovesse essere a conoscenza del nome dell'imputato" (pag. 198 della sentenza impugnata) e che "il Mi.Lo. non è un partecipe al sodalizio" (pag. 199 della sentenza impugnata), atteso che tali argomentazioni costituirebbero delle mere supposizioni. Inoltre, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che al Bi.Fi., nel corso del suo interrogatorio del 28/03/2019, non solo fu indicato il nome del Mi.Lo., che il collaboratore di giustizia affermò di non conoscere ("neanche il nome mi dice niente"), ma fu anche sottoposta la fotografia dello stesso Mi.Lo., che il Bi. non riconobbe. Tali affermazioni del Bi.Fi. "escluderebbero con assoluta certezza la responsabilità del Mi.Lo.". Sempre a proposito del menzionato "pizzino", il ricorrente chiede, retoricamente: "se il Mi.Lo. fosse stato consapevole di qualsiasi cosa perché il Bi.Fi. avrebbe dovuto consegnare un ipotetico biglietto al Mi.Lo. e non riferirgli a voce quanto ipoteticamente vi sarebbe stato scritto? Se fosse stato il Mi.Lo. un soggetto consapevole perché il Bi.Fi. non gli comunicava oralmente ciò che voleva riferire?". Sue ""frequentazioni" o "relazioni qualificate"" con esponenti dell'ipotizzata organizzazione criminale si sarebbero dovute escludere tenuto conto, oltre che delle ricordate dichiarazioni del Bi.Fi., del fatto che dal compendio probatorio esse non erano in alcun modo emerse. Secondo il ricorrente, l'esclusione dell'elemento soggettivo del reato a lui attribuito si ricaverebbe poi dal proprio interrogatorio, in cui egli aveva chiarito il tipo e le ragioni dei rapporti di conoscenza con Sc.Lu. (perché era il titolare dell'agenzia di pompe funebri che si trovava vicino al condominio dove il Mi.Lo. lavorava), con Pi.Fi. (in quanto era il proprietario dell'appartamento al sesto piano dello stesso condominio) e con Gi.An. ("è venuto qualche volta fuori in portineria... siccome io gli ho detto perché non mi dai il nome e cognome che io lo chiamo?"). Ancora, non vi sarebbe "alcuna prova" "in ordine all'effettivo svolgimento di incontri connotati da tematiche inerenti ad interessi mafiosi", come risulterebbe anche dall'interrogatorio di Pi.Fi. del 10/07/2019, atteso che le riunioni che avevano luogo nell'appartamento del sesto piano di via (omissis), nella disponibilità del Pi.Fi., "avevano ad oggetto la divisione della proprietà dei fratelli Cl." e il Bi.Fi. e il Pi.Fi. vi intervenivano "in qualità di tecnico". Inoltre, in mancanza di intercettazioni delle conversazioni, "non può non credersi a quanto affermato dall'imputato". Non sarebbe poi "basato su prove certe" quanto sarebbe stato affermato dalla Corte d'appello di Palermo - in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. del Tribunale di Palermo nell'ordinanza di applicazione, nei confronti del Mi.Lo., della misura degli arresti domiciliari - in ordine al fatto che l'imputato "avrebbe effettuato un incontro anche in data 4/5/2018 nei pressi del Condominio", con, poi, una conversazione telefonica, alle ore 17:18, tra il Mi.Lo. e Sc.Lu. dalla quale, secondo la Corte d'appello, si ricaverebbe che lo Sc.Lu. sarebbe stato "consapevole del motivo della chiamata, senza nemmeno far parlare il suo interlocutore, riferisce di stare arrivando". Secondo il ricorrente, "tutto questo si basa su presunzioni ma non vi sono prove certe che poi lo stesso fosse arrivato o quanto altro". Pertanto, "nel Mi.Lo. non risulta provata alcuna consapevolezza della previsione incriminatrice, né alcun contributo causale che la condotta possa portare alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione". 12.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della sussistenza, nella specie, non del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, ma del reato di assistenza agli associati di cui al suddetto art. 418 cod. pen. Il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe escluso la sussistenza di quest'ultimo reato sulla base di "un ragionamento altamente contraddittorio" e "basandosi solo su supposizioni non corroborate da prove certe" e rappresenta, in proposito, che "non solo non vi è prova che il Mi.Lo. facesse parte di una famiglia mafiosa, tanto che il collaboratore di giustizia Bi.Fi. dichiara di non conoscerlo", ma che le "sporadiche conversazioni intercettate (...) al massimo integrano aiuto episodico ad un associato da parte di un soggetto esterno all'associazione". 12.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 62-bis e 69 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la "manifesta illegittimità della motivazione" con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe dato risposta al relativo motivo del proprio atto di appello e avrebbe negato la concessione del suddetto beneficio senza considerare gli elementi - che, invece, avrebbero dovuto essere positivamente valutati - costituiti dal suo essere incensurato e privo di carichi pendenti, dalla "dinamica dei fatti" e dalla "concretezza della vicenda" e dal suo corretto comportamento processuale, avendo egli "spiegato, sin da subito, durante interrogatorio di garanzia, la propria condotta con dichiarazioni genuine e veritiere", e tenuto anche conto che la mancanza di resipiscenza non potrebbe costituire motivo di diniego del beneficio. 12.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., l'inosservanza "di norme giuridiche" e la mancanza della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, limitandosi ad affermare che "la pena nei confronti del Mi.Lo. va ridotta, tendo conto dell'intervenuta riqualificazione della condotta allo stesso ascritta ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p., nella misura finale di anni otto di reclusione, così determinata: pena base anni dodici di reclusone, ridotta per il rito": a) da un lato, avrebbe del tutto omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta alla determinazione dell'indicata misura della pena; b) dall'altro lato, pur avendo riqualificato la condotta come concorso esterno e pur avendo escluso la sussistenza delle circostanze aggravanti di cui al quarto comma e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., avrebbe illegittimamente irrogato una pena base di 12 anni di reclusione, cioè - appunto, illegittimamente - la stessa pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato dalla circostanza, ormai esclusa dalla Corte d'appello di Palermo, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 12.5. Con il quinto motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la statuizione di condanna, nei propri confronti, "al risarcimento del danno" (recte: delle spese processuali; si veda la pag. 478 della sentenza impugnata) sostenute dalle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", atteso che, come risulterebbe dai relativi atti di costituzione di parte civile, tali enti non si erano costituti parte civile nei suoi confronti. 13. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a quattro motivi. 13.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo all'affermazione della propria responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. Il ricorrente sostiene che tale affermazione di responsabilità sarebbe sorretta da una motivazione carente, contraddittoria, astratta, generica e anapodittica con riguardo sia all'elemento oggettivo sia all'elemento soggettivo del reato di estorsione. Il Te.Ca. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, omettendo di confrontarsi con la relativa doglianza che era stata avanzata nel proprio atto di appello, non avrebbe considerato come, dall'intercettata conversazione del 26/05/2017 (alle ore 15:59) - nell'ambito della quale sarebbe particolarmente significativa la frase, pronunciata dall'imputato: "alla fine chi minchia se l'è portato questo motore?"" - sarebbe risultato che "l'imputato non sapeva chi avesse rubato il ciclomotore del Sig. @Sc.Fa., né inizialmente che fosse quest'ultimo la vittima del furto, con ciò emergendo dalla piattaforma probatoria che lo stesso pomeriggio del 26 maggio 2017 si trovava con il coimputato, Sig. Di.Pi., suo datore di lavoro presso l'agenzia di onoranze funebri, presso l'agenzia disbrigo pratiche per formalizzare il passaggio di proprietà del nuovo motoveicolo". Secondo il ricorrente, dal quadro probatorio, e proprio dal percorso logico-giuridico seguito dalia Corte d'appello di Palermo, emergerebbe che egli era stato soltanto presente, per avere accompagnato il suo datore di lavoro, nel momento in cui veniva formalizzato il passaggio di proprietà del ciclomotore presso l'agenzia di pratiche auto, con la conseguenza che egli non avrebbe posto in essere alcun contributo concorsuale, giuridicamente rilevante ex art. 110 cod. pen., alla presunta attività estorsiva. Il Te.Ca. rappresenta in proposito che detta sua presenza: a) da un lato, non aveva fornito all'autore del fatto né stimolo all'azione né un maggior senso di sicurezza; b) dall'altro lato, si era manifestata quando tutti gli attori della vicenda si trovavano all'interno dell'agenzia di pratiche auto nell'atto di formalizzare il passaggio di proprietà del ciclomotore, "sicché già in quel momento la presunta condotta estorsiva era stata probabilmente posta in essere nei confronti della persona offesa, la cui volontà era già stata coartata". Il ricorrente rappresenta che, dalle risultanze processuali, emergerebbe che egli, al di là della menzionata mera presenza nel momento del passaggio di proprietà del ciclomotore, era stato del tutto estraneo a quanto era accaduto nei giorni antecedenti a quello del suddetto passaggio di proprietà. Neppure sarebbe "dirimente", sempre ad avviso del ricorrente, che egli abbia condotto il ciclomotore presso l'agenzia di onoranze funebri dello Sc.Lu., dal momento che egli "era impiegato in detta attività commerciale, atteso che in quel momento la presunta condotta criminosa si era già esaurita". Il ricorrente evidenzia poi il rilievo del fatto che, sempre nell'intercettata conversazione del 26/05/2017, egli aveva utilizzato il condizionale ("E se mi intromettevo io per il motore"). Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione degli artt. 110 e 629 cod. pen., in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 13.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 110 e 393 cod. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto di cui al capo 11) dell'imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 cod. pen.). Nell'esporre gli elementi differenziali tra il reato di estorsione e il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e le condizioni per la configurabilità del concorso del terzo in quest'ultimo reato, richiamando anche la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione al riguardo (Sez. U., n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02 e Rv. 280023-03), il ricorrente deduce che, dall'acquisito materiale probatorio, sarebbe emerso che egli: a) si era limitato ad accompagnare, il 26/05/2017, il Di.Pi., suo datore di lavoro, all'agenzia di pratiche auto, dove il Di.Pi. concludeva con la persona offesa il passaggio di proprietà del ciclomotore, "senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità indebita"; b) con riguardo all'elemento soggettivo, aveva "concorso tutt'al più con coscienza nell'arbitrario esercizio del diritto del Sig. Di.Pi. di recuperare, sebbene in forma per equivalente, il ciclomotore che gli era stato indebitamente sottratto, da cui non emergono ulteriori finalità". Ad avviso del ricorrente, inoltre, non sarebbe condivisibile la tesi della Corte d'appello di Palermo secondo cui la presenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa comporterebbe sempre la sussumibilità della fattispecie concreta nella sfera di tipicità dell'art. 629 cod. pen., in quanto "il Giudice deve sempre accertare in concreto se la finalizzazione della condotta sia preordinata alla soddisfazione di un interesse ulteriore rispetto a quello di mera soddisfazione del diritto arbitrariamente fatto valere". Il ricorrente evidenzia poi che, con riguardo al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, l'azione penale non doveva essere iniziata o, quantomeno, non deve essere proseguita, difettando la condizione di procedibilità della querela. 13.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., in ordine alla conferma della sussistenza, in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, delle circostanze aggravanti previste dal suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nell'esporre gli elementi necessari per ritenere la sussistenza delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente afferma che: a) dal compendio probatorio non risulterebbero elementi idonei a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che egli avesse agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra" né che avesse assunto "un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso"; b) "dal tenore della conversazione captata de qua non si evince nessun tipo di connessione con il delitto addebitato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse al recupero del ciclomotore rubato e, nello specifico, la semplice presenza del Sig. Te.Ca. all'atto del passaggio di proprietà presso l'agenzia di disbrigo pratiche non erano finalizzati ad agevolare l'associazione mafiosa, né ad imporlo con il c.d. metodo mafioso"; c) il rapporto di lavoro con il Di.Pi. e lo Sc.Lu. non potrebbero in alcun modo comprovare che egli avesse realizzato la condotta incriminata per agevolare la consorteria mafiosa e con le modalità tipiche della sopraffazione mafiosa; d) la propria mera isolata presenza presso l'agenzia di pratiche auto non potrebbe assumere i caratteri dell'intimidazione mafiosa "in primo luogo per la ragione che lo stesso presunto minacciato non aveva avuto a sua volta alcun contatto prima di quel momento con il ricorrente, né in quell'occasione i due avevano avuto modo di interloquire o scambiarsi qualche semplice battuta sul punto, così da derivare la sudditanza della presunta vittima nei confronti dell'odierno impugnante". 13.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 123 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 13.4.1. Quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", dello stato di incensuratezza, del "contegno processuale", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Te.Ca. nell'espiazione della pena". 13.4.2. Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non l'avrebbe adeguatamente motivata, tenendo conto dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen., pervenendo a irrogare, per il reato a lui attribuito, una pena eccessiva e sproporzionata all'effettiva gravità dei fatti e, comunque, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di Te.Sa. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. An.Ba.). 1.1. Il primo e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. non sono consentiti. 1.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 4.1.1.1. della parte in fatto), la censura risulta generica e aspecifica. Il ricorrente, infatti, in primo luogo ha omesso di confrontarsi adeguatamente con il contenuto del punto 1.4 della sentenza impugnata (pagg. 38-39), nel quale la Corte d'appello di Palermo ha argomentato in ordine all'esistenza e alle attività criminose della famiglia mafiosa di Co., facente parte del mandamento di Br., della quale il Te.Sa. era accusato di avere assunto la "reggenza" dopo l'arresto, nel settembre del 2015 (il 29/09/2015), di Ta.Pi., già capo del suddetto mandamento di Br. In secondo luogo, lo stesso ricorrente ha omesso di confrontarsi adeguatamente anche con la motivazione che è stata resa dalla Corte d'appello di Palermo nel replicare alla corrispondente censura difensiva che era stata avanzata dal Te.Sa. in sede di appello, là dove, in particolare, la Corte d'appello ha evidenziato come l'avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo, connotazione dell'associazione di tipo mafioso, fosse emblematicamente comprovata dagli elementi, che erano emersi dalle risultanze investigative: dell'attività di imposizione del "pizzo", documentata dal contenuto delle conversazioni intercettate; del controllo capillare delle attività illecite che venivano svolte nel territorio, come comprovato dal caso della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"; della gestione di altre attività illecite, come l'acquisto di sostanze stupefacenti e il commercio di tabacchi lavorati esteri (pagg. 87-88 della sentenza impugnata). Si tratta di indici che, sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità, sono senz'altro sintomatici dell'operatività di una cosca di tipo mafioso, senza che, a fronte di essi, il ricorrente si possa ritenere avere spiegato per quale ragione si dovrebbe ritenere contraddittoria o illogica la conclusione, che dagli stessi indici è stata tratta dalla Corte d'appello di Palermo, dell'esistenza di una siffatta cosca. 1.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di direzione e organizzazione dell'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 4.1.1.2 e 4.1.2 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella suddetta famiglia mafiosa di Co.. Dopo avere premesso che l'imputato era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'ascesa del Te.Sa. a rivestire un ruolo direttivo e organizzativo, sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni de relato dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., i quali avevano affermato di avere saputo: il primo, da Sa.Ni., come il Te.Sa. fosse un "uomo d'onore" e persona di fiducia di Ta.Pi. ("lui con Ta.Pi. erano fratelli"); il secondo, da Di.Gi. e da La.To., come il Te.Ca. fosse un influente "uomo d'onore" della famiglia di Br. (indicazione, quest'ultima, che non illogicamente veniva ritenuta dalla Corte d'appello non inficiare l'attendibilità della chiamata per la ragione che la famiglia di Co. faceva parte del mandamento di Br.). Tali due autonome (e riscontrantesi) chiamate in correità avevano trovato riscontro anche nell'accettata (mediante servizi di osservazione a opera della polizia giudiziaria) frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con diversi altri sodali (pagine da 90 a 94 della sentenza impugnata). La Corte d'appello di Palermo ha poi valorizzato il contenuto di numerose conversazioni intercettate, il quale appare avere lo spessore non del mero riscontro alle ricordate chiamate in correità ma della prova "autosufficiente" del ruolo di effettiva direzione e organizzazione che era stato assunto dal Te.Sa. nell'ambito della famiglia mafiosa di Co. e del riconoscimento di tale ruolo da parte degli altri sodali, oltre che di soggetti estranei all'organizzazione criminosa. Da tali conversazioni era infatti emerso: a) il ruolo di direzione e organizzazione che veniva svolto dal Te.Sa. nell'attività di imposizione del "pizzo" (tra le altre: conversazione del 11/12/2015 tra il Te.Sa., Di.Gi. e Gi.Sa., nel corso della quale il Gi.Sa. consegnava al Te.Sa. il denaro provento dell'attività estorsiva, mentre il Di.Gi. chiedeva al Te.Sa. di contarlo rivolgendoglisi dandogli del "lei"; conversazione del 12/12/2015 tra il @Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale l'imputato chiedeva al Gi.Sa. il rendiconto del denaro raccolto dai vari commercianti, facendo anche riferimento alla "raccolta" di denaro per i detenuti; conversazione del 21/12/2015 tra il Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale venivano elencate tutte le richieste estorsive ai danni dei commercianti della zona e in cui il Te.Sa., tramite il Gi.Sa., ordinava a un altro sodale di recarsi presso un altro esercizio commerciale per richiedere del denaro); b) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa. rispetto all'attività di commercio dei tabacchi lavorati esteri, il quale era attestato dalla risoluzione, da patte dello stesso @Te.Sa., di un contrasto che era insorto in ordine a tale commercio tra un certo Ca. e Mi.St. e Mi.Gi., bloccando anche Sc.Lu. che aveva proposto una ritorsione nei confronti dei suddetti Mi. e stabilendo di riservare a ciascuno una fetta del relativo mercato (conversazione del 11/11/2017 tra il Te.Sa., lo Sc.Lu. e Ca.); c) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa.con riguardo al noleggio di slot machines e agli esercizi commerciali ai quali imporre la collocazione delle stesse "macchinette" (conversazioni del 08/11/2017 tra il Te.Sa.e lo Sc.Lu.), comprovato anche dalle contestazioni mosse al gestore di un'impresa del settore (De.Gi.), dall'esautoramento dello stesso da tale gestione e dall'affidamento di essa a Mi.Ga.; d) l'intervento del Te.Sa. a seguito della rapina che era stata commessa ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), con la convocazione del rapinatore - alla presenza anche di Sc.Lu., Di.Gi. e Vi. (che era stato incaricato di individuare gli autori della suddetta rapina), ancorché l'unico a interloquire fosse il Te.Sa. - e il rimprovero dello stesso rapinatore per essersi impossessato del denaro del sodalizio, a riprova anche del potere che veniva esercitato dall'imputato sul territorio della famiglia mafiosa di Co. e dell'esercizio, da parte della sua, del potere del sodalizio mafioso di autorizzare o contrastare le attività illecite nello stesso territorio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 1.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.7 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.3 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata -sono manifestamente infondati. La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva; b) va riferita all'intera associazione di cui si fa parte (pertanto, nella specie, a "Cosa Nostra" e non alla famiglia di Co.); c) è addebitabile al singolo associato che sia consapevole della disponibilità di armi da parte dell'associazione o ignori per colpa tale disponibilità. Con specifico riguardo a Cosa Nostra, è stato in particolare affermato che: a) in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi dell'organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" si può ritenere che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile (Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, Farinella, Rv. 201650-01); b) in senso analogo, in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa (Sez. 1, n. 13008 del 28/09/1998, Bruno, Rv. 211901-01, relativa a una fattispecie concernente l'associazione per delinquere di stampo mafioso denominata "Cosa Nostra", in riferimento alla quale la Corte ha affermato che, data la sua stabile dotazione di armi, questa costituisca fatto notorio non ignorabile); c) in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritiene sussistente l'aggravante della disponibilità delle armi di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., quando il delitto associativo è contestato agli appartenenti di una famiglia mafiosa aderente all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", anche nel caso in cui la disponibilità delle armi è provata a carico di un solo appartenente (Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, Corso, Rv. 260919-01); d) in tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, "Cosa Nostra"), per la configurabilità dell'aggravante della disponibilità di armi, non è richiesta l'esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l'accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori (Sez. 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, Seminara, Rv. 284761-01). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, al cui vertice si trovava il Te.Sa., disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi in capo a Sc.Fa.; dall'accettata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accettata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da patte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve ritenere che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte del Te.Sa., atteso anche il ruolo apicale che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 1.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.8 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.2 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. La più recente giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva e deve essere riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe; b) richiede un apporto di capitale nelle attività economiche che corrisponde al reinvestimento delle utilità che sono state procurate dalle azioni criminose della consorteria; c) richiede altresì che tale reinvestimento si concreti nell'intervento in strutture produttive destinate a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono beni o servizi analoghi. La Corte di cassazione ha in particolare affermato che: a) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell'attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, pure, necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. La suddetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ritenendo anapoditticamente certo che i proventi delle estorsioni cui il sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite da due degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l'altro, di verifiche in ordine alla titolarità, alle dimensioni e tipologia dell'attività nonché alla data di costituzione dell'impresa e alle forme di finanziamento di essa; b) la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ricorre quando l'attività economica finanziata con il provento dei delitti esecutivi del programma del sodalizio non sia limitata a singole operazioni commerciali o alla gestione di singoli esercizi, ma si concreti nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrano beni o servizi analoghi (Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Corcione, Rv. 277653-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l'aggravante nei confronti di un soggetto, depositario dei proventi del traffico di stupefacenti gestito dal sodalizio, senza tuttavia investirli in attività economiche); c) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe - occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Stucci, Rv. 278796-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l'aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); d) la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. - che si configura ove le attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cosiddette storiche come mafia, camorra e 'ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che - appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma criminoso - un'ignoranza al riguardo in capo a un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463-02). È necessario segnalare anche quell'orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata ai sensi dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto a imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall'impresa mafiosa, che si giova dell'imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall'acquisizione dell'attività commerciale altrui, e il reimpiego si attua attraverso l'investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Buglisi, Rv. 275586-02). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, con trariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. Occorre in proposito precisare come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dal Te.Sa.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 1.4. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.3 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.4 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Anzitutto, è manifestamente infondata la tesi, sostenuta nel ricorso dell'avv. Ba., dell'esclusione del concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso e il reato di autoriciclaggio. La Corte di cassazione ha infatti ormai chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il reato di autoriciclaggio di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., ove commesso dall'appartenente a un'associazione per delinquere di tipo mafioso, concorre con quello di partecipazione a tale associazione aggravato dal finanziamento di attività illecite, di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., attesa l'obiettiva diversità dei rispettivi elementi costitutivi, in quanto solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Quanto all'attribuzione al Te.Sa. (in concorso con Sc.Lu. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) il Te.Sa. avesse impiegato ingenti somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines-, b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come il te.Sa. fosse disoccupato e privo di beni, per essergli stati gli stessi in precedenza confiscati). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, Rv. 244477-01; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407-02). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 1.5. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.4 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità del Te.Sa. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come il Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), come lo stesso Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Te.Sa. (e Sc.Lu.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che il Te.Sa. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo al Te.Sa., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alle censure in diritto, la manifesta infondatezza delle stesse discende dal fatto che: a) il reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. non è un reato plurisoggettivo improprio e colui che si renda fittiziamente titolare dei beni a lui attribuiti può rispondere a titolo di concorso eventuale, ex art. 110 cod. pen. (tra le tante: Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Como, Rv. 277075-01; b) secondo la più recente giurisprudenza della Corte dì cassazione - alla quale il Collegio, condividendola, intende dare seguito -, in tema di trasferimento fraudolento di valori, risponde a titolo di concorso anche colui che non è animato dal dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., a condizione che almeno uno dei concorrenti agisca con tale intenzione e che della medesima il primo sia consapevole (Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Carnovale, Rv. 284796-01). 1.6. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.5 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di trasferimento fraudolento di valori concorra con il delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078-01). Ciò in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio a un terzo dei cespiti provenienti dal reato presupposto. Questo costituisce un elemento ulteriore, che l'ordinamento ha inteso punire a norma dell'art. 512-bis cod. pen. Un elemento che, proprio in quanto coinvolge un terzo soggetto "prestanome", non si può neppure ricomprendere tra quelle "operazioni", idonee a ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, che sono indicate nell'art. 648-ter 1 cod. pen., le quali sono riferibili soltanto al soggetto agente o a chi si muova per lui senza avere ricevuto un'autonoma investitura formale. Inoltre, le due violazioni della legge penale si pongono anche in due momenti cronologicamente distinti, a ulteriore dimostrazione della loro diversità, la quale non consente assorbimenti: l'autore del reato presupposto prima compie l'operazione di interposizione fittizia che, poi, darà luogo a quella di autoriciclaggio, senza la quale la condotta sarebbe punibile solo come reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. 1.7. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di autoriciclaggio, commesso dall'appartenente all'associazione di tipo mafioso, concorra con il delitto di partecipazione a tale associazione, aggravato, a norma del sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dal finanziamento delle attività economiche con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Tali due pronunce hanno anzitutto precisato che il principio che è stato affermato dalla sentenza Iavarazzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, cit.), secondo cui non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia a oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni (la Corte ha peraltro precisato che si può configurare il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale), non è estensibile all'autoriciclaggio, atteso che, in questo, non è contemplata la clausola di riserva che, invece, inerisce alle altre due fattispecie di reato. Le stesse pronunce, alla cui motivazione - che è idonea a superare tutte le obiezioni del ricorrente -, condividendola, si fa integralmente rinvio, hanno poi essenzialmente evidenziato l'obiettiva diversità degli elementi costitutivi delle due fattispecie, atteso che solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del sesto comma dello stesso articolo, richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego. Il che esclude che venga in rilievo un concorso apparente di norme o un reato complesso, e, con ciò, che il ritenuto concorso tra i due reati - in assenza, in quello di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., della menzionata clausola di riserva - integri una violazione del divieto di bis in idem sostanziale, posto a fondamento degli artt. 15, 68 e 84 cod. pen. 1.8. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.10 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione - non è fondato. È vero che, con riguardo a tali circostanze aggravanti, la sentenza impugnata non contiene una motivazione espressa. La motivazione della sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) -risulta tuttavia implicitamente, ma in modo assolutamente inequivoco, dal complesso della motivazione della sentenza impugnata e, in particolare, dal fatto che: a) come si è visto al punto 1.4, il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione è stato ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, avere a oggetto denaro proveniente dalle casse della famiglia mafiosa; b) come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, ha ritenuto come dagli acquisiti elementi di prova fosse risultato come il sodalizio mafioso avesse investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio, denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto. Tali argomentazioni, relative all'affermazione della responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e della sussistenza della circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., valgono altresì, in tutta evidenza, a sostenere anche la sussistenza della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa relativamente al reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, atteso che: a) il reato di autoriciclaggio ha avuto a oggetto del denaro appartenente al sodalizio mafioso; b) i reati di trasferimento fraudolento di valori riguardavano l'intestazione fittizia di due imprese che operavano nel settore delle slot machines, nel quale, come si è detto, lo stesso sodalizio criminoso investiva il proprio denaro per gestire, attraverso dei prestanome, le attività nello stesso settore. 1.9. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.9. della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.5 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Occorre anzitutto rilevare come la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione affermi ormai costantemente che non sussiste incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione, con la conseguente possibile applicazione, in presenza dei relativi presupposti normativi, di entrambi tali istituti, in quanto il secondo non comporta l'ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondato su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, Pettenon, Rv. 275296-01). Quanto all'ulteriore censura, sollevata in entrambi i ricorsi, di insussistenza dei presupposti per l'applicazione della recidiva, premesso che, perché sia configurabile la recidiva, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile, si deve ritenere che la stessa recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a tale irrevocabilità, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva -come può accadere, per quanto qui rileva, nei reati associativi - ponendo così in essere un ulteriore diverso fatto di reato, rispetto al quale la precedente condanna può senz'altro operare come presupposto per ritenere la recidiva. Si deve infine rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dell'imputato, evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 488 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte dì cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464-01). 1.10. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.1. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come è stato più volte affermato dalla Corte di cassazione, "nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dall'art. 416-bis c.p., commi 4 e 6, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall'art. 63 c.p., comma 4, bensì l'autonoma disciplina derogatoria di cui all'art. 416-bis c.p., comma 6, che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata" (Sez. 2, n. 7155 del 11/11/2020, dep. 2021, Liccardi, Rv. 280662 - 01; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Spadaro Tracuzzi, Rv. 261333 - 01; Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, La Franca, Rv. 252069 - 01; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460 - 01). Da questa specifica disciplina sanzionatoria, come è stato chiaramente messo in luce dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 38158 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, Rv. 264674 - 01), si ricava che il regime degli aumenti stabiliti per le aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis ù cod. pen. non interrompe "il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori". In definitiva, ove siano attribuite entrambe le circostanze aggravanti ricordate, il legislatore ha fissato un criterio autonomo di determinazione degli aumenti di pena, che riveste carattere di specialità rispetto alla disciplina generale dettata dall'art. 63 cod. pen. (al pari delle ipotesi considerate per l'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, aggravata dal carattere armato dell'associazione ai sensi dell'art. 74, comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per l'aggravante dell'ingente quantitativo di stupefacenti, riferita all'ipotesi del delitto di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, aggravato dall'essere le sostanze con accentuata potenzialità lesiva, come previsto dall'art. 80, comma 2, dello stesso D.P.R., nelle parti in cui fissano in modo autonomo la pena per le ipotesi che concernono fattispecie già aggravate; o, ancora, per l'ipotesi del concorso di più circostanze aggravanti previste dall'art. 628, terzo comma, cod. pen., la cui misura è stabilita dal quarto comma dello stesso art. 628 cod. pen.). Da tale caratteristica del trattamento sanzionatorio, previsto espressamente dalla legge, discende che il concorso con l'ulteriore aggravante della recidiva reiterata richiede l'applicazione del disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., considerando quali circostanze aggravanti a effetto speciale da comparare - al fine di individuare la più grave - quelle unitariamente considerate a fini sanzionatori dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., e quella della recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; operando, quindi, sulla pena per la più grave tra le dette circostanze, l'eventuale ulteriore aumento ex art. 63, quarto comma, ultimo periodo, cod. pen. I giudici di merito hanno dunque correttamente operato il calcolo della pena da irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 20 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 22 anni di reclusione. 1.11. L'undicesimo motivo a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.11. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Quanto alla determinazione della misura della pena per il reato di promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, si deve osservare che la pena è stata in realtà determinata nella misura del minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 15 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di promozione, direzione o organizzazione di un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 20 anni di reclusione -per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. Quanto alla determinazione della misura degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, Rv. 270799 - 01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193 - 01). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 36-38 dell'atto di appello a firma dell'avv. Gi.), il ricorrente si era limitato, del tutto genericamente, da un lato, a dedurre "la scarsa pericolosità del soggetto agente" e, dall'altro lato, a invocare la necessità di tenere "conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", senza, tuttavia, specificare in alcun modo le ragioni della suddetta asserita scarsa pericolosità dell'agente né quale sarebbero state le caratteristiche del "modus operandi", del "contesto familiare" e dei "fatti" che avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio, né perché. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. 2. I ricorsi di Sc.Lu. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. Di.Be.). 2.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.1 della parte in fatto) e il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.1. della parte in fatto) non sono consentiti. 2.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione, avanzata nel ricorso a firma dell'avv. Gi., relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 5.1.1.1 della parte in fatto), trattandosi di censure identiche a quelle che sono state prospettate con il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. (punto 4.1.1.1 della parte in fatto), è sufficiente rinviare a quanto è stato argomentato, in ordine alla genericità e aspecificità delle medesime censure, al punto 1.1.1. 2.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 5.1.1.2 e 5.2.1 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione dello Sc.Lu. alla suddetta famiglia mafiosa, nella quale l'imputato si era reinserito dopo la sua scarcerazione il 13/01/2014. Dopo avere premesso che lo Sc.Lu. era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'accrescimento dell'apporto fornito al sodalizio, mercé anche il rafforzamento del legame con Te.Sa., sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa., il quale, nel corso dell'interrogatorio che aveva reso il 19/06/2015 (il cui contenuto è testualmente riportato alle pagine da 128 a 138 della sentenza impugnata), aveva espressamente indicato, per averne avuto diretta conoscenza, lo Sc.Lu. come uomo di Ta.Pi. (successivamente arrestato il 28/09/2015) che si occupava, per conto del sodalizio mafioso, di imporre la collocazione di slot machines negli esercizi pubblici. Tale chiamata in correità, rispetto alla quale la Corte d'appello di Palermo ha logicamente argomentato la ritenuta credibilità del dichiarante (pagine 68-69 della sentenza impugnata), aveva trovato riscontro, oltre che nell'accertata assidua frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con Te.Sa. e con diversi altri membri del sodalizio, anche aventi ruoli apicali (come Su., vertice del mandamento di S, il quale, il 07/04/2016, si era personalmente recato presso l'agenzia di pompe funebri dello Sc.Lu.), anche nel contenuto di numerose conversazioni intercettate; il quale, anche in questo caso, appare avere lo spessore non del mero riscontro alla ricordata chiamata in correità, ma della prova "autosufficiente" della partecipazione dello Sc.Lu. alla famiglia mafiosa di Co.. Con riguardo a tali intercettate conversazioni, la Corte d'appello di Palermo ha in particolare evidenziato come da esse fossero emersi: a) l'immediata ripresa, da parte dell'imputato, dopo la sua scarcerazione, dei contatti con il sodalizio criminale (conversazione del 30/01/2015 con Da.Cl., uomo di fiducia di Ta.Pi., il quale Da.Cl. aveva espressamente manifestato la propria piena disponibilità ad aiutare lo Sc.Lu.); b) i numerosi discorsi con Te.Sa. aventi a oggetto gli affari illeciti del sodalizio, quali l'imposizione del "pizzo", il traffico degli stupefacenti e il commercio dei tabacchi lavorati esteri (tra le altre: conversazione del 15/11/2017, nella quale si faceva riferimento al denaro per i carcerati; conversazione del 21/11/2017, avente a oggetto l'estorsione ai danni dell'impresa di specchi "Mi.Ig."); c) il contributo che era stato dato dallo Sc.Lu. all'individuazione degli autori della già menzionata rapina ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), riconducibile alla famiglia mafiosa di Vi. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'attribuzione anche allo Sc.Lu. dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, in quanto dimostrativa del contributo che era stato dato dall'imputato alla famiglia mafiosa di Co. nell'attività di riciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori, a tutela del denaro proveniente dai delitti commessi dal sodalizio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta rinnovata partecipazione dello Sc.Lu., dopo la sua scarcerazione, alla famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, al fine di ottenere una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 2.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.7 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.2. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata - sono manifestamente infondati. Come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui lo Sc.Lu. era un "autorevole" esponente, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi proprio in capo a Sc.Fa.; dall'accertata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accertata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da parte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte dello Sc.Lu., atteso anche il ruolo significativo, ancorché non apicale, che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 2.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.8 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.3. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. Come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, contrariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, cit.; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, cit.; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, cit.) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. In proposito, si è già precisato come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dallo Sc.Lu.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 2.4. Il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.2 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.4. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Quanto all'attribuzione allo Sc.Lu. (in concorso con Te.Sa. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra lo Sc.Lu. e il Te.Sa. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) lo Sc.Lu. avesse impiegato delle somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines; b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come lo Sc.Lu. non disponesse di somme rapportabili a quelle da lui impiegate nella suddetta impresa "Ca.Ro."; affermazione, questa, che si deve ritenere contestata dal ricorrente solo in modo generico). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, cit.; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, cit.). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 2.5. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.3 della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.5. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità dello Sc.Lu. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal v), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come lo Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal Te.Sa.), come lo stesso Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Sc.Lu. (e Te.Sa.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che lo Sc.Lu. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come lo Sc.Lu. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo allo Sc.Lu., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alla manifesta infondatezza delle censure in diritto sollevate nel ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi., si rinvia a quanto si è argomentato alla fine del punto 1.5. 2.6. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.4. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi sostanzialmente sovrapponibili, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto quinto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.6. 2.7. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.5. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione -non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il sesto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi identiche, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto sesto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.7. 2.8. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha confermato tale affermazione di responsabilità sulla base degli elementi probatori costituiti dalle risultanze del localizzatore GPS che era apposto all'automobile in uso allo Sc.Lu., dai servizi di osservazione, pedinamento e controllo che erano stati svolti dalla polizia giudiziaria e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate, elementi dai quali risultava come l'imputato si fosse ripetutamente allontanato dal Comune di P, nel quale gli era stato imposto l'obbligo di soggiornare, e aveva preso parte a numerosi summit cui avevano partecipato dei noti esponenti mafiosi. Tale motivazione della ritenuta pienamente consapevole violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno appare, oltre che conforme alle norme di legge, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché si sottrae alle censure del ricorrente, dovendosi ritenere, altresì, manifesta, la concreta offensività, rispetto agli scopi della misura di prevenzione, delle condotte di ripetuto allontanamento del Comune di P al fine di incontrare (insieme al Te.Sa.) sodali della famiglia mafiosa di Br. 2.9. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.10 della parte in fatto) e l'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.8 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Gi.) e in relazione ai reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Di.Be.) - non sono fondati. Quanto alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) - in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del decimo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. che è stata fatta al punto 1.8, atteso che tali ragioni appaiono pienamente idonee ad argomentare anche l'infondatezza dei motivi in esame. Quanto alla ritenuta sussistenza della stessa circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa in relazione al reato di cui al capo 27) dell'imputazione - tale dovendosi ritenere, anche in questo caso, quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi le pagg. 472-473 della sentenza impugnata) - la motivazione della Corte d'appello di Palermo, secondo cui i comprovati allontanamenti dal Comune di P per incontrare, come era stato pure provato, sodali della famiglia mafiosa di Br., erano stati posti in essere, attesa quest'ultima circostanza, al fine di agevolare l'attività della stessa famiglia mafiosa, appare del tutto conforme al disposto dell'art. 416-bis 1 cod. pen. e, altresì, del tutto priva di contraddizioni e illogicità, tanto meno manifeste, sicché la stessa motivazione si sottrae senz'altro alle censure che sono state avanzate nel ricorso a firma dell'avv. Gi. 2.10. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.9 della parte in fatto) e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.6 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Quanto all'insussistenza di incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione e alla possibilità che la recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a una precedente condanna per un reato associativo divenuta irrevocabile, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva - questioni che sono state poste in entrambi ì ricorsi -, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza delle analoghe censure che sono state sollevate al riguardo con il nono motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. e con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Ba. che è stata fatta al punto 1.9. Si deve poi rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dello Sc.Lu., evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 480 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, cit.; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, cit.). 2.11. Il primo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.9 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 - 01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell'imputato). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244 - 01). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 - 01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163 - 01). Nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato e del fatto che questi, terminato il periodo di detenzione, non aveva esitato a offrire e a dare nuovamente il proprio contributo alla famiglia mafiosa di Co., così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano dedotti dall'imputato (e che sono richiamati nei ricorsi). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità. Né sussiste la violazione del divieto di bis in idem sostanziale che è stata lamentata con il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. La Corte di cassazione ha infatti ripetutamente chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell'imputato, in quanto il principio del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative a istituti giuridici diversi (Sez. 6, n. 57565 del 15/11/2018, Giallombardo, Rv. 274783 - 01; Sez. 6, n. 47537 del 14/11/2013, Quagliara, Rv. 257281 - 01). 2.12. Il terzo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.7 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. Come si è già diffusamente detto al punto 1.10 nell'esaminare il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. An.Ba., la Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso, nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti a effetto speciale previste dall'art. 416-bis, quarto e sesto comma, cod. pen., la pena è determinata secondo la disciplina speciale di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata, con la conseguenza che, quando concorre anche l'aggravante a effetto speciale della recidiva reiterata, ai fini dell'individuazione della più grave tra le dette circostanze, sulla quale operare l'eventuale ulteriore aumento di pena, previsto dalla regola generale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., rileva quella unitariamente considerata, a fini sanzionatori, dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. I giudici di merito hanno perciò correttamente operato il calcolo della pena di irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento di pena quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 16 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 18 anni di reclusione. Nella confermata sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo, la rilevanza di quest'ultima meno grave circostanza della recidiva e la quantificazione del relativo aumento di pena di 2 anni di reclusione erano stati altresì sufficientemente motivati in considerazione, rispettivamente: del fatto che la recidiva si doveva ritenere effettivamente dimostrativa di una maggiore pericolosità e di un maggior grado di colpevolezza; della congruità ed equità dell'irrogato aumento di pena di 2 anni di reclusione, entro il limite massimo "fino a un terzo" che è previsto dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 2.13. Le restanti doglianze in punto di trattamento sanzionatorio che sono state avanzate con l'undicesimo motivo e con il secondo e il quarto profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punti 5.1.11 e 5.1.12 della parte in fatto), nonché con il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.10 della parte in fatto), sono fondate limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, mentre non sono fondate o sono manifestamente infondate nel resto. 2.13.1. Anzitutto, non è fondata la doglianza che è stata avanzata con l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. con riguardo all'individuazione del reato di cui al capo 1) dell'imputazione come violazione più grave rispetto al reato di associazione di tipo mafioso già giudicato con la suddetta sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo. La Corte di cassazione ha chiarito che, nel caso di reati in parte decisi con sentenza definitiva e in parte sub iudice - come era nel caso di specie - la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni deve essere compiuta confrontando tra loro la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee (Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Velia, Rv. 265733 - 01; Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582 - 01. In senso analogo: Sez. 6, n. 29404 del 06/06/2018, Assinnata, Rv. 273447 - 01). La Corte d'appello di Palermo ha rispettato tale principio, avendo adeguatamente argomentato come, tenuto conto dell'inasprimento delle pene edittali per la fattispecie di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso che era stato operato con la legge 27 maggio 2015, n. 69 (art. 5, comma 1, lett. b), nonché del fatto che il reato sub iudice era aggravato dalla recidiva reiterata, la pena irroganda per tale reato sarebbe stata maggiore rispetto a quella che era stata inflitta per il reato già giudicato con la sentenza irrevocabile, con la logica conseguenza che, in applicazione dello stesso suddetto principio, il reato sub iudice si doveva considerare violazione più grave rispetto al reato associativo già giudicato. Ferma la correttezza di tale motivazione, si deve peraltro altresì osservare che: a) il ricorrente ha del tutto omesso di indicare quale sarebbe il suo interesse a che fosse invece ritenuta violazione più grave quest'ultimo reato già giudicato; b) le considerazioni svolte dallo stesso ricorrente a sostegno di tale diversa soluzione appaiano del tutto generiche. 2.13.2. In secondo luogo, è manifestamente infondata la doglianza che attiene alla determinazione della misura della pena per il più grave reato di cui al capo 1) dell'imputazione, atteso che, per tale reato, la pena è stata in realtà determinata nel minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 12 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di partecipazione a un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 16 anni di reclusione - per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 2.13.3. In terzo luogo, quanto alla determinazione degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, cit.; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., cit.). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 29-30 dell'atto di appello a firma dell'avv. Di.Be. e dell'avv. DE.SP.), il ricorrente si era limitato, genericamente, ad affermare che gli irrogati aumenti di pena di un anno di reclusione per ciascuno dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione e di 6 mesi di reclusione per il reato di cui al capo 27) dell'imputazione sarebbero stati "non in linea con i principi discrezionali di cui all'art. 133 c.p.", tenuto conto del suo "ruolo non significativo (...) all'interno della famiglia mafiosa" e del fatto che egli sarebbe stato "anche destinatario di danneggiamenti e intimidazioni", senza specificare in alcun modo per quali ragioni il suo ruolo nella famiglia mafiosa si sarebbe dovuto ritenere "non significativo" e per quali ragioni il suo essere stato "destinatario di danneggiamenti e intimidazioni" avrebbe dovuto incidere sulla determinazione della misura della pena per i suddetti reati in continuazione. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. Aumenti, peraltro, contenuti, e di cui la Corte d'appello di Palermo ha comunque ritenuto la congruità (pag. 481 della sentenza impugnata). 2.13.4. Le doglianze sono, invece, fondate, come si è anticipato, limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007. Con riferimento a tali reati, la Corte d'appello di Palermo ha infatti irrogato un aumento cumulativo di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione, senza in nessun modo motivare - come è invece necessario fare, anche alla luce dei principi che sono stati affermati dalla sentenza Pizzone delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) - in ordine alle ragioni che, alla luce dei parametri che sono stabiliti nell'art. 133 cod. pen., l'hanno indotta a determinare l'aumento di pena nella suddetta misura e senza distinguere gli aumenti relativi ai diversi reati satellite. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con riguardo all'aumento di pena inflitta per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio su tale punto. 2.14. Il tredicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.13. della parte in fatto) e l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.11 della parte in fatto) sono fondati. Il Collegio aderisce infatti a un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dettata dall'art. 417 cod. pen., secondo cui, dopo la modifica introdotta dall'art. 31, comma 2, della legge n. 633 del 1986, l'applicazione delle misure di sicurezza, ivi compresa quella prevista dall'art. 417 cod. pen., può essere disposta, anche da parte del giudice della cognizione, soltanto dopo l'espresso positivo scrutinio dell'effettiva pericolosità sociale del condannato, da accertarsi in concreto sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., globalmente valutati, senza possibilità di fare ricorso ad alcuna forma di presunzione giuridica, ancorché qualificata come semplice (tra le più recenti: Sez. 5, n. 24873 del 21/04/2023, La Rosa, Rv. 244817 - 01; Sez. 1, n/7188 del 10/12/2020, dep. 2021, Pavone, Rv. 280804 - 01; Sez. 1, n. 35996 del 08/05/2019, Natale, Rv. 276813 - 01). Infatti, l'espressione utilizzata nell'art. 417 cod. pen., che abbina "sempre" alla condanna per uno dei delitti previsti dai due articoli precedenti (e, quindi, sicuramente per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.) la disposizione di una misura di sicurezza da parte del giudice, deve essere coordinata con l'evoluzione normativa e, in particolare, con il fatto che, a partire dall'entrata in vigore della cosiddetta legge "Gozzini" (legge n. 633 del 1986), il quadro di riferimento è stato radicalmente modificato, attraverso l'abrogazione dell'art. 204 cod. pen. e la conseguente eliminazione, dal nostro ordinamento penale, delle presunzioni di pericolosità sociale in materia di misure di sicurezza, in conformità alle ripetute pronunce della Corte costituzionale declaratorie dell'illegittimità costituzionale delle disposizioni concernenti l'applicazione obbligatoria di tali misure nei confronti dell'infermo di mente (sentenze n. 139 del 1982 e n. 249 del 1983) e del minore di età (sentenza n. 1 del 1971). Si deve pertanto ritenere che, attualmente, qualunque misura di sicurezza potrebbe essere disposta dal giudice della cognizione e dal magistrato di sorveglianza soltanto se vi sia stato un previo accertamento della pericolosità sociale dell'agente, senza alcuna possibilità di ricorrere a presunzioni, ancorché semplici. Il Collegio ovviamente non ignora l'esistenza di differenti orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione - secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso: l'applicazione di una misura di sicurezza sarebbe obbligatoria tour court (da ultimo: Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980 - 02); opererebbe una presunzione semplice di pericolosità del soggetto (da ultimo: Sez. 1, n. 24950 del 22/02/2023, Abbruzzo, Rv. 284829 - 02; Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallone, Rv. 281999 - 01) -, opzioni interpretative che, però, per le ragioni che si sono dette, non ritiene di condividere. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riguardo alla conferma dell'applicazione allo Sc.Lu. delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di P, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio anche su tale punto. 3. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è inammissibile perché il suo unico motivo non è consentito in quanto è del tutto aspecifico. Tale unico motivo (di cui al punto 6 della parte in fatto), consiste infatti: a) in una generica censura della sentenza impugnata in punto di affermazione di responsabilità ("la Corte d'appello pur dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non esplicita chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente con riferimento ai fatti allo stesso contestati senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito"), senza che venga operato alcun effettivo confronto con il percorso motivazionale della stessa sentenza e senza che vengano a essa rivolte delle specifiche censure; b) nell'immotivata richiesta di esclusione dell'attribuita recidiva, anche in questo caso senza operare alcun confronto con le ragioni di tale attribuzione. 4. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP.. 4.1. Il primo motivo (punto 7.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa (capo 2 dell'imputazione; punto 7.1.1. della parte in fatto), estorsione (capo 11 dell'imputazione; punto 7.1.2. della parte in fatto) e traffico illecito di sostanze stupefacenti (capo 12 dell'imputazione; punto 7.1.3. della parte in fatto) è fondato limitatamente al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo ai reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 4.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso "Cosa Nostra", si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi.Sa. i quali avevano riferito: il primo, che il Di.Pi. era a completa disposizione del suocero Sc.Lu., che accompagnava agli incontri con altri membri del sodalizio mafioso, essendo ben consapevole della natura di tali incontri del suocero; il secondo (il quale aveva un ruolo apicale nel mandamento di M), che il Di.Pi. era l'alter ego del suocero Sc.Lu. Tali due chiamate in correità - le quali non si potevano ritenere logicamente smentite per il solo fatto che altri collaboratori di giustizia non avevano fatto riferimento al Di.Pi. - erano state suffragate dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, elementi dai quali era risultato come il Di.Pi. collaborasse fattivamente e consapevolmente all'attività "mafiosa" del suocero, svolgendo il ruolo di filtro per gli incontri dello Sc.Lu. con vari altri sodali, alcuni anche in posizione di vertice, contribuendo all'organizzazione di riunioni dello Sc.Lu. con gli stessi sodali, accompagnando il suocero a tali riunioni delle quali, rimanendo all'esterno dei luoghi in cui esse si svolgevano, si doveva ritenere garantire la sicurezza. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'elemento del rinvenimento dell'imputato, il 01/06/2016, nel possesso della somma di Euro 2.500,00, la quale, essendo ciò avvenuto immediatamente dopo lo svolgimento di una riunione (tra Te.Sa., Sc.Lu., Mi.Al. e De.Gi.) presso il magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", veniva logicamente ritenuta essere ricollegabile all'attività di gioco che veniva svolta dalla stessa impresa. Infine, la Corte d'appello di Palermo valorizzava la commissione di reati scopo dell'associazione, tra cui, in particolare, quello di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il quale, alla luce del contenuto di alcune conversazioni intercettate (conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu.; conversazione del 30/11/2017 tra l'imputato e Ba., membro della famiglia 'ndranghetista da cui il Di.Pi. e lo Sc.Lu. si rifornivano di sostanza stupefacente), era risultato essere svolto nell'interesse della famiglia mafiosa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una diversa valutazione del significato probatorio degli elementi di priva, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Nella specie, la sussistenza del reato di estorsione richiederebbe o che l'autore del furto dello scooter fosse stato costretto, mediante minaccia, a consegnare un mezzo di valore superiore a quello che aveva rubato (del che, tuttavia, non vi è traccia nella motivazione della sentenza impugnata), o che la minaccia fosse stata esercitata nei confronti del padre dell'autore del furto (la persona offesa An.Ni.), in quanto soggetto estraneo rispetto alla pretesa azionata. Ciò posto, il Collegio ritiene che, nella motivazione della sentenza impugnata, non siano chiare le modalità dell'intervento dell'An.Ni. nella vicenda, se, cioè, questi sia stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. o se, invece - come lo stesso An.Ni. aveva riferito alla polizia giudiziaria (pag. 243 della sentenza impugnata) - egli fosse spontaneamente intervenuto nella vicenda rendendosi disponibile a restituire, per conto del figlio autore del furto, un bene equivalente a quello che lo stesso figlio aveva rubato. La motivazione della sentenza impugnata non appare chiarire adeguatamente tale decisivo aspetto della vicenda. In particolare, la Corte d'appello di Palermo non ha chiarito da quale specifica frase dell'intercettata conversazione del Di.Pi. del 26/05/2017 che è riportata a pag. 244 della sentenza impugnata abbia tratto il convincimento che l'An.Ni. fosse stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. né perché la stessa frase si dovesse intendere come comprovante una tale minaccia, non potendosi ritenere sufficiente, allo scopo, la mera sottolineatura della "veemenza delle espressioni utilizzate dal Di.Pi.". La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 4.1.3. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, la Corte d'appello di Palermo l'ha fondata sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Di.Pi., anche con il Lu.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra il coimputato Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Di.Pi. e il Lu.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Di.Pi., insieme con il Lu.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. Traffico che, tenuto conto dei riferimenti che Ba. aveva fatto ad autorizzazioni che il Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere, dei riferimenti dello stesso Ba. a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda e, perciò, assolto dall'imputazione dal G.u.p. del Tribunale di Palermo) e della riconosciuta appartenenza del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Br., si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione, così logicamente argomentata, anche della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, con la conseguenza che il motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.2. Il secondo motivo (punto 7.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello del Di.Pi. sul punto (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha infatti del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riferimento alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 4.3. Il terzo motivo (punto 7.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 7.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 7.3.2 della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. 4.3.1. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata, come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui il Di.Pi. faceva parte, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava dagli elementi di prova che si sono indicati sempre al punto 1.2. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e degli effettuati non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, anche da parte del Di.Pi.), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine (o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi). 4.3.2. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati, come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata), rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nel suo ricorso, non potendo evidentemente assumere contrario rilievo il fatto che la circostanza aggravante in questione possa essere stata asseritamente esclusa nell'ambito di altri diversi procedimenti penali. 4.4. Il quarto motivo (punto 7.4 della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come si è visto al punto 4.1.1, la Corte d'appello di Palermo ha compiutamente esposto gli elementi probatori dimostrativi delle attività funzionali agli scopi della famiglia mafiosa di Co. e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento di tale sodalizio criminoso che erano state poste in essere dal Di.Pi., traendone la conclusione, corretta in diritto e priva di vizi logici, della partecipazione dello stesso Di.Pi. alla suddetta famiglia mafiosa di Co.. A fronte di ciò, cioè una volta che la Corte d'appello di Palermo aveva compiutamente motivato, nei termini che si sono detti, la partecipazione del Di.Pi. all'associazione mafiosa, risultava evidentemente logicamente assorbita ogni questione relativa alla configurabilità di altre alternative ipotesi di reato, tra cui anche quella, prospettata in questa sede, del favoreggiamento personale. Quanto alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa ritenuta con riferimento al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, si è già detto al punto 4.1.3 della congruità e logicità della motivazione della sentenza impugnata al riguardo. La questione della sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso con riguardo al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione (pag. 247 della sentenza impugnata) è invece assorbita dall'accoglimento del motivo di ricorso relativo all'affermazione di responsabilità per tale reato. 5. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP. 5.1. Il primo motivo (punto 8.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione, è in parte non consentito e in parte manifestamente infondato. Esso non è consentito là dove, con esso, si lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe asseritamente limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa". Tale doglianza - la quale attiene all'elemento psicologico del reato, non essendo in contestazione la sussistenza dell'elemento materiale dello stesso, integrato dalla messa a disposizione dell'appartamento dell'imputato per le riunioni "mafiose" dei membri del mandamento di Br. - omette infatti del tutto di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla consapevolezza, da parte dell'imputato, di fornire assistenza, con la propria condotta, a dei soggetti di spicco della consorteria mafiosa (in particolare, tra gli altri, a Te.Sa. e a Sc.Lu.). Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, la Corte d'appello di Palermo non ha affatto dato "per certa e per scontata" tale consapevolezza, ma l'ha, al contrario, motivata, traendola (riassuntivamente) dalle notevoli cautele che l'imputato adoperava nel mettere il proprio appartamento a disposizione dei sodali. Il motivo è quindi, sul punto, del tutto aspecifico e, perciò, non consentito. Lo stesso motivo è, per il resto - in particolare là dove, con esso, si deduce l'insussistenza della "coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata (...) con l'operatività dell'associazione" - manifestamente infondato, atteso che, nel 2017, quando l'Ur.En. pose in essere la condotta di assistenza agli associati a lui attribuita, l'associazione criminale mafiosa era, in tutta evidenza, operativa, come è risultato accertato nella stessa sentenza impugnata, la quale ha attribuito agli imputati il reato associazione di tipo mafioso che era stato loro contestato "fino al 2 luglio 2019". 5.2. Il secondo motivo (punto 8.2 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 8.2.1 della parte in fatto) e l'eccessività della pena inflitta (punto 8.2.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 5.2.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello dell'Ur.En. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 5.2.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze del ricorrente in ordine all'asserita "eccessività della pena inflitta" (che è stata determinata dalla Corte d'appello di Palermo in 3 anni di reclusione, ridotti a 2 anni di reclusione per la scelta del rito abbreviato). A sostegno dell'"eccessività" di tale inflitta pena e della necessità di determinare invece la stessa pena nella misura del minimo edittale, il ricorrente ha invocato ""la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta", "il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso", "i rilievi afferenti la personalità", "il di lui ruolo", senza tuttavia minimamente specificare quali sarebbero i suddetti invocati "elementi caratterizzanti" la condotta, "contesto situazionale" in cui essa si inseriva, "rilievi afferenti la personalità" e suo "ruolo" e perché gli stessi avrebbero giustificato l'irrogazione di una pena nella misura del minimo edittale, con la conseguente assoluta genericità del motivo. Quanto, poi, alla scelta del rito abbreviato, essa comporta ex lege la diminuzione di un terzo della pena "base" determinata dal giudice ma non costituisce, evidentemente, un elemento suscettibile di incidere sulla determinazione di tale pena "base". 6. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi.. 6.1. Il primo motivo (punto 9.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è consentito. Come si è visto al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato la conferma dell'affermazione di responsabilità del Lu.Pi. per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Lu.Pi., anche con il Di.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Lu.Pi. e il Di.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Lu.Pi., insieme con il Di.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. La stessa Corte d'appello ha altresì evidenziato come l'arresto del Lu.Pi. (il 5 ottobre 2017) si doveva ritenere avvenuto quando le consegne della sostanza stupefacente erano già state effettuate, come si evinceva, logicamente, dal fatto che i Ba. ne avevano rivendicato il pagamento. A fronte di tale motivazione, anche il motivo di ricorso del Lu.Pi. si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, o travisamenti di decisivi elementi probatori, con la conseguenza che lo stesso motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 6.2. Il secondo motivo (punto 9.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è fondato. Come si è visto sempre al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato l'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa - non risultando, dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 271-273 della stessa sentenza), l'attribuzione anche della circostanza aggravante del metodo mafioso - sugli elementi, i quali erano emersi dalle conversazioni intercettate, che: Ba.Pa. aveva fatto continui riferimenti ad autorizzazioni che il concorrente Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere; lo stesso Ba.Pa. aveva fatto altresì riferimento a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda); il concorrente Di.Pi. era stato riconosciuto appartenere alla famiglia mafiosa di Br.. Da tali elementi la Corte d'appello di Palermo aveva tratto il convincimento che il traffico illecito di stupefacenti si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione - che appare così logicamente argomentata - della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. Tale motivazione della conferma dell'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa appare priva di contraddizioni e di manifeste illogicità, sicché sottrae alle censure del ricorrente. 6.3. Il terzo motivo (punto 9.3 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 9.3.1 della parte in fatto) e la conferma della pena che era stata inflitta dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (punto 9.3.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 6.3.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello del Lu.Pi. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato; pagg. 15-17), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 6.3.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze che erano state avanzate dal ricorrente nel proprio atto di appello in ordine alla determinazione della misura della pena (che era stata determinata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, ed è stata confermata dalla Corte d'appello di Palermo, in 4 anni e 4 mesi di reclusione, così già ridotti per la scelta del rito abbreviato). A tale proposito, si deve premettere che, per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti cosiddette "pesanti", il comma 1 dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 prevede una pena detentiva da 6 a 20 anni di reclusione, con la conseguenza che la pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione che è stata irrogata nella specie, così ridotta per la scelta del rito abbreviato, per il suddetto reato aggravato dall'agevolazione mafiosa risulta assai prossima al minimo edittale (la stessa pena, prima della riduzione per il rito abbreviato, era infatti di 6 anni e 6 mesi di reclusione). A fronte di ciò, nel proprio atto di appello (terzo motivo, di cui alle pagg. 15-17, con il quale l'imputato aveva lamentato anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche), il Lu.Pi., con riguardo alla pena e, in particolare, alla sua asserita "eccessività", si era limitato a rappresentare genericamente l'"assenza di una reale gravità del fatto contestato, sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.", senza indicare alcuna specifica caratteristica di tale fatto che, in quanto tale da escluderne la "reale gravità", avrebbe dovuto indurre a una riduzione della pena irrogata e alla sua determinazione nella misura del minimo edittale. A fronte dì tale mancanza di specificità del motivo di appello e, perciò, dell'inammissibilità di esso (ancorché non rilevata dalla Corte d'appello di Palermo), si deve escludere la sussistenza di un obbligo della stessa Corte d'appello di motivare in ordine al medesimo motivo, mentre le doglianze che sono state avanzate dal ricorrente in questa sede appaiono anch'esse, oltre che ormai inammissibili, attesa l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, del tutto generiche. 7. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'avv. DE.SP. 7.1. Il primo motivo (punto 10.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 10.1.1. della parte in fatto) e trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione (punto 10.1.2. della parte in fatto), non è consentito. 7.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co., si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla suddetta famiglia mafiosa. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle tre autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Va.Pa., Ga.Vi. e Bi.Fi., i quali avevano riferito: il primo (Va.Pa.), che il Mi.Al. era soggetto specializzato nelle slot machines e in rapporto con Na.Br., reggente della famiglia mafiosa di Br., con cui, nell'ambito del procedimento cosiddetto "Zefiro", erano stati documentati degli incontri nel corso dei quali Mi.Al. aveva consegnato del denaro al Na.Br., circostanza che, ad avviso della Corte d'appello di Palermo, costituiva un significativo riscontro alle concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano indicato come il ruolo del Mi.Al. consistesse nel contributo da lui fornito nel settore, di interesse di "Cosa Nostra", delle slot machines; il secondo (Ga.Vi.), che Mi.Al. era uomo a disposizione della famiglia mafiosa di Co. ("era a disposizione, uomo di loro, di quel clan"), dichiarazione che, nonostante il collaboratore facesse riferimento a un periodo più risalente di quello in contestazione, era stata comunque logicamente ritenuta dalla Corte d'appello di Palermo come confermativa del ruolo che Mi.Al. aveva sempre avuto nell'ambito dell'associazione criminosa; il terzo (Bi.Fi.), di avere appreso da Te.Sa. che Mi.Al. era il soggetto che, per conto di "Cosa Nostra" di Co., si occupava del gioco. Tali tre chiamate in correità erano ritenute suffragate sia dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, le quali avevano attestato la partecipazione del Mi.Al. a diverse riunioni con altri sodali mafiosi, sia dall'accertato (sulla scorta del contenuto di alcune intercettate conversazioni relative alla vicenda) contributo che era stato dato dall'imputato alla costituzione di (...) Srl e alla fittizia intestazione di tale società a dei prestanome (di Te.Sa. e di Sc.Lu., oltre che dello stesso Mi.Al.), con ciò fornendo, il Mi.Al., un importante apporto alla realizzazione degli scopi della famiglia di Co., nelle persone dei suoi due menzionati esponenti di rilievo Te.Sa. e Sc.Lu. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire ai menzionati elementi di prova, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 7.1.2. La Corte d'appello di Palermo ha fondato l'affermazione di responsabilità di Mi.Al. per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra Te.Sa. e Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dagli stessi te.Sa. e Sc.Lu., come costoro fossero i reale titolari di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al., il quale aveva seguito la costituzione della società sin dalla fase dell'affitto dell'immobile destinato a sede della stessa e teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che Te.Sa., Sc.Lu. e Mi.Al. avevano, in concorso tra loro, fittiziamente attribuito a Na.Gi. e La.Pa. la titolarità di (...) Srl, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al. La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. e lo Sc.Lu. avessero fatto ricorso a tale fittizia intestazione a persone insospettabili (Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo dei pregiudicati mafiosi, avevano il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che avevano, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche del dolo specifico del reato, del quale il Mi.Al., alla luce dei menzionati caratteri del suo contributo concorsuale, si doveva ritenere essere consapevole. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso - nel quale, peraltro, si discetta per lo più di fatti relativi al capo 14) dell'imputazione, per il quale il ricorrente è stato assolto dalla Corte d'appello di Palermo - si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in questa sede di legittimità. 7.2. Il secondo motivo (punto 10.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso. Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 7.3. Il terzo motivo (punto 10.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 10.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 10.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 8. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo (punto 3 della parte in fatto; ricorso che viene esaminato ora, in quanto attiene alla posizione dell'imputato Mi.Al., il cui ricorso è stato appena scrutinato), non è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. Quanto al primo profilo (di cui alla lett. a del punto 3 della parte in fatto), si deve osservare che, ancorché la Corte d'appello di Palermo, nell'esaminare il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, abbia affermato che l'appello di Mi.Al. era "fondato limitatamente alla dosimetria della pena" e abbia fatto riferimento anche a responsabilità dello stesso Mi.Al. per i fatti di cui al capo 14) dell'imputazione, la stessa Corte d'appello, nell'esaminare specificamente proprio quest'ultimo reato, ha diffusamente motivato in ordine al fatto che Mi.Al. non lo aveva commesso e doveva, perciò, essere assolto (pagg. 326-327 della sentenza impugnata), sicché, diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo (che ha trascurato di considerare le suddette pagg. 326-327 della sentenza impugnata), del tutto conseguentemente, nel dispositivo, la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato l'assoluzione di Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto. Quanto al secondo profilo del motivo (di cui alla lett. b del punto 3 della parte in fatto), esso si deve ritenere generico, atteso che, dal passo della motivazione della sentenza impugnata (tratto dalla pag. 476 di essa) che è stato citato alla pag. 4 del ricorso, si ricava soltanto che la Corte d'appello di Palermo ha legittimamente e insindacabilmente provveduto a ridurre la pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in conseguenza dell'assoluzione del Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione della quale si è detto sopra. 9. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP. 9.1. Il primo motivo (punto 11.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 11.1.1. della parte in fatto) e dì estorsione di cui al capo 11 dell'imputazione (punto 11.1.2. della parte in fatto), è fondato limitatamente a quest'ultimo reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo al reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. 9.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bi.Fi., il quale aveva parlato di Mi.Pa. come dell'uomo ombra di Sc.Lu., che accompagnava agli appuntamenti con altri appartenenti al sodalizio criminoso. Tale chiamata in correità era ritenuta suffragata dalle risultanze di servizi di osservazione, dalle riprese delle telecamere di videosorveglianza e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate; elementi dai quali era risultato come Mi.Pa. fosse l'uomo di fiducia di Sc.Lu., del cui ruolo all'interno della famiglia mafiosa di Co. era pienamente consapevole e per il quale si adoperava non solo accompagnandolo agli incontri con altri sodali ma anche concordando gli stessi incontri (anche con la collaborazione di Mi.Lo., portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis)). La suddetta consapevolezza veniva in particolare ritenuta comprovata alla luce: del linguaggio criptico che veniva utilizzato dal Mi.Pa. nelle conversazioni con lo Sc.Lu. e il Mi.Lo.; della consegna, da parte dell'imputato allo Sc.Lu., di un "pizzino" proveniente da Bi.Fi. (come era risultato dalle immagini del sistema di video-sorveglianza che era stato attivato nei pressi del menzionato stabile di via (omissis), n. (omissis) - le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte del Bi.Sa. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. al Mi.Pa. - e dalla successiva telefonata del Mi.Pa. allo Sc.Lu.); della consegna, prima di un incontro tra sodali, da parte dello Sc.Lu. al Mi.Pa., del cellulare del primo, con l'evidente fine di evitare captazioni delle conversazioni che avrebbero avuto luogo nel corso dello stesso incontro. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì logicamente (a ciò non ostando il fatto che il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti non fosse stato contestato al ricorrente) l'elemento della partecipazione di Mi.Pa. a uno dei viaggi in Calabria (quello del 01/12/2016) che vennero compiuti da Di.Pi. per acquistare sostanza stupefacente dalla famiglia 'ndranghetista dei Ba., nella piena consapevolezza, da parte del Mi.Pa., della finalità dello stesso viaggio, come risultava dal contenuto di un'intercettata conversazione del 30/11/2017 tra il Di.Pi. e Ba.Pa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 9.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento dell'analogo profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi., ragioni alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 9.2. Il secondo motivo (punto 11.2. della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello di Mi.Pa. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato), e considerato l'annullamento della sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, si deve ritenere necessario un nuovo giudizio della Corte d'appello di Palermo anche sul punto della concessione (o no) delle circostanze attenuanti generiche, il quale giudizio possa tenere conto, nel valutare il grado di offensività della condotta dell'imputato (pag. 477 della sentenza impugnata), anche degli esiti del nuovo giudizio in ordine al reato di cui al capo 11) dell'imputazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 9.3. Il terzo motivo (punto 11.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 11.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 11.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 10. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA. 10.1. Il primo motivo (punto 12.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di concorso esterno in un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 2) dell'imputazione, non è consentito. A tale proposito, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. nella famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provato tale concorso sulla base delle risultanze di servizi di osservazione, delle riprese delle telecamere di videosorveglianza e del contenuto di alcune conversazioni intercettate. Da tali elementi di prova era risultato come il Mi.Lo., che era il portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis), non si era limitato a svolgere tali mansioni, come era stato sostenuto dalla difesa dell'imputato, ma si era consapevolmente e sistematicamente (dal novembre 2015 al maggio 2018) adoperato per consentire il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa senza l'attivazione di contatti telefonici diretti tra i sodali, assicurando così la natura riservata dei loro incontri (che si svolgevano nel suddetto stabile di via (omissis), n. (omissis)) - in particolare, di numerosi incontri tra Te.Sa. e Sc.Lu. e tra quest'ultimo e Gi.An., Vi. e Bi.Fi. -, prestandosi anche, in un caso (come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza che era stato attivato nei pressi dello stabile di via (omissis), n. (omissis), le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte di Bi.Fi. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. a Mi.Pa.), a fungere da tramite per la consegna di un "pizzino" logicamente ritenuto indirizzato dal Bi.Sa. allo Sc.Lu. Dai sopra menzionati elementi di prova era emerso, come è stato debitamente evidenziato dalla Corte d'appello di Palermo, che il compito di consentire il mantenimento dei canali informativi tra gli indicati membri della famiglia mafiosa - così recando un contributo al mantenimento e al rafforzamento della stessa famiglia nel suo insieme - era svolto dal Mi.Lo. facendo ricorso all'utilizzo, nelle proprie conversazioni, dì un concordato convenzionale linguaggio criptico, che faceva riferimento alla necessità di inviare ambulanze, a inesistenti malesseri o, addirittura, alla mai avvenuta morte della condomina sig.ra Fa., al pagamento di conti, a servizi cimiteriali. Il ricorso, da parte dell'imputato, a tali stratagemmi al fine di ottenere la presenza, presso lo stabile di via (omissis), n. (omissis), in particolare, di Sc.Lu., erano ritenuti dalla Corte d'appello di Palermo logicamente dimostrativi della piena consapevolezza, da parte del Mi.Lo., della caratura criminale dello stesso Sc.Lu., di Te.Sa. e degli altri partecipanti agli incontri, e del contributo che egli, con la propria condotta, stava dando alla realizzazione, sia pure parziale, del programma criminoso del sodalizio mafioso. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. alla famiglia mafiosa di Co. - attesa l'attività funzionale agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabile come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi (pur senza essere il Mi.Lo. inserito stabilmente nella struttura organizzativa della famiglia mafiosa e pur essendo egli privo della cosiddetta affectio societatis) -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 10.2. Il secondo motivo (punto 12.2. della parte in fatto), il quale attiene alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo 2) dell'imputazione come reato di assistenza agli associati di cui all'art. 418 cod. pen., non è fondato. La Corte d'appello di Palermo, con un accertamento in fatto che, in quanto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste (come si è detto al punto 10.1.) non è censurabile in questa sede, ha riscontrato come l'imputato, con la propria condotta, avesse assicurato il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa in modo stabile e sistematico (dal novembre 2015 al maggio 2018), così non tanto prestando assistenza a taluno degli associati ma fornendo un concreto e consapevole contributo al sodalizio mafioso nel suo insieme. Alla luce di ciò, la qualificazione del fatto come concorso nel reato di associazione di tipo mafioso e non come mera assistenza agli associati si deve ritenere del tutto corretta. 10.3. Il terzo motivo (punto 12.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso, avendo, altresì, la stessa Corte d'appello correttamente escluso che si potessero ritenere elementi positivamente valutabili il mero stato di incensurato del Mi.Lo. e il fatto che egli si fosse sottoposto all'interrogatorio di garanzia (negando l'addebito). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 1.4. Il quarto motivo (punto 12.4. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della determinazione della misura della pena, è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. La Corte d'appello di Palermo, infatti: a) da un lato, ha completamente omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta a determinare la pena irrogata al Mi.Lo. nella misura di dodici anni di reclusione; b) dall'altro lato, ha stabilito tale pena nella stessa misura che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato ai sensi del quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., senza considerare che, poiché tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla stessa Corte d'appello (insieme con la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; pagg. 201-202 della sentenza impugnata), ciò imponeva la riduzione della pena che era stata inflitta in primo grado per il reato aggravato. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 1.5. Il quinto motivo (punto 12.5. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione delle statuizioni nei confronti delle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", è fondato. Dagli atti di costituzione di tali parti civili, non risulta infatti che le stesse si siano costituite nei confronti del Mi.Lo. Si deve rilevare che nessuna contestazione è stata sollevata dal ricorrente con riguardo alle statuizioni nei confronti della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An." La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti di "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.". 11. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi. 11.1. Il primo motivo (punto 13.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, deve essere accolto. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento del profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi. in ordine alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il suddetto reato di estorsione, ragioni le quali, essendo esse relative alla sussistenza stessa del reato, prima ancora che all'individuazione dei soggetti che lo avrebbero commesso, risultano assorbenti rispetto alle doglianze che sono state avanzate dal Te.Sa. e alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 11.2. L'esame del secondo motivo (punto 13.2. della parte in fatto), del terzo motivo (punto 13.3. della parte in fatto) e del quarto motivo (punto 13.4. della parte in fatto) resta assorbito dall'accoglimento del primo motivo. 12. Dal rigetto dei ricorsi di Te.Sa. e di Mi.Al. consegue la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di Ma.Vi. consegue la condanna di tale ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", che si liquidano in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. Te.Sa. e Mi.Al. devono essere condannati altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS" e "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", che si liquidano, per ciascuna delle suddette parti civili, in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. La Corte d'appello di Palermo provvederà alle statuizioni relative alla liquidazione delle spese nei confronti delle parti civili da parte degli imputati rispetto ai quali non si è provveduto in questa sede. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ur.En. e Lu.Pi. limitatamente alle circostanze generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sul punto; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Te.Ca. con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Di.Pi. e Mi.Pa. limitatamente al reato di cui al capo 11) e alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sui predetti punti; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mi.Lo. limitatamente al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti dell'Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante; rigetta nel resto il ricorso; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sc.Lu. limitatamente all'aumento di pena inflitta per la continuazione e alla misura di sicurezza, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio su detti punti; rigetta nel resto il ricorso; rigetta i ricorsi di Te.Sa., Mi.Al. e del Procuratore Generale e condanna i soli Te.Sa. e Mi.Al. al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile il ricorso di Ma.Vi. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante, che liquida in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge; condanna Te.Sa. e Mi.Al. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Solidaria s.c.s. Onlus, S.O.S. Impresa Rete per la Legalità Sicilia, Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo, Sicindustria in persona del presidente p.t. e l. r. p.t., Centro Studi e Iniziative Culturali La.Pi. Onlus in p. l. r. p.t., FAI - Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida per ciascuna delle suddette parti civili in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge Così deciso in Roma, il 15 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Relatrice ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Sp.Ma., nato il (Omissis) a B avverso l'ordinanza del 24/10/2023 del Tribunale di Lecce; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Antonio Balsamo, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza sopra indicata il Tribunale di Lecce, adito da Sp.Ma., indagato per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie e della figlia minorenne, ha accolto l'appello del P.M. avverso il provvedimento reiettivo del Giudice per le indagini preliminari di Brindisi, emesso il 3 ottobre 2023, con riferimento all'applicazione del divieto di avvicinamento alle persone offese nonché ai luoghi abitualmente frequentati da queste, con la prescrizione di non comunicare con qualunque mezzo, e trasmissione di copia dell'ordinanza al Tribunale per i minorenni di Brindisi. 2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso Sp.Ma. con atto sottoscritto dal suo difensore, articolando un unico motivo, il cui contenuto viene qui enunciato nei limiti strettamente necessari alla motivazione ex art. 173, comma 1, disp. att. coord. cod. proc. pen. Violazione di legge, con riferimento agli artt. 272 e 282-ter cod. proc. pen., e vizio di motivazione per assenza delle esigenze cautelari. Si assume, infatti, che il ricorrente ha un ottimo rapporto con la figlia, alla quale si è limitato a dare uno "schiaffetto", e che difetta il pericolo di reiterazione del reato, atteso che è la moglie ad avere comportamenti altalenanti - tanto da avere ritirato l'esposto contro il ricorrente ed acconsentito a vedere la bambina in deroga agli accordi di separazione. Si evidenzia, ancora, che l'indagato sta frequentando un Centro per uomini maltrattanti e il Sert e che i servizi sociali si sono espressi a favore degli incontri tra padre e figlia, tanto che lo stesso Giudice per le indagini preliminari ha valorizzato la sua decisione di allontanarsi dall'abitazione familiare rigettando la richiesta cautelare. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, limitato alla sussistenza delle esigenze cautelari, è inammissibile perché generico. 2. Premesso che il controllo di questa Corte concerne il rispetto dei canoni della logica e dei principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze, l'ordinanza impugnata supera detto vaglio attraverso una ricostruzione, approfondita e immune da censure, delle ragioni del suo convincimento. La circostanza che Sp.Ma. abbia lasciato la casa familiare, anziché escludere il pericolo di reiterazione del delitto di maltrattamenti, è stata ritenuta correttamente un fattore di rischio "soprattutto in occasione delle visite del padre alla bambina" che il Tribunale civile, in sede di separazione consensuale, ha consentito in presenza purché sia presente la madre, ovverosia proprio la vittima a cui tutela è stata posta la misura cautelare. Il provvedimento impugnato ha fondato l'attualità del pericolo sul fatto che nonostante l'indagato, tossicodipendente, con precedenti e carichi pendenti per il medesimo delitto ai danni della stessa donna, estorsione e lesioni, fosse stato riaccolto dalla moglie dopo la denuncia per maltrattamenti del 2020, fidandosi dell'avvenuto percorso presso una comunità e delle sue promesse, al contrario, aveva ripreso le violenze anche nei confronti della bambina che veniva spesso picchiata, come comprovato dall'episodio videoregistrato che la mostrava scaraventata a terra da un forte schiaffo del padre. 3. Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Lecce nel ritenere che la separazione coniugale abbia aggravato le esigenze cautelari non solo rispetto alla donna, ma anche alla figlia della coppia, in costanza del diritto di visita del ricorrente, trovano conforto nei principi stabiliti da questa Corte, secondo una lettura convenzionalmente orientata delle norme in materia di violenza domestica anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU. 3.1. È stato evidenziato, nel caso di specie, che la violenza domestica è continuata e si è aggravata proprio dopo la separazione coniugale che, stante la natura discriminatoria del reato, rappresenta un atto di affermazione dell'autonomia e della libertà della donna, negate nella relazione di coppia dall'uomo maltrattante (Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, T., Rv. 285542; Sez. 6, n. 23322 del 06/04/2023, C., non mass.). Si tratta di un dato, di comune esperienza, fatto proprio dalle Convenzioni internazionali (in questi termini v. il par. 42 della Relazione esplicativa della Convenzione di Istanbul, Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011, ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77), ulteriormente avvalorato anche dalle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte EDU nei confronti dell'Italia lì dove hanno rilevato che la separazione tra coniugi, intesa come scelta della donna di liberarsi dalle violenze subite, avesse aggravato quelle già presenti nella relazione maltrattante (Talpis contro Italia, 2 marzo 2017; Landi c. Italia, 7 aprile 2022; De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022; M.S. c. Italia, 7 luglio 2022; I.M. e altri c. Italia, 10 novembre 2022). Ciò vale soprattutto se si condivide un rapporto genitoriale, poiché, in situazioni di pregressa violenza domestica, sono proprio i figli a costituire per l'agente l'occasione o lo strumento per proseguire i maltrattamenti ai danni della persona offesa (Sez. 6, n. 9187 del 15/09/2022, dep. 2023, C., non mass.). 3.2. In ordine alle violenze che sarebbero state esercitate da Sp.Ma. sulla figlia minorenne - sia direttamente che per avere assistito a quelle nei confronti della madre - e sul concreto pericolo che il suo diritto di visita costituisca un'occasione per reiterarle, il ricorso si limita a generiche rappresentazioni dell'affetto paterno e della frequentazione sia di un Centro per uomini autori di violenze che del Sert - di cui non è stata fornita documentazione dell'esito -, anche con richiamo ad una relazione dei servizi sociali, successiva ai fatti, che si sarebbero espressi favorevolmente "alla continuità degli incontri con il padre". Il Tribunale, nel ritenere "l'assoluta necessità di vietare qualsiasi forma di avvicinamento, allo stato legittimato dal diritto di visita disposto in sede di separazione consensuale" (pur senza braccialetto elettronico e con una distanza di soli 200 metri) ha operato un doveroso bilanciamento tra il diritto di visita del padre, stabilito in sede civile, e le esigenze di tutela della minorenne, che ne è stata vittima - sia diretta che come testimone di quelle praticate ai danni della madre (art. 572, ultimo comma, cod. pen.) -, ritenendo queste ultime prevalenti. 3.3. La conclusione cui è pervenuto il Tribunale del riesame, oltre a garantire che la persona offesa non venga posta in pericolo proprio dalla stessa Autorità giudiziaria, atteso che il Tribunale civile ha disposto che il diritto di visita del ricorrente avvenga obbligatoriamente alla presenza della moglie che ha dichiarato di essere vittima delle sue violenze, trova conforto, ancora una volta, nel principio, immanente all'ordinamento interno (artt. 2 e 30 Cost.) ed internazionale, del best interest of the child. Questo non solo è sancito dalla CEDU (artt. 3 e 8), ma soprattutto dalla Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall'Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176), il cui art. 3, paragrafo 1, stabilisce che "In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente", e dalla richiamata Convenzione di Istanbul (artt. 26 e 48), soprattutto con riguardo all'art. 31, secondo cui, nei provvedimenti afferenti ai minori, devono essere prese in considerazione le eventuali pregresse azioni violente ad opera del genitore maltrattante (non solo nei casi di violenza diretta sui minori o da essi assistita, ma anche nei casi in cui la condotta violenta sia perpetrata esclusivamente in danno dell'altro genitore) e all'art. 51, che dispone che tutte le autorità - tra cui rientrano ovviamente i giudici civili in sede di separazione e divorzio - operino una corretta valutazione del rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, per garantire sicurezza alle vittime di violenza domestica. Il diritto del minorenne a non subire pregiudizi, fatto proprio dall'ordinamento interno, penale e civile, è stato ulteriormente ribadito e rafforzato, proprio in fase di separazioni e divorzi, dalla c.d. riforma Cartabia (il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ha infatti previsto una Sezione del codice di procedura civile interamente dedicata alla "violenza domestica o di genere" ex artt. 473-bis, 40-46 cod. proc. civ.) sul presupposto che la sua tutela deve considerarsi sempre preminente rispetto ad interessi diversi od opposti, quali quelli del genitore che ha esercitato violenza (v., in tal senso, Corte EDU, I.M. e altri c. Italia, 10 novembre 2022, par. 111, ove si afferma che "Per quanto riguarda i minori, che sono particolarmente vulnerabili, le disposizioni stabilite dallo Stato per proteggerli da atti di violenza che rientrano nell'ambito di applicazione degli articoli 3 e 8 devono essere efficaci ed includere misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza, nonché un efficace prevenzione per proteggere i minori da tali gravi forme di lesioni personali"). 5. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 12 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Consigliere-Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: La.Fa., nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 12 giugno 2023 della Corte d'appello di Lecce; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Cocomello Assunta, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile; letta la memoria dell'Avv. De.Vi., difensore di La.Fa., di replica alle conclusioni del Pubblico Ministero; udita la relazione svolta dal Consigliere Nicastro Giuseppe. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza n. 12535 del 12 dicembre 2019, dep. 2020, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione annullava con rinvio la sentenza del 12 luglio 2019 della Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto - che aveva confermato la sentenza del 9 aprile 2018 del Tribunale di Taranto con la quale La.Fa. era stato condannato per i reati di peculato e di truffa aggravata limitatamente all'aumento di pena che era stato irrogato dalla stessa Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, per la continuazione "esterna" con il reato di appropriazione indebita già accertato in un altro procedimento definito con il decreto penale di condanna del 30 settembre 2015, divenuto irrevocabile l'11 febbraio 2016. Dopo avere rilevato che, per il suddetto reato di appropriazione indebita, con tale decreto penale di condanna era stata irrogata al La.Fa. la pena di 45 giorni di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria, la Sesta sezione penale ha ritenuto che la Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con l'irrogare, per la continuazione "esternali con lo stesso reato, un aumento di pena di 4 mesi di reclusione, aveva violato il divieto di reformatio in peius. Con sentenza del 12 giugno 2023, la Corte d'appello di Lecce, giudicando in sede di rinvio, irrogava, per la continuazione con il menzionato reato di appropriazione indebita - per il quale precisava che, con il decreto penale di condanna del 30 settembre 2015, era stata irrogata la pena di un mese e 15 giorni di reclusione, sostituita con quella della multa di Euro 11.250,00, ed Euro 500,00 di multa - "in considerazione della non eccessiva gravità dei fatti", l'aumento di pena di 20 giorni di reclusione). 2. Avverso tale sentenza del 12 giugno 2023 della Corte d'appello di Lecce, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, La.Fa., affidato a due motivi. 2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione dell'art. 81, secondo comma, cod. pen., anche alla luce dei principi affermati dalla sentenza Giglia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 40983 del 21/06/2018, Giglia, Rv. 273751-01), per non avere la Corte d'appello di Lecce sostituito la pena di 20 giorni di reclusione irrogata per la continuazione "esternali con il reato di appropriazione indebita con la pena pecuniaria, mediante ragguaglio ai sensi dell'art. 135 cod. pen. Nel rammentare che, con il decreto penale di condanna del 30 settembre 2015, la pena detentiva di un mese e 15 giorni di reclusione era stata sostituita dal G.i.p. del Tribunale di Taranto con la pena pecuniaria di (11.250,00, il ricorrente deduce che, in analogia con i suddetti principi affermati dalla sentenza Giglia delle Sezioni unite della Corte di cassazione e in ossequio ai principi del divieto di reformatio in peius e del favor rei, la Corte d'appello di Lecce avrebbe dovuto sostituire l'irrogata pena detentiva di 20 giorni di reclusione con la pena pecuniaria, mediante ragguaglio ai sensi dell'art. 135 cod. pen., atteso che la pena pecuniaria originariamente irrogata dal G.i.p. è meno afflittiva di quella detentiva, con la conseguenza che, non operando l'invocata sostituzione, si sarebbe determinato "un peggioramento della complessiva decisione finale". Il ricorrente rappresenta di avere richiesto tale sostituzione in sede di conclusioni nel giudizio di appello e lamenta che la Corte d'appello di Lecce avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine a tale richiesta. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., "nonché ai sensi dell'art. 111 Cost.", la violazione degli artt. 28, 29, 37 e 317-bis cod. pen., per avere i giudici di merito applicato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni "fuori dai limiti previsti dalla legge, pertanto sanzione illegale", come aveva già lamentato nel proprio atto di appello e a pag. 7 del primo ricorso per cassazione. Nell'affermare che l'illegalità della pena accessoria, erroneamente applicata, è ritenuta rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile, il ricorrente premette che, ai fini dell'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, nel caso di più reati unificati dal vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base determinata in concreto per il reato più grave, e non alla misura della pena complessiva che risulta dall'aumento per la continuazione, con la conseguenza che, nel caso di specie, occorreva fare riferimento alla pena base di 2 anni e 8 mesi di reclusione che era stata determinata per il più grave reato di peculato. Da ciò conseguirebbe che, diversamente da quanto era stato ritenuto dal Tribunale di Taranto, l'interdizione temporanea dai pubblici uffici non poteva essere irrogata ai sensi dell'art. 29 cod. pen., atteso che tale disposizione prevede la suddetta pena accessoria in caso di condanna alla reclusione "per un tempo non inferiore a tre anni". Il ricorrente rappresenta poi che, piuttosto, si sarebbe potuto fare applicazione della disposizione speciale dell'art. 317-bis cod. pen., il quale, peraltro, tenuto conto del tempus commissi delicti (quanto al peculato, fino al 21 settembre 2014), avrebbe dovuto essere applicato non nel testo attualmente vigente, come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. m), della L. 9 gennaio 2019, n. 3, ma nella più favorevole formulazione, vigente al momento del fatto, risultante dalle modificazioni apportate al testo originario dall'art. 1, comma 75, lett. e), della L. 6 novembre 2012, n. 190; formulazione secondo cui: "(I)a condanna per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319-ter comporta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l'interdizione temporanea". Posta, perciò, la necessità di applicare la disposizione appena riportata, il ricorrente deduce che, poiché tale disposizione non determina la durata dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, a norma dell'art. 37 cod. pen., la stessa interdizione avrebbe dovuto avere "una durata eguale a quella della pena detentiva inflitta" e, quindi, una durata di 2 anni e 8 mesi e non di 5 anni come illegalmente stabilito dai giudici di merito. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo è fondato. Si deve premettere che la pena detentiva, una volta sostituita con la pena pecuniaria, si "tramuta" definitivamente in quest'ultima. Depone infatti chiaramente in tale senso il disposto del secondo comma dell'art. 57 della L. 24 novembre 1981, n. 689 - comma che è rimasto immutato anche a seguito della sostituzione di tale articolo a opera dell'art. 71, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - a norma del quale "La pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva". Pertanto, nel caso di applicazione di una pena pecuniaria sostitutiva, come è avvenuto nel caso di specie, è questa la sanzione che occorre prendere a riferimento anche ai fini dell'applicazione dell'istituto della continuazione tra reati. Ciò posto, come è già stato affermato dalla Corte di cassazione con riguardo a una fattispecie analoga a quella in esame (Sez. 3, n. 33420 del 1 giugno 2023, Tosi, Rv. 284998-01, relativa anch'essa a un caso in cui, per il meno grave reato poi ritenuto come "satellite", era stato emesso decreto penale di condanna irrevocabile a una pena detentiva commutata in pena pecuniaria, oltre che a una pena già originariamente pecuniaria), nel caso in cui, come nella specie, la pena inflitta per il reato poi ritenuto come "satellite" sia già stata irrevocabilmente convertita in pena pecuniaria sostitutiva, l'aumento sanzionatorio per tale reato non può essere operato in termini di pena detentiva ma deve necessariamente essere determinato in pena pecuniaria, anche quando il reato più grave sia punito con la pena detentiva. Ciò alla luce del principio, che è stato enunciato dalla già citata sentenza Giglia delle Sezioni unite della Corte di cassazione, secondo cui, in tema di concorso di reati puniti con sanzioni eterogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l'aumento di pena per il reato "satellite" va effettuato secondo il criterio della pena unica progressiva per "moltiplicazione", rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena prevista per il reato "satellite", nel senso che l'aumento della pena detentiva del reato più grave dovrà essere ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell'art. 135 cod. pen. Per raggiungere l'obiettivo del necessario rispetto del genere pecuniario della pena del reato "satellite" (l'appropriazione indebita), in quanto già irrevocabilmente convertita in pena, appunto, pecuniaria, occorre perciò, sempre alla luce del principio enunciato dalla sentenza Giglia, che l'aumento di pena che è stato effettuato dalla Corte d'appello di Lecce sub specie di pena detentiva sulla pena detentiva del reato base (il peculato), cioè l'aumento di 20 giorni di reclusione, sia ragguagliato a pena pecuniaria, a norma dell'art. 135 cod. pen. A tale operazione si può senz'altro provvedere in questa sede, ex art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., con il conseguente annullamento senza rinvio, in parte qua, della sentenza impugnata, dovendosi rideterminare la pena principale complessiva in 3 anni e 2 mesi di reclusione ed Euro 5.000,00 di multa, così calcolata: pena base per il più grave reato di peculato 4 anni di reclusione; ridotta per le concesse circostanze attenuanti generiche a 2 anni e 8 mesi di reclusione; aumentata, per la continuazione con il reato di truffa, di 6 mesi di reclusione e, quindi, a 3 anni e 2 mesi di reclusione; aumentata, per la continuazione "esterna" con il reato di appropriazione indebita, di 20 giorni di reclusione, con ragguaglio di quest'ultimo aumento alla pena di Euro 5.000,00 di multa, ottenuta calcolando, per ciascuno dei 20 giorni di pena detentiva, Euro 250,00 di pena pecuniaria. 2. Il secondo motivo è fondato. È opportuno rammentare che, come è stato esattamente rilevato dal ricorrente, l'illegalità della pena accessoria, erroneamente applicata, è rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, Elgendy Ashraf, Rv. 276320-01, concernente una fattispecie relativa a interdizione temporanea dai pubblici uffici applicata sulla base della pena individuata dopo avere praticato gli aumenti per la continuazione, anziché sulla base della pena principale indicata per il reato più grave, inferiore nel caso di specie al limite di tre anni di reclusione; Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, c., Rv. 272090-01, concernente una fattispecie in cui la Corte di cassazione, rigettando il ricorso, ha eliminato la pena accessoria di cui all'art. 609-nonies, secondo comma, cod. pen., illegalmente applicata poiché il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori. In tema di pena principale: Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, Rv. 283689-01; Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108-01). Nel caso in esame, peraltro, il ricorso non è inammissibile, atteso l'accoglimento del suo primo motivo. Ciò posto, la Corte di cassazione ha costantemente chiarito che, nel caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, ai fini dell'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita in concreto per il reato più grave, come risultante a seguito dell'incidenza delle circostanze attenuanti e del bilanciamento eventualmente operato, nonché a seguito dell'eventuale diminuzione per la scelta del rito, e non a quella complessiva risultante dall'aumento per la continuazione (Sez. 5, n. 28584 del 14/03/2017, Di Corrado, Rv. 270240-01; Sez. 7, n. 48787 del 29/10/2014, Di Tana, Rv. 264478-01; Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, Rv. 254551-01; Sez. 1, n. 12894 del 06/03/2009, De Vittorio, Rv. 243045-01; Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008, Pizza, Rv. 240067-01). Peraltro, secondo un orientamento della stessa Corte di cassazione, il principio secondo cui, nel caso di reati unificati dal vincolo della continuazione, la durata della pena accessoria secondo il criterio fissato dall'art. 37 cod. pen. va determinata con riferimento alla pena principale inflitta per la violazione più grave subisce un'eccezione nell'ipotesi di continuazione tra reati omogenei, nella quale l'identità dei reati unificati comporta necessariamente l'applicazione di una pena accessoria per ciascuno di essi, di modo che la durata complessiva va commisurata all'intera pena principale inflitta con la condanna, ivi compreso l'aumento per la continuazione (Sez. 6, n. 17564 del 06/04/2023, Fuschino, Rv. 284593-01, relativa a una fattispecie in tema di interdizione dai pubblici uffici; Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014, Carrara, Rv. 263045-01; Sez. 3, n. 29746 del 05/06/2014, B., Rv. 261512-01). Tale eccezione, tuttavia, non ricorre nel caso di specie, nel quale la continuazione non è, come si è visto, tra reati omogenei (ma tra quelli di peculato, truffa e appropriazione indebita). Da tanto discende che, nel caso in esame, la pena principale alla quale occorreva fare riferimento ai fini dell'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici era quella stabilita in concreto per il più grave reato di peculato, cioè la pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione (così diminuita, per le concesse circostanze attenuanti generiche, la pena base 4 anni di reclusione). Alla luce di ciò, non poteva trovare applicazione l'art. 29 cod. pen., giacché tale disposizione prevede la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici in caso di condanna alla reclusione "per un tempo non inferiore a tre anni". Si deve invece fare applicazione della speciale disposizione di cui all'art. 317-bis cod. pen., nel testo, più favorevole, che vigeva al momento del fatto -cioè nel testo, risultante dalle modificazioni apportate al testo originario dall'art. 1, comma 75, lett. e), della L. n. 190 del 2012, secondo cui: "La condanna per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319-ter comporta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l'interdizione temporanea" - nonché, stante la mancata determinazione espressa di tale pena accessoria temporanea, della disposizione residuale dell'art. 37 cod. pen., secondo cui, nel caso, appunto, di mancata determinazione espressa della durata di una pena accessoria temporanea, questa "ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta". Ne discende che i giudici di merito avrebbero dovuto disporre l'interdizione del La.Fa. dai pubblici uffici non per 5 anni, come hanno fatto, ma per 2 anni e 8 mesi, così perequati alla pena principale. A ciò si può senz'altro provvedere in questa sede, sempre ex art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., con il conseguente annullamento senza rinvio, anche in parte qua, della sentenza impugnata, dovendosi, quindi, rideterminare la durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici nella misura di 2 anni e 8 mesi. 3. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente: a) alla misura della pena principale, la quale deve essere rideterminata in 3 anni e 2 mesi di reclusione ed Euro 5.000,00 di multa; b) alla durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, la quale deve essere rideterminata in 2 anni e 8 mesi. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena che ridetermina in anni 3 mesi 2 di reclusione ed Euro 5.000,00 di multa e limitatamente alla durata della sanzione accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici che determina in anni 2 e mesi 8. Così deciso in Roma, il 14 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. SCARLINI Enrico Vittorio Stanislao - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI CATANIA nel procedimento a carico di: Lo.En. nato a S il (Omissis) avverso la sentenza del 22/11/2023 del TRIBUNALE di SIRACUSA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale PAOLA MASTROBERARDINO, che ha chiesto di annullare senza rinvio la sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa il 22 novembre 2023, il Tribunale di Siracusa ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Lo.En., in relazione al reato di cui agli artt. 624 e 625, n. 2, cod. pen., per mancanza della necessaria querela. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'imputato "al fine di trarne profitto per sé o per altri e in particolare al fine di garantirsi il gratuito approvvigionamento di corrente elettrica presso l'abitazione sita in F, Via (Omissis) con violenza consistita nella manomissione del misuratore di energia elettrica, si impossessava abusivamente dell'energia elettrica, in tal modo sottraendola al legittimo proprietario ...". Il Tribunale ha osservato che: per effetto di quanto disposto dal D.Lgs. n. 150 del 2022, la fattispecie originariamente contestata rientrava tra quelle divenute perseguibili a querela; alla scadenza del termine previsto dal regime transitorio dettato dall'art. 85 del D.Lgs. citato, non era stata presentata alcuna istanza di punizione da parte della persona offesa; non poteva attribuirsi alcuna valenza processuale alla contestazione suppletiva operata (all'udienza del 22 novembre 2023) dal pubblico ministero, avente a oggetto la circostanza aggravante prevista dall'art. 625, n.7, cod. pen., in quanto tardivamente operata, dopo che era già emersa l'insussistenza sopravvenuta della condizione di procedibilità. Pur condividendo, in astratto, la configurabilità della predetta circostanza aggravante in relazione al reato de quo, il Tribunale ha ritenuto che il decorso del termine relativo alla proposizione della querela imponesse l'immediata declaratoria dell'improcedibilità dell'azione penale. 2. Avverso la sentenza del Tribunale, il Procuratore generale presso la Corte di appello di Catania ha proposto ricorso per cassazione. 2.1. Con un unico motivo, deduce il vizio di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. Rappresenta che il pubblico ministero, prima della formale dichiarazione di apertura del dibattimento e subito dopo l'accertamento della regolare costituzione delle parti, aveva contestato la circostanza aggravante prevista dall'art. 625, n. 7, cod. pen., che rendeva il reato procedibile d'ufficio. Tanto premesso, contesta la decisione del Tribunale di ritenere priva di rilievo la contestazione suppletiva operata dal pubblico ministero, "in quanto contrastante con la ratio sottesa alle disposizioni di cui agli artt. 516 e ss. cod. proc. pen. e con i principi di diritto oramai pacifici, secondo cui il potere del pubblico ministero di procedere alla modifica dell'imputazione è cogente e immanente nel nostro sistema processuale". Andrebbe "riconosciuto al pubblico ministero il potere di procedere nel dibattimento alla modifica della contestazione, senza specifici limiti temporali". 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di annullare senza rinvio la sentenza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto. L'unico motivo di ricorso è fondato, atteso che il reato risulta procedibile d'ufficio, a seguito della tempestiva contestazione della circostanza aggravante di avere commesso il fatto su bene destinato a pubblico servizio. 2. Va premesso che, a seguito della modifica dell'art. 624, comma 3, cod. pen., intervenuta per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022 n.150, in vigore dal 30 dicembre 2022, il delitto di furto anche se aggravato o pluriaggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen. (prima procedibile di ufficio) è divenuto punibile a querela della persona offesa, tranne che nei seguenti casi: - se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'art. 625, numero 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede (il reato, quindi, è procedibile di ufficio anche quando il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza); - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'art. 625, numero 7-bis. In relazione ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore della suddetta modifica legislativa, l'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha stabilito che il termine per la presentazione della querela (pari a tre mesi ex art. 124, primo comma, cod. pen.) decorre dalla predetta data (30 dicembre 2022), se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. La novità normativa riguardante il regime di procedibilità, dunque, trova applicazione anche in ordine a fatti commessi prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore del D.Lgs. 150 cit. 3. Venendo al caso in esame, va rilevato che: il reato è stato commesso prima dell'entrata in vigore della riforma Cartabia; nel termine previsto dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022, la persona offesa non ha presentato querela; il pubblico ministero, alla prima udienza utile, subito dopo la costituzione delle parti e prima dell'apertura del dibattimento, ha contestato l'aggravante di avere commesso il fatto su bene destinato a pubblico servizio. 4. La circostanza aggravante in questione è sicuramente connotata da componenti di natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico -sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di "pubblico servizio" - che riposa su considerazioni in diritto che non sono rese palesi dal mero riferimento all'oggetto sottratto. Tuttavia, come già affermato da questa Corte, accanto alla contestazione formale della aggravante, può ritenersi consentita anche un tipo di contestazione non formale che però deve essere congeniata in maniera tale da rendere manifesto all'imputato che dovrà difendersi dall'accusa di avere sottratto un bene posto al servizio di un interesse dell'intera collettività e diretto a vantaggio della stessa (Sez. 5, n. 14891 del 14/03/2024, Buonario). Nel caso in esame, però, nell'originaria imputazione, ferma l'assenza di una contestazione formale, non era neppure rinvenibile alcuna locuzione o perifrasi che potesse indurre a ritenere contestata, seppur in maniera non formale, la circostanza aggravante in esame. Nell'imputazione, infatti, vi era il mero riferimento alla sottrazione di energia elettrica e mancava qualsiasi riferimento al fatto che, nel caso specifico, essa fosse destinata al servizio di un interesse della collettività e diretta a vantaggio della stessa. 5. La questione va, allora, analizzata sotto il profilo prospettato dal ricorrente, che sostiene che la decisione del Tribunale di ritenere priva di "valenza processuale" la contestazione suppletiva sarebbe "contrastante con la ratio sottesa alle disposizioni di cui agli artt. 516 e ss. cod. proc. peri, e con i principi di diritto oramai pacifici, secondo cui il potere del pubblico ministero di procedere alla modifica dell'imputazione è cogente e immanente nel nostro sistema processuale". Andrebbe, infatti, "riconosciuto al pubblico ministero il potere di procedere nel dibattimento alla modifica della contestazione, senza specifici limiti temporali". La questione, tuttavia, non va limitata ai soli artt. 516 e ss. cod. proc. pen., implicando il necessario coordinamento di tali norme con l'art. 129 cod. proc. pen., che impone al giudice di pronunciare immediatamente il proscioglimento dell'imputato quando manca una condizione di procedibilità, e con l'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022, che ha posto una disciplina transitoria in ordine alla presentazione della querela per i reati per i quali la riforma Cartabia ha modificato il regime di procedibilità. Va rilevato che, mentre il ricorrente ha dato rilievo esclusivamente al potere del pubblico ministero di procedere alla modifica dell'imputazione, a lui riconosciuto dagli artt. 516 e ss. cod. proc. pen., il Tribunale, invece, ha dato rilievo solo all'art. 129 cod. proc. pen., valutando la disciplina transitoria posta dal D.Lgs. n. 150 del 2022, esclusivamente nell'ottica della persona offesa. 5.1. Il collegio non condivide l'impostazione del Tribunale, ritenendo, nel solco già delineato da Sez. 5, n. 14891 del 14/03/2024, Buonario, che la questione debba essere risolta attraverso una lettura coordinata degli artt. 129 e 517 cod. proc. pen., che tenga conto anche delle particolarità - soprattutto in relazione all'esercizio dei poteri del pubblico ministero - che si sono venute a delineare a seguito della disciplina transitoria posta dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022. 5.2. L'analisi letterale e sistematica delle due norme del codice di rito appena richiamate restituisce la conformazione di un sistema che: sul versante dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. prevede, tra i poteri/doveri del giudice disciplinati in via generale, quello di rilevare la mancanza della condizione di procedibilità "in ogni stato e grado del processo"; sul versante dell'art. 517 cod. proc. pen., riconosce, nel dibattimento - come anche nella udienza preliminare ai sensi dell'art. 423 cod. proc. pen. e nella udienza predibattimentale disciplinata dal novello art. 554-bis cod. proc. pen. - il potere/dovere del pubblico ministero di contestare una circostanza aggravante non menzionata nell'originaria imputazione, senza necessità di autorizzazione del giudice. Lo scopo della contestazione suppletiva, oggi enunciato nel citato art. 554-bis cod. proc. pen., consiste nel permettere che il capo di imputazione contenga la descrizione non solo del fatto, ma anche delle circostanze in termini corrispondenti a quanto emerge dal fascicolo, così da far garantire, alla fine del giudizio, il rispetto del principio di corrispondenza fra "chiesto" e "pronunciato". Il nuovo art. 554-bis cod. proc. pen. - introdotto dalla Riforma Cartabia che ha recepito, estendendola, la regola fissata dalla sentenza delle Sezioni Unite Battistella (n. 5307 del 20/12/2007) - fornisce lo spunto per due ulteriori notazioni. Anzitutto il legislatore, ammettendo contestazioni suppletive in limine litis, ha assegnato forza normativa al principio dettato dalle Sezioni Unite Barbagallo (n. 4 del 28/10/1998), secondo cui la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 cod. proc. pen. possono essere effettuate anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. In secondo luogo, all'art. 544-bis cod. proc. pen., ha fatto seguire il nuovo art. 544-ter che declina, tra l'altro, la regola dell'immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, in tal modo disegnando due scansioni processuali in rapporto logico e cronologico tra loro: prima si "aggiusta" la contestazione, anche grazie all'intervento del giudice, in modo che l'accusa rappresenti fedelmente il fatto storico principale e le sue connotazioni circostanziali; poi si procede, eventualmente, all'immediata definizione del processo. Sul fronte dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., va osservato che la norma stabilisce un criterio di prevalenza di alcune formule proscioglitive (sostanziali o processuali) su qualsiasi attività ulteriore, anche volta ad approfondimenti istruttori in favore dell'imputato. 5.3. Va ricordato che la relazione sistematica fra l'art. 517 e l'art. 129 del codice di rito è stata analizzata dapprima da Sezioni Unite De Rosa (n. 12283 del 25/01/2005), e, successivamente, da Sezioni Unite Domingo (n. 49935 del 28/09/2023), che ha interpretato evolutivamente i precetti antecedentemente enunciati, valorizzando, tra gli altri, quelli della sentenza delle Sezioni Unite Perroni (n. 539 del 30/01/2020). La prima sentenza - nell'affermare che non è consentito arrivare a una pronuncia ex art. 129 cod. proc. pen. attraverso il rito de plano - ha chiarito che l'art. 129 non attribuisce al giudice un potere ulteriore e autonomo al di fuori di quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l'epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo (artt. 425, 469, 529, 530 e 531 stesso codice): epilogo che dunque deve avvenire con le precisate cadenze e modalità procedimentali e non in modo disancorato da queste. Ha, inoltre, posto in rilievo che un'eventuale pronuncia estemporanea e anticipata della causa di non punibilità inciderebbe negativamente sulla partecipazione al procedimento del pubblico ministero, al quale verrebbe precluso l'esercizio delle facoltà tese a meglio definire e suffragare l'accusa, e determinerebbe una violazione del diritto di difesa dell'imputato, al quale verrebbe interdetto l'esercizio di facoltà esperibili solo nell'ambito della fase o grado in essere. Il portato essenziale dell'art. 129 cod. proc. pen. è stato individuato nell'inibizione al giudice, susseguente alla rilevazione della causa di non punibilità, dei poteri istruttori relativi al thema decidendum, con l'effetto che l'ambito della sua cognizione deve rimanere cristallizzato allo stato degli atti - e ciò, in nome della semplificazione del processo e del favor rei -, ma non anche nell'inibizione dell'attività processuale, diversa da quella istruttoria, che deriva dal diritto delle parti all'ascolto nel contraddittorio, avendo esse la potestà di dare "sfogo" alle pretese proprie della fase processuale in essere. Tra queste, viene espressamente richiamata quella relativa all'esclusiva potestà del pubblico ministero di modificare l'imputazione. La pronuncia delle Sezioni Unite Domingo, riguardante un caso di contestazione suppletiva a fronte della maturata causa di estinzione (per prescrizione) del reato, ha accolto, espressamente, la suddetta sistematica ma l'ha anche "rivista" in un punto essenziale: ha costruito il rapporto fra la contestazione suppletiva e causa di estinzione precedentemente perfezionatasi in termini di prevalenza della seconda che, per effetto della sentenza, acquisisce forza giuridica "ora per allora" con riferimento non al momento della sua dichiarazione formale ma a quello della sua maturazione. Ne consegue che l'attività processuale eventualmente svolta dopo tale momento non produce effetti, rimanendo neutralizzata dall'espandersi degli effetti della causa estintiva. La ratio di tale reimpostazione della questione complessiva appare riconducibile all'apprezzamento, del tutto condivisibile, dei principi costituzionali sottesi alla prevalenza massima accordata alla causa di estinzione del reato per prescrizione (avente natura esclusivamente sostanziale, direttamente dipendente dal decorso di un tempo così lungo da far venire meno l'interesse punitivo dello Stato) e all'accentuazione del suo dover essere dichiarata con "immediatezza". 6. Con particolare riferimento all'improcedibilità per difetto di querela, il collegio, nel caso in esame, connotato da normativa processuale specifica e sopravvenuta, ritiene di percorrere una strada diversa, per gli effetti distorsivi che deriverebbero dal riconoscimento della prevalenza massima accordata al venire meno della condizione di procedibilità. 6.1. I temi in questione sono: quello dell'incidenza della peculiare regolamentazione derivante dalla c.d. riforma Cartabia, che ha coinvolto, nel mutamento delle regole sulla nuova procedibilità a querela, con apposito regime transitorio, anche reati sub iudice originariamente contestati secondo il rito della procedibilità di ufficio; quello, correlato, delle ricadute del principio di diritto enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite Domingo, ove applicato in modo automatico al caso processuale in esame; quello della possibilità o meno di una valutazione scissa delle plurime ipotesi di non punibilità all'interno dell'art. 129 cod. proc. pen. Per tale ragione, la presente decisione, pur non ponendosi in linea col precedente rappresentato da Sez. 5, n. 3741 del 2024, Mascali, Rv. 285878, non appare ancora tale da radicare un contrasto interpretativo vero e proprio, dal momento che si propone di rappresentare anche profili di analisi ulteriori e correlati alla peculiarità del regime transitorio della riforma Cartabia in tema di nuova procedibilità a querela. 6.2. L'analisi della prima questione fa emergere la peculiarità della situazione venutasi a creare, in tema di furto aggravato, con la riforma Cartabia. Il reato è passato dalla procedibilità di ufficio alla procedibilità a querela, salva l'ipotesi - per quanto qui di interesse - dell'art. 625, n. 7, cod. pen. (con ulteriore eccezione riferita all'aggravante della esposizione alla pubblica fede). In relazione ai numerosi reati di tal genere, contestati con aggravanti ex art. 625 diverse da quella indicata e portati a giudizio (nel caso di specie con un atto di citazione risalente addirittura al 26 ottobre 2021) secondo le regole della procedibilità di ufficio poi superata, la normativa in questione ha riconosciuto alla persona offesa il potere di riportare il reato sui "binari" della procedibilità, presentando querela entro il 30 marzo 2023 (tre mesi dall'entrata in vigore della riforma). Va sottolineato che nessun accorgimento occorreva accordare all'organo di accusa, al quale il sistema processuale già apprestava uno speculare e ordinario mezzo per il ripristino della procedibilità d'ufficio, attraverso lo strumento della contestazione suppletiva della circostanza aggravante utile (art. 517 cod. proc. pen.). Tale strumento, però, non è risultato concretamente utilizzabile nei processi in cui, nel periodo di tempo fissato dall'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022 (cioè dall'entrata in vigore della riforma al 30 marzo 2023), non è stata celebrata alcuna udienza. Ebbene, un'interpretazione che neghi gli effetti di tale legittimo atto propulsivo del pubblico ministero, in ragione dell'operatività della causa di improcedibilità "ora per allora", nei casi in cui il pubblico ministero - a causa della scansione che lo specifico processo ha avuto nel tempo - non ha avuto alcuna possibilità di assumere l'iniziativa necessaria per adeguare il processo alle nuove regole, si pone in contrasto, ad opinione di questo collegio, con l'art. 517 cod. proc. pen. e con i valori tutelati dagli artt. 3 e 112 Cost. Al riguardo, va evidenziato che l'esercizio del potere di contestazione suppletiva dell'aggravante, come riconosciuto dall'art. 517 cod. proc. pen., non prevede decadenze o limitazioni, neppure nel caso in cui l'elemento di fatto aggravatore sia emerso già prima dell'esercizio della azione penale. Tale potere deve trovare uno spazio per il suo esercizio anche nei processi i cui, per effetto della novella e del suo regime transitorio, disegnato per l'iniziativa anche fuori udienza della persona offesa, l'eventuale inattività processuale nel periodo 30 dicembre 2022 - 30 marzo 2023 abbia impedito di fatto al pubblico ministero di reagire in tempo e di prevenire il rischio della declaratoria di improcedibilità del reato. Tale spazio deve essere individuato nella prima udienza utile fissata dopo il 30 marzo 2023, primo segmento processuale in cui il pubblico ministero può, nel contraddittorio tra le parti, esercitare il potere di contestazione suppletiva. Il riconoscimento della prevalenza massima al venire meno della condizione di procedibilità, anche nei casi in cui il concreto esercizio del potere di contestazione suppletiva sia dovuto esclusivamente all'inattività processuale durante il periodo indicato all'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022, infatti, porterebbe a un eccessivo e ingiustificato sacrificio dei poteri del pubblico ministero e al principio di obbligatorietà dell'azione penale. Una lettura coordinata degli artt. 517 cod. proc. pen. e 85 D.Lgs. n. 150 del 2022, che tenga conto del potere di contestazione suppletiva, come riconosciuto dal codice di rito, senza decadenze o limitazioni, induce a ritenere consentito l'esercizio di tale potere, nella prima udienza utile fissata dopo il 30 marzo 2023. In tal modo si perviene a un'adeguata valorizzazione del principio costituzionale dell'obbligatorietà della azione penale, come tracciato dalla giurisprudenza maggioritaria, al di fuori dell'ipotesi analizzata dalla sentenza delle Sezioni Unite Domingo, che non ha inteso prendere le distanze dalla sentenza delle Sezioni Unite De Rosa nel suo impianto generale. 6.3. Resta infine da esaminare la compatibilità dell'opzione interpretativa qui sostenuta con la struttura dell'art. 129 cod. proc. pen.: se, cioè, le diverse situazioni processuali evocate nell'articolo citato esigano un trattamento unitario oppure siano assoggettabili anche a valutazioni talvolta non omogenee. Tale seconda opzione appare consentita, soprattutto quando è funzionale a una lettura compatibile costituzionalmente con il fenomeno processuale in rilievo. Al riguardo, va rilevato che una prima deroga al trattamento unitario delle diverse situazioni processuali evocate nell'art. 129 cod. proc. pen. si può cogliere nel secondo comma dello stesso articolo, dove la declaratoria di non doversi procedere per mancanza di condizione di procedibilità non è menzionata assieme alle cause di estinzione del reato che sono assoggettate alla regola della prevalenza del proscioglimento nel merito. Va, poi, menzionata la giurisprudenza a Sezioni Unite (Sez. U, n. 24246 del 2004, Rv 227681, Chiasserini) che, in tema di rapporto tra giudicato sostanziale (da ricorso inammissibile) e causa estinzione del reato per remissione di querela, ha già dato prova di effettuare una distinzione rispetto alle altre cause di estinzione del reato elencate nell'art. 129 cod. proc. pen., in ragione della peculiare struttura processuale degli effetti della remissione, ritenendola, a differenza delle altre cause estintive, capace di prevalere sull'inammissibilità del ricorso. Più in generale, va rilevato che la regola di cui all'art. 129 cod. proc. pen. non può non declinarsi in relazione ai caratteri specifici e alla correlativa modalità operativa delle cause di non punibilità di cui si occupa. Sotto tale profilo, è fin troppo evidente che l'estinzione del reato per prescrizione costituisce una vicenda irreversibile: il reato, in un determinato momento, si estingue definitivamente per effetto del decorso del termine previsto dalla legge. La condizione di procedibilità, invece, subisce vicende alterne: quando il procedimento viene iniziato, potrebbe anche mancare; può essere poi presentata querela a discrezione della persona offesa; infine, la querela può essere rimessa. Risulta evidente che, nel caso della condizione di procedibilità, non è consentito far riferimento a un momento determinato in cui essa manca: questa all'inizio potrebbe mancare, ma non per questo si arriva a una sentenza di proscioglimento, "ora per allora". Nel caso dell'estinzione per prescrizione, invece, vi è un momento determinato in cui il reato si estingue e un'eventuale prosecuzione del processo potrebbe derivare esclusivamente dall'omessa pronuncia della doverosa sentenza liberatoria da parte del giudice. L'omissione di quest'ultimo, che, alla scadenza del termine di prescrizione, avrebbe dovuto pronunciare il proscioglimento dell'imputato, tuttavia, non può creare un pregiudizio a quest'ultimo, mediante il meccanismo della contestazione suppletiva che faccia rivivere il reato estinto. Come evidenziato da Sezioni Unite Domingo "diversamente opinando, si rimetterebbe illogicamente alla diligenza del giudice di primo grado la sorte del processo, in presenza di identiche situazioni: un imputato beneficerebbe o meno della sentenza favorevole in base al tempestivo rilievo (o meno) della causa di estinzione del reato da parte del giudice stesso ...". La situazione che si è determinata a seguito della scadenza del termine fissato dall'art. 85, nei processi in cui non era stata fissata udienza tra l'entrata in vigore della riforma e il 30 marzo 2023 è ben diversa: non vi è stata alcuna omissione da parte del giudice e tantomeno del pubblico ministero, che si è trovato nell'impossibilità di esercitare il suo potere di contestazione suppletiva. Seguendo l'interpretazione qui sostenuta, la sorte del processo non finisce per dipendere dalla diligenza del giudice o del pubblico ministero e l'imputato non riceve alcun pregiudizio per condotte omissive del giudice o della parte pubblica, ma si deve solo confrontare con un regime transitorio della nuova disciplina della procedibilità, come determinato dalla lettura coordinata degli art. 85 e 517 cod. proc. pen. Non aderendo all'interpretazione di questo collegio, invece, si rimetterebbe, illogicamente, la sorte dei processi al calendario delle udienze e, in presenza di identiche situazioni, un imputato beneficerebbe o meno della sentenza favorevole in base al fatto che il giudice di quel processo abbia o meno fissato udienza nel periodo tra l'entrata in vigore della riforma Cartabia e il 30 marzo 2023. Questo collegio, in definitiva, ritiene che: il pubblico ministero può validamente effettuare la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante che renda il reato procedibile di ufficio, avendone il potere e l'occasione (la prima udienza dopo il 30 marzo 2023); con la contestazione suppletiva, il thema decidendi si estende alla circostanza aggravante e viene eliminato l'ostacolo processuale al prosieguo dell'azione penale; il giudice non ha ragione di emettere una sentenza di proscioglimento, poiché non si è realizzato alcun effetto preclusivo definitivo che imponga una pronuncia "ora per allora", dato che, nel caso di mancanza della condizione di procedibilità, a differenza dell'ipotesi di estinzione del reato, non si è in presenza di un reato venuto meno nella dimensione sostanziale, che non può rivivere. Il complesso del rapporto cosi ricostruito fra contestazione suppletiva e mancanza della condizione di procedibilità porta a concludere nel senso che deve essere riconosciuta piena efficacia giuridica e operativa alla contestazione suppletiva effettuata in udienza dal pubblico ministero, quantomeno in relazione alle coordinate temporali sopra evidenziate e alla novità rappresentata dalla riforma Cartabia sul tema. 7. Nel caso in esame, il pubblico ministero, alla prima udienza utile, subito dopo la costituzione delle parti e prima dell'apertura del dibattimento, ha contestato l'aggravante di avere commesso il fatto su bene destinato a pubblico servizio. Per le ragioni esposte, la contestazione suppletiva ha reso il reato procedibile di ufficio e, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio, ai sensi dell'art. 569, comma 4, cod. proc. pen., alla Corte di appello di Catania per il relativo giudizio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio alla Corte di appello di Catania. Così deciso in Roma, l'11 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Relatrice Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Bu.Ba., nato il (Omissis) in A avverso l'ordinanza del 28/11/2023 del Tribunale di Catanzaro; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Se.Vi., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza sopra indicata il Tribunale di Catanzaro, adito da Bu.Ba., indagato per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie, aggravati dalla presenza del figlio minorenne, commessi dal 2017 con condotta in atto, ha rigettato il riesame avverso la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa di almeno 500 metri, applicata dal Giudice per le indagini preliminari di Pa. il 6 novembre 2023. 2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso Bu.Ba.. con atto sottoscritto dal suo difensore, articolando due motivi. 2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all'art. 572, comma 2, cod. pen., per mancanza di prova che le condotte contestate fossero state commesse alla presenza del figlio minorenne, stante la mancata indicazione di quest'ultimo in ciascuno degli episodi descritti nella prima querela proposta dalla moglie, in data 22 luglio 2023, come ulteriormente comprovato: a) dalle dichiarazioni rese sia dalla persona offesa che dalla sorella; b) dai 7 files audio delle conversazioni intercorse tra i coniugi in cui non si sente mai la voce del bambino; c) dai messaggi whatsapp e dalle telefonate depositate nella seconda denuncia del 20 ottobre 2023; d) dalle testimonianze e dagli accertamenti delle forze dell'ordine. 2.2. Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari alla luce della volontà del ricorrente di addivenire ad una separazione legale con la moglie, come attestato dalla missiva in data 8 novembre 2023; dalle reciproche rimessioni di querela dell'agosto 2023, dopo che era stata la persona offesa a chiedere al ricorrente di tornare a casa per vivere tutti insieme, come risulta dai messaggi; dall'attuale domicilio di Bu.Ba. a C, distante 40 km. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e genericità. 2. Il Tribunale del riesame ha fondato la gravità indiziaria del delitto di maltrattamenti, aggravati dalla presenza del figlio minorenne, ricostruendo in modo dettagliato i maltrattamenti di Bu.Ba. ai danni della moglie, articolatisi nell'arco di anni (dal 2017, con condotta perdurante), in base alle plurime querele di questa, confermate dalle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, tutte univocamente convergenti nel dimostrare che l'uomo avesse imposto alla donna un rapporto sopraffattorio, alla presenza del figlio, con violenze fisiche e verbali, espresse con epiteti denigratori e sessisti, oltre che con il divieto alla moglie di lavorare, di uscire, anche con il bambino, sino al tentare di strangolarla quando vi si era opposta. L'ordinario registro relazionale del ricorrente era quello di non riconoscere alla donna alcuna autonomia e di "punirla" quando non soggiaceva ai suoi voleri, tanto da rendere priva di rilievo la richiesta difensiva di individuare singoli episodi, peraltro limitati a quelli di natura fisica, a cui il figlio della coppia avesse assistito atteso che, da sempre, questi era stato costretto a subire la violenza, soprattutto psicologica e verbale, del padre sulla madre. Il provvedimento impugnato ha fatto, dunque, corretta applicazione dell'art. 572 cod. pen. in ordine alla c.d. violenza assistita che, in attuazione delle fonti sovranazionali (artt. 22 e 46 della Convenzione di Istanbul; art. 22, comma 4, della Direttiva 2012/29/UE), punisce la sofferenza patita dal minorenne sotto due profili: direttamente, per il solo fatto di essere presente (art. 572, secondo ed ultimo comma, cod. pen.), e indirettamente, per la percepita afflizione cui è soggetta la propria madre (Sez. 6, n. 8323 del 9/02/2021, Rv. n. 281051). Infatti, la ratio della norma penale si correla all'esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti che, proprio per l'età in cui si trovano, risultano più vulnerati dai riflessi dell'azione aggressiva cui assistono, specie se di un genitore sull'altro (Sez. 3, n.21024 del 28/04/2022, Rv. n. 283204), con la chiara intenzione di rafforzarne anche il ruolo processuale. A fronte di questo contesto normativo, il ricorso tenta un'interpretazione che non colloca nel dovuto contesto la violenza domestica e la violenza assistita, riducendole alle sole aggressioni fisiche, nonostante dal provvedimento impugnato risulti che il ricorrente imponesse una ordinaria e quotidiana modalità discriminatoria nei confronti della moglie, e dunque, vista dal punto di vista del bambino, del padre nei confronti della madre. Lo screditamento, le umiliazioni e la limitazione della libertà della donna, che costituiscono forme di vera e propria violenza psicologica perpetrate davanti al figlio minorenne, non sono state in alcun modo prese in esame dalle censure, limitatesi a singoli episodi più eclatanti, nonostante costituisca ormai un dato acquisito, anche grazie agli esiti degli studi scientifici sul tema, che vivere con un padre che consumi dinamiche di maltrattamento, anche soltanto morale, ai danni della madre produce effetti negativi e devastanti sia sullo sviluppo psichico del minorenne sia sul suo processo di sana ed equilibrata crescita (Sez. 5, n. 74 del 20/11/2020, Rv. 280141; Sez. 6, n. 16583 del 28/03/2019, Rv. 275725) perché, da un lato, lo porta ad interiorizzare e normalizzare modelli diseducativi paterni e, dall'altro, a svalutare la figura materna. 3. In ordine alle esigenze cautelari, al di là dell'improprio richiamo del provvedimento alle "pulsioni aggressive" e alla "gelosia" di Bu.Ba.. anziché al fondamento discriminatorio che muove la violenza domestica, indicato dal Preambolo della Convenzione di Istanbul, non assumono rilievo né la separazione, né le condotte della persona offesa (rimessioni di querela e richiesta di riappacificazioni). 3.1. Di immediata evidenza il salto logico-giuridico dell'assunto difensivo che censura il provvedimento perché fonda correttamente la valutazione di adeguatezza della misura cautelare sul comportamento dell'indagato, sulla sua personalità, sulla gravità del fatto e sul rischio di reiterazione (Sez. 3, n. 209 del 17/09/2020, Rv. 281047), come richiesto dall'art. 274 cod. proc. pen., anziché sulle condotte di chi, da questa misura, deve essere protetta e che, nella specie, si trova oggettivamente e soggettivamente in condizione di particolare vulnerabilità proprio a causa sia della separazione in atto, osteggiata con minacce di morte del ricorrente - come risulta dal capo di incolpazione -; sia della presenza di un figlio piccolo e delle remissioni di querela. Infatti, il ricorso non considera che la finalità della misura cautelare è quella di evitare il concreto e attuale pericolo della reiterazione del delitto e nell'accertare che esso esista, l'Autorità giudiziaria non si affida alle condotte della vittima (Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, Rv. 285542), spesso soggetta a pressioni, ma è obbligata a operare una corretta valutazione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di ripetizione dei comportamenti violenti, come sancito dall'art. 51 della Convenzione (Gestione dei rischi), esaminando esclusivamente i comportamenti dell'autore affinché non prosegua gli illeciti (Corte EDU sentenza Talpis contro Italia del 2 marzo 2017; I.M. e altri contro Italia del 10 novembre 2022; Landi contro Italia del 7 aprile 2022; M.S. contro Italia del 7 luglio 2022; De Giorgi contro Italia del 16 luglio 2022). 3.2. Peraltro, costituisce un elemento di particolare rilievo ai fini cautelari, risultante nel caso di specie, fatto proprio dalle Convenzioni internazionali, che la violenza domestica tra coniugi, fondata su motivi di genere e discriminatori, continui e si aggravi proprio con la scelta della donna di separarsi e non per motivi affettivi, ma perché costituisce un atto di affermazione di autonomia e libertà, negate nella relazione di coppia, soprattutto se si condivide un rapporto genitoriale. Infatti, in situazioni di pregressa violenza domestica, sono proprio i figli a costituire per l'agente l'occasione o lo strumento per proseguire i maltrattamenti ai danni della persona offesa (Sez. 6, n. 11723 del 22/02/2024, L., non mass; Sez. 6, n. 46797 del 18/10/2023, T., Rv. 285542). 3.3. Anche la circostanza che l'attuale domicilio di Bu.Ba. sia a distanza di 40 km dalla moglie, non basta a ridimensionare la pericolosità del ricorrente non solo perché la misura non ha il presidio del braccialetto elettronico, ma anche perché essa è stata disposta per un delitto che vede anche il figlio minorenne persona offesa e lo stesso Bu.Ba. si è mostrato del tutto indifferente alla precedente denuncia della persona offesa visto che ha continuato a reiterare gravissime violenze ai suoi danni (pag. 6 del provvedimento). 4. Alla stregua di tali argomenti il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 28 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GENTILI Andrea - Consigliere rel. Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott.ssa MAGRO Maria Beatrice - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto dal: Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze; oltre che, ai soli effetti civili, dalla parte civile: Ni.Sa., nata a S il (omissis), rappresentata e difesa dall'avv.ssa Si.CI., del foro di Firenze, presso il cui studio in Fiorenze, via (...), è elettivamente domiciliata; nei confronti di: Be.Ma., nato a V (omissis) il (omissis); nonché dallo stesso: Be.Ma., nato a V (omissis) il (omissis); avverso la sentenza n. 506 della Corte di appello di Firenze del 4 febbraio 2022; letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e i ricorsi introduttivi; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI; sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Paola FILIPPI, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso presentato dall'imputato e l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata in accoglimento dei ricorsi della Procura generale e della parte civile; sentiti, altresì, per la parte civile, l'avv.ssa Si.CI., del foro di Firenze, e per l'imputato l'avv. En.MA., del foro di Lucca, che hanno insistito per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi e per il rigetto di quelli avversi. RITENUTO IN FATTO In data 4 febbraio 2022, la Corte di appello di Firenze ha parzialmente riformato la sentenza del GUP del Tribunale di Lucca, emessa in data 5 dicembre 2018 ad esito di giudizio abbreviato, con la quale Be.Ma. era stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 8 di reclusione, oltre accessori, per i reati di cui agli artt. 81, 582, 585, comma 1, in relazione all'art. 576, comma 1, n. 5, e comma 2, n. 2, (capo 1 di imputazione) e 81, 605, 610, 609-bis, 609-septies, commi 1 e 4, n.4, e 612, comma 2, cod. pen. (capo 2). Il giudice di secondo grado, nel riformare la sentenza appellata, ha assolto per insussistenza del fatto l'imputato dal reato contestato di violenza sessuale, conseguentemente rideterminando la pena nella misura di anni 1 e mesi 4 di reclusione, disponendone la sospensione condizionale e riducendo l'importo della provvisionale in favore della costituita parte civile al cui pagamento l'imputato era stato in primo grado condannato. Avverso la sentenza di secondo grado sia la parte civile che l'imputato, tramite i rispettivi difensori, hanno interposto ricorso per cassazione; l'una ha affidato il proprio ricorso a due motivi di doglianza, l'altro a quattro motivi. Anche la Procura generale presso la Corte di appello di Firenze ha impugnato il medesimo provvedimento; l'organo della pubblica accusa, evidentemente condividendole, ha fatto proprie le argomentazioni sviluppate nell'atto della parte civile e le ha trascritte nel proprio ricorso, che ha, pertanto, il medesimo contenuto di quello; ad esso, di conseguenza, si rinvia sin d'ora per ciò che attiene alla illustrazione del primo. Con il primo dei motivi di doglianza formulati nel proprio atto, la parte civile ha dedotto la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, in quanto il giudice di secondo grado, senza alcuna motivazione, nel ricostruire il fatto addebitato all'imputato, avrebbe valutato credibile la narrazione della parte civile quanto a talune circostanze ed allo stesso tempo ha dato credito alle dichiarazioni dell'imputato rispetto ad altre circostanze. In particolare, la ricorrente ha segnalato quattro travisamenti di elementi di prova dalla stessa ritenuti decisivi per l'affermazione di responsabilità dell'imputato ex art. 609-bis cod. pen., in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa; infatti, essa, anzitutto, avrebbe ritenuto che non vi fosse prova del fatto che la violenza sessuale sarebbe avvenuta dopo, e non prima, rispetto alla condotta di lesioni addebitata all'imputato, mentre in senso contrario deponevano le dichiarazioni di entrambe le parti, trattandosi peraltro dell'unica circostanza sulla quale esse convergevano; ancora, sarebbe stata travisata la prova costituita dalle dichiarazioni rese a sit da un'amica della parte civile, che aveva riferito come, la mattina dopo i fatti in contestazione, la persona offesa le avesse confidato di aver subito anche violenze sessuali: il giudice di secondo grado non ne avrebbe tenuto conto, affermando che la parte civile aveva menzionato soltanto le altre condotte criminose addebitate all'imputato nei messaggi scambiati con gli amici. Inoltre, la Corte di appello avrebbe ipotizzato che parte civile ed imputato non fossero estranei a pratiche sessuali estreme, che avrebbero posto in essere prima dei fatti contestati, omettendo di considerare quanto emerso, oltre che dalla querela, dai messaggi che i due si erano scambiati il mese precedente, in cui la persona offesa lamentava di aver riportato un doloroso ematoma al collo a seguito di un morso ricevuto dall'imputato, cui aveva chiesto che non ripetesse simili eccessi. Infine, nel ritenere che le lesioni si sarebbero verificate nel contesto di una lite tra parte civile e imputato, seguita ad un momento di intimità tra i due, i cui motivi non erano chiaramente emersi nel processo, il giudice avrebbe omesso di tener conto della narrazione dell'episodio contenuta nella querela, ove la persona offesa aveva descritto i toni dell'incontro come sin da subito pesanti, a causa degli atteggiamenti nervosi dell'imputato, informato che ella aveva incontrato nei giorni precedenti un altro uomo. Con il secondo motivo di doglianza, la ricorrente ha censurato l'inosservanza o erronea applicazione dell'art. 609-bis cod. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione a sostegno dell'assoluzione dal reato di violenza sessuale. Tale motivazione, a partire peraltro da una ricostruzione congetturale, illogica e dissonante rispetto alle risultanze probatorie dei motivi per i quali la persona offesa non avrebbe riferito ai medici del pronto soccorso di aver subito anche violenze sessuali, si risolverebbe nell'impossibilità di ritenere provato il carattere non consensuale degli atti sessuali, in dipendenza della mancanza di prova circa lesioni o dolore nella zona genitale, che la persona offesa avrebbe dovuto riportare, al momento delle visite mediche, se davvero il rapporto non fosse stato consensuale. Cosicché, sempre ad avviso della ricorrente, la Corte di appello avrebbe in sostanza postulato, quale elemento dimostrativo del reato di cui all'art. 609-bis cod. pen., la derivazione di conseguenze fisiche sulla persona offesa dagli atti sessuali non consensuali: ciò in violazione della disposizione appena menzionata, la quale non impone siffatto canone valutativo. Come accennato il ricorso della pubblica accusa ricalca i contenuti del ricorso della parte civile che - è lo stesso ricorrente Ufficio che lo riferisce - ha segnalato a quest'ultimo la opportunità della impugnazione anche ai fini penali. Quanto al ricorso proposto nell'interesse dell'imputato, con il primo dei quattro motivi di doglianza di cui esso si compone è stata censurata la mancanza di motivazione a sostegno dell'affermata inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa riguardanti la violenza sessuale, per la quale è intervenuta assoluzione, segnatamente in relazione ai riflessi di tale affermazione di inattendibilità sulla valutazione delle propalazioni della stessa persona offesa riferite agli altri addebiti. Si sarebbe trattato, ad avviso della difesa, di un passaggio motivazionale necessario, in considerazione della non frazionabilità della valutazione di attendibilità della parte civile in relazione alle plurime sue dichiarazioni; infatti, il contestato rapporto sessuale, di cui in secondo grado è stato escluso il carattere non consensuale, e le lesioni, alle quali invece la parte civile non avrebbe acconsentito, si porrebbero tra loro in rapporto di connessione logico-fattuale, nel senso che ove si ritenga che la persona offesa non abbia riportato alcuna conseguenza fisica nella zona genitale a seguito del primo fatto, dovrebbe necessariamente escludersi che il fatto precedente delle lesioni si sia svolto contro la volontà della donna, considerando che soltanto un suo stato di eccitamento, incompatibile con l'aver subito involontariamente la violenza dell'imputato, avrebbe consentito al successivo rapporto sessuale di non lasciare tracce sul corpo della persona offesa. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la mancanza e manifesta illogicità della motivazione a sostegno dell'affermata insussistenza del consenso scriminante le lesioni: essa poggerebbe su argomentazioni -formulate nel senso della mera maggior probabilità della corrispondenza al vero della versione dei fatti resa dalla persona offesa, rispetto a quella resa dall'imputato - risultanti non in linea con la regola di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen. Il ricorrente ha poi dedotto la mancanza e manifesta illogicità della motivazione resa dal giudice di secondo grado sulla sussistenza delle condotte integranti il sequestro di persona e la violenza privata; in particolare, la precarietà, argomentata con il primo e secondo motivo di ricorso, della premessa di partenza inficerebbe la motivazione per cui l'unica spiegazione plausibile della chiusura a chiave della porta della propria abitazione da parte dell'imputato consisterebbe nella sua volontà di impedire alla donna di denunciarlo per le violenze appena subite; quanto alla condotta di sottrazione del cellulare alla donna, la Corte di appello non avrebbe fornito risposta alle censure sviluppate in secondo grado dall'imputato circa la dissonanza tra la ricostruzione accusatoria dei fatti e le risultanze probatorie relative ai messaggi che la persona offesa aveva inviato prima di lasciare l'abitazione dell'imputato. Infine, il giudice di secondo grado sarebbe incorso nei medesimi vizi motivazionali quanto alla condotta integrante le minacce aggravate, ritenuta sussistente in quanto funzionale "alla più generale condotta costrittiva" posta in essere dall'imputato, con giudizio di mera compatibilità con il narrato della persona offesa, in violazione del criterio di giudizio di cui all'art. 533. In esito alla odierna discussione la difesa dell'imputato ha depositate delle note scritte volte sia a replicare alla requisitoria scritta, a suo tempo già trasmessa dalla pubblica accusa, concludente nel senso della inammissibilità della impugnazione da quella presentata sia ad insistere per l'accoglimento del proprio ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO In accoglimento dei ricorsi proposti, la sentenza impugnata deve essere annullata sia nella parte in cui con essa è stata confermata la sentenza emessa dal giudice di primo grado - e, pertanto, nella parte in cui, ribadita la responsabilità del prevenuto in ordine'ai reati, unificati sotto il vincolo della continuazione, di lesioni personali, violenza privata, minaccia aggravata e sequestro di persona, è stata rideterminata nella misura di anni 1 e mesi 4 di reclusione, con conferma della condanna al risarcimento del danno ed al rimborso delle spese di costituzione e difesa in favore della costituita parte civile - sia nella parte in cui la predetta sentenza del Gup del Tribunale di Lucca è stata, invece riformata - cioè nella parte in cui il Be.Ma. è stato assolto dal reato di violenza sessuale per insussistenza del fatto, con eliminazione della relativa pena e riduzione dell'importo della provvisionale già disposta in favore della parte civile - con rinvio per complessivo nuovo esame di fronte ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze. A tale conclusione è giunta questa Corte sulla base della contraddittorietà, indice della sua manifesta illogicità, della motivazione con la quale la Corte medicea si è risolta, con affermazione ora da più parti censurata, a confermare per una parte la decisione assunta dal giudice di primo grado e per altra parte a riformarla. Si osserva, infatti, che la Corte territoriale, onde risolvere le incongruenze da essa rilevate sia nella ricostruzione dei fatti operata dalla persona offesa sia in quella operata dall'imputato ha, di fatto, presupposto una terza ricostruzione fattuale, autonomamente operata, sulla base, però, non di dati obbiettivi ma sulla base di una intuizionistica visione degli avvenimenti, non supportata da alcun dato probatorio. Giova, infatti, ricordare che i fatti materiali in relazione ai quali il Be.Ma. è stato chiamato a rispondere in giudizio, traggono origine da una amicizia nata fra l'imputato e la persona offesa a cagione della comune frequentazione di un cosiddetto "sito di incontri"; dopo taluni abboccamenti, privi di incontri personali, i due hanno iniziato a frequentarsi anche personalmente sino alla data del 20/21 dicembre 2014, occasione in cui si sono verificati i fatti per cui è processo. Essi, nella loro sostanziale materialità, sono, sia pure solo in relazione al loro succedersi nel tempo, pacifici fra persona offesa, in quanto, sia secondo , la versione dell'uno che secondo la versione dell'altra, in tale occasione è indubbio che fra i due, dopo che la donna era stata colpita dall'uomo che delle frustate inferte con una cintura da pantaloni che le aveva cagionato delle lesioni, intervennero degli atti chiaramente connotati dal loro carattere sessualmente rilevante. Le divergenze fra le tesi dei due protagonisti della vicenda risiedono, oltre che in taluni aspetti di essa che potrebbero dirsi marginali (cioè se l'uomo ebbe sia a privare la donna della possibilità di utilizzare un telefono cellulare che a minacciarla di morte e se questa, dopo il rapporto sessuale intercorso fra costoro, sia stata effettivamente privata, nel corso della notte fra il 20 ed il 21 dicembre, della sua libertà personale), vuoi nella natura consensuale o meno della congiunzione carnale che, secondo la versione dell'imputato, gli stessi ebbero nella serata in esame (congiunzione carnale che, invece, secondo la versione della donna, non sarebbe stata una vera e propria copula né, tantomeno, sarebbe stata consensuale, avendo l'imputato introdotto, contro la volontà di quella, le proprie dita nella vagina della persona offesa), vuoi nella dichiarata, secondo l'imputato, disponibilità della donna a farsi energicamente colpire dall'uomo prima di consumare il citato rapporto sessuale, essendo tale pratica, recisamente negata dalla persona offesa, funzionale ad una maggiore eccitazione sessuale della donna. Ciò posto osserva il Collegio che la Corte territoriale - la quale, giova ricordarlo, mentre ha confermato la sentenza di condanna a carico del Be.Ma. quanto alle lesioni personali ed agli altri reati minori, ha invece mandato assolto il medesimo in ordine al reato di violenza sessuale - ha fondato il proprio giudizio su una ricostruzione dei fatti che, prescindendo dalla natura del rapporto intercorrente fra i due soggetti interessati ai fatti (rapporto, come accennato, definito dall'imputato condizionato dalla parafilia masochistica della donna, la quale avrebbe richiesto al Be.Ma. di fustigarla, in tale modo incrementando la sua sensazione di piacere erotico), prevederebbe che "ad un certo punto della serata (mentre cioè i due stavano consumando un rapporto sessuale frutto di una reciproca e convergente volizione, ndr) - per un motivo non chiaramente emerso - sia sopravvenuta una lite, con uso della violenza fisica da parte del Be.Ma."; una tale ricostruzione, osserva ancora la Corte di Firenze, ha permesso a questa di fornire una spiegazione (in tale modo giustificando un fatto, deve ritenersi, non altrimenti giustificabile) al perché la Ni.Sa. "nell'immediato recandosi al pronto soccorso (...cosa che, in realtà la donna non fece, come parrebbe ritenere la Corte di merito, nell'immediato, posto che l'accesso della donna presso il pronto soccorso ove furono refertate le lesioni personali, avvenne solo dopo che la stessa, allontanatasi attorno alle ore 11 del 21 dicembre 2014 dalla abitazione dell'imputato, aveva regolarmente espletato il suo turno pomeridiano di lavoro quale infermiera...ndr) non parlò di alcuna violenza sessuale; ella, infatti, potrebbe avere percepito la prima parte della serata (...quella cioè nella quale si era verificato il consensuale congresso carnale fra i due...ndr) in tali termini (...parrebbe intendersi in termini di ritenuta violenza fisica...ndr) soltanto successivamente, ripensando e rimeditando" su " quanto occorsole e rifiutando in blocco l'esperienza vissuta". Una tale ricostruzione fattuale viene dalla Corte di Firenze ritenuta funzionale anche alla conferma della responsabilità, quanto ai soli reati diversi dalla violenza sessuale a lui imputati, del Be.Ma., in relazione alla cui posizione si rileva che questi "non potendo negare le lesioni cagionate alla Ni.Sa. poiché refertate dal pronto soccorso, ma tentando di minimizzarle, avrebbe tutto l'interesse nella sua versione dei fatti, a posticipare l'approccio sessuale soltanto dopo la inflizione delle suddette lesioni, cercando in tale modi di ammantare le stesse come consensualmente volute dalla partner e conseguentemente qualificare come totalmente consenziente (recte: consensuale) il rapporto sessuale". In sostanza, secondo la ricostruzione fattuale degli eventi fatta dalla Corte di appello, apparirebbe "maggiormente plausibile" che il rapporto sessuale, sia avvenuto prima delle lesioni refertate, il che indurrebbe a ritenere plausibile che lo stesso, sebbene sul punto la stessa Corte abbia affermato che non vi sia "tranquillante certezza", essendo intercorso fra persone che già erano state più volte in intimità, sia stato consensuale. Ma, osserva questa Corte, una siffatta ricostruzione non trova negli atti del processo alcun genere di riscontro istruttorio, posto che non solo la difesa dell'imputato - con un'operazione artatamente volta, secondo la tesi della Corte di merito, ad invertire la cronologia dei fatti, anteponendo, in spregio al loro reale svolgersi, le pratiche sadomasochistiche, concordate fra le parti, al rapporto sessuale, anch'esso consensuale - colloca l'andamento diacronico della vicenda in termini opposti a quelli ricostruiti dal giudice del gravame, ma è la stessa ricostruzione storica operata dalla persona offesa che si pone in contraddizione con quanto ritenuto dalla Corte. La Ni.Sa., secondo quanto riportato nella stessa sentenza ora impugnata, descrivendo una sorta di climax ascendente di violenza, riferisce, infatti, che l'imputato "verso la mezzanotte (del 20 dicembre 2014), dopo che la atmosfera era divenuta particolarmente tesa a seguito delle (...sue...) accese manifestazioni di gelosia", dopo averla offesa, "la prese stretta con la forza ai glutei ed ai polsi e la picchiò a sangue colpendola ripetutamente con una cintura al seno, alle braccia, alla testa ed alle gambe"; solo a questo punto - sempre secondo la ricostruzione degli avvenimenti fatta dalla persona offesa e riportata nella sentenza della Corte di Firenze - l'uomo chiuse "con più mandate la porta di casa e requisito il telefono alla donna, (...) la buttò sul divano e, gettatosi addosso a lei, le sfilò a forza gli slip" e, tenendole con una mano i due polsi, "le infilò almeno due dita dell'altra in vagina". È, pertanto, inspiegabile - a fronte di una narrazione dei fatti che, nelle due versioni offerte, risulta essere convergente quanto alla loro successione temporale (seppure non, evidentemente, quanto alla loro rilevanza penale), sia che si propenda per ritenere conforme al vero quanto affermato dall'imputato sia che si propenda, invece, verso la attribuzione di pieno credito alla narrazione resa dalla persona offesa - la ragione per la quale, contrariamente a tali evidenze, la Corte di merito abbia ritenuto, sposando una sorta di terza via narrativa, che la vicenda si sia svolta, quanto al suo sviluppo cronologico, in termini sostanzialmente opposti a quelli riferiti da entrambi i soggetti che ad essa hanno preso parte. Un siffatto procedere comporta, ad avviso di questa Corte, il vizio della sentenza impugnata di travisamento della prova per invenzione, il quale sussiste allorquando il giudice del merito, nell'esaminare gli elementi istruttori acquisiti agli atti, ne individui come decisivi taluni che, invece, non risultino presenti (sulla nozione di travisamento della prova, ora per soppressione ora per invenzione, si vedano per tutte: Corte di cassazione, Sezione II penale, 25 giugno 2019, n. 27929; Corte di cassazione, Sezione II penale, 26 novembre 2013, n. 47035, secondo le quali esso si manifesta, rispettivamente, allorché si introduce nella motivazione della sentenza una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova pur sussistente e decisiva ai fini della pronuncia). Né, si ritiene, è possibile nel caso in esame applicare l'indirizzo giurisprudenziale che, consentendo la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie rese dalla parte offesa, consentirebbe di attribuire credito solamente a quelle fra esse che risultano consentanee alla tesi fatta propria dalla Corte di merito. Invero, la possibilità di valutare frazionatamente il contenuto delle dichiarazioni rese da un teste in giudizio o, comunque, acquisite agli atti, è legittimamente esercitata in quanto fra le varie parti del narrato ritenute attendibili non sussista una interferenza fattuale e logica - ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica - con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell'intero racconto (per tutte: Corte di cassazione, Sezione V penale, 11 settembre 2020, n. 25940), condizione che nell'occasione, considerata la unicità temporale e finalistica del contesto in cui si sarebbero verificati i fatti oggetto di imputazione - nei quali, secondo la versione dell'imputato, le condotte generatrici delle lesioni sarebbero state funzionali, dato l'atteggiamento sadomasochistico dei due attori della vicenda, alla maggiore eccitazione erotica dei medesimi, poi soddisfatta nel successivo congresso carnale; mentre, secondo il narrato della donna, le stesse sarebbero state il prodromo, nel crescendo di violenza esercitata ab irato dall'uomo, del successivo oltraggio sessuale da lei patito - non appare sussistere. Il rilevato vizio di travisamento della prova, atteso il ritenuto carattere fondamentale della ricostruzione diacronica dei fatti ai fini della affermazione sia, per un verso, della attendibilità delle dichiarazioni rese agli atti del giudizio dal Be.Ma. e dalla Ni.Sa., fossero esse accusatorie ovvero autodifensive, sia, per altro verso, della stessa rilevanza penale degli avvenimenti, mina in radice la sentenza, e ciò anche con riferimento ai reati diversi rispetto a quelli di lesioni personali e violenza sessuale, più direttamente interessati dalla contraddittoria ricostruzione operata dalla Corte di Firenze. Ed invero, quanto al sequestro di persona, si osserva che la Corte di Firenze ha attribuito rilevanza penale alla condotta del Be.Ma., il quale ha serrato la porta di accesso della sua abitazione nella quale si trovava anche la Ni.Sa., sostenendo che, così facendo, egli si sarebbe cautelato rispetto al pericolo che la donna, una volta uscita di casa, sarebbe andata a denunziarlo, ritenendo, invece, inattendibile la spiegazione data all'episodio dall'uomo - il quale ha detto che non gli pareva opportuno che la donna si allontanasse della sua abitazione nel cuore della notte - non essendo credibile che l'imputato, dopo averla malmenata, mostrasse un tale premura verso la persona offesa. Ora - al di là della circostanza che, secondo quanto riferito dalla stessa persona offesa, costei si è potuta poi allontanare dalla abitazione del Be.Ma. la mattina successiva, in tempo per recarsi sul posto di lavoro, con il benestare dell'uomo, il quale, pertanto, doveva avere, inspiegabilmente, in breve superato il suo timore di essere denunziato - la tesi ricostruttiva fatta propria dalla Corte di merito ha come proprio presupposto logico la rilevanza penale delle lesioni riportate dalla Ni.Sa.; essendo stata questa fondata sulla allo stato apodittica ricostruzione degli avvenimenti precedenti al contestato sequestro di persona, anche la deduzione che da quella ne è stata tratta risulta essere inaffidabile. Il giudizio di inadeguatezza motivazionale della sentenza impugnata si estende anche all'avvenuta conferma della responsabilità dell'imputato quanto al reato di minacce aggravate, posto che la verifica della attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa intorno ad esse è stata eseguita dalla Corte di appello attribuendo alle dichiarazioni minatorie una asserita funzionalità alla più generale condotta costrittiva del Be.Ma., la cui fondatezza è, come detto, affermata sulla base di una non ancora adeguatamente dimostrata ricostruzione dei fatti svolta dalla Corte di merito. Né va trascurato di rilevare come sembri distonico - sebbene di tale apparente sfasamento logico la Corte di merito non abbia tenuto alcun conto -rispetto al complessivo dato fattuale valorizzato dalla Corte di merito il fatto che, nella mattinata del 21 dicembre, dopo essersi allontanata da meno di due ore dalla abitazione dell'imputato, la persona offesa abbia indirizzato a quello un messaggio il cui tenore testuale ("io faccio solo quello che vuoi te"), non evidenzia alcuna pregressa tensione, tantomeno immediatamente recente, fra i due attori della presente vicenda. Parimenti inaffidabile è l'argomento adottato dalla Corte di merito onde contestare la argomentazione difensiva sviluppata dall'imputato per smentire il fatto, riportato dalla persona offesa, che egli le avrebbe sottratto il telefono cellulare impedendole di chiamare aiuto mentre era all'interno della sua abitazione; risulta, infatti, manifestamente irragionevole la giustificazione offerta dalla Corte locale a spiegazione del fatto che - pur essendo stata la Ni.Sa. secondo quanto dalla medesima affermato, privata della disponibilità del citato apparecchio - nel corso della notte in cui si sono svolti i fatti per cui è processo dallo stesso sono partite sia delle telefonate che dei messaggio tutti indirizzati a persone vicine alla donna. Infatti, sostenere che siffatte chiamate - collocate in numero di 5 nell'arco temporale che va dalle ore 1.13 alle ore 3.30 della mattina del 21 dicembre (secondo quanto riportato, per come emerge dalla parte narrativa della sentenza impugnata, dalla difesa ricorrente in appello senza che tale puntuale riferimento storico sia stato contestato dalla Corte di Firenze in occasione della redazione della sentenza impugnata) - lungi dall'essere state fatte dalla persona offesa (cosa che, se ciò fosse invece vero, dimostrerebbe che questa avrebbe già avuto allora la disponibilità dell'apparecchio telefonico), siano "partite dal cellulare della Ni.Sa. del tutto accidentalmente", risulta essere affermazione priva di ogni ragionevolezza, apparendo non solo non facilmente ipotizzabile che un congruo numero di telefonate partano tutte verso reali utenze telefoniche accidentalmente in un limitato lasso di tempo, mentre l'apparecchio è sottratto all'avente diritto ma è del tutto inspiegabile come da un telefono possano "accidentalmente" partire dei messaggi, essendo quella della loro preparazione e trasmissione un'operazione che, richiedendo una sequenza di azioni coordinate fra loro, risulta forse eseguibile per errore, essendo il messaggio inviato a persona non coincidente rispetto al divisato destinatario ovvero con un contenuto diverso da quello voluto, ma non "accidentalmente". In accoglimento, pertanto, sia del ricorso presentato dalla pubblica accusa che di quello presentato dalla parte civile, sia della impugnazione formulata della difesa dell'imputato, la sentenza impugnata deve essere annullata con conseguente riesame della complessiva vicenda ad opera di altra Sezione della Corte di appello di Firenze, cui compete anche, in esito al giudizio da essa reso, il regolamento delle spese del presente giudizio nei confronti della costituita pare civile. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello dì Firenze. Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GENTILI Andrea - Consigliere rel. Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott.ssa MAGRO Maria Beatrice - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: Le.Gi., nato a P (omissis) il (omissis); avverso la sentenza n. 268/23 della Corte di appello di Ancona del 7 febbraio 2023; letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI; letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Paola FILIPPI, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; lette, altresì, le conclusioni scritte a firma dell'avv. Ig.GI., del foro di Fermo, nell'interesse della costituita parte civile, nonché la memoria di replica alla requisitoria del PM stesa nell'interesse del ricorrente dall'avv. Ar.SA., del foro di Fermo, contenente anche motivi nuovi, con la quale si è insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO La Corte di appello di Ancona, con sentenza pronunziata in data 7 febbraio 2023, ha integralmente confermato la precedente decisione con la quale, in data 3 giugno 2020, il Tribunale di Fermo, in esito a giudizio celebrato nelle forme ordinarie, aveva dichiarato la penale responsabilità di Le.Gi., cui era stata contestata la commissione, in diverse occasione, del reato di violenza sessuale, in un caso perpetrato nella forma tentata, da lui posto in essere, nel periodo andante dall'inverno del 2010 sino al maggio del 2015, in danno di Ac.De., Le.Mi. (figlia dell'imputato) e di Bi.So. e lo aveva, pertanto, condannato, avendo escluso l'aggravante a lui contestata con riferimento all'episodio di violenza sessuale in danno della Bi.So. e quello di cui all'art. 609-ter, comma 1, n. 1, cod. pen. quanto ad uno degli episodi di violenza sessuale commessi in danno della figlia e ritenuta la continuazione fra le diverse condotte delittuose realizzate, alla pena di anni 7 e mesi 2 di reclusione, oltre accessori, ivi compreso il risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile. Ha interposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della corte territoriale la difesa fiduciaria dell'imputato, affidando le proprie censure a 6 motivi di impugnazione. Con il primo di questi motivi è lamentata la mancanza, la contraddittorietà o comunque la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata per quanto attiene all'avvenuta conferma della affermazione della penale responsabilità dell'imputato in ordine ai fatti di cui al capo A) della imputazione. Il secondo motivo di impugnazione è a sua volta articolato con riferimento alla presenza di analoghi vizi nella motivazione della sentenza in relazione all'avvenuta conferma dell'affermazione della penale responsabilità dell'imputato in merito ai fatti di cui alla contestazione rubricata sub B) del capo di imputazione. Analogamente è concepito il terzo motivo di impugnazione, rivolto questa volta a denunziare i vizi della motivazione della sentenza della Corte dorica in punto di conferma della responsabilità del Le.Gi. in ordine ai fatti indicati sub C) del capo di imputazione. Non diversamente il successivo motivo di ricorso attiene ala sussistenza del medesimo vizio di motivazione della sentenza impugnata quanto al punto D) del libello accusatorio. Con il quinto motivo è censurata la sentenza della Corte territoriale con riferimento alla esclusione del riconoscimento in favore del prevenuto sia della circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis, comma 3, cod. pen., sia delle circostanze attenuanti generiche. Infine, con il sesto motivo di ricorso la difesa dell'imputato ha lamentato la violazione della normativa processuale e la mancata assunzione di un prova decisiva, non essendo stata rinnovata l'istruttoria dibattimentale al fine di verificare l'effettiva capacità a rendere testimonianza della persona offesa Le.Mi. Come detto, la difesa del ricorrente, in data 10 gennaio 2024, ha rassegnato una memoria in replica alle conclusioni della Procura generale presso questa Corte di cassazione, ulteriormente illustrando quelli che, a suo avviso, erano i motivi per l'annullamento della sentenza ora impugnata. Con atto del 3 gennaio 2024 la difesa della parte civile Bi.So. ha rassegnato le proprie conclusioni, depositando, altresì, nota spese. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso avverso la sentenza impugnata deve essere accolto nei soli limiti di cui appresso, essendo, per il resto inammissibili i motivi di lagnanza presentati dalla ricorrente difesa. Quanto al primo motivo di ricorso - con il quale è stata censurata la motivazione della sentenza impugnata in relazione ai fatti di cui al capo A) della contestazione elevata a carico dell'imputato - si osserva come emerga chiaramente che le doglianze formulate dalla difesa del ricorrente attengono esclusivamente alla ricostruzione fattuale degli episodi di violenza sessuale attribuiti al prevenuto. Premesso, infatti, che gli stessi risultano dimostrati principalmente sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, cioè Ac.De., non può non segnalarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la responsabilità penale di un soggetto è suscettibile di essere congruamente provata anche sulla base delle sole dichiarazioni rese dal soggetto che risulti essere parte offesa del reato in contestazione, sebbene in tale evenienza le dichiarazioni da quest'ultimo rese debbano essere sottoposte ad un vaglio di attendibilità più rigoroso e penetrante rispetto a quello ordinariamente praticato con riferimento alle dichiarazioni rese da soggetto che risulti essere del tutto terzo rispetto alle vicende riguardate dal processo. Rileva la Corte che tale genere di vaglio è stato, nella occasione, operato dai giudici del merito, i quali hanno bensì riscontrato l'esistenza di marginali criticità nel narrato della persona offesa, ma, avendone tenuto conto, le hanno ritenute - con motivazione scevra da manifesti profili di illogicità, e pertanto, non suscettibile di sindacato di fronte a questa Corte di legittimità - non tali da porre in ragionevole dubbio la attendibilità della dichiarante. Infatti, sebbene sia stata la stessa minore ad avere riferito che il Le.Gi. non esercitò su di lei, in occasione dell'episodio di violenza occorso all'interno di un garage, una particolare violenza fisica onde costringerla a subire il suo bacio, ha ritenuto la Corte di merito che tale ammissione sia irrilevante ai fini della sussistenza del reato, posto che questo non necessita per la sua integrazione che la volontà della persona offesa sia stata coartata con mezzi particolarmente virulenti, essendo sufficiente che la stessa non si sia potuta autonomamente autodeterminare per fattori costrittivi derivanti ab externo; va, piuttosto, osservato che tale affermazione costituisce un riscontro logico della genuinità narrativa della teste persona offesa, la quale, proprio a comprova della mancanza di un qualche intento lato sensu calunniatorio verso l'imputato, non ha inteso caratterizzare in termini spiccatamente negativi la sua condotta, precisando che la forza fisica da questo esercitata onde costringerla a subire la violenza non era stata massiccia. Nessun significato ha, al fine di porre in discussione la attendibilità della minore sì da rendere manifestamente illogica la motivazione della sentenza della Corte di appello che invece tale attendibilità ha sostenuto, il fatto che la Ac.De. non si sia confidata nell'immediatezza dei fatti con la propria amica, oltre che figlia dell'imputato, Le.Mi., rivelandole la violenza subita; al riguardo, quali che fossero i motivi di tale sua ritrosia, ritenuti dalla difesa dell'imputato solo congetturalmente ipotizzati dalla Corte di merito, osserva la questa Corte che il dato in sé nulla aggiunge e nulla toglie al giudizio formulato in sede di merito sulla attendibilità delle accuse mosse dalla Ac.De. al Le.Gi.; la doglianza formulata al riguardo dalla ricorrente difesa è, pertanto, priva di concludenza. Il rilievo dato in sede di ricorso a quanto dichiarato dal padre della persona offesa, cioè che lui non aveva visto l'imputato baciare la figlia, non vale certo ad escludere che ciò, pur senza che di tanto il teste ne avesse avuta diretta percezione, non si sia verificato, atteso che l'episodio non è assolutamente stato descritto dalla persona offesa come accaduto al diretto cospetto del di lei padre; sicché il dato testimoniale enfatizzato dalla ricorrente difesa è palesemente privo di qualsivoglia rilievo e, coerentemente, la Corte territoriale non lo ha considerato significativo nella economia della decisione assunta. Con riferimento al secondo episodio di violenza sessuale contestato al capo A) della rubrica elevata a carico dell'imputato, è ben vero che nella imputazione si indica geograficamente quale locus commissi delicti il territorio di F, mentre, essendosi esso verificato, secondo quanto emerge dagli atti, all'interno della abitazione della Ac.De., il teatro della vicenda è la cittadina di M; ma, una volta rilevata e deprecata una certa sciatteria e superficialità nella redazione del capo di imputazione, si osserva che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'eventuale erroneità della indicazioni di luogo e di tempo (rilevo questo che "cauterizza" anche gli eventuali effetti della doglianza avente ad oggetto la pretesa imprecisione della Corte di Ancona nella collocazione temporale di tale illecito) ha rilievo solo in quanto a cagione di essa si sia determinato un vulnus all'esercizio pieno ed effettivo del diritto di difesa spettante all'imputato, ma non nel caso in cui siffatta imprecisione non abbia concretamente pregiudicato la posizione di quello (si veda, sostanzialmente nel senso dianzi illustrato, per tutte: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 13 settembre 2019, n. 38061). Nella presente occorrenza tutti i dati istruttori, pienamente a conoscenza del prevenuto, depongono sia per la collocazione temporale del fatto a distanza di alcune settimane dopo il primo di quelli oggetto di contestazione nel capo di imputazione ora in esame sia per la individuazione della abitazione della Ac.De. come luogo ove esso si sarebbe verificato, senza che, pertanto, il diritto dell'imputato di esercitare la propria difesa sia stato minimamente compresso, essendosi egli perfettamente potuto difendere rispetto alla contestazione mossagli. Osserva, ancora il Collegio che le censure della difesa dell'imputato sulla natura non "fugace e repentina" delle condotte imputate nella circostanza al prevenuto, tali pertanto da non potere essere realizzate senza che le stesse non fossero notate da chi, sebbene non presente, si fosse trovato nei pressi del luogo ove i fatti sarebbero avvenuti, lasciano il tempo che trovano, essendo di immediata percezione che gli atti che secondo l'accusa il Le.Gi. avrebbe posto in essere, cioè attingere una ragazza con la mano su di un seno e baciarla sulla bocca, non impegnano un particolare lasso di tempo e non richiedono una accurata preparazione per essere realizzati. Né è riscontrabile una contraddizione - tale da comportare il travisamento della prova - fra quanto riferito dal padre della minore, il quale ha sostenuto che le minacce indirizzate dal Le.Gi. alla Ac.De. dopo l'episodio di violenza sessuale, onde indurre questa a non rivelarlo, siano state nel senso che altrimenti quello "le avrebbe messo un coltello alla gola", e quanto dichiarato dalla stessa persona offesa, non avendo questa affermato che il Le.Gi. avesse un coltello con sé nella occasione; è, infatti, chiaro che con la espressione riportata dal primo testimone si era inteso indicare alla ragazzina quella che sarebbe stata la conseguenza per lei ove la stessa avesse propalato l'accadimento. Anche le Censure relativa al vizio di motivazione della sentenza in ordine alla conferma della affermazione della penale responsabilità dell'imputato relativamente al terzo episodio descritto nel capo A) della contestazione non hanno pregio; invero, la circostanza che la Ac.De., pur verosimilmente ammaestrata dalla esperienza fatta, si sia recata in data 3 maggio 2015 presso l'abitazione ove risiedeva anche il Le.Gi., non è fattore che induce a ritenere che gli episodi di violenza sessuale descritti dalla stessa non siano veridici, essendo stato precisato dalla Corte di merito - anche in questo caso con motivazione scevra da evidenti illogicità - che, per un verso, la ragazza, allora quattordicenne, ben poteva avere, data l'età, un discernimento non ancora adeguatamente smaliziato della cose della vita, sì da non ipotizzare che, recandosi presso l'abitazione ove si trovava anche il prevenuto, ciò avrebbe potuto costituire il pretesto per nuove aggressioni da parte di quello, mentre, per altro verso, la stessa persona offesa, recandosi nell'occasione presso la abitazione dei nonni, ove anche il Le.Gi. si trovava, non teneva certo un comportamento irrazionalmente in contrasto con l'ordinaria condotta tenuta dagli individua della sua condizione. Né, infine sul punto, la sentenza censurata merita di essere annullata in relazione alla esclusione della attendibilità della teste Mi.Ka., sentimentalmente legata al Le.Gi., con riferimento alle dichiarazioni con le quali costei ha escluso che l'imputato abbia molestato sessualmente la Ac.De., mentre sono state ritenute veritiere le dichiarazioni della medesima in relazione alla descrizione del degrado sociale e morale dell'ambiente familiare in cui sono maturate le condotte attribuite all'imputato. Premessa, infatti, la riconducibilità di tale giudizio di attendibilità frazionata all'ambito riguardante il margine di discrezionale apprezzamento che compete esclusivamente ai giudici del merito in ordine al contenuto delle dichiarazioni testimoniali, giudizio censurabile, pertanto, solo in caso di manifesta illogicità, si rileva, in particolare, che una tale frazionata valutazione è pienamente legittima ove i diversi contenuti dichiarativi, ritenuti ora attendibili ora, invece, non attendibili, siano appartenenti a piani logici e narrativi fra loro non coincidenti, senza cioè che il contenuto di talune dichiarazioni operi quale antecedente logico ovvero come conseguenza delle altre dichiarazioni (in tale senso: Corte di cassazione, Sezione V penale, 11 settembre 2020, n. 25940). Nella specie i due ambiti dichiarativi percorsi dalla Mi.Ka. - l'uno riferito ad uno specifico episodio, l'altro, invece, riguardante il complessivo milieu in cui sono maturati i fatti per cui è processo - non si segnalano per alcuna pregnante interferenza logica, di tal che del tutto legittima è la valutazione frazionata operata dalla Corte dorica delle dichiarazioni rese dalla citata teste. La analogia contenutistica del secondo motivo di impugnazione, anche esso afferente alla pretesa inadeguatezza motivazionale della sentenza impugnata questa volta con riferimento all'episodio contestato sub B) del capo di imputazione, giustifica la identica definizione della quaestio da esso introdotta-, invero anche nell'occasione le doglianze del ricorrente attingono esclusivamente il tema del contenuto della prova e la sua valutazione (si contesta, infatti, il giudizio, operato dalla Corte di merito sulla base delle dichiarazioni della Ac.De. e del di lei padre, in punto di integrazione del tentativo di violenza sessuale che il Le.Gi. avrebbe perpetrato cercando in un'occasione, mentre si trovava seduto in compagnia di Ac.De. sul sedile posteriore di un autoveicolo condotto da padre di quest'ultima, di attingere con la propria mano il seno e l'interno delle gambe della ragazzina, intento da lui non realizzato in quanto quest'ultima è riuscita, con frequenti domande, a destare l'attenzione del di lei padre) in termini non suscettibili dì formare oggetto del sindacato di questa Corte di legittimità, la quale non può essere chiamata a giudicare sulle valutazioni operate in merito al significato probatorio delle dichiarazioni raccolte in atti (Corte dì cassazione, Sezione V penale, 20 febbraio 2018, n. 8188). Con riferimento al successivo terzo motivo di ricorso, concernente la imputazione sub C), relativa agli atti di violenza sessuale in danno della figlia dell'imputato Le.Mi., se ne rileva la totale genericità in quanto con lo stesso ci si limita a porre in dubbio - sulla sola base della affermata circostanza che la figlia del prevenuto fosse affetta da una forma di epilessia (il cui grado non è, peraltro, minimamente evocato) e che, pertanto, dovesse assumere dei farmaci (senza che sia in alcun modo allegato che tali farmaci potessero incidere in senso negativa sulla capacità della ragazza di apprezzare i dati della realtà e quindi riferirli) - la idoneità della persona offesa a rendere validamente testimonianza, solo in quanto affetta dalla citata infermità; al riguardo giova ribadire che non ogni patologia psichiatrica, cerebrale o neurologica determina l'incapacità a testimoniare, essendo necessario accertare, in concreto, che la riscontrata patologia sia idonea a rendere il teste incapace di comprendere il senso delle domande postegli, di discernerne in modo cosciente e critico il contenuto onde articolare coerenti risposte e di avere sufficiente capacità mnemonica in ordine ai fatti oggetto della deposizione (Corte di cassazione, Sezione II penale, 8 novembre 2023, n. 45074); essendo, di conseguenza chiaro che non è sufficiente, onde mettere in dubbio la predetta capacità, allegare la esistenza di una qualche patologia del genere dianzi indicato, ma è anche necessario, quanto meno sotto il profilo della ragionevole serietà della allegazione, segnalare le ragioni per le quali la presenza della dedotta patologia avrebbe dovuto incidere sulla idoneità dell'individuo a svolgere l'ufficio di teste in un processo. Parimenti irrilevante, quanto alla fondatezza del motivo di ricorso ora in esame, è il dato connesso alla sottovalutazione dei cattivi rapporti esistenti fra l'imputato e la sua ex moglie, madre della persona offesa, non essendo sufficiente tale dato a giustificare la affermazione che la persona offesa sia stata subornata dalla madre onde calunniare l'imputato. Venendo a questo punto all'esame del motivo di impugnazione concernente i fatti di cui alla lettera D) del capo di imputazione, si rileva, per un verso che a carico dell'imputato vi è sia il dato obbiettivo fornito dalle sostanzialmente convergenti accuse mosse nei suoi confronti dalla persona offesa Bi.So. e dalla di lei zia Sa.La. (che per prima ne ha raccolto le confidenze), le quali, al di là di marginali differenze tenute presenti dalla Corte di merito, testimoniano nel senso della responsabilità del prevenuto anche per il descritto episodio, sia il dato logico relativo alla inspiegabilità, ove il fatto non rispondesse al vero, dell'accanimento accusatorio della ricordata persona offesa, soggetto estraneo alla più immediata cerchia di frequentazioni del Le.Gi., della quale non sono state neppure prospettate ragioni di sorta - come la Corte di Ancona ha sottolineato, in tal modo corroborando la decisione da essa assunta - che avrebbero potuto giustificare la formulazione da parte delta Bi.So. di false ed infamanti accuse contro il Le.Gi. In relazione alla opportunità di qualificare i reati commessi ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 609-bis cod. pen., doglianza che forma oggetto del quinto motivo di impugnazione, si osserva che la Corte di Ancona, valutando nella loro globale offensività i reati ascritti al Le.Gi., ha congruamente ritenuto, quanto alla imputazione riguardante ì fatti commessi in danno della figlia dell'imputato, che la loro particolare invasività oltre che la specifica attitudine di essi, dato lo strettissimo legame di sangue esistente fra l'imputato e la persona offesa, a determinare una sensibile lesione del naturale sviluppo del rapporto della ragazza con la sessualità, rendano impraticabile la strada della valutazione del fatto come di minore gravità (nel senso indicato, si veda: Corte di cassazione Sezione III penale, 25 maggio 2015, n. 21623); parimenti per ciò che attiene alle condotte poste in essere in danno della Ac.De. in relazione alle quali è stata adeguatamente esclusa la possibilità di riqualificare i fatti come attenuati nel senso descritto a cagione della loro iterazione, idonea a moltiplicarne la offensività (a fornire un adeguato avallo a tale decisione si richiama: Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 luglio 2017, n. 34512); mentre, per ciò che attiene all'episodio in danno di Bi.So., le modalità di sua realizzazione, caratterizzate da un sensibile utilizzo di forza fisica per vincere la resistenza della minore (che è stata infatti, costretta contro un muro) e dall'avvenuta successiva minaccia in caso di rivelazione dell'episodio, sono fattori legittimamente valorizzati dalla Corte territoriale onde escludere l'ipotesi attenuata di reato. In ordine alla esclusione delle attenuanti generiche, riguardo alla quale è censurata la motivazione della sentenza con la quale le stesse non sono state riconosciute, si ripete ancora una volta che il relativo onere motivazionale deve essere soddisfatto laddove debba essere giustificata la loro attribuzione e non per motivare il loro diniego, ciò in particolare ove non siano state indicate dal soggetto interessato le specifiche ragioni che le avrebbero potute giustificare (Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 giugno 2019, n. 26272); quanto al caso in esame il fatto che il ricorrente non segnali quali ragioni specifiche egli avesse formulato di fronte al giudice del gravame affinché questi, riformando la sentenza di primo grado, riconoscesse il predetto beneficio, rende chiaramente inammissibile ora la doglianza introdotta in sede di legittimità in ordine alla motivazione sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Venendo all'ultimo motivo di ricorso, riguardante la mancata riapertura della istruttoria dibattimentale al fine di verificare la idoneità della persona offesa Le.Mi. a rendere testimonianza, si rileva, a prescindere da ogni altra considerazione, la totale genericità della doglianza in ragione della già rilevata circostanza che, il semplice fatto che la predetta fosse affetta da una patologia epilettoide non è fattore che di per sé giustifica l'esistenza di una qualche incertezza relativa alla sua idoneità a testimoniare; va, peraltro, rilevato che, essendo stata la, all'epoca dei fatti minore, persona offesa sentita nel corso del dibattimento celebrato in primo grado dopo avere raggiunto la maggiore età, la sua idoneità a rendere testimonianza è stata oggetto di diretto apprezzamento (evidentemente positivo) da parte del Tribunale di Fermo, di tal che deve ulteriormente escludersi la fondatezza del motivo di impugnazione ora genericamente introdotto in sede di impugnazione. La sentenza deve, tuttavia, essere parzialmente annullata; ciò, in particolare, quanto alla conferma della penale responsabilità dell'imputato in ordine al primo in ordine di tempo degli episodi di violenza sessuale perpetrati in danno della figlia; invero, essendo questo cronologicamente collocato nell'inverno del 2010, e dovendo, quindi, in assenza di ulteriori più puntuali indicazioni, farsi decorrere dal gennaio del 2010 (cioè dall'inizio del periodo invernale riferibile all'anno in questione) il termine prescrizionale del reato de quo, si rileva che lo stesso, alla data di pronunzia della sentenza della Corte di appello di Ancona, cioè il 7 febbraio 2023, era già estinto per prescrizione. La sentenza impugnata - non richiedendo una tale pronunzia alcun accertamento in fatto ma emergendo l'avvenuta estinzione del reato e, di conseguenza, la sopravvenuta irrilevanza penale del fatto, sulla base di una mera attività di riscontro e non di valutazione dei dati risultanti agli atti - deve, pertanto, essere annullata senza rinvio limitatamente al reato commesso dall'imputato nell'inverno dell'anno 2010 in danno della figlia Le.Mi. per essere lo stesso estinto per prescrizione già alla data di pronunzia della sentenza impugnata e con rinvio alla Corte di appello di Perugia, limitatamente alla rideterminazione trattamento sanzionatorio ed al regolamento del regime delle spese di rappresentanza e difesa anche della presente fase di legittimità fra imputato e costituita parte civile. Nel resto, invece, il ricorso è inammissibile, di tal che la affermazione della penale responsabilità dell'imputato per gli episodi delittuosi non oggetto della dichiarata estinzione per prescrizione deve intendersi oramai definitiva. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al fatto contestato nell'inverno 2010, perché il reato è estinto per prescrizione. Rinvia alla Corte di appello di Perugia per la rideterminazione della pena. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto. Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere Dott. LIBERATI Giovanni - Consigliere Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ca.Gi., nato a R il (omissis), avverso la sentenza del 08/02/2023 della Corte di appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Luigi Cuomo, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; udito l'avvocato Fr.In., difensore di fiducia della parti civili, che si è associato alle conclusioni del Procuratore generale, chiedendo altresì la condanna dell'imputato al pagamento delle spese di giudizio; uditi gli avvocati Mi.Ma. e La.Ma., difensori di fiducia dell'imputato, i quali hanno insistito nell'accoglimento dei rispettivi ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa in data 25 giugno 2021, il Tribunale di Roma condannava Ca.Gi. alla pena di anni 6 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato continuato di cui all'art. 609 quater cod. pen., reato a lui contestato per avere commesso gli atti sessuali descritti nell'imputazione con la minore Ta.Mi., classe (omissis); fatti commessi in R in epoca compresa tra il gennaio 2017 e il maggio 2019. L'imputato veniva altresì condannato al risarcimento, da liquidare in separata sede, dei danni subiti dalle parti civili Ta.Ma. e Zu.Na. in proprio e quali genitori della vittima, con riconoscimento di una provvisionale pari a 20.000 Euro. Con sentenza dell'8 febbraio 2023, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, riconosciute le attenuanti generiche, riduceva la pena a 5 anni di reclusione, confermando nel resto. 2. Avverso la sentenza della Corte di appello capitolina, Ca.Gi., tramite i suoi difensori, ha proposto due distinti ricorsi per cassazione. 2.1. Con il ricorso a firma dell'avvocato Ma., sono stati sollevati quattro motivi. Con il primo, la difesa contesta sia la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale rispetto all'espletamento di una perizia psicologica sulla minore Ta.Mi., volta ad accertarne la credibilità clinica, sia la valutazione di attendibilità della persona offesa: si evidenzia in proposito che la Corte territoriale, al pari del primo giudice, ha omesso di considerare che la minore, per sua stessa ammissione, già in epoca antecedente ai fatti di causa, presentava dei tic nervosi e delle problematiche psicologiche di importanza tale da doversi recare da una psicologa, risultando tali disturbi riconducibili al rapporto della ragazzina con le figure genitoriali, oltre che all'essere stata ferita, a suo dire, da un precedente fidanzato, per cui sarebbe stato necessario un accertamento peritale per verificare la capacità di intendere e di volere della minore all'epoca dei fatti, tanto più in ragione della ferma proclamazione di innocenza dell'imputato e della presenza di due testimoni oculari (Va.Sa. e Ca.Cr.) che avevano smentito le accuse della Ta.Mi. La Corte di appello, oltre a travisare il contenuto delle prove, ad esempio con riferimento alle dichiarazioni della persona offesa circa il presunto strappo del cellulare da parte dell'imputato o in ordine al contenuto del messaggio che il figlio dell'imputato si sarebbe scambiato con Ir.Ma., avrebbe omesso di confrontarsi con i molteplici rilievi difensivi, con cui erano state segnalate le incongruenze del racconto della persona offesa, risultando in primo luogo ben poco credibile che i fatti denunciati si sarebbero verificati in un appartamento di meno di 60 mq., dove, oltre all'imputato e alla persona offesa, giravano liberamente anche la moglie e i due figli di Ca.Gi., essendo inverosimile che nessuno si sia accorto di nulla, anche perché le condotte dell'imputato, per come descritte dalla stessa Ta.Mi., non possono essere ritenute fugaci e furtive. Non sarebbe stato inoltre considerato il contenuto delle chat scambiate nel luglio 2018 dalla persona offesa, mentre era a casa dell'imputato, con Ir.Ma., il fratello gemello Em. e l'amica Vi.Mi., essendo significativo che in ore e ore di conversazioni la minore non abbia fatto alcun accenno ai presunti abusi che ella avrebbe subito dal ricorrente in quel contesto, ben potendo costituire una chiave di lettura della vicenda l'ira provata dalla Ta.Mi. per aver scoperto che Ir.Ma. di cui ella innamorata, si era fidanzato con la migliore amica di lei, Fi.Gi. avendo la minore esplicitato in tali conversazioni il bisogno di trovare un modo per catturare l'attenzione del ragazzo che amava, a ciò aggiungendosi che, anche nel corso della rinnovata audizione disposta nel giudizio di appello, la Ta.Mi. ha reso dichiarazioni fantasiose e menzognere. Con il secondo motivo, è stata eccepita la mancanza dell'ordine di traduzione dell'imputato detenuto agli arresti domiciliari da parte della Corte territoriale, avendo ciò inibito la partecipazione di Ca.Gi. al giudizio di appello. Con il terzo motivo, si contesta il giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche, riconosciute dalla Corte di appello, e l'aggravante prevista dall'art. 61 n. 5 cod. pen., che peraltro neppure era stata applicata dal Tribunale, risultando integrata sotto tale profilo la violazione del divieto di reformatio in peius. Con il quarto motivo, oggetto di doglianza, sotto il profilo del vizio di motivazione, è il mancato riconoscimento dell'attenuante a effetto speciale di cui all'art. 609 quater, comma 6, cod. pen., non avendo la Corte territoriale considerato la tenuità della compromissione della libertà sessuale della vittima. 2.2. Con il ricorso a firma dell'avvocato Ma., sono stati sollevati tre motivi. Con il primo, oggetto di doglianza è il mancato espletamento di una perizia psicologica volta ad accertare la capacità di rendere testimonianza della persona offesa, essendo stato attribuito valore solo alla consulenza della parte civile, mentre sarebbero state ignorate le valutazioni del consulente della difesa, prof. Ro.Pa., rispetto all'individuazione di elementi riconducibili a una personalità di tipo istrionico della Ta.Mi., censurandosi altresì la violazione dei protocolli di settore, con riferimento alla mancata registrazione audio-video delle prime rivelazioni della minore, all'omesso scandaglio dell'ipotesi alternativa (l'individuata personalità di tipo istrionico) e al mancato rispetto della garanzia del contraddittorio nell'accertamento da parte dei consulenti di parte civile. Con il secondo motivo, si contesta, sotto il profilo del vizio di motivazione, la conferma del giudizio di colpevolezza dell'imputato, avendo la Corte di appello indebitamente ritenuto irrilevanti, con motivazione apparente, alcune testimonianze di elevato spessore probatorio, come quelle di Va.Sa. e Ca.Cr., i quali hanno negato il verificarsi dei fatti denunciati dalla minore, di cui sono stati immotivatamente sminuiti i tentativi di catturare l'attenzione e le fantasie adolescenziali, come pure sarebbe rimasta priva di considerazione la circostanza secondo cui la Ta.Mi. aveva inviato messaggi nell'asserito momento di commissione degli abusi, in una location di pochi metri quadrati, con la contestuale presenza di altri soggetti che hanno reso dichiarazioni di tenore diverso, senza essere stati ritenuti falsi testimoni. Con il terzo motivo, infine, la difesa si duole sia della mancata esclusione dell'aggravante della minorata difesa, sia del giudizio di equivalenza della stessa con le attenuanti generiche, sia del mancato riconoscimento dell'attenuante della minore gravità, sia ancora delle statuizioni civili, che non sarebbero state oggetto di alcuna valida considerazione in termini logico-argomentativi. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono infondati. 1. Iniziando dalle censure, tra loro sovrapponibili, concernenti la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, se ne deve rimarcare l'infondatezza. In proposito, occorre infatti richiamare il principio più volte affermato da questa Corte (cfr. per tutte la sentenza delle Sezioni Unite n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266820), secondo cui la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti, essendo stato altresì precisato (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Rv. 259893) che il giudice di appello ha l'obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo. 1.1. Alla luce di tale premessa, deve escludersi che il mancato accoglimento delle sollecitazioni istruttorie difensive finalizzati all'espletamento di una perizia psicologica sulla persona offesa presenti criticità, dovendosi innanzitutto considerare che la Corte territoriale ha disposto la parziale rinnovazione dell'istruttoria, procedendo alla nuova audizione di Ta.Mi., ritenendo invece non indispensabile approfondire gli ulteriori temi indicati dalla difesa, in quanto irrilevanti sotto il profilo della credibilità della vittima, motivo per cui, ad esempio, non è stata ritenuta necessaria l'escussione della teste Ba.Cl. che avrebbe dovuto riferire su circostanze estranee ai fatti di causa. Quanto alla perizia psicologica richiesta dalla difesa, la Corte territoriale ha osservato che la minore, durante la sua escussione nel giudizio di appello, ha dato prova di linearità nell'esposizione e di un buon grado di maturità, a ciò aggiungendo che non poteva ritenersi rilevante la circostanza che la Ta.Mi., prima dei fatti di causa, sia stata in terapia da una psicologa, essendo stato pacificamente accertato che la terapia era stata intrapresa non in presenza di una condizione patologica, ma per fronteggiare dei "tic nervosi", verosimilmente riconducibili a un disagio momentaneo, non infrequente in età adolescenziale. In ogni caso, i giudici di secondo grado hanno richiamato e condiviso le osservazioni del Tribunale, che (pag. 3-4 della pronuncia di primo grado) aveva già diffusamente sottolineato la non decisività delle deduzioni del consulente della difesa, prof. Ro.Pa., in quanto fondate su mere congetture, non avendo del resto il prof. Ro.Pa. mai sottoposto la Ta.Mi. a colloquio o a test psicodiagnostici, a differenza dei consulenti della parte civile, prof. De.Si. e Matteo Milano, i quali hanno sottoposto la minore a colloqui clinici individuali, oltre che a specifici test (Rorschach, MPI, Bender, Tat, disegno della figura umana), pervenendo alla conclusione, coerente con il tenore delle dichiarazioni di Ta.Mi., che quest'ultima era pienamente in grado di comprendere e utilizzare il ragionamento, non avendo ella rivelato problemi di personalità. Dunque, anche tenuto conto del fatto, che, all'epoca dei fatti, la minore era sì giovanissima (13 anni), ma non proprio in tenera età, la decisione dei giudici di merito di non disporre perizia non può essere ritenuta illegittima, dovendosi in tal senso ribadire l'affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 8541 del 18/10/2017, dep. 2018, Rv. 272299 e Sez. 3, n. 38211 del 07/07/2011, Rv. 251381), secondo cui, in tema di violenza sessuale nei confronti di minori, il mancato espletamento della perizia in ordine alla capacità a testimoniare non determina l'inattendibilità della testimonianza della persona offesa, non essendo tale accertamento indispensabile ove, come nella vicenda in esame, non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità. Di qui l'infondatezza della doglianza difensiva. 2. Non meritevoli di accoglimento sono anche le censure in punto di responsabilità, suscettibili di trattazione unitaria, perché tra loro convergenti. Al riguardo deve premettersi che, come precisato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, Rv. 281647 - 04 e Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Rv. 270519), il principio dell' "oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità, come avvenuto nel caso di specie, sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello, giacché la Corte è chiamata a un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito. Ciò posto, deve osservarsi che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus motivazionale unitario, hanno operato un'attenta ricostruzione dei fatti di causa, partendo dalle dichiarazioni rese da Zu.Na., madre della persona offesa Ta.Mi.; dopo aver premesso che con la famiglia dell'imputato Ca.Gi. esistevano rapporti di frequentazione e amicizia da 8-9 anni, essendo stati i figli compagni di classe, la Zu.Na. ha riferito che, in occasione della Pasquetta del 2019, ella aveva accompagnato la figlia a casa di Ca.Gi., dove erano presenti l'imputato e i suoi due figli (non la moglie, impegnata ad assistere il padre morente) e dove Ta.Mi. avrebbe trascorso la notte. L'indomani mattina la Zu.Na. controllava, come era sua abitudine, le chat della figlia, di cui aveva l'account, e cosi scopriva che la stessa si era confidata con un suo amico, Ir.Ma. (compagno di classe anche di Ca.Cr. figlio dell'imputato), cui aveva confidato di avere paura di andare a casa di Ca.Gi. in quanto vi era qualcuno che la considerava una "scopamica", che lei non denunciava perché lo conosceva sin dalla nascita. Una volta tornata a casa, la Zu.Na. faceva presente a Ta.Mi. di aver letto le chat, al che la figlia scoppiò a piangere, confidando alla madre, dopo aver premesso di non averle mai detto nulla per vergogna e per paura di non essere creduta, che la sera prima, mentre stavano vedendo un film seduti sul divano, Ca.Gi. sotto la copertina, l'aveva toccata nelle parti intime, penetrandola con un dito, per poi prenderle la mano e masturbarsi con la stessa, chiedendole di guardandolo negli occhi, riprendendo la mano ogni volta che Ta.Mi. tentava di sottrarsi a contatto, senza che il figlio Ca.Cr., anch'egli seduto sul divano, si accorgesse di nulla. Quindi, messasi a letto nella camera dei ragazzi, alla sua richiesta del peluche, l'imputato la invitava ad andarlo a prendere nella sua camera, cosa che lei non fece temendo nuove molestie, mentre il giorno dopo Ca.Gi. importunava nuovamente la ragazzina, appoggiandosi su di lei, dicendole: "dai Mi., non ti preoccupare che tanto non te lo metto dentro". Aggiungeva la minore, nel confidarsi con la madre, che anche nell'estate prima, sempre in occasione di un pernottamento a casa del ricorrente, questi le aveva palpeggiato il sedere, dandole baci sul collo e prendendole la mano per toccarsi il pene, essendosi molestie di questo genere verificatesi anche in altre occasioni, sempre quando ella si trovava a casa di Ca.Gi. A seguito di tali rivelazioni, estese poi anche al padre di Ta.Mi. e arricchitesi nei giorni seguenti di nuovi particolari sugli abusi sessuali subiti, i genitori della minore, il 21 maggio 2019, decidevano di sporgere querela a carico dell'imputato. Tali fatti venivano poi ripetuti dalla Ta.Mi., in termini del tutto analoghi rispetto al racconto operato dalla minore alla madre e al padre, anche nel corso della sua successiva escussione in sede di incidente probatorio, avvenuta con l'ausilio di una psicologa e nel rispetto delle previste garanzie procedimentali. Nel corso della testimonianza, la Ta.Mi. riferiva, tra l'altro, che in un'occasione l'imputato, uscito dalla doccia con l'accappatoio, aveva fatto allontanare i figli dalla stanza e, approfittando di un attimo in cui era rimasto solo con la minore, l'aveva spinta contro un armadio e l'aveva baciata, mentre, un altro giorno, Ca.Gi. si era avvicinato al letto dove la ragazzina era distesa e iniziò a masturbarsi, guidando i piedi di Ta.Mi. sul suo organo genitale. 2.1. Orbene, la narrazione della minore è stata ragionevolmente ritenuta credibile dai giudici di merito, i quali, dopo averne rimarcato la piena capacità di testimoniare, hanno valorizzato la linearità e la precisione del racconto della Ta.Mi. che, come precisato dalla Corte di appello, ha reso, anche nella rinnovata escussione resa in secondo grado, dichiarazioni coerenti con quelle fornite nelle precedenti occasioni in cui è stata sentita, descrivendo i fatti con precisione e semplicità e senza enfasi, non infierendo mai contro Ca.Gi., non accusandolo di violenze e anzi ammettendo che gli atti sessuali avvenivano con la sua acquiescenza, atteggiamento questo tuttavia irrilevante, avendo ella all'epoca dei fatti meno di 14 anni (mentre l'imputato era ultracinquantenne). Nel confrontarsi con le obiezioni difensive, la Corte di appello ha poi posto l'accento sull'assenza di moventi calunniatori da parte della Ta.Mi. risultando per altro verso assai poco plausibile che costei abbia costruito un castello di accuse fantasiose per attirare l'attenzione su di sé o per far ingelosire un coetaneo, Ir.Ma., solo perché questi gli avrebbe preferito una sua amica, essendo rimasta congetturale la prospettazione difensiva, che peraltro la stessa Ta.Mi. ha respinto con forza, precisando che Ir.Ma. era solo un grande amico. Del resto, le dichiarazioni della Ta.Mi., già di per sé intrinsecamente lineari e credibili, hanno trovato significative conferme sia nel contenuto dei messaggi acquisiti, la cui lettura aveva peraltro allarmato subito la madre della ragazzina, facendo venire alla luce una vicenda che, diversamente, sarebbe rimasta verosimilmente nell'ombra, sia nelle deposizioni dei testi Ir.Ma., Fi.Gi. e Fr.Al., che hanno raccolto le confidenze di Ta.Mi. Quanto al fatto che nessuno dei familiari presenti in caso si fosse accorto delle molestie di Ca.Gi. è stato replicato nella sentenza impugnata che ciò non esclude la credibilità della persona offesa, essendosi in presenza di condotte fugaci e furtive che ben potevano essere commesse nei brevi e momenti di assenza o di distrazione dei congiunti dell'imputato, il quale peraltro agiva con cautela, mentre la vittima non ha mai opposto reazioni plateali ai gesti subiti, il che spiega perché i testi della difesa hanno riferito di non essersi accorti di nulla. Né va sottaciuto che le dichiarazioni di Ca.Cr., che ha preso le difese del padre, si sono poste in contraddizione con gli scambi di messaggi avuti dal giovane con Ir.Ma., il quale, ricevute le confidenze di Ta.Mi., aveva scritto al comune amico Ca.Cr., raccomandandogli di non lasciare Ta.Mi. da sola con il padre, ricevendo risposta affermativa da parte del figlio dell'imputato. 2.2. In definitiva, in quanto sorretta da argomentazioni razionali e coerenti con le fonti dimostrative acquisite, correttamente intese nel loro significato reale senza alcuna forzatura interpretativa, la valutazione di attendibilità della persona offesa compiuta dai giudici di merito resiste alle censure difensive, con le quali si sollecita sostanzialmente una differente (e invero parziale) lettura delle acquisizioni probatorie, operazione questa non consentita in sede di legittimità, dovendosi richiamare in proposito la consolidata affermazione della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. Di qui l'infondatezza delle doglianze in punto di responsabilità. 3. Alla medesima conclusione deve pervenirsi rispetto alle doglianze, anch'esse sovrapponibili, riguardanti il mancato riconoscimento dell'attenuante speciale di cui all'art. 609 quater, comma 6, cod. pen. E invero, in senso ostativo alla configurabilità dell'ipotesi di minore gravità rispetto ai fatti contestati, il Tribunale (pag. 22 della decisione di primo grado) e la Corte di appello (pag. 12-13 della sentenza impugnata) hanno ragionevolmente valorizzato, nell'ambito di una valutazione complessiva della vicenda, l'età della minore (che non aveva compiuto 14 anni), la re iterazione delle condotte e la strumentalizzazione della relazione di amicizia esistente tra vittima e imputato, profili questi idonei a compromettere in maniera non lieve la libertà sessuale della minore e a pregiudicarne il sereno sviluppo psico-fisico. Ciò posto, deve ritenersi che la mancata applicazione dell'attenuante di cui all'art. 609 quater, comma 6, cod. pen. sia immune da censure, essendosi posti i giudici di merito in piena sintonia con la consolidata affermazione di questa Sezione (cfr. ex multis Sez. 3, n. 8735 del 24/11/2022, dep. 2023, Rv. 284203), secondo cui, in tema di atti sessuali con minorenne, ai fini del riconoscimento dell'attenuante di minore gravità, è necessaria una valutazione globale del fatto in cui assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima e le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre, ai fini del suo diniego, è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità. 4. Infondata, perché priva di alcun riscontro negli atti processuali, è anche la doglianza concernente l'asserita mancata traduzione dell'imputato, detenuto agli arresti domiciliari, nel corso del giudizio di appello, che peraltro è stato definito all'udienza dell'8 febbraio 2023, nella quale Ca.Gi. è risultato presente. 5. Residuano le censure in punto di trattamento sanzionatorio. Deve premettersi al riguardo che, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso a firma dell'avvocato Ma. (terzo motivo, pag. 14), l'aggravante ex art. 61 n. 5 cod. pen. è stata riconosciuta e applicata dal Tribunale che, invero in modo pertinente (pag. 22 della sentenza di primo grado), ha sottolineato, con valutazione ripresa e condivisa anche dalla Corte territoriale, come l'imputato abbia approfittato di circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la difesa della persona offesa minorenne, facendo leva sia sul rapporto amicale preesistente e sia sul fatto che le molestie sono state compiute nel contesto domestico di Ca.Gi., nel quale si trovavano anche i familiari dell'imputato. Tale impostazione, a differenza di quanto sostenuto nel terzo motivo del ricorso a firma dell'avvocato Ma., appare immune da censure, in quanto coerente con la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 38785 del 23/06/2015, Rv. 264791), secondo cui, in tema di violenza sessuale in danno di minori (ma lo stesso discorso vale anche per la fattispecie di cui all'art. 609 quater cod. pen.), sussiste la circostanza aggravante della minorata difesa in tutti i casi in cui, come quello in esame, le particolari modalità dell'azione, connesse a situazioni oggettive o soggettive, consentano di approfittare della condizione di fragilità della vittima, a prescindere dalla minore età in quanto tale. Ciò posto, il primo giudice aveva tenuto conto dell'aggravante in esame, fissando per essa l'aumento di 1 anno di reclusione sulla pena base di 5 anni individuata per il reato di cui all'art. 609 quater cod. pen., per cui deve senz'altro escludersi che, nel concedere le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante della minorata difesa, la Corte di appello abbia violato il divieto di reformatio in peius, atteso che tale aggravante, lo si ribadisce, era stata applicata dal Tribunale. Né il giudizio di bilanciamento delle circostanze operato dai giudici di appello appare censurabile, atteso che l'assenza di prevaricazione e violenza della condotta e la condizione di incensurato dell'imputato sono state già apprezzate dalla Corte territoriale ai fini della concessione delle attenuanti, che erano state negate dal primo giudice, mentre non sono stati rappresentati elementi che avrebbero giustificato la prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante contestata, fermo restando che il giudizio di equivalenza ha comunque consentito la mitigazione del trattamento sanzionatorio inflitto all'imputato, essendo stato eliminato l'aumento di pena di 1 anno fissato dal Tribunale. Anche in tal caso, non vi è quindi spazio per accogliere le obiezioni difensive, e ciò anche rispetto alle statuizioni civili, dovendosi considerare sul punto che la liquidazione definitiva è stata comunque rimessa alla sede civile, mentre l'importo della provvisionale è stato giustificato, in maniera non illogica, avuto riguardo alla reiterazione delle molestie e alle ripercussioni subite dalla minore. 6. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, i ricorsi proposti nell'interesse di Ca.Gi. devono essere rigettati, con onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento e di provvedere alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento, ai sensi degli art. 82 e 83 del D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli art. 82 e 83 D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso il 13 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere Dott. LIBERATI Giovanni - Consigliere Dott. MENGONI Luca - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Pa.Sa., nato a G il (Omissis), avverso la sentenza del 24-01-2023 della Corte di appello di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Luigi Cuomo, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; letta la memoria di replica trasmessa dall'avvocato Se.Ca., difensore di fiducia dell'imputato, che ha insistito nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 24 gennaio 2023, la Corte di appello di Bari confermava la decisione del 16 febbraio 2017, con la quale il Tribunale di Bari aveva condannato Pa.Sa. alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole, riconosciuta l'attenuante della minore gravità, del reato di cui all'art. 609 bis cod. pen., reato a lui contestato per aver costretto la sua dipendente Gr.Fr.. all'interno del luogo di lavoro, a subire atti sessuali, agendo in modo repentino e insidioso, avvicinandosi improvvisamente alle sue spalle, abbracciandola, vincendone la resistenza, baciandola sul collo ed effettuando plurimi toccamenti sul seno, all'altezza dei glutei e sulle parti intime, contemporaneamente accarezzandola e proferendo l'espressione "dai andiamo nel bagno e fammi sentire la tua carne"; fatto commesso in G in data anteriore e prossima al (Omissis). 2. Avverso la sentenza della Corte di appello pugliese, Pa.Sa., tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con il quale la difesa contesta, sotto il profilo del vizio di motivazione, la valutazione di credibilità della persona offesa, premettendo che l'imputato era stato tratto a giudizio per un altro episodio risalente al (Omissis) e relativo a un'altra dipendente della pizzeria da lui gestita, tale Fo.Pa., cui peraltro l'attuale persona offesa è risultata legata da vincoli di amicizia, essendo stato Pa.Sa. in quell'occasione condannato dagli stessi giudici che poi sono stati chiamati a occuparsi di questo ulteriore episodio oggetto di causa. Ciò posto, si evidenzia che la Corte territoriale avrebbe mancato di confrontarsi con le doglianze contenute nell'atto di appello, nel quale era stata rimarcata l'incongruenza della persona offesa, che, la sera del fatto, tornò a lavorare in pizzeria, salvo poi sporgere formale querela il 3 ottobre 2012, dopo aver informato dell'accaduto il figlio del ricorrente e dopo che l'imputato si recò a casa di lei, non corrispondendo al vero che in tale occasione Pa.Sa. minacciò la donna di ritirare la denuncia, posto che in quel momento alcuna denuncia vi era stata, fermo restando che nella successiva querela non si parla di minacce. Peraltro, se è pacifico che vi fu un solo episodio in cui l'imputato ebbe a recarsi a casa della persona offesa, prima ancora che costei sporgesse querela, è evidente che risultano inattendibili le dichiarazioni della Gr.Fr.. quando afferma di essere stata minacciata da Pa.Sa. perché ritirasse la querela, presupponendo ciò un ulteriore incontro con l'imputato, di cui la denunciante non ha mai parlato. Risulta solo che il ricorrente si rivolse a un altro suo dipendente, Ca.Sa., perché la persona offesa rimettesse la querela, ma non per i fatti di violenza denunciati dalla donna, ma solo perché egli era consapevole di aver ingiuriato la Gr.Fr.. per cui era convinto che a ciò fosse riferita la denuncia. 2.1. Con memoria trasmessa il 29 novembre 2023, il difensore dell'imputato, nel replicare alla requisitoria del Procuratore generale, ha insistito nell'accoglimento del ricorso, ribadendone le argomentazioni. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato. 1. A differenza di quanto dedotto nel ricorso, la valutazione di attendibilità della persona offesa e la conseguente affermazione della penale responsabilità dell'imputato non presentano vizi di legittimità rilevabili in questa sede. Deve premettersi al riguardo che sia il Tribunale che la Corte di appello, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente per formare un apparato motivazionale unitario, hanno innanzitutto operato un'adeguata ricostruzione dei fatti di causa, valorizzando le dichiarazioni dibattimentali rese da Gr.Fr.; costei, dopo aver premesso di aver lavorato nella pizzeria gestita dall'imputato Pa.Sa., ha raccontato l'episodio cristallizzato nell'imputazione, avvenuto la mattina di un giorno di fine settembre (o il 25 o il 26) del 2013. Ha riferito la donna che, mentre era impegnata nelle pulizie del locale, il ricorrente le si avvinò e, dopo averla bloccata vicino al bancone, cominciò a toccarla in varie parti del corpo, tra cui le gambe e il seno. La Gr.Fr. rimase ferma, sia perché impaurita, sia perché immobilizzata materialmente da Pa.Sa., il quale cercò di trascinarla in bagno, dicendole: "vieni in bagno...fammi sentire l'odore della tua carne"; la donna cercò quindi di divincolarsi e, dopo essere stata rincorsa dall'imputato, iniziò a urlare, minacciando di chiedere aiuto se non avesse smesso, al che Pa.Sa. si allontanò. Nei giorni successivi la Gr.Fr. tornò a lavorare in pizzeria, sia perché immaginava che si fosse trattato di un fatto occasionale, sia perché, avendo un figlio undicenne, aveva bisogno di uno stipendio; tuttavia, la sera stessa, Pa.Sa. le chiese di accompagnarlo in bagno per applicargli una crema sul collo. Di tali comportamenti, la donna parlò quindi con il figlio dell'imputato, Mi., contattandolo tramite facebook, decidendo poi di querelare Pa.Sa.. Questi la chiamò quindi insistentemente sul telefono e un giorno la raggiunse a casa, apostrofandola con epiteti volgari e minacciandola che, se non avesse ritirato la querela, le avrebbe ucciso il figlio, anche se in seguito, invitata la sua dipendente in pizzeria, l'imputato le chiese scusa, promettendole che le avrebbe pagato i danni. La Gr.Fr. accettò quindi le scuse ma rifiutò il risarcimento, poiché il suo obiettivo era che Pa.Sa. smettesse di importunare le dipendenti, avendo peraltro ella saputo che l'imputato era stato già denunciato in passato per gli stessi fatti da una cameriera. La persona offesa ha precisato di aver poi rimesso la querela, circostanza questa processualmente irrilevante in questa sede. 1.1. Orbene, all'esito di una disamina esauriente e razionale dell'intero compendio probatorio, la narrazione della Gr.Fr. è stata ragionevolmente ritenuta credibile dai giudici di merito, i quali ne hanno rimarcato la linearità e la coerenza, sottolineando altresì l'assenza di finalità speculative nella condotta della persona offesa, che non si è costituita parte civile e che ha descritto l'episodio di cui è rimasta vittima senza incorrere in gratuite enfatizzazioni. Il racconto della Gr.Fr. è risultato quindi genuino e sufficientemente preciso, avendo riguardato talune incertezze della sua ricostruzione aspetti non decisivi della vicenda, come l'esatta collocazione temporale dell'episodio, fatto risalire comunque a "due o tre giorni" prima della festa di San Michele (29 settembre). Né è stato ritenuto sorprendente l'atteggiamento di riservatezza assunto alla Gr.Fr. dopo i fatti, in ragione delle inevitabili ripercussioni che un episodio del genere avrebbe avuto per una giovane madre in un paese non molto grande. Il già esauriente quadro probatorio delineatosi a carico dell'imputato è stato inoltre ulteriormente corroborato dal fatto che nelle more è divenuta irrevocabile la condanna di Pa.Sa. per un fatto analogo commesso in danno di altra dipendente della pizzeria, la quale peraltro aveva messo in guardia la Gr.Fr. che tuttavia aveva accettato comunque di lavorare presso il locale gestito dall'imputato perché ne aveva la necessità, ponendosi il precedente accertamento giurisdizionale (la cui legittimità non appare inficiata dalle illazioni sollevate nel ricorso circa una sorta di pregiudizio da parte del Collegio giudicante) come una ulteriore conferma della credibilità della denunciante. 1.2. In definitiva, in quanto ancorato a considerazioni coerenti con le acquisizioni probatorie e scevre da profili di illogicità, il giudizio di attendibilità della persona offesa compiuto nelle due conformi sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive, che si articolano nella sostanziale proposta di una lettura alternativa del materiale istruttorio, operazione che però non è consentita in questa sede, dovendosi ribadire (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482) che, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di aspetti di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. Di qui l'inammissibilità delle doglianze in punto di responsabilità. 2. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte e in sintonia con le conclusioni del Procuratore generale, il ricorso proposto nell'interesse di Pa.Sa. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Considerato infine che, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si dispone che il ricorrente versi la somma, fissata in via equitativa, di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 13 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. DI STASI Antonella - Relatore Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere Dott. REYNAUD Gianni Filippo - Consigliere Dott. MAGRO Maria Beatrice - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Na.Cl. nato a A il (Omissis) avverso la sentenza del 19/01/2023 della CORTE APPELLO di VENEZIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARIA BEATRICE MAGRO; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIANLUIGI PRATOLA che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Na.Cl. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale la Corte di appello di Venezia, in conferma di quella emessa dal giudice di primo grado, ha condannato l'imputato per il reato di cui all'art. 609 bis, 609 ter, comma primo, nn. 5 e 5 quater, 61, n. 5, cod. pen., per aver costretto la nipote Na.El. (nata nel (Omissis)) a subire atti sessuali abusando della qualità di zio paterno, nel 2019, quando la persona offesa era minore di anni diciotto. 2. Il ricorrente, con unico motivo di ricorso, deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla concessione della sospensione condizionale della pena, ai sensi dell'art. 165 cod. pen., che è stata concessa subordinatamente alla partecipazione dell'imputato ad un percorso terapeutico per alcoolisti, posto che il reato contestato si è realizzato in stato di ubriachezza. Il ricorrente rappresenta, tuttavia, di aver prodotto in giudizio documentazione sanitaria, rilasciata dal competente Servizio territoriale, cui egli aveva fatto esplicita richiesta di sostenere un percorso terapeutico dalla quale emerge che l'imputato non necessitava di alcun percorso terapeutico, in quanto assuntore occasionale di sostanze alcooliche. Lamenta quindi l'illogicità della motivazione, posto che tale documentazione, allegata al ricorso, non è stata esaminata dai giudici a quibus, che hanno subordinato il beneficio all'espletamento di tale percorso terapeutico, malgrado l'imputato non ne necessiti. La Corte territoriale, con motivazione illogica ed erronea, nel confermare il provvedimento impugnato, ha fatto richiamo a tre condanne per reati assai diversi da quello in contestazione, l'ultima risalente al 2005, e ha richiamato impropriamente il termine di tre mesi, indicato dal primo giudice quale dies a quo di decorrenza dell'obbligo, e non quale termine di durata del percorso terapeutico. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è manifestamente infondato. L'art. 165, comma 5, cod. pen., nel testo vigente all'epoca dei fatti in contestazione, stabilisce che: "Nei casi di condanna per il delitto previsto dall'articolo 575, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis, nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati". La suddetta disposizione introduce una condizione necessaria ed obbligatoria per la concessione del beneficio nel caso di condanna di reati di "violenza domestica e di genere". Con riguardo alla doglianza mossa dal ricorrente, si osserva che il giudice di primo grado ha disposto la sospensione della pena subordinando il beneficio, ai sensi del comma quinto dell'art. 165 cod. pen., alla partecipazione a un percorso di recupero presso un ente o un'associazione di assistenza psicologica o di recupero, senza fare alcun cenno ad un percorso di recupero per alcoolisti né alla condizione di alcoolista del ricorrente. Peraltro, il giudice di primo grado non ha neppure aderito alla tesi difensiva, secondo la quale l'imputato era incorso in error in personam, avendo creduto di porre in essere gli atti sessuali nei confronti della moglie, a causa di un'abbondante, ma occasionale, bevuta. La Corte territoriale, nella sintesi dei motivi di appello, ha richiamato il gravame relativo al trattamento sanzionatorio e alla richiesta di concessione del beneficio della sospensione condizionale, con esclusione della partecipazione a un percorso di recupero, senza far alcun cenno alla certificazione prodotta, in quanto non pertinente, considerato che il beneficio non risulta affatto subordinato alla partecipazione di un percorso per alcoolisti. D'altronde, come detto, la partecipazione ad un percorso di recupero psicologico costituisce, comunque, una condizione obbligatoria per l'accesso al suddetto beneficio. Il giudice a quo, quindi condivisibilmente, ha enunciato le ragioni del rigetto delle doglianze, richiamando i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. in ordine alla doglianza relativa al trattamento sanzionatorio, e confermando la concessione del beneficio, subordinatamente alla partecipazione ad un percorso di recupero. 3. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell'inammissibilità consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro tremila, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma il 9 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE Sezione Penale Il Tribunale di Nocera Inferiore - in composizione monocratica - e nella persona del Giudice dott. Federico Noschese, alla pubblica udienza del 4 aprile 2024 con l'intervento del Pubblico Ministero Dott.ssa Giancarla D'Urso (V.P.O) e con l'assistenza del Cancelliere Dott. Massimo Vigilante, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura in udienza, la seguente SENTENZA Nei confronti di: An.Vi. n. a M. S. S. il (...), ivi residente in Via M. n. 10/a, libero assente; difeso di fiducia dall' Avv. Sa.Ia., presente; IMPUTATO Vedi foglio allegato. Con la costituzione della Parte Civile: Ca.Ge., n. l'(...) a Nocera Inferiore, rappresentato e assistito dall'Avv. Ca.Gu., presente; IMPUTATO a) del delitto p. e p. dagli art. 582 - 585 c.p., perché, aggrediva la persona offesa, Ca.Ge., dapprima verbalmente e poi, brandendo un bastone la colpiva al volto, alla spalla dx e gamba sx, con prognosi di 7 giorni. Con l'aggravante di aver commesso il fatto con armi. In Mercato San Severino il 19/10/2018. b) del delitto p. e p. dall'art. 635 c.p., perché, con violenza, nella circostanza di cui al precedente capo, danneggiava l'autovettura esposta al pubblico della persona offesa, Ca.Ge., provocando la rottura del finestrino posteriore sx. In Mercato San Severino il 19/10/2018. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di giudizio immediato, emesso dal G.i.p. in sede in data 15.10.2019, An.Vi. veniva tratto innanzi a questo Tribunale per rispondere dei reati di cui alla formale imputazione, da intendersi qui richiamata. Alla prima udienza del 14.06.2019 la trattazione era rinviata per difetto di notifica del decreto introduttivo del giudizio all'imputato. Nella sessione del 10.01.2020, dichiarata l'assenza dell'imputato, ritualmente avvisato a mani proprie e non comparso senza cause note di impedimento, si costituiva Parte Civile Ca.Ge.. Il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento e, ammesse le prove richieste dalle parti, tra cui i referti del P.S. dell'Ospedale di Mercato San Severino, rinviava per l'audizione della persona offesa. All'assise del 02.07.2020 la trattazione era rinviata per assenza dei testi. Per lo stesso motivo veniva differita la seduta prevista per il 25.02.2021. La sessione del 16.09.2021 era differita per anomala composizione del Tribunale monocratico. All'assise del 17.02.2022 il processo era rinviato per assenza della persona offesa. Analogo motivo comportava il differimento della sessione del 21.07.2022, in cui si disponeva l'accompagnamento coattivo della persona offesa. All'udienza del 02.03.2023 veniva finalmente escusso Ca.Ge., e si acquisiva la documentazione fotografica prodotta dalle parti. Il P.M. chiedeva la correzione della data di commissione dei delitti ascritti indicando il 19.10.2017. Nella seduta del 22.06.2023, assente l'imputato che non si sottoponeva all'esame richiesto dalle parti, la Difesa rinunciava all'audizione del teste D.R.M.. All'assise del 30.11.2023 veniva escusso il teste della Difesa A.M., figlia dell'imputato, previamente avvisata ai sensi dell'art. 199 c.p.p.. La seduta del 14.03.2024 veniva rinviata per adesione del difensore all'astensione proclamata dall'Unione Camere Penali, con sospensione dei termini di prescrizione per giorni 21. Nell'ultima udienza del 04.04.2024, acquisita la documentazione sanitaria prodotta dalla Difesa, si dava lettura, mediante indicazione ex art. 511 co. 5 c.p.p., degli atti confluiti nel fascicolo del dibattimento; seguiva la discussione e le parti rassegnavano le conclusioni riportate in epigrafe. Il Tribunale, all'esito della deliberazione in camera di consiglio, pronunciava la seguente sentenza, pubblicata mediante lettura del dispositivo e delle contestuali motivazioni in udienza. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. L'editto accusatorio ascrive ad An.Vi. i delitti p. e p. dagli artt. 582 - 585 - 635 c.p., perché, in data 19.10.2017, avrebbe aggredito Ca.Ge., dapprima verbalmente e poi, brandendo un bastone, colpendolo al volto, alla spalla destra e alla gamba sinistra, così da cagionargli lesioni con prognosi di guarigione in gg 7; inoltre, con violenza, avrebbe danneggiato l'autovettura esposta al pubblico della persona offesa, provocando la rottura del finestrino posteriore sinistro. I risultati dell'istruzione dibattimentale non consentono di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio contrario, la responsabilità dell'imputato per quanto ascrittogli, stagliandosi innanzi al Tribunale un quadro probatorio contraddittorio e scarsamente affidabile. L'unico teste a carico indicato dall'Accusa è stato Ca.Ge., e la valutazione della sua deposizione, secondo i noti e più rigorosi criteri che si impongono per le dichiarazioni della persona offesa, non conduce ad esiti rassicuranti. Si ricorda, in proposito, il consolidato insegnamento secondo cui "le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone" (cfr., tra le tante, Cass. pen., Sez. 4, sent. n. 1666 del 14.01.2015). È altrettanto pacifico che alle dichiarazioni rese dalla persona offesa non debbano applicarsi i criteri valutativi di cui all'art. 192 comma 3 c.p.p., potendosi il giudice limitare ad un controllo, sebbene più stringente, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del narrato (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. 3, sent. n. 4358 del 03.02.2016). Tuttavia, deve essere rimarcato che "la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all' art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi" (cfr. Cass. pen., Sez. 5, sentenza n. 12920/2020). Nel caso di specie, sono emersi plurimi interessi capaci di inquinare la posizione del Ca., nonché circostanze che legittimano il sospetto sulla sua credibilità soggettiva, a cominciare dalla ripetuta assenza dal processo, al punto che, nonostante la sua costituzione come Parte Civile, si è dovuto ricorrere all'accompagnamento coattivo per avere la sua deposizione. Tale atteggiamento si salda con la i tempi della querela, presentata non nell'immediatezza dei fatti, ma appena prima della scadenza del termine di tre mesi fissato dall'art. 124 c.p. (i fatti sarebbero avvenuti il 19.10.2017, e la querela è stata presentata solo in data 19.01.2018). Ad acuire le perplessità sono le giustificazioni date dal Ca. per spiegare il ritardo: AVVOCATO DIF. IANNONE - Quindi praticamente a distanza di tre mesi, come mai questo lasso di tempo? TESTE Ca.Ge. - Semplicemente c 'erano tutte le condizioni per denunciare ancora e quindi... ho riflettuto abbastanza perché non volevo assolutamente... volevo far lasciare la cosa così come andava, però poi mi sono risentito e quindi l'ho fatto (cfr. verbale stenotipico del 02.03.2023). E' difficile credere ad un risentimento maturato nell'arco di tre mesi quando, a detta della vittima, la prima reazione, sarebbe stata quella di lasciar correre, soprattutto poiché, nell'arco temporale successivo al 19.10.2017 non vi sono stati ulteriori litigi con l'A. (AVVOCATO DIF. IANNONE - È successo qualche altra... GIUDICE - ...lei ha più avuto litigi, problemi con il signor An.Vi.? TESTE Ca.Ge. - No, no, no.). Troppo romantica è poi l'asserzione di aver cercato una riappacificazione incrociando "lo sguardo" dell'imputato, senza tuttavia mai tentare un'interlocuzione, nonostante i rapporti di conoscenza pregressa, anche con le figlie (TESTE Ca.Ge. - No, però comunque io cercavo di... ecco, ho deciso tra me e me di far calmare un attimo primo le acque in modo tale per incontrarlo e cercare di venire ad un capo pacificamente, tranquillamente, visto i rapporti che c 'erano prima, senza nessun problema, però mi fuggiva sempre, era sempre... Infatti, poi, dopo un periodo di tempo lui non è venuto più ad accudire questi gattini. GIUDICE - Che significa le fuggiva sempre? TESTE Ca.Ge. - Che, quando, anche con la macchina, ci siamo incrociati, non mi guardava, non... GIUDICE - E lei ha provato a contattarlo direttamente, in altro modo? TESTE Ca.Ge. - No, le dico la verità, no, no. GIUDICE-No. TESTE Ca.Ge. - No, cercavo, diciamo, un appiglio, anche visivo, in modo tale che si poteva intraprendere una discussione amicale. GIUDICE - Quindi, non trovando questo appiglio, poi, ha presentato la querela tre mesi dopo.). Più credibile è la prima parte della risposta, collegata al sopraggiungere di condizioni favorevoli alla querela che il propalante non ha spiegato e che inducono a dubitare della genuinità del ricorso all'A.G.. Il Ca. ha poi taciuto di controversie economiche con la seconda figlia dell'imputato, A.M., che vantava crediti per prestazioni professionali nei confronti della società F. da lui amministrata; crediti da cui era sorta una controversia civile, conclusasi con una transazione (cfr. verbale stenotipico del 30.11.2023). Ancora più ambigua, e ai limiti dell'illogico, è la negazione di qualsivoglia movente da parte dell'imputato, il quale, stando alla versione del Ca., lo avrebbe aggredito all'improvviso senza alcuna ragione nonostante rapporti cordiali intrattenuti per anni (cfr. verbale stenotipico del 02.03.2023: GIUDICE - Senta, e durante questi colloqui che lei ha avuto con il signor A. prima del fatto, di cosa avete parlato? TESTE Ca.Ge. - Ma in generale di tutto, cose... come quando una persona si saluta cordialmente, amichevolmente e si parla di varie cose, di tante cose. GIUDICE - Senta, e lei non si è sorpreso che da questi rapporti amichevoli un giorno, all'improvviso, lei viene aggredito? TESTE Ca.Ge. - Appunto, perciò mi sono... dopo tanto tempo ho esposto denuncia e non subito. GIUDICE- Ma lei ha chiesto spiegazioni al signor An.Vi.? TESTE Ca.Ge. - No. GIUDICE - Non le ha chieste. TESTE Ca.Ge.- No.). Compulsato dalle domande, la vittima ha provato a dare una spiegazione al comportamento dell'A., cadendo pero in un'ulteriore incoerenza: ha affermato che il motivo poteva essere legato al fatto che la prima figlia dell'imputato, di professione insegnante, aveva interrotto il rapporto lavorativo con la società da lui amministrata; questo però stride platealmente con la genesi della scelta che, secondo il Ca., sarebbe stata presa autonomamente dalla A. e senza ritorsioni da parte sua; anzi, i rapporti a suo dire erano rimasti "eccellenti" (cfr. verbale stenotipico del 02.03.2023: GIUDICE - Mai. Senta, e lei si è chiesto il motivo di questa aggressione? TESTE G, Ca. - Nel mio cuore sì. GIUDICE - E quale risposta si è dato? TESTE Ca.Ge. - All'epoca, quando la figlia lavorava con me, poi, lei ha deciso di lasciarmi, cioè dal punto di vista lavorativo, me ne sono un po' risentito perché dicevo: "Non so per quale motivo stai facendo una cosa del genere", però lei, in modo confidenziale, mi ha esposto che aveva purtroppo avuto dei problemi con il marito, causa di divorzio, e quindi non se la sentiva più ad affrontare una vita scolastica. Allora mi sono... io ho detto così: "Ma queste cose non vanno con quella, c 'è un percorso che ci siamo prefissati che dobbiamo portare a termine, non mi puoi lasciare così", però devo dare atto che mi ha dato un mese di tempo per riorganizzarmi e per restituirla. E, non lo so, penso che questo sia stato il cavillo che ha fatto... però è una mia... GIUDICE - Però, mi scusi, mi faccia capire, la signora A. sceglie lei di andare via dalla sua struttura. TESTE Ca.Ge. - Chiedo scusa, la signora A.? GIUDICE - È stata lei a scegliere di andarsene dal suo ente. TESTE Ca.Ge. - Sì, dopo che è terminato l'anno scolastico, dopo che è terminato tutto. GIUDICE - E perché il padre avrebbe dovuto prendersela con lei? TESTE Ca.Ge. - Non glielo so dire. GIUDICE - Non lo sa dire. Lei non sa il motivo per cui è stato aggredito. Ma lei che rapporti aveva con la figlia del signor A.? TESTE Ca.Ge. - Eccellenti. GIUDICE - Eccellenti. Mai avuto un diverbio? Nulla' TESTE Ca.Ge. - Mai, anzi mi aiutava... GIUDICE - Senta, ma la figlia del signor A. percepiva uno stipendio da lei? TESTE Ca.Ge. - Certo. GIUDICE - Lei ha sempre pagato lo stipendio? TESTE Ca.Ge.- Sì.). Per questo, sorprende ancor di più che il Ca. non abbia provato, dopo l'accaduto, a chiedere spiegazioni alla figlia dell'A., apparendo anomala l'asserita riserva nella sua sfera emotiva (GIUDICE - Aveva il numero di cellulare di questa persona, della figlia di An.Vi.? TESTE Ca.Ge. - Certo, perché avevamo rapporti lavorativi. GIUDICE - Ha pensato di chiamarla ver chiederle spiegazioni di quello che era successo? TESTE Ca.Ge. - Nel mio cuore sì, GIUDICE - E perché... ha chiamato, poi? TESTE Ca.Ge. -No.). Anche il racconto della dinamica aggressiva non è scevro da contraddizioni e incoerenze: il Ca. ha dichiarato che l'A., dopo averlo ingiuriato con vari epiteti ("stronzo di merda, ubriaco, ludopatico"), si era avvicinato alla sua vettura e lo aveva colpito con uno schiaffo al volto quando si trovava ancora all'interno dell'abitacolo; dopo essere sceso a chiedere spiegazioni, l'imputato aveva afferrato un bastone che aveva nella sua auto, e lo aveva colpito alla spalla destra e alla gamba sinistra, danneggiando infine il finestrino posteriore del veicolo. È importante notare che, in prima battuta, la vittima ha riferito di essere stato colpito in parti opposte a quelle descritte in querela, e solo a seguito di contestazione del P.M. ha ricomposto il contrasto: TESTE Ca.Ge. - Sì, mi ha detto ubriaco, pezzo di merda, "Sei un alcolizzato", "Sei un fallito", "Tu non sei... sei un ludopatico", comunque, a quel punto, ho abbassato il finestrino, ma senza nessun motivo, senza nessuna... ho abbassato il finestrino della macchina per capire, per capire, perché ce l'avevo un po' sospeso, per capire meglio e, a un certo punto, mi ha colpito al volto. Dopodiché io sono sceso per cercare di riuscire un attimo a capire e con una mazza di scopa, che lui c 'aveva all'interno della macchina, prima mi ha fatto... cioè prima mi ha colpito al piede destro, così, poi, alla spalla sinistra, per ripararmi così dall'aggressione. P.M. - L'ha colpita da qualche altra parte del suo corpo? TESTE Ca.Ge. - Come dicevo prima, al volto, mentre stavo in macchina, alla gamba destra e alla spalla sinistra, qua, ma semplicemente ver difendermi, nient'altro... P.M. - Un attimo, va bene che c'è un referto, lei dopo è andato in ospedale, giusto? TESTE Ca.Ge. - Sì, dopodiché... cioè dopo... P.M. - Un attimo, le volevo fare questa contestazione così ci precisa. TESTE Ca.Ge. - Certo. P.M. - ...perché lei, quando ha presentato questa querela, ha detto: "In particolare, l'A. mi colpiva al volto, alla spalla destra e alla gamba sinistra", è così? TESTE Ca.Ge.- Sì. GIUDICE - Lei prima ha detto il contrario, spalla sinistra e gamba destra. Il Pubblico Ministero ha detto... TESTE Ca.Ge. - Allora mi sono imbrogliato, chiedo scusa. Poco convincente è l'affermazione di aver richiesto l'ausilio delle FF.OO., del cui intervento non vi è alcun riscontro, e di cui, stranamente, il Ca. non ricordava l'eventuale arrivo (AVVOCATO DIF. IANNONE - Va bene, okay. Quando lei ha chiamato i Carabinieri, i Carabinieri sono intervenuti? Sono venuti, poi, sul posto? TESTE Ca.Ge. - Allora, non ricordo bene perché, poi, preso da tutte queste cose, però, se non erro, è passata una volante, è passata una pattuglia, però non ricordo bene perché poi... AVVOCATO DIF. IANNONE -E da dove è passata questa pattuglia? TESTE Ca.Ge. - Chiedo scusa, non ricordo bene perché semplicemente, poi... ero talmente afflitto, talmente amareggiato che mi sono prima un po' calmato dentro la mia struttura e, poi, sono andato in ospedale, quindi le direi una bugia se le dovessi dire...). Appare alquanto singolare che la vittima, a suo dire mai destinataria di precedenti aggressioni, non abbia atteso l'arrivo dei CC dopo averli chiamati, e che non ricordasse neppure se fossero davvero intervenuti. 2. La versione della persona offesa si scontra apertamente con quella di A.M., figlia dell'imputato, escussa all'udienza del 30.11.2023. Pur nella consapevolezza della parzialità della teste, interessata a difendere il padre dalle accuse e non legata da rapporti particolarmente amichevoli al Ca., deve costatarsi la maggiore logicità della sua deposizione, a cominciare dal motivo dei dissapori tra le parti. A.M. ha infatti raccontato che il padre accudiva una colonia di felini in prossimità dell'istituto scolastico gestito dal Ca., che mal sopportava la presenza di questi gatti. Per questo, già in passato vi erano state delle discussioni, tracimate nella lite del 19.10.2017, quando il querelante giusto sul posto a bordo della sua vettura, ad alta velocità, aveva frenato bruscamente, per poi scendere dall'auto e minacciare l'imputato di uccidere i gatti se non se ne fosse andato (cfr. verbale stenotipico del 30.11.2023: TESTE M. A. - Colonie feline, sì, dei gatti, sì. E in quella zona, proprio dal 2013... ancora oggi sì reca in quella zona, mio padre va a dar da mangiare a questi gattini. Spesso lo accompagno, lo accompagnavo già all'epoca e lo accompagno anche adesso perché ha dei problemi di salute, quindi, proprio quella sera, io mi trovavo... ero presente... AVVOCATO DIF. IANNONE - Dov'erano? Dov'era la zona e che ore erano? TESTE M. A. - Allora, la zona era Via V. Alfano 49. AVVOCATO DIF. IANNONE-Dove? TESTE M. A.-Mercato San Severino. AVVOCATO DIF. IANNONE - Sì, ma dove? TESTE M. A. - Nel cortile del... diciamo, quelli ci sono una serie di palazzi tutti collegati tra di loro, c'era un cortile retrostante il palazzo e, all'interno di questo cortile c'è la sede anche ella scuola, della F. Srl, quella dove... lui era il legale rappresentante all'epoca, non so attualmente quali sono i rapporti. Ci trovavamo lì in quella sera e, all'improvviso, vediamo arrivare, sfrecciare questa Mercedes classe A del, non so se erra di proprietà, comunque era condotta dal signor G.C.. Arrivato ad alta velocità, poi ha frenato di botto proprio dove ci trovavamo noi, è sceso dalla macchina e ha cominciato a imprecare contro mio padre. Diciamo che già era successo antecedentemente, poi, in quell'occasione, ha tenuto a dire: "Ma quando la finisci a te e sti gatti? Una volta di queste te li ammazzo, ti butto fuori" e mio padre ha detto: "Ma che vuoi? Sti poveri gattini...", allora lui ha cominciato ad alterarsi, anche perché ho visto che barcollava, emanava anche un odore di alcol perché purtroppo lui era, all'epoca, non sono attualmente adesso, però faceva uso di stupefacenti, di alcol, e quindi non era stabile, era agitato: "Ma che vuoi? Che cosa non vuoi?", comunque l'ha spinto, l'ha strattonato, si è avvicinato a mio padre e mio padre ha tentato di difendersi e l'ha respinto verso l'autovettura del signor C.. Pure io ho detto: "Rino, ma la vuoi smettere", perché purtroppo io lo conosco, quindi non potevo fare a meno di intromettermi e, poi lui si è calmato e... cioè si è calmato, se n'è... si è messo in macchina e se n'è andato senza proferire parola). Secondo la versione dell'A., era stato il Ca., visibilmente ubriaco, ad aggredire per primo il padre, minacciandolo e strattonandolo per le spalle; l'imputato si era solo difeso, spingendo via la vittima, che era andata a sbattere contro la sua vettura. Ad ogni modo, la teste ha escluso categoricamente che il padre avesse con sé un bastone (P.M - Lei dice che l'aggressione è partita da C.. TESTE M. A. - Sì. P.M. - Ma suo padre ha reagito? Cioè è rimasto inerte? TESTE M. A. - No, assolutamente, si è difeso e ha spinto il Ca. verso... P.M. - Aveva anche una mazza di scopa, un tipo bastone con sé? TESTE M. A.-No. P.M. -No? È sicura di questo? TESTE M. A.-No, mi ricordo perfettamente, certo. P.M. - Suo padre si è difeso, quindi ha aggredito il signor Ca.Ge.? TESTE M. A. - Aggredito no, semplicemente ha respinto le... ... TESTE M. A. - Le ripeto, quella era una colluttazione, il signor Ca. ha strattonato con le spalle, così, agitando e, poi, mio padre si è difeso e l'ha spinto andando verso... e lui è andato a finire sulla sua macchina, perché la macchina era proprio a ridosso, lui si è fermato proprio lì dove stavamo con i gattini che davano da mangiare nelle ciotole.). 3. Sottoponendo la testimonianza dell'A.M. ad analogo giudizio critico non può escludersi la tendenza a dirottare il racconto in senso favorevole al padre, anche con alcune enfatizzazioni, come quella del tentativo di investimento a scopo di intimidazione da parte del Ca., e supposizioni, come l'indisposizione del querelante per la sua presenza sulla scena del delitto. Ciò che rileva, tuttavia, è l'introduzione di una versione alternativa a quella della persona offesa che ne indebolisce ulteriormente l'attendibilità, già pesantemente viziata intrinsecamente per le ragioni esposte in precedenza. Solo una deposizione della vittima solida, precisa e coerente avrebbe permesso di smentire l'opposta ricostruzione degli accadimenti illustrata dalla teste della Difesa che, nel confronto dialettico, sconta minori vizi di illogicità. Lo stesso Ca., nel corso della sua testimonianza, ha ammesso la presenza dei gatti sul posto, glissandone l'importanza nell'assetto conflittuale con l'imputato, e questo porta a credere che il motivo della lite fosse proprio connesso alla colonia di felini che l'A. accudiva e che la vittima non sopportava. Probabilmente, arrivando sul posto, il Ca. si è innervosito più del solito per la presenza dei gatti e, dal rimprovero all'A. è nata la lite alla base delle imputazioni. La dinamica aggressiva resta ad ogni modo controversa, scontrandosi opposte versioni che non consentono di dare maggiore credibilità all'una piuttosto che all'altra. Questo anche perché la debolezza dimostrativa della deposizione della persona offesa non è colmata da prove oggettive di sicura affidabilità: i referti ospedalieri della sera del 19.10.2017 attestano le lesioni che la vittima si sarebbe procurata durante lo scontro, ma nulla dicono rispetto alla loro eziologia. Le fotografie riproducenti i danni all'autovettura del Ca. sono prive di data, e nulla esclude che possano essere state scattate per un evento intervenuto successivamente, visto che tra la data degli avvenimenti e la querela, cui sono state allegate le foto, sono intercorsi tre mesi. La tesi che siano state scattate nell'immediatezza dei fatti contrasta con l'affermazione della vittima di aver voluto inizialmente lasciar correre la questione, non spiegandosi altrimenti la precostituzione di una prova fotografica; la tesi che siano state scattate in concomitanza alla querela stride con l'id quod plerumque accidit, apparendo anomalo che il Ca. abbia potuto circolare per tre mesi con il finestrino dell'autovettura rotto. Nell'uno o nell'altro senso le prove documentali non consentono di superare le perplessità suscitate dai contributi offerti dalla persona offesa, la cui attendibilità, già di per sé dubbia sotto il profilo intrinsecò, risulta ancor di più debilitata dalle propalazioni del teste della Difesa. Da qui la presa d'atto di un quadro istruttorio fortemente contraddittorio e precario, inidoneo a fondare una condanna dell'odierno imputato, con il rigore richiesto per superare la regola valutativa di cui all'art. 530 comma 2 c.p.p.. Deve piuttosto giungersi ad una pronuncia assolutoria per contraddittorietà e insufficienza della prova che i fatti di reato a lui ascritti sussistono. Visto l'esito del giudizio, nulla è dovuto sulle domande azionate dalla Parte Civile. Si revoca infine il decreto penale di condanna già emesso dal G.i.p. in sede nei confronti dell'imputato. P.Q.M. Letto l'art. 530 c.p.p., ASSOLVE An.Vi. dai reati a lui ascritti perché i fatti non sussistono. Revoca il decreto penale di condanna già emesso dal G.i.p. in sede nei confronti dell'imputato. Motivi contestuali. Così deciso in Nocera Inferiore il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE Sezione Penale Il Tribunale di Nocera Inferiore - Sezione Penale - in composizione monocratica e nella persona del Giudice dott. Vincenzo D'ARCO, alla pubblica udienza del 3 APRILE 2024 con l'intervento del Pubblico Ministero dott.ssa Antonietta Canale (V.P.O) e con l'assistenza del Cancelliere dott.ssa A.C., ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente SENTENZA Nei confronti di: 1. Vi.Vi., nato a C. de' T. (S.) il (...), res.te in M. S. S. (S.) in via B. n. 2 - fraz. C. LIBERO PRESENTE; 2. La.Do., nato a C. de' T. (S.) il (...), ivi res.te in via S. n. 15 LIBERO PRESENTE; Entrambi difesi di fiducia dall'avv. Fr.Di., presente. IMPUTATI dei delitti p. e p. dagli arti 110, 612 comma 1, 582 - 585 comma 2 n. 2 c.p. perché, in concorso tra loro, dapprima minacciavano di sparare Va.Ba., di dare fuoco all'auto del predetto e di bucarne le ruote, e successivamente lo aggredivano con l'uso di una mazza di ferro, così cagionandogli lesioni personali consistite in "trauma contusivo rachide cervicale, emitorace mano sx e dx", giudicate guaribili in giorni 10. Con l'aggravante di aver commesso il fatto con l'utilizzo di uno strumento atto ad offendere. In Cava de' Tirreni (SA), il 26.11.2019. Con la costituzione di parte civile di Va.Ba., nato a N. S. (S.) il (...), assistito dall'avv. Be.Ru., presente, munita di procura speciale. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di citazione diretta emesso in data 3.6.2020, Vi.Vi. e La.Do. venivano tratti a giudizio innanzi a questo Tribunale, in composizione monocratica, per rispondere dei reati a loro ascritti in rubrica, meglio specificati in fatto nella sopra trascritta imputazione. All'udienza del 27.1.2021, a causa di un difetto di notifica nei confronti degli imputati si disponeva rinvio fino all'udienza del 15.6.2022. All'udienza del 15.6.2022, dopo aver dichiarato nel contraddittorio delle parti l'assenza di entrambi gli imputati, si prendeva atto della costituzione di parte civile di Va.Ba., assistito dall'avv. Be.Ru., munita di procura speciale; quindi, a causa dell'assenza del teste di lista del Pubblico Ministero il processo veniva differito fino all'udienza del 7.6.2023. All'udienza del 7.6.2023, in mancanza di questioni preliminari veniva dichiarata l'apertura del dibattimento e venivano ammesse le prove orali e documentali così come richieste dalle parti in quanto ammissibili, rilevanti e pertinenti rispetto all'imputazione; si procedeva all'esame della persona offesa; all'esito, il processo veniva rinviato per il prosieguo dell'attività istruttoria all'udienza del 29.11.2023. All'udienza del 29.11.2023, la difesa rinunciava all'esame dei propri testi di lista, le altre parti nulla osservavano, il Giudice ne revocava l'ordinanza ammissiva, rinviando il processo ai fini della discussione all'udienza del 3.4.2024. All'udienza del 3.4.2024, gli imputati si sottoponevano ad esame; quindi, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale e indicati gli atti utilizzabili ai fini della decisione ex art. 511 comma 1 c.p.p., le parti concludevano come in epigrafe; al termine della conseguente camera di consiglio si dava lettura del dispositivo della presente sentenza, riservando il deposito dei motivi della decisione entro il termine ordinario. MOTIVI DELLA DECISIONE Ritiene questo Giudice che gli esiti dell'istruttoria dibattimentale conducano ad affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità di Vi.Vi. e La.Do. in ordine ad entrambi i reati a loro ascritti in rubrica. Dalle risultanze dibattimentali, in particolare dall'esame dei soggetti escussi nonché dall'analisi della documentazione sanitaria in atti, emerge la seguente ricostruzione della vicenda in esame. In data 26.11.2019, alle ore 8.45 circa, mentre si apprestava ad uscire di casa per svolgere alcune commissioni, Va.Ba. si imbatteva in Vi.Vi., proprietario di un terreno adiacente; la persona offesa, assumendo che l'imputato avesse posizionato la sera precedente alcune pietre lungo la strada, occultandole con dei rami di ulivo, chiedeva ragione di tale contegno: il Vi., evidentemente contrariato, invitava suo cognato La.Do., pure presente sui luoghi, a fornirgli una mazza di ferro appoggiata al muro del casale, utilizzando la quale attingeva più volte il Vi. al collo, ai fianchi e alle mani; nel contempo, sia il Vi. che il L. minacciavano di morte la persona offesa che, a fatica, riusciva a sfuggire all'aggressione riparando presso la sua abitazione, decidendo di allertare i Carabinieri, e quindi di recarsi presso il pronto soccorso dell'ospedale di Cava de' Tirreni, ove gli venivano diagnosticate le lesioni di cui all'imputazione. Così brevemente sunteggiati gli estremi fattuali della vicenda, dall'istruttoria dibattimentale è emerso come la fattispecie per cui è processo si inserisca nel contesto di una più generale situazione di litigiosità tra vicini di casa. La persona offesa Va.Ba. - della cui credibilità non è dato in alcun modo dubitare, avendo esposto in maniera coerente e precisa i fatti per cui è causa - nel corso dell'udienza del 7.6.2023 ha riferito dettagliatamente le circostanze di cui all'imputazione, evidenziando la repentinità dell'aggressione posta in essere da Vi.Vi. e precisando il ruolo assunto da La.Do. nella vicenda, illustrando le frasi minatorie rivolte al suo indirizzo da entrambi gli imputati. Tanto premesso in punto di fatto, secondo il noto insegnamento della Suprema Corte (che questo Giudice ritiene di condividere) la testimonianza della persona offesa - anche se costituita parte civile - ben può porsi a fondamento della pronuncia di colpevolezza se dotata dei requisiti, sussistenti nel caso di specie, di linearità, coerenza e puntualità. Le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, invero, da sottoporre ad un'indagine accurata circa i profili di attendibilità oggettivi e soggettivi, ben possono assurgere a fonte di prova sufficiente ad affermare la colpevolezza dell'imputato, non applicandosi in automatico il criterio di valutazione di cui all'art. 192 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. Sez. 4, sentenza n. 16860 del 13.11.2003, Rv. 227901). Va inoltre rammentato che, ancora secondo l'insegnamento della Suprema Corte, il Giudice, pur essendo tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio convincimento l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. In assenza di siffatti elementi, quindi, il Giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve, perciò, limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità tra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza (cfr. Cass. Pen. sez. 4, sentenza del 10.10.2006, n. 35984). Facendo applicazione del condivisibile insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui le dichiarazioni rese dalla persona offesa di un reato che sia anche imputata di altro reato commesso in danno dell'offensore (circostanza emerse nel corso del dibattimento, cfr. verbale di querela del 28.11.2019 e comunicazione notizia di reato del 29.1.2020 in atti), da considerare quindi collegato ai sensi dell'art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., vanno valutate secondo la regola dettata dall'alt 192 comma 3 c.p.p., ovvero adeguatamente corroborando tali dichiarazioni con idonei elementi di riscontro, occorre evidenziare che le dichiarazioni rese dal Vi. non fungono da unica prova dei fatti contestati, avendo trovato adeguato riscontro - sotto il profilo delle conseguenze fisiche patite dallo stesso - nelle risultanze delle certificazioni mediche acquisite agli atti del dibattimento, dalle quali si evince come egli abbia riportato delle lesioni compatibili (per estensione, intensità e collocazione) con le modalità della riferita aggressione. Le circostanze narrate dalla persona offesa non risultano affatto scalfite, ad avviso dello scrivente, dalla versione alternativa della vicenda veicolata in dibattimento dagli imputati nel corso dell'udienza del 3.4.2024: le dichiarazioni rese da costoro, di marca squisitamente minimizzante e difensiva, appiano - pur volendo prescindere dall'evidente interesse di cui sono portatori all'interno del presente procedimento - evidentemente inattendibili, essendosi gli imputati limitati a negare ogni addebito, non riuscendo ad offrire alcuna valida spiegazione alternativa in merito alle risultanze della certificazione medica acquisita agli atti del dibattimento. Appaiono dunque anzitutto integrati gli estremi del reato di lesioni contestato in rubrica, sussistendone tutti gli elementi costitutivi: in particolare, sul piano oggettivo, vi è prova della causazione, da parte degli agenti, in concorso tra loro (Vi.Vi. colpendo materialmente la persona offesa, La.Do. offrendogli supporto morale e materiale, avendo fornito allo stesso la mazza in ferro con la quale veniva perpetrata l'aggressione), di un'alterazione patologica dell'organismo di Va.Ba. e, sul piano soggettivo, della coscienza e volontà di colpire con violenza fisica. Può ravvisarsi la contestata aggravante di cui all'art. 585 comma 2 n. 2 c.p., essendo stata raggiunta la prova dell'utilizzo di un'arma impropria da parte degli imputati, costituita dalla mazza in ferro che La.Do. forniva a Vi.Vi.; sono infatti da ritenere armi, sia pure improprie, ex art. 4 L. n. 110 del 1975, gli strumenti - ancorché non da punta o da taglio - che, in particolari circostanze di tempo e di luogo, possono essere usati per l'offesa alla persona: ne consegue che anche un bastone, se usato in un contesto aggressivo, diventa uno strumento atto ad offendere e costituisce, pertanto, arma ai fini dell'applicazione dell'aggravante prevista dall'art. 585 comma 2 c.p. (cfr. Cass. Pen Sez. 5, sentenza n. 11872 del 5.10.2000, Rv. 218572; Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 8640 del 20.1.2016). Dalle risultanze dibattimentali sopra illustrate non vi è poi dubbio circa il riconoscimento in capo ad entrambi gli imputati della sussistenza del reato di minaccia, avendo la persona offesa attribuito sia al Vi. che al L. la paternità delle frasi minatorie rivolte al suo indirizzo, dovendosi evidenziare che la frase ("ti sparo!") che gli imputati hanno volontariamente e consapevolmente rivolto all'indirizzo della persona offesa ha avuto una valenza sicuramente intimidatoria, idonea a limitare la sua libertà di autodeterminazione mediante la prospettazione di un male futuro ed ingiusto; né, per costante giurisprudenza della Suprema Corte, assume rilievo la circostanza che il risultato intimidatorio si sia o meno realmente concretizzato a carico della vittima, giacché il delitto di minaccia è reato formale di pericolo e, come tale, postula solo la potenzialità del fatto ad incutere timore e ad incidere sulla sfera della libertà psichica del soggetto passivo. Appaiono quindi integrati gli estremi del reato di minaccia in contestazione, sussistendone tutti gli elementi costitutivi, tanto sul piano oggettivo, quanto su quello soggettivo (dolo generico, consistente nella cosciente volontà di minacciare un male ingiusto). La predetta minaccia, invero, ha cagionato un notevole turbamento psichico nel soggetto passivo, tenuto conto di tutte le peculiarità oggettive e soggettive che hanno accompagnato i fatti, ivi inclusa la circostanza per cui la prospettazione orale sia stata accompagnata da un'azione materiale violenta rivolta contro il Vi.. Il tenore delle espressioni verbali proferite e il contesto della pronuncia costituiscono, infatti, i criteri che insieme debbono orientare il Giudice nel suo prudente apprezzamento: nel caso che ci occupa, la peculiarità della complessiva vicenda fattuale induce senz'altro a ritenere che la condotta posta in essere dagli imputati abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa. Trascorrendo quindi al trattamento sanzionatorio, le violazioni commesse dagli imputati costituiscono chiara espressione, per prossimità temporale e per il fine complessivamente perseguito, di un unitario disegno criminoso: vanno dunque unificate ex art. 81 cpv. del codice penale. Possono riconoscersi ad entrambi gli imputati - sia in considerazione del loro status di incensurati (elemento che induce a ricondurre le condotte di cui all'imputazione nell'alveo dell'occasionalità), sia allo scopo di adeguare il trattamento sanzionatorio alle peculiarità del caso concreto - le circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., in regime di equivalenza con la contestata e ritenuta aggravante. Valutati gli indici di cui all'art. 133 c.p., si stima dunque equa la pena finale di mesi 8 di reclusione per ciascuno degli imputati, così calcolata: - pena base (calcolata in relazione al più grave reato di cui all'art. 582 c.p., previa elisione del rilievo della ritenuta aggravante ex art. 585 c.p., all'esito del giudizio di equivalenza con le circostanze attenuanti generiche): mesi 7 di reclusione; - aumentata ex art. 81 cpv. c.p. a mesi 8 di reclusione (mesi 1 di reclusione in relazione al reato di cui all'art. 612 c.p.). Alla dichiarazione di responsabilità degli imputati segue poi, per legge, la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali, ciascuno per la parte cui ha dato causa. Sussistono i presupposti di legge per la concessione ad entrambi gli imputati del beneficio della sospensione condizionale della, anche alla luce dell'effetto deterrente spiegato dalla presente pronuncia, elemento che autorizza la prognosi circa la capacità dei medesimi di astenersi dalla commissione di ulteriori reati. Ai sensi degli artt. 538 ss. c.p.p., Vi.Vi. e La.Do. vengono inoltre condannati al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separata sede (non essendo possibile allo stato quantificare con esattezza il danno subito, ragion per cui non appare opportuno, allo stesso modo, concedere la chiesta provvisionale), nonché alla refusione, in favore dell'Erario (la parte civile risulta invero ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato) delle spese di costituzione e rappresentanza, liquidate in base al seguente computo analitico, parametrato secondo importi che risultano congruenti con l'attività defensionale concretamente esplicata e con lo spessore giuridico delle questioni affrontate, in relazione ai criteri dettati dal D.M. n. 55 del 2014: Fase di studio della controversia Euro 300,00 Fase introduttiva del giudizio Euro 180,00 Fase istruttoria e/o dibattimentale Euro 360,00 Fase decisionale Euro 667,00 Totale Euro1.507,00 Spetta comunque il rimborso spese forfettarie nella misura del 15% sull'importo dei compensi professionali, oltre IVA e CPA sull'imponibile, come per legge. P.Q.M. Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara Vi.Vi. e La.Do. colpevoli dei reati a loro ascritti in rubrica e per l'effetto, riconosciute ai medesimi le circostanze attenuanti generiche, in regime di equivalenza con la contestata e ritenuta aggravante, operato l'aumento per la continuazione, li condanna alla pena di mesi 8 (otto) di reclusione ciascuno, oltre che al pagamento delle spese processuali, ciascuno per la parte cui ha dato causa. Letti gli artt. 163 e ss. c.p., sospende la pena inflitta a Vi.Vi. e La.Do. a termini e condizioni di legge. Letti gli artt. 538 ss. c.p.p., condanna Vi.Vi. e La.Do. al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita Va.Ba., da liquidarsi in separata sede. Rigetta la richiesta di provvisionale. Condanna Vi.Vi. e La.Do. alla refusione, in favore dell'Erario, delle spese di costituzione e rappresentanza, che liquida in complessivi Euro 1.507,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% sull'importo dei compensi professionali, oltre IVA e CPA sull'imponibile, come per legge. Così deciso in Nocera Inferiore il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2024.

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